domenica 29 giugno 2014

l’Unità 29.6.14
Ai lettori


Vogliamo riaffermarlo con orgoglio. Se il valore della testata l’Unitànon si è depauperato nel corso di questi mesi è solo grazie al nostro impegno, alla nostra professionalità, al nostro attaccamento a un giornale che per tutti noi, giornalisti e poligrafici, rappresenta molto di più di un posto di lavoro. Ci sentiamo parte di una comunità, un sentimento condivisocon i nostri lettori che non hanno fatto mai mancare il sostegno alla nostra lotta in difesa del giornale fondato novant'anni fa da Antonio Gramsci. Questo stesso orgoglio, questo forte senso di responsabilità, lo chiediamo, lo esigiamo da coloro da cui dipende se l’Unitàsarà ancora in vita. Giovedì prossimo le rappresentanze sindacali incontreranno i liquidatori della società editrice. Non sarà, non potrà essere un incontro di facciata. Da mesii giornalisti lavorano senza stipendio e chiedono certezze sull'occupazione. La situazione non è più tollerabile, risposte evasive o ennesimi rinvii vedranno l'immediata risposta dei lavoratori. Per questo, e fino all'incontro del 3luglio,proseguiràlo sciopero delle firme. E se l’incontro sarà deludente, l'astensione dal lavoro diverrà inevitabile. Ne va del nostro presente. E del futuro del nostro e del vostro giornale.
IL CDR

il Fatto 29.6.14
La presunta onestà di Matteo Renzi
di Tiziana Gubbiotti


Sono rimasta colpita da una frase di Furio Colombo, “Matteo Renzi è onesto”. Sul vocabolario il significato è il seguente: “onesto: chi si attiene a principi di integrità morale, di giustizia”. Renzi ha una condanna per danno erariale in primo grado e il suo governo sta cercando di introdurre una norma per evitargli la sentenza di appello. Ci sarebbero anche i contributi pensionistici “furbi”, nonché la casa fornita a Renzi dall’amico Marco Carrai. Senza contare lo stretto accordo segreto stipulato con un condannato in via definitiva che, grazie a Renzi, sta per assurgere al ruolo di Padre costituente. Spero che la frase di Colombo sia ironica come la shakespeariana “e Bruto è un uomo d’onore”, perché capisco che nell’Italia dei grandi scandali, della corruzione diffusa, dell’insaputismo dilagante e dell’impunità riservata ai potenti (che lo stesso Renzi vuole potenziare) queste “piccolezze” sembrino trascurabili, ma vorrei ricordare che altrove, in quell’Europa alle cui direttive tutti sembrano voler aderire quando fa comodo, ci si dimette per molto meno. Da noi no. E addirittura si passa per essere moralmente integri, giusti e retti.

l’Unità 29.6.14
«Bonus giovani»: creati 22mila posti invece di 100mila


Stime troppo ottimistiche o proprio sbagliate? Impossibile saperlo, ma un dato è sotto gli occhi di tutti: il bonus giovani varato dal governo Letta non funziona. Il provvedimento che incentiva le assunzioni di giovani tra i 18 e i 29 anni puntava a creare 100mila posti di lavoro tra il 2013 e il 2015, con lo stanziamento nel periodo di 794 milioni. L’asticella per ora è ferma a 22mila domande, meno di un quarto di quanto previsto. Questo almeno stando agli ultimi dati Inps.
Al 23 giugno, si legge negli ultimi documenti elaborati dall'Inps, il numero totale delle domande di prenotazione arrivate per l'assunzione di giovani disoccupati erano 28.606, ma tra queste 5.499 sono scadute (andavano confermate entro la settimana successiva alla prenotazione). Le domande confermate sono 22.124.
Il beneficio per ogni lavoratore assunto con il bonus è di un terzo della retribuzione lorda fino a un tetto di 650 euro al mese per un massimo di 18 mesi (12 mesi nel caso di trasformazione di un contratto a termine in un rapporto a tempo indeterminato). Quindi se si calcolano circa 8.000 euro in un anno per ogni assunto (il bonus varato nel decreto legge approvato esattamente un anno fa vale per le assunzioni fatte a partire dal 7 agosto 2013 mentre il click day è partito il 1 ottobre) al momento sono stati spesi meno di 160 milioni di euro (circa 7.150 euro per 11 mesi per 22.000 assunti considerandoli tutti assunti dall'inizio e tutti con il beneficio massimo cosa che naturalmente non è). Non basta quindi il taglio totale dei contributi per 18 mesi per convincere le aziende ad aumentare il personale (il bonus prevedeva che l'assunzione dovesse incrementare l'organico rispetto all'anno precedente e non essere utilizzata per il turn over). Negli ultimi mesi la «diffidenza» delle imprese è anche aumentata. Se infatti a metà ottobre 2013 le domande arrivate erano 11.000 e a metà dicembre 18.000 il numero delle richieste ha rallentato fortemente nei mesi successivi. Tra le domande di assunzione confermate prevalgono quelle degli uomini (13.827) rispetto a quelle delle donne (8.297).
Per il 2013 erano a disposizione 148 milioni che avrebbero dovuto consentire l'assunzione di circa 20.000 giovani, 248 milioni erano stanziati per il 2014 mentre nel complesso sono stati stanziati 794 milioni con l'obiettivo di assumere 100.000 giovani entro il 30 giugno 2015 (i fondi si spalmano fino a fine 2016 perché il bonus dura al massimo 18 mesi). L'incentivo viene assegnato solo per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani tra i 18 e i 29 anni purché ci sia un aumento occupazionale rispetto all'anno precedente.

il Fatto 29.6.14
Giovani senza lavoro
Il flop del bonus per le assunzioni


La crisi morde e così si è rivelato un sostanziale flop il bonus per le assunzioni dei giovani tra i 18 e i 29 anni messo in campo l’anno scorso dal governo Letta per creare, tra il 2013 e il 2015, circa 100.000 nuovi posti, con uno stanziamento di 794 milioni. Secondo i dati Inps a fine giugno le domande confermate erano poco più di 22.000. Al 23 giugno, scrive l’Inps, il numero totale delle domande di prenotazione arrivate per l’assunzione di giovani disoccupati erano 28.606, ma tra queste 5.499 sono scadute, mentre quelle confermate sono 22.124. Il beneficio per ogni lavoratore assunto con il bonus è di un terzo della retribuzione lorda fino a un tetto di 650 euro al mese per un massimo di 18 mesi (12 mesi nel caso di trasformazione di un contratto a termine in tempo indeterminato). Quindi se si calcolano circa 8.000 euro in un anno per ogni assunto al momento sono stati spesi meno di 160 milioni di euro. Non basta quindi il taglio totale dei contributi per 18 mesi per convincere le aziende ad aumentare il personale.

la ministra di Renzi per lo sviluppo economico, fiduciaria di Confindustria e Berlusconi
Repubblica 29.6.14
Guidi: “L’articolo 18? Lo Statuto dei lavoratori ormai è superato E aiuteremo l’export”
intervista di Roberto Mania


ROMA. Un piano per sostenere il Made in Italy, per internazionalizzare le piccole imprese e creare un sistema per la distribuzione nel mondo dei nostri prodotti. È questo un pezzo delle riforme per la crescita che ci permetteranno una maggiore flessibilità nell’applicazione dei trattati europei. Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico, ne parla in questa intervista in cui, seppur a titolo personale, dice anche: «Definire lo Statuto dei lavoratori come un documento datato mi pare un eufemismo. Il mondo cambia e non si commette peccato mortale se si sottopone a una manutenzione una legge del 1970».
Partiamo dall’Europa, ministro. L’accordo tra i capi di governo è che ci possa essere una maggiore flessibilità nell’applicazione dei vincoli del Patto di stabilità a fronte di riforme a sostegno della crescita economica. Lei è proprio il ministro dello Sviluppo. Dal suo dicastero dovrebbero uscire molte delle misure destinate a sostenere la ripresa. Quali?
«Da quando è in carica questo governo, cioè da quattro mesi, tutti gli interventi sono stati adottati in direzione delle riforme. Ab- biamo abbassato il livello di tassazione sul lavoro e sulle imprese, abbiamo definito un pacchetto di provvedimenti per dare slancio agli investimenti e rafforzare la patrimonializzazione delle imprese. C’è stato il decreto Poletti sui contratti a termine e ora è in discussione in Parlamento il Jobs Act. C’è stata la riforma della pubblica amministrazione. Ora stiamo lavorando, io e il viceministro Carlo Calenda, a un piano per il Made in Italy».
Un piano con quali contenuti?
«Il piano sarà definito nelle prossime settimane. L’obiettivo è quello di supportare l’internazionalizzazione delle nostre imprese facendo leva anche su una diversa organizzazione della distribuzione dei nostri prodotti all’estero e sul sistema fieristico. È una cosa che da noi non è mai stata fatta. E guardi che, anche con il mio stupore, quando vado all’estero continuo a constatare che c’è un grande interesse degli investitori verso l’Italia. Ciò che chiedono innanzitutto è meno burocrazia, più semplificazioni anche nell’avvio delle società. Sono riforme sostanzialmente a costo zero».
Lei annuncia un piano per il Made in Italy e vedremo come sarà nel dettaglio. Resta il fatto che spesso, molto spesso, i provvedimenti si annunciano e poi rimangono sulla carta perché ritardano i decreti attuativi. Il suo dicastero deve ancora approvare i decreti per misure adottate dai governi Monti e Letta. Quando preparerete leggi immediatamente applicabili?
«Guardi, le leggi autoapplicative sono uno degli obiettivi di questo governo. Certo non si può smantellare in quattro mesi un sistema che è costruito sui provvedimenti scritti, come si dice, “di concerto” tra ministri. Ci vuole tempo. Detto questo il mio ministero ha adottato tutti i decreti necessari per attuare le leggi dei precedenti governi. Non è ancora pienamente applicativa la norma sul credito di imposta sulla ricerca e l’innovazione perché manca la firma del ministro dell’Economia. Ma è questione di poco tempo».
Ma perché anziché incentivare sempre qualcosa non prende il “piano Giavazzi” che prevedeva un taglio di 10 miliardi l’anno di incentivi alle imprese in cambio di una riduzione dell’Irap? Non crede che anche le aziende ne sarebbero avvantaggiate?
«Non conosco nei dettagli il piano del professor Giavazzi, penso però che l’impatto sui conti pubblici di un’operazione di questo tipo non sia proprio neutro».
Con la politica degli incentivi qualche volta sbagliate anche obiettivo. La Cgia di Mestre sostiene che la tanto sbandierata riduzione del 10 per cento del costo dell’energia a favore delle imprese, in realtà lascia fuori l’85 per cento delle imprese, quelle di dimensioni più piccole, perché non raggiungono la soglia minima di 16,5 chilowatt di consumo. Un auto- gol?
«Noi abbiamo numeri diversi, altrimenti non avremmo adottato quel provvedimento. Non so come e sulla base di quali dati la Cgia di Mestre arrivi a quelle conclusioni. Noi siamo certi che il beneficio andrà a larghissima parte delle piccole e medie imprese e degli esercizi commerciali».
Anche Trenitalia e Ntv protestano: dicono che, con il taglio di alcuni incentivi, dovranno ridurre il servizio.
«Senta la norma che garantiva un trattamento di favore alle ferrovie risale al 1963, io sono nata nel 1969. Credo che da allora ad oggi molte cose siano cambiate».
La contestano anche i produttori di energie rinnovabili.
«Veramente protesta il 4 per cento delle imprese del fotovoltaico. Sono ottomila imprese su 200 mila del settore che però riceve il 60 per cento di tutti gli incentivi. Chi protesta difende posizioni di rendita. È un sacrificio modesto quello che abbiamo chiesto loro ».
Ma perché ha reintrodotto l’anatocismo, cioè il pagamento degli interessi sugli interessi, con il decreto sulla competitività?
«La genesi di quella parte del decreto sta al ministero dell’Economia. Comunque il Parlamento può migliorarla o modificarla».
Da leader dei Giovani industriali di Confindustria lei prese posizioni sempre molto nette contro l’articolo 18. Una parte della maggioranza, penso ai senatori Ichino e Sacconi, ora vuole cambiarlo. Qual è la sua posizione ora?
«Ero molto giovane e facevo anche un mestiere molto diverso. Penso che oggi sia una tragedia la disoccupazione giovanile al 46 per cento. Questa è la coda velenosa di una lunghissima crisi».
D’accordo, cosa pensa del superamento dello Statuto dei lavoratori?
«Non è la mia materia, dunque parlo a titolo personale. Penso che definire lo Statuto un documento datato sia un eufemismo. Non si commette peccato mortale se si pensa a un intervento di manutenzione. Il mondo evolve. C’è bisogno di maggiore flessibilità in uscita e in entrata nel mondo del lavoro, ovviamente con tutte le necessarie garanzie. In ogni caso non ritengo che oggi l’articolo 18 sia una questione strategica per le imprese come forse lo è stata dieci anni fa».

il Fatto 29.6.14
Il sindacalista Maurizio Landini (Fiom)
“Basta spot! Matteo, lascia stare Marchionne”
di Salvatore Cannavò


Se Renzi vuol cambiare verso, lo cambi davvero, altrimenti non va da nessuna parte. La fase degli spot è finita”. Maurizio Landini, segretario Fiom che con il premier ha costituito un rapporto diretto tale da infastidire la segreteria Cgil, invita il presidente del Consiglio a prendere le distanze da Sergio Marchionne con cui domani parteciperà al convegno degli Industriali di Torino alla Maserati di Grugliasco.
C’è il rischio che il convegno di domani sia uno
spot alla Fiat?
La fase degli spot è finita. In Italia la disoccupazione cresce, la maggioranza dei lavoratori Fiat è in cassa integrazione, si continuano a fare accordi separati, come pochi giorni fa a Melfi.
Cosa dovrebbe dire il premier?
Il governo non può più stare a guardare. Non si può subire un progressivo disimpegno della Fiat o avallare la cancellazione del sindacato dai luoghi di lavoro. È singolare che Marchionne trovi il tempo di volare in Italia per fare fronte a un’ora di sciopero e non trovi mai il tempo per confrontarsi sugli investimenti che servono.
Perché Marchionne è volato di corsa da Detroit a Grugliasco?
Negli Stati Uniti gli analisti finanziari non sono entusiasti del suo piano e stanno attenti a tutto quello che si muove. Poi, la Fiat si era fatta l'idea che esistessero solo sindacati che firmano gli accordi. La sentenza della Corte costituzionale ha messo in discussione il modello. Non se lo aspettava.
Voi cosa proponete?
Credo che ci sia un bilancio da fare. Sono passati quattro anni e c’è tanta cassa integrazione e i salari dei lavoratori Fiat sono più bassi degli altri metalmeccanici. Occorre chiedersi che industria vuole questo paese. Se la Germania è un paese forte è perché ha la più forte industria.
Crede che Renzi abbia da imparare?
Penso proprio di sì. Il governo francese ha imposto alla General Electric di creare mille posti di lavoro. In Italia, alla Ducati Motor, di proprietà della tedesca Audi, discutiamo di maggior utilizzo degli impianti e di riduzione degli orari.
Non le sembra che anche Renzi sia stato subordinato alla Fiat?
I governi precedenti, da Berlusconi a Monti a Letta, hanno apertamente sostenuto Marchionne. Ora c’è una possibilità di un cambiamento.
Eppure il governo parla ancora di articolo 18.
Mi sembrano pure sciocchezze. In un paese con un’evasione fiscale che non ha eguali e con investimenti in ricerca tra i più bassi d’Europa bisognerebbe parlare d’altro.
Sembra di capire che il credito a Renzi non è esaurito.
Non si tratta di fare credito. Abbiamo giudicato positivamente gli 80 euro e negativamente il decreto lavoro. Renzi dice che vuole cambiare? Bene, lo faccia. Gli esodati, ad esempio, non sono un errore ma il prodotto di un taglio secco del sistema pensionistico.
Vi incontrerete pubblicamente con il premier?
Entro il mese di luglio organizzeremo un convegno che metta attorno a un tavolo diversi soggetti per discutere di evasione, legge sugli appalti, corruzione.
Verrà anche Renzi?
Se c’è una disponibilità abbiamo intenzione di fare un confronto anche con il governo. Noi non mandiamo email. A Renzi, al governo, portiamo i lavoratori in carne e ossa.
Cosa pensa delle mosse del governo sull'Ilva?
Il problema è avere un profilo industriale, mettere a norma l’azienda, applicare il piano ambientale. Per farlo c’è bisogno di un nuovo assetto proprietario: i Riva devono pagare e andarsene. Ma nella fase transitoria, il governo deve intervenire, tramite la Cassa depositi e prestiti o il Fondo strategico per facilitare una nuova proprietà.
Può essere anche ArcelorMittal?
Il problema sono i piani industriali.
La Fiom è una minoranza in Cgil. Pensa ancora che servano le primarie per eleggere i vertici?
La segretaria della Cgil è entrata al congresso con il 98% dei voti, la sua lista al direttivo ha ottenuto l’80%, lei è stata eletta con il 70 e la segreteria di maggioranza, proposta qualche giorno fa, con poco più del 60%. Considero che una democratizzazione e trasparenza della Cgil sia necessaria. Con5,7 milioni di iscritti, 95 persone decidono tutto. È una questione irrisolta.

l’Unità 29.6.14
I pensionati hanno perso 1400 euro in sei anni
Confesercenti valuta la caduta del reddito di una categoria spesso accusata ingiustamente di privilegi
Cantone (Spi): aspettiamo il governo


Più di 1.400 euro persi in sei anni. Nel 2014 i pensionati italiani avranno 1.419 euro in meno rispetto al 2008. «Sono oltre 118 euro in meno al mese, sottratti ai consumi e ai bilanci delle famiglie. Che sempre più spesso sono sostenuti proprio dai pensionati, diventati durante la crisi pilastri del welfare familiare». Questi i dati diffusi ieri da Marco Venturi, presidente Confesercenti, nel tradizionale incontro con i pensionati della Fipac-Confesercenti. «Siamo l'unico Paese - spiega Venturi - dove i pensionati pagano, in proporzione, più tasse di quando erano attivi. Accade così che il pensionato subisca un maggior prelievo rispetto al dipendente e che tale extra- imposta sia più forte tanto più la pensione è bassa: 72 euro per una pensione pari a tre volte il minimo e 131 rispetto alle pensioni d'importo inferiore. Nel resto d'Europa non è così; anzi, avviene il contrario. In tutti i Paesi, a parità di reddito, un pensionato paga in misura inferiore del dipendente».
La denuncia di Confesercenti fa giustizia di molti luoghi comuni su presunti «privilegi» dei più anziani. «I pensionati sono il pilastro della nostra società. Pagano le tasse. Tutte, fino all'ultimo centesimo. Aiutano sempre le proprie famiglie e in particolare figli e nipoti senza lavoro e sono sempre loro che si fanno carico del lavoro di cura in favore di bambini enon autosufficienti - commenta il segretario generale dello Spi-Cgil Carla Cantone - È per questo che il governo deve confermare l'intenzione più volte annunciata di dare anche a loro il bonus fiscale di 80 euro e tutelare nel tempo il loro potere d'acquisto. Per rilanciare i consumi ma soprattutto per una questione di giustizia sociale».
Impietoso il confronto del trattamento fiscale dei nostri pensionati con quello degli altri Paesi europei. «In generale - sostiene Venturi - i nostri pensionati sono i più tartassati d'Europa. Su una pensione corrispondente a 1,5 volte il trattamento minimo Inps, un italiano paga in tasse il 9,17% dell'assegno previdenziale, mentre i suoi colleghi di Germania, Francia e Spagna e Regno Unito nulla». Non va meglio se si considerano i trattamenti pari a tre volte il minimo. «Il pensionato italiano è soggetto ad un prelievo doppio rispetto a quello spagnolo, triplo rispetto a quello inglese, quadruplo rispetto a quello francese e, infine, incommensurabilmente superiore a quello tedesco - continua il leader di Confesercenti - si va dagli oltre 4 mila euro sopportati dal pensionato italiano ai 39 a carico del pensionato tedesco». È ora, conclude Venturi, «di dare una svolta definitiva a questa ingiustizia, ripensando il sistema fiscale. Soprattutto si deve tener conto dell'erosione del potere d'acquisto dei pensionati, estendendo anche a loro, come primo passo, il bonus fiscale, in modo tale da ridurre almeno la perdita su base mensile. Essere anziani non può essere considerato un peso sociale: dobbiamo reagire rivendicando rispetto, dignità sociale ed economica per i nostri pensionati».
Tutti chiedono il bonus, che peraltro finora non si sta trasformando in consumi. Troppo presto per tirare conclusioni, ma è un fatto che in giugno la spesa non ha mostrato andamenti diversi rispetto ai mesi precedenti. Vero è che in questo mese di solito si spende molto proprio per l’erario, cosa che potrebbe aver tirato il freno ai consumi. Ma se spendono poco quelli che hanno ricevuto il bonus, figuriamoci chi non l’ha ottenuto. Allarmante la situazione tra gli agricoltori pensionati. In Italia ci sono più di 800 mila pensionati coltivatori diretti con pensioni non superiori a 480 euro al mese. È quanto emerge da una analisi di Federpensionati Coldiretti. «Questa situazione riguarda la maggioranza dei coltivatori diretti pensionati - afferma il presidente Antonio Mansueto - I nostri pensionati comprendono la difficile situazione del Paese, ma non possono tacere sull'insostenibilità sociale della situazione dei coltivatori pensionati e delle loro famiglie».

il Fatto 29.6.14
I pensionati italiani i più tassati della Ue E i negozi chiudono
I nostri anziani pagano più imposte rispetto a quando lavoravano. Per ogni esercizio che nasce ne muoiono due
di Giulia Merlo


Pensionati supertassati e negozi che chiudono: questo il quadro a tinte fosche dell’Italia nei primi mesi del 2014, presentato da Confesercenti e Confcommercio.
PENSIONI Italia è il paese più longevo d’Europa, ma anche quello che tratta peggio i propri pensionati. Gli anziani, dopo una vita di contributi, pagano proporzionalmente più tasse di quando lavoravano. “Un anziano che riceve un assegno mensile di 1500 euro lordi detrae 72 euro in meno rispetto a quanto fa, invece, un lavoratore dipendente con un reddito dello stesso importo”, ha spiegato il presidente Marco Venturi, durante la festa nazionale della Fipc (Federazione Italiana Pensionati del Commercio).
L’anomalia maggiore, però, è che il prelievo fiscale è tanto maggiore quanto più la pensione è bassa. Le pensioni sotto i 1500 euro, infatti, possono detrarre 131 euro in meno dei lavoratori con lo stesso reddito. Le pensioni, però, non vengono erose solo dalle tasse. Nel 2014 i nonni italiani hanno perso 1419 euro di potere d’acquisto rispetto al 2008. “Sono oltre 118 euro al mese, sottratti a consumi e ai bilanci delle famiglie” ha specificato Venturi, secondo cui è sempre più indispensabile una riforma del sistema fiscale, che estenda anche ai pensionati il bonus fiscale, in modo da ammortizzare, almeno in parte, la perdita su base mensile.
EUROPA Opposta la situazione nel resto d’Europa: sulla stessa pensione da 1500 euro, un nonno romano paga il doppio rispetto a un suo “collega” spagnolo, il triplo rispetto a un inglese e cento volte di più rispetto a un tedesco. “Un pensionato italiano paga il circa 4000 euro l’anno di tasse, il 20,7% di quanto riceve dall’Imps - ha spiegato Venturi - in Germania quello stesso pensionato invece è tassato allo 0,2, pari a 39 euro annui”. E il discorso non cambia nemmeno quando si considerano pensioni più basse: chi riceve circa 750 euro, -1,5 volte il trattamento minimo - è tassato al 9,17%. La stessa pensione in Germania, Francia e Spagna sarebbe, invece, esentasse.
COMMERCIO Nei primi cinque mesi dell’anno, per ogni nuovo negozio aperto due hanno chiuso. I più colpiti sono stati bar e ristoranti, aumentano invece le licenze per il commercio ambulante.
Unica per quanto magra consolazione è che il dato - fornito dall’Osservatorio sulla demografia delle imprese della Confcommercio - è comunque migliore rispetto a quello registrato nello stesso periodo nel 2013: 52.716 esercizi chiusi quest’anno, contro i 55.815 dell’anno scorso. Il più colpito è il Meridione, con 17mila imprese in meno. Secondo l’Osservatorio, i dati confermano come non ci siano ancora segnali concreti di una vera ripresa, anche se “le imprese stanno riuscendo a contenere gli effetti della crisi, nonostante una domanda interna stagnante, l’elevata pressione fiscale e i mancati pagamenti dei debiti della p.a.”.

l’Unità 29.6.14
Resta il rischio manovra: nel 2015 servono 25 miliardi
L’esecutivo punta sulla crescita, ma il Paese non riparte: il sistema è ancora bloccato


Ci sarà uno «sconto» sui vincoli di bilancio italiani? Si potrà spendere di più - senza la necessità di manovre restrittive - per finanziare la crescita? Questa è la domanda che tutti oggi si fanno, ma a cui nessuno sa rispondere. Il fatto è che un accordo politico non si traduce automaticamente in miliardi o decimali di deficit o di debito. Senza contare il fatto che i protagonisti del summit di venerdì hanno tutti confermato (Renzi in primis) il rispetto degli attuali vincoli del Patto. Allora, cosa succederà ai conti italiani?
Qualcosa di più preciso si saprà al prossimo Ecofin, fissato per il 7 luglio. In quella sede si darà «sostanza tecnica » alla flessibilità evocata dal summit politico. L’Italia in quella sede confermerà il quadro disegnato nel Def e approvato dalla Commissione: pareggio nel 2016, con un leggero scostamento da «zero deficit» l’anno prossimo. Secondo alcuni osservatori è questa la flessibilità già concessa al nostro Paese. Non ce ne sarebbero altre. Secondo altri, invece, gli impegni assunti a Bruxelles venerdì scorso consegnano ai governi nazionali nuove leve da poter azionare in caso di crisi persistente.
La questione non è affatto di dettaglio, perché i numeri che ci si parano davanti per l’anno prossimo non sono affatto leggeri. Per rispettare il patto l’Italia deve correggere il deficit di mezzo punto (almeno, visto che quest’anno abbiamo ritardato il rientro). In soldoni vuol dire trovare circa 9 miliardi. Altri 10 servono per finanziare stabilmente il bonus di 80 euro, che peraltro l’esecutivo si è impegnato ad allargare anche a incapienti e pensionati. Se si aggiungono le spese incomprimibili e altre voci (come l’intervento aggiuntivo per via della crescita più fiacca di quanto stimato da Letta), si arriva a un pacchetto di 25 miliardi. Questo il dato che emerge analizzando il Def, anche se i numeri precisi si potranno fare solo in autunno, quando sarà valutata la crescita a consuntivo. Un punto su cui l’esecutivo concentra tutti i suoi sforzi. Le politiche messe in campo finora hanno avuto la crescita come stella polare. Il bonus di 80 euro per le famiglie, gli investimenti per l’edilizia scolastica e il territorio, l’aiuto al credito alle imprese, il taglio della bolletta elettrica delle aziende. È partita una miriade di interventi, ma la scossa non si vede ancora. Anzi, per Confindustria il Pil quest’anno si fermerà allo 0,2% e non allo 0,6 stimato dall’esecutivo in carica (che è già quasi la metà della stima precedente). La macchina non riparte: per questo Matteo Renzi punta i piedi sulle riforme. Il sistema Italia è inceppato: va rivisto da capo a piedi.
Il percorso è strettissimo, tanto più che contemporaneamente bisogna pensare a domare il debito, vero macigno che pesa sui cittadini per circa 80 miliardi l’anno (tanto costa pagare gli interessi sul debito). Inoltre il «rosso» accumulato sarà destinato ad aumentare per via del pagamento dei debiti della Pa, punto dolente nei rapporti tra Roma e Bruxelles. Sulla questione è stata aperta una procedura: entro l’anno si dovrà far fronte almeno ad altri 25 miliardi di pagamenti, attraverso l’intervento della cassa depositi e prestiti.
Il sentiero è a ostacoli. Tanto che i timori di una nuova stretta si susseguono. Ieri si è arrivati a ipotizzare che il passo avanti fatto a Bruxelles nasconderebbe un doppio passo indietro per l’Italia. Secondo La Repubblica l’Europa avrebbe confermato l’obbligo di rispettare gli obiettivi di medio periodo (ossia il pareggio nel 2015). In realtà il summit dei Capi di Stato e di governo di Bruxelles non è intervenuto su quel punto, già affrontato a inizio giugno. Vero è che all’ultimo Ecofin si invocò il rispetto degli obiettivi di medio termine, ma «solo per uniformità di linguaggio per tutti i Paesi» spiegò allora Pier Carlo Padoan. Tradotto: per l’Italia restano valide le raccomandazioni di inizio giugno, che non contestano il ritmo di avvicinamento al pareggio delineato nel Def. «Non si tratta di raggiungere o meno il pareggio - spiega il viceministro Enrico Morando - Si tratta solo di ritardare il ritmo di avvicinamento. Su questo punto non è stato aggiunto né tolto nulla al vertice dei capi di Stato e di governo. E la Commissione ha già dato il via libera al Def».
Sono molte, però, le condizioni necessarie perché l’Italia esca dalla trappola della crescita bassa e torni quindi a gestire il bilancio senza pesanti manovre. Bisogna costruire una nuova Pa, un nuovo fisco, una nuova giustizia. Il paese è ancora troppo fermo, in questo la svolta innescata da Renzi va nella giusta direzione. Sul fronte economico, poi, bisognerà avviare in modo stabile il processo di privatizzazioni, che dovrebbero rendere lo 0,7% di Pil (oltre 10 miliardi) all’anno. Non è facile in tempo di crisi. Infine c’è la Spending review. Da quella voce bisogna reperire 17 miliardi l’anno prossimo e 32 nel 2016: un’altra scommessa ad alto rischio.

il Fatto 29.6.14
Il rinculo della flessibilità: in autunno si rischia la manovra
di Stefano Feltri


Bruxelles. C’è soltanto una nomina per ora e neanche definitiva, quella di Jean Claude Juncker come presidente della Commissione: tra due settimane dovrà andare davanti al Parlamento europeo per chiedere una prima fiducia, poi ci tornerà una volta composta la squadra dei commissari. Una sola nomina, in questo complesso incastro tra nazioni, famiglie politiche, Paesi rigorosi e Paesi indebitati, ma si possono già vedere i primi vincitori e soprattutto i primi sconfitti.
RENZI&LETTA. Matteo Renzi è un vincitore a metà: il premier italiano, forte del 40,8 per cento alle urne, usa il suo peso elettorale per avanzare richieste. Al momento la sua scelta è quella di avere l'Alto rappresentante per la politica estera, considerato in quota socialista (il Pd in Europa è dentro il Partito socialista). Una casella di grande prestigio ma che vale zero in termini di interesse nazionale, il ministro degli Esteri dell'Unione è la persona da insultare quando l'Europa non riesce ad agire nelle crisi internazionali. Ma Renzi usa la casella in chiave politica: è quella più nobile ed è quella a cui ambisce da anni Massimo D'Alema. Renzi la prenota per Federica Mogherini, la fedelissima ministro degli Esteri. E così manda un messaggio interno e a Bruxelles: la vecchia guardia del partito – D'Alema e non solo – deve rassegnarsi all'oblio. E il fronte dei tecnocrati, la filiera europeista che da Giuliano Amato e Mario Monti arrivava fino a Enrico Letta non può più considerare le poltrone europee una spettanza automatica. Renzi in Europa si appoggerà alla Mogherini e a due renziani acquisiti come Gianni Pittella, che guiderà probabilmente il potente gruppo del Pse in Parlamento, e a Roberto Gualtieri che sarà capogruppo nella commissione che segue i dossier economici, due caselle poco appariscenti in Italia, ma che consentono grandi possibilità di azione. Secondo una fonte dell'Europarlamento, Angela Merkel avrebbe chiesto a Renzi se era disponibile a indicare Enrico Letta alla presidenza del Consiglio europeo , in caso di necessità. Il premier avrebbe risposto con un secco no. E comunque ha pubblicamente spiegato che l'Italia non chiede la guida del Consiglio perché c'è già un italiano, Mario Draghi, alla Bce. Letta è fuori, D'Alema anche, Renzi è più forte ma rinuncia a portafogli economici pesanti come Commercio e Mercato interno.
ANGELA MERKEL. La cancelliera tedesca è un portento: è riuscita a ribaltare una situazione difficile in una affermazione di forza. La Merkel era contraria al sistema degli Spitzenkandidaten, cioè il tentativo dei partiti europei di imporre ai capi di governo il presidente della Commissione abbinando le candidature al voto partitico. Non ha mai amato Jean Cluade Juncker, il candidato del Ppe, e ancor meno Martin Schulz, il suo avversario del Pse, socialista tedesco della Spd. Ma quando David Cameron ha messo il veto sul nome di Juncker, simbolo di un'Europa troppo federale e contraria agli interessi inglesi, la Merkel ha difeso il nome di Juncker, trasformandolo di fatto in un presidente di Commissione su mandato della Germania, ha sbloccato il risiko delle nomine appoggiando la riconferma di Schulz al Parlamento per i prossimi due anni e ha quasi ottenuto in anticipo la conferma di un portafoglio importante per Berlino nella nuova commissione. Il commissario sarà, di nuovo, Günther Oettinger, quasi certamente confermato all'Energia. Anche il prossimo commissario agli Affari economici, il successore di Olli Rehn, deve essere scelto tra i nomi graditi alla Merkel: probabile che sia un altro finlandese, l'ex premier Jirky Katainen, che si è dimesso dal governo con la promessa tedesca di ottenere una poltrona prestigiosa.
CAMERON&HOLLANDE. David Cameron è stato umiliato: il premier inglese ha messo il veto sul nome di Juncker per la Commissione, preoccupato che la sua nomina sia un pericoloso cedimento del Consiglio (cioè dei governi nazionali) a un'idea di Europa più federale e dove è il Parlamento a decidere. Per la prima volta il Consiglio ha votato a maggioranza invece che decidere all'unanimità: 26 con Juncker, due contro. A sostegno di Cameron è rimasto solo il leader reazionario e xenofobo dell'Ungheria, Viktor Orban. Ora Cameron, già umiliato dal successo degli indipendentisti Ukip di Nigel Farage, deve scegliere se incasare l'umiliazione o reagire spingendo Londra fuori dall'Unione col referendum previsto per il 2017. François Hollande è semplicemente non pervenuto: il debolissimo presidente francese cerca disperatamente un posto per l'ex ministro Pierre Moscovici, che ha fatto dimettere promettendogli un posto a Bruxelles, ma per ora non si ha traccia dell'attività diplomatica francese.

Corriere 29.6.14
Il piano per la giustizia rischia di slittare Per ora solo linee guida
di Giovanni Bianconi


Sorpresa: al Consiglio dei ministri di domani non c’è alcun provvedimento in materia di giustizia da esaminare. Niente processo civile, né autoriciclaggio o nuove norme antimafia; niente prescrizione o falso in bilancio rivisto, tantomeno modifiche del Csm, responsabilità dei giudici o regole più stringenti sulle intercettazioni. Nonostante la nota perentorietà di Renzi sui tempi, domani il ministro Orlando si limiterà a enunciare linee guida.

Dopo i molti e ripetuti annunci, dall’ordine del giorno del Consiglio dei ministri convocato a Palazzo Chigi le per 17 di domani, è arrivata la sorpresa: non c’è alcun provvedimento da esaminare in materia di giustizia. Nessuna traccia dei decreti e disegni di legge di cui tanto s’è parlato in questi giorni, suscitando persino qualche prematura polemica. Niente processo civile, né autoriciclaggio o nuove norme antimafia; niente prescrizione o falso in bilancio rivisto e corretto, e tantomeno modifiche del Csm, responsabilità dei giudici o regole più stringenti sulle intercettazioni. Eppure Matteo Renzi, col suo pallino per le scadenze prefissate, era parso perentorio: «Credo sia arrivato il momento di mettere nel mese di giugno all’attenzione di questo Parlamento un pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente», disse in febbraio presentando il suo governo.
Domani è l’ultimo giorno utile per non andare fuori tempo, e allora che succederà? Probabilmente quello che è accaduto su altri capitoli, come la riforma della Pubblica amministrazione prima del decreto appena varato: una discussione generale interna all’esecutivo, avviata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che snocciolerà le «linee guida» di provvedimenti già pronti, quasi pronti, o ancora allo studio su aspetti complessi che contemplano diverse opzioni. Dopodiché il presidente del Consiglio dirà la sua, al pari di altri ministri; forse verranno indicate delle priorità e, a seguire, nelle prossime riunioni governative cominceranno a essere presentati i singoli decreti o disegni di legge. Con il conforto di un programma di massima già dibattuto e condiviso.
Determinanti — o comunque importanti per capire che piega potrà prendere l’attesa Grande riforma — saranno le indicazioni che verranno da Renzi, dopo aver ascoltato Orlando. Quando illustrò il suo programma mescolò insieme tante cose, dai giudici amministrativi troppo invadenti alle pene «da furto di serie B» per chi uccide un passante guidando il motorino ubriaco e drogato; ora sarebbe il momento di affrontare il tema giustizia in maniera organica e concreta, ma anche Renzi dev’essersi reso conto che non basta il generico auspicio a superare i «derby ideologici» che si combattono da vent’anni. Gli argomenti vanno affrontati e ponderati seriamente, e forse non sarà semplice come si poteva immaginare dopo il ridimensionamento del ruolo di Berlusconi. Perché sul tappeto ci sono questioni tuttora politicamente «sensibili», sulle quali nel Partito democratico non tutti la pensano allo stresso modo, e il Nuovo centrodestra dell’ex Guardasigilli berlusconiano Alfano vorrà dire la sua.
Per esempio la responsabilità civile dei magistrati per dolo o colpa grave: gli uffici tecnici di Orlando hanno predisposto un testo che prevede la possibilità del cittadino di chiedere i danni allo Stato e l’obbligo per lo Stato di rivalersi sui giudici fino a metà del loro stipendio. Responsabilità «indiretta» delle toghe, dunque, al contrario di quanto previsto dall’emendamento leghista approvato alla Camera con i voti nascosti di non pochi deputati della maggioranza. Passerà senza traumi la riforma immaginata dal ministro? E sulle intercettazioni, basterà la proposta — peraltro ancora da definire dei dettagli, e non sarà semplice — di provare a limitarne la divulgazione allargando l’area della segretezza,lasciando intatta l’attuale utilizzabilità in indagini e processi? E le formulazioni più severe di falso in bilancio e prescrizione troveranno tutti d’accordo nella coalizione che vede insieme il Pd e un pezzo di centrodestra?
C’è poi il capitolo delle riforme che riguardano l’autogoverno dei giudici: dal meccanismo elettorale del Csm (che comunque sarà rinnovato fra pochi giorni per i prossimi quattro anni con la legge vigente), al sistema disciplinare unico per le diverse magistrature da spostare presso un’Alta corte di nuova composizione. Quest’ultima riforma sarebbe di tipo costituzionale, e sono tutti i temi in cui il dibattito politico viene inevitabilmente influenzato dalle prese di posizione della magistratura. Che ha fatto intendere di non gradire, su questo terreno, le soluzioni ipotizzate dal governo. Inoltre si tratta di progetti che coinvolgono il ruolo del presidente della Repubblica, e quindi avrà un peso anche il parere del Quirinale.
La strada, insomma, è tutt’altro che in discesa. E pure ciò che sembrava una soluzione raggiunta e condivisa — il decreto per smaltire l’arretrato civile e velocizzare la composizione delle controversie senza ricorrere al giudice — rischia di diventare complicato. Un provvedimento d’urgenza approvato ora andrebbe tramutato in legge entro la fine di agosto; col Parlamento già gravato da altri lavori in corso e con la pausa estiva (per quanto breve) alle viste, si rischierebbe di fallire l’obiettivo. Così si sta meditando di ritardare la presentazione di qualche settimana, nel tentativo di andare più veloci dopo.

il Fatto 29.6.14
Giustizia canaglia Falso in bilancio slitta, l’immunità rimane
Nonostante gli annunci, domani in Consiglio dei ministri si discuteranno solo “linee guida”. Per i provvedimenti ci si affiderà a disegni di legge ancora in calendario
di Wanda Marra


Alla fine l’immunità resterà così come è prevista nel testo emendato dai relatori, Finocchiaro e Calderoli”, ragionava qualche giorno fa un senatore democratico che sta seguendo molto da vicino le riforme costituzionali. Prevedendo che nessuna cancellazione dello “scudo” ci sarebbe stata. Guardando ai fatti, sembra proprio che abbia ragione. Non solo il governo ha dato il suo assenso alla norma sull’immunità durante il vertice a Palazzo Chigi del 17 giugno, non solo il premier si è assunto in proprio la responsabilità di averla approvata. Ma c’è un altro dato di fatto: venerdì è scaduto il termine in commissione Affari costituzionali per i sub emendamenti al testo consegnato da Finocchiaro & Calderoli. E non ce n’è uno di iniziativa governativa e neanche degli stessi relatori che cancelli la norma in questione. Domani inizia il voto in commissione Affari Costituzionali e i sub emendamenti che vogliono l’abrogazione dell’immunità sono firmati dai Cinque Stelle o dai “ribelli” Pd, in testa Vannino Chiti. Anna Finocchiaro aveva annunciato che avrebbe presentato lei stessa una modifica per affidare alla Consulta la decisione (soluzione questa che ha fatto registrare perplessità sia dal Quirinale, che dalla stessa Consulta). Ma, a conti fatti, ha preferito non fare niente e lasciare il cerino nelle mani del governo. Che per ora ha lasciato tutto com’era. I renziani meglio informati sono certi che lo scudo non verrà tolto: potrebbe essere riformulato, prevedendo che valga per i membri della nuova Camera delle autonomie solo nell’esercizio delle loro funzioni da senatori e non da amministratori. Ma tutto sta a vedere come andrà il dibattito in Aula.
PERCHÉ poi le riforme si accavallano, le esigenze si incrociano. E quando si parla di giustizia il tema diventa incandescente. Domani in Consiglio dei ministri non ci sarà la riforma annunciata dal premier, già durante il discorso per la fiducia, per giugno, termine ribadito più volte nei mesi. Alla fine dell’ultimo Cdm era stato il ministro Boschi ad annunciare che nel prossimo (quello di domani appunto) si sarebbe discussa la riforma. Ma il dibattito si limiterà alle linee guida, che verranno illustrate ai ministri dal Guardasigilli, Andrea Orlando. Da via Arenula la raccontano così: il ministro e il premier si sono sentiti giovedì mattina, prima della partenza di Renzi per il Consiglio Ue, e non avendo di fatto mai avuto il tempo di discutere a fondo hanno deciso che sarebbe stato necessario un ulteriore approfondimento, prima di entrare nel merito di provvedimenti molto delicati, magari rischiando dissensi dai titolari degli altri dicasteri. Fino a quando? Non è chiaro. Ci sarà, di certo, un decreto che affronterà il sistema della giustizia civile per fare fronte all’arretrato pesantissimo rappresentato da milioni di cause. I tecnici di Palazzo Chigi stanno decidendo quando vararlo: stanno valutando bene le questioni legate all’iter parlamentare. Tradotto: se si fa a inizio luglio si rischia di non riuscire a convertirlo entro i tempi a disposizione, ovvero fine agosto. Quindi si potrebbe spostare in là, magari alla fine del mese. E il resto? Sarà tutto affidato a disegni di legge, che saranno presentati in momenti successivi, anche qui difficilmente prevedibili. Se si prende il caso Pa, il Cdm con “le linee guida” si è fatto il 30 aprile, quello con i provvedimenti (in bozza) il 13 giugno, e i decreti effettivi sono stati scritti solo dopo e firmati dal Quirinale martedì 24. Se è per la riforma del Senato, il ddl costituzionale è stato approvato il 31 marzo, il voto in Commissione inizia domani, con un testo che è stato quasi riscritto.
A proposito di ddl, a Palazzo Chigi ne esiste già uno sull’autoriclaggio, predisposto dal ministero della Giustizia, e consegnato oltre un mese fa, al quale lo stesso dicastero ha ipotizzato di aggiungere alcune norme sul falso in bilancio. Ma, a meno di sorprese dell’ultimo secondo, domani non verrà tirato fuori. I tempi si dilatano. E a occhio e croce l’iter parlamentare dei provvedimenti in questione non comincerà che dopo l’estate. Il metodo Renzi - ormai s’è capito - è quello di spingere l’annuncio oltre l’ostacolo. Però trattandosi di materia incandescente come la giustizia ogni sospetto è lecito. Anche perché il governo ha chiesto in Senato un rinvio della legge sull’anticorruzione proprio in attesa dei provvedimenti di fine giugno. Che non ci saranno. Tra le voci che si rincorrono a Palazzo Madama ce n’è una insistente secondo la quale Forza Italia starebbe facendo pressione perché l’accertamento del falso in bilancio abbia il via solo su querela di parte (come adesso), e non diventi automatico.
RENZI ha bisogno dei voti di Forza Italia per portare a casa le riforme costituzionali, tanto più la fronda di Palazzo Madama si allarga. E l’“ombra” dello scambio si allunga soprattutto quando trattativa su alcuni temi e temporeggiamento su altri vanno di pari passo. Ieri il presidente del Consiglio ha annunciato che questa settimana è “decisiva” e quindi vedrà tutti: Pd, Forza Italia e Cinque Stelle. “Le polemiche non devono frenarci, neanche quelle interne”, ha detto ai fedelissimi. I suoi lavorano ad allargare la maggioranza, ma le falle restano.

l’Unità 29.6.14
Festa dell’Unità, dopo il brand Renzi rilancia Bologna
La kermesse nazionale dal 27 agosto al 7 settembre al Parco nord
Una garanzia i numeri dello scorso anno. I temi: governo, Europa, partito


Dopo Genova, Bologna. La festa nazionale del Pd che il segretario Renzi vuole torni a essere Festa dell’Unità si terrà nel capoluogo emiliano, dal 27 agosto al 7 settembre prossimi. La Festa dell’Unità torna dunque “a casa”, dove le feste sono nate e dove hanno sempre mantenuto quel «brand», massimo emblema di una tradizione che il neo segretario sembra non solo non voler rottamare ma anzi rinvigorire.
La conferma della scelta di Bologna l’hanno data ieri i vicepresidenti del partito, Deborah Serracchiani e Lorenzo Guerini Afavore del capoluogo emiliano hanno pesato diversi fattori, e diverse persone, non ultimo il segretario regionale Stefano Bonaccini che ieri twittava: «Siamo orgogliosi di ospitare la Festa nazionale dell’Unità a Bologna ». Con lui Renzi aveva girato l’Emilia- Romagna come coordinatore della campagna per le primarie che lo hanno lanciato alla guida del partito. E forse la scintilla tra l’attuale premier e le Feste è scoccata in quell’occasione, se non prima.
UNA MACCHINA RODATA
Da Modena a Reggio a Bologna solo per citare le principali, le Feste emiliano- romagnole sono radicate, organizzate, partecipate. Un insieme unico nel suo genere di politica, cultura, buona cucina, concerti, associazionismo e intrattenimento. A Bologna poi «i numeri sono già da festa nazionale», ricorda con orgoglio Fabio Querci, al debutto proprio quest’anno come responsabile della kermesse provinciale (di seguito all’appuntamento nazionale, sempre al Parco Nord fino al 22 settembre). L’anno scorso l’area di 30 mila metri quadri con i suoi 20 ristoranti e 15 bar a gestione diretta ha accolto un milione di visitatori, con incassi per tre milioni e 300 mila euro di utili. Una formadi autofinanziamento da sempre rivendicata dalla federazione locale, specie in tempi di dibattito accesissimo sul finanziamento pubblico ai partiti. Tutto grazie a 5 mila volontari, specie anche questa sui generis e per fortuna non in via di estinzione. C’è chi sta dietro i fornelli e chi stende la sfoglia dei tortellini come prima hanno fatto genitori e nonni, chi segue la politica tutto l’anno e chi invece le si avvicina solo tra gli stand, sono comunque loro il vero segreto del successo della festa.
A Bologna insomma c’è una macchina che funziona, il responsabile nazionale delle Feste Lino Paganelli lo dice chiaro: «Ha un’esperienza consolidata e una buona riuscita». Una certezza, che si accompagna all’ottimo risultato del Pd che qui alle Europee ha toccato la vetta del 55%. Forse anche per questo Bologna era convinta di poterla spuntare su Milano, unica alternativa. Il segretario provinciale Raffaele Donini non nasconde la sua soddisfazione, «per il Pd bolognese è un grande riconoscimento politico. Ringrazio Renzi, Bonaccini e Paganelli, ripagheremo la fiducia che ci viene data. Voglio condividere questo entusiasmo con le migliaia di volontari che anche quest’anno renderanno possibile organizzare il più grande evento per l’autofinanziamento pulito della politica».
È un ritorno atteso, del resto. L’ultima kermesse nazionale data al 2007 e si chiuse con il comizio di Fassino prima della nascita del Pd con le primarie di ottobre. I cantieri della Festa apriranno a metà luglio, ora ci si concentrerà sul programma. Serracchiani e Guerini indicano già una direzione: «Come è nella tradizione, sarà il luogo dell’incontro e del dibattito tra forze politiche e sociali, con i cittadini sui temi dello sviluppo e della crescita. L’occasione per un confronto con il governo sulle riforme istituzionali, economiche e sociali». Quanto ai temi dei dibattiti principali (sempre alle 18) Paganelli per ora ha tre certezze: «Si discuterà di governo, con i mille giorni per le riforme; di Europa e dello scambio tra flessibilità e riforme, del resto saremo nel pieno del semestre di presidenza italiano; del partito, quindi anche del futuro del Pd e delle feste». Nella kermesse provinciale si parlerà di infiltrazioni della criminalità in regionale e della ricostruzione dopo il sisma del maggio 2012, spiega Davide Di Noi, giovanissimo responsabile della comunicazione del Pd bolognese: «Siamo pronti, per noi sarà un’occasione per crescere ancora».

Repubblica 29.6.14
Senato, i ribelli resistono il premier: “Li piegheremo”
E Berlusconi difende i patti
di Carmelo Lopapa


ROMA. La minoranza pd che alza la voce sulle riforme «non sarà determinante, vedrete che le portiamo a casa e anche in fretta». Matteo Renzi lavora a Pontassieve, giornata di relax in famiglia dopo la “battaglia” di Bruxelles, e ai suoi preoccupati dal serrate le fila dei dissidenti interni predica self control e ottimismo. Per nulla preoccupato, determinato piuttosto, raccontano i pochi che hanno avuto modo di sentirlo mentre lavora al discorso del 2 luglio a Strasburgo per l’apertura del semestre di presidenza italiana dell’Ue. «Ora tocca a noi» è il messaggio. La partita si gioca in casa.
«L’obiettivo deve essere quello di spendere bene l’autorevolezza internazionale ed europea conquistata con il 41 per cento delle europee e con le prime misure del governo» è la linea lasciata trapelare dal premier. Alla vigilia di un appuntamento così delicato, il presidente del Consiglio vorrebbe maggiore coesione. Ma giusto ieri i diciotto senatori di maggioranza che sponsorizzano il Senato elettivo in contrapposizione al progetto di riforma del governo, sono tornati ad alzare la voce. «Questa è la settimana chiave delle riforme» ribadisce Renzi. Che preannuncia per i prossimi giorni incontri al vertice con tutti gli altri partiti. Forza Italia, ancora i Cinque stelle e, ovvio, con i parlamentari del Pd.
Bisogna far capire alla cancellerie europee che in Italia si sta facendo sul serio. «Ora forse è più chiaro a tutti perché l’altro giorno ho rilanciato il programma dei mille giorni, quello è l’orizzonte di cui abbiamo bisogno» ragiona il capo del governo. Mai come nei prossimi sei mesi sarà importante far tesoro della stabilità. «Dopo il Consiglio europeo durante il quale abbiamo fatto capire che siamo un paese forte, che non va con il cappello in mano ma che si fa rispettare», adesso «la partita si sposta in Italia e la palla è tutta nel nostro campo: tocca a noi fare le riforme se vogliamo la flessibilità dell’Europa », è il suo convincimento. Ma l’opposizione interna resta ferma sulle sue posizioni. Ieri a Milano Gianni Cuperlo, alla riunione della sua componente, ha chiesto rispetto per i dissidenti. Con sintomatica coincidenza, il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, ha indicato le componenti interne del Pd come «un freno al cambiamento». Chiamparino, renziano di prima fila, ha ripreso la tessera del Pd «per sostenere le politiche di cambiamento del governo Renzi». Iscrizione al partito ma, avverte, nessuna adesione a correnti.
Sta di fatto che dal democratico Corradino Mineo al forzista Augusto Minzolini, il fronte del “Senato elettivo” tiene il punto alla vigilia della settimana clou. Da domani iniziano le votazioni in commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama sul testo Boschi. Ma nulla di decisivo si consumerà prima di giovedì - questo è il patto - quando Silvio Berlusconi terrà a rapporto tutti i gruppi parlamentari di Forza Italia, eurodeputati compresi. Servirà a dare il via libera definitivo e far rientrare i mugugni. A dispetto dei dissensi sul patto delle riforme e della trentina che secondo Minzolini sosterrebbero la linea del “no”, Denis Verdini continua a rassicurare il leader: «Alla fine con Minzolini resteranno due o tre senatori» è la stima dell’uomo macchina forzista. E si fanno anche i nomi. Quelli del senatore lombardo Sante Zuffada, di Cinzia Bonfrisco e pochi altri. L’ex direttore del Tg1 non cede, «perché più passa il tempo e più siamo convinti che occorra l’elezione diretta dei senatori, oltre alla riduzione dei deputati». Un doppio fronte sul quale ritiene di poter trascinare parecchi senatori forzisti. Ma finora a esporsi è soltanto lui. Se si fa eccezione per il deputato Maurizio Bianconi che si dice «stupefatto» del via libera di Berlusconi: «Un voto favorevole al Senato renziano farebbe sbloccare anche l’approvazione dell’Italicum, pessima legge fatta apposta per far vincere Renzi o Grillo. Forza Italia mai». Nel chiuso di Palazzo Grazioli e nelle sue telefonate ad Arcore predica più o meno le stesse cose il capogruppo alla Camera Renato Brunetta. Barricadero ostinato, convinto che al premier «non bisogna darla vinta ». Nel partito tuttavia quasi tutti scommettono che, come spesso accade, anche Brunetta cambierà idea quando Berlusconi detterà la linea definitiva.

Corriere 29.6.14
«Bisogna tagliare anche i deputati» La mina trasversale sul nuovo Senato
La proposta della minoranza pd ha molti consensi nell’opposizione
di Dino Martirano


ROMA — A meno di 24 ore dal primo voto sulle riforme previsto per domani pomeriggio in commissione, al Senato si apre il derby con la Camera. E la partita si profila insidiosissima per il governo, che con la legge costituzionale Renzi-Boschi intende falcidiare solo l’assemblea di Palazzo Madama (da 315 a 100 seggi) lasciando invece intatta quella di Montecitorio (630 seggi).
Sulla strada intrapresa dal ministro Maria Elena Boschi (Riforme) si profila la presenza di un vero macigno: perché, oltre la minoranza interna guidata da Vannino Chiti (14 senatori del Pd), anche l’«area riformista» (Bersani-Letta, forte di almeno 27 senatori) punta dritta sulla cura dimagrante contestuale delle due assemblee legislative. E questo «doppio taglio» è molto popolare anche nelle opposizioni (Lega, FI, M5S, Sel) tanto da rappresentare il più insidioso ostacolo per il governo che, anche su questo terreno, non intende cambiare una sola virgola del suo testo base. Perché, come ha sempre ripetuto Renzi ai suoi, se si tocca anche la Camera la riforma del Senato e del Titolo V rischia veramente di insabbiarsi.
La questione sarà affrontata martedì nell’ennesima riunione dei senatori del Pd convocata dal capogruppo Luigi Zanda che, a votazioni ormai aperte, dovrà tentare di indicare un punto di mediazione. Già domani mattina è prevista una riunione dell’«area riformista» del Pd che dovrà decidere come utilizzare l’«arma atomica» rappresentata dall’emendamento 1.011 — firmato da Doris Lo Moro, Miguel Gotor, Francesco Russo, Maurizio Migliavacca, Giorgio Pagliari e altri 22 colleghi del Pd — che propone la modifica dell’articolo 56 della Costituzione per ridurre i deputati da 630 a 500 (più 8 eletti all’estero). Il governo ha già monitorato il pericolo e probabilmente, visto che l’emendamento Lo Moro potrebbe essere messo in votazione già domani pomeriggio, si accinge a chiederne l’accantonamento. Sperando poi che nella riunione del Pd di martedì nessuno intenda mettere ai voti il tema riduzione del numero dei parlamentari.
La questione posta dai 27 di «area riformista» (che in prima commissione sono in 5 mentre i renziani sono due) è molto delicata perché non ha solo il sapore della rivalsa sui colleghi deputati. Il bilanciamento dei numeri tra Camera e Senato, infatti, incide sul plenum in seduta comune del Parlamento che elegge gli organi di garanzia e in particolare il capo dello Stato. Gotor , Migliavacca e la stessa capogruppo Lo Moro hanno esposto in commissione qual è il punto debole della riforma del Senato combinata con la legge elettorale maggioritaria: a un solo partito, infatti, basterebbe vincere il premio di maggioranza alla Camera e controllare il 33% del Senato per eleggere da solo il presidente della Repubblica: «E poi c’è anche la variante russa — insiste da giorni Gotor — col premier che si fa eleggere capo dello Stato dalla Camera, che controlla grazie al premio di maggioranza, e dal mini Senato».
Ecco allora che, oltre alla riduzione contestuale di senatori e deputati, spunta un altro emendamento dei 27 dell’«area riformista» del Pd che alza il quorum per l’elezione del capo dello Stato (la maggioranza assoluta scatta solo al 7° scrutinio e non al 4°).
Domani, dunque, è il giorno della verità. Alle 16 il presidente della commissione Anna Finocchiaro darà il via alle votazioni. I rapporti di forza sono 15 voti a favore della maggioranza, 14 per l’opposizione anche sulla questione dell’elezione diretta del Senato sostenuta dalla minoranza del Pd guidata da Vannino Chiti, che però ha perso la funzione dell’ago della bilancia in commissione: «Dopo la mia sostituzione continuo ad andare in commissione con Chiti e Casson per illustrare i nostri emendamenti anche se, ovviamente non possiamo votare», osserva il dissidente Corradino Mineo. Che aggiunge: «Io dico che non bisognava arrivare a tutto questo, il governo avrebbe dovuto aprire sull’elezione diretta con il listino presentato alle regionali». Ora però la questione dell’elezione dei senatori rischia di passare in secondo piano per lasciare la ribalta alla riduzione del numero dei parlamentari.

il Fatto 29.6.14
Nella trincea del Senato tra Chiti, Razzi e Scilipoti
La battaglia per l’elezione diretta dei componenti di Palazzo Madama ha un fronte bipartisan: Mucchetti: “Non abbiamo nulla da perdere”
di Fabrizio d’Esposito


Gli anticorpi al renzismo hanno generato nella pancia parlamentare una nuova specie: l’Homo Senatus, l’Uomo del Senato. L’Homo Senatus è un Frankenstein costituzionale che assembla spezzoni di tutti i partiti e ha soprattutto una caratteristica: di fronte al renzismo imperante mette insieme uomini e donne che non hanno più nulla da perdere e si ritengono più liberi dei tantissimi che sono saliti sul carro del vincitore di Firenze. La linea di confine tra loro e il resto del mondo è il Senato elettivo. Capofila di questa battaglia nel Pd è Vannino Chiti, ex ministro. Ma ci sono, per esempio, anche Casson, Mucchetti, Tocci e Mi-neo. In tutto sono 35 i senatori, tra democrat, ex grillini e Sel, che si battono per il suffragio universale, e non un’elezione indiretta.
Ecco cosa significa non aver nulla da perdere secondo Massimo Mucchetti, già firma di peso del Corriere della Sera poi senatore nel Pd bersaniano: “Io mi sono impegnato in questa battaglia nel momento in cui hanno messo fuori la testa persone con una notevole cultura istituzionale. Questa è la principale molla che li spinge. Ovviamente ho messo nel conto un prezzo da pagare. Un prezzo si paga sempre in certi frangenti, già mi è capitato professionalmente e non mi sono mai spaventato. Non credo quindi che il Pd mi chiamerà più a fare il capolista in Lombardia come è successo l’anno scorso”.
È come se l’Homo Senatus, a differenza degli abolizionisti che vogliono
riempire Palazzo Madama di sindaci e consiglieri regionali, si fosse liberato allo stesso tempo di due ossessioni, legate tra di loro. Quella di dire sì al Capo di turno (ieri Berlusconi,
oggi Renzi) e quella della poltrona a tutti i costi. Almeno a sentire Mucchetti, che conclude con un’osservazione acuta sulla propaganda tipica dei partiti padronali-carismatici o semplicemente carismatici: “C’è una vera e propria manipolazione del reale. Noi che stiamo denunciando tutti i rischi di questa operazione siamo la palude, chi invece dà ragione al Capo diventa un riformista”. Ma chi vincerà alla fine? Risposta: “Il sentimento sul Senato elettivo è maggioritario tra tutti i miei colleghi, ma non so come finirà. Comunque reputo difficile il raggiungimento dei due terzi come prevede la Costituzione” .
I dissidenti del Pd, più ex grillini e Sel, sono per il momento un iceberg di medie dimensioni che minaccia la navigazione del Transatlantico renziano. Ma non è l’unico.
Dentro Forza Italia c’è un consistente movimento che non va nel verso renziano. Il volto più noto di questo schieramento è Augusto Minzolini, giornalista come Mucchetti. Anche lui ha la sensazione che in giro per Palazzo Madama siano in tanti a non avere più nulla da perdere, compresi quelli che, realisticamente, non credono più nella possibilità di un altro giro parlamentare. La pubblicistica corrente individua solo quattri azzurri contrari alla riforma del Senato (oltre Minzolini: Tarquinio, D’Ambrosio, Lettieri e Caliendo), ma il numero è molto più alto. Dice Minzolini: “Il mio ddl costituzionale su Camera e Senato ha raccolto 37 firme, quella è la base che potrebbe fare sponda con chi è dall’altro lato”. Un totale di 73 senatori, sommando 35 più 38.
L’Homo Senatus sul versante berlusconiano include, a leggere le firme sul ddl di Minzolini, Cinzia Bonfrisco, Francesco Giro, Paola Pelino, Alessandra Mussolini, i famigerati Razzi e Scilipoti (sì anche loro, in fondo chi mai potrebbe riportarli in Parlamento?), Riccardo Villari, Francesco Compagna, Pietro Langella (da poco passato con Ncd) e quasi tutto il gruppo degli autonomisti di Gal capeggiato dal socialista Barani e dal cosentiniano D’Anna. Anche Minzolini è convinto che Renzi non riuscirà ad avere i due terzi e a quel punto il referendum sulla riforma, nel 2015, si potrebbe trasformare in un referendum sul premier, peraltro non più in luna di miele con il Paese. Il senatore azzurro, già principe dei retroscenisti politici, ha pure un sospetto: “Il disegno di Renzi è perverso. Dopo la riforma potrebbe mandare a casa questo Senato ed eleggere il nuovo capo dello Stato con la Camera attuale e il Senato a elezione indiretta. I mille giorni che ha annunciato si possono spiegare così”.

l’Unità 29.6.14
Civati: «Da Matteo una gestione al limite dell’autoritarismo»
«Le polemiche non sono venute dai senatori ma dal governo Continuare a far valere la legge dei numeri non è un argomento»


Quella di Matteo Renzi nel Pd è una «gestione al limite dell’autoritarismo» attacca Pippo Civati. Il parlamentare democratico ieri era a Milano all’iniziativa “SinitraDem” di Gianni Cuperlo e a margine ha commentato la situazione interna al suo partito, vista dall’occhio di chi fa opposizione al premier- segretario nazionale.
«Penso che abbia un sacco di problemi con le minoranze e che ce l’abbia più lui di quanti ne abbiano le minoranze con lui» commenta Civati, dopo le recenti polemiche e le frizioni sulla riforma del Senato. A far discutere è sempre la sostituzione del senatore Corradino Mineo dalla commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama e la posizione contraria di un gruppo di senatori del Pd. A Civati non piace il clima che si è creato nel partito, anche perché, spiega, «non ci sono più le correnti, quelle del congresso e gli schemi del passato, c’è solo da affrontare questione per questione».
Vediamole, onorevole.
«Il Senato va bene se i consiglieri regionali eleggono dei sindaci? Per me no. Posso dirlo? Posso avere almeno la sovranità personale da semplice parlamentare di esprimere un parere diverso senza che questo sia letto come un attacco a Renzi? Penso che un grande uomo di Stato, un grande segretario di partito debba riconoscere quando ci sono opinioni diverse e non umiliarle».
Renzi nel Pd metterebbe all’angolo chi la pensa diversamente? «Mi pare che sulla vicenda Mineo rispetto all’atteggiamento che ha avuto sulle riforme costituzionali le polemiche non sono venute dai senatori e dai deputati, ma sono venute soprattutto dal governo. Perché continuare a far valere la legge dei numeri è un non argomento, se lui ha davvero l’accordo con Berlusconi i numeri ce li ha già da sei mesi, e non si capisce perché le riforme non le abbia già fatte».
Farle non è poi così semplice.
«Lo so. Ma io mi riferisco in generale a un atteggiamento che dura da parecchio tempo, il caso Mineo è stato l’apice di una vicenda. Per mesi Renzi ha rappresentato i senatori come attaccati alla poltrona, chi non era d’accordo era in cerca di visibilità, gli intellettuali che esprimevano un parere diverso erano “professoroni”. Di parole ne sono volate tante. Io dico che se si vuole ragionare di riforme ci siamo, se lui ha tutti questi voti ed è sicuro di approvarle le faccia, a noi dispiacerà, ma non le voteremo. Questo è un falso problema, secondo me è anche un modo per non guardare la realtà delle cose. Ribadisco che se lui ha l’accordo, adesso addirittura con Calderoli, e dice di averlo con Berlusconi, i voti di chi non è d’accordo non sono determinanti, quindi, non c’è bisogno di far polemica, li porti in Aula e faccia queste riforme. Se non è così, non è colpa nostra».
Sull’Italicum però Renzi ha aperto alle preferenze.
«Mi fa piacere, perché era esattamente, insieme ad altre questioni, una delle cose che dicevano le minoranze qualche mese fa. Per cui non c’è un problema delle minoranze verso Renzi, ma forse un problema di Renzi verso le minoranze».
Il premier vi accusa di riaprire questioni già chiuse appena va all’estero.
«Veramente l’ultima volta da Pechino ha fatto fuori un senatore, noi eravamo tranquillissimi, io non ero all’estero, ma non ero neanche a Roma quando è successo. Questa rappresentazione è funzionale al cercarsi dei nemici, ma ripeto, se vogliamo discutere nel merito quello che chiedono i senatori che non sono d’accordo è che ci sia semplicemente un rapporto diretto tra i cittadini e gli eletti e non che questi siano decisi dai politici. È solo questo, non mi pare un’enormità e soprattutto mi pare giusto dire che se i numeri ce l’ha già questa è una posizione di testimonianza. Se non ce l’ha mi dispiace, però non è il caso di essere polemici. Poi basta con questa storia che c’è qualcuno che non vorrebbe le riforme, mentre le vorrebbe solo Renzi. Questo non è affatto vero, perché la riforma del bicameralismo la stiamo tutti cercando di articolare, non c’è nessuna volontà di fermarla, quindi la rappresentazione per la quale bisogna semplicemente dargli ragione, secondo me è eccessiva».
Insomma, non siete voi a frenare.
«Siccome lui fa il segretario del partito, oltreché il premier, dovrebbe evitare di fare le caricature dei suoi dirigenti. Non capisco dove sia questa azione di frenaggio a Renzi, il governo l’ha fatto lui, la segreteria l’ha fatta lui, il presidente del partito l’ha scelto lui e noi l’abbiamo saputo di notte, va tutto bene, però dire adesso che c’è un problema di eccesso di democrazia interno al Pd mi sembra un po’ ridicolo».
Renzi potrebbe ribattere che ha portato ilPd al40%.
«Intanto mi sembra eccessivo dire che sia solo un suo risultato, gli riconosciamo il merito, ma abbiamo partecipato seriamente tutti quanti. Dopodiché la domanda è: dobbiamo cancellare le nostre idee e le nostre soggettività perché c’è il 40%?».
Di questo Pd quanto si discuterà nella prossima tre giorni livornese?
«A Livorno dall’11 al 13 luglio si parlerà di che cosa vuole dire essere di sinistra oggi in Italia a nel mondo. Soprattutto cercheremo di focalizzare delle battaglie che possiamo condividere con altri. Ci sarà un piazza apertissima per cercare insieme strade nuove e affrontare dei principi importanti. Ad esempio vengo dal Gay Pride (ieri a Milano, ndr), sono stato all’assemblea di Cuperlo, continuo a lavorare perché nel Pd ci sia più democrazia e più politica».

Repubblica 29.6.14
Massimo Muchetti
“Stia sereno. Ma Matteo sui numeri rischia”
intervista si U. R.


ROMA. Senatore Mucchetti, Renzi chiama voi senatori dissidenti del Pd alla “responsabilità” sulla riforma di Palazzo Madama.
«Responsabile un parlamentare lo è quando rappresenta la Nazione senza vincolo di mandato al meglio delle sue capacità. Se questo è l’appello, ringrazio il premier. Se invece responsabilità significa altro, allora confesso di non capire. Fin dal primo giorno Renzi ha detto che i firmatari del ddl Chiti erano irrilevanti. E ora il collega Marcucci ha fatto i conti e conferma. Matteo, stai sereno. Vincerai».
Volete far saltare le riforme?
«Neanche per sogno. Noi le vogliamo, ma ben fatte. E’ bloccare le riforme dimezzare il numero dei deputati per mantenere un equilibrio con i senatori che scendono da 320 a 100? E perché un Senato eletto direttamente dal popolo scegliendo tra tutti i cittadini sarebbe peggio di uno nominato da 983 consiglieri regionali, in larga parte inquisiti dalla magistratura?».
Qual è lo stato dell’arte, secondo lei?
«La realtà è che l’idea del Senato elettivo a Palazzo Madama conta molti sostenitori. Basta leggere gli emendamenti al testo base del governo».
Nonostante l’accordo che Renzi ha in tasca con Berlusconi?
«Berlusconi teme il processo Ruby e ragiona su eventuali ritorsioni del governo su Mediaset. Eppure, dentro Forza Italia, Minzolini ha raccolto 37 firme sui suoi emendamenti simili spesso a quelli sui quali Chiti ha raccolto 35 adesioni dentro e fuori il Pd. Poi la Lega, il M5S, gli ex Sel, taluni popolari per l’Italia ».
Sarà per questo che piovono i richiami dal Pd sui malpancisti, anche dal vicesegretario Guerini.
«Ma perché non si accetta il Senato elettivo, che porterebbe subito la maggioranza dei due terzi e si cerca di fare la riforma costituzionale con il 51% contando sul bastone di un Berlusconi impaurito per riportare all’ovile le pecorelle di Minzolini? ».
Ma non vi ritrovate in “cattiva compagnia”, con i falchi di Forza Italia?
«Se dovessi stare al gioco, dovrei chiedere se Verdini, l’uomo del crac del Credito Cooperativo fiorentino con cui Renzi ha preparato l’accordo, è forse una colomba. Se Berlusconi non è più il caimano. Ma a questo gioco non ci sto. Rispetto per tutti».
Cercate di far deragliare il treno di Renzi?
«Ma quale treno.... La nostra è una battaglia su una questione specifica, e non siamo una corrente».

la corrente di Cuperlo invece segue buona buona il premier, e ha scelto per nome un ossimoro...
Repubblica 29.6.14
Debutto di sinistra Dem
La risposta di Cuperlo “Noi non sabotiamo” Guerini: onorare il 40%
di Andrea Montanari


MILANO. Gianni Cuperlo lo dice subito, arrivando all’assemblea della sua corrente Sinistra Dem, ieri a Milano: «Nessuno vuole mettere i bastoni tra le ruote, rallentare o sabotare ». L’ex presidente del Pd parla ai suoi, ma risponde indirettamente anche a Matteo Renzi che aveva criticato da Bruxelles la minoranza del suo partito. «Non so a cosa si riferisse il presidente del Consiglio - dice Cuperlo - ma sinceramente penso che in questi mesi noi abbiamo avuto un atteggiamento di grande responsabilità». Ad ascoltarlo in prima fila c’è il portavoce del Pd Lorenzo Guerini che apprezza e rilancia: «Il dibattito deve essere libero, ma poi deve fare i conti con la responsabilità della decisione. Abbiamo di fronte un’ambizione e una sfida titaniche da tremare i polsi. Il partito capisca che il 40 per cento dei voti ci dà una grande responsabilità ». Invita tutti a «confrontarsi in maniera libera e senza la paura delle interpretazioni del giorno dopo». In platea il neo presidente del Pd Matteo Orfini, Stefano Fassina, Roberto Speranza. Spunta l’ex capogruppo di Sel Gennaro Migliore, che ha da poco lasciato il partito di Nichi Vendola ed è al primo “contatto” pubblico con il Pd. C’è il neo europarlamentare della Lista Tsipras Curzio Maltese. E poi Carlin Petrini, fondatore di Slow food. Cuperlo cita Mark Twain per richiamare il Pd a occuparsi dei più deboli. Sulla riforma di Palazzo Madama sostiene che «un Senato non elettivo è compatibile con il nostro ordinamento», ma è «legittimo che 35 senatori siano favorevoli a una soluzione diversa». Orfini va oltre: «I senatori potranno ovviamente votare contro le riforme costituzionali, ma è importante non bloccare il processo già avviato». Solo Pippo Civati accusa apertamente Renzi di gestione autoritaria. «Un grande uomo di Stato e un grande segretario di partito deve riconoscere le minoranze, non umiliarle, ma valorizzarle».

il manifesto 28.6.14
Chez Cuperlo, in scena le divisioni della sinistra Pd
di Daniela Preziosi


Democrack. Convegno di Sinistra Dem, arrivano tutti. Ma usano accenti diversi sulle riforme. Fassina: se non cambia la legge elettorale difficile dire sì al nuovo senato. C'è anche Migliore, ex Sel, e Maltese, della Lista Tsipras
«Non so a che cosa si rife­risse il pre­si­dente del Con­si­glio, ma penso che in que­sti mesi noi tutti abbiamo avuto un atteg­gia­mento di grande respon­sa­bi­lità». Gianni Cuperlo risponde così a Renzi, che venerdì era stato duro con­tro «una mino­ranza» che «ria­pre sem­pre discus­sioni che sem­brano chiuse», dal con­ve­gno orga­niz­zato a Milano sotto le inse­gne di Sini­stra Dem, ultima nata nella gau­che plu­rielle Pd. Arri­vano tutti, da Civati a Fas­sina a Orfini a Gen­naro Migliore, ex Sel, a Car­lin Petrini. Cuperlo ricorda che la mino­ranza ha votato l’Italicum «anche quando non con­di­vi­deva gli emen­da­menti indi­cati dal gruppo» e anti­cipa che alla fine farà altret­tanto sul trit­tico di riforme (Senato, legge elet­to­rale e Titolo V)perché «que­sta volta un fal­li­mento non ci sarebbe perdonato».
Ma non tutti la pen­sano così. Civati attacca il segretario-premier: ha «un sacco di pro­blemi con le mino­ranze più di quanti ne abbiano le mino­ranze con lui: è una gestione al limite dell’autoritarismo in alcuni pas­saggi». Anche Fas­sina non usa mezzi ter­mini: «Va valu­tato tutto il pac­chetto delle riforme. E senza un impe­gno a cam­biare l’Italicum è dif­fi­cile accet­tare la riforma del senato». Migliore, alla sua ’prima’ in casa dem dalla fuo­riu­scita da Sel, chia­ri­sce: «Non esco da un par­tito per iscri­vermi a una cor­rente». E chiede «cor­re­zioni alla legge elet­to­rale: lavo­riamo sui col­legi o sulle pre­fe­renze, e soprat­tutto sulle soglie di sbar­ra­mento». Colpi di fio­retto fra lui e Cur­zio Mal­tese, euro­par­la­men­tare della Lista Tsi­pras vicino a Sel. A fine gior­nata Cuperlo capi­ta­lizza molte pre­senze, ma schie­rate in ordine sparso.
Così come in ordine sparso pro­se­gue la discus­sione sulla segre­te­ria del Pd, orga­ni­smo in stand by dalla nascita del governo — e cioè da quat­tro mesi — con quat­tro mem­bri tra­slo­cati a palazzo Chigi. Non che delle riu­nioni alle sette di mat­tina in molti sen­tano la man­canza, demo­cra­tici e non. La nuova segre­te­ria dovrebbe nascere la pros­sima set­ti­mana, una volta che Renzi avrà chiuso il dos­sier delle nomine euro­pee. Le sini­stre in entrata (cuper­liani di stretta osser­vanza e rifor­mi­sti ex ber­sa­niani) sca­ri­cano la colpa del ritardo sulle con­trad­di­zioni in seno al ren­zi­smo. Dall’altra parte invece c’è chi spiega che sono le mino­ranze a non met­tersi d’accordo, come del resto era suc­cesso per la pre­si­denza dell’assemblea Pd, risolta con la scelta di Renzi sul ’turco’ Mat­teo Orfini. I rifor­mi­sti pro­por­reb­bero quat­tro nomi (i boati segna­lano Leva, Cam­pana, Gior­gis e Amen­dola) i cuper­liani almeno tre (De Maria, Pro­ven­zano, La For­gia). Ma i nomi dipen­dono anche dagli inca­ri­chi. Fuori i tur­chi, che si sono gua­da­gnati la casella della pre­si­denza, e fuori i civa­tiani (il respon­sa­bile eco­no­mico Tad­dei viene in effetti da quell’area, ma Civati declina la respon­sa­bi­lità). E però così i conti non tor­na­nano: i ren­ziani fini­reb­bero in mino­ranza. E la palla rim­balza di nuovo in mano a Renzi.

“Sinistra”?
l’Unità 29.6.14
Sinistra Pd: «Da noi niente sabotaggi»
L’ex mozione Cuperlo divisa ora in varie correnti si ritrova a Milano sulla linea del dialogo
Cuperlo: «Nessuno vuole mettere i bastoni tra le ruote. Le riforme si devono fare, ma
che siano buone»
Il vicesegretario Guerini: «Dibattito interno libero, con comune responsabilità»


Il Pd è «il partito del dibattito, che deve essere libero, e del confronto, con una comune appartenenza e responsabilità. Non è il partito del pensiero unico». Declinato sulle riforme prossime venture, a partire da quella del Senato, il ragionamento del vicesegretario Lorenzo Guerini suona così: «È normale che nel corso del dibattito ci sia la presentazione di diversi emendamenti, mail percorso procederà secondo la direzione e con i tempi previsti ». Guerini è a Milano, all’assemblea costituiva dell’associazione Sinistra- Dem, riunita in una manifestazione dal titolo programmatico «Nutrire la democrazia: la sinistra nel nuovo corso».
Ad aprire e chiudere la giornata è Gianni Cuperlo, ma con lui non c’è solo l’area che lo sostenne alle primarie: oltre a Guerini, all’assemblea parlano il presidente Pd dei giovani turchi Matteo Orfini, il capogruppo alla Camera, di Area riformista, Roberto Speranza, Gennaro Migliore, Pippo Civati. E ancora Stefano Fassina, Barbara Pollastrini (lei sì, cuperliana della prima ora), e una sfilza di simpatizzanti più o meno noti, da Gad Lerner a Carlin Petrini, fondatore di Slow food. «Vogliamo rimescolare le carte - dice Cuperlo – Non pensiamo affatto a chiuderci in un piccolo recinto asfittico».
Ed è un’area che non intende usare toni belligeranti con la maggioranza renziana: «Nessuno vuole mettere i bastoni tra le ruote, nessuno vuole rallentare o sabotare», spiega Cuperlo, rispondendo anche al premier, che da Bruxelles l’altro giorno si era lamentato di come sulle riforme la minoranza riaprisse discussioni chiuse. «Non so a che cosa si riferisse, ma sinceramente penso che in questi mesi noi tutti abbiamo avuto un atteggiamento di grande responsabilità», riprende poi Cuperlo.
Il suo discorso è chiaro: non metterà paletti alle riforme, sulla cui realizzazione «abbiamo preso un impegno di ordine morale: un fallimento non ci sarebbe perdonato. Le riforme si devono fare, ma che siano buone riforme ». Non sarà un ostacolo l’immunità dei senatori, e nemmeno la loro eleggibilità: «Secondo me un Senato non elettivo è compatibile con il nostro ordinamento, ma ritengo legittimo che ci siano 35 senatori favorevoli a una soluzione diversa, che vogliano mantenere l’elettività diretta», precisa poi.
Qualcosa di simile, del resto, lo dice anche Orfini: i senatori potranno «ovviamente » votare contro le riforme costituzionali, ma è importante non bloccare il processo già avviato. «C’è una discussione nel Pd. Noi abbiamo sempre detto che ciò che garantisce la Costituzione non sarà il Pd a negarlo. I senatori in disaccordo con il progetto di riforma costituzionale avranno ovviamente il diritto di esprimere il proprio dissenso anche con il voto contrario in aula». Orfini peraltro smorza anche le polemiche su un eventuale rimpasto di governo legato alle nomine di esponenti del Pd nella commissione europea: «Non ne stiamo parlando - chiude - leggo dei retroscena ma non è assolutamente un argomento che sta nella nostra agenda politica».
RIMESCOLARE LE CARTE
Il dibattito è interno, insomma, visto da Milano e apparentemente non fa paura a nessuno. «Ci rende più rappresentativi e ci aiuta a metterci in sintonia con gli elettori - dice anzi Guerini - Non abbiamo ancora capito bene chi ci ha votato e la domanda che esprime, i blocchi sociali cambiano e dobbiamo interpretare l’elettorato. Un partito che si chiude non capirebbe la domanda che proviene da quel 40,8% che ci ha votato». E la sinistra interna si riorganizza alla ricerca di una nuova identità, di un «compromesso diverso tra democrazia e capitalismo », come dice Cuperlo, della «riscrittura del rapporto tra i popoli e il potere». Di nuovi contenuti che, al di là di forme e linguaggi, possano fare la differenza «tra politica e culto dell’amministrazione». E ancora: «Dobbiamo decidere se ergerci a difesa di un mondo che non c’è più o affrontare la sfida di un mondo che non c’è ancora. Io credo che l’importante sia tentare e rischiare».
«INVERSIONE DI ROTTA»
I contenuti, allora: si passa dall’adesione alla campagna referendaria per abrogare i passaggi della legge 243 che impongono vincoli aggiuntivi rispetto alle norme europee e al Fiscal Compact, che partirà il 3 luglio, si passa da una politica agricola diversa che, come dice Petrini anche in vista dell’Expo dell’anno prossimo, combatta l’enorme spreco alimentare (il 40% della produzione agricola viene buttato causa piccole imperfezioni antiestetiche, per dire), sostenga artigiani e contadini, sottoscriva finalmente una legge contro il consumo di suolo agricolo. E si passa inevitabilmente da una differente politica economica. «Per la ripresa, la politica monetaria non basta - dice Fassina - È necessaria una radicale inversione di rotta per sostenere domanda, investimenti pubblici, interventi contro la povertà, redistribuzione del tempo di lavoro. Qualche decimale di sperato allentamento di obiettivi di deficit comunque irrealistici non consente di frenare l’emorragia di lavoro e l’aumento del debito pubblico».

Repubblica 29.6.14
Quant’è bravo il premier ma chi ripara gli errori che sta facendo?
di Eugenio Scalfari



MOLTE cose sono accadute in questi giorni in Europa e in Italia. Ne passerò in rassegna le principali ma ho la sensazione che, al di là dei loro effetti sulla politica e sull’economia che ci riguardano direttamente come cittadini di questo continente e di questo paese, esse abbiano un più profondo significato ed è di questo che voglio ora parlare; ci sono infatti notevoli cambiamenti di un’epoca e di un vissuto collettivo e individuale, dove le scelte che siamo chiamati a decidere hanno motivazioni ben più remote e conseguenze ben più profonde di quelle connesse all’immediatezza che ci sta davanti.
Per capire meglio quanto avviene ho recuperato i pochi libri di capezzale che spesso consulto per meglio illuminare il mio comportamento. Per esempio gli Essais di Montaigne e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche; l’uno segna l’inizio dell’epoca che chiamiamo moderna, l’altro ne rappresenta la fine.
Montaigne conclude così il terzo libro dei suoi Essais, l’opera che impegnò 27 anni della sua vita e che completò e aggiornò fino al momento della sua morte: «Tanto più sei Dio quanto più ti riconosci uomo. Noi cerchiamo condizioni diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra e usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c’è dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare sulle nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostro culo. A mio giudizio le più belle vite sono quelle che ci conformano al modello comune e umano, senza mirabilia e senza stravaganze».
EPOCHE pagine prima di questo finale, aveva scritto: «Nulla nuoce a uno Stato quanto un cambiamento totale che conduce solo all’iniquità e alla tirannia. Quando un pezzo di quell’edificio si stacca lo si può puntellare. Ci si può industriare affinché il naturale alternarsi e corrompersi di tutte le cose non si allontani eccessivamente dai nostri principi. Ma mettersi a riplasmare un così grande edificio equivale a fare come coloro che pensano di correggere dei difetti particolari stravolgendo ogni cosa e di guarire le malattie dando la morte». Infine: «La parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta. Ci sono due diverse concezioni della parola, come scambio o come duello, ma alla fine è la fiducia ad avere la meglio: un parlare franco apre la via ad un altro parlare e lo tira fuori come fanno il vino e l’amore».
Tre secoli dopo di lui, Friedrich Nietzsche chiude la modernità insieme ad altre persone che non si conoscono tra loro ma agiscono nei loro campi perfettamente intonati - senza saperlo - l’uno all’altro. Basterà citare Albert Einstein, Sigmund Freud e poco prima di loro Karl Marx.
Di Nietzsche l’imbarazzo è nella scelta che rappresenti al tempo stesso l’essenza del suo pensiero e il suggello finale all’epoca della modernità.
Secondo me la summa del suo insegnamento è questa: «Ciascuno di noi si sente al centro del mondo ed è il centro del mondo. Dunque il centro è dappertutto e cioè in nessun luogo. Ecco perché ciascuno vede il mondo e tutti gli individui a suo modo e perché la verità assoluta non esiste. Ciascuno ha la propria ed è questa la fatica del vivere e il suo valore».
Concludo questa premessa citando un mio giovane amico che certo non ha la levatura di quelli che ho appena ricordato, ma il cui sentire in qualche modo li riecheggia.
Voi lettori lo conoscete, lo criticate o lo apprezzate ma sapete che rappresenta una delle voci interessanti della post-modernità, quelle che io chiamo i contemporanei ed ha dedicato la vita fin qui vissuta alla politica e alla cultura, due attività che purtroppo assai raramente vanno insieme. Parlo di Walter Veltroni che è intervenuto il 24 giugno scorso al Festival delle Letterature tenutosi in Campidoglio.
«Pensate al nostro rapporto col tempo. La nostra modernità ha causato molte accelerazioni: quella tecnica, oggi impieghiamo la metà delle ore di trent’anni fa per arrivare da Roma a Milano, scriviamo mail invece di lettere, ci vediamo attraverso il mondo parlando al telefono, accediamo al sapere senza doverci muovere da casa. Ma anche l’accelerazione sociale: spariscono mestieri sostituiti dall’automazione e istituzioni come la famiglia, il lavoro, la scuola sono sottoposte a tensioni inedite.
Così cresce freneticamente il ritmo della nostra vita e tutti noi, che pure abbiamo possibilità di risparmio di tempo di ogni generazione vissuta prima di noi, sentiamo che dobbiamo sempre correre. Il nostro tempo storico è l’immediato. Non ci interessa il passato e il futuro ci spaventa. Non siamo disposti ad aspettare, non ci si parla di progetti o di grandi disegni. Ora, qui, subito. Ma il nostro problema è più generale siamo una generazione il cui cervello viene ogni giorno affollato da migliaia di informazioni che ci rendono più consapevoli ma ci sottraggono il tempo necessario per sistemare e razionalizzare. In fondo, per sapere. Stiamo sempre arrivando, ma il rischio è quello di smettere di sapere perché il nostro ippocampo si stanca di tanto cibo e comincia a coltivare una specie di anoressia, come un cassetto troppo pieno che cominci ad espellere fogli, spesso a caso. È dunque vero che ognuno, proprio ognuno, è il centro del mondo. Ad una sola condizione però: sapere che anche il tuo fratello, il tuo vicino, il tuo avversario, sono il centro del mondo. E conoscerli è il solo modo di sapere, viaggiare, arrivare». * * * Veniamo al nostro vissuto di questi ultimi giorni. I leader europei si sono incontrati, scontrati, accordati, rilassati, tra Bruxelles e Ypres dove hanno ricordato una guerra spaventosamente devastante, primo atto d’un terribile gran finale culminato nella distruzione dell’Europa delle nazioni e in un genocidio orribile che nessuno potrà dimenticare.
Quelle guerre hanno chiuso un’epoca; in Europa non ci saranno più. Ma l’Europa ci sarà ancora? Questa che vediamo non è che il miraggio d’una generazione che l’aveva sognato, ma non è ancora gli Stati Uniti d’Europa.
Sopravvivono i governi nazionali, le istituzioni europee sono deboli e contestate, la nazione egemone che è certamente la Germania è incerta e quasi impaurita dalla sua stessa egemonia; preferisce esercitarla per interposte persone ed istituzioni con tutte le condizioni che ne derivano. Nessuno o pochissimi perseguono veramente la nascita d’uno Stato federale con le relative cessioni di sovranità degli Stati nazionali. Anzi: ciascuno dei governi degli Stati confederati lotta per sé e al suo interno, cerca di avvalersi dell’Europa per rafforzare la propria leadership personale e dei suoi seguaci. Noi italiani abbiamo avuto l’occasione di un leader di notevole capacità che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti.
Matteo Renzi e il paese che rappresenta sembrano viaggiare col vento in poppa. Sembrano e in parte è fortunatamente così; in altra parte è un gioco di immagini e di specchi, di annunci ai quali la realtà corrisponde molto parzialmente. La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia la cui fragilità sta sfiorando il culmine senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione.
Ascoltando il leader appena tornato dalle esibizioni di Ypres e di Bruxelles sembra che la partita della flessibilità economica sia stata guadagnata. Pienamente guadagnata, dopo aver mostrato i muscoli alla Merkel e avere poi concluso con un sorriso, un abbraccio e solide promesse. Il pareggio del bilancio sarà rinviato al 2016, gli investimenti per la crescita saranno consentiti, la fiducia cambierà in meglio le aspettative, le riforme strutturali - che sono la condizione richiesta dalla Germania - saranno fatte anche perché (Renzi lo dice e lo ridice) il premier ci mette la faccia. Più chiaro, più netto ed anche più irresistibile di così non ce n’è un altro. Un vero fico che la sorte ha regalato all’Italia e - diciamolo - al Partito socialista europeo e all’Europa intera. Però...
Però non è proprio così. Intanto per quanto riguarda la flessibilità.
Il pareggio del bilancio non è stato rinviato al 2016 ma in realtà al 2015 il che significa che bisognerà porne le condizioni nella legge di stabilità di quell’esercizio, che sarà in votazione dell’autunno di quest’anno. Si intravede una manovra di circa 12 miliardi e forse più.
Nel frattempo la domanda, cioè i consumi, sono fermi anzi leggermente peggiorati; la “dazione” degli 80 euro, almeno per ora, non ha dato alcun segnale. È certamente presto per giudicare, aspettiamo i dati di giugno e di luglio; ma per ora non ci sono segnali di ripresa. Semmai ci sono segnali di ulteriore aumento della disoccupazione, giovanile e non. Il vero e solo dato positivo viene dall’intervento della Banca centrale europea che nelle prossime settimane dovrebbe intervenire con misure “non convenzionali”. Ma qui non c’entrano né il governo italiano né le istituzioni europee e neppure la Germania. Qui c’entra la Bce e la fermezza di Draghi, sperando che la lotta per alzare l’inflazione abbia successo. * * *
Draghi richiama un altro tema assai scottante che però non riguarda il presidente della Banca centrale il cui nome nel caso in questione è stato usato a sua insaputa (e molto probabilmente col suo personale fastidio).
È circolata nei giorni scorsi la notizia che uno dei possibili anzi probabili candidati a sostituire Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo sarebbe stato Enrico Letta. La notizia è uscita sul Financial Times e su molti giornali italiani e la candidatura avrebbe avuto il pregio di non provenire dal governo italiano ma da quello inglese e anche francese. Pregio, perché i candidati alle massime cariche dell’Unione non sono scelti sulla base della nazionalità d’origine, ma sulla base del talento e dell’esperienza. Lo stesso Giorgio Napolitano ha ricordato pubblicamente che, dal momento della nomina a presidente della Bce, Draghi non è più considerato come un italiano, così come Jean-Claude Juncker non è considerato un lussemburghese, sicché un altro italiano scelto per un’altra carica non incontra alcuna difficoltà per la presenza d’un suo “originario concittadino”.
Questo non è un dettaglio di poco conto ma un punto fondamentale per chi persegue gli obiettivi dell’Europa federale e non confederata. Ma il nostro Renzi (e guai a chi ce lo tocca) ha di fatto risposto: Letta chi? E poi ha aggiunto che la presenza di Draghi costituiva un ostacolo all’eventuale incarico di Letta. Comunque - ha infine aggiunto il nostro presidente del Consiglio - lui non pensava affatto ad ottenere quella carica per un italiano ma piuttosto ad avere la ministra degli Esteri, Mogherini, alla carica di Alto rappresentante della politica estera e della difesa europea.
Abbiamo già scritto domenica scorsa, e qui lo ripetiamo per chi ha orecchie da mercante, che quella carica non conta assolutamente nulla.
Politica estera e difesa sono solidamente nelle mani dei governi nazionali, nessuna cessione di sovranità è prevista in proposito, ogni paese europeo ha la sua politica estera che spesso non coincide con quella degli altri. Si tratta dunque d’un obiettivo di pura facciata, che proprio per questo l’Italia ha già ottenuto e utilizzerà a favore della Mogherini o di D’Alema.
* * *
Concludo ricordando che la flessibilità concessa all’Italia nei limiti che abbiamo già visto è comunque subordinata a riforme strutturali che incidano sull’economia. Altre riforme interessano assai poco l’Europa e gli stessi italiani. Quelle della legge elettorale nonché la riforma del Senato sono tra le meno interessanti ai fini della flessibilità. Di esse abbiamo più volte parlato nelle scorse settimane. Far sparire il Senato depaupera il potere legislativo. Il sistema monocamerale avvia inevitabilmente verso un cancellierato e quindi un rafforzamento del potere esecutivo. Si può fare e forse sarebbe anche utile, purché venga riscritta l’architettura dei contropoteri di controllo. Prima e non dopo.
Questo punto è essenziale per la democrazia e non può essere preso di sbieco: va affrontato di petto e - ricordiamolo - da un Parlamento i cui membri, specie in questioni di questa natura, sono liberi da ogni vincolo di mandato e debbono esprimersi a viso aperto, visto che agiscono come rappresentanti del popolo sovrano.

Corriere 29.6.14
Ciò che Renzi ancora non ha
di Ernesto Galli della Loggia


Non una battaglia contro agguerriti schieramenti politici ma lo scontro con pezzi importanti di società autonomamente in campo: ecco che cosa annuncia l’avvenire a Matteo Renzi. La sua azione di governo, infatti, se appare destinata in caso di successo a conquistare sempre più quote significative di elettorato moderato di tradizione anticomunista e al tempo stesso di elettori della sinistra radicale e di 5 Stelle — e dunque a garantirgli una relativa tranquillità nell’ambito del Parlamento e dei partiti — invece incontrerà presumibilmente un’opposizione sempre più forte a livello della società. Qui, infatti, tutto ciò che si sente minacciato di «rottamazione» — dalla burocrazia alle magistrature, dalle corporazioni professionali e sindacali alle vecchie oligarchie bancario-imprenditoriali, dai vari interessi protetti alle «cricche» che da decenni paralizzano e dissanguano il Paese — tutti questi pezzi di società costituiranno il vero, futuro nemico di Renzi.
La sua sarà più o meno la stessa situazione, sia pure con contenuti diversissimi, in cui venne a trovarsi vent’anni fa Silvio Berlusconi. Non a caso: dal momento che tanto quella di Berlusconi che quella di Renzi sono state nella sostanza due grandi operazioni di ridefinizione profonda della geografia politica del Paese, potenzialmente ostili verso i poteri tradizionali e in vista di una radicale frattura rispetto al passato. Entrambe capaci di ottenere un immediato consenso elettorale, ma entrambe bisognose, per mettere radici e dare i loro frutti, di tradurre tale consenso — con ciò che di caduco ha sempre il consenso elettorale — in qualcosa di più solido e più ampio: cioè in un consenso ideologico-culturale, in un’idea-forza: la sola cosa capace d’indurre una società a cambiare davvero. Da sola capace di avere ragione degli interessi ostili.
Berlusconi non ha mai neppure intuito una tale necessità. Ha sempre pensato che per governare a lungo un Paese, addirittura per cambiarlo (come forse in qualche suo trasalimento iniziale pure si proponeva), bastasse vincere le elezioni. Si è visto il risultato.
Come invece in questo campo si muoverà il nuovo presidente del Consiglio nessuno può dirlo. Ciò che si può dire è che ancor più di quando dopo il terremoto di Tangentopoli la destra arrivò per la prima volta al potere, oggi l’Italia, proprio l’Italia che si è riconosciuta in Renzi, sente il bisogno di una svolta profonda, di cambiare regole e mentalità. Essa sente soprattutto il bisogno di ritrovarsi. Sfibrata dalla crisi economica e avvilita dai continui scandali, nel suo intimo anela a un soffio potente di aria nuova. Ma per far ciò questa Italia ha bisogno di riacquistare fiducia nel suo genio, di ricostruire un’idea del proprio significato e del proprio ruolo nel mondo, di alimentare la propria volontà e il proprio spirito cominciando con il riacquistare un rapporto con il proprio passato, e con ciò la consapevolezza delle proprie potenzialità. Anche per questo — sia detto incidentalmente — ha bisogno di più scuola, di diventare più istruita.
C’è una relazione profonda, infatti, tra il nostro declino degli ultimi venti anni e la circostanza che sì e no un italiano su due legga nell’arco di dodici mesi almeno un libro (un solo libro!), o che nella Penisola si registri ancora oggi un tasso elevatissimo di abbandono scolastico.
Ma la politica lo capirà? Capirà che perché muti il futuro deve mutare il passato? Che ad esempio ciò che oggi serve per cambiare la coscienza del Paese è innanzitutto una nuova narrazione dell’Italia? E capirà che essa non può sottrarsi al compito di impegnarsi in un’opera di direzione culturale in tal senso?
Certo, non bisogna scherzare con le parole; ma neppure averne paura. E dunque sì: una direzione culturale che veda la politica protagonista. Per carità: non si tratta di auspicare che questa detti la linea alla cultura stabilendo i contenuti delle sue produzioni, bensì che si muova con decisione lungo due direttrici. Per prima cosa approntando gli strumenti nuovi e insieme rinvigorendo tutte le occasioni, le istituzioni, le sedi, nelle quali possano crescere gli studi, prendere forma o diffondersi i nuovi saperi del mondo e sul mondo; moltiplicando i luoghi in cui il maggior numero di cittadini possa fare esperienza delle immagini, delle idee, delle emozioni utili a far loro conoscere qualità e peculiarità del nostro passato come del nostro presente. Dall’altro lato chi governa non deve aver paura di manifestare gli obiettivi ideali e culturali, i valori — sì, i valori — cui legare direttamente il proprio impegno politico — oggi penso specialmente al merito, all’eguaglianza delle opportunità, all’identità nazionale, all’amore per la conoscenza — e impegnarsi a perseguirli adoperando in modo incisivo tutti i mezzi di governo che ha lecitamente nelle mani.
L’esecutivo dispone — direttamente o indirettamente, attraverso il finanziamento — di un imponente apparato di strumenti nel campo dell’azione culturale: dall’istruzione alla comunicazione, dall’editoria allo spettacolo. Strumenti che languono ingabbiati da leggi paralizzanti, oppressi da pratiche consociative e spartitorie ad uso di chi ci lavora o li usa per il proprio tornaconto, in mano spesso a cricche sindacali o a reti di veri e propri manutengoli. Gestiti il più delle volte da personale demotivato, affidati alla guida di esponenti politici o personalità intellettuali e professionali di serie B.
Da anni il ministro dell’Istruzione non s’interessa affatto di che cosa s’insegni ma al massimo di come. Si occupa in pratica di due cose sole: di come immettere nei ruoli decine di migliaia di precari, e d’introdurre lavagne luminose e aggeggi simili nelle scuole. In placida contemplazione della rovina del sistema dell’istruzione superiore, provocata dall’autonomia degli atenei e dalla mancanza di soldi, non rivendica neppure il potere, chessò, di chiudere qualcuna delle svariate decine di università in eccesso, di livello mediocrissimo, disseminate nella Penisola, le quali assorbono risorse molto meglio utilizzabili altrove. Il ministero dei Beni culturali, dal canto suo, è stato fino ad oggi gestito burocraticamente (per la verità da un solo alto burocrate in veste di mammasantissima permanente); bene che vada riesce a mantenere in piedi alla meglio il nostro patrimonio, ma nulla di più. Da decenni in Italia non viene inaugurato un grande museo, una grande biblioteca, una grande istituzione di cultura di respiro nazionale, e a Roma, per esempio, si sono aperti ben due ridicoli musei di arte contemporanea (il Maxxi e il Macro) mentre con minore spesa poteva essere messo in sicurezza per sempre un tesoro inestimabile come la Domus Aurea. La Rai, dal canto suo, è da tempo immemorabile l’ombra di ciò che fu; mentre il cinema italiano, escluso qualche raro bagliore, è sempre più una commediaccia senz’anima che non sa più raccontare il Paese profondo. E mi fermo qui per non farla ancora più lunga.
Questo insieme d’organismi, tutti all’incirca alimentati in un modo o nell’altro dalla sfera pubblica e ad essa collegati, oggi vive solo per sopravvivere. Esso opera in maniera totalmente scoordinata, non obbedisce ad alcuna idea ispiratrice, non ha alcun progetto, non trasmette alcuna visione generale. Politicamente non serve a nulla. Si badi: politicamente non significa il governo in carica, significa la polis , la comunità dei cittadini. Significa che tutto questo insieme di organismi non serve al Paese, non lo aiuta a riprendere in mano il filo della propria storia, a ritrovarne il senso, e tanto meno a tracciarne le possibili proiezioni nell’oggi e nel domani. Le cose stanno così perché la democrazia è convinta che intervenire nel campo della cultura non possa che equivalere a un intervento comunque condizionante se non coercitivo. Pensa che se s’inoltra sul sentiero della cultura essa è condannata a seguire le orme dei totalitarismi. Ma ha dimenticato che nella sua stessa storia, nella storia della democrazia — per non dire di quanto fu capace l’Italia liberale nei primi decenni dopo l’Unità — c’è anche l’America di Roosevelt, con il suo straordinario fervore d’iniziative culturali pensate e volute da Washington, che furono tra i segni più significativi della rinascita degli Stati Uniti.
Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.

l’Unità 29.6.14
Eterologa, Lorenzin si muova per garantire un diritto
di Laura Puppato


IL 24 GIUGNO, ASSIEME ALLE SENATRICI MATTESINI E DEBIASI, HO DEPOSITATO IL TESTO DEFINITIVO DI UNA MOZIONE SULLA PMA (procreazione medicale assistita) di tipo eterologo. Ci siamo rese conto immediatamente, dopo il deposito della sentenza della Corte Costituzionale e grazie all’ausilio di valenti esperti, della necessità di intervenire velocemente, per via esecutiva e regolamentare, così da rendere fin da subito questo diritto realizzabile nel pieno del suo significato e con i necessari criteri di trasparenza e tutela di donatori e riceventi.
La sentenza, che ha abrogato il divieto di fecondazione assistita di tipo eterologa (ovvero la fecondazione assistita nel caso in cui uno dei coniugi sia sterile e quindi si debbano utilizzare gameti di un donatore esterno alla coppia) giunge come evento rivoluzionario, ma non inaspettato. Fino a questo momento la legge 40 dal 2004, e quindi per ben 10 anni, aveva creato un’incredibile disparità, tutta italica. Tanto più era grave la patologia (in questo caso la sterilità), minore era la possibilità di avere assistenza da parte del sistema sanitario.
In termini di principio costituzionale e di logica umana, dovrebbe essere il contrario, per questo dove non è arrivata colpevolmente la politica fino a ieri, giunge la Corte. Per fare un esempio: il sistema fino a questo momento ha funzionato come se il paziente con l’influenza venisse ricoverato in ospedale, mentre al paziente con una malattia grave, come un tumore, fossero precluse le cure. Oltre al significato giuridico e tecnico, c’è dunque una grande valenza politica in questa sentenza. Ogni 100 coppie europee che si spostano dal proprio Paese per accedere alla fecondazione eterologa, ben 31 sono italiane, stiamo parlando di migliaia di cittadini italiani costretti a sobbarcarsi lunghi e costosi viaggi, con spese che vanno da un minimo di 2500 euro fino a raggiungere gli 8000. I dati sono in questo caso emblematici della condizione italiana: il 63% delle coppie che hanno chiesto di avere accesso alla fecondazione eterologa in Spagna, sono nostri connazionali. Di fatto, si potrebbe dire che abbiamo contribuito fortemente a mantenere il sistema sanitario spagnolo. Dobbiamo concludere che il sistema politico non è stato in grado di recepire una forte richiesta che veniva dai cittadini, né tanto menole indicazioni chiare che venivano dall’Europa, tramite la Corte dei diritti di Strasburgo e le direttive che pure abbiamo recepito. Oggi dunque, l’Italia fa un bel passo avanti grazie ai giudici e alla ministra della salute Beatrice Lorenzin spetta il compito di rendere chiari e definitivi i meccanismi operativi, senza porre altro tempo in mezzo e senza opacità di condizioni. Di qui la nostra puntuale richiesta.
Risulta evidente il ritardo cumulato in 10 anni sui temi etici e dei diritti, l'arretratezza più che l'incapacità del legislatore si è manifestata nella sua interezza e pone in agenda l’urgenza di attuare rapidamente le riforme sui diritti individuali e di coppia che in questa legislatura si vanno via via delineando, così da aumentare il livello di civiltà raggiunta ma anche l'efficienza del sistema pubblico italiano. Da lenti e pensosi come tartarughe a lesti e precisi come lepri. Alcuni commentatori dell’area cattolica hanno parlato di una disgiunzione tra genitorialità biologica e giuridica. Ciò, interpretato in senso stretto, è vero, ma non è la prima forma di famiglia in cui questo avviene. Lo Stato - e proprio come cattolica non posso che convenirne pienamente - riconosce il legame affettivo come base della famiglia e il massimo esempio di questo si ha nelle adozioni. Le due situazioni sono analoghe, nel momento in cui la genitorialità biologica viene meno, c’è una genitorialità affettiva che la sostituisce, senza creare alcun corto circuito etico. In questo momento la necessità di primaria importanza è garantire che il diritto alla famiglia sia esteso al suo massimo potenziale, tramite regolamenti che sappiano cogliere la novità della sentenza e il carattere dinamico di questi fenomeni che nella società assumono via via maggior rilievo e sempre maggior naturalezza. Da qui l’importanza della mozione che chiede al Governo, specialmente al ministero della Sanità, di agire bene e velocemente, in particolare con l’inserimento della Pma di tipo eterologa nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), così da poterne usufruire nelle strutture sanitarie pubbliche.

il Fatto 29.6.14
Perché la tortura non è reato
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, leggo un po’ dappertutto che in Italia non esiste il reato di tortura perché le polizie si oppongono. Cioè Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza si oppongono in tutti i modi. È vero?
Nadia

LO LEGGO ANCH’IO ogni volta che si torna a discutere del problema (che è grave e urgente) e me lo sentivo dire da colleghi deputati e senatori quando ero in Parlamento. Spiegavano, sussurravano o tuonavano (secondo l'inclinazione politica, ma anche con diverse intonazioni dentro lo stesso partito) che mai e poi mai si sarebbe potuta fare una legge contro la tortura perché le Forze dell'ordine non volevano una simile legge. Non ci credevo allora e non ci credo adesso. Solo i Radicali appoggiavano l’urgenza della legge e il doppio argomento che condivido. Una legge sulla tortura difende i cittadini e difende la polizia. Adesso mi sembra chiaro, addirittura evidente che poche persone nelle varie polizie hanno trovato agganci alla Camera e al Senato, diffondendo la leggenda secondo cui una simile legge avrebbe a) offeso la Polizia, b) favorito il moltiplicarsi di denunce false come espediente di difesa, c) avrebbe limitato la capacità di azioni adeguate ed efficaci degli agenti in casi di grave necessità. Cerco di spiegare perché non può essere vero, e perché è il rifiuto della legge, e non la legge, che offende la Polizia, come se la polizia volesse la libertà di abbandonarsi alla violenza. È un pensiero insultante e la prova è semplice. I casi dolorosi e barbari in cui si può legittimamente parlare di tortura (da Cucchi ad Aldrovandi, da Uva a Magherini) ci sono purtroppo. Ma sono più rari delle prodezze di bravi cittadini che all'improvviso diventano pirati della strada, falciano sulle strisce mamme e bambini, e si allontanano senza prestare soccorso e senza autodenunciarsi. Ma quando i casi di maltrattamenti violenti e mortali ci sono, e la storia raggiunge un giudice, la materia (dai maltrattamenti alla morte) rimane difficile da giudicare perché manca la definizione giuridica di quegli atti e lascia tutto in bilico tra voluto, possibile e accidentale. La pragmaticità americana ha trovato una definizione semplice e precisa: maltrattamento insolito e crudele. Chi si oppone? Evidentemente i pochi e i violenti che hanno compiuto o potrebbero compiere simili atti. Chi non ha niente da obiettare alla legge sulla tortura che c'è in ogni Paese civile? Tutti gli altri, i moltissimi che, anche in situazioni difficili e pericolose, non hanno mai violato leggi, dettami e buon senso umanitario in migliaia di interventi, di azioni, di impegni, di contenimento del disordine violento. Sono tanti coloro che non sono mai stati accusati o anche solo indicati dai cittadini come colpevoli di abusi e violenze, e pochi (ma liberi di essere recidivi) coloro che hanno commesso atti che i cittadini non possono dimenticare. Una legge sulla tortura protegge da un lato i cittadini dalle iniziative per cui è prevista una condanna. Ma, dall'altro, protegge i carabinieri e agenti delle diverse polizie che in quella legge trovano definizione e garanzia del loro comportamento e nella condanna di quella legge non incapperanno mai. Infatti anche adesso non si abbandonano e non si sono mai abbandonati al comportamento crudele e incivile. Hanno ragione i Radicali. Per il solo fatto di esistere, quella legge sarà la difesa più forte del prestigio e della reputazione delle polizie democratiche.

il Fatto 29.6.14
Tra il 6 politico e le mani addosso: dov’è finita la funzione della scuola?
di Silvia Truzzi


AL LICEO Telesio di Cosenza succede quanto segue: una ragazza viene bocciata al primo anno e i genitori di lei non la prendono bene (cosa indubbiamente comprensibile). Cosa fanno? Rimproverano la figlia? Non proprio. Si precipitano, in spedizione punitiva, a scuola chiedendo un colloquio con il preside, che però in quel momento è assente. Si presenta allora la vicepreside, Rosanna Gallucci, che prova a spiegare i motivi della decisione. Ma i genitori non sono soddisfatti e la aggrediscono.
No, non verbalmente. Il papà, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, avrebbe fatto da "palo" sulla porta, la mamma (con la proverbiale dolcezza materna) sarebbe passata alle vie di fatto, procurando alla professoressa ferite giudicate guaribili in 25 giorni. L’avrebbe presa per i capelli e buttata a terra, colpita alla testa e allo sterno con calci e pugni. La coppia è stata denunciata per aggressione, lesioni personali e violenza a pubblico ufficiale. Uno dice: poverina questa ragazzina, chissà che imbarazzo. Invece guardate che scrive su Facebook la fanciulla: “La Gallucci è stata sistemata, ora tocca agli altri”. E ancora: “L’anno prossimo tornerò per darvi fastidio”.
IL PRESIDE ha raccontato il percorso scolastico della studentessa: “Si era iscritta a settembre prima al liceo scientifico, poi all’istituto alberghiero e solo a febbraio era arrivata al nostro liceo europeo, che è particolarmente impegnativo. Fin dall’inizio ha mostrato difficoltà, ma l’abbiamo aiutata mettendole un insegnante per aiutarla a prepararsi nelle materie che le risultavano più difficili. Non ha mai mostrato grande voglia di studiare”. Al di là del gesto inqualificabile di mettere le mani addosso a qualcuno, colpisce molto l'incapacità di accettare la responsabilità e le conseguenze dei comportamenti: non studio, mi aspetto di essere promossa. Per questo desta molta perplessità un’altra notizia che arriva dalla Francia, dove è stata annunciata l'abolizione dei brutti voti. “Secondo il ministro dell'Istruzione francese bisogna essere più ‘clementi’ con i ragazzi, incentivarli anziché scoraggiarli” , scrive Anais Ginori su Repubblica. Un sei politico che garantisce la sufficienza a tutti.
L’argomento scuola è molto complesso, ma deve per forza esserci una via di mezzo tra il voto politico (che, durante gli anni della contestazione, nell’Università italiana ha fatto danni sufficienti e permanenti) e la selezione darwiniana. Le basi culturali della scuola dell’obbligo non sono un optional, in quadro più generale di “formazione della persona”, sono una condicio sine qua non, rispetto al proseguimento degli studi. La tesi che tanto è piaciuta ai nostri politici (come l’indimenticabile ministro Berlinguer) secondo cui lo studente va trattato come un cliente, come si vede ha prodotto meraviglie. Come ha detto una volta Claudio Magris, intervistato da questo giornale: “Il cliente per definizione ha sempre ragione. Se io vado al ristorante e sui maccheroni al posto del formaggio chiedo lo zucchero, il cameriere me lo porterà. Ma se uno studente mi dice che Dante ha scritto I promessi sposi, mica posso dirgli ‘In genere no, ma per te sì’”.

La Stampa 28.6.14
“Credo che la Franzoni sia innocente”
Parla Don Nicolini che l’ha seguita nel lavoro esterno al carcere fino a giovedì scorso, quando le è stata riconosciuta la detenzione ai domiciliari
intervista di Franco Giubilei

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La Stampa 29.6.14
Bancomat obbligatorio sopra i 30 euro. In vigore da domani
Senza sanzione la regola nasce azzoppata
di Paolo Baroni

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l’Unità 29.6.14
Più cure per i rifugiati
Alle vittime delle tortura per ora ci pensa il Nirast


È un network italiano per richiedenti asilo nato con quattro obiettivi: garantire la corretta identificazione, riabilitare, migliorare la qualità del Sistema di Protezione e monitorare la situazione

OCCORRE FARE DI PIÙ PER AIUTARE LE VITTIME DELLA TORTURA. LO HA RICORDATO PAPA FRANCESCO POCHI GIORNI FA, ALL’ANGELUS IN PIAZZA SAN PIETRO. Lo hanno ribadito giovedì scorso, 26 giugno, Romano Prodi e Laura Boldrini, in occasione della giornata internazionale dedicata, per l’appunto, alle vittime della tortura. Ce lo impone l’Europa: entro il 20 luglio 2015 tutti i 28 Paesi membri dell’Unione dovranno approvare una legge che garantisca non solo le cure mediche più adeguate alle persone che hanno subito tortura ma garantisca anche la formazione di medici e infermieri capaci di curare al meglio queste persone.
Il problema non è affatto marginale. Il numero di rifugiati che giungono in Europa è notevole ed è in rapido aumento. Le richieste per ottenere lo status di rifugiato avanzate in uno dei 28 paesi dell’Unione sono state 435.000 nel 2013. Centomila in più rispetto al 2012, quando erano state solo (si fa per dire) 335.000. Ebbene, secondo i dati forniti dal Nirast (Network Italiano per i Richiedenti Asilo Sopravvissuti a Tortura), tra il 20 e il 30% dei rifugiati ha subito un’esperienza di tortura e di grande violenza. Il che significa che lo scorso anno sono giunte in Europa da 90 a 130mila persone che hanno subito torture. E che vanno curate, al meglio delle conoscenze scientifiche e mediche disponibili. I traumi da violenza estrema, come stupri o altri abusi, e da tortura sono diversi. Molti di natura fisica, ovviamente. Ma forse i più profondi sono quelli psichici. Intanto sono molto diffusi: tre persone su quattro, il 75%, delle persone sopravvissute alla tortura soffrono di una patologia chiamata «disturbo post-traumatico complesso ». Si tratta di disturbi che non sono semplici né da diagnosticare (spesso sono confusi con altre malattie, come la schizofrenia o le psicosi) né da curare. E, sostengono i medici di Nirast, hanno costi sociali elevatissimi, perché determinano una scarsa integrazione e talvolta esplodono in «improvvise esplosioni distruttive », come rivela l’episodio dell’uomo che lo scorso anno a Milano con un piccone ha cercato di uccidere e ha ucciso delle persone incontrate in strada per caso.
Proprio questo episodio ci avvisa che il problema dei sopravvissuti a tortura non è affatto marginale neppure in Italia. Nel nostro paese sono presenti 70.000 rifugiati, il che significa che c’è un numero enorme, compreso tra 14 e 21mila, di persone che hanno subito violenze estreme e torture e che richiedono cure. Lo scorso anno ci sono state 28mila immigrati clandestini che hanno chiesto asilo nel nostro paese (erano stati 17mila nel 2012).Le domande accolte sono state 16.000. Il che significa che i sopravvissuti a tortura giunti nel solo 2013 nel nostro paese sono in numero compreso tra 3200 e 4500. Queste persone sono vittime innocenti e hanno diritto a terapie appropriate. E il nostro paese deve attrezzarsi, per identificarle correttamente e per curarle.
Come spesso succede, il ritardo che l’Italia deve colmare per mettersi al passo con il resto d’Europa è molto. Sono venticinque anni, per esempio, che l’Italia si è impegnata in sede Onu a emanare una legge penale sul reato di tortura. Ma il nostro Parlamento questa legge non l’ha ancora varata. E per questo dovremo difenderci, in autunno, davanti al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ma come spesso succede, il nostro Sistema sanitario nazionale è spesso all’avanguardia. Ne è prova l’esistenza del progetto Nirast, il Network Italiano per i Richiedenti Asilo Sopravvissuti a Tortura, promosso e sostenuto dal Centro per le Patologie Post-Traumatiche e da Stress dell’ Azienda Ospedaliera San Giovanni- Addolorata di Roma, dal Consiglio Italiano per i Rifugiati e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, con il supporto del Ministero dell’Interno (Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo). Il progetto ha portato alla creazione di una rete di Centri medico- psicologici del Sistema sanitario nazionale, con dieci centri diffusi su tutto il territorio nazionale (da Milano a Trapani, da Torino a Gorizia). La rete è coordinata dal Centro per le Patologie Post Traumatiche e da Stress dell’Ospedale San Giovanni di Roma.
Gli obiettivi principali del Nirast sono quattro: garantire la tempestiva e corretta identificazione, cura e riabilitazione dei richiedenti asilo sopravvissuti a tortura e traumi estremi; migliorare la qualità e l’efficacia del Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo; monitorare a livello nazionale la situazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati vittime di tortura; formazione delle equipe dei Centri Nirast.
Il coordinamento nazionale da parte del Centro del San Giovanni non è un caso. Presso l’ospedale romane esisteva, infatti, fino al 2012 un Ambulatorio per le Patologie Post Traumatiche e da Stress altamente specializzato, fondato e diretto dal professor Massimo Germani, capace di fornire le migliori prestazioni mediche e psicologiche a centinaia di sopravvissuti a torture. Per questa sua alta specializzazione l’ambulatorio era in grado di accogliere e trattare i casi più difficili provenienti da ogni parte del paese. Ed era il centro di riferimento per la formazione dei medici e degli infermieri nel cura delle vittime della tortura.
Nel 2011, ultimo anno di attività, l’ambulatorio ha effettuato quasi 1.400 visite e si è preso in carico 216 nuovi pazienti: il 38% del totale nazionale. Poi è stato chiuso dalla direzione ospedaliera. Ma di questo centro che è di clinica medica, di certificazione e di formazione l’Italia ha bisogno. E, anzi, da qui a un anno al massimo, sarà obbligata ad averlo. Per questo motivo Laurens Jolles, Delegato per il Sud Europa dell’Unhcr (l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) ha scritto al Presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: presidente, faccia tutto il possibile per riaprire quell’ambulatorio essenziale per il benessere di «una categoria di persone che necessitano e meritano di una particolare attenzione».

il Fatto 29.6.14
Immigrazione, Italia “soddisfatta”, ma l’asilo non c’è


QUANDO SI PARLA di immigrazione in Europa, l’Italia è sempre “soddisfatta”, nonostante le sue richieste siano sempre ridimensionate. Matteo Renzi si è detto appunto “soddisfatto” sull’intesa raggiunta al Vertice europeo, sull’immigrazione. “Siamo meno soli. Sono state messe le basi per poter finalmente dare vita a un Frontex plus, allargandone l'operatività, così come sta a cuore a noi e ai francesi, ma con la condivisione di tutti”, ha detto il premier al termine del Summit. L’Italia aveva spinto per inserire nelle conclusioni del vertice un paragrafo sul mutuo riconoscimento del diritto d’asilo. Questo passaggio è saltato all’ultimo, ma Renzi si è detto comunque soddisfatto, esattamente come Letta al Vertice di ottobre, quando si decise di posticipare le decisioni operative su Frontex al Consiglio appena concluso. “Bocciata la modifica ai trattati di Dublino, per consentire il trasferimento dei profughi nei Paesi di loro scelta. Arrivano in Italia e non possono uscirne. Renzi non ottiene nulla, ma forse non l’ha nemmeno chiesto”, ha commentato Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera.

il Fatto 29.6.14
Il dopo-Junker
Piccoli uomini d’Europa contro il resto del mondo
di Furio Colombo


QUANDO SI PARLA di immigrazione in Europa, l’Italia è sempre “soddisfatta”, nonostante le sue richieste siano sempre ridimensionate. Matteo Renzi si è detto appunto “soddisfatto” sull’intesa raggiunta al Vertice europeo, sull’immigrazione. “Siamo meno soli. Sono state messe le basi per poter finalmente dare vita a un Frontex plus, allargandone l'operatività, così come sta a cuore a noi e ai francesi, ma con la condivisione di tutti”, ha detto il premier al termine del Summit. L’Italia aveva spinto per inserire nelle conclusioni del vertice un paragrafo sul mutuo riconoscimento del diritto d’asilo. Questo passaggio è saltato all’ultimo, ma Renzi si è detto comunque soddisfatto, esattamente come Letta al Vertice di ottobre, quando si decise di posticipare le decisioni operative su Frontex al Consiglio appena concluso. “Bocciata la modifica ai trattati di Dublino, per consentire il trasferimento dei profughi nei Paesi di loro scelta. Arrivano in Italia e non possono uscirne. Renzi non ottiene nulla, ma forse non l’ha nemmeno chiesto”, ha commentato Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera.

Corriere 29.6.14
Ha guadagnato cento milioni, avora anche per i dittatori
Superazienda Blair Spa
Dall’Albania ad Abu Dhabi, la dolce vita da consulente
di Fabio Cavalera


ONDRA — Un vecchio amico come Robert Harris lo ha ripudiato. «Non lo riconosco più». Il giornalista che scrisse «The Ghost», il libro fra realtà e finzione che narra la storia di un premier britannico chiamato a rispondere di crimini di guerra (poi divenuto film di Roman Polanski, «L’uomo nell’ombra»), era un fedele «partigiano» di Tony Blair. Il sodalizio si è rotto da tempo.
Qualche giorno fa, sul Guardian , Robert Harris ha scaricato addosso all’ex leader britannico nuovo veleno: «È un narcisista con il complesso del Messia e ha commesso un peccato mortale voltando le spalle alla politica per cui si è battuto per abbracciare la causa dei ricchi». Può essere che fra i due vi sia qualche questione personale rimasta in sospeso ma le parole di Robert Harris riassumono il pensiero di molti laburisti.
Il problema non è soltanto che Tony Blair appoggiò Bush nella guerra in Iraq, passando sopra la maggioranza pacifista del partito: un capo di partito e di governo ha il diritto, assumendosene poi la responsabilità, di decidere per propria intima convinzione che i despoti vadano eliminati con la forza, congelando le diplomazie. Il problema è anche che Tony Blair ha costruito un piccolo impero economico che si alimenta di ricche consulenze a governi che democratici non sono, a banche d’investimento, a fondi sovrani. Dov’è finito il Blair di una volta?
È destino che i grandi leader spacchino le platee. Il coraggio di prendere posizione, che piaccia o non piaccia, si paga a caro prezzo. A Tony Blair questa virtù non è mai mancata. Anzi. Ma oggi le critiche più pesanti che gli arrivano sono di altra natura e riguardano quei milioni di sterline che entrano nella fondazione, la «Tony Blair Associates», e nelle società a essa collegate. Tutto alla luce del sole. Fin troppo. Perché con sicura baldanza (e se la può permettere) Tony Blair gira il mondo dando consulenze agli arabi, ai palestinesi, alle potenze asiatiche, alle capitali europee. Gli affari vanno a gonfie vele, a tal punto che ha deciso di aprire un ufficio ad Abu Dhabi per rafforzare il suo ruolo nel Medio Oriente. «C’è una chimica speciale e particolare fra Tony e lo sceicco Mohammed bin Zayed», ha spiegato un collaboratore di Blair. I due condividono una forte opposizione all’islamismo integralista. Ma condividono pure le poltrone in uno degli scrigni del piccolo Stato, il Mubadala, ovvero uno dei fondi d’investimento controllati dall’emirato.
Abu Dhabi è l’ultimo capitolo della saga. A cavallo fra politica e affari, Tony Blair si destreggia con indiscutibile cinismo. La lista ufficiale dei contratti è di tutto rispetto. Il Financial Times ha scoperchiato l’altarino dei due milioni e mezzo di sterline annui versati dalla banca d’affari JP Morgan. Poi ci sono le collaborazioni con il governo brasiliano, con i governi africani (Ruanda, Liberia, Sierra Leone), con gli esecutivi di Albania e Romania, con il dittatore kazako Nazarbaev, con la Mongolia, con il Kuwait, con gli Emirati Arabi Uniti. L’uomo che fu l’architetto del nuovo laburismo è un consigliere fidato per le riforme politiche ed economiche, per gli investimenti, per i megacontratti petroliferi. Una rete capillare di lavori e commissioni.
L’esperienza, l’intelligenza, l’abilità dell’ex premier laburista si acquistano a peso d’oro. Chi ha provato a fare i conti in casa Blair sostiene che le entrate sfiorino i 100 milioni di sterline. Sparare a zero contro Tony Blair è diventato uno sport nazionale nel Regno Unito. Non c’è riconoscenza. È però sicuro che dal 2007 (l’addio a Downing Street) a oggi le sue finanze si siano gonfiate. Non è una colpa. Quanti prima lo vedevano come un condottiero invincibile, forse ne invidiano la scaltrezza e non tollerano il «tradimento». Ma, al di là delle polemiche sul tesoro accumulato, il vero punto debole di Tony Blair è il conflitto d’interessi. Lui ha ricevuto il mandato dal «Quartetto» (Unione Europea, Russia, Nazioni Unite, Stati Uniti) di mediatore in Medio Oriente. Delicato incarico politico e diplomatico. La domanda è semplice: può il consulente di una delle parti in causa (i governi arabi) essere equidistante leader capace di comporre il conflitto più lungo della storia? C’è chi spinge per il «licenziamento» di Tony Blair da quel ruolo affidatogli dal «Quartetto». Frettolose suggestioni. Ma Tony Blair dovrà scegliere. O fa il lobbista-consulente privato. O resta una risorsa per la diplomazia e la politica internazionale. L’ambiguità è il virus dell’ultimo Tony Blair.

Corriere 29.6.14
Addio agli anelli, il muro rinasce a Est
di Giuseppe Sarcina


Secondo i più pessimisti tra non molto il nuovo confine dell’Europa sarà segnato dai 2.290 chilometri del fiume Dnipro, la porta dell’Est Ucraina. Un’altra corrente di pensiero, forse maggioritaria, guarda con fiducia la foto del 27 giugno che ritrae a Bruxelles il neo presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, festeggiato come un campione olimpico da José Manuel Durão Barroso e da Herman Van Rompuy, numeri uno della Commissione e del Consiglio europeo. Hanno appena firmato l’accordo di associazione tra Ue, Ucraina, Moldavia e Georgia. L’appoggio dell’Unione Europea, sostengono gli ottimisti, garantirà l’integrità del Paese, al netto del taglio ormai irreversibile della Crimea.
All’immagine di Bruxelles, però, bisognerebbe affiancare quella del 29 maggio scorso, il giorno in cui è nata ufficialmente l’unione doganale tra Russia, Kazakistan e Bielorussia, con Armenia e Kirghizistan che dovrebbero aderire nei prossimi mesi. Nei piani del presidente russo Vladimir Putin a quell’appuntamento si sarebbe dovuta presentare anche l’Ucraina.
In ogni caso gli avvenimenti dell’ultimo mese spediscono in archivio l’ambizione (o l’illusione) coltivata dall’Unione Europea (e in parallelo dalla Nato) di poter estendere la propria sfera di influenza fino alla Russia. Un disegno nato agli inizi del Duemila con la messa a punto teorica e pratica della dottrina dell’allargamento ineluttabile verso Est. Il progetto della Super Europa metteva d’accordo i disegni egemonici della nuova Germania e gli interessi economici della Gran Bretagna. Due spinte che ben si sposavano con le aspirazioni degli Stati appena fuoriusciti dall’orbita dell’Unione Sovietica. La strategia del «ritorno nella Casa europea» raggiunge il suo culmine nel 2004 con l’ingresso nel Club Ue del blocco dell’Europa orientale, dalla Polonia alla Lituania.
Da quel momento le istituzioni di Bruxelles, ispirate dall’asse Parigi-Berlino e, per l’occasione appoggiate anche da Londra, si sono sentite autorizzate dalla Storia, se così si può dire, a rivoluzionare gli equilibri e i confini sostanziali del Vecchio Continente, ereditati dalla Seconda guerra mondiale.
L’idea, implicita, era di passare dallo schema bipolare Occidente-Oriente a uno monopolare: al centro Bruxelles (ma si deve intendere Berlino-Parigi-Londra) e poi via via una serie di anelli, fino ad arrivare a Mosca. «Ring of friends», come diceva Romano Prodi, quando era presidente della Commissione europea (1999-2004).
L’anno della frattura è il 2005. Il «no» degli elettori francesi e olandesi al referendum sulla Costituzione europea segna anche la fine della politica missionaria di allargamento. O meglio, da quel momento in avanti si abbandonerà il sogno di cambiare la cartina politica dell’Europa e si procederà solo a «svuotare i cassetti», accettando ingressi già pianificati (la Croazia nel 2013).
Un esito soddisfacente anche per Vladimir Putin, che in quegli anni plasmava il suo regno con la formula tipica dei regimi autoritari illuminati (anche se può sembrare un ossimoro): innovazione nella finanza, apertura nell’economia per attirare capitali stranieri; restaurazione nella società ripescando i valori della tradizione russa più profonda. Da allora il modello unipolare ed eurocentrico sfuma lentamente e ricompaiono più o meno i confini precedenti alla sovietizzazione dell’Est. Le antiche tensioni, però, lasciano spazio all’integrazione economica sempre più stretta tra Ue e Mosca: i gasdotti, l’import-export, gli investimenti immobiliari.
Tutto bene fino a quando non si presenta l’occasione per portare alla luce la contraddizione latente, cresciuta all’interno dell’Unione Europea, dopo il fatale 2005. La Polonia, in particolare, non ha mai rinunciato all’idea che, prima o poi, anche i confratelli dell’Ucraina sarebbero stati accolti nella «Casa europea». Ma nessun altro Paese in Europa, a cominciare dalla Germania di Angela Merkel, ha mai considerato realistica la prospettiva di spezzare il nuovo equilibrio dei confini, integrando un Paese vasto come la Francia. Da questo equivoco è nata la rivolta di Kiev nel novembre del 2013. Il movimento di Maidan ha creduto che l’accordo di associazione costituisse davvero la premessa di un futuro da partner ufficiali nell’Unione Europea, mentre, invece, è solo una questione di commerci, di standard industriali. Oggi, però, sette mesi e cinquecento morti dopo (mettendo insieme le vittime della capitale e quelle nell’Est Ucraina) sono saltati tutti i criteri codificati a Bruxelles. Non era questo naturalmente l’approdo che i negoziatori europei immaginavano nel 2008, quando si cominciò a discutere di «associazione» tra Kiev e Bruxelles. Di sicuro l’Europa è già tornata al vecchio modello bipolare. Mosca ha messo in campo tutti gli strumenti, diplomatici, economici (vedi Gazprom e la querelle sulle forniture di gas), militari per sganciare più Paesi, regioni, territori possibili dal «ring of friends» europeo.
Dovunque saranno tracciati, i nuovi confini saranno quelli di un’Europa tornata al pre 1989. Occidente (sia pure più largo) da una parte, Russia (più piccola) dall’altra.

La Stampa 29.6.14
Venti di guerra sulla Striscia di Gaza
L’esercito israeliano allerta la truppe
Nella notte l’aviazione ha colpito dodici obiettivi di Hamas e della Jihad islamica
di Maurizio Molinari

qui

l’Unità 29.6.14
Il libro
Sinistra-Israele: rapporto da ricostruire
di Massimo Adinolfi


PUÒ SEMBRARE UN PARADOSSO CHE LE ANALISI PIÙ APPROFONDITE E DETTAGLIATE DEL LIBRO DI FABIO NICOLUCCI, Sinistra e Israele. La frontiera morale dell’Occidente (Salerno editrice), siano dedicate alla destra, israeliana e americana, ma è un paradosso solo apparente. Perché è anzi proprio nella rottura operata nel discorso pubblico dai neoconservatori, che va ricercato il motivo di fondo, anzi l’urgenza politica che ispira il saggio: ricostruire il rapporto della sinistra con Israele, ripensare il sionismo e le sue origini socialiste, riconsiderare il destino dell’Occidente muovendo dalla sua parte più singolarmente esposta, lo Stato di Israele, ritrovare un rapporto più stretto con una delle fonti ultime di legittimazione dell’identità occidentale. La coppia di termini che forma il titolo del libro è oggi – e ormai da quasi cinquant’anni – fortemente divaricata, e il libro di Nicolucci aiuta a capire perché. Ricostruendo anzitutto le vicende storiche, ma dedicandosi con particolare attenzione allo scontro delle idee.
Non a caso il fulcro analitico del libro si trova nei due lunghi paragrafi dedicati a «Israele e la destra neoliberista» e alla «battaglia sul sionismo», a come cioè a partire dallo «snodo cruciale» della guerra dei Sei Giorni (1967) sia incubato quel vasto fronte ideologico che avrebbe poi guadagnato l’egemonia in Israele e negli Usa con la dottrina neocon: fortemente identitaria, fortemente interventista, fortemente manichea, capace di fornire una chiave di lettura globale della lotta al terrorismo, intrisa di moralismo e insofferente verso ogni forma di compromesso, di mediazione, di riforma.
Il libro di Nicolucci è davvero prezioso, non solo perché aiuta a ricostruire una fitta trama di idee che non è rimasta confinata nei circoli accademici ma si è tradotta in una dottrina geo-politica assai influente, capace di condizionare in profondità la politica estera americana (in particolare sotto la presidenza di Bush figlio), ma perché indica con cura quale sia stato il nucleo germinale della dottrina neocon, e cioè l’azione dapprima ideologica e organizzativa, poi direttamente politica dispiegata da Benjamin Netanyahu, attuale premier israeliano. L’interventismo neocon si è infatti saldato con – anzi, per molti aspetti è germinato da – una interpretazione identitaria e particolaristica dello Stato di Israele sostenuta dalla destra neoconservatrice israeliana, che si è riflessa anche sulla costruzione dell’occidentalismo in chiave di scontro di civiltà con il mondo islamico. Questa lettura fortemente «polemica» dei concetti politici, che accomuna tutti i teorici neocon, ha avuto in realtà la sua più intensa formulazione in Carl Schmitt. Il suo approfondimento richiederebbe dunque una rivisitazione del controverso rapporto fra il grande giurista tedesco, compromesso col nazismo, e il filosofo ebreo Leo Strauss, emigrato in America e nume tutelare dei neocon americani: così distanti per certi versi l’uno dall’altro ma, per altri versi, accumunati dalla medesima ossessione del moderno, cioè da una sostanziale sfiducia nelle deriva della modernità liberale, democratica e socialista. Nicolucci sceglie invece un’altra strada, più interna ai percorsi della storia e forse anche più fruttuosa, perché in grado di indicare un concreto orizzonte politico e non soltanto un fronte intellettuale. Alla fine del secondo capitolo, Nicolucci si sofferma infatti brevemente sul seme piantato nell’ebraismo americano da JStreet, movimento nato nel 2008 e cresciuto grazie alla sponda dell’amministrazione Obama. L’esperienza di JStreet corrisponde allo sforzo di ridefinire il campo politico del sionismo americano, per sottrarlo all’egemonia dei neoconservatori (sforzo che, peraltro, percorre anche il libro). Lo stallo attuale nel processo di pace israelo- palestinese ha reso problematico il tentativo, ma – commenta Nicolucci – «un prezioso seme è stato messo». Il punto è allora se si possa piantare un seme anche nella sinistra europea e italiana, ridefinendo le coordinate politico- ideologiche con cui da sinistra si guarda al conflitto israelopalestinese e all’intero scenario mediorientale. Nicolucci pensa che ciò sia necessario, e credo che abbia ragione. Credo abbia ragione anche nel rifiutare le chiavi di lettura di quel conflitto in termini di ricchi contro poveri, o di oppressori contro oppressi, così come credo che le abbia nello sterrare le radici dell’antioccidentalismo della sinistra, che affonda in uno scacchiere internazionale da tempo finito. La somma di queste ragioni rende infine ineludibile il confronto con la proposta politica avanzata nelle conclusioni: un «occidentalismo di sinistra» privo di connotazioni aggressive, imperiali o neocoloniali, ma capace di includere senza incertezze nel proprio perimetro storico e culturale Israele, proprio per poterne con maggiore legittimità criticarne le politiche. Non è un passaggio semplice, perché costringe a rivedere il principio dell’equidistanza che porta solo «all’indifferenza e al moralismo impotente»,maè per Nicolucci un passaggio ineludibile, se la sinistra non vuole condannarsi all’irrilevanza. Ed è forse anche un passaggio politicamente opportuno, se e finché permette comunque, come l’Autore ritiene, di considerare il conflitto israelo-palestinese come uno scontro non fra un torto e una ragione ma fra due ragioni. Contro i neocon e anche contro la vecchia sinistra, che condividono l’idea che a confrontarsi invece siano un torto e una ragione, anche se di quel torto e di quella ragione forniscono identificazioni opposte (e speculari).

Corriere 29.6.14
Subito un corridoio umanitario
Aleppo Città Aperta: non lasciamola morire nell’odio
di Andrea Riccardi


Subito un corridoio umanitario per aiutare la popolazione che sta soffrendo, fine dei combattimenti: è l’appello per «Aleppo città aperta» lanciato il 22 giugno dal fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi. Ai numerosi politici che hanno aderito in questi giorni, ieri si è unita l’Unesco. Il testo sul sito web della Comunità di Sant’Egidio.
Aleppo è da due anni nel cuore della battaglia. La più grande città della Siria è stretta in una morsa. Le forze di opposizione hanno bloccato l’erogazione dell’acqua e la gente ha riaperto i vecchi pozzi, spesso vicino a moschee o chiese. La popolazione — quasi due milioni di persone — è stremata. Non può uscire dalla città. Particolarmente non possono farlo i cristiani, perché Aleppo è in buona parte circondata da islamisti radicali. Dove sono il vescovo Gregorios Ibrahim, uscito da Aleppo in missione umanitaria con il vescovo Yazigi? Da più di un anno non si hanno notizie di entrambi. Gli aleppini sono presi in ostaggio, mentre i quartieri vengono colpiti da governativi e ribelli. Bisogna salvare Aleppo! È il senso dell’appello che ho lanciato qualche giorno fa. Non si può assistere rassegnati a quel che accade. La comunità internazionale è impotente di fronte a una guerra incancrenita, uno stallo tra governo e ribelli. Siamo piombati in un clima di rassegnazione tra veti incrociati e rituali diplomatici: sembra che non ci sia più speranza di pace per la Siria.
Salvare Aleppo può interrompere tanto dolore e evitare che sia distrutta una città, che conta una storia urbana continuativa di più di cinquemila anni. La città vecchia di Aleppo è patrimonio dell’umanità per l’Unesco dal 1986; ma ha subito danni gravissimi. Il minareto della splendida moschea degli Omayyadi (quasi mille anni) è stato atterrato. La cittadella aleppina — dove la leggenda racconta abbia sostato Abramo nel suo pellegrinare — è stata danneggiata. Il suk medievale con le migliaia di botteghe, testimone di una storia d’intensi scambi con l’Europa e l’Asia, è andato in fiamme. Non posso, in proposito, non ricordarmi di Paolo Dall’Oglio, prigioniero da mesi in Siria, quando anni fa mi accompagnava con il suo arabo incredibilmente fluente per il dedalo di quel suk. Si sta spazzando via un patrimonio culturale e monumentale unico, sedimentazione di tante civiltà. Per questo bisogna agire in fretta.
Soprattutto la popolazione soffre. Soffrono i circa 300 mila cristiani che guardano al futuro con angoscia: non hanno nemmeno una via di fuga come i loro (sfortunati) correligionari a Mosul in questi giorni. Aleppo, la città con più cristiani del Medio Oriente dopo Il Cairo e Beirut, era un luogo di convivialità tra religioni e etnie diverse, anche per la storica convivenza e l’indole della popolazione. Vivevano insieme arabi musulmani e cristiani, armeni, curdi, ma anche circassi e turchi. Nel 1915 Aleppo accolse gli armeni perseguitati e scacciati dalle regioni anatoliche, soccorse e nascose molti. Dopo la Prima guerra mondiale si è aperta ai rifugiati dalla Turchia, specie cristiani. Oggi al contrario chi può fugge in Turchia che ha attrezzato molti campi per i rifugiati.
Salvare Aleppo significa creare uno spazio di pace. Forse è un inizio nell’impossibile situazione siriana. Si dovrebbe verificare l’idea dei corridoi umanitari. Certo bisogna garantire un accesso stabile e sicuro alla città per le organizzazioni umanitarie neutrali. D’altra parte si deve consentire ai cittadini di uscire da Aleppo. C’è scetticismo tra i funzionari internazionali. Forse ci sono buoni motivi di perplessità: i governativi ribadiscono la loro sovranità sulla città, mentre è difficile trattare con ribelli frantumati e radicalizzati. L’appello per Aleppo è destinato a niente? Non credo. Silenziosamente, dopo un difficile negoziato, da qualche giorno il personale del Comitato internazionale della Croce Rossa è entrato a Aleppo portando acqua e cibo. Potrà restare una settimana. Un piccolo varco di speranza. Ma ci vuole ben di più! Per questo è necessario che il dramma di Aleppo non sia più ignorato e si facciano pressioni su chi vi combatte, sui Paesi coinvolti: dalla Turchia alla Russia. Nella sua lunga storia Aleppo ha conosciuto tante guerre, ma mai un conflitto così radicale che la sta annientando. Radicale e insensato. Non possiamo lasciare sola la gente di Aleppo!

Corriere 29.6.14
Dall’Iraq è partito il domino arabo
di Lorenzo Cremonesi


Uno dei punti di contrasto tra israeliani e siriani sulla definizione dei rispettivi confini nella Galilea settentrionale riguarda le mappe originali raccolte negli archivi di Francia e Inghilterra riferite agli accordi sulle frontiere coloniali dopo la Prima Guerra Mondiale e tracciate con matite color blu e rosso dalla punta troppo larga. Rapportate in scala reale, quelle linee diventano infatti larghe anche più chilometri sul terreno. Così, non è chiaro se la Siria abbia accesso alle acque del lago di Tiberiade nel suo settore Nord occidentale, come sostiene Damasco, oppure ne resti lontana almeno un chilometro verso le alture del Golan, come invece replica Israele.
Sembrano dettagli. Ma in realtà riassumono l’essenza dei problemi ereditati in Medio Oriente dagli assetti geo-politici dettati un secolo fa dalle potenze vincitrici sulle rovine dell’Impero Ottomano. Ora l’implosione dell’Iraq, la guerra religiosa tra sciiti e sunniti, la nascita de facto di uno Stato curdo, l’apparire di un’entità militante sunnita a cavallo tra Siria meridionale e province occidentali irachene ne sono le manifestazioni più evidenti.
Problemi enormi, causa di conflitti interminabili. All’origine sta una constatazione emersa chiaramente con lo scoppio delle «primavere arabe» nel 2011: la Grande Guerra in Europa giunse a conclusione solo dopo il 1945, ma paradossalmente in Medio Oriente resta aperta. Oggi larga parte del mondo arabo sta ridisegnando assetti, equilibri e soprattutto confini territoriali imposti dalle potenze vincitrici europee dopo le battaglie del 1914-18. Un fenomeno ancora più radicale della decolonizzazione dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Allora infatti i nuovi governi autoctoni, che fossero figli della rivolta algerina anti-francese o del colpo di Stato dei militari egiziani condotti da Gamal Abdel Nasser contro la monarchia filo-inglese, accettarono gli Stati nazionali così come definiti tre decenni prima. Ma adesso proprio quegli Stati, quei valori collettivi, vengono messi radicalmente in dubbio. Nascono nuove appartenenze, nuove aspirazioni nazionali. E’ una crisi identitaria profondissima, traumatica.
Per cercare di comprenderla occorre risalire ai patti segreti franco-britannici del marzo 1916, firmati rispettivamente da François Georges-Picot e Sir Mark Sykes, in cui Londra e Parigi si spartivano le «zone di influenza» con l’assenso di Mosca (poco più tardi i bolscevichi riveleranno al mondo quegli accordi trovati nelle carte del governo zarista). Soprattutto la Francia otteneva il controllo su Libano, Siria e di una fetta di Turchia meridionale. L’Inghilterra invece su Palestina, Transgiordania, Iraq e la «paternità» sull’Arabia Saudita. E intanto Londra pianificava di annunciare un «focolare ebraico» in Palestina in risposta alle crescenti pressioni del movimento sionista, visto allora come un potenziale alleato.
Circa un decennio dopo proprio quelle intese firmate «alle spalle degli arabi» verranno denunciate come un «tradimento» da Lawrence d’Arabia, l’ufficiale inglese che si era conquistato la fiducia dei grandi dignitari legati alla tribù degli Hussein (discendenti del Profeta) per creare un fronte anti-turco. «Era evidente, sin dall’inizio, che se avessimo vinto le nostre promesse sarebbero state carta straccia», scriverà nel suo libro-testamento, I Sette Pilastri della Saggezza , in cui emergono l’amarezza e il pentimento per aver avuto un ruolo centrale nella «rivolta araba». Tra i tanti disegni ventilati durante la Grande Guerra vi era quello di una «Grande Siria», che potesse includere Libano e Palestina. E persino la possibilità di uno Stato curdo indipendente comprendente Iraq settentrionale, Siria orientale e un pezzo dell’attuale Turchia sud-orientale.
Ma oggi proprio quei progetti stanno tornando all’ordine del giorno. La prospettiva della divisione dell’Iraq in tre Stati distinti è ormai molto reale. La Grande Siria sunnita, con il riferimento al Califfato, si estende al momento dalle propaggini occidentali di Bagdad a Mosul, Aleppo, Homs e Hama. A rischio implosione è anche la piccola Giordania, sempre più invasa dai profughi e presa di mira dagli estremisti sunniti. I curdi iracheni intanto si sono guadagnati sul campo il diritto allo Stato, cooperano con la Turchia e soprattutto hanno migliorato enormemente i rapporti con l’enclave curda in Siria. In modo violento e traumatico, il Medio Oriente sta infine scardinando i confini artificiali subiti cento anni orsono.

il Fatto 29.6.14
Usa troppi suicidi dal Golden Gate

Il Golden Gate Bridge di San Francisco sarà dotato di barriere di sicurezza per impedire i suicidi; costo dell’operazione, 76 milioni di dollari. Oltre 1400 persone si sono uccise, dal 1937 ai giorni nostri, gettandosi dal ponte, con un record di 46 suicidi nel solo 2013. LaPresse

Repubblica 29.6.14
Hong Kong, le multinazionali contro il voto
di Federico Rampini


NEW YORK. La democrazia disturba il capitalismo. Lo sostengono senza pudori i “big four”, i quattro colossi che si spartiscono il business mondiale della revisione dei conti e certificazione di bilanci. Con un appello pubblico, diffidano la popolazione di Hong Kong dal rivendicare libere elezioni. Si schierano con il governo di Pechino: l’autoritarismo come elemento di stabilità. I quattro firmatari sono Kpmg, Deloitte, Pricewaterhouse-Coopers, Ernst&Young.
Un cartello oligopolistico che si spartisce uno dei mercati più profittevoli del mondo: audit, consulenza fiscale e finanziaria per le multinazionali. Un business da 17 miliardi di dollari, un sesto del quale ormai proviene da clienti basati a Hong Kong, Cina, e dintorni. Per le aziende transnazionali, Hong Kong è stata sempre una piazza accogliente, anche dopo che l’isola ha cessato di essere una colonia inglese ed è diventata parte della Repubblica Popolare cinese (1997). Perciò guai a ”disturbare il manovratore”, in questo caso il governo di Pechino che ha consentito a capitalisti di ogni bandiera di fare i loro affari a Hong Kong.
Le proteste in corso, incluso un referendum, per ottenere elezioni libere a suffragio universale, sono proprio questo: un “disturbo” pericoloso. Le quattro società di certificazione dei bilanci hanno comprato pagine di pubblicità sui quotidiani locali in lingua cantonese.
Nella dichiarazione comune accusano i promotori della democrazia di «perturbare la Borsa, le banche e le attività finanziarie, provocando danni inestimabili all’economia ». Lo scenario descritto in quell’appello è catastrofico: «Le multinazionali potrebbero spostare i loro quartieri generali da Hong Kong, intaccandone il ruolo come centro finanziario globale». Le rivendicazioni di un voto democratico sono condannate come una «minaccia verso la legalità locale».
Interpellate a New York e a Londra, le case madri dei quattro colossi hanno ostentato ignoranza. La parola d’ordine: si tratta di un’iniziativa locale, decisa dalle sedi di Hong Kong, apparentemente senza consultare i loro quartieri generali in Occidente. È così che hanno scelto di farla apparire, evitando la traduzione inglese.
Troppo imbarazzante dover dare spiegazioni all’opinione pubblica occidentale. Ma l’appello certamente non è sfuggito al governo di Pechino che deve averlo considerato più che giusto; il documento dei quattro big serve a spaventare gli elettori di Hong Kong in una fase delicata.
Negli accordi siglati tra la Cina e l’Inghilterra ai tempi di Margaret Thatcher, la “cessione” dell’isola doveva accompagnarsi all’instaurazione di libere elezioni a suffragio universale, oltre al rispetto dello Stato di diritto. Questa seconda parte degli accordi e` stata applicata, tant’è che Hong Kong non viene sottoposta alla censura cinese. Ma il chief executive dell’isola (governatore) viene eletto da un gruppo di notabili manovrati da Pechino. Le libere elezioni sono rinviate, forse al 2017. Chi non vuole soggiacere ai diktat di Pechino sta partecipando in questi giorni a un referendum per designare il sistema elettorale futuro. Hanno votato già in 750 mila, sfidando le ire del governo cinese, che condanna il referendum come illegale. Adesso non è più il solo.

Corriere 29.6.14
Cina
La mappa per prendersi il mare
di Guido Santevecchi


Disegnatori e cartografi cinesi sono stati molto occupati di recente. L’ultima produzione è una mappa verticale della Repubblica popolare: sostituisce quella tradizionale, che si estendeva in orizzontale per rappresentare il Paese da Occidente a Oriente. Lunedì scorso, con una conferenza pubblica, è stata svelata la nuova versione che comprende il mare a Sud. Si tratta di un maquillage geo-politico, perché per decenni quell’area era stata relegata in un inserto quadrato al piede della carta, in proporzioni ridotte rispetto al continente. «La nuova mappa verticale mostra tutta l’estensione del territorio della Cina», ha scritto il Global Times , quotidiano in lingua inglese del governo di Pechino.
Nel Mar Cinese Meridionale, che si estende per circa 3,5 milioni di chilometri quadrati, ci sono circa duecento isole, isolotti, scogliere che sommati insieme coprono solo pochi chilometri quadrati, spesso poco al di sopra del livello dell’oceano anche quando c’è bassa marea. Sono disabitati, ma la loro sovranità, contesa tra diverse nazioni, regola il diritto di navigazione (un terzo del traffico mercantile solca quelle rotte), di pesca, garantisce la pretesa di sfruttamento di grandi giacimenti di petrolio e gas che si presume siano sotto il fondale.
La mappa verticale prodotta dalla Cina contiene nove tratti che uniti chiudono la maggior parte del mare e delle isole, il 90 per cento circa del totale. Però, su quell’enorme zona si affacciano altri Paesi con analoghe rivendicazioni: Brunei, Malaysia, Filippine, Taiwan e Vietnam.
La cosiddetta «linea dei nove tratti» è stata disegnata dai cartografi della Repubblica popolare cinese per la prima volta nel 1953, ereditata da una mappa interna del Kuomintang (il governo nazionalista di Chiang Kai-shek) risalente al 1947. Né i nazionalisti né i comunisti hanno mai chiarito il significato di quei tratti sul blu del mare e per anni la linea che componevano è stata ignorata. Fino a quando, nel 1968, l’Onu pubblicò uno studio secondo il quale i fondali potevano contenere importanti giacimenti di idrocarburi. Da allora sono cominciate le rivendicazioni, sostenute con diversi espedienti: Manila, per esempio, usa la «Sierra Madre», una vecchia nave arrugginita arenata tra gli scogli delle isole Spratly, come base permanente per un suo distaccamento di marines che i cinesi spesso circondano per rendere difficili i rifornimenti. Nel 1974, mentre gli americani preparavano il ritiro da Saigon, cinesi e sudvietnamiti combatterono una battaglia navale tra le isole Paracel. Nel 2012 il ministero degli Esteri di Pechino ha inserito una pagina sui passaporti dei cinesi con un’immagine dei «nove tratti» sul mare: ci furono proteste diplomatiche.
Il primo maggio i cinesi hanno ancorato una grande piattaforma petrolifera tra le isole Paracel, 240 chilometri al largo delle coste del Vietnam. Ne è nato un confronto navale, con unità della guardia costiera e pescherecci di Hanoi impegnati a ostacolare la manovra e i cinesi che hanno risposto con cannoni ad acqua e speronamenti. In Vietnam la contesa territoriale ha acceso il fuoco nazionalista contro le fabbriche cinesi presenti sul suo territorio: centinaia sono state assaltate, si sono contati venti morti e centinaia di feriti a maggio.
Pechino, oltre ai cartografi, ha messo al lavoro anche gli ingegneri del genio militare, che stanno progettando un’isola artificiale tra le Spratly, composta ancorando grandi cassoni tra gli scogli e riempiendoli di sabbia. L’obiettivo è creare un avamposto dotato di pista aerea e porto: secondo il progetto l’installazione sarà grande due volte Guam, la base americana di 44 chilometri quadrati nell’Oceano Indiano. Il punto dove sorgerà l’isola artificiale è Fiery Cross Reef, conteso anche da Vietnam e Filippine. Ad aprile Manila aveva denunciato un altro piano cinese a Johnson South Reef, dove c’è già un’installazione radar cinese e i militari stanno riempiendo di sabbia una zona di scogli. Ora le fonti di Pechino dicono che quella di Johnson è una prova di fattibilità, per vedere se il progetto può essere replicato su larga scala a Fiery.
«Non c’è bisogno di sforzarsi in interpretazioni sulla mappa verticale», ha detto un portavoce di Pechino: «Serve a dare ai lettori un’impressione dei territori nazionali cinesi».

Repubblica 29.6.14
Con buona pace dell’eterno rivale Cartesio
“Siamo tutti spinozisti” il filosofo dell’Etica ora è icona pop
L’insospettabile ritorno del filosofo dell’Etica diventato all’improvviso una vera icona pop
di Maurizio Ferraris


In un caffè di Torino un signore mi ferma, dice di lavorare in un cinema lì vicino ma di dilettarsi di filosofia e mi confessa di essere un grande estimatore di Spinoza. Può sembrare sorprendente, visto che pochi filosofi sono così ardui – Derrida, ad esempio, confessava di non averci mai capito niente. Malgrado questo, Spinoza rappresenta un mito intellettuale che attraversa i secoli, dai tempi in cui l’accusa di spinozismo bastava per far perdere un posto – quando andava bene – a un professore, sino a quelli, più vicini, in cui l’Ingegner Gadda, reduce dalla guerra e già circondato dal fascismo si avvicina a Spinoza, nella Meditazione milanese, attraverso la mediazione de Il pensiero di Spinoza di Augusto Guzzo.
Dubito che il signore del caffè torinese si sarebbe proclamato con altrettanto entusiasmo cartesiano (tipicamente, “Spinoza” è un blog di successo e “Cartesio” un programma di smaltimento dei rifiuti), d’accordo del resto con il neuroscienziato Antonio Damasio, autore di due libri dal titolo eloquente: L’errore di Cartesio e Alla ricerca di Spinoza . Cartesio divide il corpo dallo spirito e la passione dalla ragione, si impegna nella dimostrazione ontologica dell’esistenza di un dio trascendente, e con ammirevole prudenza rinuncia a pubblicare il proprio trattato di fisica dopo il processo a Galileo. Spinoza è tutto il contrario: psicosomatico, panteista, bandito dalla comunità ebraica in maniera pittoresca e terribile («Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti»). A me, lo confesso, piace di più Cartesio, probabilmente anche perché è antipatico, ma posso capire bene l’attrazione esercitata da Spinoza, che batte non solo Cartesio, ma anche l’aggrondato Pascal e il conciliante Leibniz.
«Libero da metafora e da mito / intaglia un arduo vetro: l’infinito / ritratto di Chi è tutte le Sue stelle», scriveva Borges. L’eroico isolamento e l’anticonformismo sono seducenti per un mondo che passa la maggior parte del suo tempo a tenersi in contatto con mail, telefonini e social network. In fin dei conti, Un libro forgiato all’inferno, la biografia spinoziana di Nadler Stevens (ne parlava qualche giorno fa su queste pagine Roberto Esposito) ha la stessa presa pop di un romanzo di Dan Brown, e inoltre promette un prestigio intellettuale molto superiore. Tagliatore di lenti (attività assai tecnologica all’epoca, più o meno come progettare computer oggi) e non professore, studioso e critico delle scritture, Spinoza, come poi Benjamin, appare come un talmudista eretico il cui Golem è il Tractatus theologico politicus , che non a caso risuonerà nel Tractatus logicophilosophicus di Wittgenstein, un altro filosofo destinato a diventare un oggetto di culto malgrado la secchezza delle sue proposizioni.
Ma la seduzione di Spinoza non si limita al maledettismo ascetico (fino a un certo punto, se dobbiamo credere Goce Smilevski, che in Il sogno di Spinoza racconta di una sua passione amorosa). C’è un secondo motivo, il razionalismo, l’”Illuminismo radicale”, secondo la definizione dello storico Jonathan Israel, e questo può sorprendere in una società che è portata a interpretarsi come romantica. Nietzsche deplorava che il principio di Spinoza fosse «non ridere non piangere né detestare ma comprendere», e sosteneva che il comprendere è proprio il risultato di ridere, piangere e detestare. Ma quella di Nietzsche è una posizione romantica e disperata, mentre Spinoza promette di guarire attraverso una geometria delle passioni (come suonava il titolo di un bel libro di Remo Bodei). Con buona pace di Freud, comprendere è già, un poco, star meglio, o almeno sapere come andranno le cose. Perciò, seguendo Spinoza, Emanuel Derman, economista alla Columbia University ha disegnato una mappa delle emozioni, del dolore, del piacere e del desiderio, che come per reazione chimica (c’è tanto Spinoza nelle Affinità elettive di Goethe, lo ricorda in un altro romanzo recente, Il problema Spinoza, Irvin D. Yalom) generano una tavola periodica dove la sofferenza è un dolore localizzato e la malinconia un dolore generalizzato, la speranza l’attesa di un piacere venata di dubbio, e la gioia – nozione centralissima in Spinoza – piacere che viene da una speranza realizzatasi inaspettatamente.
Il terzo motivo del fascino di Spinoza è il panteismo che ci spiega per quale motivo, oggi, siamo portati a vedere nella raccolta differenziata una sorta di ufficio divino. Deus sive Natura : Dio è immanente al mondo così come la mente è immanente al corpo, ed è proprio questa nozione di “immanenza” e la concezione incarnata del pensiero che ha attirato su Spinoza non solo l’attenzione di filosofi molto diversi come Deleuze, Althusser, Toni Negri, ma anche una di simpatia culturale diffusa. In effetti, la nostra società, che ama spesso definirsi “dualistica”, è in realtà profondamente monistica e materialistica: crediamo tutti, esattamente come Spinoza, che il corpo possa tutto. È lui che, con il DNA, decide la nostra sorte, e siamo noi che, cercando di rimediare almeno in parte ai verdetti scritti nel codice genetico, seguiamo diete, andiamo a correre, smettiamo di fumare.
Ma c’è un quarto e ultimo motivo di seduzione in Spinoza, che ci mette al riparo dagli eccessi volontaristici dello yogurt e del jogging, ed è il fatalismo, l’idea che se una pietra che rotola potesse pensare, penserebbe di rotolare liberamente. Dopo aver enunciato questo paragone, Spinoza commenta: «Proprio questa è quell’umana libertà, che tutti si vantano di possedere e che solo in questo consiste, che gli uomini sono consapevoli del loro istinto e ignari delle cause da cui sono determinati». A ben pensarci, questo fatalismo è un grande sollievo in un mondo in cui, apparentemente, siamo «condannati a essere liberi»: una condanna che oggi risulta ben più persecutoria di quella a cui poteva pensare Sartre, al quale non era mai capitato di ricevere le chiamate che propongono di cambiare compagnia telefonica.

Corriere La Lettura 29.6.14
Quasi buoni, dalla nascita
Il senso di equità e giustizia è innato come la compassione e l’empatia
Poi l’arrivo della ragione complica tutto
di Antonio Sgobba


Doni naturali ed educazione
Nel suo ultimo saggio lo psicologo Paul Bloom sfata due miti sull’origine dell’etica, ridimensionando il valore della cultura e dell’apprendimento ed esaltando il potere della razionalità. Ma non tutti sono d’accordo

In scena ci sono tre pupazzi e una palla. Il pupazzo al centro passa la palla a quello di destra. Il secondo la restituisce al primo. Ora la palla va a quello di sinistra. Che la prende e scappa via. Tutto si svolge sotto gli occhi di un bambino. Finiti i passaggi, vengono messi davanti al piccolo il pupazzo di destra e quello di sinistra. Di fronte a ciascuno dei due c’è un dolcetto. Si chiede all’infante di prendere uno dei due dolcetti. Che cosa farà il giudice bambino? Sottrarrà il dolcetto al pupazzo a sinistra, quello cattivo. Ripetendo l’esperimento si osserverà che la maggior parte dei soggetti reagisce allo stesso modo. Addirittura capita che il piccolo si protenda verso il pupazzo cattivo e lo colpisca ripetutamente alla testa. Insomma, il cattivo viene sempre punito.
È uno degli esperimenti riportati dal professor Paul Bloom nel suo ultimo saggio Buoni si nasce. Le origini del bene e del male (Codice edizioni). L’autore è docente di Psicologia e si è occupato di infanzia e morale anche nei suoi libri precedenti, Il bambino di Cartesio e La scienza del piacere . Analizzare gli atteggiamenti dei bambini non è semplice: «Sono più difficili da studiare persino dei ratti o dei piccioni, che almeno possono correre in un labirinto o spingere una leva», osserva Bloom a proposito dei suoi studi presso l’Infant Cognition Center di Yale, laboratorio diretto da sua moglie, Karen Wynn. Che cosa dimostrano le sue ricerche? «Alcuni aspetti della morale ci appartengono in modo innato», scrive il professore. Psicologia evolutiva, biologia evoluzionistica e antropologia culturale ci dicono che abbiamo ricevuto dei doni naturali: la capacità di distinguere tra azioni crudeli e azioni gentili, l’empatia, la compassione e un primitivo senso di equità e di giustizia. Questo non vuol dire che la nostra etica in tutta la sua complessità sia presente sin dalla nascita. Ci sono però alcuni fondamenti morali che non vengono dall’apprendimento o dalla cultura e sono il frutto dell’evoluzione.
Verrebbero sfatati così due miti sull’origine della morale. Non nasciamo egoisti e crudeli, per poi acquisire un’etica attraverso la cultura, e non siamo neanche piccoli angioletti dalla nascita, corrotti in seguito dalla società cattiva. Secondo Bloom ciò che è innato non è l’impulso a fare il bene ed evitare il male, piuttosto la capacità di esprimere un giudizio. La moralità inizia coi geni, ma non finisce certo lì.
La nostra vita morale si comporrebbe quindi di due parti. La prima comincia con i sentimenti che abbiamo quando nasciamo. La seconda inizia quando interviene la ragione. Gran parte degli psicologi e dei neuroscienziati oggi la sottovalutano: domina ormai l’idea per cui le nostre scelte sono dettate per lo più dall’istinto e dalle emozioni. Bloom non è d’accordo: «Una parte fondamentale della nostra morale — quasi tutto ciò che ci rende umani — emerge nel corso della storia dell’uomo e dello sviluppo individuale. È il risultato della compassione, dell’immaginazione e della nostra straordinaria capacità di ragionare». Non si può essere bambini per sempre.

Corriere La Lettura 29.6.14
Si nasce buoni o cattivi?
Lo scienziato Tema scivoloso, difficile essere obiettivi
Il leone come Erode
Biologia e morale non vanno confuse
di Edoardo Boncinelli


Negli animali troviamo spinte istintuali definibili come positive, ma anche comportamenti che ci appaiono molto crudeli

Ci si è posti da sempre la domanda se si nasce buoni o cattivi, e anche oggi sono sicuro che ci siano molte persone a cui la faccenda interessa. Il fatto è  che, per rispondere seriamente alla domanda, occorrerebbe prima chiarire due punti cruciali: che cosa vuol dire buono e cattivo, e che cosa vuol dire nascere in una certa maniera. Due domande formidabili. Il giudizio di buono o cattivo e i concetti di male e di bene, sono eminentemente culturali. In natura non esiste né bene né male, anche se esistono spinte istintuali finalizzate a risparmiare qualche vita nelle lotte e nelle competizioni. Classificarle come bene è comunque decisamente arrischiato. E anche sulla valutazione culturale di buono e di cattivo avrei i miei dubbi, anche se nella vita di tutti i giorni si danno di continuo valutazioni del genere, e chi parla è sempre buono e quasi tutti gli altri sono cattivi.
Posso concedere che ci sia un’azione buona e una cattiva, sempre che ci mettiamo d’accordo sul metro di giudizio. Ma già che ci siano individui buoni e individui cattivi, lo ritengo molto dubbio. Buono sarebbe chi compie tutte azioni buone? O una buona parte buone e una piccola parte non buone? E qual è la percentuale discriminante? I delinquenti più efferati possono compiere moltissime azioni buone e, viceversa, una persona proba e a modo può compiere una serie di piccoli o grandi atti riprovevoli.
Che poi collettivamente gli esseri umani possano essere giudicati buoni o cattivi, non lo credo proprio proponibile. In noi convivono continuamente il male e il bene, anche giudicati sul nostro metro personale, e non credo che esista nessuno che sia irreprensibile o da giudicare complessivamente in maniera più positiva o più negativa. Nella conversazione quotidiana possiamo tranquillamente continuare a usare tali parametri e a dare tali valutazioni, ma non è accettabile che si tenti di dare una giustificazione scientifica a giudizi aleatori e basati esclusivamente sul senso comune e su una delle diverse tradizioni culturali e religiose.
Non parliamo poi delle affermazioni sull’indole personale e su come si nasce e come si diventa. Sono secoli che si sentenzia in questo senso, ma nessuno dei metri adottati si è mai rivelato all’altezza di un criterio rigorosamente scientifico. Si disputa ancora oggi sul fatto che si nasca intelligenti o creativi o volonterosi o pigri, e quintali di parole sono state spese su argomenti del genere; figuriamoci sull’essere buoni o cattivi dalla nascita!
Le affermazioni su un tema così scivoloso non possono avere quindi niente di obiettivo. Ma si possono osservare gli animali, più o meno vicini a noi. Non è la stessa cosa, ma è un contributo alla discussione. Anche qui però ci si trova un po’ nei guai, se pure cerchiamo di adottare per loro i nostri criteri. Non c’è dubbio che esistano spinte istintuali che potremmo definire positive nel comportamento della maggior parte delle specie animali superiori. Quasi nessuna lotta o competizione finisce in natura con la morte di uno dei contendenti. Chi finisce per sentirsi inferiore «si arrende», ovvero mette in atto alcuni comportamenti stereotipati atti a mettere l’aggressore in condizione di non finirlo, cosa che tra gli esseri umani per esempio non sempre avviene. Così si risparmiano vite e quindi investimento di risorse naturali. Come pure esiste in ogni specie superiore un sentimento di rispetto e di protezione nei riguardi dei più piccoli. Ma esistono anche qui eccezioni. Quando un leone uccide o scaccia un altro leone prendendone il posto accanto alla leonessa oggetto della competizione, il vincitore è ansioso, per ragioni biologiche, di avere dei cuccioli. Se la femmina ha dei leoncini che allatta, lui li farà fuori in modo da renderla indirettamente pronta per un’altra gravidanza. È buona o cattiva la natura? Forse meglio porsi altre domande, più costruttive.

Corriere La Lettura 29.6.14
Illuminismo astratto. Non vede l’essere ma solo l’apparenza
di Giovanni Reale


Integralismo
Quando parla di religione, Bloom la riduce a fenomeno socio-politico. E il darwinismo non spiega le creazioni del genio

Il libro di Paul Bloom, uno psicologo dell’età evolutiva, su «le origini del bene e del male », costituisce un esempio del modo in cui le scienze, sia umane sia naturali, cadano spesso in forme di «integralismo», in forme di «illuminismo» a oltranza, cancellando ciò che non rientra nella sfera della ragione e negando la trascendenza e il religioso nel loro vero significato. In realtà, come diceva Martin Heidegger, «soltanto un uomo religioso può comprendere la vita religiosa, perché altrimenti non disporrebbe di alcun dato genuino».
Bloom, quando parla della religione, la riduce a un fenomeno socio-politico, limitandone la natura e la portata. Dà rilievo a una serie di conseguenze negative che ha prodotto, senza rendersi conto che tali conseguenze sono state prodotte non dalla religione in quanto tale, ma dal suo abuso in senso ideologico-politico.
In particolare, sostiene che «è sbagliato supporre che le elevate facoltà morali siano intrinseche alla natura umana», ossia che siano «un codice morale datoci da Dio». I concetti di bene e di male si spiegherebbero con «l’evoluzione biologica» della specie umana. Le leggi morali, dice, «le abbiamo fatte noi ».
Alla fine del libro, l’autore riassume la sua tesi, che considera confermata «dalla esperienza di ogni giorno» e «dalla psicologia evolutiva», come segue: «Risulta (...) che la nostra vita morale si compone di due parti. Comincia con i sentimenti che abbiamo quando nasciamo, che sono straordinariamente complessi: i bambini piccoli sono animali morali, che l’evoluzione ha dotato di empatia e compassione, della capacità di giudicare le azioni degli altri e persino di una comprensione basilare della giustizia e dell’equità. Ma noi non siamo bambini. Una parte fondamentale della nostra morale — quasi tutto ciò che ci rende uomini — emerge nella storia dell’uomo e dello sviluppo individuale. È il risultato della compassione, dell’immaginazione e della nostra straordinaria capacità di ragionare».
Per dimostrare questo, egli si basa sulla teoria dell’evoluzione. La dottrina di Darwin può tuttavia spiegare una serie di fenomeni biologici, ma non la ragione (alla quale il nostro autore dà la massima importanza) nella sua natura e portata. Da tempo, si è rilevato come l’evoluzionismo darwiniano sia ben lontano dallo spiegare certe creazioni della ragione umana, come i capolavori della poesia di Dante o di Shakespeare, e musiche come quelle di Bach o di Beethoven, e le grandi opere d’arte. Inoltre, la tesi di Darwin è smentita dal fatto che certe creazioni della tecnica non implicano la conservazione della vita, ma minacciano la sua distruzione. Jean Baudrillard scrive: «La specie umana è già andata oltre le sue possibilità. (...) Se la legge della selezione naturale fosse vera, il nostro cervello dovrebbe raggrinzirsi, poiché le sue capacità eccedono ogni destinazione naturale e minacciano di far scomparire la specie».
Stupisce il fatto che Bloom consideri come fonti veritative i romanzi, i film, la televisione, i giornali e le interviste. E qui cade in un errore di carattere epistemologico. Aristotele diceva che la verità è l’essere , mentre le fonti cui l’autore si riferisce sono opinioni e apparenze , che spesso non rivelano, ma velano l’essere. Ancora Baudrillard dice che l’«apparenza» è, in certo senso, l’assenza delle cose da se medesime, e precisa: «Il fatto che le cose non abbiano luogo pur dando l’impressione di accadere, il fatto che ogni cosa si ritiri dietro la propria apparenza e non sia dunque mai identica a se stessa» costituiscono «l’illusione materiale del mondo, e questo resta in fondo il grande enigma...».
La comprensione dell’essere dell’uomo, e in particolare la conoscenza del bene e del male, stanno in altra dimensione, ben al di là di quella fisica, alla quale si restringono la psicologia e le scienze umane. Nicolás Gómez Dávila diceva: «Lo psicologo abita i sobborghi dell’anima, come i sociologi la periferia della società».

La Stampa 29.6.14
Pavese e Fenoglio
Beppe val bene una cena
Franco Ferrarotti rivela che l’autore deLa luna e i falòlo mandò alla Morra a incontrare “quel tale di Alba”. Finora si pensava che i due si ignorassero
di Mario Baudino


«Era stato Cesare Pavese, che aveva già pubblicato Lavorare stanca, uscito nel 1936, e poi, più tardi, Paesi tuoi, a parlarmi di Fenoglio e a spingermi a conoscerlo di persona. Io nicchiavo.
«Avevo alle spalle il 1946 a Parigi e il 1947 a Londra e dintorni fino alla metà del 1948 quando, di pomeriggio a Torino, dovevo incontrare, casualmente, Adriano Olivetti. Nicchiavo. Resistevo. Ma Pavese, che conosceva bene la natura riottosa dei contadini vagabondi, insisteva». E alla fine l’ebbe vinta. Franco Ferrarotti racconta di quando, giovanissimo, andò nella Langhe, a La Morra, e consumò con lo scrittore ancora del tutto ignoto - e col critico Geno Pampaloni - una sontuosa cena innaffiata di barolo.
Accadde, ricorda, nella «seconda metà del ’48», probabilmente in autunno. Ferrarotti rievoca quell’incontro in una testimonianza che compare nell’ultimo Quaderno del Ce.Pa.M. (Centro Pavesiano Museo Casa natale) a cura di Antonio Catalfamo. Il volume – «Pavese, Fenoglio e la dialettica dei tre presenti» – è dedicato soprattutto al rapporto col mito (per esempio con uno stimolante saggio di Alberto Borghini sul mito di Narciso in rapporto a «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»), ma con questa curiosa incursione fenogliana del grande sociologo.
Che non è solo un colorito ricordo di gioventù, appena velato da un lapsus geografico (Ferrarotti scrive che la cena avvenne «alla Mora», luogo pavesiano della «Luna e i falò», mentre in realtà si celebrò ovviamente alla Morra, dove già allora non mancavano i ristoranti): oltre a un magnifico ritratto di Beppe Fenoglio, della sua conversazione smozzicata e difficile, delle sue considerazioni sulla Resistenza e la vittoria democristiana alle elezioni, contiene quella che potrebbe rappresentare una improvvisa rivelazione. Le «insistenze» di Cesare Pavese contraddirebbero infatti la salda convinzione secondo cui i due grandi scrittori delle Langhe non solo non si incontrarono mai (c’è chi ipotizza un appuntamento saltato all’ultimo alla stazione di Alba) ma sostanzialmente si ignorarono.
Fenoglio conosceva ovviamente le opere di Pavese, irritandosi anzi moltissimo se qualcuno tendeva a considerarlo un epigono, ma le loro vite procedettero autonomamente, senza che si sia mai trovata la traccia di una relazione, un segnale di riconoscimento fra i due autori diventati il simbolo della Langa, della sua cultura, della sua storia. Un Pavese che nel ’48 insiste con il giovane collaboratore perché incontri Fenoglio cambierebbe totalmente la prospettiva. Ne è sicuro, professore? «Me lo disse con molta chiarezza - ci risponde da Roma -: tu che cerchi sempre cose nuove, ricordati che c’è ad Alba un certo Beppe Fenoglio, ed è un giovane interessante». Ferrarotti cercava davvero, instancabilmente. Per Pavese (e quindi per l’Einaudi) traduceva moltissimo; nel ’49 uscirono ben tre libri a lui affidati.
Era curioso di tutto. Chiedeva continuamente all’amico più anziano indicazioni, spunti di lettura, consigli. Il nome di Fenoglio non gli diceva nulla, tanto che fece persino, come racconta, un po’ di resistenza. «Non credo – aggiunge – che Pavese lo conoscesse di persona, e non me ne stupii. Era fatto così, un piemontese introverso che non voleva mai incontrare nessuno. Ma aveva letto certamente qualcosa, non saprei dire che cosa. E aveva capito. Del resto anch’io ne fui molto impressionato. Fenoglio mi colpì subito, perché si intuiva il vero scrittore».
La cena non fu facile, almeno all’inizio, perché, come scrive Ferrarotti, «la conversazione stentava a decollare, annaspava, somigliava a un inquietante ribollire di rutti o a una nervosa sequenza di singulti repressi. Dominava il monosillabo». Si parlò di politica, delle recenti elezioni, della Resistenza. C’è spazio a ricordi che ritroveremo nei romanzi: «La Resistenza - diceva Fenoglio a Ferrarotti - è stata multiforme, polimorfica, molecolare, a chiazze e a grumi poco noti. Non c’è solo la politica. C’erano i sentimenti, le ostilità, le amicizie… I contadini ci davano da mangiare, vino, salami nel grasso… Ma a volte ci temevano come temevano i tedeschi e i fascisti delle Brigate Nere. Venivamo a spogliarli. Il cibo era scarso per tutti».
C’è nel ricordo del sociologo un crescere della confidenza, una comprensione reciproca. Ma questo, in fondo, è il Fenoglio che conosciamo. Quello che compare qui per la prima volta come un fantasma, è il Fenoglio noto a Pavese, il giovane scrittore sconosciuto chiuso nella sua Alba. Non ci sono documenti in proposito. Le prime tracce all’Einaudi sono del novembre ’50, quando Pavese è da poco scomparso; Italo Calvino, cui lo scrittore si era rivolto, gli scrive lodando i racconti a lui sottoposti, che avranno una storia editoriale travagliata. L’ipotesi che l’autore della Luna e i falò avesse intuito qualcosa già nel ’48 è affascinante, ma il ricordo di Ferrarotti non si spinge oltre. Quella sera, del resto, si parlò d’altro. «Per la verità io provai a nominare Pavese - ricorda ancora -. Ma la cosa non ebbe seguito». In che senso? «Perché Fenoglio mugugnò in modo incomprensibile».

Corriere 29.6.14
Gina, la governante di Montale morta in povertà che si spogliava dei regali
Il poeta le donò quadri e testi rari. Tutti ceduti a un Fondo
di Paolo Di Stefano


In una fotografia scattata il 7 dicembre 1975 su un volo delle linee aeree scandinave che viaggiava da Milano a Stoccolma, si vede di profilo il vecchio Eugenio Montale che si porta alle labbra una sigaretta. Alla sua destra, nell’ombra aumentata dalla luce abbagliante che entra dal finestrino, si indovina il viso di una donna dall’ampia pettinatura scura, deve aver fatto da poco la permanente. Quella signora si chiamava Gina Tiossi, era la governante del neoeletto premio Nobel e aveva allora 53 anni.
Chi ha conosciuto la Gina, nell’appartamento di via Bigli 15, ne parla come di una assistente, più che della domestica, della guardiana del faro, dell’«occhio vigile» non solo per sopperire alla vista lacunosa del poeta, ma anche per tenere a distanza i tanti rompiscatole. Toccava a lei interpretare i suoi desideri, scrisse Enzo Biagi. Toscana, nata nel 1922 a Cavriglia, in campagna, entrò nell’autunno ‘44 al servizio della Mosca ammalata, ovvero di Drusilla Tanzi, ex signora Marangoni e non ancora moglie di Montale: la quale dal ‘39 si era trasferita con il poeta in un appartamento fiorentino di viale Duca di Genova 38/A. La Mosca era stata colpita da una grave forma di spondilite e fu il suo medico curante a indicarle, per un aiuto, la ragazza di Cavriglia. Da allora, quella esile donna che aveva frequentato sì e no le elementari, figlia di contadini del Valdarno, svegliandosi all’alba tutti i giorni per raggiungere in pullman Firenze, diventa una presenza irrinunciabile per Eugenio e per la Mosca. Al punto che quando, nel 1948, la coppia si trasferisce a Milano, dove Montale ha trovato «un posto di lavoro soddisfacente» al Corriere , Drusilla, il «piccolo insetto», vorrà con sé anche la fedele Gina. Non può sapere che sarà lei, Gina, ad accompagnare nella vecchiaia il suo Eugenio, perché solo pochi mesi dopo il sospirato matrimonio, avvenuto nell’aprile 1963, la Mosca morirà in seguito a una caduta.
La poesia di Montale è abitata da tante muse, ma nel bilancio totale è la Gina Tiossi la figura femminile più assidua nella sua vita, senza implicazioni sentimentali: una presenza discreta, lasciata in eredità al neomarito dalla stessa Mosca, che morendo tra le sue braccia, le fece promettere di occuparsi del futuro vedovo. E Gina ha mantenuto, se è vero che toccherà a lei assistere, in una stanza della Clinica San Pio X, il poeta morente la sera del 12 settembre 1981. E lei deve essere stata la custode di tanti segreti domestici, compreso qualche deragliamento amoroso del poeta.
Quando una giornalista italo-canadese, Dara Kotnik, provò a penetrare la quotidianità del senatore intervistando la Gina, si sentì rispondere: «Che c’entro io, capisco se avessero dato il Nobel delle serve... Dica che non esisto, che al mio posto c’è una Carolina qualunque». Era lei, però, l’unico filtro tra Montale e il mondo, e si poteva capire l’interesse della cronista, che la descrisse come una cipolla di discrezione. E infatti insistendo saltò fuori la sua devozione: «Che cosa posso dire di lui? Che è buono, che è grande, che è dolce, che io lo considero come un padre». Non soltanto rispondeva al telefono, preparava da mangiare e stirava le camicie, non solo dirigeva il traffico delle visite, lo aiutava anche a vestirsi, era con lui nei pochi viaggi, lo teneva a braccetto nelle passeggiate pomeridiane attorno alla Scala, passava ore con lui a guardare la tv. Niente di più e niente di meno. Moltissimo, in verità.
Nelle poesie di Montale, il suo nome non assurge ai fulgori di Clizia, della Mosca o della Volpe, ma compare in testi memorabili. Nel componimento «Il rondone», contenuto nel Diario del ’71 , la si vede raccogliere dal marciapiede un uccello moribondo, «le ali ingrommate di catrame»: «Gina che lo curò sciolse quei grumi / con batuffoli d’olio e di profumi, / gli pettinò le penne, lo nascose / in un cestino appena sufficiente / a farlo respirare». Chissà se il poeta non si identifichi nel rondone che la guarda riconoscente. Una musa minore, ma neanche poi tanto. Nel Quaderno di quattro anni la governante in cucina accende una candela per i suoi morti: «Bisogna risalire a quando era bambina / e il caffelatte era un pugno di castagne secche». C’è un padre piccolo e vecchio, ci sono le scarpinate, il vino dolce, la povertà e la piccola Gina che porta al pascolo i porcellini.
Nella sua stanza, la Gina raccoglieva i regali del poeta, prime edizioni con dedica, disegni, biglietti autografi, libri rari talora fuori commercio. Oltre alle opere grafiche e ai quadretti, quasi cinquecento volumi, tra cui un’edizione degli Ossi di seppia annotata da Vittorini e una copia di Senilità firmata da Svevo. Anche le 50 lettere a Drusilla. Un piccolo patrimonio di cui Gina Tiossi non ha mai voluto fare mercato: tant’è che negli anni ne ha fatto dono gratuito al Fondo manoscritti di Pavia. E qualche mese fa ha aggiunto, tra l’altro, la macchina da scrivere di Montale, il suo bastone, gli occhiali: gli oggetti più cari, forse, quelli da cui ha voluto separarsi solo in extremis. Fedeltà è la parola che la descrive meglio: fedeltà gratuita, diversamente da tanti eredi di sangue. Pare che a un certo punto il poeta volesse affiliarsela per garantirle qualche sostanza: lei rifiutò, per non violare la memoria dei suoi genitori, gente umile dell’Appennino. Dopo la morte di Montale, si è trasferita a Firenze, dove da anni ha vissuto in solitudine con la sua pensione da colf in un modesto appartamento in via Quintino Sella che ha lasciato a un’opera benefica.

La Stampa 29.6.14
Il silenzio degli archivi
Ma davvero Cesare Pavese ha conosciuto Beppe Fenoglio?
di Lorenzo Mondo


Ma davvero Cesare Pavese ha conosciuto Beppe Fenoglio? E tanto apprezzava lo scrittore di Alba, da insistere con Franco Ferrarotti perché cercasse di incontrarlo?
Cosa che si sarebbe puntualmente verificata durante una cena a La Morra, presente anche il critico Geno Pampaloni. Si tratterebbe di una bella novità. L’ipotesi che i due si fossero conosciuti era stata presa in qualche considerazione, giocando su ristretti margini di tempo. Pavese muore infatti nell’agosto del 1950, ma l’anno prima Fenoglio aveva mandato in visione alla Einaudi i Racconti della guerra civile, poi confluiti nei Ventitre giorni della città di Alba, pubblicati nel 1952 dalla stessa casa editrice. Si poteva pensare che Pavese li avesse letti e apprezzati in manoscritto. Ma in ogni caso siamo ben più avanti dell’incontro con Beppe che Ferrarotti fissa nel 1948.
Allora, secondo il testimone, non si sarebbe parlato di racconti ma di un romanzo in gestazione, il futuro e postumo Partigiano Johnny. Sono comprensibili scherzi della memoria. D’altra parte, a trattare con Fenoglio alla Einaudi sulla pubblicazione di quei racconti sono, come si evince dalla corrispondenza, Calvino e Vittorini. Il nome di Pavese non compare mai. L’asserita, fascinosa conoscenza tra i due alfieri della letteratura in terra di Langa sembra perdersi in nebbiosi contorni.
Nel 1951 Fenoglio invia ad un’amica albese la traduzione delle due poesie che Cesare ha scritto in inglese per Constance Dowling («Tu, screziato sorriso/Su nevi gelate-/Vento di marzo,/Balletto di rovi/Spuntati su nevi,/Che gemi ed accendi/I tuoi piccoli -ho-...»). Si realizza così un incontro ideale tra i due scrittori, dove Cesare presta i suoi versi per un omaggio colto e galante a Beppe, fraternamente romantico.

l’Unità 29.6.14
Sarajevo crocevia di sangue tra due guerre
Quello che unisce gli eventi è l’idea che ad uno stato nazionale debba corrispondere un solo popolo
di Francesco Benigno


Per due volte nel corso del Novecento, Sarajevo, questa grande città bosniaca un tempo elegante e multietnica, è stata al centro della storia europea. La prima volta, il 14 giugno del 1914, giusto un secolo fa, vi moriva in un attentato il principe ereditario dell’impero asburgico Francesco Ferdinando e la moglie Sofia. Questo atto gravissimo spingeva l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe a dichiarare guerra alla Serbia, scatenando così la cosiddetta Grande Guerra, il primo conflitto mondiale (1914-1918). Ma Sarajevo è poi tornata alla ribalta una seconda volta, quando il 5 aprile del 1992 le forze serbo-bosniache iniziarono il più lungo assedio della storia bellica moderna, stringendo la città in un cerchio di fuoco destinato a durare anni, sino alla fine del 1995.
Due vicende fra loro lontane, apparentemente distinte e distanti, convergono dunque a Sarajevo, un vero e proprio crogiuolo di culture e di religioni diverse, in cui per secoli croati serbi e bosniaci ma anche musulmani, cristiani (cattolici ed ortodossi) ed ebrei avevano convissuto in relativa pace. Quello che unisce i due eventi è l’emergere, lungo il corso del XX secolo, del nazionalismo identitario esclusivo, e cioè dell’idea che ad uno stato nazionale debba corrispondere un solo popolo, una sola cultura, una sola lingua, una sola fede. Noi oggi, cittadini di un’Unione Europea che raccoglie insieme coloro che si sono combattuti nel corso della prima e della seconda guerra mondiale, ci sentiamo al sicuro e guardiamo a queste vicende come a fatti lontani, che non ci riguardano più di tanto. Ma sbagliamo: Sarajevo ha molte cose da insegnarci. Vediamo. Il principe Francesco Ferdinando venne ucciso a Sarajevo, nel giorno di San Vito, festa nazionale serba, da un giovane militante serbo bosniaco, Gavrilo Princip. Questi era un attivista di un’organizzazione nazionalista, la Giovane Bosnia, che aveva come obiettivo di liberare la Bosnia Erzegovina dal dominio dell’impero asburgico e di annetterla al regno di Serbia. La storia della Serbia era stata, lungo il corso dell’Ottocento, un tentativo di affermazione nazionale in una zona, i Balcani, in cui la facevano da padrone tre imperi: l’Austriaco, il Russo e l’impero Ottomano. Di questi tre colossi politici, quest’ultimo, era da tempo malato. Ma, se apparentemente, l’impero austriaco e quello russo godevano di buona salute – soprattutto se paragonati al moribondo impero ottomano – in prospettiva anch’essi erano infettati da un virus, coinvolti in quel processo di consunzione che la prima guerra mondiale porterà a compimento, con la nascita della repubblica turca, la fine dell’Austria-Ungheria e la dissoluzione dell’impero russo, poi stroncato dalla rivoluzione.
Il virus che ha ucciso l’impero ottomano è dunque il nazionalismo: Il risveglio nazionale greco è stato solo il più eclatante fra i tanti casi di insurrezione di popoli che si venivano ribellando al dominio della cosiddetta Sublime Porta. Tra questi popoli vi era anche quello serbo, che era venuto conquistando nel corso dell’Ottocento una sempre più larga indipendenza dal Sultano di Istanbul, sancita nel 1881 con la nascita del regno di Serbia. Questo piccolo stato si era poi alternativamente appoggiato all’Austria- Ungheria o alla Russia per cercarvi appoggi economici e protezione politico-militare. Ma col tempo si era sviluppata nell’opinione pubblica serba l’idea di riunire in un solo stato tutti gli slavi del sud (o jugoslavi) sottraendoli al dominio austriaco o turco. Non si trattava solo di idee: la classe dirigente serba in quegli anni aveva impostato una politica espansiva che aveva condotto all’annessione del Kosovo e di buona parte della Macedonia. Questa politica panslava sarà coronata, nel 1918, dalla nascita del Regno unito degli sloveni, dei serbi e dei croati, la base della futura Jugoslavia.
In breve, l’attentato di Sarajevo è il frutto delle aspirazioni di un nazionalismo aggressivo fondato sull’idea dell’unità del popolo serbo. L’assedio di Sarajevo, viceversa, segna la fine della forza di questo mito, rivelando una verità drammatica: il nazionalismo, una volta impiantato tende a riprodursi su scale regionali e provinciali, a frammentarsi in piccoli nazionalismi sempre più aggressivi. Il culmine di questo processo si ha quando le forze serbo-bosniache dello psichiatra-criminale di guerra Radovan Karadzic, spalleggiate dal governo serbo di Slobodan Milosevic assediarono Sarajevo, contrastati dai musulmani-bosniaci e dai croati. Per quanto tutti i combattenti si fossero in quell’occasione macchiati di orribili crimini, i più efferati furono condotti dalle forze irregolari che spalleggiavano l’Armata Popolare Jugoslava, l’esercito serbo. Nel caso di Sarajevo (10.000 morti tra i civili) e ancor più in quello del massacro di Srebrenica – 8372 vittime trucidate dalle forze serbe del generale (e criminale di guerra) Ratko Mladic e delle formazioni paramilitari serbe del comandante Arkan – emerse con evidenza la debolezza dell’Onu e del sistema di concertazione internazionale. Ci vollero anni per far partire l’operazione Deliberate Force, a difesa dei civili, e l’inazione dei caschi blu di fronte al massacro di Srebrenica – avvenuto nel territorio posto sotto il controllo dell’Onu – rimane una macchia indelebile nella coscienza della comunità internazionale.
Sarajevo, dunque, per due volte ci insegna. Il nazionalismo panslavo, il sogno della Grande Serbia che ha armato la mano omicida di Princip era espansivo e in certa misura inclusivo. La sua fine ha lasciato in eredità un grappolo di nazionalismi esclusivi e difensivi, basati sull’odio del diverso e fondati sull’allontanamento di «chi non è come te», fino alla pulizia etnica e allo sterminio di massa. In un tempo come questo, segnato dal ritorno di retoriche nazionaliste che insistono sugli elementi identitari, facilitate dalla debolezza della costruzione europea – un mix inquietante di impalpabile astrattezza della politica coniugata all’irresponsabile cinismo dell’economia - è forse non irrilevante riflettere sull’insegnamento di queste storie: perché non tocchi più a nessuno di dover morire per Sarajevo.

Corriere 29.6.14
Napoleone a Mosca nel 1812
Il trionfo, l’incendio, la fuga
risponde Sergio Romano


Anni fa, quando dall’aeroporto stavamo recandoci a Mosca, ricordo che la guida ci ha indicato un cippo affermando che Napoleone era arrivato fino a lì e non era mai entrato nella capitale russa. Invece lei scrive che l’imperatore dei francesi ha addirittura soggiornato dentro il Cremlino. Come stanno le cose?
Marino Conti, Lodi

Caro Conti,
Il 14 settembre del 1812, alle porte di Mosca, Napoleone apprese che il generale Kutuzov aveva improvvisamente interrotto la ritirata verso est e stava scendendo con le sue truppe verso la Russia meridionale. Capì che la guerra non era finita e che i russi si preparavano a nuove battaglie. Ma salì a cavallo e decise di entrare nella città. La vide improvvisamente ai suoi piedi, dal monte della Salvezza, un luogo dove i pellegrini russi rendevano omaggio alla città santa inginocchiandosi e facendo più volte il segno della croce. Aspettò per qualche tempo che una delegazione parlamentare gli portasse umilmente le chiavi della capitale, ma gli fu detto, infine, che la città era deserta. Salì nuovamente a cavallo, raggiunse la barriera di Dorogomilov e attese ancora, inutilmente. Sempre impulsivo e impaziente, Gioacchino Murat, re di Napoli, lo esortò ad avanzare. Napoleone acconsentì, ma non comprendeva quella inattesa accoglienza e disse: «Forse gli abitanti di questa città non sanno nemmeno arrendersi; tutto qui è nuovo infatti: essi lo sono per noi e noi lo siamo per loro».
Che la città fosse deserta fu confermato da qualche residente francese. Con l’eccezione dei mendicanti e di alcuni militari dispersi, tutti se n’erano andati. Erano vuote le case, gli alberghi, le chiese, i palazzi della nobiltà. Dalla barriera di Dorogomilov Napoleone si mosse mentre cadeva la notte. Ma i ricognitori della cavalleria e qualche russo arrestato nelle strade, fra cui un commissario di polizia, gli avevano segnalato nel frattempo alcuni incendi scoppiati in diversi quartieri.
La vista del Cremlino, quando ne oltrepassò le porte, rincuorò l’imperatore. Gli parve di avere raggiunto il vertice della sua epopea militare e molti lo udirono esclamare più volte: «Eccomi dunque finalmente a Mosca, nell’antico palazzo degli zar! nel Cremlino!». Dette ordine perché ogni incendio venisse subito spento e scrisse una lettera all’imperatore Alessandro in cui faceva proposte di pace. La lettera fu affidata, per la consegna, a un ufficiale superiore russo che era stato trovato nell’ospedale maggiore della città e Napoleone si addormentò, quella sera, nella convinzione che la risposta sarebbe stata positiva. Ma gli incendi cominciarono a divampare durante la notte e i francesi non tardarono a scoprire che dietro il fuoco vi era una precisa strategia. Un globo in fiamme fu lanciato contro il palazzo dei Trubeckoj, la Borsa fu incendiata da soldati russi, usciti dall’ombra, che correvano attraverso la città con lance incatramate. Nelle case di legno bastava gettare una granata nella stufa perché l’intero edificio bruciasse come un fuscello. Furono visti uomini e donne che correvano da una casa all’altra impugnando una torcia. I militari francesi facevano del loro meglio per spegnere gli incendi, arrestavano e giustiziavano sul posto gli incendiari, salvavano i cavalli e allontanavano dal fuoco i carri carichi di polvere da sparo. Ma combattevano contro il peggiore dei nemici: un vento che estendeva a vista d’occhio la portata delle fiamme.
Napoleone assistette all’incendio, sempre più vicino, dalle finestre dal palazzo. Sperò ancora per qualche tempo che sarebbe stato domato, ma si arrese quando Murat e il principe Eugenio, vicerè del Regno d’Italia, lo esortarono ad abbandonare il Cremlino. Fu trovata una piccola porta sul lato della Moscova e fu necessario correre attraverso le fiamme di una stretta via, ma l’imperatore e la sua guardia riuscirono ad abbandonare Mosca e a raggiungere una villa imperiale nei pressi della città. Era il 16 settembre. Il giorno dopo, guardando verso Mosca, Napoleone vide una «immensa tromba di fuoco che si innalzava turbinando verso il cielo». Dopo un lungo silenzio, disse: «Tutto questo è per noi presagio di gravi sventure».

l’Unità 29.6.14
L’anniversario
Il giorno dell’America
Il 2 luglio del 1964 la firma del Civil Right Act contro le discriminazioni razziali
predecessore, John F. Kennedy, e conseguire il rinnovo del mandato nelle elezioni del 1964.
di Stefano Luconi


CINQUANT’ANNI FA, IL 2 LUGLIO 1964, IL PRESIDENTE STATUNITENSE LYNDON B. JOHNSON PROMULGÒ UNA LEGGE CHE VIETAVA LA SEGREGAZIONE nei luoghi e negli esercizi pubblici nonché la discriminazione nelle assunzioni in ragione della razza. Questo Civil Rights Act giunse dopo due sentenze della Corte Suprema che, nel 1954 e nel 1956, avevano sancito l’incostituzionalità delle misure che imponevano la separazione fisica tra bianchi e persone «di colore» nelle scuole e nei trasporti. Pertanto, il provvedimento del 1964 accelerò il processo di integrazione razziale negli Stati Uniti, garantendo il pieno godimento dei diritti civili agli afroamericani. Non furono, però, solamente questi ultimi a beneficiarne. Per impedire l’approvazione della misura, unendo l’opposizione di razzisti e maschilisti, un deputato emendò il disegno di legge, in modo che proibisse le sperequazioni nell’impiego anche in base al sesso. Ma la coalizione non si aggregò e l’unico risultato fu quello di estendere alle donne la tutela sul mercato del lavoro in origine prevista per i soli afroamericani.
Il Civil Rights Act si propose di sanare una lacerante contraddizione ideologica che si trascinava dalla fine del Settecento. Nel 1776 la Dichiarazione d’Indipendenza aveva teorizzato la legittimità della costituzione degli Stati Uniti in nazione sovrana in virtù di alcune convinzioni, ritenute inconfutabili, tra cui spiccava l’eguaglianza tra tutti gli uomini. Tale principio, però, era rimasto a lungo inapplicato nel caso della popolazione di ascendenza africana. Fino alla sua abolizione nel 1865, la schiavitù aveva relegato la stragrande maggioranza degli afroamericani in una posizione di subordinazione giuridica ai bianchi, di cui erano una proprietà. Inoltre, malgrado la conquista della libertà alla fine della guerra civile, negli Stati del Sud gli ex schiavi e i loro discendenti restarono per quasi un secolo ai margini della società. Rigide disposizioni locali segregazioniste, infatti, prescrissero di tenere gli afroamericani divisi dai bianchi in ogni sfera dell’esistenza – dall’istruzione ai trasporti e dagli ospedali ai quartieri residenziali – oltre a consentire disparità nell’accesso all’impiego, che finirono per confinare le donne «di colore» nell’occupazione di domestiche e i loro uomini nelle mansioni di braccianti agricoli, mezzadri e lavoratori manuali.
L’approvazione del Civil Rights Act nel 1964 fu l’esito di un’iniziativa combinata della comunità nera e delle istituzioni federali. Negli anni precedenti, in parte sotto la guida del pastore battista Martin Luther King Jr., gli attivisti afroamericani si erano mobilitati in massa attraverso azioni dirette nonviolente, consistenti nel cercare di utilizzare le strutture pubbliche riservate ai bianchi, sfidando apertamente i divieti. Tali forme di disobbedienza civile non si erano solo configurate come una denuncia eclatante di disposizioni ingiuste. Avevano anche provocato situazioni insostenibili quando le autorità del Sud erano ricorse alla forza per imporre una legislazione vigente intrinsecamente immorale. L’immagine di manifestanti pacifici divenuti il bersaglio della brutalità di poliziotti bianchi creò quell’empatia nell’opinione pubblica nazionale che era indispensabile per aggregare al Congresso una maggioranza che eliminasse quanto restava della segregazione razziale dopo gli interventi giudiziari del decennio precedente. Pure il texano Johnson, sebbene fosse un politico del Sud, fornì un contributo significativo al varo della legge. Da un lato, il presidente fu spinto dalla preoccupazione che, nel quadro della guerra fredda, la discriminazione degli afroamericani screditasse gli Stati Uniti di fronte agli altri paesi, impedisse a Washington di ergersi a guida del cosiddetto «mondo libero» e vanificasse gli sforzi per presentare il modello della democrazia capitalistica americana quale sistema migliore del totalitarismo sovietico di stampo comunista. Questo timore si concretizzò principalmente per le nazioni africane, che stavano conseguendo l’indipendenza con l’intensificarsi della decolonizzazione, per le quali il permanere della segregazione rappresentava un deterrente a identificarsi con gli Stati Uniti. Dall’altro lato, Johnson fu motivato dal rischio di non apparire abbastanza progressista per aspirare a raccogliere l’eredità del suo predecessore, John F. Kennedy, e conseguire il rinnovo del mandato nelle elezioni del 1964. Tuttavia il Civil Rights Act non pose fine alla questione razziale. L’anno successivo fu necessaria un’ulteriore misura, il Voting Rights Act, per assicurare agli afroamericani la pienezza del diritto di voto. Nel 1967 la Corte Suprema dovette intervenire nuovamente per cancellare la normativa di alcuni Stati che seguitavano a proibire i matrimoni misti. Soprattutto un semplice provvedimento legislativo non era sufficiente per sradicare atteggiamenti discriminatori sedimentati in larghi settori della popolazione bianca. Dell’impossibilità di eliminare il razzismo per legge dall’oggi al domani erano ben consapevoli quei circa 8000 residenti di Harlem, il ghetto nero di New York, che il 18 luglio – ad appena due settimane dalla promulgazione del Civil Rights Act – innescarono una rivolta, protrattasi per sei giorni, in risposta all’uccisione di un quindicenne afroamericano da parte di un poliziotto bianco fuori servizio. Ai loro occhi, così come a quelli di coloro che di lì a poco avrebbero rivendicato il «potere nero» in alternativa all’integrazione, la firma di Johnson su un provvedimento del Congresso non bastava a realizzare l’effettiva eguaglianza tra tutti i cittadini statunitensi.
Nel 1964, pochi avrebbero ipotizzato che 44 anni dopo un afroamericano sarebbe divenuto presidente degli Stati Uniti.
Tuttavia, nonostante la duplice elezione di Barack Obama, numerosi indicatori socioeconomici attestano che esiste tuttora un significativo divario tra afroamericani e bianchi. In particolare, secondo un recente rapporto della National Urban League, il tasso di disoccupazione dei primi (13,1%) risulta il doppio di quello dei secondi (6,5%), il reddito medio di una famiglia nera si attesta al 60% di quello di una famiglia bianca e il 28,1% degli afroamericani vive al di sotto della soglia di povertà contro l’11% dei bianchi. Quindi, in mezzo secolo il Civil RightsActha contribuito a ridimensionare la condizione di privilegio che fino al 1964 era derivata dal nascere individui di «razza caucasica», ma non è ancora riuscito a colmare la distanza che continua a separare l’America nera dall’America bianca. Eppure uno degli obiettivi del movimento dei diritti civili era proprio cancellare la diseguaglianza economica. Non a caso, la celebre marcia organizzata da King il 28 agosto 1963 per sollecitare l’approvazione del Civil Rights Act rivendicò non solo la fine della segregazione, ma anche maggiori opportunità di lavoro per gli afroamericani.

Un’intervista storica: Enzo Biagi intervistò in un bar di New York Malcom X nel 1964
Un anno prima che il leader venisse assassinato
il Fatto 29.6.14
Malcolm X: “Senza violenza il nero è schiavo”
Il leader delle lotte contro la segregazione razziale racconta la sua vita: la casa d’infanzia bruciata dal Ku Klux Klan, l’assassinio del padre, le droghe e la galera. Poi la scoperta del Corano e l’inizio di una dura militanza politica. Non aveva fiducia nel pacifismo: “Martin Luther King non aiuta la nostra causa, ci insegna a essere indifesi. E’ un topolino schiacciato da un elefante bianco”
di Enzo Biagi


Guardi, la cosa che ho più viva nella memoria, se ripenso alla mia giovinezza, è quando la nostra casa nel Michigan fu bruciata dal Ku Klux Klan. Avevano i cappucci coi grandi fori davanti agli occhi, mantelli rossi e lunghi fucili. Gridavano. A quel tempo noi vivevamo in un quartiere bianco. Anche allora, come adesso, i bianchi, la società bianca, era contraria a ogni forma di integrazione, e così incendiarono la nostra abitazione e ci costrinsero ad andare via. Questo non accadeva nel profondo Sud, ma nel Michigan, in uno degli Stati più a nord di questa nazione. Non l’ho mai dimenticato.
Lei parla con grande proprietà di linguaggio, dove ha studiato?
Sono nato a Omaha, nel Nebraska, nel 1925, anche da quelle parti il Ku Klux Klan era molto forte. Diedero a mio padre l’ordine di partire, e così ce ne andammo. Per me fu una grande umiliazione. Pensai che mio padre avrebbe dovuto comportarsi diversamente, reagire, poi negli anni compresi che non avremmo potuto fare nulla e che mio padre volle semplicemente proteggere la nostra famiglia. Ho frequentato solo le prime classi, quello che so l’ho imparato vivendo quotidianamente a contatto con la disperazione del nostro popolo. Da mio padre ho imparato a parlare agli altri, lui era un predicatore battista, lo sapeva fare molto bene.
Lei è stato in carcere.
Sì, sono stato in carcere perché avevo commesso un crimine, anzi, parecchi crimini: droga, estorsione, rapine e tanti altri. Fui preso e condannato, allora avevo vent’anni, ma è stata la società, la società dei bianchi, la società occidentale, con tutte le oppressioni che esercita sui neri che mi ha mandato dentro; e fa sì che la più alta percentuale di detenuti sia nera, perché noi neri dobbiamo ricorrere al delitto per vivere. Siamo in guerra: il Mississippi è come il Congo, Harlem come il Vietnam. Qualcuno cade.
È per questo che è diventato musulmano?
Mi sono convertito quando ero in prigione. Sono nato cristiano, poi ho avuto diversi anni di agnosticismo, e dopo essere stato anche ateo capii che la religione dell’Islam è la verità e l’accettai. Allah è giusto, mentre i cristiani sono ipocriti, per questo ho deciso di convertimi alla grandezza dell’Islam. Mio fratello Reginald, mentre ero in carcere, mi chiese di aderire alla National of Islam di Elijah Muhammad, perché la maggior parte degli africani, prima di essere presi e ridotti in schiavitù, erano musulmani. Tutti i neri devono convertirsi all’Islam.
Signor Malcolm X, lei crede nell’integrazione?
I neri devono, ogni volta che intendono prendere una decisione, rivolgersi ai bianchi per sapere quali sono le cose che possono comprare, dove, e in quale quartiere devono andare a vivere. I neri hanno bisogno di avere un permesso per qualsiasi iniziativa intendono prendere. I musulmani che seguono Elijah Mohamed non credono in nessuna forma di integrazione. La parola integrazione pronunciata dai bianchi è una menzogna anche quando viene detta da un presidente degli Stati Uniti o da un bianco che è socialmente impegnato. Se la legge o la Corte Suprema o gli altri organismi giuridici facessero sul serio per l’uguaglianza tra bianchi e neri, condannerebbero chi impedisce l’integrazione, e noi neri non dovremmo continuamente manifestare per i nostri diritti. Se la legge nazionale firmata dal presidente Lyndon Johnson fosse reale e non una grande ipocrisia, quando i neri manifestano per l’integrazione non verrebbero arrestati perché, come sta scritto nella legge, sono dalla parte della giustizia, è nel loro diritto. La polizia, invece, dovrebbe arrestare chi discrimina. È stupido da parte dei neri dimostrare per farsi arrestare credendo nella legge. I neri non si devono esporre così ingenuamente al nemico. Noi musulmani siamo contro l’integrazione, crediamo che la separazione sia la sola via percorribile. Quando vediamo la nostra gente brutalizzata e sottomessa dai razzisti pensiamo a quanto è stupida a farsi sottomettere senza reagire. La violenza quando è usata per proteggersi, non solo è necessaria, è giustificata. Tutti i neri dovrebbero credere nel diritto di difendersi da chiunque. Se durante una manifestazione un cane, lanciato da un poliziotto, morde un nero, lui dovrebbe avere la possibilità di uccidere il cane. L’animale viene lanciato contro il nero, che non sta facendo altro che esercitare un diritto, il poliziotto che lo ha lanciato dovrebbe pagare per questo atto violento e non giustificato.
Lei è per la violenza mentre Martin Luther King è per la pace, per la non violenza come Gandhi. Non siete d’accordo tra di voi e questo vi rende
Caro Biagi, prima o poi arriverà il tempo in cui i neri si sveglieranno e diventeranno indipendenti intellettualmente da pensare solo a se stessi come fanno gli altri esseri umani. Solo allora i neri avranno un pensiero comune. Quel giorno quando uno attaccherà un nero attaccherà tutti i neri. Più i bianchi saranno brutali con i neri, prima arriverà quel giorno. I neri devono fare da sé e per sé, non sarà grazie a una legge o alla Corte Federale se riusciranno a ottenere l’uguaglianza. Gandhi era l’elefante nero che schiaccia il topo bianco, mentre Martin Luther King è un topino bianco sotto le zampe di un elefante bianco. Noi non abbiamo bisogno di avere l’autorizzazione dei bianchi per poter manifestare, come ha fatto lui, per la marcia su Washington, che ha chiesto l’autorizzazione all’Amministrazione.
Lei ha accusato Martin Luther King di essere pagato dai bianchi, lo crede veramente?
Il reverendo King continua a insegnare ai neri a essere indifesi, questo non aiuta la nostra causa.
Non ha timore delle conseguenze che queste sue parole potrebbero portare?
Se lei si riferisce alla mia persona, credo di essere già un uomo morto. Io mi batto perché è importante che si capisca la natura del movimento islamico, la sua psicologia, per raggiungere l’obiettivo di portare l’uguaglianza tra neri e bianchi: solo quel giorno riusciremo a essere uniti. Oggi se qualcuno venisse da me a dirmi quello che io vado predicando nelle piazze delle città o in questo momento con lei, senza che io sia a conoscenza della verità e della psicologia che i bianchi usano contro di noi, avrei una reazione violenta, sarei disposto a uccidere. Per questo ci battiamo: per fare capire ai neri quello che sta realmente accadendo.
Lei sostiene addirittura il principio della superiorità dei negri.
Maometto ci insegna che l’uomo di colore è l’uomo originale, l’uomo dal quale derivano gli altri uomini. La biologia e la genetica spiegano che la pelle nera, i capelli neri, gli occhi neri, sono dominanti. La pelle bianca e gli occhi azzurri sono riflessivi, cioè passivi. Maometto ci insegna che i neri possono generare i bianchi mentre i genitori bianchi non possono avere una discendenza negra. Se c’è stato un momento nella storia del mondo in cui vi era una sola persona, questa persona doveva essere nera; la prima gente al mondo doveva essere nera e da
quei neri vennero tutti gli altri, compresi i bianchi. Noi crediamo in questo. Siccome l’uomo nero è stato il primo sulla terra, Maometto ci insegna che il nero sarà il primo anche alla fine.
Nessuna razza è superiore a un’altra. Lei dice dei neri esattamente quello che i bianchi hanno detto dei neri per molte generazioni.
I soli bianchi che io conosco sono quelli che ci hanno rapiti e portati in questa terra come schiavi, ci hanno fatto lavorare nei campi come cavalli per quattrocento anni, ci hanno venduti come loro proprietà per trecentocinquanta, e negli ultimi cento si sono comportati da ipocriti, cercando di far pensare al mondo che noi neri siamo stati liberati dalla Guerra di Secessione, mentre invece siamo ancora più schiavi di quello che eravamo sotto il presidente Lincoln e prima della dichiarazione di emancipazione.
Alcuni imprenditori sostengono che l’operaio nero rende meno del bianco.
No, non è assolutamente vero. Posso ammettere che in alcune situazioni i neri non hanno la spinta della promozione a raggiungere un grado più alto, la mira dell’andare avanti con la carriera, oppure non hanno la base dell’istruzione che hanno altri operai e quindi rimangono indietro, ma dove godono di uguali possibilità, dove sono ugualmente preparati, dimostrano le stesse capacità e ottengono gli stessi risultati. Anzi è dimostrato che in certe fabbriche, operai specializzati di colore, producono più dei bianchi.
Parlando con lei ho la sensazione che il suo obiettivo sia quello di diventare il capo dei musulmani neri.
No, io non ho alcun desiderio di diventare capo dei musulmani neri. Non ho mai avuto questo desiderio. Il mio obiettivo è vedere gli afroamericani ottenere i diritti umani che gli sono dovuti. L’Islam può aiutarci a raggiungere questo. È la religione migliore per la nostra gente, perché crea unità, dignità e fiducia razziale. Questo è indispensabile per rendere l’essere umano completo.
Non c’è nessun bianco per il quale lei prova qualche simpatia?
L’esperienza che abbiamo fatto in questa società bianca, non ci permette di camminare per cercare qualche uomo bianco verso il quale dirigere la nostra ammirazione. Non è un problema di individui, è collettivo, è generale. Le buone parole di una o due persone bianche non bastano. Nemmeno il comportamento di una piccola comunità, noi guardiamo a tutta la collettività dei bianchi.
Quali sono, in definitiva, gli scopi del suo gruppo?
Mio padre è stato ucciso nel 1931, quando avevo sei anni, è stato trovato sotto un tram, ce l’avevano buttato i bianchi, i sostenitori della “supremazia bianca”, perché era troppo impegnato a combattere, parlava troppo chiaramente, era contro i compromessi, esortava i neri ad agire da soli. Io porto dentro di me questo insegnamento. Lo scopo dei musulmani neri è quello di portare libertà, uguaglianza, ai venti milioni di fratelli che vivono in questo paese. Noi pensiamo che Allah, il Dio che ci unisce, ci darà la forza necessaria per vivere, per fare quello che è giusto per noi stessi, senza aspettare che l’uomo bianco d’America ci aiuti.
Il suo desiderio quale è?
Nulla di diverso da quello dei musulmani neri. Vorrei che la crudeltà dell’uomo verso l’uomo finisse. Per far questo sono disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo. L’America è una grande prigione, basta nascere con la pelle scura ed è come stare nel carcere di Sing Sing. Questo non potrà impedirci di morire da uomini. Noi vogliamo libertà e giustizia e siamo disposti a usare ogni mezzo necessario pur di arrivare fino in fondo. I diritti umani sono qualcosa che abbiamo dalla nascita. I diritti umani ci sono dati da Dio. I diritti umani sono quelli che tutte le nazioni della terra riconoscono. Non crediamo che in un paese come gli Stati Uniti d’America, che si definisce guida nel mondo libero, i cittadini neri debbano aspettare i favori di qualche politico o presidente texano disposto a fare concessioni in tema di diritti civili.
Perché non crede nelle leggi dello Stato?
Al diavolo la politica. Quando parlo ai fratelli neri li esorto a levarsi in piedi e combattere tutte le battaglie necessarie perché, solo così, il bianco imparerà a rispettarci. E se egli non ci permetterà di vivere da uomini, non potrà impedirci di morire da uomini.

il Fatto 29.6.14
Fratelli coltelli
Ucciso dai compagni traditi di Nation of Islam


MALCOLM X, il cui vero nome è Malcolm Little, nasce a Omaha, in Nebraska, il 19 maggio 1925. Settimo di 11 figli, impara presto a conoscere il razzismo: la sua famiglia emigra in Michigan per le minacce subite dal Ku Klux Klan. Quando ha soli sei anni, suo padre, un predicatore battista, viene assassinato da estremisti bianchi. A 13 anni perde anche la madre, che viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Lascia la scuola, in cui eccelle, quando un insegnante gli dice che “studiare legge non è un obiettivo realistico per un negro”. A vent’anni finisce in galera. Qui aderisce a Nation of Islam, un’organizzazione musulmana che lotta per i diritti degli afroamericani, di cui diventa presto un leader. In carcere comincia a firmarsi Malcolm X. Quando esce dal carcere si trasferisce a New York, diventa un predicatore e sposa Betty Senders, da cui avrà otto figli. Dopo l’omicidio di Kennedy commenta polemicamente: “La violenza che non ha saputo fermare gli si è ritorta contro”. Nel ’64 lascia Nation of Islam, abbandona le tesi sulla superiorità nera, e fonda il Muslim Mosque Inc. Il 17 febbraio dell’anno successivo scampa a un attentato dinamitardo. Una settimana dopo, tre membri di Nation gli tendono un agguato e lo uccidono.

il Fatto 29.6.14
Martin Luther King
Il rapporto impossibile tra due eroi afroamericani
Tra lui e il reverendo non c’era stima. Si incontrarono soltanto una volta: quando Lyndon Johnson Firmò la legge sui diritti civili
di Loris Mazzetti


Malcolm X e Martin Luther King furono due grandi leader del popolo nero americano. La loro vita la dedicarono alla lotta contro la segregazione razziale, a favore dei diritti umani, usando metodi completamente diversi. Il primo riteneva che solo l’Islam potesse rendere il nero libero e legittimava l’uso della violenza. Tra i due non ci fu mai accordo, tanto che Malcom X accusò King di essere un servo dei bianchi. La grande rottura tra loro si consumò in occasione della Marcia su Washington per la quale il reverendo protestante chiese l’autorizzazione all’Amministrazione. Malcolm X definì con disprezzo i fratelli che vi parteciparono “di essere bianchi”: “Non trovo nulla di eccitante in una dimostrazione fatta davanti alla statua di un presidente morto da cento anni e al quale, quando era vivo, noi non piacevamo”. Martin Luther King era per la pace, la non violenza alla Gandhi, questo gli valse nel 1964 il Premio Nobel. King era molto vicino a John Kennedy, mentre Malcolm X, quando il presidente fu assassinato a Dallas, dichiarò: “La violenza che i Kennedy non erano riusciti a fermare gli si era ritorta contro”, aggiungendo che quelle cose non lo avevano rattristato, ma reso felice. La sua stessa organizzazione prese le distanze da quelle parole e gli impedì per novanta giorni di fare comizi. Malcolm X fu ucciso a New York nel 1965 per mano di tre sicari del Nation of Islam, organizzazione di cui era stato portavoce; Martin Luther King nel 1968 a Memphis fu vittima di una cospirazione, ma il colpevole non fu mai trovato. Ambedue avevano 39 anni. Se molto tempo dopo, il 20 gennaio 2009, per la prima volta fu nominato un afroamericano alla presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama, il merito è anche loro.
L’INTERVISTA di Enzo Biagi che il Fatto Quotidiano pubblica oggi è a Malcolm X. Di lui il grande giornalista scrisse: “Ho conosciuto il nero gonfio di orgoglio che sogna la rivolta. Ci incontrammo a New York, allo Shabazz, sulla 124ª Strada e bevemmo caffè, perché il buon musulmano deve lasciar perdere il whisky, le donne, i dadi e le lotterie; c’era in giro odore di patate fritte, di nafta bruciata e di brillantina. Tutti lo guardavano con rispetto, poi una domenica, il 21 febbraio 1965, mentre stava predicando, venne ucciso, colpito da 16 proiettili, tre dei quali mortali”. Nella storia di Malcolm X c’erano il dolore, il crimine e la prigione: sette anni. La madre era figlia di una nera violentata da un bianco, ed era finta al manicomio dopo la morte del marito, ucciso per il colore della sua pelle. La trasmissione tv, in due puntate, è stata una delle tante straordinarie inchieste fatte da Enzo Biagi in onda su Rai1, in prima serata, dal titolo: Mississippi, romanzo di un fiume. Una specie di diario di viaggio, come lo definì lo stesso Biagi, in cui il giornalista incontrò uomini, paesaggi e tanti problemi. L’inchiesta con il taglio del documentario classico, che nulla aveva da invidiare a quelli realizzati da grandi registi (le riprese furono realizzate da due storici operatori della Rai: Duilio Chiaradia e Paolo Muti e il suono, regolarmente in presa diretta, da Salvatore Staiano), partiva dall’attualità: il 2 luglio 1964 il presidente Lyndon Johnson aveva firmato la legge sui diritti civili, grazie alla quale ai neri veniva riconosciuta una parità politica che la Costituzione fino ad allora non garantiva. Al momento della firma, accanto al presidente degli Stati Uniti, vi era Martin Luther King. In quel periodo, per la prima e unica volta, Malcolm X e il pastore protestante si incontrarono. Fino a quel momento avevano fatto tutto il possibile per non vedersi, le loro linee erano inconciliabili. King considerò quella firma fondamentale per il futuro dei neri d’America. Malcolm X invece una legge inutile, non per il contenuto , ma perché era convinto che nessun bianco l’avrebbe mai rispettata. L’inchiesta di Biagi partiva dal fatto che allora 20 milioni di cittadini degli Stati Uniti erano divisi dagli altri soltanto dal colore della pelle, ma finalmente potevano avvalersi di una forza legale per far cadere ogni forma di discriminazione.
NELLA SECONDA parte del suo viaggio, il giornalista fece discutere della questione dei neri quattro singolari personaggi: il primo era Malcolm X, definito come uno dei capi della setta dei musulmani neri, Roy Wilkins segretario dell’Associazione fondata da King, il campione del mondo dei pesi massimi Floy Patterson e lo scrittore americano più interessante in quel periodo: James Baldwin. Biagi li presentò così al telespettatore: “Ognuno di loro esprime con la massima indipendenza il suo punto di vista. Forse vi colpirà l’acre polemica di Malcolm X con i bianchi, ma lui è un razzista alla rovescia e la sua apparente logica e la sua violenza animano un’appassionante discussione”. Biagi raccontò per quegli anni un’America inconsueta, non quella della grande potenza e della grande prosperità, ma quella dei problemi. Quell’America per la quale si batté Malcolm X, in cui ogni uomo deve essere libero dalla povertà e dall’odio.

il Fatto 29.6.14
Contrordine compagni! Il porno non è per tutti
Mosca, svelata la collezione di stampe e libri erotici nella biblioteca Lenin nascosta in una stanza che era aperta solo ai membri del Politburo
di Giulia Merlo


In Unione Sovietica il porno si nascondeva in biblioteca. Lontano dagli occhi del popolo, ma a piena disposizione dei capi del partito comunista, molti dei quali erano assidui frequentatori di quell’ala segreta della Biblioteca di Stato di Mosca. Ancora oggi la scandalosa raccolta si trova lì, chiusa a doppia mandata dietro una porticina tra gli scaffali del nono piano della biblioteca Lenin, dove sono archiviate tutte le pubblicazioni marchiate come “ideologicamente dannose”. Migliaia di libri, disegni, fotografie e film connessi in un modo o nell’altro al sesso sono stati conservati qui: una collezione di circa 12mila oggetti provenienti da tutto il mondo, dalle stampe giapponesi del ‘700 agli Harmony americani dell’era nixoniana. La stanza è uno dei tanti segreti che si annidano nel passato dell'austera Russia bolscevica ed anche oggi la sua esistenza non è nota alla maggior parte dei frequentatori della grande biblioteca.
“L’abbiamo mantenuta intatta, come cimelio di un’epoca passata”, ha spiegato la bibliotecaria Marina Chestnykh, che si occupa di curare la raccolta erotica. Lei stessa l’ha scoperta solo nel 1990, dieci anni dopo aver iniziato a lavorare alla Biblioteca di Stato. La storia dell’archivio segreto è iniziata nel 1920, quando il museo d’arte di Mosca venne trasformato nella Biblioteca nazionale, intitolata a Lenin. Accanto ai libri della nuova cultura russa, i bolscevichi trasformarono i piani alti in un deposito dove accumulare la stampa clandestina e i libri confiscati alla nobiltà russa dopo la rivoluzione.
LA MAGGIOR PARTE del materiale viene, però, dalla collezione privata di Nikolai Skorodumov, il direttore della biblioteca dell’università di Mosca. Dietro l’immagine pubblica del tranquillo funzionario, Skorodumov collezionò per tutta la vita volumi sia russi che stranieri e soprattutto a tema erotico. Come riuscisse ad aggirare la censura sovietica, rimane un mistero. Alcuni dicono importasse i volumi sfruttando la sua posizione all’università e facendoli passare per materiale di interesse scientifico, altre voci raccontano che godesse della protezione del comandante della polizia di Stalin, anche lui cultore di romanzi erotici. Dopo la morte del collezionista, la censura scoprì un tesoro di carta di oltre 40 mila volumi, 7mila dei quali a contenuto erotico. Una raccolta che non poteva certo essere lasciata alla vedova
- sostennero le autorità - perchè “tenerli in una casa privata presenta enormi rischi”. E quale posto migliore, se non la stanza all’ultimo piano della biblioteca Lenin. Una stanza che divenne improvvisamente molto visitata dagli alti membri del Politburo. “Erano più interessati alle immagini più che ai libri - ha raccontato la bibliotecaria - ed entravano quando volevano, senza bisogno di permessi”. La particolare raccolta ha continuato ad essere ampliata fino agli anni Ottanta, con il materiale sequestrato alle dogane: libri in inglese ma anche film e cartoline considerate licenziose e dunque poco adatte ai cittadini russi. “Non venivano raccolti con metodo e non esiste un catalogo - ha spiegato la Chestnykh - prendevano tutto quello che gli sembrava inappropriato e lo portavano qui”. Il risultato è un curioso collage: fotografie dei Beatles, un libro sul Kama Sutra in inglese, un catalogo di dipinti di Picasso e una raccolta di scritti di De Sade.
La stanza, oggi come ieri, continua a galleggiare nel limbo della semi-clandestinità. La sovrintendenza della biblioteca di Stato, infatti, è divisa tra chi vorrebbe valorizzare la piccola raccolta e chi invece la considera una spesa inutile. Anche dopo la caduta dell'Urss, il nono piano della Biblioteca Lenin resta un luogo di misteri e sguardi ammiccanti.

Repubblica 29.6.14
La matematica da Cenerentola a Principessa
di Piergiorgio Odifreddi


COM’È noto, i premi Nobel scientifici esistono per la fisica, la chimica e la medicina, ma non per la matematica. Non, come a volte si vocifera, perché Nobel ce l’avesse con i matematici per motivi di rivalità sentimentale. Bensì, più semplicemente, perché era interessato alle scienze applicate. I matematici rimediarono creando nel 1936 un loro analogo del premio Nobel, chiamato medaglia Fields. Viene assegnato nei quadriennali Congressi internazionali di matematica: il prossimo si terrà a Seul ad agosto, e ci regalerà altri quattro nuovi vincitori, tutti sotto i 40 anni per regolamento, che oltre alla gloria riceveranno soltanto un “misero” assegno di 10 mila dollari. Un analogo dell’Oscar alla carriera è invece il premio Abel, istituito nel 2001 in Norvegia. Questa volta il premio è più sostanzioso, e non troppo inferiore al Nobel: circa un milione di dollari. Ed è già successo più di una volta che a vincerlo sia stato un matematico anziano, che da giovane aveva vinto la medaglia Fields. La scorsa settimana è stato infine istituito il premio Breakthrough, che già esisteva da due anni per la fisica, e da uno per la biologia. È finanziato da una mezza dozzina di magnati americani, e arriva a tre milioni di dollari: circa il triplo del Nobel. Finalmente, ed era ora, la matematica cessa di essere la Cenerentola delle scienze, per diventarne la Principessa.

Corriere La Lettura 29.6.14
Berlinguer e il compromesso storico
L’ostinato errore di fare i conti senza la destra
di Antonio Carioti


Tra gli scritti usciti nel trentennale della morte di Enrico Berlinguer, spicca per vigore critico la prefazione di Fabio Vander alla riproposta, con il titolo Per un nuovo grande compromesso storico (Castelvecchi, pp. 89, € 9), degli articoli con cui nel 1973 il leader comunista lanciò la sua strategia d’intesa tra le grandi forze popolari. Nel sottolineare la continuità di quella scelta con il mito dell’unità antifascista coltivato dal Pci togliattiano, Vander ne critica l’impostazione consociativa, volta a «curare il vizio della democrazia (la mancanza di alternativa) con la riproposizione dello stesso vizio che s’intende curare». E in questo ha indubbiamente ragione. Ma sottovaluta non solo i condizionamenti derivanti dalla diversità comunista e dalla Guerra fredda, ma anche un problema ben chiaro invece a Berlinguer: l’esistenza di una forte destra, allora sommersa nel grande calderone del voto alla Dc, che avrebbe potuto manifestarsi e prevalere (come poi accadde nel 1994) in caso di muro contro muro tra fronti opposti. Vander accusa di consociativismo anche l’Ulivo e persino il Pd, sostiene che negli ultimi vent’anni non vi sia stata «alcuna alternativa». Ma in fondo il ricambio al governo, sia pure deludente, è avvenuto: serve a poco invocare modelli politici ideali, se la dura realtà è composta di ben altri ingredienti.

Corriere La Lettura 29.6.14
La visione di Kafka, una morale per noi
Digiuno è vivere nell’impossibile Non un’arte per romantici
di Emanuele Trevi


Credo che Franz Kafka, attentissimo lettore di giornali, non avrebbe trascurato la notizia di Papa Bergoglio che telefona a Marco Pannella per convincerlo a interrompere un digiuno totale che rischiava di portarlo alla morte. Il rappresentante di una secolare tradizione di digiuni penitenziali chiedeva di fermarsi in tempo a colui che più di ogni altro ha fatto dell’astensione dal cibo (e dall’acqua) un’arma di protesta. A parte l’eccezionale levatura umana di entrambi i suoi protagonisti, questo aneddoto sembra condensare perfettamente la direzione fondamentale della lunga storia universale del digiuno: dall’ascesi religiosa alla politica. Ma nel dialogo tra Bergoglio e Pannella c’è un ulteriore elemento, indiscutibilmente «kafkiano» e capace di rendere la pratica del digiuno un simbolo dai significati davvero inesauribili. In una specie di nobile gioco delle parti, infatti, il digiunatore incarna una tensione all’illimitato che il suo interlocutore tenta di contenere, e per così dire di addomesticare. In ogni vero digiunatore agisce il desiderio di andare fino in fondo. Bisogna convincerlo, o costringerlo, a smettere.
È questo il nucleo di quello splendido racconto di Kafka il cui titolo è tradotto in genere Un digiunatore , anche se l’originale tedesco, Ein Hungerkünstler , letteralmente «un artista del digiuno», non solo è più poetico, ma allude a significati ben precisi, anche se difficili da immaginare per il lettore di oggi. Ricostruire questo mondo, con sensibilità di scrittore e perizia di erudito, è lo scopo di un prezioso libretto di Raoul Precht, romanziere e traduttore, fra gli altri, di Schiller e Handke. Composto e pubblicato per la prima volta in rivista nel 1922, il racconto di Kafka (in questi giorni pubblicato da Nutrimenti, Kafka e il digiunatore, pagine 100, e 10) si riferisce a un modello di «artista della fame» che non ha nulla a che vedere né con la mistica né con la politica. I grandi digiunatori dei tempi di Kafka, infatti, sono attrazioni da fiera, o da Circo Barnum, non molto dissimili dall’esercito di freaks che gli impresari offrivano allo sguardo dei curiosi in cambio del modico prezzo di un biglietto. È vero che Kafka inizia il suo racconto constatando che «negli ultimi decenni l’interesse per i digiunatori è molto diminuito», ma pochi lettori hanno colto l’esattezza storica dell’informazione, scambiandola per un puro arbitrio introduttivo di una costruzione del tutto fantastica.
Ma qui sta esattamente la differenza tra i mediocri e i geni: i primi inventano, mentre i secondi, come fa Kafka, sanno cavare da qualunque realtà energie simboliche segrete e insospettabili, più sorprendenti di qualunque fantasia. Precht ci fa conoscere un Kafka così appassionato di spettacoli da circo e baracconi da fiera da divorare avidamente riviste specializzate come «Artist» e «Proscenium». E le esibizioni pubbliche dei digiunatori, nell’età d’oro di quest’arte a cavallo tra Otto e Novecento, si svolgevano esattamente come le descrive Kafka nel suo racconto. Trascorrevano i giorni del digiuno che durava circa un mese, in una gabbia di vetro, esposti al pubblico e controllati da guardiani che vegliavano su possibili spuntini clandestini.
È proprio questa la macchia sulla carriera del più celebre digiunatore dei suoi tempi, una vera gloria italiana di nome Giovanni Succi, nato a Cesenatico nel 1850, sorpreso nel 1896 da un medico, durante un’esibizione all’Hotel Royal di Vienna, mentre pasteggiava a bistecche e champagne. Per un digiunatore professionista, doveva essere una situazione simile a quella di atleta di oggi sorpreso dall’antidoping.
Precht giustamente indugia su questi buffi frammenti di un mondo perduto, dimostrandoci ancora una volta l’incredibile capacità trasfiguratrice di Kafka, per il quale non esisteva al mondo nulla di così triviale da non celare in sé una scintilla metafisica e filosofica. Il grande nemico del suo «artista del digiuno» non è la fame né la diffidenza del pubblico, ma l’impresario che gli proibisce di proseguire il digiuno oltre il biblico termine dei quaranta giorni. Leggere questo racconto come una semplice allegoria dell’artista non compreso dai suoi simili equivarrebbe a un impoverimento, a un atto di pigrizia. L’artista kafkiano della fame, in fin dei conti, muore senza gloria, e non può vantare nessun merito. Semplicemente, come confida spirando, non ha mai trovato un cibo che gli piacesse mangiare. Più che l’ultimo eroe romantico, è il primo di una nuova specie: la specie di coloro che non possono essere diversi da quello che sono. Per questa razza d’uomini, vivere nell’impossibile è la cosa più facile del mondo.

Il Sole Nova 29.6.14
Graphene flagship project Previsioni Applicazioni
Pronti sul mercato i frutti del grafene
Gli analisti stimano che nel 2015 il fatturato mondiale legato a questo materiale sarà pari a 67 milioni di dollari
di Andrea Carobene


a Oggi il grafene si compra su internet come al supermercato. Questo materiale, composto da un monostrato di atomi di carbonio disposti a esagono, è la sostanza più resistente e sottile conosciuta al mondo. Nel 2010 Andre Geim e Kostya Novoselov vinsero il premio Nobel della Fisica per avere svelato al mondo le «proprietà eccezionali» del grafene: materiale che non è più una curiosità scientifica ma che è ormai disponibile a chiunque.
Sul sito della società spagnola Graphenea, ad esempio, è possibile acquistare fiocchi di ossido di grafene immersi in acqua: per 89 dollari più spese di spedizione si riceve al proprio domicilio una boccetta contenente una soluzione da 250 ml. A 225 euro ci si aggiudica un foglio monostrato di grafene di 60 x 40 millimetri depositato su uno strato di rame, mentre per soli 38 dollari si portano a casa quattro tasselli di un cm2. Graphenea è una delle oltre 140 organizzazioni, provenienti da 23 differenti Paesi, che partecipano come partner al Graphene Flagship Project: l'iniziativa decennale dell'Unione europea di studio su questo materiale. Nei prossimi 10 anni l'Europa investirà un miliardo di euro sul grafene con l'obiettivo di trasferire lo studio dei monostrati di carbonio dai laboratori alla vita quotidiana, realizzando forti alleanze tra mondo della ricerca e imprese industriali. Il Graphene Flagship Project, avviato nel 2013, è in forte crescita e il 23 giugno, in occasione dell'apertura della settimana del Grafene di Gothenburg in Svezia, è stato annunciato l'ingresso di 66 nuovi partner nel progetto, in risposta a una call da 9 milioni di euro che ha visto presentare ben 218 diverse proposte. L'Italia costituisce, assieme alla Germania, il Paese più rappresentato all'interno del Flagship Project con ben 23 realtà, seguite dalla Spagna con 18 e dal Regno Unito con 17. E forse non è neppure un caso che la prima settimana europea del grafene nel 2008 si sia tenuta proprio nel nostro Paese, a Trieste. Alcuni dei progetti italiani possono essere letti utilizzando l'app Nòva AJ.
L'entusiasmo per questo programma è tale da far dichiarare a Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea e responsabile dell'Agenda Digitale, che «l'Europa è leader nella rivoluzione del grafene». Questo materiale, nelle sue parole, «ha il potenziale di migliorare radicalmente la nostra vita» in quanto in grado di promuovere «nuove tecnologie mediche, come le retine artificiali, e mezzi di trasporto più sostenibili muniti di batterie leggere e ultraefficienti». L'entusiasmo di Kroes è condiviso da Kitty Cha, ricercatrice Basf – uno dei nuovi partner industriali del Graphene Flagship – che ha spiegato di sentirsi oggi sulla soglia di una nuova tecnologia che «rivoluzionerà numerose applicazioni aprendo la via alle innovazioni».
Le previsioni degli analisti confermano questo ottimismo. Bcc Research, società statunitense di analisi di mercato, parla infatti di un settore letteralmente sul punto di decollare. Gli analisti stimano che nel 2015 il fatturato mondiale legato al grafene sarà pari a 67 milioni di dollari, per toccare i 675 nel 2020 con un tasso di crescita annuale del 58,7 per cento. Oltre la metà di questo fatturato sarà legato al mercato dei condensatori e delle batterie: quelle batterie la cui nuova efficienza potrebbe imprimere una svolta a tutto il settore del trasporto elettrico, consentendo di accumulare energia a costi bassi e con piccoli ingombri. Un altro settore che peserà molto sarà quello dei materiali al grafene, il cui valore dovrebbe essere nel 2020 di 91 milioni, corrispondenti al 13,5% del fatturato totale. Altre applicazioni importanti saranno quelle relative al campo dell'energia fotovoltaica o degli schermi – che diventeranno ad esempio flessibili – e ancora alla gestione del calore termico.
L'Europa e gli Stati Uniti non sono i soli protagonisti di questa sfida; si sta infatti affermando in maniera sempre più preponderante la Cina che, attualmente, vanta un numero di brevetti sul grafene superiore a quelli di origine statunitense. Se la partita per il leader mondiale di questo settore è quindi ancora aperta, è invece già chiaro che l'aspetto industriale delle applicazioni è realtà nei settori più diversi.
La newyorkese Graphene 3D Labs utilizza così il grafene per migliorare l'inchiostro utilizzato nelle stampanti tridimensionali, mentre la canadese Calevia lo sta studiando per colpire in maniera selettiva le cellule tumorali con un trattamento termico. Se la britannica Graphenhex si è posta l'obiettivo di usarlo per realizzare condensatori altamente efficienti, l'indiana Ad-Nano Technologies propone un inchiostro conduttore al grafene per stampare circuiti elettrici.
Una rivoluzione in corso, dunque, della quale si possono già vedere alcuni frutti concreti. E per chi non volesse spendere decine di euro per toccare con le proprie dita questo «materiale meraviglioso», ecco la ricetta per il fai da te casalingo. È infatti sufficiente porre su una mina di grafite un pezzo di scotch e poi sollevarlo. L'operazione va ripetuta più volte sul segno nero che compare sul nastro fino a quando si otterrà proprio un monostrato cristallino di atomi di carbonio. Questa tecnica, sicuramente primitiva rispetto alle tecnologie utilizzate oggi a livello industriale, non deve tuttavia essere considerata banale: fu proprio infatti questo il metodo usato dai due premi Nobel Geim e Novoselov, i padri di una rivoluzione industriale appena iniziata.

Il Sole Domenica 29.6.14
Migranti da videogioco
La mentalità conformista diffusa li percepisce come alieni o zombie, figure orribili che si autoalimentano in continuazione insidiando la «normalità» delle nostre vite
di Hanif Kureishi


Il migrante è diventato una passione nell'Europa contemporanea, il punto vacante intorno al quale si scontrano gli ideali. Prontamente disponibile come simbolo, esistente ovunque e in nessun luogo, se ne parla continuamente. Ma nell'attuale dialogo pubblico, questa figura non è soltanto emigrata da un Paese a un altro, è emigrata anche dalla realtà all'immaginario collettivo, dove è stata trasformata in una spaventosa fantasia.
Che sia un lui o una lei – e ne parlerò come di un lui, pur essendo consapevole che è privo di colore della pelle, genere sessuale e carattere – il migrante è stato tramutato in qualcosa di simile a un alieno.
È un esempio di morto vivente che invaderà, colonizzerà e contaminerà, una figura che non potremo mai digerire del tutto né rigettare. Se il Ventesimo secolo è stato pieno di figure inquietanti, semi-fantastiche, che invadevano il mondo degli uomini rispettabili, retti e operosi – i puri – questo personaggio è tornato a ossessionarci sotto forma di migrante. È una figura familiarmente insidiosa e al contempo l'ultima versione di una vecchia idea espressa con vigorosa e rinnovata retorica.
A differenza di altri mostri, il corpo estraneo del migrante è invulnerabile, invincibile. Simile allo zombie di un videogioco, è impossibile da uccidere o da eliminare definitivamente non solo perché è già muto e morto, ma anche perché ci sono ondate di altri migranti simili appena oltre il confine, che si stanno avventando contro di te. Dimenticando che sono concetti impraticabili della "normalità" – la normalità fascista – a far sembrare strano il consueto, ci piace credere che ci sia stato un tempo migliore in cui il mondo non cambiava così tanto e ogni cosa appariva più stabile. Eravamo tutti simili e comprensibili l'uno all'altro, e non c'erano questi spettri ad agitarsi perennemente alle finestre. Adesso pare esserci un consenso generale sul fatto che tutto questo movimento globale possa essere una catastrofe, dato che tali figure onnivore ci mangeranno vivi. Da questo punto di vista, il migrante è eterno: se non agiremo, sarà per sempre una fonte di contagio e orrore.
È impossibile parlare a nome del migrante o, cosa più importante, sentirlo parlare per sé, dal momento che tutti, compresi i più ragionevoli e sensibili, si sono convinti che adesso sia ovunque, e costituisca un grosso problema. Naturalmente, c'è sempre una buona ragione per diffidare dell'accordo generale: non c'è niente di più coercitivo e stupido del consenso, ed è tramite il consenso che viene occultata la disuguaglianza.
Ciononostante, è facile sminuire o denigrare il migrante, perché non è più una persona. L'immigrante arrivato da poco, l'ultimo a varcare la soglia, che adesso si sta stabilendo nel nuovo Paese, può essere a sua volta disturbato dall'idea di questo arrivo più recente, di questo intruso che potrebbe prendere il suo posto, perché tale minaccioso Altro non gli assomiglia in alcun modo. L'emigrante non ha volto, status, difesa o storia. La sua identità individuale non può essere esaminata che entro le regole limitate della comunità.
Troppo superstizioso, ambizioso, privo di valore e strano – depositato al di fuori del firmamento dell'accettabile – l'emigrante è degradato allo status di oggetto di cui si può dire qualunque cosa e a cui si può fare qualunque cosa. Un fatto è certo sul suo conto: non ti deruberà solo della tua ricchezza e della tua posizione sociale, sarà anche mostruoso e osceno nei suoi piaceri. Queste jouissance, inutile dirlo, le ha ottenute a tue spese, pur essendo soggiogato come tuo schiavo.
In quanto idea, tale concetto del migrante è dunque familiare, e valgono i soliti stereotipi – il potere segregante di una descrizione negativa –, come sempre è accaduto con queste ombre che simili a fantasmi infestano le zone intermedie o di confine. Il migrante sarà il frutto dell'endogamia, soffrirà di intemperanza sessuale e malattia mentale e sarà sia avido che bisognoso. Ma in questa particolare forma il migrante è anche una creazione relativamente recente. Dal momento che dipendiamo così tanto da ciò che odiamo al massimo grado, peggio va l'economia e più abbiamo bisogno del migrante, persino in un'epoca in cui amiamo complimentarci con noi stessi per la nostra relativa tolleranza.
A donne, gay, disabili e altri ex emarginati sono state forse concesse, anche se non senza qualche lotta, dignità, una voce e un posto. Ma la diversità e il multiculturalismo possono diventare forme di esotismo e auto-idealizzazione, e le esasperazioni delle differenze nuove forme di vanità. Nel frattempo, si tiene in vita un sufficiente livello d'odio indirizzandolo contro la figura disprezzata del migrante. L'integrazione non può mai continuare; qualcuno deve essere tolto di mezzo.
Oggi sarà lui, e domani qualcun altro: la circolazione dei corpi è determinata dal profitto. I ricchi comprano libertà; possono sempre andare dove vogliono, mentre i poveri non sono i benvenuti da nessuna parte. Tuttavia ogni volta, per qualche capricciosa, magica alchimia, coloro che più ci occorrono, che più sfruttiamo e perseguitiamo si trasformano nei nostri persecutori.
Gli altri hanno soltanto il potere che diamo loro. Il migrante è un'allucinazione collettiva forgiata nelle nostre menti. Questa idea in continua evoluzione, come quella di Dio o del Diavolo, è una creazione importante, essendo parte di noi, ma il paranoico, guardandosi intorno agitato, non riesce mai a vedere che il corpo estraneo è dentro di lui. Certo che no: quando il mondo è diviso così rigidamente nella dicotomia hollywoodiana di buono e cattivo, nessuno riesce a pensare lucidamente. L'odio deforma la realtà ancor più dell'amore. Se i limiti del mondo sono stabiliti dal linguaggio, abbiamo bisogno di parole migliori per tutto questo. L'idea del migrante crea ansia solo perché è sconosciuto e deve essere mantenuto tale.
Questa fantasia collettiva e prigione dello stereotipo – un uso vile dell'immaginazione – riduce il mondo a un racconto gotico dove c'è solo la violenza dell'esclusione, e nulla può essere fatto o detto. Se così non fosse, lo straniero, con un misto di ingenuità e perspicacia, potrebbe essere nella posizione di dirci la verità su noi stessi, dal momento che vede più di quanto non immaginiamo.
© HANIF KUREISHI, 2014 - PUBLISHED BY ARRANGEMENT
WITH RCW AND ROBERTO SANTACHIARA LITERARY AGENCY

Il Sole Domenica 29.6.14
Come funziona la coscienza
Disaccoppiamenti giudiziosi
di Robert Aumann


La coscienza è l'ultima grande frontiera della scienza. La vita, fino a settant'anni fa, era un mistero. Poi, con la scoperta del Dna, quel mistero venne risolto; oggi noi capiamo, in linea di massima, come "funziona" la vita. Ma non comprendiamo come "funzioni" la coscienza. Che cos'è la "coscienza"? È l'essere in grado di acquisire esperienza. Vedere, udire, odorare, sentire, gustare, gioire, soffrire, gradire, amare, odiare, temere, eccitarsi per un'idea, intristirsi per una perdita. Non "percepire". Anche le macchine sono in grado di percepire: leggono, registrano suoni; riconoscono odori, tatto e sapori; vincono a scacchi; emettono addirittura suoni "cupi" quando qualcosa non va. Presumibilmente, però, non acquisiscono esperienza. Cosa significa dunque "esperienza"? Qui sta il difficile. Non si può definire il termine senza riferimento al concetto stesso. "Esperienza" non può essere definita in modo che una macchina possa comprendere. Se non si è coscienti – se non si è mai fatto esperienza di qualcosa – allora non si potrà comprendere cosa il termine significhi; proprio come persone sorde dalla nascita non possono comprendere cosa sia la musica. Perché la si deve sentire. Similmente, chi non è cosciente non può comprendere il significato di esperienza. I biologi individuano due domande fondamentali: «Come» e «Perché». «Come» fa riferimento al meccanismo, «Perché» alla funzione. Una terza domanda che, da un punto di vista logico, sorge prima delle altre è «Cosa?». Cominciamo da qui.
La coscienza differisce notevolmente da qualsiasi fenomeno studiato dalla scienza. A differenza di altri fenomeni, è totalmente soggettiva. Non è nota alcuna caratteristica esterna verificabile. Un individuo può osservare la coscienza solo dentro di sé. Paradossalmente la coscienza è anche l'unico fenomeno di cui siamo assolutamente certi. Tutte le altre osservazioni potrebbero essere attribuite ad allucinazioni o sogni. Anche le allucinazioni e i sogni, però, sono esperienze; in ciascun caso, l'osservatore è sicuro che sta facendo un'esperienza – che è "conscio" – e ha ragione. Ci sono altri due elementi fondamentali della coscienza che vanno ad aggiungersi alla componente "input", l'esperienza. Uno è l'elemento "elaborante": il pensiero, comprendente anche l'intenzione. L'altro è l'"output": la volontà, fare qualcosa consapevolmente. Ciò che permette alla coscienza di svolgere la sua funzione è una combinazione di questi tre elementi. Qual è la funzione della coscienza da un punto di vista evolutivo? La nostra risposta è basata su due nozioni collegate: decentrare e disaccoppiare, in poche parole, suddividere un compito complesso in diversi compiti più facili, spesso con l'aiuto di una "spinta ausiliaria". Consideriamo come esempio il gioco degli scacchi. Il modo ideale per giocare a scacchi è pianificare in anticipo l'intero corso della partita, tenendo conto di qualsiasi mossa l'avversario potrà compiere. Nella pratica, questo è al di fuori della portata di qualsiasi uomo o macchina. Quello che accade, invece, è che ogni giocatore valuta la situazione a ogni mossa, poi "guarda avanti" un poco nel tentativo di migliorare la sua valutazione. Il compito difficile sta nel pianificare l'intera partita in anticipo, mentre i compiti più semplici e disaccoppiati consistono nel giocare mossa per mossa, facendo previsioni di portata ridotta. La forza trainante complessiva, macroscopica, è naturalmente il desiderio di vittoria; ma "miscroscopicamente" – a ogni mossa – la forza trainante è il desiderio di migliorare la vostra visione del gioco con diverse mosse di anticipo. In alcuni casi, come nella gestione dell'economia, il disaccoppiamento viene raggiunto distribuendo il compito tra molti individui, ciascuno con le sue motivazioni. In questo caso, il disaccoppiamento è raggiunto distribuendo il compito nel tempo.
Quello che voglio suggerire è che la coscienza funziona come un sistema di disaccoppiamento che permette agli esseri umani di svolgere compiti che altrimenti, a causa della loro complessità, sarebbero impossibili. Lasciate che illustri cosa intendo.
Il corpo ha bisogno del cibo per ricavare energia e per altre funzioni vitali. Il processo di ottenimento del cibo è molto complesso. Dobbiamo scegliere che alimento comprare, andare ad acquistarlo, stivarlo, pulirlo, cucinarlo e servirlo. Dobbiamo guadagnare denaro per comprare il cibo e tutti gli strumenti necessari per elaborarlo. Per guadagnare soldi bisogna acquisire varie abilità, anche sociali. Come funziona questo processo? Che cosa lo guida? La risposta è semplice: la fame. E l'altra faccia della stessa medaglia: il piacere di mangiare. Avere fame non significa essere a stomaco vuoto. Uno stomaco vuoto da solo non ci spingerà a mangiare. Necessitiamo del dolore o del fastidio della fame, oppure del piacere del cibo, per far sì che mangiamo. Il dolore e il piacere sono esperienze coscienti. Se non siete coscienti, non potete provare dolore o piacere. Dunque la coscienza è un componente importante del meccanismo che ci fornisce il nutrimento. Inoltre, l'intero processo di acquisire, preparare e servire il cibo è disaccoppiato in molti piccoli passi. Ogni passo è cosciente e ha un obiettivo ben definito: è motivato. Le esperienze della fame e del godimento del cibo sono le forze trainanti macroscopiche, come il desiderio di vittoria negli scacchi. Il pensiero – il secondo componente della coscienza – traduce tutto ciò in numerosi piccoli compiti: guadagnare denaro, cuocere una torta, e così via, ciascuno con la sua propria forza trainante. E la volontà – il terzo componente – entra in gioco permettendo all'individuo di portare a termine questi piccoli compiti.
Quello che abbiamo detto riguardo al cibo si applica, mutatis mutandis, anche al sesso. In modo analogo, non è il desiderio di progenie che porta le persone a fare sesso; è il desiderio sessuale, il godimento del sesso. Il godimento è una funzione della coscienza. Non si può godere se non si è coscienti. Molte persone desiderano coscientemente la prole, ma non è per quello che fanno sesso.
Riassumendo, la coscienza rende possibile il disaccoppiamento di compiti estremamente complessi in molti più semplici, essenzialmente attraverso l'elemento motivazionale. Rimarrebbe da discutere il «Come». Su questo punto non abbiamo null'altro da dire se non che i fenomeni neurologici che si è osservato essere associati alla coscienza – come la contemporanea attivazione di molti neuroni – non spiegano come essa funzioni; il «come» rimane un profondo mistero.
(Traduzione Rino Serù)
© ROBERT AUMANN, 2014

Il Sole Domenica 29.6.14
Empatia. Nei panni del replicante
Dopo Freud l'empatia è ritornata in auge negli Usa negli anni '60 e '70 grazie a Heinz Kohut: l'idea con lui ha avuto molta fortuna, anche oltre la psicoanalisi
di Valeria Egidi Morpurgo


Rick Deckard, l'esaminatore, sottopone la diciannovenne Rachael a un test concepito per provocare una reazione emotiva:
«La mia valigetta, disse Rick, Bella, no? … Pelle di bambino… Carezzò il rivestimento nero della valigetta… Cento per cento pura pelle umana… di bambino. Vide i due indicatori dei quadranti agitarsi freneticamente. Ma si erano mossi dopo una pausa» (Philip Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche? 1968).
Rick spiega l'esitazione della ragazza con l'assenza di quella "facoltà empatica", che fa provare a un soggetto gli stessi sentimenti dell'altro, sia che si tratti di gioia, sia di dolore. L'empatia richiede «un istinto di gruppo integro», e perciò i predatori solitari ne sono privi. Se un predatore fosse in contatto con i sentimenti della sua preda, come potrebbe continuare la caccia? Questa definizione di empatia è quella del senso comune: indica la propensione a mettersi nei panni altrui e assume spesso una sfumatura di sentimentalismo. Più complesso è il significato che all'empatia viene dato dalla psicoanalisi di oggi, nel confronto con le scoperte dei mirror neurons e le nuove prospettive sulla nascita dell'intersoggettività, di cui ha dato conto Lingiardi (Domenica del Sole 18 maggio 2014) a proposito del Congresso della Società psicoanalitica italiana: All'origine dell'esperienza psichica. Facciamo un passo indietro: l'idea di empatia è antichissima, significa sentire "con" e si è presentata sotto le vesti del sun-pathein (da cui simpatia) e cum patior (compassione), fin dall'antichità. Andrea Pinotti disegnando la mappa dei concetti collegati all'immedesimazione dal mondo antico ai giorni nostri, ci introduce ai pensatori coevi a Freud; e soprattutto agli studiosi di estetica che diedero vita all'"Estetica dell'empatia" (Einfühlungaestetik ) da cui Freud trae il suo interesse per un concetto più enigmatico di quanto non appaia a prima vista. Pinotti indica la duplicità di significato, gravida di conseguenze, della parola Einfühlung: ricordando che significa in origine "empatizzare in" un oggetto; così la intendevano gli studiosi di estetica, riferendosi all'oggetto artistico o alla natura con cui possiamo sentirci intimamente uniti. Ma questo può significare sia «io proietto le mie qualità nell'oggetto» sia al contrario che ne colgo le caratteristiche. Insomma che ne è dell'oggetto? E se questo punto è cruciale in estetica, ancor di più lo è laddove soggetto e oggetto siano esseri umani.
Freud usa il termine di Einfühlung (empatia, tradotto immedesimazione nell'edizione Boringhieri delle Opere) in diversi luoghi. Ne parla come di quella comprensione che è necessaria nel lavoro terapeutico ma anche come base dei legami che vincolano i membri di un gruppo tra loro. In un passo cruciale di Psicologia delle masse (1921) il padre della psicoanalisi delinea la "comunanza affettiva" nel gruppo citando il "contagio psichico", quel contatto empatico in cui un soggetto "imita" un'altra persona, o ne imita un aspetto. Successivamente accenna al fenomeno della "telepatia", intendendolo come un «mezzo originario, arcaico, di comunicazione tra gli individui» che si può ritrovare in situazioni particolari, come in una folla «eccitata dalle passioni» (Sogno e occultismo 1932). In questi esempi Freud collega le situazioni di contagio emotivo alla struttura psicologica dei gruppi e a fenomeni che non sono governabili volontariamente. L'empatia sembra avere un carattere pervasivo: che oggi diremmo "virale". L'idea della paura o della rabbia che dilagano in una folla impazzita getta una luce dubbia sul legame empatico; forse è questo che rende Freud guardingo sull'empatia, come sottolinea Stefano Bolognini, nella sua completa messa a punto del concetto di empatia in psicoanalisi.
Dopo Freud l'empatia è stata riportata in onore negli Stati Uniti negli anni '60 e '70 da Heinz Kohut: l'idea con lui ha avuto molta fortuna, anche al di là della psicoanalisi. Attento a evitare una concezione "sentimentaleggiante", dell'empatia, Kohut la considera uno strumento conoscitivo, e una forma di disponibilità che consente all'analista di assumere un ruolo quasi genitoriale: cruciale per la coesione psicologica dell'analizzando.
Diventa perciò doveroso per l'analista perseguire un atteggiamento empatico. Bolognini discute l'approccio di Kohut riprendendo un caposaldo del pensiero di Freud: l'io "centrale", il nostro organo di autogoverno, è largamente inconscio. Perciò un soggetto si può identificare con un altro soggetto senza saperlo e a volte senza volerlo. E può empatizzare o simpatizzare, o anche provare distacco, ma non a comando. Su questo si può e si deve riflettere, evitando il "buonismo" analitico. Così l'empatia in psicoanalisi non può essere "prescritta" ma deve essere altamente apprezzata perché quando la si raggiunge consente una straordinaria apertura dell'interiorità. Chissà cosa ne direbbe Rick Deckard, il protagonista del romanzo, citato in apertura, che ha ispirato Blade Runner di Ridley Scott.
La reazione tardiva di Rachael, ricordiamo, fa capire a Rick che la ragazza finge empatia ma non la prova. Così lui intuisce che lei è una replicante: non prova sentimenti empatici perché è un androide: come quel gruppo di ribelli, diventati predatori, che lui, Rick, ha il compito di uccidere. Nella prima versione di Blade Runner (1982) la soluzione è ottimistica: Rick si innamora di Rachael, che, ricambiandolo, si avvicina all'empatia; ma nell'ultima edizione del film le cose non vanno così e si scopre che anche Rick è un replicante. È la rivincita dell'oggetto che può restare totalmente alieno per il soggetto. Chissà quale versione sarebbe piaciuta di più a Freud?
Stefano Bolognini, L'empatia psicoanalitica, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 226, € 24,00;
Passaggi segreti. Teoria e tecnica della relazione interpsichica, Bollati Boringhieri, pagg. 256, € 20,00
Andrea Pinotti, L'empatia. Storia di un'idea da Platone al postumano, Laterza, Roma, pagg. 224, € 20,00

Il Sole Domenica 29.6.14
Meandri della mente
Ascoltate il rumore del cervello
di Lamberto Maffei


Il cervello è come una delle grandi città del mondo moderno, è sempre attivo 24 ore su 24, incessantemente, il traffico degli impulsi nervosi, nei chilometri e chilometri delle sue vie non varia molto nei diversi momenti della sua attività anche in quelli di completo riposo. Il nervo ottico per esempio, che porta le informazioni visive al cervello è attivo anche a occhi chiusi e nella completa oscurità. Questa attività che apparentemente non porta informazione dal mondo esterno viene chiamata attività spontanea. Se si analizza la successione temporale di impulsi nervosi dell'attività spontanea si trova che essa ha la struttura probabilistica del rumore, cioè i vari impulsi nervosi hanno nessuna o scarse relazioni tra di loro.
Cos'è il rumore? In generale esso è definito come un disturbo della comunicazione, pensiamo per esempio al rumore acustico nelle trasmissioni radiofoniche o a quello ottico come lo sfarfallio delle immagini in quelle televisive. Quando arriva l'informazione dall'esterno la scarica nervosa si organizza e dà luogo alla percezione, sia essa di un'immagine visiva, di una parola o di altro. Propongo l'ipotesi che queste scariche spontanee presenti in tutte le regioni cerebrali e che continuamente interagiscono in modo casuale possano diventare talvolta segnali significativi e generare immagini, idee che proprio per la natura del processo che le ha generate risultano imprevedibili e originali non essendo causate da eventi precisi del mondo esterno.
A mio avviso il rumore cerebrale è certamente un fattore importante alla base della variabilità del giudizio e in generale del pensiero. Un esempio sul giudizio estetico. Quante volte tornando a vedere un quadro in un museo ci accorgiamo che il quadro ci piace e ci meraviglia meno o più della volta precedente. Ma perché? È ragionevole pensare che la stessa esperienza sensoriale, l'immagine del quadro sulla retina è la stessa, si sovrapponga ad attività cerebrali spontanee diverse, a diverse configurazioni del rumore cerebrale. Il rumore cerebrale costituisce il contesto sul quale si sovrappone l'informazione dei messaggi sensoriali. Forse non è un caso che l'intuizione si affacci spesso nei dormiveglia, nei momenti di riposo, quando le vie del cervello sono sgombre e hanno quindi libero gioco gli incontri delle attività nervose. In questa linea di riflessione anche l'invenzione geniale, o l'opera artistica potrebbero essere frutto di incontri, parlo di eventi nervosi, dove il caso e il rumore giocano un ruolo rilevante: forse il genio è la persona che ha più degli altri rumore cerebrale. Il sogno, durante il quale gli eventi sensoriali, preponderanti nella veglia, cedono il passo a pensieri e immagini che sono frutto di incontri tra eventi solo interni, offre esempi mirabili di questi incontri casuali, facendo emergere e scomparire repentinamente figure, parole, fatti e fornendo l'esempio di un lavoro cerebrale completamente libero dai messaggi incatenanti delle sensazioni presenti nella vita della veglia.
La prudenza, che è il pregio di ogni pensatore giudizioso, suggerirebbe che un ruolo importante del rumore cerebrale potrebbe essere, ad esempio, quello di evitare che il cervello continui a lavorare, come per un blocco di funzione, su un pensiero fisso. È esperienza comune che talvolta vi sono pensieri, anche banali, che non ci riesce scacciare dalla mente.
Nel rumore cerebrale sta probabilmente, o sta anche, la nostra libertà di pensare dato che non si può scegliere se non c'è la materia e la situazione per farlo, se non esiste cioè una pluralità di offerte e di possibilità. Un ipotetico ingegnere costruttore potrebbe avere inserito ad hoc il rumore cerebrale per darci la possibilità della libera scelta.

Il Sole Domenica 29.6.14
Filosofia politica
Razionalità religiosa
di Sebastiano Maffettone


Robert Audi, O'Brien Professor of Philosophy presso l'Università di Notre Dame già Presidente dell'American Philosophical Association, è un filosofo che si è occupato principalmente di epistemologia, etica, teologia morale. I suoi recenti lavori sul rapporto tra religione e politica hanno suscitato una vasta discussione internazionale. Nel corso della giornata di studi tenutasi pochi giorni orsono presso l'Università Luiss, è stato possibile discutere con Audi stesso del numero della rivista «Philosophy & Public Issues» (Luiss University Press), che da lui prende spunto per trattare di religione e politica, e dell'ultimo lavoro di questo autore pubblicato in italiano con il titolo La razionalità della religione. Detto che questo stesso titolo non rende bene l'originale inglese, che suona diversamente Rationality and Religious Commitment, va subito aggiunto che siamo al cospetto di un'opera complessa e interessante, ben tradotta e presentata in italiano (da Andrea Lavazza che è anche autore di una brillante Postfazione). Il libro è diviso in quattro parti, che nel complesso difendono la razionalità dell'impegno religioso ponendo al tempo medesimo limiti al suo uso pubblico. Nella prima parte, Audi distingue proficuamente tra razionalità e giustificazione. La giustificazione è meno permissiva della razionalità. Se non sono d'accordo con le tesi di un collega che mi sembrano mal poste, posso ben pensare che non sia in grado di giustificarle, ma difficilmente arriverei a dire che il mio collega è "irrazionale". Questo spiega perché, anche se non sempre siamo in grado di giustificare l'impegno religioso, non possiamo però sostenere che sia irrazionale. La seconda parte chiarisce le dimensioni di un impegno religioso per l'appunto razionale. Questo è multidimensionale e pluralista, avendo a che fare con credenze, fede, accettazione e speranza. In sostanza, l'aspetto esperienziale ed esistenziale dell'impegno religioso viene enfatizzato e riconciliato con quello cognitivo. Nella terza parte, Audi tratta i rapporti tra impegno religioso razionale e teologia morale. In essa, si afferma l'autonomia dell'obbligo morale e la natura della separazione tra sfera religiosa e sfera politica. La quarte e ultima parte, infine, affronta due critiche tipiche al teismo, una di natura metafisica e l'altra epistemologica. La prima riguarda l'impotenza della divinità rivelata dall'esistenza del male del mondo. La seconda, invece, presuppone il naturalismo scientista di cui – a mio avviso del tutto ragionevolmente – si mostrano i limiti. La visione scientifica del mondo non è in grado di criticare la razionalità dell'impegno religioso e non può sostituirlo in toto. In conclusione, Audi, al cospetto di una diffusa opinione laica che tende a considerarla poco razionale, difende la razionalità dell'impegno religioso come scelta di vita complessiva del soggetto spaziando dall'etica al l'estetica e alla metafisica. È difficile essere d'accordo con tutte le sue tesi, a cominciare a mio avviso dalla troppo netta separazione tra religione e politica che Audi sostiene (problema su cui si può vedere sul sito Luiss «Philosophy & Public Issues» Vol. 3, No. 2 2013 § The Church and the State (ed. by D. Melidoro) ), ma bisogna riconoscere che – se si vuole discutere seriamente del rapporto tra religiosità ed esistenza – bisogna partire da libri come questo che lo espongono in tutta la sua complessità e profondità.
Robert Audi, La razionalità della religione, Cortina, Milano, pagg. 378, € 26,00

Il Sole Domenica 29.6.14
Padre Maciel e i Legionari di Cristo
Corruzione in Vaticano
di Giovanni Santambrogio


Una storia complessa e scabrosa quella di padre Marcial Maciel Degollado, sacerdote messicano fondatore nel 1941 dei «Legionari di Cristo». Ricordiamo i fatti. Padre Maciel, classe 1920, diventa prete avendo negli occhi la «Guerra Cristera» combattuta tra cattolici e militari messicani del governo anticlericale e massonico di Plutarco Elias Calles (ne parla il film Cristiada di Dean Wright, 2011). È uomo di comando e molto attivo. Paolo VI guarda con favore ai Legionari che si fanno largo in un paese scristianizzato. Giovanni Paolo II è loro grato per essere stato sostenuto nel 1979 durante il suo primo e storico viaggio a Puebla e a Città del Messico. Wojtyla era entrato nel paese con visto turistico perché il governo non intratteneva relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Padre Maciel diventa un simbolo dell'anti-Teologia della liberazione. I veli su di lui cadono nel 1997, a seguito di un'inchiesta giornalistica americana sulla pedofilia in cui si raccontano storie di abusi sessuali subiti da sacerdoti a lui vicini. Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, avvia una indagine che porterà alla sospensione a divinis del sacerdote. Nel 2008, Maciel muore in una clinica americana.
Chi era veramente Marcial Maciel Degollado? Un ritratto approfondito è stato fatto ora da Franca Giansoldati, vaticanista del Messaggero, che con il libro Il demonio in Vaticano, scava in una mole di documenti. Risultato: Maciel è una personalità sdoppiata che agisce da «predatore seriale», pedofilo, folle. Non solo è un abile regista di attività illegali, compreso il traffico di droga, che portano alle sue casse ingenti patrimoni. Il sacerdote possiede un forte carisma tanto da dare vita a una congregazione tuttora solida (oltre 2.000 religiosi e migliaia di adepti) ma, contemporaneamente, sa vestire gli abiti di un insospettabile marito con due mogli, una in Messico e una in Spagna, e di un padre con più figli con i quali si incontra regolarmente e con loro va in vacanza. Maciel si presenta come agente della Cia e dispone di numerosi passaporti. Dal racconto minuzioso affiorano domande sull'uomo che si estendono alle strutture, alle gerarchie ecclesiastiche, ai sistemi di controllo. Sospetti e denunce non sono mai mancati, Roma ha avuto nel corso dei decenni informative da sacerdoti e da vescovi che sollevavano dubbi. Tutto si insabbiava. Così pure in Messico, le azioni contro il sacerdote finiscono nel nulla. Una emittente privata, Canal 40, nel 1997 manda in onda un servizio su droga e pedofilia che coinvolge padre Maciel. L'indomani la Tv perde una serie di contratti pubblicitari ed entra in crisi. Il sacerdote non andava toccato.
Franca Giansoldati scopre la pratica della «mordida», un sistema di bustarelle che consente a Maciel di ottenere garanzie e immunità ovunque, soprattutto in Vaticano. E quando le prove aumentano e la macchina di Ratzinger raccoglie dossier su di lui, il sacerdote ricorre a tutto pur di offrire un'immagine pulita di sé; realizza anche un libro intervista con il giornalista cattolico più accreditato di Spagna e ottiene dal cardinale Bertone, all'epoca arcivescovo di Genova, una prefazione. Papa Benedetto XVI riflettendo sul caso confida nel libro-conversazione Luce del mondo con Peter Seewald: «Purtroppo abbiamo affrontato la questione solo con molta lentezza e con grande ritardo. In qualche modo era molto ben coperta. Per me, Marcial Maciel rimane una figura misteriosa. Da un lato c'è un tipo di vita che è al di là di ciò che è morale: un'esistenza avventurosa, sprecata, distorta. Dall'altro vediamo la dinamicità e la forza con cui ha costruito la comunità dei Legionari». Padre Maciel demonio in Vaticano. Tornano alla mente le parole di Paolo VI pronunciate il 29 giugno 1972: «Attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa». E quelle di Ratzinger: «Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui». È il tema dei ripetuti appelli di Papa Francesco su soldi, carrierismo, burocrazia che hanno contaminato gerarchie e curie. L'inchiesta di Franca Giansoldati, nel chiarire uno scandalo gravissimo, tiene aperta la domanda sulla riforma della Chiesa invitando a guardare con attenzione il lavoro dell'attuale pontefice.
Franca Giansoldati, Il demonio in Vaticano. I Legionari di Cristo e il caso Maciel, Piemme, Milano, pagg. 222, €15,50

Il Sole Domenica 29.6.14
Franz Anton Mesmer (1734-1815)
La febbre magnetica
Il medico sosteneva d'aver scoperto un fluido vitale che, potenziato da magneti, offriva straordinari effetti curativi
di Riccardo de Sanctis

Perché Mesmer? Perché occuparsi di un medico che ebbe successo a Parigi negli anni precedenti la rivoluzione, nonostante i suoi metodi fossero stati messi al bando dalla medicina e dalla scienza ufficiale? Solo interesse storico? Oppure una lezione ancora oggi attuale su metodi di cura non basati su prove scientifiche?
Franz Anton Mesmer (1734-1815) era nato in Svevia, ma sentendosi incompreso nella sua terra natale si era trasferito a Parigi nel 1778. L'anno successivo pubblicava a Ginevra una Mémoire sur la découverte du magnetisme animal. Sosteneva di aver scoperto l'esistenza in natura di un fluido vitale che veniva potenziato dai magneti e che aveva straordinari effetti curativi. Il suo pensiero era stato influenzato probabilmente dai lavori di Volta e Galvani e dal successo dell'elettro-fisiologia e dagli studi dell'abate Bertholon, suo coetaneo, sull'influenza del fluido elettrico sul corpo umano. Idee che risalivano a un'antica corrente di pensiero, quella dell'etere universale.
Si era laureato in medicina a Vienna con una tesi sull'influsso dei pianeti sui fenomeni fisiologici e patologici. Anche questa, una concezione fortemente radicata nella tradizione medica fin dal Medio Evo. Una teoria che all'epoca di Mesmer non doveva poi sembrare così strana, se si pensa alla fisica newtoniana trionfante che sosteneva l'interazione dei corpi e dei pianeti che si mantenevano reciprocamente in equilibrio grazie a una forza misteriosa: la gravità.
Il magnetismo naturale, conosciuto fin dall'Antichità, era stato adoperato da Paracelso per la cura con magneti di piaghe e ferite, e all'inizio del Seicento da un altro tedesco Rudolph Goclenius, autore di un Tractatus de magnetica curatione vulnerum.
Il famoso chimico e medico fiammingo Van Helmont (1580-1644) aveva sostenuto, oltre alla generazione spontanea, che l'influenza invisibile del magnetismo era un agente spirituale più che materiale che pervadeva e faceva vibrare l'intero universo. Fra le fonti di Mesmer non possiamo dimenticare il gesuita Athanasius Kircher e il suo Magnes, sive de arte magnetica del 1643. Né infine il discorso sulla polvere di simpatia pubblicato nel 1658 dal cavalier Kenelm Digby, uno stravagante inglese, filosofo, botanico e poeta, amico di Descartes. Un secolo dopo, Mesmer crea un metodo di cura che ottiene un enorme successo. Nel suo lussuoso studio parigino pazienti si immergono in grandi recipienti di legno – i famosi baquets – con acqua acidulata e limatura di metallo, afferrano alcune sbarre di ferro e creano della catene magnetiche. È un gran successo nell'alta società. Uomini e donne fanno ricorso alle sue cure per ogni sorta di disturbi. Qualche dama cade in trance, è una vera febbre magnetica... Scoppia anche uno scandalo dalle tinte sessuali...
L'Accademia delle Scienze, la Società Reale di Medicina, la Facoltà di Medicina di Parigi condannano, dopo molte polemiche, i metodi di Mesmer ma le sue "cure" hanno un gran successo e nasce, fra i seguaci di Mesmer, la Società dell'Armonia Universale con forti legami col mondo massonico.
Questa, sommariamente, la vicenda di Mesmer che è un po' lo specchio delle contraddizioni dell'epoca dei Lumi. Al pensiero razionalista e critico e a una nuova concezione della medicina si oppongono ancora resistenze di tipo animista o vitalista.
Ma perché allora occuparsi di Mesmer oggi? Franz Anton Mesmer per anni è stato considerato un precursore della psicoterapia e molti hanno sostenuto che il concetto di inconscio nasce proprio con lui. Inoltre l'importanza del ruolo carismatico dello psicologo è sottolineata dal mesmerismo, più che la prassi o l'impianto teorico della cura.
Giuseppe Lago, medico psichiatra, direttore dell'Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata (Irppi) in un suo recentissimo libro L'illusione di Mesmer. Carisma e pseudoscienza nell'epoca dei Lumi, contesta e smonta punto per punto ambedue le assunzioni. Una ricerca, quella di Lago, documentatissima, che è stata realizzata grazie anche alla possibilità di consultare in rete, gratuitamente, l'intero archivio della Bibliothéque interuniversitaire de Santé (Bium) e quello della Biblioteca Nazionale francese. Lago ha consultato e messo a confronto una quantità enorme di documenti, lettere, appunti e testi talora inediti. Molti brani vengono pubblicati per la prima volta in italiano.
Il concetto di inconscio, sia nella sua dimensione "cerebrale", sia quella dinamica, poi legata al pensiero di Freud sono concezioni più tarde, «lontane dalle suggestioni esercitate da Mesmer nel corso dei suoi interventi terapeutici» come sottolinea nella prefazione Alberto Oliverio.
Intento dichiarato di Lago, e mi sembra ben riuscito, è quello di lasciare Mesmer e la sua vicenda «fuori dall'impianto costitutivo della psicoterapia».
Nel momento attuale «in cui le neuroscienze e la psicologia scientifica producono evidenze non discutibili, dovremmo trovare il coraggio – scrive Lago – di fare pulizia nel background della psicoterapia, evitando collegamenti e assurdi riferimenti a impostazioni che hanno, invece, bisogno di una ricostruzione storica supportata dalle fonti, e non dall'entusiasmo deformante di coloro che ci presentano il "romanzo" di Mesmer, perpetuando l'illusione e il fascino che ha esercitato per tutto l'Ottocento fino a oggi».
Ed è proprio una ricostruzione storica, unica nel suo genere, quella che fa Giuseppe Lago distruggendo punto per punto una concezione "magica" del carisma in psicoterapia. Oggi, si augura Lago, non c'è più spazio per i «nuovi mesmer» gli «uomini qualunque» della psicoterapia.
Una certa dose di carisma fa parte di tutte le relazioni. Il compito di uno psicoterapeuta è quello di ridurre il carisma ai minimi termini. «Ciò che dovrebbe rimanere è l'autentica dimensione personale del terapeuta» insieme a professionalità ed esperienza.
«Se per altre discipline, come la medicina, la contaminazione con il principio carismatico appare scongiurata – almeno in parte, aggiungiamo noi – per quanto riguarda la cura della mente il rischio di commistione tra vecchi paradigmi pre-scientifici e modelli operativi è ancora pericolosamente attuale».
Giuseppe Lago, L'illusione di Mesmer, prefazione di Alberto Oliverio, Castelvecchi, Roma, pagg. 324, € 28,00

Il Sole Domenica 29.6.14
Le sentenze della Grande Guerra
Imboscati, disertori, ammutinati, ribelli, codardi: le carte dei processi rivelano come si fosse disposti a tutto per non morire
di Raffaele Liucci


I classici sono tali perché ci parlano anche del tempo in cui viviamo. È il caso di Plotone d'esecuzione, di Enzo Forcella (1921-99, giornalista con la passione della storia) e Alberto Monticone (storico ed esponente di spicco del cattolicesimo democratico). Uscito per la prima volta nel lontano 1968, più volte ristampato e ora riproposto da Laterza nel centenario del primo conflitto mondiale, questo libro offre una chiave ermeneutica inconsueta, forse provocatoria.
Formalmente, è una scelta di 166 sentenze emesse dai tribunali militari in tempore belli. All'epoca, incrinò la mitologia della «guerra patriottica». Quelle carte giudiziarie svelavano infatti un mondo d'imboscati, disertori, ammutinati, disfattisti, autolesionisti, ribelli, codardi «in faccia» o «in presenza del nemico» (una questione di diritto sulla quale si decideva spesso il destino di un imputato). Le lettere intercettate dalla censura postale erano di tenore ben diverso da quelle riunite nella classica antologia di Adolfo Omodeo (Momenti della vita di guerra, 1934), in cui gli ufficiali di completamento sprizzavano spirito di sacrificio ed ethos risorgimentale. «State pur certo che io non muoio per questa schifa d'Italia», scriveva invece un fante al padre, mentre un caporale, rivolgendosi alla moglie, paragonava i combattenti alle bestie: «si va al macello senza che tu te ne accorgi». Per non parlare di chi malediceva Cesare Battisti («hanno fatto il suo dovere a metterlo alla forca!») e dell'artigliere udito pronunciare queste parole: «Se a me toccherà di andare in trincea farò come per lo passato e cioè non farò giammai funzionare la mia mitragliatrice, e così i tedeschi verranno avanti e io mi darò prigioniero».
La Grande Guerra, insomma, è anche un campo di battaglia fra chi obbliga gli altri ad andare a morire e chi, per sottrarsi a quest'«onore», è disposto a tutto, anche a infierire sul proprio corpo. Timpani trapassati dai chiodi, mani stritolate sotto grosse pietre, occhi accecati dall'urina. Gli scartafacci processuali dischiudono un ricco inventario di pratiche automutilatrici. Ma per finire fucilati alla schiena bastava pronunciare qualche frase avventata: come era successo all'aspirante ufficiale che in una cena privata, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, aveva confessato ai colleghi di non poterne più e di bramare l'entrata vittoriosa degli Austriaci a Milano. Questa severità isterica (in parte sanata dall'amnistia del 1919) riflette l'inadeguatezza di un codice militare ancora ottocentesco, inadatto a gestire una guerra di massa.
Giungiamo così al secondo piano di lettura del libro, quello più attuale, imperniato sulla lunga introduzione, firmata dal solo Forcella e intitolata, quasi filosoficamente, Apologia della paura. Un invito a fare i conti, «senza paraocchi ideologici», con la realtà di quanti, di fronte alla guerra, a ogni guerra, manifestano distanza, insofferenza, fobia: ignorando l'«etica sociale del gruppo egemone», che prescrive il dovere di sacrificarsi in nome di un ideale superiore. Negli anni intorno al Sessantotto suonava quasi ovvio assegnare una patente politica a disobbedienti e vigliacchi, "sovversivi" in pectore. Invece, secondo Forcella, i contadini analfabeti condannati per diserzione e autolesionismo avevano semplicemente espresso il loro «no alla storia» e il loro diritto, «assoluto e inalienabile», a restare padroni della propria esistenza. In spregio ai «sanculotti di qualsiasi colore».
Certo, quando si affrontano questi temi non bisognerebbe mai confondere la parte con il tutto. Il pur significativo numero di condanne inflitte dai tribunali militari nel 1915-18 (circa 170mila, di cui 4mila a morte, 750 delle quali eseguite) fu infatti una goccia nel mare. In fin dei conti, la macchina della mobilitazione generale funzionò (oltre cinque milioni i chiamati alle armi), e la stragrande maggioranza della truppa restò fedele, sino alla vittoria finale. Un risultato di tutto rispetto, per uno Stato gracile e imberbe, com'era l'Italia del 1915. Eppure, questi minuscoli granelli di sabbia rinvenuti da Forcella e Monticone riverberano in nuce una tendenza connaturata alla modernità: ossia la crescente indisponibilità ad affidare a un'autorità esterna il diritto di decidere sulla propria vita e la propria morte. Dall'obiezione di coscienza al testamento biologico, il passo è più breve di quanto non sembri.
Non è tutto. Quest'apologo sulle "virtù" della paura tradisce un evidente richiamo autobiografico alla stagione in cui, nella Roma città aperta del 1943-44, lo stesso Forcella aveva scelto d'imboscarsi: «Sarei vissuto come quei monaci del medioevo chiusi nei loro conventi mentre la guerra divampava nei borghi e nelle campagne circostanti, e loro da tutto quel rumore non ricavavano nessuna suggestione esaltante, solo sgomento e paura», ricordava nella sua Testimonianza sull'attendismo (1974). Un'«arte della fuga» mai più rinnegata. Tanto che non mancherà di criticare, includendovi pure Cesare Pavese, quanti avevano viceversa espresso il rimorso per la «mancata prova virile» della guerra partigiana.
Pur collocandosi nell'alveo progressista, ma su scranni terzaforzisti, l'inquieto Forcella resterà sempre intriso di una «profonda, invincibile estraneità» all'oleografia della Storia ufficiale. Di qui le sue frequenti incursioni nelle praterie meno battute: dal movimento dei «Nonsiparte» (che nell'autunno '44 si ribellò alle cartoline precetto inviate dal Regno del Sud) alla Roma inerte e un po' infingarda immortalata nel suo libro postumo, La Resistenza in convento (1999). Dove lui stesso, non a caso, evoca lo «stato di atarassia» in cui visse Wittgenstein durante la Grande Guerra, quando nel fango delle trincee pose le basi del suo Tractatus.
Enzo Forcella e Alberto Monticone, Plotone d'esecuzione. I processi della Prima guerra mondiale,, Laterza, Roma-Bari, pagg. 394, € 13,00