martedì 1 luglio 2014

l’Unità 1.7.14
Ai lettori
il Cdr


Per i lavoratori de l’Unità con la giornata di oggi comincia il terzo mese di lavoro senza retribuzioni. Per alcuni collaboratori il quarto mese, peraltri si arriva all’anno e mezzo. Inaccettabile per qualsiasi azienda, ancora di più per un’azienda di sinistra. Non c’è crisi che giustifichi un comportamento di questo tipo, con i rappresentanti sindacali lasciati all’oscuro di tutto per settimane. Non ci ha dato risposte l’amministratore delegato Fabrizio Meli che ha malgestito fino a una settimana fa, chiudendo la sua esperienza nel peggiore dei modi: la liquidazione. Non ci dà risposte l’azionista Matteo Fago, che pure si premura di annunciare una rinascita della testata, ancora in edicola solo grazie al lavoro non pagato dei dipendenti. Torniamo a ricordarlo con orgoglio: se il valore de l’Unità non si è depauperato finora è solo grazie al nostro impegno, alla nostra professionalità, al nostro attaccamento a un giornale, su cui esprimiamo la nostra protesta non firmando gli articoli da quasi due mesi. Non ci hanno ancora dato risposte i due liquidatori, che incontreremo giovedì. Per noi non sarà un appuntamento formale. O si prospetteranno soluzioni concrete, oppure sarà inevitabile una reazione dura, che per il sindacato significa lo sciopero.

l’Unità 1.7.14
La risposta si chiama «ammissione umanitaria»
Anticipare nei Paesi della costa settentrionale dell’Africa il momento 
e la procedura di richiesta della protezione. Ma tutto ciò va progettato subito
di Luigi Manconi


Ma è possibile fermare questa strage? C’è un metodo o un’idea, uno strumento o una strategia - qualora ce ne sia la volontà - che non consista nell’affidarsi al buon Dio o a un destino diventato improvvisamente propizio? Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, il mare Mediterraneo è diventato una tomba d’acqua o, se si preferisce, un cimitero marino che accoglie ogni giorno i suoi morti.
Sono state, innanzitutto, le cifre crudeli di questa macabra contabilità, che ci hanno indotti a elaborare una proposta di «ammissione umanitaria». Un piano, formulato nei mesi scorsi, all’indomani del naufragio del 3 ottobre a largo di Lampedusa. Oggi quel piano, già sottoposto ai rappresentanti del governo, alle più alte cariche istituzionali e alle principali organizzazioni internazionali, e che ha raccolto consensi e osservazioni, appare più che mai indifferibile. In estrema sintesi, si tratta di anticipare geograficamente, territorialmente, diplomaticamente, giuridicamente, nei Paesi della Costa settentrionale dell’Africa, il momento e la procedura di richiesta della protezione. E si deve cominciare a progettare tutto ciò da subito.
Altri trenta corpi si sono aggiunti al tragico computo dei morti nel canale di Sicilia, nonostante gli sforzi della nostra marina militare a cui dobbiamo la vita di oltre sessantamila migranti tratti in salvo grazie all’operazione «Mare Nostrum ». Un movimento inarrestabile, carico di dolore, che non cesserà con le misure che l’Ue ha adottato finora né con quanto la task force «Mediterraneo» si appresta a fare in materia di frontiere e di cooperazione giudiziaria e di polizia.
Occorre ampliare il raggio di intervento a livello europeo, alzare lo sguardo e realisticamente percorrere una strada comune che veda l’Europa protagonista di una politica d'asilo efficace, in grado di farsi carico di uomini, donne e bambini, in fuga da guerre e persecuzioni, offrendo loro un’opportunità di vita futura. Una soluzione duratura nell’ambito della gestione delle migrazioni e della politica di protezione dell’Unione europea nei confronti dei rifugiati.
Al centro di questa azione umanitaria, la necessità di garantire asilo e protezione dando ai profughi la possibilità di chiedere soccorso senza dover rischiare la vita attraversando il Mediterraneo. E senza l’intermediazione dei trafficanti di esseri umani. Un programma di reinsediamento nei paesi europei che garantisca viaggi legali e sicuri per poterli raggiungere, con il coinvolgimento di tutti gli Stati membri, stabilendo quote di accoglienza per ciascuno stato.
Si tratta, dunque, di istituire centri e strutture nei paesi della sponda sud del Mediterraneo (Giordania, Libano, Tunisia, Egitto, Algeria, Marocco), da cui partono o dove transitano o si addensano i movimenti migratori verso l’Europa. Il primo passo è la realizzazione di presidi internazionali in quei paesi per l’avvio della procedura di concessione di protezione, presidi da istituire sulla scorta di quelli delle organizzazioni umanitarie internazionali che accolgono i profughi lì presenti. I presidi andrebbero realizzati dalla stessa Ue, d’intesa con le organizzazioni umanitarie internazionali, attraverso ambasciate e consolati dei singoli stati o la rete del Servizio europeo per l’azione esterna. Le necessarie intese con i Paesi interessati potrebbero rientrare nella cooperazione Ue sul modello dei partenariati per la mobilità, già conclusi con Marocco e Tunisia.
Questa proposta vuole essere una traccia, delineata guardando ad esperienze già esistenti - si pensi alla Germania che ha aderito a un programma di resettlement (re-insediamento) dell’Unhcr accogliendo migliaia di siriani - e la sua articolazione può essere differente ricorrendo a strumenti giuridici e procedure di altra natura. E proprio perché è forte la consapevolezza delle difficoltà di rendere concreto un piano europeo di ammissione umanitaria. Ma è una traccia che va assolutamente segnata e ulteriormente definita.
Le statistiche pubblicate da Eurostat nei giorni scorsi riguardanti i rifugiati accolti in re-insediamenti nella Ue nel 2013 parlano chiaro: sono in tutto 4.840 i profughi siriani inseriti nei paesi europei. A queste cifre ridottissime vanno accostati i 2,5 milioni di profughi rifugiati all’estero che l'Unhcr stima siano la conseguenza della guerra in Siria.
Ora tocca all’Italia e al nostro governo, fare in modo che la volontà politica degli Stati europei si indirizzi verso scenari nuovi, scelte consapevoli e condivise, lungimiranti e coraggiose. Nessun piano sarà efficace se non si parte dalla necessità di porre fine alla politica degli ultimi anni che ha causato solo morte, incapace di guardare a quanto avviene al di là del Mediterraneo.

Repubblica 1.7.14
Il diritto di respirare
di Gad Lerner


IL GROVIGLIO di corpi accatastati nei barconi fino a provocare la morte per soffocamento di chi sta sotto, è la diretta conseguenza del monopolio sul trasporto marittimo dei migranti che noi europei abbiamo concesso alle organizzazioni criminali. Stiamo uccidendo migliaia di innocenti e stiamo arricchendo le nuove mafie transnazionali.
NOI che ci indigneremmo se in simili condizioni venissero stipati gli animali destinati al macello, accettiamo che degli umani vengano caricati sui battelli a cinghiate come bestiame.
Quello che i sopravvissuti tra di loro chiamano pudicamente “il viaggio”, ma solo in pochi avranno il coraggio di rievocarlo, è la cruna dell’ago del mondo contemporaneo. Chi lo intraprende sa cosa rischia: ormai depredato di tutto, imbarcandosi è come se entrasse per sua volontà in stive le cui pareti metalliche possono trasformarsi in camere a gas, fatale ultimo azzardo dopo un’infinità di torture subite.
Uomini, donne e bambini muoiono sotto i nostri occhi in uno stretto braccio di mare per disidratazione, per affogamento e ora anche per mancanza d’aria. È grottesco pensare di disincentivarli inasprendo i controlli o negando loro accoglienza. Le sofferenze che li hanno sospinti a partire e le violenze già subite lungo il tragitto, sono incommensurabili col nostro potenziale dissuasivo.
Meritano il nostro rispetto le unità della Marina militare che con scarsità di mezzi si prodigano nei salvataggi, riscattando il disonore dei giorni in cui eseguirono l’ordine dei respingimenti. Ma è evidente che Mare Nostrum è solo un palliativo, là dove andrebbe creato subito un corridoio umanitario, ovvero un servizio civile di traghetti e voli charter per smistare razionalmente i migranti in varie destinazioni europee.
Nel recente Consiglio dell’Ue è stato ancora una volta eluso l’imperativo di un “mutuo riconoscimento” delle decisioni di asilo. Si perpetua l’assurdità per cui tale diritto di asilo viene riconosciuto solo nello Stato membro che l’ha concesso. Ne deriva una prassi ipocrita: le autorità italiane evitano tacitamente di procedere all’identificazione dei migranti approdati sulle nostre coste ma desiderosi di farsi riconoscere lo status di rifugiati in nazioni più accoglienti. Così, per favorire la loro ripartenza, dopo quello degli scafisti incrementiamo pure il trasporto illegale via terra dei passeur. Siamo apprendisti stregoni, favoriamo il riciclo di enormi profitti spesso destinati all’acquisto di armi con cui verremo minacciati e poi forse aggrediti.
Sappiamo bene che la tragedia storica delle migrazioni dalla sponda sud del Mediterraneo divide lo nostre coscienze. Il leader del principale partito di opposizione si è dichiarato contrario a aiutare i migranti perché altrimenti «finiremmo con percentuali di voto da prefisso telefonico ». L’estrema destra impersonata da Salvini resuscita la fandonia dell’«aiutiamoli a casa loro» dopo che per anni i governi che appoggiava hanno tagliato i fondi della cooperazione, favorito l’esportazione di armi, sostenuto gli aguzzini di quei popoli.
Lo stesso disimpegno europeo, che Juncker non rimedierà certo con la nomina di un commissario ad hoc , rischia di far solo da foglia di fico perché maschera inadempienze tutte italiane. Come non riconoscere un segno plateale del declino che ci affligge nel nostro essere contemporaneamente un paese sempre più vecchio e un paese restio a aggiornare le sue normative per l’integrazione dei flussi migratori. Matteo Renzi, un maestro nella conquista del consenso popolare, ha una spiccata tendenza a eludere le questioni che dividono l’opinione pubblica. Lo testimonia il dirottamento a Strasburgo di Cécile Kyenge, forse la principale novità del governo precedente. E lo conferma la messa in sordina della cittadinanza per i bambini stranieri residenti in Italia.
Eppure il cataclisma euromediterraneo in cui si trova immerso il nostro paese, per quanto difficile da gestire, ne rappresenta anche l’unica prospettiva futura di rinnovamento. Viviamo in un’epoca che ha visto schizzare a 51,2 milioni nel 2013, secondo l’ultimo rapporto Global trends dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i profughi, il numero dei migranti forzati. Molti di loro sono sfollati interni che aspirano a fare ritorno non appena possibile alle proprie case. Ma i fuggiaschi sono aumentati di ben 6 milioni nel giro di un solo anno. La Siria, la Repubblica Centrafricana e il Sud Sudan si aggiungono all’Eritrea, alla Somalia e in parte al Maghreb come luoghi in cui vivere è quasi impossibile. Gli apolidi sono circa 10 milioni, di cui solo un terzo effettivamente censiti.
Di fronte a un tale sommovimento neanche se lo volesse l’Europa potrebbe trasformarsi in una fortezza. Del resto, nella prima metà del secolo scorso, furono gli europei a emigrare in decine di milioni verso le Americhe e l’Australia. Ora al vecchio continente tocca gestire un flusso inverso, riconoscendo a noi prossima l’umanità dei miserabili in cammino. L’osmosi è un destino ineluttabile, da programmare con lungimiranza. Tanto per cominciare, abbiamo gli strumenti civili, tecnologici e militari per debellare le organizzazioni criminali che lucrano sul commercio di vite umane. La Libia, anche per nostra colpa, è caduta nelle mani di signori della guerra cui va sottratto il potere territoriale di smistamento dei migranti. Creare delle enclaves per il soccorso, l’identificazione e il trasporto sicuro è meno pericoloso che subire il loro predominio.
Il semestre europeo dell’Italia ci assegna un compito strategico, da assolvere con pietà e efficienza. Traghetti subito. Mutuo riconoscimento delle domande d’asilo. Monitoraggio comune e equo smistamento. Affinché nessuno muoia più soffocato dal corpo di un padre o di un fratello.

il Fatto 1.7.14
“Sono stati soccorsi tardi: quelle vite si potevano salvare”
Un’attivista era in contatto con il barcone: sabato mattina, al momento dell’Sos, non c’era nessun morto
di Nancy Porsia


Nawal è un’attivista della rete di assistenza che accoglie migranti e richiedenti asilo in Sicilia. Sabato, alle 6 del mattino di sabato, ha ricevuto una telefonata da una delle persone a bordo del barcone in naufragio: al momento della chiamata, non risultavano vittime tra le oltre 600 persone stipate sull’imbarcazione.
Nawal ha immediatamente rilanciato l’Sos alle autorità di competenza. Cosa sia successo nelle dodici ore successive non è ancora dato sapere, ma al momento del soccorso partito sabato sera alle 8, a bordo sarebbero stati trovati 30 morti per asfissia.
IL SISTEMA di accoglienza in Italia è al collasso. Con l’arrivo nelle ultime 48 ore di altre 5mila persone in Italia, i migranti e richiedenti asilo registrati nei primi sei mesi del 2014 sono 61mila, solo 2000 persone in meno rispetto al 2011, l’anno in cui la Libia era in preda all’anarchia della rivoluzione. Considerando che l’Europa continua a fare muro alle richieste di contribuire alle spese di Mare Nostrum, pare che l’Italia debba prepararsi al peggio. Il portavoce del ministero degli interni libico Rami Kaal spiega al Fatto Quotidiano: “Il traffico di esseri umani è gestito da potentati locali, che sfuggono completamente al controllo delle autorità nazionali. Nessuno è in grado di fare proiezioni. Non so come abbia fatto Alfano a stimare che ci siano 800 mila migranti in partenza dalla Libia”. Poi commenta: “Il flusso di questa gente disperata è un problema per l’Europa quanto per la Libia, ma noi siamo inermi”.
Nel traffico dei disperati verso l’Italia sono attive diverse città del paese nordafricano, da Misurata passando per la capitale Tripoli, Sabaratha e Surman fino alla città al confine con la Tunisia Zuwara. Qui alla rete di trafficanti già attivi durante il regime di Gheddafi, si stanno aggiungendo nuovi arrivati. “Questi spesso s’improvvisano pur di entrare nel giro”, racconta per telefono uno degli uomini del Bureau dell’anticrimine della città berbera di Zuwara, i cosiddetti uomini mascherati. “La notte tra domenica e lunedì – prosegue – abbiamo fermato tre gommoni ancora ormeggiati sulla costa, ma pronti per partire.”
SE TANTI sprovveduti oggi vogliono entrare nel business del traffico degli esseri umani, si deve sicuramente alle buone prospettive di guadagno garantite da una richiesta sul mercato più alta che in passato. L’instabilità che sta investendo la Libia dalla fine della rivoluzione spinge gli stranieri presenti illegalmente sul territorio a scappare. Spesso vengono catturati e fatti prigionieri da milizie in cerca di fondi per finanziare il proprio armamento. Altrettanto spesso, poi, le forze di sicurezza corrotte arrotondano il proprio stipendio con i soldi estorti ai migranti e richiedenti asilo in cambio della loro liberazione. Una volta liberati, questi tornano potenziali clienti di chi si arricchisce con le vite e le speranze di chi vuole lasciare la Libia.

il Fatto 1.7.14
“Grande dolore”, piccole risposte Italia arenata sull’emergenza
di Giulia Merlo


A tragedia ormai avvenuta, con altre 30 vite perse nella traversata del Mediterraneo e centinaia di profughi arrivati al porto di Pozzallo in provincia di Ragusa, il premier Matteo Renzi ha chiamato una riunione d’urgenza, “per fare il punto sull’emergenza sbarchi”.
Attorno al tavolo erano presenti i ministri dell’Interno Angelino Alfano, della Difesa Roberta Pinotti, degli Esteri Federica Mogherini e dell’Economia Pier Carlo Padoan, con il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio. Il risultato della task force è stato un’unica dichiarazione ufficiale, per bocca del presidente Renzi: “Grande dolore per i migranti”. Poi via con le altre questioni di politica interna, e i 3 ragazzi israeliani rapiti e forse uccisi dagli estremisti palestinesi hanno contribuito a sviare l’attenzione.
Alla vigilia del semestre europeo a presidenza italiana oggi al via, l’unico ad affrontare l’argomento dell’emergenza immigrazione è stato il prossimo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che ha paventato l’ipotesi di inserire nella sua squadra dell’Esecutivo Ue anche un “commissario dedicato alla questione delle migrazioni”, ma tutto rimarrà fermo fino al 16 luglio, data del suo insediamento effettivo. E ci pensa subito il commissario europeo agli Affari Interni Cecilia Malmstrom a riportare nell’austerity europea la proposta di Juncker, puntualizzando che l’Ue contribuirà maggiormente ad “aiutare l’Italia nei suoi sforzi di gestione della pressione crescente di migranti e richiedenti asilo”, ma “nell’ambito delle risorse esistenti”. Come a dire aiuti logistici sì - anche se non è chiaro nè come nè quando - ma nessun fondo extra per gestire il traffico di esseri umani nel Mediterraneo.
“Durante il semestre europeo sull’immigrazione ci giochiamo tutto”, si è limitato a commentare al termine del Cdm il ministro Alfano, che ha aggiunto: “Giovedì ci sarà un incontro tra il governo italiano e la commissione europea. Sarebbe grave l’assenza del commissario Malmstrom e, se sarà confermata, il governo si riserverebbe importanti azioni anche sul piano diplomatico”.
RIMANE INGHIOTTITO nel silenzio del ministero dell’Interno, che ha le deleghe sul tema dell’immigrazione, anche il futuro dell’operazione Mare Nostrum. Il piano, varato nell’ottobre scorso dalla Marina Militare per far fronte all’emergenza immigrazione, prevede l’utilizzo di navi militari per soccorrere i profughi anche in alto mare, costa 9 milioni di euro al mese e finisce con lo sbarco dei disperati in uno dei porti della Sicilia. L’Europa intera paga per l’agenzia Frontex, che si dovrebbe occupare del problema migratorio nel Mediterraneo, circa 89 milioni di euro l’anno e il ministro Pinotti ha auspicato “l’assorbimento di fatto da parte di Frontex dei compiti che oggi svolge Mare Nostrum”.
Mare Nostrum, definito un programma di “soccorso preventivo” dal ministro Alfano perchè le navi vanno a recuperare i profughi anche vicino alle coste di partenza, ha portato - dati alla mano - a un afflusso sempre superiore di profughi, soprattutto bambini.

il Fatto 1.7.14
Gli indifferenti
di Furio Colombo


Ecco la notizia. Matteo Renzi ha appena comunicato che il semestre europeo guidato dall’Italia si apre a Pozzallo, in Sicilia, davanti ai feretri delle ultime 30 vittime di una fuga disperata chiamata migrazione. Trenta morti per soffocamento. Ma si calcola che in fondo al mare ci sia uncimiterodialmeno20milamigranti che non sono mai arrivati. Renzi ha detto che d’ora in poi l’Europa comincia qui, sulle rive piene di cadaveri del Mediterraneo, e nessuno riuscirà a distrarre la presidenza italiana da questo dovere. Primo: basta con i morti. Secondo: noi continueremo a salvare esseri umani a tutti i costi. Terzo: noi, da soli, non possiamo farcela. Ma sia chiaro che l’Italia non potrà né vorrà affrontare alcun altro impegno prima di avere assolto a questo dovere: fermare la morte in mare. Ha detto ancora Renzi: non illudetevi di guardare altrove. Ci sono guerre, repressioni, invasioni, persecuzioni di religione e di etnia, Paesi senza governo e governi (il terrorismo) senza Paese, e tutto ricadrà su di noi (noi Europa e, prima di tutto noi, l’Italia) a mano a mano che le vittime innocenti fuggono in cerca di salvezza. Eppure siamo noi i complici di questo disastro. Noi che non abbiamo una politica estera europea. Renzi alla fine ha precisato: non è vero che vogliamo prenderli tutti. Ma è vero che vogliamo salvarli tutti. Noi, il governo italiano del semestre europeo, non ci muoveremo di qui finché l’Ue, Paese per Paese, governo per governo, non si unirà a noi. Chiediamo al nuovo presidente della Commissione Juncker di non parlarci della nomina di un Commissario all’Immigrazione. Qui non troverebbe neanche un ufficio, ma sempre nuovi morti, sempre nuovi profughi, le brandine dentro le chiese e le camere funerarie stracolme. Ha detto Renzi alla fine: è qui, è adesso che l’Italia batte il pugno sul tavolo. (N.B. Al momento di andare in stampa questo testo non è pervenuto. Pertanto è frutto di pura immaginazione. Sappiamo però che d’ora in poi, in Europa, sopra i 30 euro pagheremo con bancomat).

il Fatto 1.7.14
Le 20 mila vittime della ‘Fortezza Europa’
In 25 anni una strage continua. E il Canale di Sicilia è la fosse comune più grande del mediterraneo
di Mario Marcis


Se ci si limitasse a guardare i numeri lo si dovrebbe chiamare “Mare monstrum”, non “Mare nostrum”, secondo la dicitura latina. In 26 anni, dal 1988, il Mar Mediterraneo ha inghiottito 19.812 esseri umani. Il dato viene da Fortress Europe, blog di Gabriele Del Grande, che per anni ha viaggiato nei paesi affacciati sul Mediterraneo alla ricerca di storie. Ma le storie, i volti, senza i numeri valgono poco, soprattutto quando si parla di morti. In quella che Del Grande definisce “una grande fossa comune” i numeri che si possono estrapolare dalla cifra totale sono tanti. Il 2011 è stato l’annus horribilis delle migrazioni. Ben 2.352 migranti hanno perso la vita in quell’anno. Sono 590 i morti nel 2012 e 801 nel 2013. Il Canale di Sicilia, nella grande fossa comune, è la buca più profonda.
Le vittime sono state 7.314, di cui 5.360 sono stati i dispersi. Cercavano di espugnare la ‘fortezza Europa’, attraverso il tratto più breve, quello che collega Tunisia e Libia a Malta, ma soprattutto alla Sicilia. Tra Lampedusa e la Libia ci sono solo 355 chilometri. Un’altra tratta ‘calda’ – che non è nel Mediterraneo, ma è comunque una porta per il Vecchio continente – è quella che attraverso l’Atlantico porta alla Spagna continentale o alle Canarie. 4.910 persone di cui 2.466 disperse, sono morte nelle navi salpate da Mauritania, Senegal, Algeria e Marocco. Il Mar Egeo ha fagocitato meno vittime, ma 1.577 morti, tra i quali 857 dispersi, non sono pochi. C’è chi sui barconi neanche ci arriva. Il mare è solo l’ultimo ostacolo da affrontare per molti di loro.
PER CHI FUGGE dalla Siria o dal Corno d’Africa il Sahara è una tappa obbligata. Nei viaggi di fortuna sui camion o sui tir, dal 1996 a oggi sono morte almeno 1.790 persone, secondo i dati di Fortress Europe, ma si tratta di un dato sottostimato.
Poi ci sono i governi dei paesi del Maghreb: Tripoli, Algeri e Rabat non sono mai stati teneri verso profughi e migranti. Nel 2000 a Zawiyah, in Libia, furono sterminate 560 persone nel corso di sommosse razziste. Viaggiando nascosti nei tir hanno perso la vita per incidenti stradali, per soffocamento o schiacciati dal peso delle merci 373 persone. Circa 416 esseri umani sono annegati attraversando i fiumi frontalieri: la maggior parte nell'Evros tra Turchia e Grecia. Alla fine si arriva alla frontiera e non sempre ci sono le Fregate militari e Frontex ad accogliere. Soprattutto in passato sono state le armi spianate a ricevere i migranti. La polizia di frontiera spagnola, al confine tra Ceuta e Me-lilla, le enclavi spagnole in territorio africano, ha ucciso negli anni a colpi di fucile almeno 53 persone.

il Fatto 1.7.14
Diseredati
Immigrati contro clochard la strana guerra di Siracusa
di Veronica Tomassini


Siracusa. È una strana guerra. Non vince nessuno, a guardar bene. La guerra con le sue falangi dispiegate, tutte le mattine, davanti la mensa dei poveri, a Siracusa. C’è un pezzo di Africa anche. Questi poveri si guardano l’un con l’altro sapendo bene che la regola rimane una: vita mia, morte tua. È un esperimento empirico crudele, compete a bisogni primari, si tratta di fame, la questione è entrare dentro un numero, il numero è troppo breve, 32, fuori quella cifra, non si mangia, non c’è un secondo turno, tanto vale per tutti: italiani, africani, polacchi, arabi. Bisogna fare questa fila, allora succede che gli africani, “i neri”, siano sempre di più, lo dicono gli indigeni.
LA LORO PELLE BRILLA sotto il sole più degli altri, così sembra “agli altri” appunto; la tolleranza è davvero fragile, la convivenza anzi, tuttavia non esiste il minimo sospetto di una simile possibilità: convivenza o integrazione. Niente da fare, sono concetti ameni, nobili, ma pregni di condizioni inattuabili. I neri cosa possono farci? Un uomo di mezza età, un italiano in coda, fa il conto in percentuale, riesce bene evidentemente, poi realizza che i neri sono almeno il 70%, riesce a fare di questi conti, alla fine della coda prende il numero, si allontana, ce l’ha fatta, tornerà dopo un’ora e potrà mangiare, è nei
32. I neri sono troppi, ciò nonostante, rimuginano tra gli astanti, siracusani, disoccupati, quale identità oggi attiene a un povero? La rosa è abbastanza ampia. Ma: i neri sono di più. Cosa possono farci però? Deambulano, da un semaforo a un altro, non entrano nemmeno più nei Cie, niente, non un riconoscimento, un foglio in tasca e via; sono portatori di status paludosi, non sono niente, non sono identificati, non hanno documenti, al massimo decreti di espulsione verso frontiere talmente esotiche e impraticabili (Fiumicino per dire) da equivalere a ipergalassie.
Sappiamo che Siracusa e Augusta sono i nuovi cardini a guado di un pianeta che si sta spostando, un continente si sta spostando, due città di provincia Augusta e Siracusa sono i soli avamposti. Se non è una guerra questa, se non sono questi i precordi. Se non fosse che Siracusa e Augusta hanno perso memoria di quel che erano, adesso sono all’incirca (Siracusa in special modo) un cimitero di negozi, con il comune in default, il welfare uguale a zero, ridotte all’osso povere polis di decantata e rafferma memoria; Augusta vanta un comune assediato da ben tre commissari. Tutto il resto nella migliore delle ipotesi può definirsi: caos. Il 70% dei 25650 arrivi siciliani piombano su di esse come una scure. Ecco cosa succede allora: l’umanità negletta, in grande maggioranza a dirla tutta, diventa suo malgrado protagonista di nuove evoluzioni, nuove guerre di quartiere, si sperimenta la capacità di sopravvivere l’un contro l’altro, mai insieme. Ed è facile che in fila, nella mensa dei poveri, esplodano risse tra etnie, neanche fossimo la nuova polveriera, Bosnia del sud del mondo; siracusani versus africani, ridicolo, eppure; esperimenti indotti da bisogni primitivi, violenti e ottusi.
AD AUGUSTA l’andazzo è simile, una sola mensa, 32 posti, non è una mensa Caritas. Possiamo considerarlo un deterrente, un aggravante? È una mensa sostenuta da una raffineria. Già. Quel che si sta configurando nei due torrioni, le vedette per una questione geografica, in faccia ai barconi che non smettono di presentarsi sulla linea del mare, è la connotazione di una strana umanità, scivolata senza nemmeno accorgersene nella pochezza, cagionata dalla miseria; e poi dall’altra umanità, quella sorpresa, impaurita, ottenebrata ancora dall’oscillazione maledetta di una carretta, con gli occhi bruciati dalla sabbia del Sahara. E sono un ibrido, l’una e l’altra, che non sanno amarsi, non ancora. E gli altri sembrano così lontani.

Corriere 1.7.14
Un uomo solo al comando
di Antonio Polito


L’espressione «fare squadra» è caduta un po’ in disgrazia dopo l’uscita dell’Italia dal Mondiale. Ciò nonostante resta l’unico metodo per aver successo in qualsiasi confronto internazionale. E l’Europa è da ogni punto di vista una cooperazione basata sul confronto, quando non sulla competizione.
Desta perciò qualche legittimo dubbio il modo in cui il presidente Renzi sta affrontando la questione delle nomine. La più importante delle quali è il posto che ci spetta nella Commissione, perché sarà quell’organismo, sempre più politico, a decidere quanto tempo e quanta flessibilità ci verranno concessi per il risanamento dei conti pubblici.
In Europa lo stile di lavoro fin qui sperimentato con successo da Renzi, a Firenze come a Palazzo Chigi, potrebbe non essere il più indicato. Il premier è infatti abituato a ballare da solo. Per lui è diventato un elemento di forza, invece che di debolezza. Il suo rapporto diretto e carismatico con l’opinione pubblica prevede che non ci siano intermediari, né altri politici a fargli ombra. Dunque si contorna più di staff che di gruppi di pari, sceglie più in base alla lealtà che alla qualità. Ma a Bruxelles Renzi non ballerà da solo, dovrà agire di concerto con gli altri governi, peraltro in maggioranza di centrodestra. Né potrà minacciare i riottosi con l’arma delle elezioni anticipate, come fa in Italia.
Buon senso avrebbe suggerito dunque di puntare subito su nomi di prestigio in campo europeo, «pesi massimi» che siano in grado di influire sui dossier che ci riguardano. D’altro canto, una delle poche risorse di cui disponiamo in abbondanza sono proprio gli ex premier e gli ex ministri, grazie al forsennato turnover dei nostri governi. Anche altri Paesi si orientano verso figure di questo calibro. I finlandesi per esempio, da non prendere sotto gamba perché sono un po’ i cani da guardia del rigore tedesco (vedi Olli Rehn), hanno scelto come commissario il loro ex primo ministro Katainen. I francesi dovrebbero puntare su Moscovici, ex ministro dell’Economia. In passato gli inglesi, con Blair, non hanno esitato a nominare un uomo dell’opposizione purché di prima grandezza, come Chris Patten. Anche a noi è capitato di pensare più alla forza del nome che alla sua docilità politica: Berlusconi fece commissari Mario Monti ed Emma Bonino. E Mario Draghi è arrivato al vertice della Bce perché era il numero uno: se avessimo scelto un numero due o tre quella posizione oggi non sarebbe occupata da un italiano.
Puntare su Federica Mogherini e sulla posizione di Alto rappresentante della Politica estera presenta dunque due controindicazioni. La prima è il peso specifico che può avere nella Commissione, quando si discuterà dei dossier che ci riguardano, una persona alla sua prima esperienza europea e costantemente in viaggio per dovere d’ufficio. La seconda è che mentre aspettiamo il verdetto su di lei siamo costretti a nominare un supplente per i prossimi cruciali quattro mesi: l’ambasciatore Nelli Feroci.
Senza contare che potremmo non raggiungere l’obiettivo. A Bruxelles si dice che l’idea di affidare a un italiano la Politica estera comune non piaccia affatto ai nuovi membri dell’Est, i quali temono un eccesso di russofilia della nostra linea, dopo il caso ucraino. E se fallissimo la prima scelta, potrebbe poi essere troppo tardi per una seconda opzione più utile nella difesa degli interessi nazionali: magari quel commissariato per l’Immigrazione che Juncker pare intenzionato a istituire.

Il Sole 1.7.14
Rivoluzione annunciata ma per ora niente decisioni
di Donatella Stasio


Il governo dei tecnici doveva muoversi nel perimetro stretto delle "riforme possibili" ma garantendo interventi di "qualità". Così non è stato. Il governo delle larghe intese doveva ampliare quel perimetro e proseguire sulla strada avviata, integrando e correggendo. Così non è stato. Il governo Renzi, il più politico in assoluto, avrebbe dovuto avere la strada in discesa quanto a obiettivi e a misure per realizzarli con trasparenza e rapidità. Così non è stato. Fin dal suo insediamento, è apparso defilato e confuso sulla giustizia, privo di una visione d'insieme e finanche della volontà di cambiare passo, salvo cavalcare (con indubbia destrezza mediatica) la cronaca che spietatamente gli ricordava emergenze croniche e priorità. Così ieri mattina – allo scadere dell'ultimo giorno dell'ultimo mese del cronoprogramma renziano, quello destinato alla riforma globale della giustizia - abbiamo appreso che il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia hanno avuto «un incontro molto importante per elaborare delle linee guida che non sono dei titoli ma argomenti importanti per rivoluzionare il sistema giustizia». E in serata Renzi ha snocciolato 12 punti – altrettanti titoli – assicurando che – salvo per le intercettazioni – i testi sono già tutti pronti ma il governo vuole aspettare due mesi per dare ai cittadini la possibilità di dire la loro. Insomma, parliamone. Parliamone ancora. Se la riforma annunciata subisce un altro rinvio è perché il governo vuole farne una «rivoluzione» all'insegna della «partecipazione».
In buona sostanza, dopo quattro mesi e a poche ore dall'atteso Consiglio dei ministri che – rinvio dopo rinvio – doveva finalmente dar corpo agli annunci con un pacchetto organico di misure - così organico da imporre alle Camere uno stop su corruzione, prescrizione, autoriciclaggio e falso in bilancio - il premier e il guardasigilli hanno «elaborato» le «linee guida» della «rivoluzione» di settembre sulla giustizia. I testi possono aspettare. Non c'è fretta, si dice, perché tanto il Parlamento è «ingolfato» da altre riforme. Non c'è fretta, si spiega, perché quel che conta è arrivare a progetti «concertati» e «ponderati». Non c'è fretta, si mormora, perché con Silvio Berlusconi alleato delle riforme istituzionali è opportuno aspettare tempi politicamente migliori. Ma è difficile sfuggire alla sensazione che la giustizia resti ancora un terreno troppo scivoloso per assumersi la responsabilità politica di scelte chiare e tempestive. Meglio continuare a «parlarne» e a far finta che quelle «linee guida» siano già la rivoluzione promessa (l'unica novità operativa è l'avvio da oggi del processo civile telematico, che però viene da lontano e non dal governo Renzi). E questo è un terreno su cui il premier ha gioco facile, visto che da mesi, ormai, non c'è giornale o tv che non parli dell'imminente «rivoluzione», «stretta», «svolta» del governo.
Certo, il metodo di lavoro è importante. E due mesi in più non spostano molto se il risultato finale è efficace (anche se è un po' buffo immaginare che sotto il sole di luglio e di agosto fiorisca un dibattito sulla giustizia e che il governo riscriva i suoi testi). Ma tutto si può dire salvo che sulla giustizia si sia all'anno zero quanto a dibattiti e proposte, parlamentari, ministeriali, scientifiche. Tutto si può dire salvo che temi come falso in bilancio, autoriciclaggio, prescrizione, concussione, efficienza del processo civile e penale non siano stati sviscerati in ogni sede, nazionale e internazionale. Tutto si può affermare, salvo che la corruzione sia un accidente che ci ha spiazzato o solo una questione di «ladri» e non anche di «regole» che ai ladri hanno consentito di cavarsela quasi sempre e quindi di dilagare. Se il governo ambiva a giocare un ruolo da protagonista, avrebbe dovuto mettersi subito al lavoro, non farsi prendere in contropiede dalle inchieste su Expo e Mose e, semmai, giocare d'anticipo. Avrebbe così imposto il suo passo al Parlamento e non una frenata.
Sul civile e sul penale, sono rimasti nel cassetto testi già pronti e «concertati». Tutto da rifare, sembrerebbe. In compenso sono riemersi, come temi centrali, la responsabilità civile dei magistrati e le intercettazioni: proprio come ai tempi di Monti, quando sul tavolo doveva esserci solo l'anticorruzione. Un déjà vu di cui avremmo fatto volentieri a meno, visti i risultati.

Corriere 1.7.14
Il premier non teme agguati: rallentano solo i tempi
Ai suoi spiega che la minoranza del Pd è riuscita però a dare più forza a Berlusconi
di Maria Teresa Meli


ROMA — Preoccupato non è preoccupato per la resistenza dei dissidenti del Partito democratico che continuano la loro fronda in Senato. No, non è esattamente questo lo stato d’animo con cui Matteo Renzi ha accolto la notizia che il «tormentone» continua. Era certo, che non svanisse subito nel nulla. Se non altro perché in questi giorni si è andato convincendo che dietro una fetta di quel lavorio parlamentare per «mettere i bastoni tra le ruote delle riforme» si celino le «resistenze della vecchia classe dirigente», sia quella «politica», che quella della «burocrazia», che del presidente del Consiglio è la più pericolosa e acerrima nemica (almeno, stando ai renziani).
Però Renzi è un po’ stufo (e questo per chi conosce l’uomo sa che è un eufemismo) dei «continui agguati» dei dissidenti. Che, alla fine della festa, non hanno prodotto nulla, e hanno ottenuto come «unico risultato» quello di «rallentare l’iter della riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione», «certo non di fermarla», perché «su questo punto, è garantito, non ci riusciranno». Già, il premier è convinto che sia difficile ormai «bloccare un treno in corsa». Tanto più che, come ha spiegato più e più volte ai suoi collaboratori e ai compagni di partito a lui più vicini, «gli italiani continuano a non capire questi giochetti di palazzo: tifano per le riforme e vogliono il cambiamento». Insomma, il paradosso, per i frondisti del Partito democratico, secondo il premier e i suoi, è che hanno ottenuto di «avvicinare sempre di più l’opinione pubblica a Renzi», perché anche la gente vuole vedere cambiare le cose e legge certe resistenze come il tentativo di mantenere lo «status quo».
Ma non è questo l’unico paradosso che riguarda i dissidenti pd di Palazzo Madama. Per quei casi di eterogenesi dei fini che spesso si realizzano in politica, soprattutto nella politica italiana, «i frondisti hanno fatto tornare Silvio Berlusconi determinante, per quel che riguarda i numeri, nella partita delle riforme: bel risultato». A pronunciare esplicitamente queste parole è il senatore Giorgio Tonini.
Ma è esattamente quello che pensa il presidente del Consiglio. Il quale, però, nonostante la franchezza che gli è abituale, alle volte non può dire direttamente lui, in forma pubblica, sempre e comunque, ciò che pensa, onde evitare di acuire le tensioni. Effettivamente adesso è questa la situazione. Senza il voto dei dissidenti del Pd, l’apporto di Forza Italia diventa determinante per far passare la riforma.
Il che non significa però che in questa fase la segreteria del Pd stia meditando sanzioni disciplinari nei confronti dei ribelli di Palazzo Madama. Non è questo il modo in cui al Nazareno si pensa di affrontare la situazione. Anche se tutti ricordano che finora, ogni volta che ci sono stati dei dissensi, anche forti nel Pd, e si è creato un gruppo di minoranza, quel gruppo ha votato contro la linea della maggioranza nell’assemblea dei parlamentari, ma poi in Aula si è allineato alle decisioni del partito, per evitare clamorose spaccature. Comunque, secondo il «timing», appoggiato in questo dal Quirinale, entro dicembre la riforma del Senato e quella del Titolo V della Costituzione dovranno essere passate in prima lettura sia a Palazzo Madama che a Montecitorio, mentre dovrà essere stata approvata in via definitiva la nuova legge elettorale.
Su questo punto, com’è noto, Renzi non intende sbattere la porta in faccia ai 5 Stelle e mette in guardia i suoi dal «fare il gioco di Grillo», ma in realtà è convinto che il comico genovese non gli farà mai il piacere di regalargli un accordo sulla riforma elettorale. Piuttosto vorrà sfruttare le contraddizioni dentro il Pd e tentare di «innervosire» Berlusconi alle prese con i suoi tanti guai giudiziari, nella speranza, magari, che salti il patto del Nazareno. Quello, però, secondo il premier, resta il cardine «principale» da cui passare necessariamente quando si tratterà di rimettere mano all’Italicum.
Dunque, Renzi fa sempre il Renzi e mostra la faccia dell’ottimismo anche se non ha gradito che nel suo partito ci sia chi vuole «cercare di fermare le riforme, proprio quando sono quelle le nostre credenziali nei confronti dell’Europa». O, forse, si chiedono a Palazzo Chigi, è proprio per questa ragione che è ripartita la carica dei dissidenti?

Corriere 1.7.14
L’economia ferma allunga un’ombra su progetti ambiziosi
di Massimo Franco


Le premesse delle riforme istituzionali sembrano effettivamente buone: al punto che nella commissione Affari costituzionali del Senato, ieri FI e Lega hanno votato con la maggioranza. Rimane l’incertezza sull’elezione dei senatori, a conferma che su questo punto permane una resistenza strisciante. È possibile che Matteo Renzi riuscirà a strappare un «sì» a Silvio Berlusconi dopo la riunione indetta dall’ex premier con i suoi parlamentari. E anche sulla giustizia, l’annuncio di un cambio di passo e di norme è comunicato quasi trionfale. L’impressione è che anche su questo punto Palazzo Chigi prepari una mezza rivoluzione, sebbene i testi di alcune delle misure non siano pronti.
Il problema è che il dinamismo renziano appare zavorrato non tanto dai contrasti nella sua coalizione ma da uno sfondo economico tuttora pessimo. Il Prodotto interno lordo (Pil) rimane quasi immobile, frustrando le speranze di ripresa. E questo aumenta la possibilità di una manovra correttiva in autunno: un orizzonte sempre esorcizzato e smentito dal governo. I dati diffusi ieri dall’Istat, in realtà, erano parzialmente prevedibili e attesi. Da giorni si parlava sotto voce dell’esigenza di intervenire per correggere un andamento dei conti pubblici destinato a peggiorare. E le polemiche alimentate da FI per il modo in cui alcuni esponenti tedeschi di primo piano negano concessioni all’Italia in materia di flessibilità sulla spesa, acuiscono la confusione e la preoccupazione.
Finora, il ministro Pier Carlo Padoan ha sempre rivendicato la bontà dei provvedimenti presi: i famosi «compiti a casa». Il dubbio che possano non bastare, però, aleggia, sebbene Renzi continui a godere di percentuali di consenso superiori alla metà della popolazione. Il capo del governo assicura che il semestre di presidenza italiana dell’Europa sarà segnato dal rispetto dei vincoli finanziari e in parallelo da una pressione sulle cancellerie per rilanciare l’economia e inseguire la crescita.
Ma è come se gli indicatori della crisi si moltiplicassero contro la volontà e le intenzioni di tutti. Un’immigrazione clandestina che spaventa l’opinione pubblica e produce tragedie in mare come l’ennesima di ieri nel Canale di Sicilia, può peggiorare i rapporti con le nazioni del Nord Europa, contrarie a condividere il peso di questo esodo di disperati. E pone un problema di costi, sfruttato spregiudicatamente dal populismo leghista. La riunione a Palazzo Chigi tra premier e ministri degli Esteri, della Difesa e dell’Interno, con il Cdm iniziatosi con due ore di ritardo, fotografa una situazione grave e difficile da maneggiare. Forse per questo Renzi ha preferito soprattutto sottolineare i passi avanti sulle riforme, con la solita postilla «alla faccia dei gufi»: soprattutto quella della giustizia.
Renzi ha esaltato un provvedimento in dodici punti che segnerebbe, è la sua tesi, «l’addio ai tribunali pieni di scartoffie. La nostra scommessa è che si possa discutere di giustizia in modo non ideologico». Ma il tema vero, e potenzialmente esplosivo, è quello che tocca i rapporti tra politica e magistratura. «Sono vent’anni che sulla giustizia si litiga senza discutere», spiega Renzi. «Vorremo discutere di giustizia senza litigare». Il governo si dà due mesi di tempo. E in modo cauto ma chiaro lascia capire l’intenzione di intervenire su temi come la carriera dei magistrati, l’ambito delle intercettazioni, la responsabilità civile dei giudici. Sa di toccare un terreno minato, e infatti parla in modo problematico, attento a rassicurare la magistratura. La vera bomba ad orologeria, però, rischia di essere quella economica. Forse per questo se ne parla poco.

l’Unità 1.7.14
Cattolici, ma è vero che non contano più in politica?
di Giorgio Merlo


DA PIÙ PARTI CIRCOLA UNA TESI ALQUANTO SINGOLARE. E CIOÈ, I CATTOLICI NELLA VITA POLITICA ITALIANA DI OGGI «CONTANO» QUASI NULLA, PER NONDIRE NIENTE. Tesi singolare perché non c'è quasi forza politica che non dichiari di avere leader che affondano le loro radici nell'area cattolica, o nei valori cattolici o che abbiano avuto una formazione riconducibile alla cultura cattolica. Ora, delle due l'una. O questi leader politici sono cattolici, e cristiani, - di facciata - oppure nella concreta declinazione politica e legislativa sono sostanzialmente indifferenti, se non estranei ai valori di riferimento. Una riflessione legittima, credo, perché attorno alla risposta a questa domanda riusciamo anche a capire qual è l'incidenza reale e pubblica della cultura cattolica democratica e del popolarismo di ispirazione cristiana nel nostro paese e, nello specifico, nella politica italiana.
Al riguardo, non c'è alcun dubbio che paragonare la stagione cinquantennale della Dc con la situazione contemporanea sarebbe del tutto fuori luogo. Un paragone anacronistico per un semplice motivo: oggi non esiste più, e forse non esisterà mai più, un partito di ispirazione cristiana in cui si riconosce una forte maggioranza dei cattolici italiani. Un partito, comunque, che rifletteva quel contesto storico e che è nato e decollato perché prodotto di quella stagione politica e culturale. Un partito di ispirazione cristiana, di massa, popolare e interclassista, non nasce come un fatto di laboratorio ma perché riflette le esigenze e le domande che provengono dalla società in quel particolare momento storico. Oggi, semplicemente, non esiste né quella domanda né quella richiesta.
In secondo luogo il pluralismo politico dei cattolici è un fatto largamente acquisito e metabolizzato. Certo, come emerge anche da vari documenti ecclesiali, non tutti i partiti possono dire apertamente e pubblicamente che si rifanno ai valori cristiani o che possono sottoscrivere riflessioni e istanze che provengono da settori dell'area cattolica italiana o dagli stessi ambienti ecclesiali. Ma sul pluralismo politico dei cattolici italiani il dato è ormai irreversibile e nulla può renderlo un fatto episodico o revisionabile.
In terzo luogo non esiste più un personale politico con una solida, qualificata e visibile cultura cattolica democratica e popolare. Certo, questo non dipende dai leader politici di oggi né può essere addebitato come una responsabilità personale o collettiva. Semplicemente, sono cambiate profondamente le modalità di formazione e di selezione della classe dirigente politicamente impegnata. E la presenza dei cattolici nei vari partiti o movimenti si caratterizza prevalentemente sul versante della capacità personale di saper incidere nella legislazione ai vari livelli istituzionali. Senza più strutture organizzate e ferree. Del resto, non solo sono tramontati i partiti identitari sul fronte cattolico, ma sono tramontate anche le cosiddette correnti organizzate all'interno dei partiti. Anche dei partiti «plurali» come i l Partito democratico. Per non parlare di altri partiti dove questa preoccupazione, o questa sensibilità, non è mai esistita. Per fermarsi al Pd, è noto che l'area popolare e cattolica democratica che si riconosce in quel partito sin dall'inizio non ha dato vita a correnti organizzate riconducibili direttamente a quel filone culturale. E questo per il semplice motivo che in un partito plurale che è nato per superare le precedenti identità politiche e culturali, difficilmente può riproporre al suo interno la divisione identitaria ed organizzativa del passato.
Tutto ciò non significa arrivare alla conclusione che i cattolici in politica oggi contano poco o nulla. Tutto ciò non significa, ancora di più, che i cattolici contano politicamente solo e soltanto se danno vita ad un partito in cui si riconoscono solo cattolici o che declina una politica riconducibile solo a quel patrimonio culturale. Se così fosse, le lancette della storia si dovrebbero riportare indietro di qualche decennio con il rischio di cadere in una nuova e, per certi versi, inedita deriva clericale e confessionale. Insomma, i cattolici possono «contare» sul terreno della politica e nelle istituzioni anche senza una presenza organizzata nei rispettivi partiti. Il lievito della presenza cattolica, ovviamente laica e pluralistica, può manifestarsi concretamente attraverso le singole scelte politiche e non nella declamazione astratta dei valori e dei principi. Dopodiché, e qui il vuoto da colmare è gigantesco, si tratta di far ripartire una nuova stagione di seria e qualificata preparazione di una nuova classe dirigente di ispirazione cristiana. Ma su questo versante la responsabilità non è di coloro che si impegnano in politica ma, semmai, di quelli che devono fornire strumenti e modalità per formare una classe dirigente che non sia solo riconducibile ad una fresca carta di identità, ad una buona performance televisiva o ad una efficace batteria di battute e barzellette. Per quelle non servono né formazione, né studio, né spiritualità né approfondimento. È sufficiente la «lezione» berlusconiana. Che, purtroppo, ha contagiato in modo trasversale e profondo ampi settori della società italiana. E non solo quelli di centro destra.

Repubblica 1.7.14
Si ferma l’Italicum rinviato a ottobre
di Francesco Bei e Giovanna Casadio


ITEMPI si allungano. E a farne le spese potrebbe essere la nuova legge elettorale, sacrificata sull’altare della riforma costituzionale. Tutto il cronoprogramma immaginato da Palazzo Chigi rischia di saltare, insieme alla promessa di Renzi di vedere approvato l’Italicum prima dell’estate almeno in commissione.
LOSA bene il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. Con Anna Finocchiaro, la presidente della commissione affari costituzionali di Palazzo Madama e con il capogruppo dem Luigi Zanda ne hanno discusso a lungo ieri mattina. «Dobbiamo accelerare al massimo per far posto alla legge elettorale - ha chiesto Boschi - Almeno cerchiamo di incardinarla prima della pausa estiva». Obiettivo quasi impossibile da centrare.
In Forza Italia lo scontro tra i favorevoli al patto delle riforme con il Nazareno (Verdini, Romani e Toti) e l’ala dura decisa a fare saltare tutto (Brunetta, Minzolini) è sempre più acceso. La riforma Boschi? Per il Mattinale vicino a Brunetta è «una cosa che non esiste al mondo». Tutto è appeso all’assemblea forzista di giovedì, nella quale Berlusconi tenterà di convincere i ribelli a desistere. Non a caso la riunione di oggi dei senatori del Pd è saltata: è rinviata a giovedì pomeriggio, dopo quella di Fi. Nell’incontro della mattina a Palazzo Chigi la task force democratica, d’intesa con il capogruppo forzista Romani e relatore della Lega, Roberto Calderoli, decide di procedere in commissione solo sui punti condivisi. Il resto, le questioni più spinose e i nodi - a partire dall’elezione dei nuovi senatori fino all’immunità - vengono accantonati in attesa di capire cosa accadrà nelle file berlusconiane.
Ma questa dilazione sulla riforma costituzionale mette a rischio l’Italicum. Se la commissione finirà il suo esame non prima della fine della prossima settimana, in aula il Ddl Boschi arriverà soltanto a metà luglio (qualcuno indica persino il 21 del mese). A quel punto addio riforma elettorale, visto che la commissione affari costituzionali dovrà esaminare anche i decreti in scadenza. Come ammette un senatore dem, «l’Italicum sarà un frutto autunnale». Lo slittamento, oltre al danno d’immagine per Renzi, porta con sé un pericolo. Se la partita resta aperta troppo a lungo, tutto può essere rimesso in discussione, che è proprio la scommessa di chi punta a stravolgere l’impianto concordato tra il segretario-premier e l’ex Cavaliere. Non a caso l’Ncd ha suggerito a Renzi di legare in un accordo politico le due riforme, ovvero il superamento del Senato in Camera delle autonomie e il modello elettorale, concordando subito le modifiche all’Italicum. Gaetano Quagliariello, che segue per Alfano il dossier riforme, è convinto che non si possa rinunciare al passo doppio: «È impensabile immaginare un via libera al nuovo Senato se prima non ci sarà un’intesa nella maggioranza su quanto va cambiato nella legge elettorale».
Renzi, fedele all’impegno che le riforme si fanno con tutte le forze politiche, offre intanto ai 5Stelle un pacchetto di proposte sulla legge elettorale. Lo fa con una lettera, che tatticamente serve a evitare l’accusa di sottrarsi al confronto avendo un patto blindato con Berlusconi. Ma il prezzo da pagare è, di fatto, un ulteriore allungamento dei tempi sull’Italicum. «Le riforme devono avere più interlocutori possibili - ricorda Zanda - è importante quindi che anche i grillini siano della partita ». I 5Stelle si stanno dimostrando insolitamente dialoganti. Questo non vuol dire che Renzi sarà presente di persona al prossimo incontro come gli ha chiesto Luigi Di Maio, il vice presidente grillino della Camera.
Nell’attesa che Forza Italia si chiarisca le idee, i relatori del Ddl Boschi, insieme con il governo, stanno comunque facendo di tutto per non trovarsi impreparati all’appuntamento. Il lavoro di mediazione sulle questioni più intricate è a buon punto. Non solo sul Senato elettivo - che i Dem sono convinti non abbia nessuna possibilità di resuscitare in aula nonostante i dissidenti della stessa maggioranza - ma anche sul nodo dell’immunità da concedere a i nuovi senatori. La Corte costituzionale in via riservata ha fatto sapere di non considerare opportuna l’assegnazione della competenza sulle autorizzazioni a procedere. La palla è quindi tornata alla politica. L’ipotesi su cui si sta cercando un compromesso è quella della «insindacabilità », ovvero i senatori saranno coperti da una immunità depotenziata che varrà solo per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni.
L’altro scoglio è quello relativo all’elezione del capo dello Stato: i ribelli forzisti hanno infatti sollevato l’obiezione che un solo partito potrebbe monopolizzare la candidatura alQuirinale, grazie a un’assemblea parlamentare dominata con il premio di maggioranza. Una modifica suggerita dal dem Francesco Sanna prevede che al parlamento in seduta comune si aggiungano anche i 73 eurodeputati italiani eletti con il proporzionale. Ma ci sono anche altri emendamenti per riequilibrare il plenum per l’elezione del capo dello Stato presentati a Palazzo Madama da Miguel Gotor e da altri senatori della corrente dem Area riformista. Prevedono di aumentare la quota dei grandi elettori per regione, ma anche una diminuzione del numero dei deputati. Potrebbero essere ritirati in commissione, così da evitare la bocciatura, per essere ripresentati in aula. Nella riunione della mattina tra Boschi, Zanda e Finocchiaro all’ordine del giorno c’è anche il rischio di agguati in aula che vedano l’asse tra i dissidenti democratici di Chiti e Casson con i “falchi” forzisti di Augusto Minzolini e l’apporto dei 5Stelle. Conti alla mano il pericolo è stato ridimensionato: «Resterà comunque la stragrande maggioranza dei senatori a favore del Senato così come lo ha ridisegnato il governo, se ne faranno una ragione ».

il Fatto 1.7.14
Renzi, parole parole parole
Conferenza stampa imbarazzata dopo un Cdm che non ha deciso nulla
Il problema è non scontentare B.
Commedia renziana: “tesoro, mi si è ristretto il bilancio”
Poletti svela che manca un miliardo per la Cig, Morando non esclude la manovra correttiva, il Pil va ancora male e l’inflazione peggio
di Marco Palombi


Il problema di questo governo, così giovane e dinamico, è che la realtà è vecchia e testardissima. Ha i suoi tempi, i suoi riti, una sua forza che sta tutta nella costanza. E piano piano se ne va accorgendo anche la banda Renzi. Dai proclami di svolta, le battute, il gioco d’attacco, ora cominciano i “vedremo”, i “sarà difficile” fare questo o quello, i rinvii senza data. Delle riforme istituzionali o d’altro genere vi raccontiamo in altre pagine, qui si discute di economia e conti pubblici. È in questo campo che l’esecutivo si gioca tutto, è in questo campo che ha adottato il suo unico atto di rilievo: i famosi 80 euro. Attorno al premier il clima va cambiando rispetto ai peana pre e post elettorali. Lo si coglie da molti segnali. L’editoriale con cui Eugenio Scalfari, su Repubblica di domenica, ha vaticinato una manovra correttiva da 12 miliardi, per dire. O le defezioni sparse di membri dello stesso governo rispetto all’ottimismo obbligato del premier. Ieri, ad esempio, sui giornali si potevano leggere le interviste di Graziano Delrio (che a ragione dubita, come potete leggere qui sotto, della possibilità che l’Italia possa tagliare sensibilmente il suo debito pubblico a breve), del viceministro dell’Economia Enrico Morando (che dubita invece della possibilità di ottenere i risparmi attesi dalla spending review e sulla manovra correttiva imposta dai parametri Ue risponde, appunto, “vedremo”), del ministro del Lavoro Giuliano Po-letti, il quale senza particolari patemi ha annunciato che per la Cassa integrazione in deroga quest’anno “manca un miliardo di euro”, perché i soldi per il 2014 sono stati spesi per coprire il 2013. In pratica, ha tradotto la Cgil, 50mila lavoratori rischiano di rimanere senza copertura: soprattutto quel pezzo di industria italiana che non vive di esportazioni (medie imprese, visto che le piccole non ottengono cassa in deroga), ma pure il commercio, la distribuzione, la logistica.
CONTI CHE BALLANO ad un ritmo che non è scandito dal premier e al netto di altre difficoltà ancora sottaciute. Bruxelles che pretende il rispetto degli impegni presi sui conti pubblici (forse non sanno che in Italia dicono che “l’austerità è finita”) o il fatto che oltre alla Cassa integrazione ci sono parecchie altre spese non finanziate per il 2014 (le missioni militari all’estero da luglio in poi, il 5 per mille e altro). Pian piano, insomma, la realtà torna al centro della scena: “Tesoro - ci svelerà Renzi, a cui piacciono le citazioni pop - mi si è ristretto il bilancio”. E fosse solo quello: all’esecutivo si sta stringendo un po’ tutto. Prendiamo il caso dell’inflazione: ieri l’Istat ha certificato che l’operazione sugli 80 euro non ha avuto alcun impatto sui consumi. La dinamica dei prezzi a giugno, dice l’istituto di statistica, si è infatti fermata allo 0,3% dallo 0,5 di maggio. “È un campanello d’allarme che continua a squillare e non è chiaro se la politica se ne è resa conto”, dice Sergio De Nardis, capoeconomista di Nomisma: “L’azione della Bce può non essere sufficiente e per evitare stagnazione e rischi di deflazione occorre un quadro di stimoli europei più incisivo”. Anche sul fronte della crescita l’Istat - in una nota mensile pubblicata ieri e passata quasi inosservata - ha provveduto a mettere una pietra tombale sul roseo futuro dipinto dal brillante inquilino di palazzo Chigi: nel secondo trimestre, vi si legge, “la variazione congiunturale del Pil è prevista ricadere in un intervallo compreso tra -0,1% e +0,3%”, le stime sono riviste al ribasso visto che tra aprile e giugno “il recupero dei ritmi di attività economica dovrebbe risultare più graduale di quanto atteso all’inizio dell’anno”. Ma la ripresa arriverà nella seconda metà dell’anno, obietteranno gli inguaribili ottimisti e i renziani.
No, dice Istat: “Il Pil è previsto evolvere intorno a ritmi sostanzialmente analoghi anche nella seconda metà dell’anno in corso”. Quindi, anche tenendo conto del dato consolidato del primo trimestre (-0,1%), “la variazione del Prodotto interno lordo nella media del 2014 risulterebbe debolmente positiva” . Breve traduzione: seppure cresceremo, lo faremo al ritmo dello zero virgola qualcosa e sicuramente non allo 0,8% previsto dal governo Renzi.
LA COSA non è senza conseguenze: significa non produrre posti di lavoro, meno ricchezza per gli italiani, meno gettito per l’erario e pure previsioni sui conti pubblici decisamente da rivedere. Tutto dice manovra correttiva, solo che manovra correttiva significa nuove misure recessive. La realtà ha durezze che né le battute, né le esperienze felici e così formative dell’Erasmus riescono a smussare.

il Fatto 1.7.14
Interessi su interessi, lo scaricabarile del regalo alle banche
Anche la ministra Guidi disconosce la misura che reintroduce l’anatocismo. Il Pd: la cancelleremo
di Carlo Di Foggia


È proprio orfano l'ultimo grande regalo alle banche. Anche il ministro dello Sviluppo Federica Guidi fa melina sull'anatocismo. La contestatissima norma che reintroduce gli interessi sugli interessi a debito dei correntisti in rosso è di nuovo legge, ma non ha un padre. È stata inserita nel decreto “competitività”, materia di competenza del ministero della Guidi. Ma “la genesi” – assicura lei – non è sua: “Quella parte del decreto è opera del Tesoro”, ha spiegato in un'intervista a Repubblica. “Una polpetta avvelenata della burocrazia” secondo il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia (Pd), che promette di farla saltare in Parlamento. Chi l'ha voluta? “So che sembra incredibile, ma non è chiaro - spiega una fonte autorevole del ministero dell'Economia - Sono decreti mostruosi, dove viene infilato di tutto”. Nessun accordo politico? “Di sicuro la norma viene da Bankitalia e dipartimento del Tesoro, un favore clamoroso su pressione delle banche”.
NEI CORRIDOI di via XX settembre si parla di un interessamento del viceministro Enrico Morando (Pd), e c'è anche chi ipotizza un maldestro tentativo di compensare la “stangata” voluta da Matteo Renzi per coprire parte dal bonus Irpef: l'aumento della tassazione sulle plusvalenze miliardarie incassate dagli istituti di credito grazie alla rivalutazione delle quote di Bankitalia (regalo targato Letta-Saccomanni): 1,8 miliardi (su 7,5 di benefici contabili). L'anatocismo è finito nel testo dove il governo ha fatto confluire le norme stralciate dal decreto sulla Pa per ordine del Quirinale, perché “troppo eterogenee”. Un testo “omnibus” dov’è finito di tutto. Ai tempi di Renzi, nessuno ha il pieno controllo politico della scrittura delle norme, e così lobbisti e professionisti hanno maggiori possibilità di far passare questo o quell'altro comma. Anche senza padri politici, però, il pasticcio è fatto. Eppure è stata la battaglia più sentita dalle associazioni dei consumatori, in particolare dall'Adusbef. Una pratica che risale addirittura a un regio decreto del 1942, andata avanti per decenni e appoggiata da tutti i governi, a cominciare dal quello di Massimo D'Alema, che nel 1999 l'ha inserita nel Testo unico bancario. La si credeva morta e sepolta sotto il peso delle pronunce a raffica di tribunali, Cassazione e addirittura una storica sentenza della Corte costituzionale arrivata nel 2000. Fino ad allora, se si chiedeva un prestito, gli interessi sulla somma ottenuta venivano a loro volta sommati ogni tre mesi per calcolare i nuovi interessi. In questo modo i soldi da restituire aumentavano in modo esponenziale. Tutto finito nel 2000? Non proprio. I tentativi sono continuati, soprattutto per evitare alle banche di dover restituire i soldi. Già nel 2011 il ministro del Tesoro Giulio Tremonti inserì nel consueto “milleproroghe” di fine anno una norma che in pratica sanava tutto il pregresso, bloccando i rimborsi richiesti dai clienti. Una “prescrizione breve” in barba a una sentenza della Cassazione arrivata solo pochi giorni prima e puntualmente bocciata dalla Consulta nel 2012. L'anno dopo, il divieto di ricorrere a questa pratica è stato inserito nella legge di stabilità. Un testo, in verità, che per stessa ammissione del Mef era poco chiaro, e di fatto lasciava aperta la possibilità a un ripensamento. Come infatti è avvenuto. Ora si riparte da capo, e poco importa che - come recita l'articolo 31 del decreto “competitività” - il calcolo non avverrà più ogni tre mesi, ma solo ogni anno. L'Adusbef (protestano anche le altre associazioni consumatori) ha già annunciato ricorso contro “l'ennesimo regalo alle banche”, che oggi incassano l'obbligo di usare il pos per saldare i professionisti, voluto dal governo Monti, che pagheranno fino a 1200 euro l'anno solo di commissioni.
MA LA BEFFA peggiore è per i correntisti: oltre all'anatocismo (senza interventi, scatterà da agosto), sempre da oggi sale dal 20 al 26 per cento la tassa sugli interessi maturati sui conti correnti. Per chi finisce in rosso, invece, si paga la “Commissione di istruttoria veloce”: fino a 70 euro per un solo giorno di sforamento.

il Fatto 1.7.14
Già bocciata dalla Consulta, come funziona la norma


L'articolo 31 del decreto “competitività” (91/2014) affida al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr) “le modalità e i criteri per la produzione, con periodicità non inferiore a un anno, di interessi sugli interessi maturati”. È il ritorno dell'anatocismo, cioè il pagamento degli interessi non solo sulla somma originaria del prestito, ma anche sugli interessi addebitati nel corso del tempo. Una pratica che in Italia risale a un regio decreto del 1942, utilizzata soprattutto verso i correntisti che finiscono in rosso. In pratica, se una persona sfora di 100 euro sul conto corrente e deve pagare 8 euro di interessi, con l'anatocismo si calcolano i successivi interessi non più sulla cifra iniziale di 100 euro, ma su quella di 108. Così il tasso sale e insieme a lui anche i soldi da restituire. Con la nuova norma, il calcolo non verrà fatto ogni tre mesi ma ogni anno e partirà fra due mesi per i conti aperti a partire dal 25 giugno e sei mesi per quelli antecedenti. La pratica era stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2000. La legislazione canonica è stata l'ultima a vietarla.

il Fatto 1.7.14
La giornalista Milena Gabanelli
“Il Pos non basta: lotta all’evasione con le detrazioni”
di Alessio Schiesari


Come sempre in Italia facciamo le cose a metà”. Milena Gabanelli, giornalista conduttrice di Report che della lotta all’evasione ha fatto un cavallo di battaglia, accoglie con favore la norma che impone a tutti di munirsi di Pos, ma non le sfugge la contraddizione di una norma che stabilisce un obbligo, ma non la sanzione corrispondente.
Due anni fa lei ha lanciato una campagna per scoraggiare l’uso del contante. Questa misura va in questa direzione?
È la migliore forma di contrasto all’economia sommersa. L’obbligo di Pos è cruciale, ma per essere determinante nella lotta all’evasione occorre anche “incoraggiare” il cliente a preferire i pagamenti tracciabili, per esempio consentendo la detrazione di alcune spese.
La nuova legge prevede l’obbligo di munirsi di Pos, ma nessuna sanzione per chi non ottempera. Non è un controsenso?
È nostra abitudine fare le cose a metà. Quando negli anni 70 è stato reso obbligatorio il registratore di cassa, pena pesanti sanzioni, ci fu la sollevazione degli esercenti, ma si andò dritti, e non è morto nessuno. È comunque un buon segnale, certo che non basta. Bisogna fare di più per l’emersione del sommerso, credo che il governo lo sappia. Vorrei sapere qual è il piano per la lotta alla grande evasione e se intendono tirarla ancora per le lunghe con l'introduzione del reato di autoriciclaggio..
Ricorda l’ultima volta in cui ha chiesto di pagare con
bancomat si è vista opporre un rifiuto?
Due ore fa, dal ciclista che le biciclette le vende pure. Mi ha sostituito il sellino, ma accetta solo contanti. Sabato scorso l’estetista. Ho tirato fuori il bancomat per pagare cento euro e mi ha detto: “Qui all’angolo c’è lo sportello di banca, vada a prelevare e poi torni perché noi preferiamo non avere tutti quegli impicci”.
La media di Pos installati in Italia è già più alta della media Ue, il problema è che si usano poco: secondo Banca d’Italia i pagamenti elettronici pro capite sono 74 l’anno contro i 194 di media dell’Eurozona. Inoltre, il 69% degli italiani non vuole cambiare le abitudini di pagamento. Non crede che in Italia esercenti e consumatori tendano a sentirsi complici nell’eludere il fisco?
Le abitudini si cambiano in fretta se c’è una buona motivazione. Si dice che noi italiani, siccome siamo un popolo di anziani, facciamo fatica ad avere dimestichezza con “le carte”. Vorrei ricordare che quando Tremonti introdusse la social card di 40 euro, furono più di 1 milione gli over 65 disagiati a mettersi in fila per avere la famosa carta. Il punto non è questo, ma la solita storia: paghi in contanti e ti faccio lo sconto. Bisognerebbe far capire che quel 10% che risparmi nell’immediato ti viene ripreso con un servizio in meno o con un aumento del ticket sanitario, o dell’Iva.
La Cgia di Mestre stima i costi per l’installazione di un bancomat tra i 1.183 e i 1.240 euro l’anno. In molti vedono in questa manovra un ennesimo regalo alle banche. Che ne pensa?
Le banche fanno il loro mestiere, che in Italia è quello dell’usuraio. Ricordo che Monti voleva ridurre con decreto le commissioni bancarie per l’utilizzo delle carte di credito, ma poi non se ne fece nulla. Occorrerà ripensarci e magari agire senza discuterne troppo. Il punto è questo: il 20% della nostra economia è sommersa, e si nutre di contanti. Far emergere una buona parte di questo sommerso significa poter avere le risorse per abbassare le tasse, quindi alla fine ne beneficiano tutti: cittadini, commercianti, professionisti e il mercato perché si ripristina una concorrenza leale.

il Fatto 1.7.14
Giustizia, una paginetta spot per poi discutere con Silvio
Il Governo presenta le “linee guida”. Due mesi di chiacchiere in arrivo
di Wanda Marra


Una grande consultazione popolare online. Un metodo, uno stile”. La riforma della giustizia non c’è, si riduce a 12 “linee guida”, una paginetta stringata, che viene rimandata sullo schermo di Palazzo Chigi, ma Matteo Renzi, giacchetta blu elettrico e camicia bianca senza cravatta, si carica da solo via via che la annuncia e la racconta. Stavolta, il premier buca pure i tg delle 20, e arriva in conferenza stampa poco dopo le 20 e 30. Espressione compunta sui migranti: (“La giornata di oggi è stata segnata dal nostro dolore”), poi parte la più classica “super cazzola” sulla nomina di Joseph Weiler, presidente onorario dell’università di Fiesole, a cui il governo decide di concedere la cittadinanza italiana. Degli alti meriti previsti, evidentemente, il primo è lavorare alle porte di Firenze. Armi di distrazioni di massa.
TUTTI si aspettano di capire com’è finito il dibattito sulla giustizia, il premier divaga. Accanto a lui il Guardasigilli, Andrea Orlando, ha una faccia bianca come un lenzuolo. Dall’altra parte, Angelino Alfano, sorride solo se interpellato. Ma lui, Matteo, non si scompone. La giustizia, dunque? Da oggi al 31 agosto si apre “una grande discussione”: “filosofica, concettuale, astratta, concreta”. Chi più ne ha più ne metta. La mail c’è già, è quella della riforma della Pa: rivoluzione@go  verno.it  . Intanto il premier accumula parole. Descrive un Csm in cui si distingue tra “chi giudica e chi nomina”, favoleggia di una giustizia civile che “dimezza l’arretrato”, assicura che sulle intercettazioni una proposta non c’è. Tutto questo perché possa partire la “più grande operazione partecipata della storia” . Più i minuti passano, più Orlando, silente, riprende vigore: meno ci mette la faccia meglio è. D’altra parte, lui ci aveva creduto che ieri la riforma sarebbe partita. E anche se è un bravo incassatore, a un certo punto sbotta. “Sarà la rivoluzione dell’Orlando pacifico, non dell’Orlando furioso. L’Orlando doroteo”, scherza Renzi. Che lo tira in ballo continuamente, a proposito delle correnti del Pd e immaginandolo intercettato. “Fai un altro esempio”, dice lui a mezza bocca. Il Guarsasigilli in un Cdm iniziato con due ore e mezza di ritardo, causa riunioni precedenti su immigrazione e nomina del sostituto di Tajani non proprio indolori, le linee guida le ha illustrate. Ritagliandosi di fronte a un Renzi più estremista il ruolo di pontiere con i magistrati. Resistenze le loro che frenano. Ma ormai di riforma vera e propria se ne parla forse prima di Natale. Il premier fa il pifferaio magico, i giochi sono ben altri. “Non ci sono le condizioni ora per fare un pacchetto completo”, spiega un renziano ben informato. Perché, “anche Berlusconi vuole avere voce in capitolo. E non tanto sui singoli temi, quanto sulla scrittura delle regole”. Falso in bilancio, ma non solo, insomma. Senato e giustizia vanno alla “stessa velocità”: “Berlusconi non fa passare le riforme costituzionali se non ha qualche garanzia sulla giustizia. E Matteo non affronta la questione, se non incassa il Senato”. Per capire l’intreccio, basta scorrere all’indietro il film della giornata.
“OGGI cominciamo. Ecco qua, abbiamo il faldone”. Roberto Calderoli, abbronzatissimo, versione padre costituente, si aggira per Palazzo Madama con fasci e fasci di carta sotto al braccio. “Sì, iniziamo a votare in Commissione. Quando finiamo? Avevo preventivato il 9 luglio, ma sono stato ottimista”. Alle 16 la Commissione Affari Costituzionali è circondata dai fotografi. Grande attesa per il primo voto della “grande riforma” dell’era Renzi. Peccato che non si capisca neanche se si farà. Arrivano i protagonisti. Anna Finocchiaro, tutta in nero, commenta solo: “C’è il pubblico delle grandi occasioni”. Sguardo dall’alto, del tipo non mi chiedete niente. Quasi ultima, tacco a spillo rosso, camicia rossa, sorriso da stella del cinema in passerella arriva il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. È lei la madrina, e non si lascia abbattere. Perché è subito chiaro che la commissione non andrà lontano. Mario Mauro, che en tra in veste di osservatore/disturbatore dà voce a quello che pensano tutti: per arrivare ai voti importanti si aspetta dopo giovedì, l’assemblea dei gruppi di FI. Sono tre i punti “sensibili”: l’immunità, la questione della rappresentanza delle minoranze in Senato. E soprattutto, i grandi elettori per l’elezione del Colle. Per come sono le cose ora, il Senato sarebbe assolutamente marginale. E allora, è apparso un emendamento a firma Lo Moro, Russo, Gotor e Miglia-vacca (tutti del Pd nella prima Commissione) che chiede la riduzione dei deputati da 630 a
500. Per ora non si discute: i voti veri inizieranno lunedì. E se la riforma passa in Aula prima dell’estate è grasso che cola. Si parla già di settembre. La riunione del gruppo Dem al Senato con Renzi prevista oggi è rimandata a dopo la prossima trattativa con B., che il premier dovrebbe incontrare in questi giorni.
A ORA di pranzo, intanto, il presidente del Consiglio vede Orlando. L’unica cosa che appare chiara a faccia a faccia finito è il rinvio. E a sera arrivano le conferme dei presagi della mattina. “Votati emendamenti a articolo
59. La Commissione si aggiorna a domani. Per ora “dribblati” i problemi irrisolti”, commenta in un tweet Francesco Russo. Renzi porge al paese il bicchiere mezzo pieno: “Ottima giornata, alla faccia dei gufi”.

il Fatto 1.7.14
Renzi: 12 punti e una email
La supercazzola, la nuova rivoluzione permanente
di Marco Palombi


La rivoluzione non è un pranzo di gala, si sa. D’altronde difficilmente è pure la rimasticatura di parole stantie - per quanto accompagnate da una schermata - o un indirizzo di posta elettronica. Questo dappertutto tranne che nel Palazzo d’Inverno renziano, preso d’altronde come si sa. La rivoluzione, stavolta, s’è fatta sulla giustizia col valido contributo dei combattenti Orlando Andrea e Alfano Angelino, fino a ieri imbarcati sulla Potemkin. Ma niente paura, è una rivoluzione permanente. O quasi: dura due mesi. Chiunque volesse partecipare (“cittadini e operatori”) può inviare i suoi suggerimenti a “ rivo  luzione@governo.it  ”, indirizzo già protagonista delle mitiche cinque giornate sulla Pubblica amministrazione guidate dall’indomita compagna Marianna Madia, già staffetta veltroniana. Tornando, com’è giusto, alla giustizia, quella giusta, il programma renziano è di quelli da sbalordire il cinico più incallito. E il premier - giustamente - ne parla con toni lirici.
CHE COSA FARÀ il governo? Ma “una consultazione” e poi, indefettibilmente, la rivoluzione. Quando? “Il 1 settembre”. Renzi usa parole che non s’erano mai sentite a palazzo Chigi: “Dimezzare l’arretrato della giustizia civile”, per dire. Poi annuncia: “A mezzanotte parte (non si sa se per la quinta o la sesta volta, ndr) il processo telematico”, che sarà - ça va sans dire - “una rivoluzione”. Pure Orlando, che di suo non sarebbe incline a sorprendere, ci tiene a stupire: “La giustizia torni ad essere uno strumento al servizio dei cittadini”. E che dire delle linea guida della riforma in 12 punti? Forse quell’espressione che il liberale Giovanni Malagodi dedicò alla sua chiacchierata con Aldo Moro sul programma del centrosinistra: “Cenni sull’universo”. Giustizia civile? “Riduzione dei tempi”. Ma quanto? Pronti: “Un anno per concludere il primo grado”. Poi c’è l’automobilistica “corsia preferenziale per imprese e famiglie” e pure un po’ di politica giudiziaria : “Nel Csm chi giudica non nomina, chi nomina non giudica” (Renzi ci deve vedere oceaniche profondità di senso visto che l’ha ripetuto più volte). Finito? Macché. Il successivo “Csm: più carriera per merito” ha fatto tremare i polsi a più d’uno tra i presenti. Per non parlare della “responsabilità civile dei magistrati su modello europeo” o della “riforma del disciplinare delle magistrati speciali”. Poi si entra nel dettaglio, forse eccessivamente tecnico: “Norme contro la criminalità economica (falso bilancio, autoriciclaggio)”; “Accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione”; “Intercettazioni (diritto all’informazione e tutela privacy)”; “Informatizzazione integrale del sistema giudiziario”. E la chicca finale: “Riqualificazione del personale amministrativo”. È o non è una rivoluzione?

il Fatto 1.7.14
Scuola e annunci È il primo luglio e non succede niente
Non c’è traccia dei “3,5miliardi” per ristrutturare gli edifici. Le regioni: “i soldi non sono arrivati”
di Valeria Pacelli


Dovevano essere erogati 3 miliardi e mezzo, ma per adesso i soldi che il governo ha approvato da destinare alle scuole sono solo 784 milioni di euro. C’era anche una data: primo luglio, giorno in cui operai e addetti ai lavori avrebbero dovuto iniziare il piano di ristrutturazione e messa a nuovo degli edifici scolastici. Ma non in tutte le regioni questo processo è stato avviato. Il Fatto si è occupato più volte dei fondi destinati alla scuola, anche il primo giugno scorso dopo che un rapporto del Censis (il Centro Studi Investimenti Sociali) aveva pubblicato preoccupanti dati sullo stato delle scuole in Italia: tanto amianto, edifici fatiscenti e intonaci che cadevano. Allora fu ribadito che il governo sarebbe intervenuto con i 3 miliardi e mezzo. E così quel primo giugno, il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi aveva anche assicurato che “gli interventi inizieranno da luglio” spiegando puntualmente dove sarebbero stati presi i soldi. Mancava solo un mese e nello scetticismo generale ci si chiedeva come e quando sarebbero state approvate le delibere. A trenta giorni di distanza i soldi approvati sono 784 milioni di euro: “244 milioni – spiega Reggi sentito di nuovo da Il Fatto – nel biennio 2014-2015 sbloccati con un decreto del presidente del Consiglio del 15 giugno scorso che permette ai Comuni di sganciarsi dal patto di stabilità; altri 400 milioni sono stati riprogrammati nelle graduatorie del decreto del fare con una delibera Cipe approvata oggi pomeriggio (ieri per chi legge). Entro il 1 ottobre dovranno essere aggiudicati con procedure rapide. E nella stessa delibera Cipe aggiungiamo altri 140 milioni per il recupero di sette mila edifici scolastici”. Mancano un po’ di soldi rispetto ai 3 miliardi e mezzo annunciati.

il Fatto 1.7.14
Il comunicatore
Matteo, pure l’Erasmus è abusivo
di Luca De Carolis


Leggi la parola Erasmus. E pensi subito a ostelli stipati di ragazzi, a libri su tavolini di fortuna, alle telefonate per assicurare ai genitori che sei ancora vivo. Leggi meglio, e scopri che a citarla come una carta d’identità è l’ex ragazzo Matteo Renzi, quello del cambia verso. Che però l’Erasmus non l’ha mai fatto. Nel suo perenne seminare slogan che sanno di rottamazione, novità e gioventù al potere, il premier l’ha (ri)detta grossa. O perlomeno ha esagerato. “Noi che siamo la generazione Erasmus, siamo chiamati a realizzare il sogno degli Stati d’Uniti d’Europa” declama nel messaggio che celebra il semestre della Ue a guida italiana. Peccato però che il premier non abbia mai usufruito del programma che, dal 1987, consente a ogni studente europeo di trascorrere in un’università dell’Unione un periodo di studio legalmente riconosciuto (da tre a 12 mesi). La sua laurea in Giurisprudenza se l’è costruita tutta in casa, a Firenze. Così racconta il curriculum, così sembrano ribadire le verifiche. E così ha scritto anche La Stampa, nel febbraio scorso. Ossia quando il Renzi neo-premier, nel discorso per la fiducia in Senato, assicurò: “Il mio governo rappresenta la generazione Erasmus”. 
ALTRA FRASE incauta, perché gli scambi-studio sono materia ignota non solo per lui, ma pure per i suoi ministri. Nell’esecutivo renziano, l’Erasmus l’ha sperimentato solo Federica Mogherini, ministra agli Affari esteri, laureata in Scienze politiche. Nella sua trasferta studio ad Aix-en-Provence, in Francia, preparò la tesi sul rapporto tra religione e politica nell’Islam. Ci sarebbe poi Stefania Giannini (Istruzione), dal 2005 al 2009 rappresentante per l’Italia nel comitato dell’Erasmus Mundus presso la Commissione europea. Per il resto, zero. Niente trasferta europea neppure per Marianna Madia, ministra per la Pubblica amministrazione, laureata in Scienze politiche. E dire che nel 2008, in era veltroniana, la capolista Pd nel Lazio Madia si presentava come “esponente della generazione Erasmus”. Quattro anni dopo, il 13 settembre 2012, a Verona Renzi lanciava la sua campagna per le primarie citando “la generazione Erasmus”. A occhio ha copiato la sua ministra, riciclando a sua volta una definizione nata sul web. A ogni passaggio cruciale, Renzi si rigioca quella parola, Erasmus. Totem contro il vecchiume. Uno dei tanti, per il premier che ad Amici sfoggia il giubbotto di pelle alla Fonzie (da qui il neologismo grillino Renzie) e che ha reso l’iPhone un arto supplementare. Perché il Renzi pubblico deve essere moderno e giovane, sempre. Anche se l’Erasmus può solo rimpiangerlo. 

l’Unità 1.7.14
I soldi per assumere nella Pa? 45 milioni tolti ai precari
I fondi per finanziare la mobilità obbligatoria presi dagli stanziamenti per la stabilizzazione


I fondi per finanziare la mobilità dei dipendenti pubblici - obbligatoria entro 50 chilometri - pezzo forte della riforma del governo? Arriveranno riducendo quelli già stanziati per stabilizzare i precari della Pubblica amministrazione e quello per nuove assunzioni per gli enti che hanno il permesso di farlo.
È tutto messo nero su bianco nell’articolo 4 del decreto legge. Si tratta di 15 milioni nel 2014 che diventeranno il doppio - 30milioni - dal 2015. Nel dettaglio si alimenta per 6 milioni nel 2014 e 9 nel 2015 attraverso la corrispondente riduzione degli stanziamenti della finanziaria del 2008 - governo Prodi - , denominato proprio “Fondo per stabilizzazione precari della Pubblica amministrazione”. Alcomma 14 invece il fondo si alimenta per 9 milioni a decorrere dal 2014 con la corrispondente riduzione degli stanziamenti decisi nel 2006 del “Fondo per il personale del ministero dell’Economia e delle Finanze per incentivi alla mobilità e programma di assunzioni”. Infine, il fondo si alimenta per 12 milioni di euro a decorrere dal 2015 mediante corrispondente riduzione degli stanziamenti decisi nel 2006, il cosiddetto “Fondo per le assunzioni”. Una vera beffa e un vero controsenso. Che si va ad aggiungere a quello emerso nei giorni scorsi. Nella relazione tecnica allegata al decreto, la tanto decantata norma che abroga lo strumento del trattenimento in servizio - personale che potrebbe già essere in pensione - e che porterebbe dunque alle assunzioni - secondo il governo - di 15mila persone, viene fortemente ridotta.
A pagina 32 lo stesso governo infatti mette nero su bianco che «risultano in corso di trattenimento in servizio circa 1.200 soggetti di cui circa 660 relativi al comparto magistratura». E visto che per la magistratura la norma è stata congelata, le posizioni da sostituire sarebbero solo 540.
Molto critica su tutta la riforma e sulle ultime «scoperte» è la Fp Cgil. «Quando eravamo noi a sostenere che l’abrogazione del trattenimento in servizio avrebbe portato poche centinaia di assunzioni, il governo ci ha fatto passare per disfattisti. E ora si scopre che lo stesso governo ci dà ragione», attacca il segretario Rossana Dettori. «Per non parlare della beffa perpetrata ai danni dei precari: si prendono soldi dai fondi decisi da Prodi e Patroni Griffi, legati a programmi di stabilizzazione del personale, il tutto per imporre una mobilità forzosa ai dipenditi pubblici», continua. Se le cifre dei tagli sono ufficiali, molti interrogativi rimangono. «Sulla mobilità non sappiamo nè il numero di dipendenti coinvolti né i criteri con cui verrà decisa. Il quadro che esce da questi provvedimenti è insopportabile: non è una riforma per i cittadini, ma una riforma del lavoro pubblico contro i dipendenti - tuona Dettori -. Al di là degli spot, speriamo che ci sia qualcosa nel disegno di legge che ancora non è noto».
I sindacati intanto si preparano alla mobilitazione. La prima sarà il 7 luglio sotto tutte le Prefetture. «Iniziamo da lì perché la riforma entra in conflitto con decreto il Delrio che fissava una cabina di regia affidata alle Regioni per decidere come riallocare il personale delle Prefetture e Province, legandolo alle funzioni che prima i lavoratori seguivano. Con il decreto legge tutto questo è spazzato via. C’è il rischio che anche per questo personale ci sia una mobilità forzosa», chiude Dettori.

il Fatto 1.7.14
Madia, la riforma misteriosa
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, perché è riuscito così male il decreto che avrebbe dovuto riformare la Pubblica amministrazione, cioè lo Stato?
Antonio
È BENE CHIARIRE un equivoco: c’è un decreto “omnibus” di quelli cari alle vecchie Repubbliche, in cui si può mettere un po’ di tutto (cioè tante piccole cose, mal calcolate e casualmente assemblate) perché un decreto omnibus non può avere un disegno e non risponde a un progetto. Ma non c’è alcuna “riforma della Pubblica amministrazione” ovvero dello Stato. Il ministro incaricato è vittima di uno strano scherzo che, dati i rapporti leali e amichevoli con il suo Capo, non so spiegare. Sarebbe stato come chiederle di disegnare un sommergibile nucleare di nuova generazione. Non è questione di cultura o di intelligenza (benché forse la Madia avrebbe dovuto assumersi verso il Paese la responsabilità di sottrarsi apertamente a un compito impossibile e ingiustamente attribuito a lei invece che al vertice della competenza amministrativa e giuridica italiana). Il problema della riforma dello Stato ha una portata vasta che comporta una visione culturale, una concezione politica, un rapporto dichiarato con parti diverse della Costituzione, una capacità tecnica di valutare il reticolato cause-effetti sia dentro la struttura organizzativa sia nel rapporto fra la struttura e lo Stato. E sarebbe stato necessario almeno un passaggio nella gestione di un vasto corpo aziendale. Per esempio tagliare all’improvviso di due anni il pensionamento dei gradi alti della magistratura (misteriosamente inserita nella “riforma”, visto che i giudici non sono “pubblica amministrazione” ma potere dello Stato democratico) deforma un corpo prima di averne costruito un altro. L’idea di attuare in tal modo un cambio generazionale, mentre si incitano i privati a mandare in pensione tutti i dipendenti due anni più tardi, è ovviamente fondata sul vuoto. Infatti non sono previsti concorsi. Si torna e si ritorna a citare due trovate allo stesso tempo irrilevanti (sia dentro l’azienda Stato sia nel rapporto con i cittadini) e punitive: lo spostamento obbligatorio, senza preavviso e senza motivazione, dei dipendenti fino a 50 chilometri, dal luogo del loro attuale lavoro (ottimo strumento di punizione dei capi carogna verso sottoposti di cui liberarsi), oppure il taglio del 50 per cento (il numero piace) dei permessi sindacali, questione che, per quanto si ricorda, non ha mai agitato il Paese. Dimentico qualcosa? Molto, ma tutti nano-provvedimenti in un nano-paesaggio in cui si colpiscono, qua e là, le persone (vediamo se si può togliere qualche diritto a qualcuno), più che altro il ritocco parziale di un vecchio regolamento. Non si ridisegna alcun ente, non si immagina alcun rapporto alternativo fra cittadini e Stato, non si abolisce o si accorpa o si inventa alcuna agenzia che potrebbe sciogliere nodi o cambiare le cose. Non si immagina né un altro Stato né un altro cittadino. Lo Stato resta ottuso, senza volto, senza nome, lontano, arbitrario. Allo stesso tempo è abitato da persone che in qualunque momento (per ragioni che non riguardano noi cittadini) possono essere “messe in mobilità” in modo che nessuno si senta sicuro. Tutto quello che sappiamo della “riforma” è che un impiegato non può fidarsi a mettere una piantina sul davanzale vicino al posto che occupa. Tra poco potrebbero spostarlo altrove senza motivo. Ecco, i nuovi riformatori hanno riformato lo Stato.

l’Unità 1.7.14
Evasione fiscale e costi la guerra dei «Pos»
di Ruggero Paladini


Chi si occupa di evasione sa bene che tra i metodi usati a livello internazionale c’è l’uso (eccessivo) del contante.
Vi è una relazione diretta tra il livello dell’evasione, in un dato Paese, e la quantità di moneta cartacea usata; l’Italia è un caso tipico. Tra i vari metodi che possono essere usati per combattere il fenomeno dell’evasione, vi è sicuramente quello di limitare l’uso del contante, e quindi di avvicinare il nostro Paese a quello che è consuetudine normale negli altri Paesi europei.
Il dispositivo elettronico «Point of sale» da ieri dovrebbe essere a disposizione dei clienti di qualunque artigiano o professionista per acquisti di beni e servizi superiori a 30 euro. Proteste, anche di segno opposto, sono fioccate numerose sui media. La Confesercenti stima una spesa di 5 miliardi (costi di esercizio e commissioni). La Cgia di Mestre ha stimato un costo annuo di 1200 euro. Dividendo le due cifre se ne ricava il numero di 4.167.000 operatori economici, attualmente sprovvisti, che dovrebbero munirsi di Pos, cui si devono aggiungere oltre un milione e mezzo di dispositivi già in dotazione degli operatori. Ora è vero che il nostro è il Paese delle micro-imprese, ma se sommiamo le due cifre arriviamo a sei milioni di Pos, cifra che sembra francamente esagerata, se è vero che la densità di Pos installati per impresa in Italia sia leggermente inferiore alla media europea (398 ogni mille contro 469).
Il costo, che tra l’altro è fiscalmente deducibile, non sembra particolarmente pesante, essendo mediamente inferiore all’1%. Nasce il sospetto che, almeno in molti casi, la vera ragione sia quella di resistere ad uno strumento che, più ancora degli assegni bancari, lasci una traccia indelebile nei conti dell’operatore. Di fronte a un cliente che vuole pagare tramite Pos, l’operatore dovrebbe fare uno sconto: «Se me li dà in contanti, le tolgo il 10%». I minori incassi in questo caso supererebbero nettamente il costo del Pos. Non sarebbe, insomma, proprio vero che la grande maggioranza degli italiani non ha intenzione di cambiare le proprie abitudini di pagamento, come dice Confesercenti; la possibilità di pagare tramite Pos serve a ridurre il contante che si tiene in tasca nonché, eventualmente, a ottenere qualche sconto.
Accanto alle proteste delle organizzazioni degli operatori economici, si registrano le opposte proteste delle associazioni dei consumatori, che puntano il dito sul fatto che non siano previste sanzioni per coloro che non si muniscono del dispositivo elettronico. Un’altra protesta consiste nel dire che il provvedimento non servirebbe a combattere l’evasione fiscale, ma soltanto a favorire gli interessi di banche e società esercenti le carte di credito. Ma se in mancanza di sanzioni la misura finisce col divenire una grida manzoniana, non si vede quale affare particolare possano fare le banche.
È sempre possibile introdurre sia incentivi (in termini di crediti d’imposta) che disincentivi, in termini di sanzioni. Una particolare forma di incentivo potrebbe essere quella di introdurre una lotteria a premi per tutti coloro che usano i Pos. Lo scontrino che il dispositivo elettronico rilascia conterebbe un numero, e periodicamente alcuni di questi sarebbero estratti, con premi di vario tipo. Esperienze di questo genere sono state fatte da tempo, a cominciare da Taiwan, per incentivare l’emissione degli scontrini, con risultati interessanti.
Può essere quindi che l’approccio governativo sia stato «burocratico e statalista», come afferma, evidentemente in modo autocritico, il sottosegretario Enrico Zanetti. È vero che a volte anche banche, poste e uffici della pubblica amministrazione fanno difficoltà ad accettare le transazioni elettroniche. Un Paese, tuttavia, che cerca di assomigliare di più agli altri Paesi europei deve promuovere l’uso della moneta elettronica; pur non essendo l’unico modo per combattere l’evasione, i Pos possono rappresentare un valido aiuto in questa direzione. I dispositivi elettronici fanno parte di quegli strumenti che spingono i contribuenti a una maggiore compliance, cioè all’adeguamento spontaneo al debito fiscale. Ovviamente allo stesso tempo devono essere messi a regime i controlli sui flussi finanziari.

Repubblica 1.7.14
Casson, senatore Pd e ex pm
“Bisogna trovare l’equilibrio tra privacy e diritto di cronaca”
intervista di A. Cus.


ROMA. «È positivo che non venga toccata la normativa attuale sul presupposto di fare le intercettazioni, che rimangono strumento indispensabile per le indagini». Felice Casson, senatore Pd ed ex giudice istruttore, ritiene che «bisogna stare attenti alle norme che si vogliono fare sulla pubblicazione».
Qual è la sua preoccupazione?
«Non è facile trovare il punto di equilibrio tra la privacy delle persone, il diritto di cronaca dei giornalisti, e quello dei cittadini di sapere. Perché una democrazia si basa anche sull’informazione ».
In passato le critiche alla pubblicazione sono arrivate sovente dai politici, quando sono state pubblicate intercettazioni che riguardavano indagini sul loro conto. Ritiene che voi dobbiate godere di qualche particolare riguardo, al proposito?
«Al contrario. Penso che chi decide di far politica rinunci quasi per definizione a una fetta della propria privacy. Nel senso che deve essere più trasparente rispetto al cittadino normale su tutti gli aspetti».
Anche quelli che riguardano la privacy?
«Assolutamente sì. La corte di Strasburgo ha condannato la Francia, la Grecia e la Finlandia per aver condannato dei giornalisti che avevano svelato particolari riservati dei vertici politici nei loro Paesi. Ebbene, io ho firmato un emendamento che prevede la scriminante per quei giornalisti che pubblicano notizie sui vertici istituzionali».
Una sorta di impunibilità?
«Si tratta di una scriminante che consente di violare la norma sulla riservatezza del codice penale quando si tratta di notizie di alto rilievo istituzionale ».
Ma questo emendamento a che punto è?
«Attualmente è tutto fermo. ma se il governo proporrà norme in questo senso, chiederò che sia tutelata la privacy, ma con i limiti previsti dalla corte di Strasburgo che attribuisce al giornalismo il ruolo di “cane da guardia” della democrazia».
Chi deve stabilire il limite, è d’accordo con Renzi che siano coinvolti i direttori delle testate?
«Che possano essere sentiti i direttori è positivo. Ma si tratta di una decisione tecnica che deve contemperare delle norme. Bisogna decidere all’interno del processo penale quando viene meno l’obbligo di segretezza e quindi il diritto alla pubblicazione ».
Qual è il diritto che deve prevalere in questa decisione?
«Nel codice attuale c’è confusione. Il punto di equilibrio è difficile da trovare perché sono in conflitto quattro diritti, tutti costituzionalmente garantiti. Il diritto degli investigatori a fare indagini, quello alla riservatezza della persona, quello della difesa. E la libertà di stampa».

La Stampa 1.7.14
Non ne Pos più
di Massimo Gramellini

qui

La Stampa 1.7.14
Senza sanzione la regola nasce azzoppata
di Paolo Baroni

qui

il Fatto 1.7.14
Cari amici di Sel, fareste meglio ad ascoltare di più i vostri elettori
di Luisella Costamagna


Viste le molte reazioni alla mia lettera ai “compagni” di Sinistra Ecologia e Libertà, mi trovo costretta a replicare.
Il portavoce della presidente Boldrini, Roberto Natale, se la prende con la mia frase “tempestiva, si stacca ora dalla barca Sel ma resta ben attaccata a quella di Montecitorio”. Caro Natale, da una barca si può scendere con un tuffo plateale, oppure piano piano dalla scaletta. Laura Boldrini, che non sarebbe mai diventata presidente della Camera se non fosse stata eletta con Sel (sia pure da indipendente, come ha tenuto a precisare proprio in questi giorni), pare aver scelto la seconda strada. Da giornalista, forse, anche lei avrebbe avuto quest’impressione. All’on. Francesco Ferrara della Presidenza nazionale di Sel, dico invece che ho sempre cercato di fare il mio mestiere con correttezza e obiettività, analizzando gli eventi per quello che sono e senza farmi condizionare da sentimenti personali (come la presunta “acrimonia” che mi attribuisce). Lo spettacolo che offre in questo momento il suo partito è – lo confermo – incomprensibile e sconfortante anche e soprattutto per i tanti militanti che, proprio perché rispetto, non dovrebbero essere sottoposti a questo (ennesimo) travaglio.
Temo che “l’ingenerosità politica e persino umana verso singole persone e un’intera comunità che vive con dolore e passione un passaggio politico così duro”, sia da imputarsi, più che a me, a voi stessi dirigenti, che vi spaccate su Renzi. Per rendersene conto, basta parlare davvero con le persone, quelle stesse – elettori ed ex elettori di Sel – che in queste ore mi stanno esprimendo tutto il loro disagio.
Infine Vittorio Mucci, addetto stampa di Fausto Bertinotti, tiene a sottolineare che l’ex presidente della Camera non ha più né scorta né auto blu. Bene! Peccato che vi abbia rinunciato solo lo scorso ottobre (così almeno mi ha detto lo stesso Mucci al telefono), peraltro dopo molte polemiche e a ben 5 anni e mezzo di distanza dalla fine del suo impegno diretto in politica. Diritti acquisiti a parte, ci si sarebbe aspettati una rinuncia immediata da chi è sempre stato dalla parte dei più deboli, a maggior ragione in una fase drammatica di crisi economica in cui sono stati chiesti sacrifici alle famiglie, ai pensionati, ai lavoratori mentre la politica ha mantenuto i propri privilegi. Anche i gesti simbolici sono importanti. Perché farsi dare lezioni di moralità da un Casini qualunque, che rinunciò ai suoi benefit già nel 2012? E se davvero adesso Bertinotti si è adeguato (meglio tardi che mai), perché il Quotidiano  dellUmbria.it   scrive ancora, in data 30 marzo 2014, “Bertinotti e D’Alema sono stati visti scorrazzare per le strade umbre con tanto di auto blu e scorta”? Un’allucinazione?

l’Unità 1.7.14
La fecondazione eterologa
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Sono convinto che ogni essere umano abbia il diritto inalienabile di conoscere chi sono i genitori naturali, non soltanto sotto un profilo che direi ontologico, ma anche per possibili aspetti sanitari. Perché il professor Flamigni, che leggo e stimo, non tocca nei suoi articoli su «l’Unità» questi aspetti/conseguenze della procreazione eterologa? Una presunta «etica laica» giustifica tutto?
GIORGIO CASTRIOTA
L’etica laica non giustifica nulla. In modo laico, però, occorre porsi di fronte ai problemi. Ragionando sul modo in cui le banche del seme di cui ci si avvale nel caso della fecondazione eterologa sono tenute a dare tutte le garanzie possibili per evitare malattie geneticamente trasmissibili e ragionando poi sulla validità di affermazioni come quelle fatte dal lettore «sulle conseguenze psicologiche e comportamentali sui figli eterologhi e sui loro genitori medicalmente assistiti». Di cui oggi non c'è evidenza scientifica, però. Anche se molte sono le osservazioni fatte nei centri che di fecondazione assistita, omologa o eterologa, si occupano sulle difficoltà comunque vissute dalle coppie che la affrontano. Difficoltà che ben altra attenzione meriterebbero spesso dal punto di vista psicologico ed eventualmente psicoterapeutico per affrontare i problemi legati alle stimolazioni ormonali, il dramma dei fallimenti e la delicatezza dei meccanismi interpersonali messi in moto dalla necessità di chiedere aiuto a degli specialisti. Giusto è infatti offrire alle coppie che si confrontano con le difficoltà della procreazione, le occasioni proposte dal progresso scientifico e giusto sarebbe però anche prendersi cura della complessità delle emozioni vissute da chi da queste occasioni ha la possibilità di essere aiutato. Nel caso, in particolare, della fecondazione eterologa.

l’Unità 1.7.14
Mondiali razzisti
Vietato tifare Algeria in Francia
Nizza mette al bando l’esposizione «ostentata» di bandiere straniere per la durata di Brasile 2014
Marine Le Pen contro gli immigrati algerini: «Mettere fine alla doppia nazionalità»


I francesi, specialmente di destra, non hanno gradito veder sventolare sotto l’Arco di Trionfo il bandierone mezzo verde e mezzo bianco con la mezzaluna rossa e la stella dell’Algeria. Dopo i caroselli di auto che hanno intasato la tangenziale parigina la sera di giovedì scorso e le altre manifestazioni di tifo sconfinate anche in vandalismi e scontri con la polizia a Lille, Marsiglia, Lione e nella periferia della capitale in occasione della qualificazione per gli ottavi di finale della nazionale algerina, c’è stato un fuoco di fila. Ha iniziato a testa bassa Marine Le Pen, in una intervista del giorno dopo a iTélé. La presidente del Front National ha detto che la Francia deve abolire la doppia nazionalità, ha sostenuto che o si è patrioti algerini o francesi, «o una cosa o l’altra», aggiungendo come motivazione che «lo Stato deve ritrovare la sua autorità ». Una confusione tra Stato, patria e nazionale di calcio che è stata ripetuta con le stesse parole dal sindaco di Nizza ieri. Christian Estrosi, che non è del Fronte ma dell’Ump, con queste stesse motivazioni, e cioè che «bisogna mettere fine a questi eccessi» perché «ne va dell’autorità dello Stato», è arrivato a proibire «l’utilizzo ostentato di bandiere straniere» nel centro cittadino. Niente più sbandieramenti molesti dalle ore 18 alle 4 del mattino, fino alla conclusione dei Mondiali, domenica 13 luglio. È fin troppo chiaro che sia Le Pen sia il sindaco gollista ce l’hanno essenzialmente con i tifosi dei «Fennecs», che proprio ieri se la vedevano con i tedeschi a qualche ora di distanza dalla partita in cui i «Bleus» affrontavano la Nigeria, con la prospettiva di vedere poi le due squadre confrontarsi in un derby ipernazionale. Ma non è calcio, è politica.
Marine Le Pen infatti ha anche detto che «bisogna arginare l’immigrazione» e che «l’unico Paese con cui abbiamo questo tipo di problemi è l’Algeria» perché «è gente che ha un’ostilità» anzi «uno spirito di rivalsa», intendendo evidentemente il passato coloniale e le atrocità commesse dall’esercito francese nella guerra d’Algeria. Come ha notato il deputato radicale Yves Jego fino a questa intervista la bionda Marine non si era mai spinta tanto oltre sul terreno «dell’odio e del razzismo, ormai una consuetudine di famiglia per i Le Pen». Jego ha parlato di un discorso «caricaturale» e «provocatorio» e l’associazione Sos Racisme ha invitato la Francia democratica ad alzare la vigilanza «a difesa degli ideali della Repubblica ». Ma l’asticella sembra già andata in frantumi. A usare per primi la locuzione «utilizzo ostentato di bandiere» sono stati due esponenti della destra dell’Ump, Lionel Luca e Thierry Marani, quest’ultimo rappresentante dei francesi all’estero nell’Assemblea Nazionale. E un sondaggio pubblicato ieri anche dal quotidiano di sinistra Libération dice che i francesi, pur mantenendo la libertée l’égualité, insieme alla famiglia, tra i valori più cari, considerano il peggio del peggio l’Islam (l’84% del campione lo ritiene l’aspetto più negativo) e l’immigrazione (69%). Anche se per i beurs, gli immigrati algerini di seconda generazione, i «Fennecs» altro non sono che la seconda squadra nazionale in Francia, per il quotidiano reazionario Le Figaro - come ha scritto in un editoriale parlando dei pieds noir, gli algerini naturalizzati francesi - «se i nonni volevano l’Algeria francese oggi i nipoti vogliono la Francia algerizzata». Vorrebbero dunque «la rivincita».
È questa paura che fa proseliti, non certo le poche auto e i pochi cassonetti bruciati dai tifosi dopo la vittoria con la Russia. Anche se il coro più gridato era un pacifico «One, two, three Vive l’Algerie ». Anche se la stragrande maggioranza degli algerini di Francia lavora, in particolare le donne, e anche se nonostante la cattiva integrazione non ci sono più i roghi e la guerriglia di strada nelle banlieues. Quanti sono poi? Secondo il professor Mohamed Saib Musette, il più importante ricercatore sulla migrazione algerina, attualmente 1 milione e 300mila è la popolazione algerina emigrata all’estero in anni recenti. Si calcola che l’85% degli immigrati algerini, irregolari compresi, risieda in Francia. Considerando le persone con più di 15 anni, il 64 per cento è naturalizzato francese. Ha perciò la doppia cittadinanza in base agli accordi del 1962 sulla decolonizzazione. Pare difficile se non insormontabile rivedere quei trattati.Eneanche conveniente, considerando che l’Algeria, grazie al suo gas, sta crescendo quest’anno ad un ritmo del 4,5 per cento.


l’Unità 1.7.14
Uccisi i tre ragazzi rapiti Netanyahu: Hamas pagherà
Sequestrati il 12 giugno, i corpi rinvenuti vicino al luogo della scomparsa
Rischio escalation. Gaza avverte: «Non aprite le porte dell’inferno»
Israele si blinda: «A est un nuovo muro anti-Islam»


Israele è in lutto. Sotto shock. Un Paese intero piange la morte di tre suoi ragazzi, rapiti e trucidati. L’incertezza si scioglie col calar della sera, quando le autorità dello Stato ebraico confermano quanto anticipato qualche ora prima da un tweet della televisione al Arabiya, che parlava però del ritrovamento nel villaggio di al Haska: sono stati ritrovati i corpi senza vita dei tre ragazzi israeliani rapiti. Sono stati individuati vicino al villaggio di Halhul, a poca distanza da Hebron. Il governo indice per la notte una riunione d’emergenza. Si discute su alcuni sviluppi considerati «decisivi » nel sequestro dei giovani, del quale, sottolineano fonti israeliane, sarebbe responsabile l’organizzazione estremista palestinese di Hamas. Secondo la tv Canale10, i corpi dei tre ragazzi erano sul terreno, non sepolti e seminascosti da cespugli. Benyamin Proper, che era tra i volontari civili che hanno trovato i corpi, ha riferito al Canale2 che un membro della squadra di ricerca ha «visto qualcosa di sospetto sul terreno, piante che sembravano fuori posto, le ha spostate e ha spostato alcuni sassi e ha trovato i corpi». «Abbiamo capito che erano loro e abbiamo chiamato l’esercito», ha aggiunto Proper.
PAESE SOTTO SHOCK
Eyal Yifrah (19 anni), Gilad Shayer (16) e Naftali Yaakov Frenkel (16), erano scomparsi il 12 giugno nei pressi dell’insediamento di Gush Etzion, tra Betlemme e Hebron, nel sud della Cisgiordania, mentre facevano l’autostop. I loro corpi sono stati ritrovati a pochi minuti di cammino dal luogo in cui erano stato visti per l’ultimavolta. Poco prima che si diffondesse la notizia era stato notato lo spostamento di una grande quantità di forze israeliane proprio nel villaggio di Halhul in Cisgiordania, a nord di Hebron. La tv Canale 10 aveva inoltre riferito di scontri con i palestinesi nell’area. L’esercito israeliano sospetta che fra i rapitori vi siano Marwan Kawasmeh e Amar Abu-Isa, 29 e 32 anni, entrambi membri dell’ala militare di Hamas proprio a Hebron. «Ad uccidere i tre ragazzi sono stati degli esseri bestiali, Hamas è responsabile di questo crimine e Hamas pagherà», dice il premier Benjamin Netanyahu, prima della riunione straordinaria del gabinetto di governo.
«LI SRADICHEREMO»
Israele torna in trincea. Ferito, sconvolto, e si stringe attorno alle famiglie dei tre ragazzi. Secondo i media israeliani, indagini iniziali da parte dell’esercito mostrano che Eyal, Gilad e Naftali sono stati uccisi subito dopo il rapimento. Le famiglie sono state avvertite ed hanno riconosciuto i loro abiti. I canali televisivi israeliani interrompono le normali programmazioni. In ogni casa, entrano i volti sorridenti dei tre ragazzi. I loro compagni, distrutti dal dolore, si riuniscono in preghiera nella scuola religiosa di Mekor Haim, quella frequentata da Eyal, Gilad e Naftali fino a quel maledetto 12 giugno. «L’intera nazione israeliana china il capo con dolore intollerabile questa sera»: così il presidente israeliano Shimon Peres in un comunicato dopo la notizia del ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi. «Negli ultimi 18 giorni la nazione ha pregato unita perchè i nostri meravigliosi ragazzi fossero ritrovati sani e salvi. Ora che l’amara notizia è giunta, l’intera nazione israeliana piange la morte prematura dei nostri più bravi giovani. Oltre al profondo dolore, rimaniamo decisi a punire gli atroci terroristi. La nostra guerra contro il terrorismo potrà solo intensificarsi e non vacillerà perché questo terrorismo omicida non osi rialzare il capo» conclude Peres. «Sono colmo di profonda tristezza dopo aver sentito dell’assassinio di Naftali Frenkel, Gilad Shayer e Eyal Yifrah da parte dei terroristi di Hamas», dichiara il vice ministro della Difesa, Danny Danon, invocando il lancio di un’operazione militare su vasta scala per «sradicare» il gruppo radicale palestinese. Gli fa eco un suo collega di governo, il ministro dell’Edilizia Uri Ariel: «Siamo in guerra contro i terroristi, dobbiamo colpirli ovunque, senza pietà». «Questa tragica conclusione deve segnare anche la fine di Hamas. La nazione è forte e pronta ad assorbire degli attacchi per poter sferrare un colpo mortale contro Hamas», aggiunge ancora Danon. «Dobbiamo distruggere le case degli attivisti di Hamas, annientare i loro arsenali ovunque, fermare il flusso di denaro che direttamente o indirettamente tiene in vita il terrorismo, e far pagare un prezzo pesante all'intera leadership palestinese ».La riunione del gabinetto di governo, allargata ai vertici delle Forze armate e dei servizi di sicurezza interno (Shin Bet) ed esterno (Mossad), mette a punto la reazione. Che sarà durissima, anticipa uno stretto collaboratore del primo ministro. Immediata la replica di Hamas: se Netanyahu darà l’ordine di attaccare la Striscia di Gaza e di «scatenare la guerra» nell’enclave, «per lui si apriranno le porte dell’inferno», ha ammonito il portavoce del gruppo radicale palestinese, Sami AbuZouhri. «Gli occupanti», ha rincarato la dose Abu Zouhri, «saranno pienamente responsabili di qualsiasi futuro aggravamento della situazione», ha proseguito, e Netanyahu «deve capire che le sue minacce non ci spaventano». Si combatte a Hebron, Gaza si prepara a una nuova invasione.

La Stampa 1.7.14
L’ira di Israele per i tre ragazzi uccisi
Scatta la rappresaglia: bombe su Gaza
Ieri il ritrovamento dei cadaveri. Raid aerei sulla Striscia e in Cisgiordania.
Si cercano i responsabili. A Jenin colpito a morte un palestinese di 18 anni
di Maurizio Molinari

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La Stampa 1.7.14
La pace è più lontana
Una tragedia nata dalla mancanza di un confine netto
di Abraham B. Yehoshua

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Corriere 1.7.14
L’orrore e la logica di guerra
di Antonio Ferrari


Il Medio Oriente in fiamme rischia ora di diventare un inferno. La scoperta che i tre ragazzi israeliani scomparsi sono stati ammazzati con ferocia, probabilmente poco dopo essere stati rapiti, provocherà, anzi sta già provocando una tragica svolta. Trattenere Israele da una spietata rappresaglia sarà davvero difficile, se non impossibile. E forse per la prima volta da decenni può accadere l’irreparabile. Nel passato, un focolaio di tensione, un conflitto o una guerra regionale azzerava, quantomeno metteva la sordina alle altre crisi dell’area.
Adesso no. Da questo momento non c’è un solo Paese del Medio Oriente che possa ritenersi immune dal contagio della violenza. La feroce esecuzione dei tre giovanissimi ragazzi ebrei, che studiavano in un insediamento vicino a Hebron, può provocare un vero collasso. Ha ragione chi ritiene che il triplice sequestro e il triplice assassinio sia stato compiuto non soltanto dai nemici della pace, ma da qualcuno che voleva far saltare l’accordo di governo inter-palestinese fra i laici dell’Anp e i fondamentalisti di Hamas. Tuttavia, invece di accusare Israele di aver organizzato una spietata provocazione, accusa che pare decisamente impropria, bisognerebbe domandarsi qual è il ruolo che hanno avuto nella vicenda gruppi o gruppuscoli assai più oltranzisti di Hamas.
È probabile che questa nuova tragedia sia legata alla brutale sfida che i nipotini di Al Qaeda, che la stessa Al Qaeda non riconosce considerandoli «troppo feroci e disumani», stanno portando in tutto il Medio Oriente: dalla martoriata Siria, sconvolta dalla guerra civile, dal Libano, dai sottoscala del fanatismo palestinese e dall’Iraq. Soprattutto dall’Iraq, che i fanatici dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) stanno già trasformando in un califfato. Anzi, nei tanti califfati già proclamati in tutte le regioni del Paese strappate al controllo del potere centrale. In poche settimane, la storia sembra costretta a piangere. È stato distrutto quel che avevano costruito, all’inizio del secolo scorso, i due mediatori, l’inglese Sykes e il francese Picot, spartendosi con freddo cinismo coloniale le spoglie mediorientali dell’impero ottomano in disfacimento. L’unico passo di oggi, che pareva caricarsi di speranza, e cioè l’accordo inter-palestinese tra i laici e un movimento Hamas che pare diventato più realista di tutti i fanatici che lo contestano, rischia insomma di finire in macerie ancor prima di diventare davvero esecutivo.
È chiaro che tutto questo favorisce anche l’estrema destra israeliana, che sostiene e condiziona il governo di Benjamin Netanyahu, con il rischio di disegnare un ardito schema di opposti estremismi. È chiaro che Netanyahu reagirà duramente all’assassinio dei tre giovanissimi ragazzi ebrei. Non sarà quindi una reazione ponderata, se ben conosciamo l’asprezza, seppur ammantata di astuzia politica, del primo ministro. Il rischio è che, invece di colpire i veri responsabili, si colpisca ancora una volta, indiscriminatamente, la popolazione civile palestinese di Gaza. Magari proprio coloro che sono sta nchi di Hamas, degli estremisti islamici più feroci, e vorrebbero solo vivere in pace.

Corriere 1.7.14
«Il dramma ha unito il Paese Il governo non lo usi»
di D.F.


GERUSALEMME — Dimi Reider, co-fondatore della rivista digitale +972 (come il prefisso internazionale che identifica Israele), analista dello European Council on Foreign Relations, ricorda che fino ad ora «Netanyahu è stato più cauto nelle sue decisioni militari rispetto ai predecessori. Anche l’ultima operazione contro Gaza alla fine del 2012 è durata molto meno di quelle guidate da Ehud Olmert. Adesso dovrebbe concentrare gli sforzi dei militari nel trovare i responsabili degli omicidi». Da attivista pacifista spera che «il governo non usi questa tragedia per distruggere anche l’accordo tra Hamas e Abu Mazen, l’unione tra i palestinesi è necessaria per arrivare a un’intesa di pace».
Dopo la scoperta dei corpi, crescono le pressioni su Netanyahu — tra i suoi ministri e nel Paese — perché dia il via libera a raid massicci contro i leader del movimento fondamentalista. «Gli israeliani (malgrado le divisioni tribali della nostra politica) si sono uniti in questi venti giorni attorno alle famiglie».
La posizione del presidente Abu Mazen resta «tra l’incudine e il martello». «Come sempre. I palestinesi sono già infuriati con lui per le dichiarazioni di condanna del sequestro senza ricordare gli arresti e le vittime tra la sua gente. Dall’altro lato, gli israeliani vogliono che rompa con Hamas. “Tra l’incudine e il martello” dovrebbe essere il titolo della sua autobiografia politica».

Corriere 1.7.14
In crisi la riforma sanitaria di Obama, limitata anche per motivi religiosi
di Paolo Valentino


Mette un cuneo molto rischioso nella riforma sanitaria di Barack Obama e non solo, la sentenza con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto ieri il diritto di alcune aziende a conduzione familiare di rifiutare certe coperture ai propri dipendenti, adducendo motivi religiosi.
Con una decisione a maggioranza per 5-4, che fotografa ancora una volta la spaccatura tra conservatori e progressisti, la massima magistratura americana ha accolto le obiezioni di tre società non quotate in Borsa, i cui proprietari hanno contestato l’obbligo imposto dalla legge di coprire prestazioni contraccettive come la pillola del giorno dopo, che essi equiparano all’aborto.
Per quanto limitata negli effetti pratici, visto che non sono molte negli Usa le aziende che ispirano la loro gestione a uno stretto rispetto dei principi biblici, la sentenza apre il varco ad altre eccezioni di costituzionalità verso determinate prescrizioni della riforma. Di più, a condizione di dimostrarne il fondamento, qualunque corporation potrebbe teoricamente lamentare una limitazione della propria libertà di religione derivante dall’applicazione di altre leggi.
Restando sul piano della sanità, la controversia ha implicazioni politiche enormi per l’efficacia e il futuro stesso della riforma, che a quattro anni dall’approvazione non riesce ad andare a pieno regime, sia per le sue molte contraddizioni, sia per la guerriglia condotta dal fronte conservatore, al Congresso e nelle corti. «In che modo una corporation fa pratica religiosa?», ha chiesto la justice Sonia Sotomayor nella discussione orale, riassumendo l’argomento dell’opinione di minoranza, contraria a riconoscere a una società le stesse prerogative di una persona. «Questa è una questione religiosa e morale», ha ribadito il giudice Samuel Alito, che ha redatto il parere di maggioranza, aggiungendo che il principio federale della libertà di religione deve applicarsi anche a quelle società fondate sul profitto, ma controllate da famiglie con provate convinzioni religiose.



la Repubblica  1.7.14
Anticoncezionali, schiaffo a Obama

L’Alta Corte: “Se il datore di lavoro è contrario per motivi religiosi niente assicurazione su contraccettivi e aborti”
Vittoria dei repubblicani, ma i democratici lanciano l’allarme: “Conseguenze gravi per la salute delle donne”
di Federico Rampini


NEW YORK. La destra religiosa esulta, la riforma sanitaria di Barack Obama “perde un pezzo” su decisione della Corte suprema. I giudici costituzionali, con un voto a strettissima maggioranza dove ha prevalso la componente repubblicana, hanno deciso che l’obbligo di assicurazione sanitaria non deve includere l’interruzione di gravidanza e i sistemi contraccettivi — compresa la “pillola del giorno dopo” — se il datore di lavoro è contrario per i suoi principi religiosi. Si apre così una nuova breccia nel principio dell’assistenza medica universale e obbligatoria. Già l’Amministrazione Obama aveva dovuto esentare dagli obblighi della nuova legge le istituzioni propriamente religiose: una scuola cattolica, per esempio, può rifiutare alle proprie insegnanti un’assicurazione sanitaria che prevede il rimborso delle spese per un aborto.
Ma con la sentenza di ieri la Corte spinge questo principio molto più in là. Qualsiasi azienda, anche se è un’impresa privata a scopo di profitto, può invocare i principi religiosi dei suoi proprietari e far scattare l’obiezione di coscienza. È un regalo ai fondamentalisti cristiani che formano una colonna portante della base repubblicana, ed hanno dichiarato guerra a Obamacare, come viene chiamata la riforma che ha esteso l’assistenza medica a 37 milioni di cittadini che ne erano sprovvisti. Potranno approfittare di questa obiezione di coscienza tutti quegli imprenditori di destra, sul modello dei fratelli Koch, che finanziano il Tea Party e i suoi assalti alla sanità del presidente Barack Obama.
Non a caso il voto della Corte suprema è avvenuto secondo una stretta disciplina di partito: i cinque giudici repubblicani contro i quattro di nomina democratica. A scrivere il dispositivo della sentenza è stato il conservatore Samuel Alito. Nel suo testo afferma che obbligare un’azienda a pagare polizze sanitarie che includano il rimborso dei metodi contraccettivi «impone un peso sostanziale sulla libertà religiosa di queste imprese».
La contro-motivazione per la minoranza democratica è stata scritta dalla giudice Ruth Bader Ginsburg, che ha difeso Obamacare definendo «vitale per la salute delle donne e la libertà riproduttiva, che l’assistenza medica offra anche la contraccezione ». La Ginsburg ha ammonito sulle «conseguenze ben più vaste » che può avere questa sentenza. Ha denunciato una giurisprudenza conservatrice che «allarga alle aziende la nozione dei diritti individuali».
Il riferimento è ad un’altra sentenza, Citizen United del 2010, che ha esteso alle imprese la piena tutela del Primo Emendamento (libertà di espressione), al punto da spazzare via qualsiasi limite ai finanziamenti elettorali da parte dei grandi gruppi capitalistici. Ora la giudice Ginsburg, esprimendo la preoccupazione dei suoi colleghi della minoranza democratica, paventa un futuro in cui le imprese Usa potranno «chiedere l’esenzione da qualsiasi legge che considerino contraria a principi religiosi».
Il ricorso contro Obamacare che è arrivato fino alla Corte suprema è stato promosso da due aziende: Hobby Lobby, una catena di negozi di prodotti artigianali; e Conestoga Wood Specialties, un mobilificio industriale. Si stima che per effetto dello stillicidio di esenzioni, un terzo delle lavoratrici dipendenti americane non abbia diritto al rimborso delle spese mediche per l’interruzione di gravidanza.
Sommando le istituzioni religiose e tutta la galassia delle non-profit a loro collegate, più le piccole imprese familiari che già godevano dell’esenzione, più l’impatto dell’ultima sentenza, di fatto si assiste ad uno svuotamento di quel diritto all’interruzione di gravidanza che la stessa Corte suprema aveva sancito.

Repubblica 1.7.14
Giappone
Il rogo dell’impiegato martire a Tokyo per la Costituzione che costruì la pace
Giacca e cravatta, si è dato fuoco nel quartiere dello shopping Per lui fiori e messaggi: è il simbolo del paese che si ribella al progetto del premier nazionalista Abe di cancellare le garanzie di non belligeranza
di Renata Pisu



UN WEEK end di ordinario shopping nel quartiere di Shinjuku a Tokyo. Un uomo sulla sessantina impeccabilmente vestito in giacca e cravatta dall’alto di in cavalcavia urla in un megafono accuse contro il governo e contro il primo ministro Shinzo Abe che intende far approvare una legge per la revisione della Costituzione pacifista del Giappone. La gente che passa pensa che sia ubriaco, infatti ha con sé bene in vista due bottiglie. O pazzo.
Quando i pompieri gli si avvicinano con una scala, l’uomo si versa il contenuto delle bottiglie addosso e si dà fuoco. Lo portano in ospedale, forse si salverà. Una scarna cronaca se non fosse che sul luogo dove vi è stato il rogo una folla anonima ha subito portato fiori, improvvisati volantini sono stati distribuiti da uomini e donne comuni che si trovavano lì per caso, in uno dei quartieri più popolosi della capitale. Scrivono che è un «martire», che si è immolato per una giusta causa. Sono di sinistra, commenta qualcuno. No, sono di destra, controbattono altri per i quali il suicidio, questo tipo di suicidio per una causa, è sempre stato di destra, anzi, di estrema destra. Poche ore dopo il fatto, la polizia ha comunque rimosso fiori e volantini, ripulito il luogo del misfatto, come se non fosse successo niente e il sacro shopping potesse continuare. La stampa giapponese ha dato scarso rilievo a questa protesta estrema che riporta pericolosamente alla mente cosa è successo in Tibet, in Tunisia, a Saigon quando i monaci buddisti si immolavano col fuoco negli anni Sessanta.
L’uomo per ora non ha un nome né un’appartenenza politica. Dall’abito che indossava lo si direbbe appartenente alla classe dei sararymen, gli impiegati, la maggioranza delle formiche che hanno reso prospero il Giappone nel dopoguerra, un paese che secondo un’opinione diffusa ha potuto prosperare grazie alla rinuncia e alla denuncia del suo passato guerrafondaio, anche se i rigurgiti nazionalisti non sono mai mancati. Basti pensare al seppuku rituale del grande Mishima, nel 1970, che intendeva imporre al paese il ritorno agli antichi valori samuraici.
Oggi però il Giappone è un paese dove la maggioranza della popolazione (il 55 per cento secondo un recente sondaggio) si oppone alla proposta di revisione costituzionale voluta dal primo ministro Abe ed è orgogliosa della propria Costituzione che, per il fatto di rinunciare con l’articolo 9 alla guerra e a possedere esercito, marina e aviazione militare, non ha eguali al mondo. È vero che è stata dettata dagli americani dopo la guerra, ma è anche vero che ormai è come connaturata allo spirito del nuovo Giappone al punto che un comitato di cittadini aveva tentato di candidarla al Nobel per la Pace l’anno scorso e quest’anno ha riproposto la candidatura non più della Costituzione pacifista nipponica ma dell’intero popolo giapponese che per settanta anni l’ha rispettata e salvaguardata. Per settanta anni le minacce di revisione costituzionale non sono mai mancate, ma è in questi ultimi tempi, con il ritorno al potere di Shinzo Abe al suo secondo mandato, che il pericolo si palesa imminente.
Nel 2006 Abe aveva fallito già una volta nel tentativo di revisione costituzionale, ma ora ha ottenuto un successo riuscendo a far approvare un aumento del bilancio da destinare alle forze di “autodifesa”, come si definisce il para-esercito che il Giappone è autorizzato a mantenere.
I motivi per cui Abe intende abolire l’articolo 9 della costituzione sono palesi: la situazione internazionale è mutata, la Cina è emersa come grande potenza, l’ombrello americano forse non basta più. Il Giappone ha diritto a un proprio ruolo attivo soprattutto nello scenario del Pacifico. Sono questi i temi che la propaganda governativa e la stampa più conservatrice si impegnano a fare presenti a un’opinione pubblica scossa dai tragici avvenimenti seguiti allo tsunami e che si professa sempre più pacifista.
Resta da vedere se questo ennesimo «attentato alla Costituzione» — come lo definiva l’uomo che a Shinjuku si è dato fuoco rivelando una non sopita passionalità estremista in un popolo che nell’era moderna ha conosciuto la tragedia dei kamikaze — avrà successo. Dicono che questa volta è estremismo di sinistra, comunque si tratta sempre di un segnale che dovrebbe far riflettere i parlamentari chiamati domani a emendare prima l’articolo 96 che prevede la possibilità di modificare la Carta costituzionale soltanto a maggioranza qualificata. Questa maggioranza di due terzi Abe la ha soltanto alla Camera bassa, non nell’altro ramo del Parlamento. Soltanto dopo questo primo passo si potrà passare all’articolo 9, ma la strada è in salita.

La Stampa 1.7.14
Addio a Maria Luisa Spaziani custode dell’eredità di Montale
La scrittrice e poetessa aveva 91 anni. Fondatrice del Premio dedicato al Nobel, non ha mai smesso di scrivere versi

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l’Unità 1.7.14
Premio Strega europeo
L’identità? Un’illusione
Stasera ciascuno dei cinque candidati leggerà un testo. Ecco quello di Ferrari
di Jérôme Ferrari


ANCHE SENZA PARLARE DI EUROPA, L’IDENTITÀ FRANCESE MI È SEMPRE SEMBRATA UN’ASTRAZIONE. Nel 2009 un ministro di cui preferisco tacere il nome ha avuto l’idea geniale di lanciare un dibattito sull’identità nazionale, rendendosi così colpevole di un doppio crimine: contro l’onore e contro l’intelligenza. Perché l’identità non è una cosa, non si compone di un certo numero di elementi ben determinati di cui basterebbe stilare la lista per rilasciare certificati di fratellanza o, più probabilmente, giustificare sentenze di ostracismo. L’identità è invisibile. Solo le differenze saltano agli occhi. Basta spostarsi da Tolosa a Lille o, come ho fatto spesso, da Parigi ad Ajaccio per rendersene immediatamente conto. Quindi cosa dovrebbe essere un’identità europea? La prima volta che sono andato in Spagna mi sono sentito spaesato come se fossi atterrato su un pianeta affascinante e sconosciuto.
Da allora, però, ho viaggiato molto. E ho appena passato due anni ad Abu Dhabi, una grande città nuova di zecca appena sorta dal deserto come un enorme organismo in piena crescita, una metropoli che prefigura probabilmente il mondo di domani, con le macchine di lusso e la miseria dei lavoratori immigrati, con grattacieli e centri commerciali, con l’orizzonte irto di gru e di pannelli pubblicitari. È strano, da lontano lo sguardo si trasforma: le differenze si attenuano, e quello che non riuscivamo a vedere da vicino ci appare improvvisamente in piena luce. Ogni volta che torno in Europa, poco importa se a Würzburg, Madrid, Parigi o Torino, ho la sensazione di tornare a casa. Prendere un caffè all’aperto, seduto al tavolino di un bar, diventa una delizia incomparabile. Ogni minima pietra antica mi fa quasi venire voglia di piangere, e in questo senso Roma mette a durissima prova le mie ghiandole lacrimali.
A proposito dei privilegi di cui gode l’uomo europeo ho trovato un testo che descrive perfettamente quello che sto cercando di esprimere. Mi si permetta di citarlo:
«(…) Colui che non era trattenuto stabilmente in un luogo determinato dalle necessità della vita, poteva costituirsi grazie ai vantaggi e alle attrattive dei paesi civili una nuova patria più ampia, dove poter circolare indisturbato e senza suscitare sospetti. Poteva in tal modo bearsi del mare azzurro e di quello grigio, delle bellezze dei monti nevosi e di quelle delle verdi praterie, dell’incanto della foresta nordica e dello splendore della vegetazione meridionale, dell’atmosfera dei paesaggi legati ai grandi ricordi storici e della quiete della natura inviolata. Questa nuova patria era per lui anche un museo, pieno di tutti i tesori che gli artefici dell’umana civiltà hanno creato e tramandato nei secoli».
E, poco dopo: «Fra i grandi pensatori, poeti e artisti di tutte le nazioni, era andato scegliendo coloro ai quali pensava di dovere il meglio di ciò che gli era servito per gustare e capire la vita. (…) Nessuno di questi grandi gli era apparso straniero solo perché aveva parlato in una lingua diversa dalla sua, (…) e mai aveva creduto di doversi sentire per questo colpevole di tradimento verso la nazione o verso l’amata lingua madre».
Freud scriveva queste cose nel 1915. L’Europa che descrive era devastata dalla guerra, il museo si era trasformato in un gigantesco mattatoio, l’umanità civilizzata inventava nuove raffinate tecniche di ferocia e l’ampiezza della disillusione era tale che oggi non siamo in grado di farcene un’idea. Noi forse non saremo al sicuro da disillusioni analoghe, ma finora, come giustamente ricordava Javier Cercas in un discorso del 2013, grazie all’unità europea siamo la prima generazione che non ha mai conosciuto la guerra. Non è cosa da poco. Anzi, è un fatto straordinario. Ancora una volta, per convincersene basta spingere lo sguardo un po’ più in là, neanche troppo. Per esempio verso est, nei Balcani, dove vivono persone a cui non è stato concesso di dimenticare che la Storia, per citare un’altra volta Freud, «è più che altro una successione di omicidi» commessi da assassini che vivono accanto a noi, che vivono dentro di noi. Ricordo ancora lo stupore incredulo che ho provato quando ho visto le prime foto dei conflitti in Iugoslavia. La guerra evadeva dagli archivi, diventava reale, emi rendo conto di quanto sia stato fortunato a potermi concedere il lusso di stupirmi. Forse questo ci permette di capire perché l’Unione europea, che in Francia e probabilmente in altri paesi suscita solo una cupa indifferenza venata di disprezzo, sia un oggetto di desiderio per le nazioni che vogliono entrare a farne parte.
È così: il benessere, quando diventa abituale, smette di essere percepito. Oltre alla pace, e grazie alla pace, usufruiamo di una libertà di spostamento che Freud non avrebbe neanche potuto concepire e che, mentre tanta gente vive all’interno delle proprie frontiere come dietro mura di una prigione, a noi sembra normale. Ma questo è l’ordine delle cose, non c’è motivo di sentirsi in colpa, come non c’è ragione di lasciarsi andare a un beato ottimismo. L’Europa della cultura, quella descritta da Freud, l’unica che importi davvero, quella che ci permette di gioire non della nostra irreperibile identità, ma delle nostre differenze sullo sfondo di una storia comune, forse non sopravvivrà allo tsunami di uniformazione che si sta abbattendo sul mondo. Le differenze sono buone e apprezzabili in quanto tali, ed estremamente interessanti. Esistono ancora. Per il momento non siamo diventati in tutto e per tutto clienti intercambiabili di un gigantesco supermercato, ma temo che sia solo questione di tempo.
Preferisco attenermi all’Europa di Freud con il mare azzurro e quello grigio, i tesori, la coesistenza di uomini che parlano lingue diverse, la grande patria e le piccole patrie, ma non posso dimenticare che il quadro descritto da Freud è soprattutto quello di una dolce e meravigliosa illusione.

Repubblica 1.7.14
Un inedito di Louis Althusser
Il pensatore francese critica l’idealismo a favore del materialismo e spiega come va insegnata la disciplina
“I filosofi escano dal loro mondo chiuso”
Quando Althusser si chiedeva “Ma la filosofia serve a qualcosa?”
di Louis Althusser


POICHÉ apparentemente nella vita pratica la filosofia non serve a granché, dato che non produce né conoscenze né applicazioni, ci si può allora domandare: a che cosa serve la filosofia? E si può perfino porre quest’altra strana domanda: non è che per caso la filosofia serva solo al proprio insegnamento e a null’altro? E se serve solo al proprio insegnamento, ciò cosa significa? Cercheremo di rispondere a queste difficili domande. Con la filosofia le cose vanno così.
Basta riflettere su un aspetto piccolissimo (il fatto che i filosofi siano quasi tutti dei professori di filosofia), perché, senza neanche lasciarci il tempo di respirare, s’impongano alcune domande impreviste e sorprendenti. E queste domande sono tali che dobbiamo porle, senza avere i mezzi per rispondervi: per rispondere occorre fare un lungo periplo . E questo periplo non è altro che la filosofia stessa. Il lettore deve dunque armarsi di pazienza. La pazienza è una “virtù” filosofica. Senza di essa, non ci si può fare un’idea della filosofia.
Per procedere, diamo un’occhiata discreta a questi uomini: i professori di filosofia. Hanno mariti e mogli come voi e me, dei figli che hanno voluto. Mangiano e dormono, soffrono e muoiono, come tutti. Possono amare la musica e lo sport, fare politica o non farla. D’accordo, non è questo che fa di loro dei filosofi.
Ciò che fa di loro dei filosofi è che vivono in un mondo a parte, in un mondo chiuso: costituito dalle grandi opere della filosofia. Questo mondo apparentemente non ha un di fuori. Vivono con Platone, Cartesio, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger, ecc. [...] La pratica della filosofia non è semplice lettura, né tanto meno dimostrazione. È interpretazione, interrogazione, meditazione : cerca di far dire alle grandi opere quello che vogliono dire, o possono voler dire , nella Verità insondabile che esse contengono, o meglio che indicano silenziosamente, “facendo segno” verso di essa.
Conseguenza: questo mondo senza un fuori è un mondo senza storia . Benché sia costituito dall’insieme delle grandi opere consacrate dalla storia, esso però non ha storia. La prova: per interpretare una passo di Kant, il filosofo farà ricorso sia a Platone che a Husserl, come se non ci fossero ventitré secoli tra i primi due e un secolo e mezzo tra il primo e l’ultimo, come se importasse poco il prima e il dopo. Per i filosofi, tutte le filosofie sono per così dire contemporanee. Rispondono le une alle altre, fa- cendosi eco, perché in fondo rispondono sempre a quelle stesse domande che costituiscono la filosofia. Da qui la celebre tesi: «la filosofia è eterna». Come si vede, affinché sia possibile la rilettura perpetua, il lavoro di meditazione ininterrotto, occorre che la filosofia sia al contempo infinita (ciò che “dice” è inesauribile) e eterna (tutta la filosofia è contenuta in nuce in ogni filosofo).
Questa è la base della pratica dei filosofi, o meglio dei professori di filosofia. Data questa situazione, fate attenzione se dite loro che insegnano la filosofia. Giacché è evidente che essi non insegnano come gli altri professori, i quali propongono ai loro allievi delle conoscenze da imparare, vale a dire dei risultati scientifici (provvisoriamente) definitivi . Per il professore di filosofia che ha capito la lezione di Platone e Kant, la filosofia non si insegna. Ma allora cosa fa un professore di filosofia? Insegna ai suoi allievi a filosofare, interpretando davanti a loro i grandi testi o i grandi autori della filosofia, aiutandoli con il suo esempio a filosofare, inspirando loro il desiderio di filosofare. [...] Quello che ho appena descritto è, in forma relativamente pura, la tendenza idealistica, la pratica idealistica della filosofia. Ma la filosofia può essere praticata anche in maniera completamente diversa. La prova è che nel corso della storia alcuni filosofi, diciamo i materialisti, hanno praticato la filosofia del tutto diversamente, e persino alcuni professori di filosofia tentano di seguire il loro esempio. Non vogliono più far parte di un mondo separato, di un mondo chiuso nella propria interiorità. Ne escono per abitare il mondo esterno : vogliono che tra il mondo della filosofia (che esiste) e il mondo reale si stabiliscano scambi fecondi. In linea di principio, ciò è per loro la funzione stessa della filosofia: mentre gli idealisti considerano che la filosofia è innanzitutto teorica, i materialisti considerano che la filosofia è innanzitutto pratica, viene dal mondo reale e produce, senza saperlo, degli effetti concreti nel mondo reale.
Notate che, nonostante la loro innata opposizione agli idealisti, i filosofi materialisti possono essere — per così dire — “d’accordo” con gli avversari su alcune questioni. Per esempio, a proposito della tesi “la filosofia non s’insegna” . Non le attribuiscono però lo stesso significato. La tradizione idealistica difende questa tesi, innalzando la filosofia al di sopra delle conoscenze e invitando ciascuno a risvegliare dentro di sé l’ispirazione filosofica. La tradizione materialistica non innalza la filosofia al di sopra delle conoscenze, invita invece gli uomini a cercare al loro esterno, nelle pratiche, nelle conoscenze e nelle lotte sociali — ma senza tralasciare le opere filosofiche — di che imparare a filosofare. È una piccola differenza, ma carica di conseguenze.
Presses Universitaires de France, 2-014. Traduzione di Fabio Gambaro

Repubblica 1.7.14
Istruzioni per l’uso nella battaglia delle idee
di Fabio Gambaro


PARIGI. «OGNI uomo è virtualmente un filosofo». È in questi termini che, ispirandosi a Gramsci, Louis Althusser concludeva nel 1975 un corposo volume intitolato Initiation à la philosophie pour les non philosophes (Presses Universitaires de France, pagg.386, euro 21). Rimasto inedito fino a oggi, il libro è stato ora pubblicato in Francia, dove il filosofo scomparso nel 1990 continua ad essere al centro di studi e ricerche. Questa poco convenzionale «iniziazione alla filosofia per i non filosofi» fu scritta nella seconda metà degli anni Settanta, nel pieno della fase più intensamente politica di Althusser, e solo qualche anno prima della tragedia che avrebbe sconvolto la sua vita nel 1980, quando in un accesso di follia strangolò la moglie. Sono gli anni in cui l’autore di Pour Marx — per il quale un filosofo «è un uomo che si batte nella teoria» — rivisita criticamente il marxismo, convinto che la filosofia non sia altro che la continuazione della politica con altri mezzi, un campo di battaglia al cui interno lottano le idee, come nella realtà lottano le classi sociali. Da qui la necessità di scrivere un «manuale» per fornire ai non specialisti gli strumenti per capire e affrontare questa guerra di teorie e concetti, utilizzando la filosofia contro ogni forma di rassegnazione politica e sociale. In queste pagine in cui denuncia i limiti dell’idealismo e difende la filosofia materialista, Althusser propone una stringente analisi dei concetti d’astrazione e d’ideologia, allontanandosi volontariamente dalla «filosofia dei filosofi per analizzare le pratiche concrete degli uomini». La sua però non è semplicemente un’opera di divulgazione, dato che all’interno del suo ragionamento lo studioso sintetizza molte problematiche e categorie che costituiscono il nucleo della sua originale riflessione filosofica, a cominciare dal concetto di pratica. Non a caso, se Initiation à la philosophie pour les non philosophes all’epoca non fu pubblicato (probabilmente Althusser pensava di apportarvi ancora alcune correzioni, nonostante l’avesse già riscritto due volte), diversi passi del manoscritto verranno nondimeno riutilizzati in alcuni testi scritti successivamente.

La Stampa 1.7.14
Fortuna, la dea bendata che dà senso al mondo fatto a caso
La lettura che Ernesto Ferrero presenta oggi alla Milanesiana L’ambiguità della buona sorte da Shakespeare alla scienza moderna
di Ernesto Ferrero


Il catalogo più autorevole dei colpi e delle frecce che la «Fortuna oltraggiosa» ci riserva viene stilato da Amleto nel più celebre monologo della storia del teatro. Amleto elenca «le frustate e gli spregi del mondo, le ingiustizie degli oppressori, le contumelie dei superbi, gli spasimi dell’amore sprezzato, i ritardi della legge, l’insolenza del potere e gli scherni che il merito paziente subisce dagli indegni». Queste offese sembrano ad Amleto tanto insopportabili da fargli prendere in considerazione l’ipotesi di saldare il conto con un semplice stiletto, non fosse che non sappiamo che cosa ci attende nel paese da cui nessun viaggiatore ritorna.
Quelli che Amleto lamenta sono mali morali prodotti dagli uomini: l’arroganza del potere, le ingiustizie correnti, le pene d’amore, il merito irriso. Non hanno nulla di imprevedibile, e attribuirli ad un’entità malevola e distratta sembra una prova di scarso carattere. Ben altre sono le invenzioni beffarde di cui si compiace la divinità di cui gli uomini d’ogni tempo si sono sempre sentiti lo zimbello. Incostante, dunque femminile, gli occhi coperti da una benda, in bilico su una ruota. «Donna ubriaca e capricciosa», la definisce Cervantes. Già Apuleio lamentava che prodiga sempre i suoi favori ai malvagi e a chi non lo merita. E prima ancora Giobbe aveva aperto una accorata vertenza sindacale con il suo dio.
I colpi del destino oltraggioso (la buona fortuna è sempre degli altri) hanno sempre rappresentato un problema filosofico: perché la vita ha l’arbitrarietà del gioco dei dadi? Perché la virtù è punita? Nel VII canto dell’Inferno Dante, che ben conosce le concezioni degli antichi, chiede lumi a Virgilio, che lo rassicura. Quella che noi chiamiamo Fortuna è un’intelligenza angelica, fedele ministra ed esecutrice della volontà divina, che procede secondo un giudizio che resta sì inconoscibile agli uomini, ma segue un suo disegno preciso. La prudenza umana non può nulla contro il volere della Fortuna, il cui giudizio, dice Virgilio, è «occulto come in erba l’angue», il serpente che si nasconde nell’erba alta.
A partire dal Rinascimento, si fa strada una diversa concezione, che rivendica all’uomo la dignità di plasmare il proprio destino a dispetto di ogni avversità. La fortuna avversa esiste, scrive Machiavelli, è come un’alluvione che allaga campi e sradica alberi, ma le si può opporre una gestione avveduta, quella che oggi chiamiamo prevenzione, allestendo argini, opere idrauliche. Possiamo concedere alla fortuna di determinare una metà del nostro destino. L’altra sta nelle nostre mani, nella nostra «virtù», cioè in un mix di professionalità, determinazione, capacità di previsione e progetto, coraggio. Se, come si dice comunemente e Machiavelli, politicamente ancor più scorretto di Cervantes, ripete, la fortuna è donna, «è necessario, volendola tener sotto, batterla e urtarla». Con la fortuna occorre saper anche giocare d’azzardo, osare al momento giusto: se la Fortuna «come donna, è amica dei giovani», si farà comandare dai più giovani e audaci.
Occorre saper leggere gli eventi e cogliere l’occasione favorevole. Nel Giulio Cesare, Shakespeare fa usare a Bruto una metafora marinara per convincere Cassio che è arrivato il momento di prendere le armi contro Ottavio ed Antonio: «V’è una marea negli affari umani/ tale che, se cogli l’onda, arrivi al successo;/ se invece perdi l’attimo, il viaggio della vita/ si arena in disgrazie e bassifondi./ Su questo mare ora galleggiamo,/dobbiamo profittare delle correnti propizie/ o perdere il nostro carico».
La scienza moderna ci dice che la vita è nata sulla Terra per una serie di congiunzioni uniche e probabilmente irripetibili, che il Caso è il motore primo della vita e poi dell’evoluzione (penso alle tesi sostenute da Jacques Monod in Il caso e la necessità). Sembra quasi la riproposta del modello della dea bendata caro agli antichi. Dai tempi dei prodigiosi processi avvenuti nel brodo primordiale miliardi di anni fa, il Caso bricoleur non ha smesso di inventare combinazioni biologiche sempre nuove, attorcigliando pochi elementi-base nelle doppie eliche del Dna.
Il Caso ama lavorare su quel minimo scarto iniziale che, allargandosi a valanga, può produrre risultati enormemente differenti tra di loro. Tutto quello che gli uomini possono fare è risalire alla piccole cause prime, ai movimenti impercettibili dell’ago degli scambi che riescono a spostare la destinazione di un treno di migliaia di chilometri. Ognuno di noi può raccontare la piccola causa che ha mutato radicalmente l’esistenza sua o dei suoi progenitori. Ogni identità è il prodotto di una serie pressoché infinita di casualità. Ogni identità è fortunosa. È romanzesca.
Uno di questi incredibili scatti dell’ago degli scambi ci è stato raccontato da Primo Levi. Non, si badi, in Se questo è un uomo, ma in un racconto degli ultimi anni, quasi se ne vergognasse, lui che provava appunto la vergogna del sopravissuto. Nel gennaio del 1945, prigioniero ad Auschwitz, Levi ha trovato rifugio nel laboratorio della Buna, la fabbrica di gomma annessa al Lager, in quanto brillante laureato in chimica. È riuscito a evitare i lavori pesanti che ha svolto sino a poco prima all’aperto, ma continua ad avere fame, e cerca sempre di rubare qualcosa di piccolo e di insolito per scambiarlo con pane. Un giorno trova in laboratorio un cassetto pieno di pipette, tubetti di vetro graduati che servono per trasferire liquidi da un recipiente all’altro, e ne riempie una tasca interna della giacca che si era ingegnosamente cucito. Corre da un infermiere polacco che conosceva al Reparto Infettivi, spiegandogli che le pipette potevano servire per analisi chimiche. L’infermiere è poco interessato, dice che quel giorno di pane non ce n’è più, al massimo può dargli un po’ di zuppa. Primo torna nella camerata con una scodella mezza piena. Chi poteva aver avanzato mezza scodella nel regno della fame? Quasi certamente un malato grave. In quelle settimane nel campo s’erano scatenate in forma epidemica difterite e scarlattina.
Auschwitz non era luogo di cautele. La sera Primo divide con il suo fraterno amico Alberto la zuppa sospetta. Pochi giorni dopo si sveglia con la febbre alta e non riesce a deglutire. È scarlattina, e Primo non l’aveva fatta da bambino, al contrario di Alberto. Viene ricoverato in infermeria proprio quando i tedeschi decidono di abbandonare il campo. Da Berlino giunge l’ordine di sopprimere i malati per non lasciare testimoni, ma non c’è più tempo, le guardie fuggono portandosi dietro i prigionieri capaci di camminare. Alberto parte con loro. «Venne a salutarmi, - racconta Levi - e poi partì nella notte e nella neve, con altri sessantamila sventurati, per quella marcia mortale da cui pochi tornarono. Io fui salvato, nel modo più imprevedibile, dall’affare delle pipette rubate, che mi avevano procurato una malattia proprio nel momento in cui, paradossalmente, non poter camminare era una fortuna».

Corriere 1.7.14
Il peccato secondo Agostino


Ugo Bianchi (1922-1995), storico delle religioni, professore in diverse università, segretario e presidente della International Association for the History of Religions, ritorna con il primo volume dei suoi scritti, dedicato agli studi sul Cristianesimo delle origini. È da poco uscito presso Vita e Pensiero nella collana di filosofia antica diretta da Roberto Radice Religions in Antiquity (a cura di Lorenzo Bianchi, pp. 240, e 25). Pagine che affrontano temi rilevanti, soprattutto dedicati ai rapporti tra religione e filosofia; i saggi sono in italiano, inglese e francese. Oltre a taluni presupposti platonici presenti in Origene e Gregorio di Nissa o alle osservazioni su un trattato della quarta «Enneade» di Plotino (posto in comparazione con la teoria cosmogonica origeniana), ecco approfondimenti sulla «doppia creazione» in autori e correnti religiose del mondo antico, considerazioni sui criteri di analisi degli apocrifi; anzi, uno scritto è dedicato a uno di essi: «L’ascensione di Isaia». Né manca un saggio sugli aspetti ontologici nella trasmissione del peccato in Agostino.

Corriere 1.7.14
Charlot, l’America amara del genio «Papà non fu tanto amato»
Geraldine Chaplin: ridicolizzava le finte libertà
di Maurizio Porro


Bologna ha appena festeggiato il centenario della nascita di un leggendario omino dalle scarpe larghe e sfasciate, la bombetta lisa e bastoncino di bambù, di nome Charlot. Comparve nel 1914, il 7 febbraio, nel corto Kid auto races at Venice (Charlot si distingue). Il suo inventore, 25enne di nome Charlie Chaplin, era giunto in America su un bastimento dove viaggiava anche Stan Laurel. La Cineteca diretta da Gianluca Farinelli conclude così un anno di riedizioni di magnifici film del passato restaurati, con l’omaggio, inserito nel programma della XVIII edizione del «Cinema ritrovato», al Re dei clown.
A parlarci del famoso papà è oggi la primogenita Geraldine, classe ’44, che a 8 anni in Luci della ribalta fece una breve apparizione. Piena di lavoro («una fortuna») ripete: «Non è male avere un papà immortale».
Cosa pensa oggi di lui, a 37 anni dalla morte avvenuta (e non poteva essere altrimenti) nella notte di Natale?
«Penso sia nella storia del cinema, nel patrimonio immaginifico della finzione, così come Shakespeare è teste del periodo elisabettiano e Picasso rappresenta l’arte moderna».
Immortale anche nel quotidiano?
«Per me sì, Charlot è il mio eroe personale e collettivo, è tutto quello che apprezzo: ribelle, anarchico, anticonformista, politicamente scorretto, follemente coraggioso. La sola cosa che gli sta a cuore è l’umanità, difese la gente che non aveva difesa. Quando oggi rivedo i suoi film provo ancora le stesse emozioni. Felicità, tragedia, nella vita si cambia sempre, ma all’orizzonte dell’infinito di Charlot c’è sempre la speranza».
Ricordi ?
«Ne racconto uno fresco, raccolto a Madrid due giorni fa quando, andando a comperare del prosciutto, incontro un signore cinquantenne, dal forte e caldo accento andaluso, che mi riconosce e incomincia a piangere pensando a mio padre, dandogli del genio, una scenata di commozione vera».
Qual è il titolo di Chaplin più attuale?
«Monsieur Verdoux sembra girato oggi, parla di un uomo messo alla porta, della mancanza di lavoro ed è assai moderno quel discorso straordinario sulle condanne a morte: se uccidi milioni di persone sei un eroe, se ne uccidi una, un criminale».
È quindi rimasto attuale, anzi eterno?
«Certo. Pensi a Charlot emigrante che è del 1917 ma parla di cose che si leggono tutti i giorni, l’arrivo negli States con la Statua della Libertà. Mostra come ora il continuo sospetto delle autorità. Bisogna difendersi ogni giorno, lui denunciava già tutto il buffo e il ridicolo della vita e della “libertà” made in Usa».
Il britannico Chaplin ha avuto una storia travagliata col Grande Paese: l’Fbi raccolse 1900 pagine su di lui in 50 anni. Perdonò l’America?
«Dovrebbe domandarlo a lui, forse è l’America a non averlo mai davvero perdonato anche se nel 1972 quando ricevette l’Oscar alla carriera ebbe la più lunga ovazione della storia».
Viene in mente anche Benigni. Ci sono affinità?
«Adoro Benigni, è politicamente scorretto come mio padre e con La vita è bella ebbe il coraggio di ridere su fatti tragici, come Chaplin fece col Grande dittatore . Credo che Benigni passerà la frontiera del tempo, ha il potere riservato a pochi di far ridere e pensare. La magia vera di mio padre avverata col Monello era riuscire a far ridere e piangere nello stesso tempo, dono rarissimo».
Per esempio il famoso «The kid»…
«Che era, noi figli crediamo, il suo titolo preferito, con Luci della città e la Contessa di Hong Kong , ma Il Monello produsse per la prima volta quella duplice emozione cui papà teneva molto andando contro la tradizione».
Tra gli altri registi chi gli piaceva?
«Fra gli italiani adorava Rossellini, soprattutto il Generale Della Rovere ma amò molto, pur scoprendolo in ritardo col Posto delle fragole , anche Bergman da cui sia lui sia mia madre Oona si sentivano enormemente toccati».
Che rapporto aveva con l’Italia?
«La amava molto. Davvero. Venivamo in vacanza al mare da piccoli. Ci fu una memorabile serata alla Scala di Milano, adorava Venezia. E dell’Italia amava molto il melodramma e fra i grandi prediligeva Puccini e soprattutto Bohéme ».
Chaplin veniva dal vaudeville: amò sempre il teatro?
«Sì, ma credo non riuscisse poi ad andarci molto quando si mise a lavorare nel cinema».
Un suo ricordo personale.
«L’ultimo è sempre quello, quando non c’è più niente da fare. Chaplin, che aveva sempre voglia di parlare, a un certo punto non parlava più, non rispondeva al dottore che veniva a visitarlo, non gli diceva come stava e quindi il medico capì che era giunta l’ora e avvertì mia madre che entrò nella camera del marito: le disse che era pronto».
Pronto per passare il testimone?
«Sa a chi? Credo al mio straordinario nipote James Thiérrée figlio di mia sorella Victoria, la quinta figlia che per anni col marito Jean Baptiste ha recitato nel fantastico Circo immaginario dove ha allevato questo Charlot 2».
Quindi avete avuto tutti una eredità.
«Io i denti, mia figlia quando glielo chiedono dice i baffi».
Ma Chaplin sapeva che Charlot sarebbe stato immortale?
«Alla fine, in fondo, senza proclamarlo, penso di sì. Lui non si dava del genio da solo, ci diceva che si sentiva un pezzo unico, fuori dal coro».