l’Unità 1.7.14
Ai lettori
il Cdr
Per i
lavoratori de l’Unità con la giornata di oggi comincia il terzo mese di
lavoro senza retribuzioni. Per alcuni collaboratori il quarto mese,
peraltri si arriva all’anno e mezzo. Inaccettabile per qualsiasi
azienda, ancora di più per un’azienda di sinistra. Non c’è crisi che
giustifichi un comportamento di questo tipo, con i rappresentanti
sindacali lasciati all’oscuro di tutto per settimane. Non ci ha dato
risposte l’amministratore delegato Fabrizio Meli che ha malgestito fino a
una settimana fa, chiudendo la sua esperienza nel peggiore dei modi: la
liquidazione. Non ci dà risposte l’azionista Matteo Fago, che pure si
premura di annunciare una rinascita della testata, ancora in edicola
solo grazie al lavoro non pagato dei dipendenti. Torniamo a ricordarlo
con orgoglio: se il valore de l’Unità non si è depauperato finora è solo
grazie al nostro impegno, alla nostra professionalità, al nostro
attaccamento a un giornale, su cui esprimiamo la nostra protesta non
firmando gli articoli da quasi due mesi. Non ci hanno ancora dato
risposte i due liquidatori, che incontreremo giovedì. Per noi non sarà
un appuntamento formale. O si prospetteranno soluzioni concrete, oppure
sarà inevitabile una reazione dura, che per il sindacato significa lo
sciopero.
l’Unità 1.7.14
La risposta si chiama «ammissione umanitaria»
Anticipare
nei Paesi della costa settentrionale dell’Africa il momento
e la
procedura di richiesta della protezione. Ma tutto ciò va progettato
subito
di Luigi Manconi
Ma è possibile fermare
questa strage? C’è un metodo o un’idea, uno strumento o una strategia -
qualora ce ne sia la volontà - che non consista nell’affidarsi al buon
Dio o a un destino diventato improvvisamente propizio? Nel corso
dell’ultimo quarto di secolo, il mare Mediterraneo è diventato una tomba
d’acqua o, se si preferisce, un cimitero marino che accoglie ogni
giorno i suoi morti.
Sono state, innanzitutto, le cifre crudeli di
questa macabra contabilità, che ci hanno indotti a elaborare una
proposta di «ammissione umanitaria». Un piano, formulato nei mesi
scorsi, all’indomani del naufragio del 3 ottobre a largo di Lampedusa.
Oggi quel piano, già sottoposto ai rappresentanti del governo, alle più
alte cariche istituzionali e alle principali organizzazioni
internazionali, e che ha raccolto consensi e osservazioni, appare più
che mai indifferibile. In estrema sintesi, si tratta di anticipare
geograficamente, territorialmente, diplomaticamente, giuridicamente, nei
Paesi della Costa settentrionale dell’Africa, il momento e la procedura
di richiesta della protezione. E si deve cominciare a progettare tutto
ciò da subito.
Altri trenta corpi si sono aggiunti al tragico
computo dei morti nel canale di Sicilia, nonostante gli sforzi della
nostra marina militare a cui dobbiamo la vita di oltre sessantamila
migranti tratti in salvo grazie all’operazione «Mare Nostrum ». Un
movimento inarrestabile, carico di dolore, che non cesserà con le misure
che l’Ue ha adottato finora né con quanto la task force «Mediterraneo»
si appresta a fare in materia di frontiere e di cooperazione giudiziaria
e di polizia.
Occorre ampliare il raggio di intervento a livello
europeo, alzare lo sguardo e realisticamente percorrere una strada
comune che veda l’Europa protagonista di una politica d'asilo efficace,
in grado di farsi carico di uomini, donne e bambini, in fuga da guerre e
persecuzioni, offrendo loro un’opportunità di vita futura. Una
soluzione duratura nell’ambito della gestione delle migrazioni e della
politica di protezione dell’Unione europea nei confronti dei rifugiati.
Al
centro di questa azione umanitaria, la necessità di garantire asilo e
protezione dando ai profughi la possibilità di chiedere soccorso senza
dover rischiare la vita attraversando il Mediterraneo. E senza
l’intermediazione dei trafficanti di esseri umani. Un programma di
reinsediamento nei paesi europei che garantisca viaggi legali e sicuri
per poterli raggiungere, con il coinvolgimento di tutti gli Stati
membri, stabilendo quote di accoglienza per ciascuno stato.
Si
tratta, dunque, di istituire centri e strutture nei paesi della sponda
sud del Mediterraneo (Giordania, Libano, Tunisia, Egitto, Algeria,
Marocco), da cui partono o dove transitano o si addensano i movimenti
migratori verso l’Europa. Il primo passo è la realizzazione di presidi
internazionali in quei paesi per l’avvio della procedura di concessione
di protezione, presidi da istituire sulla scorta di quelli delle
organizzazioni umanitarie internazionali che accolgono i profughi lì
presenti. I presidi andrebbero realizzati dalla stessa Ue, d’intesa con
le organizzazioni umanitarie internazionali, attraverso ambasciate e
consolati dei singoli stati o la rete del Servizio europeo per l’azione
esterna. Le necessarie intese con i Paesi interessati potrebbero
rientrare nella cooperazione Ue sul modello dei partenariati per la
mobilità, già conclusi con Marocco e Tunisia.
Questa proposta
vuole essere una traccia, delineata guardando ad esperienze già
esistenti - si pensi alla Germania che ha aderito a un programma di
resettlement (re-insediamento) dell’Unhcr accogliendo migliaia di
siriani - e la sua articolazione può essere differente ricorrendo a
strumenti giuridici e procedure di altra natura. E proprio perché è
forte la consapevolezza delle difficoltà di rendere concreto un piano
europeo di ammissione umanitaria. Ma è una traccia che va assolutamente
segnata e ulteriormente definita.
Le statistiche pubblicate da
Eurostat nei giorni scorsi riguardanti i rifugiati accolti in
re-insediamenti nella Ue nel 2013 parlano chiaro: sono in tutto 4.840 i
profughi siriani inseriti nei paesi europei. A queste cifre ridottissime
vanno accostati i 2,5 milioni di profughi rifugiati all’estero che
l'Unhcr stima siano la conseguenza della guerra in Siria.
Ora
tocca all’Italia e al nostro governo, fare in modo che la volontà
politica degli Stati europei si indirizzi verso scenari nuovi, scelte
consapevoli e condivise, lungimiranti e coraggiose. Nessun piano sarà
efficace se non si parte dalla necessità di porre fine alla politica
degli ultimi anni che ha causato solo morte, incapace di guardare a
quanto avviene al di là del Mediterraneo.
Repubblica 1.7.14
Il diritto di respirare
di Gad Lerner
IL
GROVIGLIO di corpi accatastati nei barconi fino a provocare la morte
per soffocamento di chi sta sotto, è la diretta conseguenza del
monopolio sul trasporto marittimo dei migranti che noi europei abbiamo
concesso alle organizzazioni criminali. Stiamo uccidendo migliaia di
innocenti e stiamo arricchendo le nuove mafie transnazionali.
NOI
che ci indigneremmo se in simili condizioni venissero stipati gli
animali destinati al macello, accettiamo che degli umani vengano
caricati sui battelli a cinghiate come bestiame.
Quello che i
sopravvissuti tra di loro chiamano pudicamente “il viaggio”, ma solo in
pochi avranno il coraggio di rievocarlo, è la cruna dell’ago del mondo
contemporaneo. Chi lo intraprende sa cosa rischia: ormai depredato di
tutto, imbarcandosi è come se entrasse per sua volontà in stive le cui
pareti metalliche possono trasformarsi in camere a gas, fatale ultimo
azzardo dopo un’infinità di torture subite.
Uomini, donne e
bambini muoiono sotto i nostri occhi in uno stretto braccio di mare per
disidratazione, per affogamento e ora anche per mancanza d’aria. È
grottesco pensare di disincentivarli inasprendo i controlli o negando
loro accoglienza. Le sofferenze che li hanno sospinti a partire e le
violenze già subite lungo il tragitto, sono incommensurabili col nostro
potenziale dissuasivo.
Meritano il nostro rispetto le unità della
Marina militare che con scarsità di mezzi si prodigano nei salvataggi,
riscattando il disonore dei giorni in cui eseguirono l’ordine dei
respingimenti. Ma è evidente che Mare Nostrum è solo un palliativo, là
dove andrebbe creato subito un corridoio umanitario, ovvero un servizio
civile di traghetti e voli charter per smistare razionalmente i migranti
in varie destinazioni europee.
Nel recente Consiglio dell’Ue è
stato ancora una volta eluso l’imperativo di un “mutuo riconoscimento”
delle decisioni di asilo. Si perpetua l’assurdità per cui tale diritto
di asilo viene riconosciuto solo nello Stato membro che l’ha concesso.
Ne deriva una prassi ipocrita: le autorità italiane evitano tacitamente
di procedere all’identificazione dei migranti approdati sulle nostre
coste ma desiderosi di farsi riconoscere lo status di rifugiati in
nazioni più accoglienti. Così, per favorire la loro ripartenza, dopo
quello degli scafisti incrementiamo pure il trasporto illegale via terra
dei passeur. Siamo apprendisti stregoni, favoriamo il riciclo di enormi
profitti spesso destinati all’acquisto di armi con cui verremo
minacciati e poi forse aggrediti.
Sappiamo bene che la tragedia
storica delle migrazioni dalla sponda sud del Mediterraneo divide lo
nostre coscienze. Il leader del principale partito di opposizione si è
dichiarato contrario a aiutare i migranti perché altrimenti «finiremmo
con percentuali di voto da prefisso telefonico ». L’estrema destra
impersonata da Salvini resuscita la fandonia dell’«aiutiamoli a casa
loro» dopo che per anni i governi che appoggiava hanno tagliato i fondi
della cooperazione, favorito l’esportazione di armi, sostenuto gli
aguzzini di quei popoli.
Lo stesso disimpegno europeo, che Juncker
non rimedierà certo con la nomina di un commissario ad hoc , rischia di
far solo da foglia di fico perché maschera inadempienze tutte italiane.
Come non riconoscere un segno plateale del declino che ci affligge nel
nostro essere contemporaneamente un paese sempre più vecchio e un paese
restio a aggiornare le sue normative per l’integrazione dei flussi
migratori. Matteo Renzi, un maestro nella conquista del consenso
popolare, ha una spiccata tendenza a eludere le questioni che dividono
l’opinione pubblica. Lo testimonia il dirottamento a Strasburgo di
Cécile Kyenge, forse la principale novità del governo precedente. E lo
conferma la messa in sordina della cittadinanza per i bambini stranieri
residenti in Italia.
Eppure il cataclisma euromediterraneo in cui
si trova immerso il nostro paese, per quanto difficile da gestire, ne
rappresenta anche l’unica prospettiva futura di rinnovamento. Viviamo in
un’epoca che ha visto schizzare a 51,2 milioni nel 2013, secondo
l’ultimo rapporto Global trends dell’Alto commissariato delle Nazioni
Unite per i profughi, il numero dei migranti forzati. Molti di loro sono
sfollati interni che aspirano a fare ritorno non appena possibile alle
proprie case. Ma i fuggiaschi sono aumentati di ben 6 milioni nel giro
di un solo anno. La Siria, la Repubblica Centrafricana e il Sud Sudan si
aggiungono all’Eritrea, alla Somalia e in parte al Maghreb come luoghi
in cui vivere è quasi impossibile. Gli apolidi sono circa 10 milioni, di
cui solo un terzo effettivamente censiti.
Di fronte a un tale
sommovimento neanche se lo volesse l’Europa potrebbe trasformarsi in una
fortezza. Del resto, nella prima metà del secolo scorso, furono gli
europei a emigrare in decine di milioni verso le Americhe e l’Australia.
Ora al vecchio continente tocca gestire un flusso inverso, riconoscendo
a noi prossima l’umanità dei miserabili in cammino. L’osmosi è un
destino ineluttabile, da programmare con lungimiranza. Tanto per
cominciare, abbiamo gli strumenti civili, tecnologici e militari per
debellare le organizzazioni criminali che lucrano sul commercio di vite
umane. La Libia, anche per nostra colpa, è caduta nelle mani di signori
della guerra cui va sottratto il potere territoriale di smistamento dei
migranti. Creare delle enclaves per il soccorso, l’identificazione e il
trasporto sicuro è meno pericoloso che subire il loro predominio.
Il
semestre europeo dell’Italia ci assegna un compito strategico, da
assolvere con pietà e efficienza. Traghetti subito. Mutuo riconoscimento
delle domande d’asilo. Monitoraggio comune e equo smistamento. Affinché
nessuno muoia più soffocato dal corpo di un padre o di un fratello.
il Fatto 1.7.14
“Sono stati soccorsi tardi: quelle vite si potevano salvare”
Un’attivista era in contatto con il barcone: sabato mattina, al momento dell’Sos, non c’era nessun morto
di Nancy Porsia
Nawal
è un’attivista della rete di assistenza che accoglie migranti e
richiedenti asilo in Sicilia. Sabato, alle 6 del mattino di sabato, ha
ricevuto una telefonata da una delle persone a bordo del barcone in
naufragio: al momento della chiamata, non risultavano vittime tra le
oltre 600 persone stipate sull’imbarcazione.
Nawal ha
immediatamente rilanciato l’Sos alle autorità di competenza. Cosa sia
successo nelle dodici ore successive non è ancora dato sapere, ma al
momento del soccorso partito sabato sera alle 8, a bordo sarebbero stati
trovati 30 morti per asfissia.
IL SISTEMA di accoglienza in
Italia è al collasso. Con l’arrivo nelle ultime 48 ore di altre 5mila
persone in Italia, i migranti e richiedenti asilo registrati nei primi
sei mesi del 2014 sono 61mila, solo 2000 persone in meno rispetto al
2011, l’anno in cui la Libia era in preda all’anarchia della
rivoluzione. Considerando che l’Europa continua a fare muro alle
richieste di contribuire alle spese di Mare Nostrum, pare che l’Italia
debba prepararsi al peggio. Il portavoce del ministero degli interni
libico Rami Kaal spiega al Fatto Quotidiano: “Il traffico di esseri
umani è gestito da potentati locali, che sfuggono completamente al
controllo delle autorità nazionali. Nessuno è in grado di fare
proiezioni. Non so come abbia fatto Alfano a stimare che ci siano 800
mila migranti in partenza dalla Libia”. Poi commenta: “Il flusso di
questa gente disperata è un problema per l’Europa quanto per la Libia,
ma noi siamo inermi”.
Nel traffico dei disperati verso l’Italia
sono attive diverse città del paese nordafricano, da Misurata passando
per la capitale Tripoli, Sabaratha e Surman fino alla città al confine
con la Tunisia Zuwara. Qui alla rete di trafficanti già attivi durante
il regime di Gheddafi, si stanno aggiungendo nuovi arrivati. “Questi
spesso s’improvvisano pur di entrare nel giro”, racconta per telefono
uno degli uomini del Bureau dell’anticrimine della città berbera di
Zuwara, i cosiddetti uomini mascherati. “La notte tra domenica e lunedì –
prosegue – abbiamo fermato tre gommoni ancora ormeggiati sulla costa,
ma pronti per partire.”
SE TANTI sprovveduti oggi vogliono
entrare nel business del traffico degli esseri umani, si deve
sicuramente alle buone prospettive di guadagno garantite da una
richiesta sul mercato più alta che in passato. L’instabilità che sta
investendo la Libia dalla fine della rivoluzione spinge gli stranieri
presenti illegalmente sul territorio a scappare. Spesso vengono
catturati e fatti prigionieri da milizie in cerca di fondi per
finanziare il proprio armamento. Altrettanto spesso, poi, le forze di
sicurezza corrotte arrotondano il proprio stipendio con i soldi estorti
ai migranti e richiedenti asilo in cambio della loro liberazione. Una
volta liberati, questi tornano potenziali clienti di chi si arricchisce
con le vite e le speranze di chi vuole lasciare la Libia.
il Fatto 1.7.14
“Grande dolore”, piccole risposte Italia arenata sull’emergenza
di Giulia Merlo
A
tragedia ormai avvenuta, con altre 30 vite perse nella traversata del
Mediterraneo e centinaia di profughi arrivati al porto di Pozzallo in
provincia di Ragusa, il premier Matteo Renzi ha chiamato una riunione
d’urgenza, “per fare il punto sull’emergenza sbarchi”.
Attorno al
tavolo erano presenti i ministri dell’Interno Angelino Alfano, della
Difesa Roberta Pinotti, degli Esteri Federica Mogherini e dell’Economia
Pier Carlo Padoan, con il sottosegretario alla presidenza Graziano
Delrio. Il risultato della task force è stato un’unica dichiarazione
ufficiale, per bocca del presidente Renzi: “Grande dolore per i
migranti”. Poi via con le altre questioni di politica interna, e i 3
ragazzi israeliani rapiti e forse uccisi dagli estremisti palestinesi
hanno contribuito a sviare l’attenzione.
Alla vigilia del
semestre europeo a presidenza italiana oggi al via, l’unico ad
affrontare l’argomento dell’emergenza immigrazione è stato il prossimo
presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che ha
paventato l’ipotesi di inserire nella sua squadra dell’Esecutivo Ue
anche un “commissario dedicato alla questione delle migrazioni”, ma
tutto rimarrà fermo fino al 16 luglio, data del suo insediamento
effettivo. E ci pensa subito il commissario europeo agli Affari Interni
Cecilia Malmstrom a riportare nell’austerity europea la proposta di
Juncker, puntualizzando che l’Ue contribuirà maggiormente ad “aiutare
l’Italia nei suoi sforzi di gestione della pressione crescente di
migranti e richiedenti asilo”, ma “nell’ambito delle risorse esistenti”.
Come a dire aiuti logistici sì - anche se non è chiaro nè come nè
quando - ma nessun fondo extra per gestire il traffico di esseri umani
nel Mediterraneo.
“Durante il semestre europeo sull’immigrazione
ci giochiamo tutto”, si è limitato a commentare al termine del Cdm il
ministro Alfano, che ha aggiunto: “Giovedì ci sarà un incontro tra il
governo italiano e la commissione europea. Sarebbe grave l’assenza del
commissario Malmstrom e, se sarà confermata, il governo si riserverebbe
importanti azioni anche sul piano diplomatico”.
RIMANE
INGHIOTTITO nel silenzio del ministero dell’Interno, che ha le deleghe
sul tema dell’immigrazione, anche il futuro dell’operazione Mare
Nostrum. Il piano, varato nell’ottobre scorso dalla Marina Militare per
far fronte all’emergenza immigrazione, prevede l’utilizzo di navi
militari per soccorrere i profughi anche in alto mare, costa 9 milioni
di euro al mese e finisce con lo sbarco dei disperati in uno dei porti
della Sicilia. L’Europa intera paga per l’agenzia Frontex, che si
dovrebbe occupare del problema migratorio nel Mediterraneo, circa 89
milioni di euro l’anno e il ministro Pinotti ha auspicato
“l’assorbimento di fatto da parte di Frontex dei compiti che oggi svolge
Mare Nostrum”.
Mare Nostrum, definito un programma di “soccorso
preventivo” dal ministro Alfano perchè le navi vanno a recuperare i
profughi anche vicino alle coste di partenza, ha portato - dati alla
mano - a un afflusso sempre superiore di profughi, soprattutto bambini.
il Fatto 1.7.14
Gli indifferenti
di Furio Colombo
Ecco
la notizia. Matteo Renzi ha appena comunicato che il semestre europeo
guidato dall’Italia si apre a Pozzallo, in Sicilia, davanti ai feretri
delle ultime 30 vittime di una fuga disperata chiamata migrazione.
Trenta morti per soffocamento. Ma si calcola che in fondo al mare ci sia
uncimiterodialmeno20milamigranti che non sono mai arrivati. Renzi ha
detto che d’ora in poi l’Europa comincia qui, sulle rive piene di
cadaveri del Mediterraneo, e nessuno riuscirà a distrarre la presidenza
italiana da questo dovere. Primo: basta con i morti. Secondo: noi
continueremo a salvare esseri umani a tutti i costi. Terzo: noi, da
soli, non possiamo farcela. Ma sia chiaro che l’Italia non potrà né
vorrà affrontare alcun altro impegno prima di avere assolto a questo
dovere: fermare la morte in mare. Ha detto ancora Renzi: non illudetevi
di guardare altrove. Ci sono guerre, repressioni, invasioni,
persecuzioni di religione e di etnia, Paesi senza governo e governi (il
terrorismo) senza Paese, e tutto ricadrà su di noi (noi Europa e, prima
di tutto noi, l’Italia) a mano a mano che le vittime innocenti fuggono
in cerca di salvezza. Eppure siamo noi i complici di questo disastro.
Noi che non abbiamo una politica estera europea. Renzi alla fine ha
precisato: non è vero che vogliamo prenderli tutti. Ma è vero che
vogliamo salvarli tutti. Noi, il governo italiano del semestre europeo,
non ci muoveremo di qui finché l’Ue, Paese per Paese, governo per
governo, non si unirà a noi. Chiediamo al nuovo presidente della
Commissione Juncker di non parlarci della nomina di un Commissario
all’Immigrazione. Qui non troverebbe neanche un ufficio, ma sempre nuovi
morti, sempre nuovi profughi, le brandine dentro le chiese e le camere
funerarie stracolme. Ha detto Renzi alla fine: è qui, è adesso che
l’Italia batte il pugno sul tavolo. (N.B. Al momento di andare in stampa
questo testo non è pervenuto. Pertanto è frutto di pura immaginazione.
Sappiamo però che d’ora in poi, in Europa, sopra i 30 euro pagheremo con
bancomat).
il Fatto 1.7.14
Le 20 mila vittime della ‘Fortezza Europa’
In 25 anni una strage continua. E il Canale di Sicilia è la fosse comune più grande del mediterraneo
di Mario Marcis
Se
ci si limitasse a guardare i numeri lo si dovrebbe chiamare “Mare
monstrum”, non “Mare nostrum”, secondo la dicitura latina. In 26 anni,
dal 1988, il Mar Mediterraneo ha inghiottito 19.812 esseri umani. Il
dato viene da Fortress Europe, blog di Gabriele Del Grande, che per anni
ha viaggiato nei paesi affacciati sul Mediterraneo alla ricerca di
storie. Ma le storie, i volti, senza i numeri valgono poco, soprattutto
quando si parla di morti. In quella che Del Grande definisce “una grande
fossa comune” i numeri che si possono estrapolare dalla cifra totale
sono tanti. Il 2011 è stato l’annus horribilis delle migrazioni. Ben
2.352 migranti hanno perso la vita in quell’anno. Sono 590 i morti nel
2012 e 801 nel 2013. Il Canale di Sicilia, nella grande fossa comune, è
la buca più profonda.
Le vittime sono state 7.314, di cui 5.360
sono stati i dispersi. Cercavano di espugnare la ‘fortezza Europa’,
attraverso il tratto più breve, quello che collega Tunisia e Libia a
Malta, ma soprattutto alla Sicilia. Tra Lampedusa e la Libia ci sono
solo 355 chilometri. Un’altra tratta ‘calda’ – che non è nel
Mediterraneo, ma è comunque una porta per il Vecchio continente – è
quella che attraverso l’Atlantico porta alla Spagna continentale o alle
Canarie. 4.910 persone di cui 2.466 disperse, sono morte nelle navi
salpate da Mauritania, Senegal, Algeria e Marocco. Il Mar Egeo ha
fagocitato meno vittime, ma 1.577 morti, tra i quali 857 dispersi, non
sono pochi. C’è chi sui barconi neanche ci arriva. Il mare è solo
l’ultimo ostacolo da affrontare per molti di loro.
PER CHI FUGGE
dalla Siria o dal Corno d’Africa il Sahara è una tappa obbligata. Nei
viaggi di fortuna sui camion o sui tir, dal 1996 a oggi sono morte
almeno 1.790 persone, secondo i dati di Fortress Europe, ma si tratta di
un dato sottostimato.
Poi ci sono i governi dei paesi del
Maghreb: Tripoli, Algeri e Rabat non sono mai stati teneri verso
profughi e migranti. Nel 2000 a Zawiyah, in Libia, furono sterminate 560
persone nel corso di sommosse razziste. Viaggiando nascosti nei tir
hanno perso la vita per incidenti stradali, per soffocamento o
schiacciati dal peso delle merci 373 persone. Circa 416 esseri umani
sono annegati attraversando i fiumi frontalieri: la maggior parte
nell'Evros tra Turchia e Grecia. Alla fine si arriva alla frontiera e
non sempre ci sono le Fregate militari e Frontex ad accogliere.
Soprattutto in passato sono state le armi spianate a ricevere i
migranti. La polizia di frontiera spagnola, al confine tra Ceuta e
Me-lilla, le enclavi spagnole in territorio africano, ha ucciso negli
anni a colpi di fucile almeno 53 persone.
il Fatto 1.7.14
Diseredati
Immigrati contro clochard la strana guerra di Siracusa
di Veronica Tomassini
Siracusa.
È una strana guerra. Non vince nessuno, a guardar bene. La guerra con
le sue falangi dispiegate, tutte le mattine, davanti la mensa dei
poveri, a Siracusa. C’è un pezzo di Africa anche. Questi poveri si
guardano l’un con l’altro sapendo bene che la regola rimane una: vita
mia, morte tua. È un esperimento empirico crudele, compete a bisogni
primari, si tratta di fame, la questione è entrare dentro un numero, il
numero è troppo breve, 32, fuori quella cifra, non si mangia, non c’è un
secondo turno, tanto vale per tutti: italiani, africani, polacchi,
arabi. Bisogna fare questa fila, allora succede che gli africani, “i
neri”, siano sempre di più, lo dicono gli indigeni.
LA LORO PELLE
BRILLA sotto il sole più degli altri, così sembra “agli altri” appunto;
la tolleranza è davvero fragile, la convivenza anzi, tuttavia non
esiste il minimo sospetto di una simile possibilità: convivenza o
integrazione. Niente da fare, sono concetti ameni, nobili, ma pregni di
condizioni inattuabili. I neri cosa possono farci? Un uomo di mezza età,
un italiano in coda, fa il conto in percentuale, riesce bene
evidentemente, poi realizza che i neri sono almeno il 70%, riesce a fare
di questi conti, alla fine della coda prende il numero, si allontana,
ce l’ha fatta, tornerà dopo un’ora e potrà mangiare, è nei
32. I
neri sono troppi, ciò nonostante, rimuginano tra gli astanti,
siracusani, disoccupati, quale identità oggi attiene a un povero? La
rosa è abbastanza ampia. Ma: i neri sono di più. Cosa possono farci
però? Deambulano, da un semaforo a un altro, non entrano nemmeno più nei
Cie, niente, non un riconoscimento, un foglio in tasca e via; sono
portatori di status paludosi, non sono niente, non sono identificati,
non hanno documenti, al massimo decreti di espulsione verso frontiere
talmente esotiche e impraticabili (Fiumicino per dire) da equivalere a
ipergalassie.
Sappiamo che Siracusa e Augusta sono i nuovi
cardini a guado di un pianeta che si sta spostando, un continente si sta
spostando, due città di provincia Augusta e Siracusa sono i soli
avamposti. Se non è una guerra questa, se non sono questi i precordi. Se
non fosse che Siracusa e Augusta hanno perso memoria di quel che erano,
adesso sono all’incirca (Siracusa in special modo) un cimitero di
negozi, con il comune in default, il welfare uguale a zero, ridotte
all’osso povere polis di decantata e rafferma memoria; Augusta vanta un
comune assediato da ben tre commissari. Tutto il resto nella migliore
delle ipotesi può definirsi: caos. Il 70% dei 25650 arrivi siciliani
piombano su di esse come una scure. Ecco cosa succede allora: l’umanità
negletta, in grande maggioranza a dirla tutta, diventa suo malgrado
protagonista di nuove evoluzioni, nuove guerre di quartiere, si
sperimenta la capacità di sopravvivere l’un contro l’altro, mai insieme.
Ed è facile che in fila, nella mensa dei poveri, esplodano risse tra
etnie, neanche fossimo la nuova polveriera, Bosnia del sud del mondo;
siracusani versus africani, ridicolo, eppure; esperimenti indotti da
bisogni primitivi, violenti e ottusi.
AD AUGUSTA l’andazzo è
simile, una sola mensa, 32 posti, non è una mensa Caritas. Possiamo
considerarlo un deterrente, un aggravante? È una mensa sostenuta da una
raffineria. Già. Quel che si sta configurando nei due torrioni, le
vedette per una questione geografica, in faccia ai barconi che non
smettono di presentarsi sulla linea del mare, è la connotazione di una
strana umanità, scivolata senza nemmeno accorgersene nella pochezza,
cagionata dalla miseria; e poi dall’altra umanità, quella sorpresa,
impaurita, ottenebrata ancora dall’oscillazione maledetta di una
carretta, con gli occhi bruciati dalla sabbia del Sahara. E sono un
ibrido, l’una e l’altra, che non sanno amarsi, non ancora. E gli altri
sembrano così lontani.
Corriere 1.7.14
Un uomo solo al comando
di Antonio Polito
L’espressione
«fare squadra» è caduta un po’ in disgrazia dopo l’uscita dell’Italia
dal Mondiale. Ciò nonostante resta l’unico metodo per aver successo in
qualsiasi confronto internazionale. E l’Europa è da ogni punto di vista
una cooperazione basata sul confronto, quando non sulla competizione.
Desta
perciò qualche legittimo dubbio il modo in cui il presidente Renzi sta
affrontando la questione delle nomine. La più importante delle quali è
il posto che ci spetta nella Commissione, perché sarà quell’organismo,
sempre più politico, a decidere quanto tempo e quanta flessibilità ci
verranno concessi per il risanamento dei conti pubblici.
In Europa
lo stile di lavoro fin qui sperimentato con successo da Renzi, a
Firenze come a Palazzo Chigi, potrebbe non essere il più indicato. Il
premier è infatti abituato a ballare da solo. Per lui è diventato un
elemento di forza, invece che di debolezza. Il suo rapporto diretto e
carismatico con l’opinione pubblica prevede che non ci siano
intermediari, né altri politici a fargli ombra. Dunque si contorna più
di staff che di gruppi di pari, sceglie più in base alla lealtà che alla
qualità. Ma a Bruxelles Renzi non ballerà da solo, dovrà agire di
concerto con gli altri governi, peraltro in maggioranza di centrodestra.
Né potrà minacciare i riottosi con l’arma delle elezioni anticipate,
come fa in Italia.
Buon senso avrebbe suggerito dunque di puntare
subito su nomi di prestigio in campo europeo, «pesi massimi» che siano
in grado di influire sui dossier che ci riguardano. D’altro canto, una
delle poche risorse di cui disponiamo in abbondanza sono proprio gli ex
premier e gli ex ministri, grazie al forsennato turnover dei nostri
governi. Anche altri Paesi si orientano verso figure di questo calibro. I
finlandesi per esempio, da non prendere sotto gamba perché sono un po’ i
cani da guardia del rigore tedesco (vedi Olli Rehn), hanno scelto come
commissario il loro ex primo ministro Katainen. I francesi dovrebbero
puntare su Moscovici, ex ministro dell’Economia. In passato gli inglesi,
con Blair, non hanno esitato a nominare un uomo dell’opposizione purché
di prima grandezza, come Chris Patten. Anche a noi è capitato di
pensare più alla forza del nome che alla sua docilità politica:
Berlusconi fece commissari Mario Monti ed Emma Bonino. E Mario Draghi è
arrivato al vertice della Bce perché era il numero uno: se avessimo
scelto un numero due o tre quella posizione oggi non sarebbe occupata da
un italiano.
Puntare su Federica Mogherini e sulla posizione di
Alto rappresentante della Politica estera presenta dunque due
controindicazioni. La prima è il peso specifico che può avere nella
Commissione, quando si discuterà dei dossier che ci riguardano, una
persona alla sua prima esperienza europea e costantemente in viaggio per
dovere d’ufficio. La seconda è che mentre aspettiamo il verdetto su di
lei siamo costretti a nominare un supplente per i prossimi cruciali
quattro mesi: l’ambasciatore Nelli Feroci.
Senza contare che
potremmo non raggiungere l’obiettivo. A Bruxelles si dice che l’idea di
affidare a un italiano la Politica estera comune non piaccia affatto ai
nuovi membri dell’Est, i quali temono un eccesso di russofilia della
nostra linea, dopo il caso ucraino. E se fallissimo la prima scelta,
potrebbe poi essere troppo tardi per una seconda opzione più utile nella
difesa degli interessi nazionali: magari quel commissariato per
l’Immigrazione che Juncker pare intenzionato a istituire.
Il Sole 1.7.14
Rivoluzione annunciata ma per ora niente decisioni
di Donatella Stasio
Il
governo dei tecnici doveva muoversi nel perimetro stretto delle
"riforme possibili" ma garantendo interventi di "qualità". Così non è
stato. Il governo delle larghe intese doveva ampliare quel perimetro e
proseguire sulla strada avviata, integrando e correggendo. Così non è
stato. Il governo Renzi, il più politico in assoluto, avrebbe dovuto
avere la strada in discesa quanto a obiettivi e a misure per realizzarli
con trasparenza e rapidità. Così non è stato. Fin dal suo insediamento,
è apparso defilato e confuso sulla giustizia, privo di una visione
d'insieme e finanche della volontà di cambiare passo, salvo cavalcare
(con indubbia destrezza mediatica) la cronaca che spietatamente gli
ricordava emergenze croniche e priorità. Così ieri mattina – allo
scadere dell'ultimo giorno dell'ultimo mese del cronoprogramma renziano,
quello destinato alla riforma globale della giustizia - abbiamo appreso
che il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia hanno
avuto «un incontro molto importante per elaborare delle linee guida che
non sono dei titoli ma argomenti importanti per rivoluzionare il sistema
giustizia». E in serata Renzi ha snocciolato 12 punti – altrettanti
titoli – assicurando che – salvo per le intercettazioni – i testi sono
già tutti pronti ma il governo vuole aspettare due mesi per dare ai
cittadini la possibilità di dire la loro. Insomma, parliamone.
Parliamone ancora. Se la riforma annunciata subisce un altro rinvio è
perché il governo vuole farne una «rivoluzione» all'insegna della
«partecipazione».
In buona sostanza, dopo quattro mesi e a poche
ore dall'atteso Consiglio dei ministri che – rinvio dopo rinvio – doveva
finalmente dar corpo agli annunci con un pacchetto organico di misure -
così organico da imporre alle Camere uno stop su corruzione,
prescrizione, autoriciclaggio e falso in bilancio - il premier e il
guardasigilli hanno «elaborato» le «linee guida» della «rivoluzione» di
settembre sulla giustizia. I testi possono aspettare. Non c'è fretta, si
dice, perché tanto il Parlamento è «ingolfato» da altre riforme. Non
c'è fretta, si spiega, perché quel che conta è arrivare a progetti
«concertati» e «ponderati». Non c'è fretta, si mormora, perché con
Silvio Berlusconi alleato delle riforme istituzionali è opportuno
aspettare tempi politicamente migliori. Ma è difficile sfuggire alla
sensazione che la giustizia resti ancora un terreno troppo scivoloso per
assumersi la responsabilità politica di scelte chiare e tempestive.
Meglio continuare a «parlarne» e a far finta che quelle «linee guida»
siano già la rivoluzione promessa (l'unica novità operativa è l'avvio da
oggi del processo civile telematico, che però viene da lontano e non
dal governo Renzi). E questo è un terreno su cui il premier ha gioco
facile, visto che da mesi, ormai, non c'è giornale o tv che non parli
dell'imminente «rivoluzione», «stretta», «svolta» del governo.
Certo,
il metodo di lavoro è importante. E due mesi in più non spostano molto
se il risultato finale è efficace (anche se è un po' buffo immaginare
che sotto il sole di luglio e di agosto fiorisca un dibattito sulla
giustizia e che il governo riscriva i suoi testi). Ma tutto si può dire
salvo che sulla giustizia si sia all'anno zero quanto a dibattiti e
proposte, parlamentari, ministeriali, scientifiche. Tutto si può dire
salvo che temi come falso in bilancio, autoriciclaggio, prescrizione,
concussione, efficienza del processo civile e penale non siano stati
sviscerati in ogni sede, nazionale e internazionale. Tutto si può
affermare, salvo che la corruzione sia un accidente che ci ha spiazzato o
solo una questione di «ladri» e non anche di «regole» che ai ladri
hanno consentito di cavarsela quasi sempre e quindi di dilagare. Se il
governo ambiva a giocare un ruolo da protagonista, avrebbe dovuto
mettersi subito al lavoro, non farsi prendere in contropiede dalle
inchieste su Expo e Mose e, semmai, giocare d'anticipo. Avrebbe così
imposto il suo passo al Parlamento e non una frenata.
Sul civile e
sul penale, sono rimasti nel cassetto testi già pronti e «concertati».
Tutto da rifare, sembrerebbe. In compenso sono riemersi, come temi
centrali, la responsabilità civile dei magistrati e le intercettazioni:
proprio come ai tempi di Monti, quando sul tavolo doveva esserci solo
l'anticorruzione. Un déjà vu di cui avremmo fatto volentieri a meno,
visti i risultati.
Corriere 1.7.14
Il premier non teme agguati: rallentano solo i tempi
Ai suoi spiega che la minoranza del Pd è riuscita però a dare più forza a Berlusconi
di Maria Teresa Meli
ROMA
— Preoccupato non è preoccupato per la resistenza dei dissidenti del
Partito democratico che continuano la loro fronda in Senato. No, non è
esattamente questo lo stato d’animo con cui Matteo Renzi ha accolto la
notizia che il «tormentone» continua. Era certo, che non svanisse subito
nel nulla. Se non altro perché in questi giorni si è andato convincendo
che dietro una fetta di quel lavorio parlamentare per «mettere i
bastoni tra le ruote delle riforme» si celino le «resistenze della
vecchia classe dirigente», sia quella «politica», che quella della
«burocrazia», che del presidente del Consiglio è la più pericolosa e
acerrima nemica (almeno, stando ai renziani).
Però Renzi è un po’
stufo (e questo per chi conosce l’uomo sa che è un eufemismo) dei
«continui agguati» dei dissidenti. Che, alla fine della festa, non hanno
prodotto nulla, e hanno ottenuto come «unico risultato» quello di
«rallentare l’iter della riforma del Senato e del Titolo V della
Costituzione», «certo non di fermarla», perché «su questo punto, è
garantito, non ci riusciranno». Già, il premier è convinto che sia
difficile ormai «bloccare un treno in corsa». Tanto più che, come ha
spiegato più e più volte ai suoi collaboratori e ai compagni di partito a
lui più vicini, «gli italiani continuano a non capire questi giochetti
di palazzo: tifano per le riforme e vogliono il cambiamento». Insomma,
il paradosso, per i frondisti del Partito democratico, secondo il
premier e i suoi, è che hanno ottenuto di «avvicinare sempre di più
l’opinione pubblica a Renzi», perché anche la gente vuole vedere
cambiare le cose e legge certe resistenze come il tentativo di mantenere
lo «status quo».
Ma non è questo l’unico paradosso che riguarda i
dissidenti pd di Palazzo Madama. Per quei casi di eterogenesi dei fini
che spesso si realizzano in politica, soprattutto nella politica
italiana, «i frondisti hanno fatto tornare Silvio Berlusconi
determinante, per quel che riguarda i numeri, nella partita delle
riforme: bel risultato». A pronunciare esplicitamente queste parole è il
senatore Giorgio Tonini.
Ma è esattamente quello che pensa il
presidente del Consiglio. Il quale, però, nonostante la franchezza che
gli è abituale, alle volte non può dire direttamente lui, in forma
pubblica, sempre e comunque, ciò che pensa, onde evitare di acuire le
tensioni. Effettivamente adesso è questa la situazione. Senza il voto
dei dissidenti del Pd, l’apporto di Forza Italia diventa determinante
per far passare la riforma.
Il che non significa però che in
questa fase la segreteria del Pd stia meditando sanzioni disciplinari
nei confronti dei ribelli di Palazzo Madama. Non è questo il modo in cui
al Nazareno si pensa di affrontare la situazione. Anche se tutti
ricordano che finora, ogni volta che ci sono stati dei dissensi, anche
forti nel Pd, e si è creato un gruppo di minoranza, quel gruppo ha
votato contro la linea della maggioranza nell’assemblea dei
parlamentari, ma poi in Aula si è allineato alle decisioni del partito,
per evitare clamorose spaccature. Comunque, secondo il «timing»,
appoggiato in questo dal Quirinale, entro dicembre la riforma del Senato
e quella del Titolo V della Costituzione dovranno essere passate in
prima lettura sia a Palazzo Madama che a Montecitorio, mentre dovrà
essere stata approvata in via definitiva la nuova legge elettorale.
Su
questo punto, com’è noto, Renzi non intende sbattere la porta in faccia
ai 5 Stelle e mette in guardia i suoi dal «fare il gioco di Grillo», ma
in realtà è convinto che il comico genovese non gli farà mai il piacere
di regalargli un accordo sulla riforma elettorale. Piuttosto vorrà
sfruttare le contraddizioni dentro il Pd e tentare di «innervosire»
Berlusconi alle prese con i suoi tanti guai giudiziari, nella speranza,
magari, che salti il patto del Nazareno. Quello, però, secondo il
premier, resta il cardine «principale» da cui passare necessariamente
quando si tratterà di rimettere mano all’Italicum.
Dunque, Renzi
fa sempre il Renzi e mostra la faccia dell’ottimismo anche se non ha
gradito che nel suo partito ci sia chi vuole «cercare di fermare le
riforme, proprio quando sono quelle le nostre credenziali nei confronti
dell’Europa». O, forse, si chiedono a Palazzo Chigi, è proprio per
questa ragione che è ripartita la carica dei dissidenti?
Corriere 1.7.14
L’economia ferma allunga un’ombra su progetti ambiziosi
di Massimo Franco
Le
premesse delle riforme istituzionali sembrano effettivamente buone: al
punto che nella commissione Affari costituzionali del Senato, ieri FI e
Lega hanno votato con la maggioranza. Rimane l’incertezza sull’elezione
dei senatori, a conferma che su questo punto permane una resistenza
strisciante. È possibile che Matteo Renzi riuscirà a strappare un «sì» a
Silvio Berlusconi dopo la riunione indetta dall’ex premier con i suoi
parlamentari. E anche sulla giustizia, l’annuncio di un cambio di passo e
di norme è comunicato quasi trionfale. L’impressione è che anche su
questo punto Palazzo Chigi prepari una mezza rivoluzione, sebbene i
testi di alcune delle misure non siano pronti.
Il problema è che
il dinamismo renziano appare zavorrato non tanto dai contrasti nella sua
coalizione ma da uno sfondo economico tuttora pessimo. Il Prodotto
interno lordo (Pil) rimane quasi immobile, frustrando le speranze di
ripresa. E questo aumenta la possibilità di una manovra correttiva in
autunno: un orizzonte sempre esorcizzato e smentito dal governo. I dati
diffusi ieri dall’Istat, in realtà, erano parzialmente prevedibili e
attesi. Da giorni si parlava sotto voce dell’esigenza di intervenire per
correggere un andamento dei conti pubblici destinato a peggiorare. E le
polemiche alimentate da FI per il modo in cui alcuni esponenti tedeschi
di primo piano negano concessioni all’Italia in materia di flessibilità
sulla spesa, acuiscono la confusione e la preoccupazione.
Finora,
il ministro Pier Carlo Padoan ha sempre rivendicato la bontà dei
provvedimenti presi: i famosi «compiti a casa». Il dubbio che possano
non bastare, però, aleggia, sebbene Renzi continui a godere di
percentuali di consenso superiori alla metà della popolazione. Il capo
del governo assicura che il semestre di presidenza italiana dell’Europa
sarà segnato dal rispetto dei vincoli finanziari e in parallelo da una
pressione sulle cancellerie per rilanciare l’economia e inseguire la
crescita.
Ma è come se gli indicatori della crisi si
moltiplicassero contro la volontà e le intenzioni di tutti.
Un’immigrazione clandestina che spaventa l’opinione pubblica e produce
tragedie in mare come l’ennesima di ieri nel Canale di Sicilia, può
peggiorare i rapporti con le nazioni del Nord Europa, contrarie a
condividere il peso di questo esodo di disperati. E pone un problema di
costi, sfruttato spregiudicatamente dal populismo leghista. La riunione a
Palazzo Chigi tra premier e ministri degli Esteri, della Difesa e
dell’Interno, con il Cdm iniziatosi con due ore di ritardo, fotografa
una situazione grave e difficile da maneggiare. Forse per questo Renzi
ha preferito soprattutto sottolineare i passi avanti sulle riforme, con
la solita postilla «alla faccia dei gufi»: soprattutto quella della
giustizia.
Renzi ha esaltato un provvedimento in dodici punti che
segnerebbe, è la sua tesi, «l’addio ai tribunali pieni di scartoffie.
La nostra scommessa è che si possa discutere di giustizia in modo non
ideologico». Ma il tema vero, e potenzialmente esplosivo, è quello che
tocca i rapporti tra politica e magistratura. «Sono vent’anni che sulla
giustizia si litiga senza discutere», spiega Renzi. «Vorremo discutere
di giustizia senza litigare». Il governo si dà due mesi di tempo. E in
modo cauto ma chiaro lascia capire l’intenzione di intervenire su temi
come la carriera dei magistrati, l’ambito delle intercettazioni, la
responsabilità civile dei giudici. Sa di toccare un terreno minato, e
infatti parla in modo problematico, attento a rassicurare la
magistratura. La vera bomba ad orologeria, però, rischia di essere
quella economica. Forse per questo se ne parla poco.
l’Unità 1.7.14
Cattolici, ma è vero che non contano più in politica?
di Giorgio Merlo
DA
PIÙ PARTI CIRCOLA UNA TESI ALQUANTO SINGOLARE. E CIOÈ, I CATTOLICI
NELLA VITA POLITICA ITALIANA DI OGGI «CONTANO» QUASI NULLA, PER NONDIRE
NIENTE. Tesi singolare perché non c'è quasi forza politica che non
dichiari di avere leader che affondano le loro radici nell'area
cattolica, o nei valori cattolici o che abbiano avuto una formazione
riconducibile alla cultura cattolica. Ora, delle due l'una. O questi
leader politici sono cattolici, e cristiani, - di facciata - oppure
nella concreta declinazione politica e legislativa sono sostanzialmente
indifferenti, se non estranei ai valori di riferimento. Una riflessione
legittima, credo, perché attorno alla risposta a questa domanda
riusciamo anche a capire qual è l'incidenza reale e pubblica della
cultura cattolica democratica e del popolarismo di ispirazione cristiana
nel nostro paese e, nello specifico, nella politica italiana.
Al
riguardo, non c'è alcun dubbio che paragonare la stagione
cinquantennale della Dc con la situazione contemporanea sarebbe del
tutto fuori luogo. Un paragone anacronistico per un semplice motivo:
oggi non esiste più, e forse non esisterà mai più, un partito di
ispirazione cristiana in cui si riconosce una forte maggioranza dei
cattolici italiani. Un partito, comunque, che rifletteva quel contesto
storico e che è nato e decollato perché prodotto di quella stagione
politica e culturale. Un partito di ispirazione cristiana, di massa,
popolare e interclassista, non nasce come un fatto di laboratorio ma
perché riflette le esigenze e le domande che provengono dalla società in
quel particolare momento storico. Oggi, semplicemente, non esiste né
quella domanda né quella richiesta.
In secondo luogo il
pluralismo politico dei cattolici è un fatto largamente acquisito e
metabolizzato. Certo, come emerge anche da vari documenti ecclesiali,
non tutti i partiti possono dire apertamente e pubblicamente che si
rifanno ai valori cristiani o che possono sottoscrivere riflessioni e
istanze che provengono da settori dell'area cattolica italiana o dagli
stessi ambienti ecclesiali. Ma sul pluralismo politico dei cattolici
italiani il dato è ormai irreversibile e nulla può renderlo un fatto
episodico o revisionabile.
In terzo luogo non esiste più un
personale politico con una solida, qualificata e visibile cultura
cattolica democratica e popolare. Certo, questo non dipende dai leader
politici di oggi né può essere addebitato come una responsabilità
personale o collettiva. Semplicemente, sono cambiate profondamente le
modalità di formazione e di selezione della classe dirigente
politicamente impegnata. E la presenza dei cattolici nei vari partiti o
movimenti si caratterizza prevalentemente sul versante della capacità
personale di saper incidere nella legislazione ai vari livelli
istituzionali. Senza più strutture organizzate e ferree. Del resto, non
solo sono tramontati i partiti identitari sul fronte cattolico, ma sono
tramontate anche le cosiddette correnti organizzate all'interno dei
partiti. Anche dei partiti «plurali» come i l Partito democratico. Per
non parlare di altri partiti dove questa preoccupazione, o questa
sensibilità, non è mai esistita. Per fermarsi al Pd, è noto che l'area
popolare e cattolica democratica che si riconosce in quel partito sin
dall'inizio non ha dato vita a correnti organizzate riconducibili
direttamente a quel filone culturale. E questo per il semplice motivo
che in un partito plurale che è nato per superare le precedenti identità
politiche e culturali, difficilmente può riproporre al suo interno la
divisione identitaria ed organizzativa del passato.
Tutto ciò non
significa arrivare alla conclusione che i cattolici in politica oggi
contano poco o nulla. Tutto ciò non significa, ancora di più, che i
cattolici contano politicamente solo e soltanto se danno vita ad un
partito in cui si riconoscono solo cattolici o che declina una politica
riconducibile solo a quel patrimonio culturale. Se così fosse, le
lancette della storia si dovrebbero riportare indietro di qualche
decennio con il rischio di cadere in una nuova e, per certi versi,
inedita deriva clericale e confessionale. Insomma, i cattolici possono
«contare» sul terreno della politica e nelle istituzioni anche senza una
presenza organizzata nei rispettivi partiti. Il lievito della presenza
cattolica, ovviamente laica e pluralistica, può manifestarsi
concretamente attraverso le singole scelte politiche e non nella
declamazione astratta dei valori e dei principi. Dopodiché, e qui il
vuoto da colmare è gigantesco, si tratta di far ripartire una nuova
stagione di seria e qualificata preparazione di una nuova classe
dirigente di ispirazione cristiana. Ma su questo versante la
responsabilità non è di coloro che si impegnano in politica ma, semmai,
di quelli che devono fornire strumenti e modalità per formare una classe
dirigente che non sia solo riconducibile ad una fresca carta di
identità, ad una buona performance televisiva o ad una efficace batteria
di battute e barzellette. Per quelle non servono né formazione, né
studio, né spiritualità né approfondimento. È sufficiente la «lezione»
berlusconiana. Che, purtroppo, ha contagiato in modo trasversale e
profondo ampi settori della società italiana. E non solo quelli di
centro destra.
Repubblica 1.7.14
Si ferma l’Italicum rinviato a ottobre
di Francesco Bei e Giovanna Casadio
ITEMPI si
allungano. E a farne le spese potrebbe essere la nuova legge
elettorale, sacrificata sull’altare della riforma costituzionale. Tutto
il cronoprogramma immaginato da Palazzo Chigi rischia di saltare,
insieme alla promessa di Renzi di vedere approvato l’Italicum prima
dell’estate almeno in commissione.
LOSA bene il ministro delle
Riforme, Maria Elena Boschi. Con Anna Finocchiaro, la presidente della
commissione affari costituzionali di Palazzo Madama e con il capogruppo
dem Luigi Zanda ne hanno discusso a lungo ieri mattina. «Dobbiamo
accelerare al massimo per far posto alla legge elettorale - ha chiesto
Boschi - Almeno cerchiamo di incardinarla prima della pausa estiva».
Obiettivo quasi impossibile da centrare.
In Forza Italia lo
scontro tra i favorevoli al patto delle riforme con il Nazareno
(Verdini, Romani e Toti) e l’ala dura decisa a fare saltare tutto
(Brunetta, Minzolini) è sempre più acceso. La riforma Boschi? Per il
Mattinale vicino a Brunetta è «una cosa che non esiste al mondo». Tutto è
appeso all’assemblea forzista di giovedì, nella quale Berlusconi
tenterà di convincere i ribelli a desistere. Non a caso la riunione di
oggi dei senatori del Pd è saltata: è rinviata a giovedì pomeriggio,
dopo quella di Fi. Nell’incontro della mattina a Palazzo Chigi la task
force democratica, d’intesa con il capogruppo forzista Romani e relatore
della Lega, Roberto Calderoli, decide di procedere in commissione solo
sui punti condivisi. Il resto, le questioni più spinose e i nodi - a
partire dall’elezione dei nuovi senatori fino all’immunità - vengono
accantonati in attesa di capire cosa accadrà nelle file berlusconiane.
Ma
questa dilazione sulla riforma costituzionale mette a rischio
l’Italicum. Se la commissione finirà il suo esame non prima della fine
della prossima settimana, in aula il Ddl Boschi arriverà soltanto a metà
luglio (qualcuno indica persino il 21 del mese). A quel punto addio
riforma elettorale, visto che la commissione affari costituzionali dovrà
esaminare anche i decreti in scadenza. Come ammette un senatore dem,
«l’Italicum sarà un frutto autunnale». Lo slittamento, oltre al danno
d’immagine per Renzi, porta con sé un pericolo. Se la partita resta
aperta troppo a lungo, tutto può essere rimesso in discussione, che è
proprio la scommessa di chi punta a stravolgere l’impianto concordato
tra il segretario-premier e l’ex Cavaliere. Non a caso l’Ncd ha
suggerito a Renzi di legare in un accordo politico le due riforme,
ovvero il superamento del Senato in Camera delle autonomie e il modello
elettorale, concordando subito le modifiche all’Italicum. Gaetano
Quagliariello, che segue per Alfano il dossier riforme, è convinto che
non si possa rinunciare al passo doppio: «È impensabile immaginare un
via libera al nuovo Senato se prima non ci sarà un’intesa nella
maggioranza su quanto va cambiato nella legge elettorale».
Renzi,
fedele all’impegno che le riforme si fanno con tutte le forze politiche,
offre intanto ai 5Stelle un pacchetto di proposte sulla legge
elettorale. Lo fa con una lettera, che tatticamente serve a evitare
l’accusa di sottrarsi al confronto avendo un patto blindato con
Berlusconi. Ma il prezzo da pagare è, di fatto, un ulteriore
allungamento dei tempi sull’Italicum. «Le riforme devono avere più
interlocutori possibili - ricorda Zanda - è importante quindi che anche i
grillini siano della partita ». I 5Stelle si stanno dimostrando
insolitamente dialoganti. Questo non vuol dire che Renzi sarà presente
di persona al prossimo incontro come gli ha chiesto Luigi Di Maio, il
vice presidente grillino della Camera.
Nell’attesa che Forza
Italia si chiarisca le idee, i relatori del Ddl Boschi, insieme con il
governo, stanno comunque facendo di tutto per non trovarsi impreparati
all’appuntamento. Il lavoro di mediazione sulle questioni più intricate è
a buon punto. Non solo sul Senato elettivo - che i Dem sono convinti
non abbia nessuna possibilità di resuscitare in aula nonostante i
dissidenti della stessa maggioranza - ma anche sul nodo dell’immunità da
concedere a i nuovi senatori. La Corte costituzionale in via riservata
ha fatto sapere di non considerare opportuna l’assegnazione della
competenza sulle autorizzazioni a procedere. La palla è quindi tornata
alla politica. L’ipotesi su cui si sta cercando un compromesso è quella
della «insindacabilità », ovvero i senatori saranno coperti da una
immunità depotenziata che varrà solo per le opinioni espresse
nell’esercizio delle loro funzioni.
L’altro scoglio è quello
relativo all’elezione del capo dello Stato: i ribelli forzisti hanno
infatti sollevato l’obiezione che un solo partito potrebbe monopolizzare
la candidatura alQuirinale, grazie a un’assemblea parlamentare dominata
con il premio di maggioranza. Una modifica suggerita dal dem Francesco
Sanna prevede che al parlamento in seduta comune si aggiungano anche i
73 eurodeputati italiani eletti con il proporzionale. Ma ci sono anche
altri emendamenti per riequilibrare il plenum per l’elezione del capo
dello Stato presentati a Palazzo Madama da Miguel Gotor e da altri
senatori della corrente dem Area riformista. Prevedono di aumentare la
quota dei grandi elettori per regione, ma anche una diminuzione del
numero dei deputati. Potrebbero essere ritirati in commissione, così da
evitare la bocciatura, per essere ripresentati in aula. Nella riunione
della mattina tra Boschi, Zanda e Finocchiaro all’ordine del giorno c’è
anche il rischio di agguati in aula che vedano l’asse tra i dissidenti
democratici di Chiti e Casson con i “falchi” forzisti di Augusto
Minzolini e l’apporto dei 5Stelle. Conti alla mano il pericolo è stato
ridimensionato: «Resterà comunque la stragrande maggioranza dei senatori
a favore del Senato così come lo ha ridisegnato il governo, se ne
faranno una ragione ».
il Fatto 1.7.14
Renzi, parole parole parole
Conferenza stampa imbarazzata dopo un Cdm che non ha deciso nulla
Il problema è non scontentare B.
Commedia renziana: “tesoro, mi si è ristretto il bilancio”
Poletti
svela che manca un miliardo per la Cig, Morando non esclude la manovra
correttiva, il Pil va ancora male e l’inflazione peggio
di Marco Palombi
Il
problema di questo governo, così giovane e dinamico, è che la realtà è
vecchia e testardissima. Ha i suoi tempi, i suoi riti, una sua forza che
sta tutta nella costanza. E piano piano se ne va accorgendo anche la
banda Renzi. Dai proclami di svolta, le battute, il gioco d’attacco, ora
cominciano i “vedremo”, i “sarà difficile” fare questo o quello, i
rinvii senza data. Delle riforme istituzionali o d’altro genere vi
raccontiamo in altre pagine, qui si discute di economia e conti
pubblici. È in questo campo che l’esecutivo si gioca tutto, è in questo
campo che ha adottato il suo unico atto di rilievo: i famosi 80 euro.
Attorno al premier il clima va cambiando rispetto ai peana pre e post
elettorali. Lo si coglie da molti segnali. L’editoriale con cui Eugenio
Scalfari, su Repubblica di domenica, ha vaticinato una manovra
correttiva da 12 miliardi, per dire. O le defezioni sparse di membri
dello stesso governo rispetto all’ottimismo obbligato del premier. Ieri,
ad esempio, sui giornali si potevano leggere le interviste di Graziano
Delrio (che a ragione dubita, come potete leggere qui sotto, della
possibilità che l’Italia possa tagliare sensibilmente il suo debito
pubblico a breve), del viceministro dell’Economia Enrico Morando (che
dubita invece della possibilità di ottenere i risparmi attesi dalla
spending review e sulla manovra correttiva imposta dai parametri Ue
risponde, appunto, “vedremo”), del ministro del Lavoro Giuliano
Po-letti, il quale senza particolari patemi ha annunciato che per la
Cassa integrazione in deroga quest’anno “manca un miliardo di euro”,
perché i soldi per il 2014 sono stati spesi per coprire il 2013. In
pratica, ha tradotto la Cgil, 50mila lavoratori rischiano di rimanere
senza copertura: soprattutto quel pezzo di industria italiana che non
vive di esportazioni (medie imprese, visto che le piccole non ottengono
cassa in deroga), ma pure il commercio, la distribuzione, la logistica.
CONTI
CHE BALLANO ad un ritmo che non è scandito dal premier e al netto di
altre difficoltà ancora sottaciute. Bruxelles che pretende il rispetto
degli impegni presi sui conti pubblici (forse non sanno che in Italia
dicono che “l’austerità è finita”) o il fatto che oltre alla Cassa
integrazione ci sono parecchie altre spese non finanziate per il 2014
(le missioni militari all’estero da luglio in poi, il 5 per mille e
altro). Pian piano, insomma, la realtà torna al centro della scena:
“Tesoro - ci svelerà Renzi, a cui piacciono le citazioni pop - mi si è
ristretto il bilancio”. E fosse solo quello: all’esecutivo si sta
stringendo un po’ tutto. Prendiamo il caso dell’inflazione: ieri l’Istat
ha certificato che l’operazione sugli 80 euro non ha avuto alcun
impatto sui consumi. La dinamica dei prezzi a giugno, dice l’istituto di
statistica, si è infatti fermata allo 0,3% dallo 0,5 di maggio. “È un
campanello d’allarme che continua a squillare e non è chiaro se la
politica se ne è resa conto”, dice Sergio De Nardis, capoeconomista di
Nomisma: “L’azione della Bce può non essere sufficiente e per evitare
stagnazione e rischi di deflazione occorre un quadro di stimoli europei
più incisivo”. Anche sul fronte della crescita l’Istat - in una nota
mensile pubblicata ieri e passata quasi inosservata - ha provveduto a
mettere una pietra tombale sul roseo futuro dipinto dal brillante
inquilino di palazzo Chigi: nel secondo trimestre, vi si legge, “la
variazione congiunturale del Pil è prevista ricadere in un intervallo
compreso tra -0,1% e +0,3%”, le stime sono riviste al ribasso visto che
tra aprile e giugno “il recupero dei ritmi di attività economica
dovrebbe risultare più graduale di quanto atteso all’inizio dell’anno”.
Ma la ripresa arriverà nella seconda metà dell’anno, obietteranno gli
inguaribili ottimisti e i renziani.
No, dice Istat: “Il Pil è
previsto evolvere intorno a ritmi sostanzialmente analoghi anche nella
seconda metà dell’anno in corso”. Quindi, anche tenendo conto del dato
consolidato del primo trimestre (-0,1%), “la variazione del Prodotto
interno lordo nella media del 2014 risulterebbe debolmente positiva” .
Breve traduzione: seppure cresceremo, lo faremo al ritmo dello zero
virgola qualcosa e sicuramente non allo 0,8% previsto dal governo Renzi.
LA COSA non è senza conseguenze: significa non produrre posti di
lavoro, meno ricchezza per gli italiani, meno gettito per l’erario e
pure previsioni sui conti pubblici decisamente da rivedere. Tutto dice
manovra correttiva, solo che manovra correttiva significa nuove misure
recessive. La realtà ha durezze che né le battute, né le esperienze
felici e così formative dell’Erasmus riescono a smussare.
il Fatto 1.7.14
Interessi su interessi, lo scaricabarile del regalo alle banche
Anche la ministra Guidi disconosce la misura che reintroduce l’anatocismo. Il Pd: la cancelleremo
di Carlo Di Foggia
È
proprio orfano l'ultimo grande regalo alle banche. Anche il ministro
dello Sviluppo Federica Guidi fa melina sull'anatocismo. La
contestatissima norma che reintroduce gli interessi sugli interessi a
debito dei correntisti in rosso è di nuovo legge, ma non ha un padre. È
stata inserita nel decreto “competitività”, materia di competenza del
ministero della Guidi. Ma “la genesi” – assicura lei – non è sua:
“Quella parte del decreto è opera del Tesoro”, ha spiegato in
un'intervista a Repubblica. “Una polpetta avvelenata della burocrazia”
secondo il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco
Boccia (Pd), che promette di farla saltare in Parlamento. Chi l'ha
voluta? “So che sembra incredibile, ma non è chiaro - spiega una fonte
autorevole del ministero dell'Economia - Sono decreti mostruosi, dove
viene infilato di tutto”. Nessun accordo politico? “Di sicuro la norma
viene da Bankitalia e dipartimento del Tesoro, un favore clamoroso su
pressione delle banche”.
NEI CORRIDOI di via XX settembre si
parla di un interessamento del viceministro Enrico Morando (Pd), e c'è
anche chi ipotizza un maldestro tentativo di compensare la “stangata”
voluta da Matteo Renzi per coprire parte dal bonus Irpef: l'aumento
della tassazione sulle plusvalenze miliardarie incassate dagli istituti
di credito grazie alla rivalutazione delle quote di Bankitalia (regalo
targato Letta-Saccomanni): 1,8 miliardi (su 7,5 di benefici contabili).
L'anatocismo è finito nel testo dove il governo ha fatto confluire le
norme stralciate dal decreto sulla Pa per ordine del Quirinale, perché
“troppo eterogenee”. Un testo “omnibus” dov’è finito di tutto. Ai tempi
di Renzi, nessuno ha il pieno controllo politico della scrittura delle
norme, e così lobbisti e professionisti hanno maggiori possibilità di
far passare questo o quell'altro comma. Anche senza padri politici,
però, il pasticcio è fatto. Eppure è stata la battaglia più sentita
dalle associazioni dei consumatori, in particolare dall'Adusbef. Una
pratica che risale addirittura a un regio decreto del 1942, andata
avanti per decenni e appoggiata da tutti i governi, a cominciare dal
quello di Massimo D'Alema, che nel 1999 l'ha inserita nel Testo unico
bancario. La si credeva morta e sepolta sotto il peso delle pronunce a
raffica di tribunali, Cassazione e addirittura una storica sentenza
della Corte costituzionale arrivata nel 2000. Fino ad allora, se si
chiedeva un prestito, gli interessi sulla somma ottenuta venivano a loro
volta sommati ogni tre mesi per calcolare i nuovi interessi. In questo
modo i soldi da restituire aumentavano in modo esponenziale. Tutto
finito nel 2000? Non proprio. I tentativi sono continuati, soprattutto
per evitare alle banche di dover restituire i soldi. Già nel 2011 il
ministro del Tesoro Giulio Tremonti inserì nel consueto “milleproroghe”
di fine anno una norma che in pratica sanava tutto il pregresso,
bloccando i rimborsi richiesti dai clienti. Una “prescrizione breve” in
barba a una sentenza della Cassazione arrivata solo pochi giorni prima e
puntualmente bocciata dalla Consulta nel 2012. L'anno dopo, il divieto
di ricorrere a questa pratica è stato inserito nella legge di stabilità.
Un testo, in verità, che per stessa ammissione del Mef era poco chiaro,
e di fatto lasciava aperta la possibilità a un ripensamento. Come
infatti è avvenuto. Ora si riparte da capo, e poco importa che - come
recita l'articolo 31 del decreto “competitività” - il calcolo non
avverrà più ogni tre mesi, ma solo ogni anno. L'Adusbef (protestano
anche le altre associazioni consumatori) ha già annunciato ricorso
contro “l'ennesimo regalo alle banche”, che oggi incassano l'obbligo di
usare il pos per saldare i professionisti, voluto dal governo Monti, che
pagheranno fino a 1200 euro l'anno solo di commissioni.
MA LA
BEFFA peggiore è per i correntisti: oltre all'anatocismo (senza
interventi, scatterà da agosto), sempre da oggi sale dal 20 al 26 per
cento la tassa sugli interessi maturati sui conti correnti. Per chi
finisce in rosso, invece, si paga la “Commissione di istruttoria
veloce”: fino a 70 euro per un solo giorno di sforamento.
il Fatto 1.7.14
Già bocciata dalla Consulta, come funziona la norma
L'articolo
31 del decreto “competitività” (91/2014) affida al Comitato
interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr) “le modalità e i
criteri per la produzione, con periodicità non inferiore a un anno, di
interessi sugli interessi maturati”. È il ritorno dell'anatocismo, cioè
il pagamento degli interessi non solo sulla somma originaria del
prestito, ma anche sugli interessi addebitati nel corso del tempo. Una
pratica che in Italia risale a un regio decreto del 1942, utilizzata
soprattutto verso i correntisti che finiscono in rosso. In pratica, se
una persona sfora di 100 euro sul conto corrente e deve pagare 8 euro di
interessi, con l'anatocismo si calcolano i successivi interessi non più
sulla cifra iniziale di 100 euro, ma su quella di 108. Così il tasso
sale e insieme a lui anche i soldi da restituire. Con la nuova norma, il
calcolo non verrà fatto ogni tre mesi ma ogni anno e partirà fra due
mesi per i conti aperti a partire dal 25 giugno e sei mesi per quelli
antecedenti. La pratica era stata dichiarata incostituzionale dalla
Consulta nel 2000. La legislazione canonica è stata l'ultima a vietarla.
il Fatto 1.7.14
La giornalista Milena Gabanelli
“Il Pos non basta: lotta all’evasione con le detrazioni”
di Alessio Schiesari
Come
sempre in Italia facciamo le cose a metà”. Milena Gabanelli,
giornalista conduttrice di Report che della lotta all’evasione ha fatto
un cavallo di battaglia, accoglie con favore la norma che impone a tutti
di munirsi di Pos, ma non le sfugge la contraddizione di una norma che
stabilisce un obbligo, ma non la sanzione corrispondente.
Due anni fa lei ha lanciato una campagna per scoraggiare l’uso del contante. Questa misura va in questa direzione?
È
la migliore forma di contrasto all’economia sommersa. L’obbligo di Pos è
cruciale, ma per essere determinante nella lotta all’evasione occorre
anche “incoraggiare” il cliente a preferire i pagamenti tracciabili, per
esempio consentendo la detrazione di alcune spese.
La nuova legge prevede l’obbligo di munirsi di Pos, ma nessuna sanzione per chi non ottempera. Non è un controsenso?
È
nostra abitudine fare le cose a metà. Quando negli anni 70 è stato reso
obbligatorio il registratore di cassa, pena pesanti sanzioni, ci fu la
sollevazione degli esercenti, ma si andò dritti, e non è morto nessuno. È
comunque un buon segnale, certo che non basta. Bisogna fare di più per
l’emersione del sommerso, credo che il governo lo sappia. Vorrei sapere
qual è il piano per la lotta alla grande evasione e se intendono tirarla
ancora per le lunghe con l'introduzione del reato di autoriciclaggio..
Ricorda l’ultima volta in cui ha chiesto di pagare con
bancomat si è vista opporre un rifiuto?
Due
ore fa, dal ciclista che le biciclette le vende pure. Mi ha sostituito
il sellino, ma accetta solo contanti. Sabato scorso l’estetista. Ho
tirato fuori il bancomat per pagare cento euro e mi ha detto: “Qui
all’angolo c’è lo sportello di banca, vada a prelevare e poi torni
perché noi preferiamo non avere tutti quegli impicci”.
La media
di Pos installati in Italia è già più alta della media Ue, il problema è
che si usano poco: secondo Banca d’Italia i pagamenti elettronici pro
capite sono 74 l’anno contro i 194 di media dell’Eurozona. Inoltre, il
69% degli italiani non vuole cambiare le abitudini di pagamento. Non
crede che in Italia esercenti e consumatori tendano a sentirsi complici
nell’eludere il fisco?
Le abitudini si cambiano in fretta se c’è
una buona motivazione. Si dice che noi italiani, siccome siamo un popolo
di anziani, facciamo fatica ad avere dimestichezza con “le carte”.
Vorrei ricordare che quando Tremonti introdusse la social card di 40
euro, furono più di 1 milione gli over 65 disagiati a mettersi in fila
per avere la famosa carta. Il punto non è questo, ma la solita storia:
paghi in contanti e ti faccio lo sconto. Bisognerebbe far capire che
quel 10% che risparmi nell’immediato ti viene ripreso con un servizio in
meno o con un aumento del ticket sanitario, o dell’Iva.
La Cgia
di Mestre stima i costi per l’installazione di un bancomat tra i 1.183 e
i 1.240 euro l’anno. In molti vedono in questa manovra un ennesimo
regalo alle banche. Che ne pensa?
Le banche fanno il loro
mestiere, che in Italia è quello dell’usuraio. Ricordo che Monti voleva
ridurre con decreto le commissioni bancarie per l’utilizzo delle carte
di credito, ma poi non se ne fece nulla. Occorrerà ripensarci e magari
agire senza discuterne troppo. Il punto è questo: il 20% della nostra
economia è sommersa, e si nutre di contanti. Far emergere una buona
parte di questo sommerso significa poter avere le risorse per abbassare
le tasse, quindi alla fine ne beneficiano tutti: cittadini,
commercianti, professionisti e il mercato perché si ripristina una
concorrenza leale.
il Fatto 1.7.14
Giustizia, una paginetta spot per poi discutere con Silvio
Il Governo presenta le “linee guida”. Due mesi di chiacchiere in arrivo
di Wanda Marra
Una
grande consultazione popolare online. Un metodo, uno stile”. La riforma
della giustizia non c’è, si riduce a 12 “linee guida”, una paginetta
stringata, che viene rimandata sullo schermo di Palazzo Chigi, ma Matteo
Renzi, giacchetta blu elettrico e camicia bianca senza cravatta, si
carica da solo via via che la annuncia e la racconta. Stavolta, il
premier buca pure i tg delle 20, e arriva in conferenza stampa poco dopo
le 20 e 30. Espressione compunta sui migranti: (“La giornata di oggi è
stata segnata dal nostro dolore”), poi parte la più classica “super
cazzola” sulla nomina di Joseph Weiler, presidente onorario
dell’università di Fiesole, a cui il governo decide di concedere la
cittadinanza italiana. Degli alti meriti previsti, evidentemente, il
primo è lavorare alle porte di Firenze. Armi di distrazioni di massa.
TUTTI
si aspettano di capire com’è finito il dibattito sulla giustizia, il
premier divaga. Accanto a lui il Guardasigilli, Andrea Orlando, ha una
faccia bianca come un lenzuolo. Dall’altra parte, Angelino Alfano,
sorride solo se interpellato. Ma lui, Matteo, non si scompone. La
giustizia, dunque? Da oggi al 31 agosto si apre “una grande
discussione”: “filosofica, concettuale, astratta, concreta”. Chi più ne
ha più ne metta. La mail c’è già, è quella della riforma della Pa:
rivoluzione@go verno.it . Intanto il premier accumula parole. Descrive
un Csm in cui si distingue tra “chi giudica e chi nomina”, favoleggia
di una giustizia civile che “dimezza l’arretrato”, assicura che sulle
intercettazioni una proposta non c’è. Tutto questo perché possa partire
la “più grande operazione partecipata della storia” . Più i minuti
passano, più Orlando, silente, riprende vigore: meno ci mette la faccia
meglio è. D’altra parte, lui ci aveva creduto che ieri la riforma
sarebbe partita. E anche se è un bravo incassatore, a un certo punto
sbotta. “Sarà la rivoluzione dell’Orlando pacifico, non dell’Orlando
furioso. L’Orlando doroteo”, scherza Renzi. Che lo tira in ballo
continuamente, a proposito delle correnti del Pd e immaginandolo
intercettato. “Fai un altro esempio”, dice lui a mezza bocca. Il
Guarsasigilli in un Cdm iniziato con due ore e mezza di ritardo, causa
riunioni precedenti su immigrazione e nomina del sostituto di Tajani non
proprio indolori, le linee guida le ha illustrate. Ritagliandosi di
fronte a un Renzi più estremista il ruolo di pontiere con i magistrati.
Resistenze le loro che frenano. Ma ormai di riforma vera e propria se ne
parla forse prima di Natale. Il premier fa il pifferaio magico, i
giochi sono ben altri. “Non ci sono le condizioni ora per fare un
pacchetto completo”, spiega un renziano ben informato. Perché, “anche
Berlusconi vuole avere voce in capitolo. E non tanto sui singoli temi,
quanto sulla scrittura delle regole”. Falso in bilancio, ma non solo,
insomma. Senato e giustizia vanno alla “stessa velocità”: “Berlusconi
non fa passare le riforme costituzionali se non ha qualche garanzia
sulla giustizia. E Matteo non affronta la questione, se non incassa il
Senato”. Per capire l’intreccio, basta scorrere all’indietro il film
della giornata.
“OGGI cominciamo. Ecco qua, abbiamo il faldone”.
Roberto Calderoli, abbronzatissimo, versione padre costituente, si
aggira per Palazzo Madama con fasci e fasci di carta sotto al braccio.
“Sì, iniziamo a votare in Commissione. Quando finiamo? Avevo
preventivato il 9 luglio, ma sono stato ottimista”. Alle 16 la
Commissione Affari Costituzionali è circondata dai fotografi. Grande
attesa per il primo voto della “grande riforma” dell’era Renzi. Peccato
che non si capisca neanche se si farà. Arrivano i protagonisti. Anna
Finocchiaro, tutta in nero, commenta solo: “C’è il pubblico delle grandi
occasioni”. Sguardo dall’alto, del tipo non mi chiedete niente. Quasi
ultima, tacco a spillo rosso, camicia rossa, sorriso da stella del
cinema in passerella arriva il ministro delle Riforme, Maria Elena
Boschi. È lei la madrina, e non si lascia abbattere. Perché è subito
chiaro che la commissione non andrà lontano. Mario Mauro, che en tra in
veste di osservatore/disturbatore dà voce a quello che pensano tutti:
per arrivare ai voti importanti si aspetta dopo giovedì, l’assemblea dei
gruppi di FI. Sono tre i punti “sensibili”: l’immunità, la questione
della rappresentanza delle minoranze in Senato. E soprattutto, i grandi
elettori per l’elezione del Colle. Per come sono le cose ora, il Senato
sarebbe assolutamente marginale. E allora, è apparso un emendamento a
firma Lo Moro, Russo, Gotor e Miglia-vacca (tutti del Pd nella prima
Commissione) che chiede la riduzione dei deputati da 630 a
500.
Per ora non si discute: i voti veri inizieranno lunedì. E se la riforma
passa in Aula prima dell’estate è grasso che cola. Si parla già di
settembre. La riunione del gruppo Dem al Senato con Renzi prevista oggi è
rimandata a dopo la prossima trattativa con B., che il premier dovrebbe
incontrare in questi giorni.
A ORA di pranzo, intanto, il
presidente del Consiglio vede Orlando. L’unica cosa che appare chiara a
faccia a faccia finito è il rinvio. E a sera arrivano le conferme dei
presagi della mattina. “Votati emendamenti a articolo
59. La
Commissione si aggiorna a domani. Per ora “dribblati” i problemi
irrisolti”, commenta in un tweet Francesco Russo. Renzi porge al paese
il bicchiere mezzo pieno: “Ottima giornata, alla faccia dei gufi”.
il Fatto 1.7.14
Renzi: 12 punti e una email
La supercazzola, la nuova rivoluzione permanente
di Marco Palombi
La
rivoluzione non è un pranzo di gala, si sa. D’altronde difficilmente è
pure la rimasticatura di parole stantie - per quanto accompagnate da una
schermata - o un indirizzo di posta elettronica. Questo dappertutto
tranne che nel Palazzo d’Inverno renziano, preso d’altronde come si sa.
La rivoluzione, stavolta, s’è fatta sulla giustizia col valido
contributo dei combattenti Orlando Andrea e Alfano Angelino, fino a ieri
imbarcati sulla Potemkin. Ma niente paura, è una rivoluzione
permanente. O quasi: dura due mesi. Chiunque volesse partecipare
(“cittadini e operatori”) può inviare i suoi suggerimenti a “ rivo
luzione@governo.it ”, indirizzo già protagonista delle mitiche cinque
giornate sulla Pubblica amministrazione guidate dall’indomita compagna
Marianna Madia, già staffetta veltroniana. Tornando, com’è giusto, alla
giustizia, quella giusta, il programma renziano è di quelli da
sbalordire il cinico più incallito. E il premier - giustamente - ne
parla con toni lirici.
CHE COSA FARÀ il governo? Ma “una
consultazione” e poi, indefettibilmente, la rivoluzione. Quando? “Il 1
settembre”. Renzi usa parole che non s’erano mai sentite a palazzo
Chigi: “Dimezzare l’arretrato della giustizia civile”, per dire. Poi
annuncia: “A mezzanotte parte (non si sa se per la quinta o la sesta
volta, ndr) il processo telematico”, che sarà - ça va sans dire - “una
rivoluzione”. Pure Orlando, che di suo non sarebbe incline a
sorprendere, ci tiene a stupire: “La giustizia torni ad essere uno
strumento al servizio dei cittadini”. E che dire delle linea guida della
riforma in 12 punti? Forse quell’espressione che il liberale Giovanni
Malagodi dedicò alla sua chiacchierata con Aldo Moro sul programma del
centrosinistra: “Cenni sull’universo”. Giustizia civile? “Riduzione dei
tempi”. Ma quanto? Pronti: “Un anno per concludere il primo grado”. Poi
c’è l’automobilistica “corsia preferenziale per imprese e famiglie” e
pure un po’ di politica giudiziaria : “Nel Csm chi giudica non nomina,
chi nomina non giudica” (Renzi ci deve vedere oceaniche profondità di
senso visto che l’ha ripetuto più volte). Finito? Macché. Il successivo
“Csm: più carriera per merito” ha fatto tremare i polsi a più d’uno tra i
presenti. Per non parlare della “responsabilità civile dei magistrati
su modello europeo” o della “riforma del disciplinare delle magistrati
speciali”. Poi si entra nel dettaglio, forse eccessivamente tecnico:
“Norme contro la criminalità economica (falso bilancio,
autoriciclaggio)”; “Accelerazione del processo penale e riforma della
prescrizione”; “Intercettazioni (diritto all’informazione e tutela
privacy)”; “Informatizzazione integrale del sistema giudiziario”. E la
chicca finale: “Riqualificazione del personale amministrativo”. È o non è
una rivoluzione?
il Fatto 1.7.14
Scuola e annunci È il primo luglio e non succede niente
Non c’è traccia dei “3,5miliardi” per ristrutturare gli edifici. Le regioni: “i soldi non sono arrivati”
di Valeria Pacelli
Dovevano
essere erogati 3 miliardi e mezzo, ma per adesso i soldi che il governo
ha approvato da destinare alle scuole sono solo 784 milioni di euro.
C’era anche una data: primo luglio, giorno in cui operai e addetti ai
lavori avrebbero dovuto iniziare il piano di ristrutturazione e messa a
nuovo degli edifici scolastici. Ma non in tutte le regioni questo
processo è stato avviato. Il Fatto si è occupato più volte dei fondi
destinati alla scuola, anche il primo giugno scorso dopo che un rapporto
del Censis (il Centro Studi Investimenti Sociali) aveva pubblicato
preoccupanti dati sullo stato delle scuole in Italia: tanto amianto,
edifici fatiscenti e intonaci che cadevano. Allora fu ribadito che il
governo sarebbe intervenuto con i 3 miliardi e mezzo. E così quel primo
giugno, il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi aveva anche
assicurato che “gli interventi inizieranno da luglio” spiegando
puntualmente dove sarebbero stati presi i soldi. Mancava solo un mese e
nello scetticismo generale ci si chiedeva come e quando sarebbero state
approvate le delibere. A trenta giorni di distanza i soldi approvati
sono 784 milioni di euro: “244 milioni – spiega Reggi sentito di nuovo
da Il Fatto – nel biennio 2014-2015 sbloccati con un decreto del
presidente del Consiglio del 15 giugno scorso che permette ai Comuni di
sganciarsi dal patto di stabilità; altri 400 milioni sono stati
riprogrammati nelle graduatorie del decreto del fare con una delibera
Cipe approvata oggi pomeriggio (ieri per chi legge). Entro il 1 ottobre
dovranno essere aggiudicati con procedure rapide. E nella stessa
delibera Cipe aggiungiamo altri 140 milioni per il recupero di sette
mila edifici scolastici”. Mancano un po’ di soldi rispetto ai 3 miliardi
e mezzo annunciati.
il Fatto 1.7.14
Il comunicatore
Matteo, pure l’Erasmus è abusivo
di Luca De Carolis
Leggi
la parola Erasmus. E pensi subito a ostelli stipati di ragazzi, a libri
su tavolini di fortuna, alle telefonate per assicurare ai genitori che
sei ancora vivo. Leggi meglio, e scopri che a citarla come una carta
d’identità è l’ex ragazzo Matteo Renzi, quello del cambia verso. Che
però l’Erasmus non l’ha mai fatto. Nel suo perenne seminare slogan che
sanno di rottamazione, novità e gioventù al potere, il premier l’ha
(ri)detta grossa. O perlomeno ha esagerato. “Noi che siamo la
generazione Erasmus, siamo chiamati a realizzare il sogno degli Stati
d’Uniti d’Europa” declama nel messaggio che celebra il semestre della Ue
a guida italiana. Peccato però che il premier non abbia mai usufruito
del programma che, dal 1987, consente a ogni studente europeo di
trascorrere in un’università dell’Unione un periodo di studio legalmente
riconosciuto (da tre a 12 mesi). La sua laurea in Giurisprudenza se l’è
costruita tutta in casa, a Firenze. Così racconta il curriculum, così
sembrano ribadire le verifiche. E così ha scritto anche La Stampa, nel
febbraio scorso. Ossia quando il Renzi neo-premier, nel discorso per la
fiducia in Senato, assicurò: “Il mio governo rappresenta la generazione
Erasmus”.
ALTRA FRASE incauta, perché gli scambi-studio sono
materia ignota non solo per lui, ma pure per i suoi ministri.
Nell’esecutivo renziano, l’Erasmus l’ha sperimentato solo Federica
Mogherini, ministra agli Affari esteri, laureata in Scienze politiche.
Nella sua trasferta studio ad Aix-en-Provence, in Francia, preparò la
tesi sul rapporto tra religione e politica nell’Islam. Ci sarebbe poi
Stefania Giannini (Istruzione), dal 2005 al 2009 rappresentante per
l’Italia nel comitato dell’Erasmus Mundus presso la Commissione europea.
Per il resto, zero. Niente trasferta europea neppure per Marianna
Madia, ministra per la Pubblica amministrazione, laureata in Scienze
politiche. E dire che nel 2008, in era veltroniana, la capolista Pd nel
Lazio Madia si presentava come “esponente della generazione Erasmus”.
Quattro anni dopo, il 13 settembre 2012, a Verona Renzi lanciava la sua
campagna per le primarie citando “la generazione Erasmus”. A occhio ha
copiato la sua ministra, riciclando a sua volta una definizione nata sul
web. A ogni passaggio cruciale, Renzi si rigioca quella parola,
Erasmus. Totem contro il vecchiume. Uno dei tanti, per il premier che ad
Amici sfoggia il giubbotto di pelle alla Fonzie (da qui il neologismo
grillino Renzie) e che ha reso l’iPhone un arto supplementare. Perché il
Renzi pubblico deve essere moderno e giovane, sempre. Anche se
l’Erasmus può solo rimpiangerlo.
l’Unità 1.7.14
I soldi per assumere nella Pa? 45 milioni tolti ai precari
I fondi per finanziare la mobilità obbligatoria presi dagli stanziamenti per la stabilizzazione
I
fondi per finanziare la mobilità dei dipendenti pubblici - obbligatoria
entro 50 chilometri - pezzo forte della riforma del governo?
Arriveranno riducendo quelli già stanziati per stabilizzare i precari
della Pubblica amministrazione e quello per nuove assunzioni per gli
enti che hanno il permesso di farlo.
È tutto messo nero su bianco
nell’articolo 4 del decreto legge. Si tratta di 15 milioni nel 2014 che
diventeranno il doppio - 30milioni - dal 2015. Nel dettaglio si
alimenta per 6 milioni nel 2014 e 9 nel 2015 attraverso la
corrispondente riduzione degli stanziamenti della finanziaria del 2008 -
governo Prodi - , denominato proprio “Fondo per stabilizzazione precari
della Pubblica amministrazione”. Alcomma 14 invece il fondo si alimenta
per 9 milioni a decorrere dal 2014 con la corrispondente riduzione
degli stanziamenti decisi nel 2006 del “Fondo per il personale del
ministero dell’Economia e delle Finanze per incentivi alla mobilità e
programma di assunzioni”. Infine, il fondo si alimenta per 12 milioni di
euro a decorrere dal 2015 mediante corrispondente riduzione degli
stanziamenti decisi nel 2006, il cosiddetto “Fondo per le assunzioni”.
Una vera beffa e un vero controsenso. Che si va ad aggiungere a quello
emerso nei giorni scorsi. Nella relazione tecnica allegata al decreto,
la tanto decantata norma che abroga lo strumento del trattenimento in
servizio - personale che potrebbe già essere in pensione - e che
porterebbe dunque alle assunzioni - secondo il governo - di 15mila
persone, viene fortemente ridotta.
A pagina 32 lo stesso governo
infatti mette nero su bianco che «risultano in corso di trattenimento in
servizio circa 1.200 soggetti di cui circa 660 relativi al comparto
magistratura». E visto che per la magistratura la norma è stata
congelata, le posizioni da sostituire sarebbero solo 540.
Molto
critica su tutta la riforma e sulle ultime «scoperte» è la Fp Cgil.
«Quando eravamo noi a sostenere che l’abrogazione del trattenimento in
servizio avrebbe portato poche centinaia di assunzioni, il governo ci ha
fatto passare per disfattisti. E ora si scopre che lo stesso governo ci
dà ragione», attacca il segretario Rossana Dettori. «Per non parlare
della beffa perpetrata ai danni dei precari: si prendono soldi dai fondi
decisi da Prodi e Patroni Griffi, legati a programmi di stabilizzazione
del personale, il tutto per imporre una mobilità forzosa ai dipenditi
pubblici», continua. Se le cifre dei tagli sono ufficiali, molti
interrogativi rimangono. «Sulla mobilità non sappiamo nè il numero di
dipendenti coinvolti né i criteri con cui verrà decisa. Il quadro che
esce da questi provvedimenti è insopportabile: non è una riforma per i
cittadini, ma una riforma del lavoro pubblico contro i dipendenti -
tuona Dettori -. Al di là degli spot, speriamo che ci sia qualcosa nel
disegno di legge che ancora non è noto».
I sindacati intanto si
preparano alla mobilitazione. La prima sarà il 7 luglio sotto tutte le
Prefetture. «Iniziamo da lì perché la riforma entra in conflitto con
decreto il Delrio che fissava una cabina di regia affidata alle Regioni
per decidere come riallocare il personale delle Prefetture e Province,
legandolo alle funzioni che prima i lavoratori seguivano. Con il decreto
legge tutto questo è spazzato via. C’è il rischio che anche per questo
personale ci sia una mobilità forzosa», chiude Dettori.
il Fatto 1.7.14
Madia, la riforma misteriosa
risponde Furio Colombo
CARO COLOMBO, perché è riuscito così male il decreto che avrebbe dovuto riformare la Pubblica amministrazione, cioè lo Stato?
Antonio
È
BENE CHIARIRE un equivoco: c’è un decreto “omnibus” di quelli cari alle
vecchie Repubbliche, in cui si può mettere un po’ di tutto (cioè tante
piccole cose, mal calcolate e casualmente assemblate) perché un decreto
omnibus non può avere un disegno e non risponde a un progetto. Ma non
c’è alcuna “riforma della Pubblica amministrazione” ovvero dello Stato.
Il ministro incaricato è vittima di uno strano scherzo che, dati i
rapporti leali e amichevoli con il suo Capo, non so spiegare. Sarebbe
stato come chiederle di disegnare un sommergibile nucleare di nuova
generazione. Non è questione di cultura o di intelligenza (benché forse
la Madia avrebbe dovuto assumersi verso il Paese la responsabilità di
sottrarsi apertamente a un compito impossibile e ingiustamente
attribuito a lei invece che al vertice della competenza amministrativa e
giuridica italiana). Il problema della riforma dello Stato ha una
portata vasta che comporta una visione culturale, una concezione
politica, un rapporto dichiarato con parti diverse della Costituzione,
una capacità tecnica di valutare il reticolato cause-effetti sia dentro
la struttura organizzativa sia nel rapporto fra la struttura e lo Stato.
E sarebbe stato necessario almeno un passaggio nella gestione di un
vasto corpo aziendale. Per esempio tagliare all’improvviso di due anni
il pensionamento dei gradi alti della magistratura (misteriosamente
inserita nella “riforma”, visto che i giudici non sono “pubblica
amministrazione” ma potere dello Stato democratico) deforma un corpo
prima di averne costruito un altro. L’idea di attuare in tal modo un
cambio generazionale, mentre si incitano i privati a mandare in pensione
tutti i dipendenti due anni più tardi, è ovviamente fondata sul vuoto.
Infatti non sono previsti concorsi. Si torna e si ritorna a citare due
trovate allo stesso tempo irrilevanti (sia dentro l’azienda Stato sia
nel rapporto con i cittadini) e punitive: lo spostamento obbligatorio,
senza preavviso e senza motivazione, dei dipendenti fino a 50
chilometri, dal luogo del loro attuale lavoro (ottimo strumento di
punizione dei capi carogna verso sottoposti di cui liberarsi), oppure il
taglio del 50 per cento (il numero piace) dei permessi sindacali,
questione che, per quanto si ricorda, non ha mai agitato il Paese.
Dimentico qualcosa? Molto, ma tutti nano-provvedimenti in un
nano-paesaggio in cui si colpiscono, qua e là, le persone (vediamo se si
può togliere qualche diritto a qualcuno), più che altro il ritocco
parziale di un vecchio regolamento. Non si ridisegna alcun ente, non si
immagina alcun rapporto alternativo fra cittadini e Stato, non si
abolisce o si accorpa o si inventa alcuna agenzia che potrebbe
sciogliere nodi o cambiare le cose. Non si immagina né un altro Stato né
un altro cittadino. Lo Stato resta ottuso, senza volto, senza nome,
lontano, arbitrario. Allo stesso tempo è abitato da persone che in
qualunque momento (per ragioni che non riguardano noi cittadini) possono
essere “messe in mobilità” in modo che nessuno si senta sicuro. Tutto
quello che sappiamo della “riforma” è che un impiegato non può fidarsi a
mettere una piantina sul davanzale vicino al posto che occupa. Tra poco
potrebbero spostarlo altrove senza motivo. Ecco, i nuovi riformatori
hanno riformato lo Stato.
l’Unità 1.7.14
Evasione fiscale e costi la guerra dei «Pos»
di Ruggero Paladini
Chi si occupa di evasione sa bene che tra i metodi usati a livello internazionale c’è l’uso (eccessivo) del contante.
Vi
è una relazione diretta tra il livello dell’evasione, in un dato Paese,
e la quantità di moneta cartacea usata; l’Italia è un caso tipico. Tra i
vari metodi che possono essere usati per combattere il fenomeno
dell’evasione, vi è sicuramente quello di limitare l’uso del contante, e
quindi di avvicinare il nostro Paese a quello che è consuetudine
normale negli altri Paesi europei.
Il dispositivo elettronico
«Point of sale» da ieri dovrebbe essere a disposizione dei clienti di
qualunque artigiano o professionista per acquisti di beni e servizi
superiori a 30 euro. Proteste, anche di segno opposto, sono fioccate
numerose sui media. La Confesercenti stima una spesa di 5 miliardi
(costi di esercizio e commissioni). La Cgia di Mestre ha stimato un
costo annuo di 1200 euro. Dividendo le due cifre se ne ricava il numero
di 4.167.000 operatori economici, attualmente sprovvisti, che dovrebbero
munirsi di Pos, cui si devono aggiungere oltre un milione e mezzo di
dispositivi già in dotazione degli operatori. Ora è vero che il nostro è
il Paese delle micro-imprese, ma se sommiamo le due cifre arriviamo a
sei milioni di Pos, cifra che sembra francamente esagerata, se è vero
che la densità di Pos installati per impresa in Italia sia leggermente
inferiore alla media europea (398 ogni mille contro 469).
Il
costo, che tra l’altro è fiscalmente deducibile, non sembra
particolarmente pesante, essendo mediamente inferiore all’1%. Nasce il
sospetto che, almeno in molti casi, la vera ragione sia quella di
resistere ad uno strumento che, più ancora degli assegni bancari, lasci
una traccia indelebile nei conti dell’operatore. Di fronte a un cliente
che vuole pagare tramite Pos, l’operatore dovrebbe fare uno sconto: «Se
me li dà in contanti, le tolgo il 10%». I minori incassi in questo caso
supererebbero nettamente il costo del Pos. Non sarebbe, insomma, proprio
vero che la grande maggioranza degli italiani non ha intenzione di
cambiare le proprie abitudini di pagamento, come dice Confesercenti; la
possibilità di pagare tramite Pos serve a ridurre il contante che si
tiene in tasca nonché, eventualmente, a ottenere qualche sconto.
Accanto
alle proteste delle organizzazioni degli operatori economici, si
registrano le opposte proteste delle associazioni dei consumatori, che
puntano il dito sul fatto che non siano previste sanzioni per coloro che
non si muniscono del dispositivo elettronico. Un’altra protesta
consiste nel dire che il provvedimento non servirebbe a combattere
l’evasione fiscale, ma soltanto a favorire gli interessi di banche e
società esercenti le carte di credito. Ma se in mancanza di sanzioni la
misura finisce col divenire una grida manzoniana, non si vede quale
affare particolare possano fare le banche.
È sempre possibile
introdurre sia incentivi (in termini di crediti d’imposta) che
disincentivi, in termini di sanzioni. Una particolare forma di incentivo
potrebbe essere quella di introdurre una lotteria a premi per tutti
coloro che usano i Pos. Lo scontrino che il dispositivo elettronico
rilascia conterebbe un numero, e periodicamente alcuni di questi
sarebbero estratti, con premi di vario tipo. Esperienze di questo genere
sono state fatte da tempo, a cominciare da Taiwan, per incentivare
l’emissione degli scontrini, con risultati interessanti.
Può
essere quindi che l’approccio governativo sia stato «burocratico e
statalista», come afferma, evidentemente in modo autocritico, il
sottosegretario Enrico Zanetti. È vero che a volte anche banche, poste e
uffici della pubblica amministrazione fanno difficoltà ad accettare le
transazioni elettroniche. Un Paese, tuttavia, che cerca di assomigliare
di più agli altri Paesi europei deve promuovere l’uso della moneta
elettronica; pur non essendo l’unico modo per combattere l’evasione, i
Pos possono rappresentare un valido aiuto in questa direzione. I
dispositivi elettronici fanno parte di quegli strumenti che spingono i
contribuenti a una maggiore compliance, cioè all’adeguamento spontaneo
al debito fiscale. Ovviamente allo stesso tempo devono essere messi a
regime i controlli sui flussi finanziari.
Repubblica 1.7.14
Casson, senatore Pd e ex pm
“Bisogna trovare l’equilibrio tra privacy e diritto di cronaca”
intervista di A. Cus.
ROMA.
«È positivo che non venga toccata la normativa attuale sul presupposto
di fare le intercettazioni, che rimangono strumento indispensabile per
le indagini». Felice Casson, senatore Pd ed ex giudice istruttore,
ritiene che «bisogna stare attenti alle norme che si vogliono fare sulla
pubblicazione».
Qual è la sua preoccupazione?
«Non è facile
trovare il punto di equilibrio tra la privacy delle persone, il diritto
di cronaca dei giornalisti, e quello dei cittadini di sapere. Perché
una democrazia si basa anche sull’informazione ».
In passato le
critiche alla pubblicazione sono arrivate sovente dai politici, quando
sono state pubblicate intercettazioni che riguardavano indagini sul loro
conto. Ritiene che voi dobbiate godere di qualche particolare
riguardo, al proposito?
«Al contrario. Penso che chi decide di far
politica rinunci quasi per definizione a una fetta della propria
privacy. Nel senso che deve essere più trasparente rispetto al cittadino
normale su tutti gli aspetti».
Anche quelli che riguardano la privacy?
«Assolutamente
sì. La corte di Strasburgo ha condannato la Francia, la Grecia e la
Finlandia per aver condannato dei giornalisti che avevano svelato
particolari riservati dei vertici politici nei loro Paesi. Ebbene, io ho
firmato un emendamento che prevede la scriminante per quei giornalisti
che pubblicano notizie sui vertici istituzionali».
Una sorta di impunibilità?
«Si
tratta di una scriminante che consente di violare la norma sulla
riservatezza del codice penale quando si tratta di notizie di alto
rilievo istituzionale ».
Ma questo emendamento a che punto è?
«Attualmente
è tutto fermo. ma se il governo proporrà norme in questo senso,
chiederò che sia tutelata la privacy, ma con i limiti previsti dalla
corte di Strasburgo che attribuisce al giornalismo il ruolo di “cane da
guardia” della democrazia».
Chi deve stabilire il limite, è d’accordo con Renzi che siano coinvolti i direttori delle testate?
«Che
possano essere sentiti i direttori è positivo. Ma si tratta di una
decisione tecnica che deve contemperare delle norme. Bisogna decidere
all’interno del processo penale quando viene meno l’obbligo di
segretezza e quindi il diritto alla pubblicazione ».
Qual è il diritto che deve prevalere in questa decisione?
«Nel
codice attuale c’è confusione. Il punto di equilibrio è difficile da
trovare perché sono in conflitto quattro diritti, tutti
costituzionalmente garantiti. Il diritto degli investigatori a fare
indagini, quello alla riservatezza della persona, quello della difesa. E
la libertà di stampa».
La Stampa 1.7.14
Non ne Pos più
di Massimo Gramellini
qui
La Stampa 1.7.14
Senza sanzione la regola nasce azzoppata
di Paolo Baroni
qui
il Fatto 1.7.14
Cari amici di Sel, fareste meglio ad ascoltare di più i vostri elettori
di Luisella Costamagna
Viste le molte reazioni alla mia lettera ai “compagni” di Sinistra Ecologia e Libertà, mi trovo costretta a replicare.
Il
portavoce della presidente Boldrini, Roberto Natale, se la prende con
la mia frase “tempestiva, si stacca ora dalla barca Sel ma resta ben
attaccata a quella di Montecitorio”. Caro Natale, da una barca si può
scendere con un tuffo plateale, oppure piano piano dalla scaletta. Laura
Boldrini, che non sarebbe mai diventata presidente della Camera se non
fosse stata eletta con Sel (sia pure da indipendente, come ha tenuto a
precisare proprio in questi giorni), pare aver scelto la seconda strada.
Da giornalista, forse, anche lei avrebbe avuto quest’impressione.
All’on. Francesco Ferrara della Presidenza nazionale di Sel, dico invece
che ho sempre cercato di fare il mio mestiere con correttezza e
obiettività, analizzando gli eventi per quello che sono e senza farmi
condizionare da sentimenti personali (come la presunta “acrimonia” che
mi attribuisce). Lo spettacolo che offre in questo momento il suo
partito è – lo confermo – incomprensibile e sconfortante anche e
soprattutto per i tanti militanti che, proprio perché rispetto, non
dovrebbero essere sottoposti a questo (ennesimo) travaglio.
Temo
che “l’ingenerosità politica e persino umana verso singole persone e
un’intera comunità che vive con dolore e passione un passaggio politico
così duro”, sia da imputarsi, più che a me, a voi stessi dirigenti, che
vi spaccate su Renzi. Per rendersene conto, basta parlare davvero con le
persone, quelle stesse – elettori ed ex elettori di Sel – che in queste
ore mi stanno esprimendo tutto il loro disagio.
Infine Vittorio
Mucci, addetto stampa di Fausto Bertinotti, tiene a sottolineare che
l’ex presidente della Camera non ha più né scorta né auto blu. Bene!
Peccato che vi abbia rinunciato solo lo scorso ottobre (così almeno mi
ha detto lo stesso Mucci al telefono), peraltro dopo molte polemiche e a
ben 5 anni e mezzo di distanza dalla fine del suo impegno diretto in
politica. Diritti acquisiti a parte, ci si sarebbe aspettati una
rinuncia immediata da chi è sempre stato dalla parte dei più deboli, a
maggior ragione in una fase drammatica di crisi economica in cui sono
stati chiesti sacrifici alle famiglie, ai pensionati, ai lavoratori
mentre la politica ha mantenuto i propri privilegi. Anche i gesti
simbolici sono importanti. Perché farsi dare lezioni di moralità da un
Casini qualunque, che rinunciò ai suoi benefit già nel 2012? E se
davvero adesso Bertinotti si è adeguato (meglio tardi che mai), perché
il Quotidiano dellUmbria.it scrive ancora, in data 30 marzo 2014,
“Bertinotti e D’Alema sono stati visti scorrazzare per le strade umbre
con tanto di auto blu e scorta”? Un’allucinazione?
l’Unità 1.7.14
La fecondazione eterologa
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta
Sono
convinto che ogni essere umano abbia il diritto inalienabile di
conoscere chi sono i genitori naturali, non soltanto sotto un profilo
che direi ontologico, ma anche per possibili aspetti sanitari. Perché il
professor Flamigni, che leggo e stimo, non tocca nei suoi articoli su
«l’Unità» questi aspetti/conseguenze della procreazione eterologa? Una
presunta «etica laica» giustifica tutto?
GIORGIO CASTRIOTA
L’etica
laica non giustifica nulla. In modo laico, però, occorre porsi di
fronte ai problemi. Ragionando sul modo in cui le banche del seme di cui
ci si avvale nel caso della fecondazione eterologa sono tenute a dare
tutte le garanzie possibili per evitare malattie geneticamente
trasmissibili e ragionando poi sulla validità di affermazioni come
quelle fatte dal lettore «sulle conseguenze psicologiche e
comportamentali sui figli eterologhi e sui loro genitori medicalmente
assistiti». Di cui oggi non c'è evidenza scientifica, però. Anche se
molte sono le osservazioni fatte nei centri che di fecondazione
assistita, omologa o eterologa, si occupano sulle difficoltà comunque
vissute dalle coppie che la affrontano. Difficoltà che ben altra
attenzione meriterebbero spesso dal punto di vista psicologico ed
eventualmente psicoterapeutico per affrontare i problemi legati alle
stimolazioni ormonali, il dramma dei fallimenti e la delicatezza dei
meccanismi interpersonali messi in moto dalla necessità di chiedere
aiuto a degli specialisti. Giusto è infatti offrire alle coppie che si
confrontano con le difficoltà della procreazione, le occasioni proposte
dal progresso scientifico e giusto sarebbe però anche prendersi cura
della complessità delle emozioni vissute da chi da queste occasioni ha
la possibilità di essere aiutato. Nel caso, in particolare, della
fecondazione eterologa.
l’Unità 1.7.14
Mondiali razzisti
Vietato tifare Algeria in Francia
Nizza mette al bando l’esposizione «ostentata» di bandiere straniere per la durata di Brasile 2014
Marine Le Pen contro gli immigrati algerini: «Mettere fine alla doppia nazionalità»
I
francesi, specialmente di destra, non hanno gradito veder sventolare
sotto l’Arco di Trionfo il bandierone mezzo verde e mezzo bianco con la
mezzaluna rossa e la stella dell’Algeria. Dopo i caroselli di auto che
hanno intasato la tangenziale parigina la sera di giovedì scorso e le
altre manifestazioni di tifo sconfinate anche in vandalismi e scontri
con la polizia a Lille, Marsiglia, Lione e nella periferia della
capitale in occasione della qualificazione per gli ottavi di finale
della nazionale algerina, c’è stato un fuoco di fila. Ha iniziato a
testa bassa Marine Le Pen, in una intervista del giorno dopo a iTélé. La
presidente del Front National ha detto che la Francia deve abolire la
doppia nazionalità, ha sostenuto che o si è patrioti algerini o
francesi, «o una cosa o l’altra», aggiungendo come motivazione che «lo
Stato deve ritrovare la sua autorità ». Una confusione tra Stato, patria
e nazionale di calcio che è stata ripetuta con le stesse parole dal
sindaco di Nizza ieri. Christian Estrosi, che non è del Fronte ma
dell’Ump, con queste stesse motivazioni, e cioè che «bisogna mettere
fine a questi eccessi» perché «ne va dell’autorità dello Stato», è
arrivato a proibire «l’utilizzo ostentato di bandiere straniere» nel
centro cittadino. Niente più sbandieramenti molesti dalle ore 18 alle 4
del mattino, fino alla conclusione dei Mondiali, domenica 13 luglio. È
fin troppo chiaro che sia Le Pen sia il sindaco gollista ce l’hanno
essenzialmente con i tifosi dei «Fennecs», che proprio ieri se la
vedevano con i tedeschi a qualche ora di distanza dalla partita in cui i
«Bleus» affrontavano la Nigeria, con la prospettiva di vedere poi le
due squadre confrontarsi in un derby ipernazionale. Ma non è calcio, è
politica.
Marine Le Pen infatti ha anche detto che «bisogna
arginare l’immigrazione» e che «l’unico Paese con cui abbiamo questo
tipo di problemi è l’Algeria» perché «è gente che ha un’ostilità» anzi
«uno spirito di rivalsa», intendendo evidentemente il passato coloniale e
le atrocità commesse dall’esercito francese nella guerra d’Algeria.
Come ha notato il deputato radicale Yves Jego fino a questa intervista
la bionda Marine non si era mai spinta tanto oltre sul terreno
«dell’odio e del razzismo, ormai una consuetudine di famiglia per i Le
Pen». Jego ha parlato di un discorso «caricaturale» e «provocatorio» e
l’associazione Sos Racisme ha invitato la Francia democratica ad alzare
la vigilanza «a difesa degli ideali della Repubblica ». Ma l’asticella
sembra già andata in frantumi. A usare per primi la locuzione «utilizzo
ostentato di bandiere» sono stati due esponenti della destra dell’Ump,
Lionel Luca e Thierry Marani, quest’ultimo rappresentante dei francesi
all’estero nell’Assemblea Nazionale. E un sondaggio pubblicato ieri
anche dal quotidiano di sinistra Libération dice che i francesi, pur
mantenendo la libertée l’égualité, insieme alla famiglia, tra i valori
più cari, considerano il peggio del peggio l’Islam (l’84% del campione
lo ritiene l’aspetto più negativo) e l’immigrazione (69%). Anche se per i
beurs, gli immigrati algerini di seconda generazione, i «Fennecs» altro
non sono che la seconda squadra nazionale in Francia, per il quotidiano
reazionario Le Figaro - come ha scritto in un editoriale parlando dei
pieds noir, gli algerini naturalizzati francesi - «se i nonni volevano
l’Algeria francese oggi i nipoti vogliono la Francia algerizzata».
Vorrebbero dunque «la rivincita».
È questa paura che fa
proseliti, non certo le poche auto e i pochi cassonetti bruciati dai
tifosi dopo la vittoria con la Russia. Anche se il coro più gridato era
un pacifico «One, two, three Vive l’Algerie ». Anche se la stragrande
maggioranza degli algerini di Francia lavora, in particolare le donne, e
anche se nonostante la cattiva integrazione non ci sono più i roghi e
la guerriglia di strada nelle banlieues. Quanti sono poi? Secondo il
professor Mohamed Saib Musette, il più importante ricercatore sulla
migrazione algerina, attualmente 1 milione e 300mila è la popolazione
algerina emigrata all’estero in anni recenti. Si calcola che l’85% degli
immigrati algerini, irregolari compresi, risieda in Francia.
Considerando le persone con più di 15 anni, il 64 per cento è
naturalizzato francese. Ha perciò la doppia cittadinanza in base agli
accordi del 1962 sulla decolonizzazione. Pare difficile se non
insormontabile rivedere quei trattati.Eneanche conveniente, considerando
che l’Algeria, grazie al suo gas, sta crescendo quest’anno ad un ritmo
del 4,5 per cento.
l’Unità 1.7.14
Uccisi i tre ragazzi rapiti Netanyahu: Hamas pagherà
Sequestrati il 12 giugno, i corpi rinvenuti vicino al luogo della scomparsa
Rischio escalation. Gaza avverte: «Non aprite le porte dell’inferno»
Israele si blinda: «A est un nuovo muro anti-Islam»
Israele
è in lutto. Sotto shock. Un Paese intero piange la morte di tre suoi
ragazzi, rapiti e trucidati. L’incertezza si scioglie col calar della
sera, quando le autorità dello Stato ebraico confermano quanto
anticipato qualche ora prima da un tweet della televisione al Arabiya,
che parlava però del ritrovamento nel villaggio di al Haska: sono stati
ritrovati i corpi senza vita dei tre ragazzi israeliani rapiti. Sono
stati individuati vicino al villaggio di Halhul, a poca distanza da
Hebron. Il governo indice per la notte una riunione d’emergenza. Si
discute su alcuni sviluppi considerati «decisivi » nel sequestro dei
giovani, del quale, sottolineano fonti israeliane, sarebbe responsabile
l’organizzazione estremista palestinese di Hamas. Secondo la tv
Canale10, i corpi dei tre ragazzi erano sul terreno, non sepolti e
seminascosti da cespugli. Benyamin Proper, che era tra i volontari
civili che hanno trovato i corpi, ha riferito al Canale2 che un membro
della squadra di ricerca ha «visto qualcosa di sospetto sul terreno,
piante che sembravano fuori posto, le ha spostate e ha spostato alcuni
sassi e ha trovato i corpi». «Abbiamo capito che erano loro e abbiamo
chiamato l’esercito», ha aggiunto Proper.
PAESE SOTTO SHOCK
Eyal
Yifrah (19 anni), Gilad Shayer (16) e Naftali Yaakov Frenkel (16),
erano scomparsi il 12 giugno nei pressi dell’insediamento di Gush
Etzion, tra Betlemme e Hebron, nel sud della Cisgiordania, mentre
facevano l’autostop. I loro corpi sono stati ritrovati a pochi minuti di
cammino dal luogo in cui erano stato visti per l’ultimavolta. Poco
prima che si diffondesse la notizia era stato notato lo spostamento di
una grande quantità di forze israeliane proprio nel villaggio di Halhul
in Cisgiordania, a nord di Hebron. La tv Canale 10 aveva inoltre
riferito di scontri con i palestinesi nell’area. L’esercito israeliano
sospetta che fra i rapitori vi siano Marwan Kawasmeh e Amar Abu-Isa, 29 e
32 anni, entrambi membri dell’ala militare di Hamas proprio a Hebron.
«Ad uccidere i tre ragazzi sono stati degli esseri bestiali, Hamas è
responsabile di questo crimine e Hamas pagherà», dice il premier
Benjamin Netanyahu, prima della riunione straordinaria del gabinetto di
governo.
«LI SRADICHEREMO»
Israele torna in trincea.
Ferito, sconvolto, e si stringe attorno alle famiglie dei tre ragazzi.
Secondo i media israeliani, indagini iniziali da parte dell’esercito
mostrano che Eyal, Gilad e Naftali sono stati uccisi subito dopo il
rapimento. Le famiglie sono state avvertite ed hanno riconosciuto i loro
abiti. I canali televisivi israeliani interrompono le normali
programmazioni. In ogni casa, entrano i volti sorridenti dei tre
ragazzi. I loro compagni, distrutti dal dolore, si riuniscono in
preghiera nella scuola religiosa di Mekor Haim, quella frequentata da
Eyal, Gilad e Naftali fino a quel maledetto 12 giugno. «L’intera nazione
israeliana china il capo con dolore intollerabile questa sera»: così il
presidente israeliano Shimon Peres in un comunicato dopo la notizia del
ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi. «Negli ultimi 18 giorni la
nazione ha pregato unita perchè i nostri meravigliosi ragazzi fossero
ritrovati sani e salvi. Ora che l’amara notizia è giunta, l’intera
nazione israeliana piange la morte prematura dei nostri più bravi
giovani. Oltre al profondo dolore, rimaniamo decisi a punire gli atroci
terroristi. La nostra guerra contro il terrorismo potrà solo
intensificarsi e non vacillerà perché questo terrorismo omicida non osi
rialzare il capo» conclude Peres. «Sono colmo di profonda tristezza dopo
aver sentito dell’assassinio di Naftali Frenkel, Gilad Shayer e Eyal
Yifrah da parte dei terroristi di Hamas», dichiara il vice ministro
della Difesa, Danny Danon, invocando il lancio di un’operazione militare
su vasta scala per «sradicare» il gruppo radicale palestinese. Gli fa
eco un suo collega di governo, il ministro dell’Edilizia Uri Ariel:
«Siamo in guerra contro i terroristi, dobbiamo colpirli ovunque, senza
pietà». «Questa tragica conclusione deve segnare anche la fine di Hamas.
La nazione è forte e pronta ad assorbire degli attacchi per poter
sferrare un colpo mortale contro Hamas», aggiunge ancora Danon.
«Dobbiamo distruggere le case degli attivisti di Hamas, annientare i
loro arsenali ovunque, fermare il flusso di denaro che direttamente o
indirettamente tiene in vita il terrorismo, e far pagare un prezzo
pesante all'intera leadership palestinese ».La riunione del gabinetto di
governo, allargata ai vertici delle Forze armate e dei servizi di
sicurezza interno (Shin Bet) ed esterno (Mossad), mette a punto la
reazione. Che sarà durissima, anticipa uno stretto collaboratore del
primo ministro. Immediata la replica di Hamas: se Netanyahu darà
l’ordine di attaccare la Striscia di Gaza e di «scatenare la guerra»
nell’enclave, «per lui si apriranno le porte dell’inferno», ha ammonito
il portavoce del gruppo radicale palestinese, Sami AbuZouhri. «Gli
occupanti», ha rincarato la dose Abu Zouhri, «saranno pienamente
responsabili di qualsiasi futuro aggravamento della situazione», ha
proseguito, e Netanyahu «deve capire che le sue minacce non ci
spaventano». Si combatte a Hebron, Gaza si prepara a una nuova
invasione.
La Stampa 1.7.14
L’ira di Israele per i tre ragazzi uccisi
Scatta la rappresaglia: bombe su Gaza
Ieri il ritrovamento dei cadaveri. Raid aerei sulla Striscia e in Cisgiordania.
Si cercano i responsabili. A Jenin colpito a morte un palestinese di 18 anni
di Maurizio Molinari
qui
La Stampa 1.7.14
La pace è più lontana
Una tragedia nata dalla mancanza di un confine netto
di Abraham B. Yehoshua
qui
Corriere 1.7.14
L’orrore e la logica di guerra
di Antonio Ferrari
Il
Medio Oriente in fiamme rischia ora di diventare un inferno. La
scoperta che i tre ragazzi israeliani scomparsi sono stati ammazzati con
ferocia, probabilmente poco dopo essere stati rapiti, provocherà, anzi
sta già provocando una tragica svolta. Trattenere Israele da una
spietata rappresaglia sarà davvero difficile, se non impossibile. E
forse per la prima volta da decenni può accadere l’irreparabile. Nel
passato, un focolaio di tensione, un conflitto o una guerra regionale
azzerava, quantomeno metteva la sordina alle altre crisi dell’area.
Adesso
no. Da questo momento non c’è un solo Paese del Medio Oriente che possa
ritenersi immune dal contagio della violenza. La feroce esecuzione dei
tre giovanissimi ragazzi ebrei, che studiavano in un insediamento vicino
a Hebron, può provocare un vero collasso. Ha ragione chi ritiene che il
triplice sequestro e il triplice assassinio sia stato compiuto non
soltanto dai nemici della pace, ma da qualcuno che voleva far saltare
l’accordo di governo inter-palestinese fra i laici dell’Anp e i
fondamentalisti di Hamas. Tuttavia, invece di accusare Israele di aver
organizzato una spietata provocazione, accusa che pare decisamente
impropria, bisognerebbe domandarsi qual è il ruolo che hanno avuto nella
vicenda gruppi o gruppuscoli assai più oltranzisti di Hamas.
È
probabile che questa nuova tragedia sia legata alla brutale sfida che i
nipotini di Al Qaeda, che la stessa Al Qaeda non riconosce
considerandoli «troppo feroci e disumani», stanno portando in tutto il
Medio Oriente: dalla martoriata Siria, sconvolta dalla guerra civile,
dal Libano, dai sottoscala del fanatismo palestinese e dall’Iraq.
Soprattutto dall’Iraq, che i fanatici dell’Isis (Stato islamico
dell’Iraq e del Levante) stanno già trasformando in un califfato. Anzi,
nei tanti califfati già proclamati in tutte le regioni del Paese
strappate al controllo del potere centrale. In poche settimane, la
storia sembra costretta a piangere. È stato distrutto quel che avevano
costruito, all’inizio del secolo scorso, i due mediatori, l’inglese
Sykes e il francese Picot, spartendosi con freddo cinismo coloniale le
spoglie mediorientali dell’impero ottomano in disfacimento. L’unico
passo di oggi, che pareva caricarsi di speranza, e cioè l’accordo
inter-palestinese tra i laici e un movimento Hamas che pare diventato
più realista di tutti i fanatici che lo contestano, rischia insomma di
finire in macerie ancor prima di diventare davvero esecutivo.
È
chiaro che tutto questo favorisce anche l’estrema destra israeliana, che
sostiene e condiziona il governo di Benjamin Netanyahu, con il rischio
di disegnare un ardito schema di opposti estremismi. È chiaro che
Netanyahu reagirà duramente all’assassinio dei tre giovanissimi ragazzi
ebrei. Non sarà quindi una reazione ponderata, se ben conosciamo
l’asprezza, seppur ammantata di astuzia politica, del primo ministro. Il
rischio è che, invece di colpire i veri responsabili, si colpisca
ancora una volta, indiscriminatamente, la popolazione civile palestinese
di Gaza. Magari proprio coloro che sono sta nchi di Hamas, degli
estremisti islamici più feroci, e vorrebbero solo vivere in pace.
Corriere 1.7.14
«Il dramma ha unito il Paese Il governo non lo usi»
di D.F.
GERUSALEMME
— Dimi Reider, co-fondatore della rivista digitale +972 (come il
prefisso internazionale che identifica Israele), analista dello European
Council on Foreign Relations, ricorda che fino ad ora «Netanyahu è
stato più cauto nelle sue decisioni militari rispetto ai predecessori.
Anche l’ultima operazione contro Gaza alla fine del 2012 è durata molto
meno di quelle guidate da Ehud Olmert. Adesso dovrebbe concentrare gli
sforzi dei militari nel trovare i responsabili degli omicidi». Da
attivista pacifista spera che «il governo non usi questa tragedia per
distruggere anche l’accordo tra Hamas e Abu Mazen, l’unione tra i
palestinesi è necessaria per arrivare a un’intesa di pace».
Dopo
la scoperta dei corpi, crescono le pressioni su Netanyahu — tra i suoi
ministri e nel Paese — perché dia il via libera a raid massicci contro i
leader del movimento fondamentalista. «Gli israeliani (malgrado le
divisioni tribali della nostra politica) si sono uniti in questi venti
giorni attorno alle famiglie».
La posizione del presidente Abu
Mazen resta «tra l’incudine e il martello». «Come sempre. I palestinesi
sono già infuriati con lui per le dichiarazioni di condanna del
sequestro senza ricordare gli arresti e le vittime tra la sua gente.
Dall’altro lato, gli israeliani vogliono che rompa con Hamas. “Tra
l’incudine e il martello” dovrebbe essere il titolo della sua
autobiografia politica».
Corriere 1.7.14
In crisi la riforma sanitaria di Obama, limitata anche per motivi religiosi
di Paolo Valentino
Mette
un cuneo molto rischioso nella riforma sanitaria di Barack Obama e non
solo, la sentenza con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha
riconosciuto ieri il diritto di alcune aziende a conduzione familiare di
rifiutare certe coperture ai propri dipendenti, adducendo motivi
religiosi.
Con una decisione a maggioranza per 5-4, che fotografa
ancora una volta la spaccatura tra conservatori e progressisti, la
massima magistratura americana ha accolto le obiezioni di tre società
non quotate in Borsa, i cui proprietari hanno contestato l’obbligo
imposto dalla legge di coprire prestazioni contraccettive come la
pillola del giorno dopo, che essi equiparano all’aborto.
Per
quanto limitata negli effetti pratici, visto che non sono molte negli
Usa le aziende che ispirano la loro gestione a uno stretto rispetto dei
principi biblici, la sentenza apre il varco ad altre eccezioni di
costituzionalità verso determinate prescrizioni della riforma. Di più, a
condizione di dimostrarne il fondamento, qualunque corporation potrebbe
teoricamente lamentare una limitazione della propria libertà di
religione derivante dall’applicazione di altre leggi.
Restando sul
piano della sanità, la controversia ha implicazioni politiche enormi
per l’efficacia e il futuro stesso della riforma, che a quattro anni
dall’approvazione non riesce ad andare a pieno regime, sia per le sue
molte contraddizioni, sia per la guerriglia condotta dal fronte
conservatore, al Congresso e nelle corti. «In che modo una corporation
fa pratica religiosa?», ha chiesto la justice Sonia Sotomayor nella
discussione orale, riassumendo l’argomento dell’opinione di minoranza,
contraria a riconoscere a una società le stesse prerogative di una
persona. «Questa è una questione religiosa e morale», ha ribadito il
giudice Samuel Alito, che ha redatto il parere di maggioranza,
aggiungendo che il principio federale della libertà di religione deve
applicarsi anche a quelle società fondate sul profitto, ma controllate
da famiglie con provate convinzioni religiose.
la Repubblica 1.7.14
Anticoncezionali, schiaffo a Obama
L’Alta Corte: “Se il datore di lavoro è contrario per motivi religiosi niente assicurazione su contraccettivi e aborti”
Vittoria dei repubblicani, ma i democratici lanciano l’allarme: “Conseguenze gravi per la salute delle donne”
di Federico Rampini
NEW
YORK. La destra religiosa esulta, la riforma sanitaria di Barack Obama
“perde un pezzo” su decisione della Corte suprema. I giudici
costituzionali, con un voto a strettissima maggioranza dove ha prevalso
la componente repubblicana, hanno deciso che l’obbligo di assicurazione
sanitaria non deve includere l’interruzione di gravidanza e i sistemi
contraccettivi — compresa la “pillola del giorno dopo” — se il datore di
lavoro è contrario per i suoi principi religiosi. Si apre così una
nuova breccia nel principio dell’assistenza medica universale e
obbligatoria. Già l’Amministrazione Obama aveva dovuto esentare dagli
obblighi della nuova legge le istituzioni propriamente religiose: una
scuola cattolica, per esempio, può rifiutare alle proprie insegnanti
un’assicurazione sanitaria che prevede il rimborso delle spese per un
aborto.
Ma con la sentenza di ieri la Corte spinge questo principio
molto più in là. Qualsiasi azienda, anche se è un’impresa privata a
scopo di profitto, può invocare i principi religiosi dei suoi
proprietari e far scattare l’obiezione di coscienza. È un regalo ai
fondamentalisti cristiani che formano una colonna portante della base
repubblicana, ed hanno dichiarato guerra a Obamacare, come viene
chiamata la riforma che ha esteso l’assistenza medica a 37 milioni di
cittadini che ne erano sprovvisti. Potranno approfittare di questa
obiezione di coscienza tutti quegli imprenditori di destra, sul modello
dei fratelli Koch, che finanziano il Tea Party e i suoi assalti alla
sanità del presidente Barack Obama.
Non a caso il voto della Corte
suprema è avvenuto secondo una stretta disciplina di partito: i cinque
giudici repubblicani contro i quattro di nomina democratica. A scrivere
il dispositivo della sentenza è stato il conservatore Samuel Alito. Nel
suo testo afferma che obbligare un’azienda a pagare polizze sanitarie
che includano il rimborso dei metodi contraccettivi «impone un peso
sostanziale sulla libertà religiosa di queste imprese».
La
contro-motivazione per la minoranza democratica è stata scritta dalla
giudice Ruth Bader Ginsburg, che ha difeso Obamacare definendo «vitale
per la salute delle donne e la libertà riproduttiva, che l’assistenza
medica offra anche la contraccezione ». La Ginsburg ha ammonito sulle
«conseguenze ben più vaste » che può avere questa sentenza. Ha
denunciato una giurisprudenza conservatrice che «allarga alle aziende la
nozione dei diritti individuali».
Il riferimento è ad un’altra
sentenza, Citizen United del 2010, che ha esteso alle imprese la piena
tutela del Primo Emendamento (libertà di espressione), al punto da
spazzare via qualsiasi limite ai finanziamenti elettorali da parte dei
grandi gruppi capitalistici. Ora la giudice Ginsburg, esprimendo la
preoccupazione dei suoi colleghi della minoranza democratica, paventa un
futuro in cui le imprese Usa potranno «chiedere l’esenzione da
qualsiasi legge che considerino contraria a principi religiosi».
Il
ricorso contro Obamacare che è arrivato fino alla Corte suprema è stato
promosso da due aziende: Hobby Lobby, una catena di negozi di prodotti
artigianali; e Conestoga Wood Specialties, un mobilificio industriale.
Si stima che per effetto dello stillicidio di esenzioni, un terzo delle
lavoratrici dipendenti americane non abbia diritto al rimborso delle
spese mediche per l’interruzione di gravidanza.
Sommando le
istituzioni religiose e tutta la galassia delle non-profit a loro
collegate, più le piccole imprese familiari che già godevano
dell’esenzione, più l’impatto dell’ultima sentenza, di fatto si assiste
ad uno svuotamento di quel diritto all’interruzione di gravidanza che la
stessa Corte suprema aveva sancito.
Repubblica 1.7.14
Giappone
Il rogo dell’impiegato martire a Tokyo per la Costituzione che costruì la pace
Giacca
e cravatta, si è dato fuoco nel quartiere dello shopping Per lui fiori e
messaggi: è il simbolo del paese che si ribella al progetto del premier
nazionalista Abe di cancellare le garanzie di non belligeranza
di Renata Pisu
UN
WEEK end di ordinario shopping nel quartiere di Shinjuku a Tokyo. Un
uomo sulla sessantina impeccabilmente vestito in giacca e cravatta
dall’alto di in cavalcavia urla in un megafono accuse contro il governo e
contro il primo ministro Shinzo Abe che intende far approvare una legge
per la revisione della Costituzione pacifista del Giappone. La gente
che passa pensa che sia ubriaco, infatti ha con sé bene in vista due
bottiglie. O pazzo.
Quando i pompieri gli si avvicinano con una
scala, l’uomo si versa il contenuto delle bottiglie addosso e si dà
fuoco. Lo portano in ospedale, forse si salverà. Una scarna cronaca se
non fosse che sul luogo dove vi è stato il rogo una folla anonima ha
subito portato fiori, improvvisati volantini sono stati distribuiti da
uomini e donne comuni che si trovavano lì per caso, in uno dei quartieri
più popolosi della capitale. Scrivono che è un «martire», che si è
immolato per una giusta causa. Sono di sinistra, commenta qualcuno. No,
sono di destra, controbattono altri per i quali il suicidio, questo tipo
di suicidio per una causa, è sempre stato di destra, anzi, di estrema
destra. Poche ore dopo il fatto, la polizia ha comunque rimosso fiori e
volantini, ripulito il luogo del misfatto, come se non fosse successo
niente e il sacro shopping potesse continuare. La stampa giapponese ha
dato scarso rilievo a questa protesta estrema che riporta
pericolosamente alla mente cosa è successo in Tibet, in Tunisia, a
Saigon quando i monaci buddisti si immolavano col fuoco negli anni
Sessanta.
L’uomo per ora non ha un nome né un’appartenenza
politica. Dall’abito che indossava lo si direbbe appartenente alla
classe dei sararymen, gli impiegati, la maggioranza delle formiche che
hanno reso prospero il Giappone nel dopoguerra, un paese che secondo
un’opinione diffusa ha potuto prosperare grazie alla rinuncia e alla
denuncia del suo passato guerrafondaio, anche se i rigurgiti
nazionalisti non sono mai mancati. Basti pensare al seppuku rituale del
grande Mishima, nel 1970, che intendeva imporre al paese il ritorno agli
antichi valori samuraici.
Oggi però il Giappone è un paese dove
la maggioranza della popolazione (il 55 per cento secondo un recente
sondaggio) si oppone alla proposta di revisione costituzionale voluta
dal primo ministro Abe ed è orgogliosa della propria Costituzione che,
per il fatto di rinunciare con l’articolo 9 alla guerra e a possedere
esercito, marina e aviazione militare, non ha eguali al mondo. È vero
che è stata dettata dagli americani dopo la guerra, ma è anche vero che
ormai è come connaturata allo spirito del nuovo Giappone al punto che un
comitato di cittadini aveva tentato di candidarla al Nobel per la Pace
l’anno scorso e quest’anno ha riproposto la candidatura non più della
Costituzione pacifista nipponica ma dell’intero popolo giapponese che
per settanta anni l’ha rispettata e salvaguardata. Per settanta anni le
minacce di revisione costituzionale non sono mai mancate, ma è in questi
ultimi tempi, con il ritorno al potere di Shinzo Abe al suo secondo
mandato, che il pericolo si palesa imminente.
Nel 2006 Abe aveva
fallito già una volta nel tentativo di revisione costituzionale, ma ora
ha ottenuto un successo riuscendo a far approvare un aumento del
bilancio da destinare alle forze di “autodifesa”, come si definisce il
para-esercito che il Giappone è autorizzato a mantenere.
I motivi
per cui Abe intende abolire l’articolo 9 della costituzione sono palesi:
la situazione internazionale è mutata, la Cina è emersa come grande
potenza, l’ombrello americano forse non basta più. Il Giappone ha
diritto a un proprio ruolo attivo soprattutto nello scenario del
Pacifico. Sono questi i temi che la propaganda governativa e la stampa
più conservatrice si impegnano a fare presenti a un’opinione pubblica
scossa dai tragici avvenimenti seguiti allo tsunami e che si professa
sempre più pacifista.
Resta da vedere se questo ennesimo
«attentato alla Costituzione» — come lo definiva l’uomo che a Shinjuku
si è dato fuoco rivelando una non sopita passionalità estremista in un
popolo che nell’era moderna ha conosciuto la tragedia dei kamikaze —
avrà successo. Dicono che questa volta è estremismo di sinistra,
comunque si tratta sempre di un segnale che dovrebbe far riflettere i
parlamentari chiamati domani a emendare prima l’articolo 96 che prevede
la possibilità di modificare la Carta costituzionale soltanto a
maggioranza qualificata. Questa maggioranza di due terzi Abe la ha
soltanto alla Camera bassa, non nell’altro ramo del Parlamento. Soltanto
dopo questo primo passo si potrà passare all’articolo 9, ma la strada è
in salita.
La Stampa 1.7.14
Addio a Maria Luisa Spaziani custode dell’eredità di Montale
La scrittrice e poetessa aveva 91 anni. Fondatrice del Premio dedicato al Nobel, non ha mai smesso di scrivere versi
qui
l’Unità 1.7.14
Premio Strega europeo
L’identità? Un’illusione
Stasera ciascuno dei cinque candidati leggerà un testo. Ecco quello di Ferrari
di Jérôme Ferrari
ANCHE
SENZA PARLARE DI EUROPA, L’IDENTITÀ FRANCESE MI È SEMPRE SEMBRATA
UN’ASTRAZIONE. Nel 2009 un ministro di cui preferisco tacere il nome ha
avuto l’idea geniale di lanciare un dibattito sull’identità nazionale,
rendendosi così colpevole di un doppio crimine: contro l’onore e contro
l’intelligenza. Perché l’identità non è una cosa, non si compone di un
certo numero di elementi ben determinati di cui basterebbe stilare la
lista per rilasciare certificati di fratellanza o, più probabilmente,
giustificare sentenze di ostracismo. L’identità è invisibile. Solo le
differenze saltano agli occhi. Basta spostarsi da Tolosa a Lille o, come
ho fatto spesso, da Parigi ad Ajaccio per rendersene immediatamente
conto. Quindi cosa dovrebbe essere un’identità europea? La prima volta
che sono andato in Spagna mi sono sentito spaesato come se fossi
atterrato su un pianeta affascinante e sconosciuto.
Da allora,
però, ho viaggiato molto. E ho appena passato due anni ad Abu Dhabi, una
grande città nuova di zecca appena sorta dal deserto come un enorme
organismo in piena crescita, una metropoli che prefigura probabilmente
il mondo di domani, con le macchine di lusso e la miseria dei lavoratori
immigrati, con grattacieli e centri commerciali, con l’orizzonte irto
di gru e di pannelli pubblicitari. È strano, da lontano lo sguardo si
trasforma: le differenze si attenuano, e quello che non riuscivamo a
vedere da vicino ci appare improvvisamente in piena luce. Ogni volta che
torno in Europa, poco importa se a Würzburg, Madrid, Parigi o Torino,
ho la sensazione di tornare a casa. Prendere un caffè all’aperto, seduto
al tavolino di un bar, diventa una delizia incomparabile. Ogni minima
pietra antica mi fa quasi venire voglia di piangere, e in questo senso
Roma mette a durissima prova le mie ghiandole lacrimali.
A
proposito dei privilegi di cui gode l’uomo europeo ho trovato un testo
che descrive perfettamente quello che sto cercando di esprimere. Mi si
permetta di citarlo:
«(…) Colui che non era trattenuto
stabilmente in un luogo determinato dalle necessità della vita, poteva
costituirsi grazie ai vantaggi e alle attrattive dei paesi civili una
nuova patria più ampia, dove poter circolare indisturbato e senza
suscitare sospetti. Poteva in tal modo bearsi del mare azzurro e di
quello grigio, delle bellezze dei monti nevosi e di quelle delle verdi
praterie, dell’incanto della foresta nordica e dello splendore della
vegetazione meridionale, dell’atmosfera dei paesaggi legati ai grandi
ricordi storici e della quiete della natura inviolata. Questa nuova
patria era per lui anche un museo, pieno di tutti i tesori che gli
artefici dell’umana civiltà hanno creato e tramandato nei secoli».
E,
poco dopo: «Fra i grandi pensatori, poeti e artisti di tutte le
nazioni, era andato scegliendo coloro ai quali pensava di dovere il
meglio di ciò che gli era servito per gustare e capire la vita. (…)
Nessuno di questi grandi gli era apparso straniero solo perché aveva
parlato in una lingua diversa dalla sua, (…) e mai aveva creduto di
doversi sentire per questo colpevole di tradimento verso la nazione o
verso l’amata lingua madre».
Freud scriveva queste cose nel 1915.
L’Europa che descrive era devastata dalla guerra, il museo si era
trasformato in un gigantesco mattatoio, l’umanità civilizzata inventava
nuove raffinate tecniche di ferocia e l’ampiezza della disillusione era
tale che oggi non siamo in grado di farcene un’idea. Noi forse non
saremo al sicuro da disillusioni analoghe, ma finora, come giustamente
ricordava Javier Cercas in un discorso del 2013, grazie all’unità
europea siamo la prima generazione che non ha mai conosciuto la guerra.
Non è cosa da poco. Anzi, è un fatto straordinario. Ancora una volta,
per convincersene basta spingere lo sguardo un po’ più in là, neanche
troppo. Per esempio verso est, nei Balcani, dove vivono persone a cui
non è stato concesso di dimenticare che la Storia, per citare un’altra
volta Freud, «è più che altro una successione di omicidi» commessi da
assassini che vivono accanto a noi, che vivono dentro di noi. Ricordo
ancora lo stupore incredulo che ho provato quando ho visto le prime foto
dei conflitti in Iugoslavia. La guerra evadeva dagli archivi, diventava
reale, emi rendo conto di quanto sia stato fortunato a potermi
concedere il lusso di stupirmi. Forse questo ci permette di capire
perché l’Unione europea, che in Francia e probabilmente in altri paesi
suscita solo una cupa indifferenza venata di disprezzo, sia un oggetto
di desiderio per le nazioni che vogliono entrare a farne parte.
È
così: il benessere, quando diventa abituale, smette di essere
percepito. Oltre alla pace, e grazie alla pace, usufruiamo di una
libertà di spostamento che Freud non avrebbe neanche potuto concepire e
che, mentre tanta gente vive all’interno delle proprie frontiere come
dietro mura di una prigione, a noi sembra normale. Ma questo è l’ordine
delle cose, non c’è motivo di sentirsi in colpa, come non c’è ragione di
lasciarsi andare a un beato ottimismo. L’Europa della cultura, quella
descritta da Freud, l’unica che importi davvero, quella che ci permette
di gioire non della nostra irreperibile identità, ma delle nostre
differenze sullo sfondo di una storia comune, forse non sopravvivrà allo
tsunami di uniformazione che si sta abbattendo sul mondo. Le differenze
sono buone e apprezzabili in quanto tali, ed estremamente interessanti.
Esistono ancora. Per il momento non siamo diventati in tutto e per
tutto clienti intercambiabili di un gigantesco supermercato, ma temo che
sia solo questione di tempo.
Preferisco attenermi all’Europa di
Freud con il mare azzurro e quello grigio, i tesori, la coesistenza di
uomini che parlano lingue diverse, la grande patria e le piccole patrie,
ma non posso dimenticare che il quadro descritto da Freud è soprattutto
quello di una dolce e meravigliosa illusione.
Repubblica 1.7.14
Un inedito di Louis Althusser
Il pensatore francese critica l’idealismo a favore del materialismo e spiega come va insegnata la disciplina
“I filosofi escano dal loro mondo chiuso”
Quando Althusser si chiedeva “Ma la filosofia serve a qualcosa?”
di Louis Althusser
POICHÉ apparentemente
nella vita pratica la filosofia non serve a granché, dato che non
produce né conoscenze né applicazioni, ci si può allora domandare: a che
cosa serve la filosofia? E si può perfino porre quest’altra strana
domanda: non è che per caso la filosofia serva solo al proprio
insegnamento e a null’altro? E se serve solo al proprio insegnamento,
ciò cosa significa? Cercheremo di rispondere a queste difficili
domande. Con la filosofia le cose vanno così.
Basta riflettere su
un aspetto piccolissimo (il fatto che i filosofi siano quasi tutti dei
professori di filosofia), perché, senza neanche lasciarci il tempo di
respirare, s’impongano alcune domande impreviste e sorprendenti. E
queste domande sono tali che dobbiamo porle, senza avere i mezzi per
rispondervi: per rispondere occorre fare un lungo periplo . E questo
periplo non è altro che la filosofia stessa. Il lettore deve dunque
armarsi di pazienza. La pazienza è una “virtù” filosofica. Senza di
essa, non ci si può fare un’idea della filosofia.
Per procedere,
diamo un’occhiata discreta a questi uomini: i professori di filosofia.
Hanno mariti e mogli come voi e me, dei figli che hanno voluto. Mangiano
e dormono, soffrono e muoiono, come tutti. Possono amare la musica e lo
sport, fare politica o non farla. D’accordo, non è questo che fa di
loro dei filosofi.
Ciò che fa di loro dei filosofi è che vivono in
un mondo a parte, in un mondo chiuso: costituito dalle grandi opere
della filosofia. Questo mondo apparentemente non ha un di fuori. Vivono
con Platone, Cartesio, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger, ecc. [...] La
pratica della filosofia non è semplice lettura, né tanto meno
dimostrazione. È interpretazione, interrogazione, meditazione : cerca di
far dire alle grandi opere quello che vogliono dire, o possono voler
dire , nella Verità insondabile che esse contengono, o meglio che
indicano silenziosamente, “facendo segno” verso di essa.
Conseguenza:
questo mondo senza un fuori è un mondo senza storia . Benché sia
costituito dall’insieme delle grandi opere consacrate dalla storia, esso
però non ha storia. La prova: per interpretare una passo di Kant, il
filosofo farà ricorso sia a Platone che a Husserl, come se non ci
fossero ventitré secoli tra i primi due e un secolo e mezzo tra il primo
e l’ultimo, come se importasse poco il prima e il dopo. Per i filosofi,
tutte le filosofie sono per così dire contemporanee. Rispondono le une
alle altre, fa- cendosi eco, perché in fondo rispondono sempre a quelle
stesse domande che costituiscono la filosofia. Da qui la celebre tesi:
«la filosofia è eterna». Come si vede, affinché sia possibile la
rilettura perpetua, il lavoro di meditazione ininterrotto, occorre che
la filosofia sia al contempo infinita (ciò che “dice” è inesauribile) e
eterna (tutta la filosofia è contenuta in nuce in ogni filosofo).
Questa
è la base della pratica dei filosofi, o meglio dei professori di
filosofia. Data questa situazione, fate attenzione se dite loro che
insegnano la filosofia. Giacché è evidente che essi non insegnano come
gli altri professori, i quali propongono ai loro allievi delle
conoscenze da imparare, vale a dire dei risultati scientifici
(provvisoriamente) definitivi . Per il professore di filosofia che ha
capito la lezione di Platone e Kant, la filosofia non si insegna. Ma
allora cosa fa un professore di filosofia? Insegna ai suoi allievi a
filosofare, interpretando davanti a loro i grandi testi o i grandi
autori della filosofia, aiutandoli con il suo esempio a filosofare,
inspirando loro il desiderio di filosofare. [...] Quello che ho appena
descritto è, in forma relativamente pura, la tendenza idealistica, la
pratica idealistica della filosofia. Ma la filosofia può essere
praticata anche in maniera completamente diversa. La prova è che nel
corso della storia alcuni filosofi, diciamo i materialisti, hanno
praticato la filosofia del tutto diversamente, e persino alcuni
professori di filosofia tentano di seguire il loro esempio. Non vogliono
più far parte di un mondo separato, di un mondo chiuso nella propria
interiorità. Ne escono per abitare il mondo esterno : vogliono che tra
il mondo della filosofia (che esiste) e il mondo reale si stabiliscano
scambi fecondi. In linea di principio, ciò è per loro la funzione stessa
della filosofia: mentre gli idealisti considerano che la filosofia è
innanzitutto teorica, i materialisti considerano che la filosofia è
innanzitutto pratica, viene dal mondo reale e produce, senza saperlo,
degli effetti concreti nel mondo reale.
Notate che, nonostante la
loro innata opposizione agli idealisti, i filosofi materialisti possono
essere — per così dire — “d’accordo” con gli avversari su alcune
questioni. Per esempio, a proposito della tesi “la filosofia non
s’insegna” . Non le attribuiscono però lo stesso significato. La
tradizione idealistica difende questa tesi, innalzando la filosofia al
di sopra delle conoscenze e invitando ciascuno a risvegliare dentro di
sé l’ispirazione filosofica. La tradizione materialistica non innalza la
filosofia al di sopra delle conoscenze, invita invece gli uomini a
cercare al loro esterno, nelle pratiche, nelle conoscenze e nelle lotte
sociali — ma senza tralasciare le opere filosofiche — di che imparare a
filosofare. È una piccola differenza, ma carica di conseguenze.
Presses Universitaires de France, 2-014. Traduzione di Fabio Gambaro
Repubblica 1.7.14
Istruzioni per l’uso nella battaglia delle idee
di Fabio Gambaro
PARIGI.
«OGNI uomo è virtualmente un filosofo». È in questi termini che,
ispirandosi a Gramsci, Louis Althusser concludeva nel 1975 un corposo
volume intitolato Initiation à la philosophie pour les non philosophes
(Presses Universitaires de France, pagg.386, euro 21). Rimasto inedito
fino a oggi, il libro è stato ora pubblicato in Francia, dove il
filosofo scomparso nel 1990 continua ad essere al centro di studi e
ricerche. Questa poco convenzionale «iniziazione alla filosofia per i
non filosofi» fu scritta nella seconda metà degli anni Settanta, nel
pieno della fase più intensamente politica di Althusser, e solo qualche
anno prima della tragedia che avrebbe sconvolto la sua vita nel 1980,
quando in un accesso di follia strangolò la moglie. Sono gli anni in cui
l’autore di Pour Marx — per il quale un filosofo «è un uomo che si
batte nella teoria» — rivisita criticamente il marxismo, convinto che la
filosofia non sia altro che la continuazione della politica con altri
mezzi, un campo di battaglia al cui interno lottano le idee, come nella
realtà lottano le classi sociali. Da qui la necessità di scrivere un
«manuale» per fornire ai non specialisti gli strumenti per capire e
affrontare questa guerra di teorie e concetti, utilizzando la filosofia
contro ogni forma di rassegnazione politica e sociale. In queste pagine
in cui denuncia i limiti dell’idealismo e difende la filosofia
materialista, Althusser propone una stringente analisi dei concetti
d’astrazione e d’ideologia, allontanandosi volontariamente dalla
«filosofia dei filosofi per analizzare le pratiche concrete degli
uomini». La sua però non è semplicemente un’opera di divulgazione, dato
che all’interno del suo ragionamento lo studioso sintetizza molte
problematiche e categorie che costituiscono il nucleo della sua
originale riflessione filosofica, a cominciare dal concetto di pratica.
Non a caso, se Initiation à la philosophie pour les non philosophes
all’epoca non fu pubblicato (probabilmente Althusser pensava di
apportarvi ancora alcune correzioni, nonostante l’avesse già riscritto
due volte), diversi passi del manoscritto verranno nondimeno
riutilizzati in alcuni testi scritti successivamente.
La Stampa 1.7.14
Fortuna, la dea bendata che dà senso al mondo fatto a caso
La lettura che Ernesto Ferrero presenta oggi alla Milanesiana L’ambiguità della buona sorte da Shakespeare alla scienza moderna
di Ernesto Ferrero
Il
catalogo più autorevole dei colpi e delle frecce che la «Fortuna
oltraggiosa» ci riserva viene stilato da Amleto nel più celebre monologo
della storia del teatro. Amleto elenca «le frustate e gli spregi del
mondo, le ingiustizie degli oppressori, le contumelie dei superbi, gli
spasimi dell’amore sprezzato, i ritardi della legge, l’insolenza del
potere e gli scherni che il merito paziente subisce dagli indegni».
Queste offese sembrano ad Amleto tanto insopportabili da fargli prendere
in considerazione l’ipotesi di saldare il conto con un semplice
stiletto, non fosse che non sappiamo che cosa ci attende nel paese da
cui nessun viaggiatore ritorna.
Quelli che Amleto lamenta sono
mali morali prodotti dagli uomini: l’arroganza del potere, le
ingiustizie correnti, le pene d’amore, il merito irriso. Non hanno nulla
di imprevedibile, e attribuirli ad un’entità malevola e distratta
sembra una prova di scarso carattere. Ben altre sono le invenzioni
beffarde di cui si compiace la divinità di cui gli uomini d’ogni tempo
si sono sempre sentiti lo zimbello. Incostante, dunque femminile, gli
occhi coperti da una benda, in bilico su una ruota. «Donna ubriaca e
capricciosa», la definisce Cervantes. Già Apuleio lamentava che prodiga
sempre i suoi favori ai malvagi e a chi non lo merita. E prima ancora
Giobbe aveva aperto una accorata vertenza sindacale con il suo dio.
I
colpi del destino oltraggioso (la buona fortuna è sempre degli altri)
hanno sempre rappresentato un problema filosofico: perché la vita ha
l’arbitrarietà del gioco dei dadi? Perché la virtù è punita? Nel VII
canto dell’Inferno Dante, che ben conosce le concezioni degli antichi,
chiede lumi a Virgilio, che lo rassicura. Quella che noi chiamiamo
Fortuna è un’intelligenza angelica, fedele ministra ed esecutrice della
volontà divina, che procede secondo un giudizio che resta sì
inconoscibile agli uomini, ma segue un suo disegno preciso. La prudenza
umana non può nulla contro il volere della Fortuna, il cui giudizio,
dice Virgilio, è «occulto come in erba l’angue», il serpente che si
nasconde nell’erba alta.
A partire dal Rinascimento, si fa strada
una diversa concezione, che rivendica all’uomo la dignità di plasmare il
proprio destino a dispetto di ogni avversità. La fortuna avversa
esiste, scrive Machiavelli, è come un’alluvione che allaga campi e
sradica alberi, ma le si può opporre una gestione avveduta, quella che
oggi chiamiamo prevenzione, allestendo argini, opere idrauliche.
Possiamo concedere alla fortuna di determinare una metà del nostro
destino. L’altra sta nelle nostre mani, nella nostra «virtù», cioè in un
mix di professionalità, determinazione, capacità di previsione e
progetto, coraggio. Se, come si dice comunemente e Machiavelli,
politicamente ancor più scorretto di Cervantes, ripete, la fortuna è
donna, «è necessario, volendola tener sotto, batterla e urtarla». Con la
fortuna occorre saper anche giocare d’azzardo, osare al momento giusto:
se la Fortuna «come donna, è amica dei giovani», si farà comandare dai
più giovani e audaci.
Occorre saper leggere gli eventi e cogliere
l’occasione favorevole. Nel Giulio Cesare, Shakespeare fa usare a Bruto
una metafora marinara per convincere Cassio che è arrivato il momento di
prendere le armi contro Ottavio ed Antonio: «V’è una marea negli affari
umani/ tale che, se cogli l’onda, arrivi al successo;/ se invece perdi
l’attimo, il viaggio della vita/ si arena in disgrazie e bassifondi./ Su
questo mare ora galleggiamo,/dobbiamo profittare delle correnti
propizie/ o perdere il nostro carico».
La scienza moderna ci dice
che la vita è nata sulla Terra per una serie di congiunzioni uniche e
probabilmente irripetibili, che il Caso è il motore primo della vita e
poi dell’evoluzione (penso alle tesi sostenute da Jacques Monod in Il
caso e la necessità). Sembra quasi la riproposta del modello della dea
bendata caro agli antichi. Dai tempi dei prodigiosi processi avvenuti
nel brodo primordiale miliardi di anni fa, il Caso bricoleur non ha
smesso di inventare combinazioni biologiche sempre nuove, attorcigliando
pochi elementi-base nelle doppie eliche del Dna.
Il Caso ama
lavorare su quel minimo scarto iniziale che, allargandosi a valanga, può
produrre risultati enormemente differenti tra di loro. Tutto quello che
gli uomini possono fare è risalire alla piccole cause prime, ai
movimenti impercettibili dell’ago degli scambi che riescono a spostare
la destinazione di un treno di migliaia di chilometri. Ognuno di noi può
raccontare la piccola causa che ha mutato radicalmente l’esistenza sua o
dei suoi progenitori. Ogni identità è il prodotto di una serie
pressoché infinita di casualità. Ogni identità è fortunosa. È
romanzesca.
Uno di questi incredibili scatti dell’ago degli scambi
ci è stato raccontato da Primo Levi. Non, si badi, in Se questo è un
uomo, ma in un racconto degli ultimi anni, quasi se ne vergognasse, lui
che provava appunto la vergogna del sopravissuto. Nel gennaio del 1945,
prigioniero ad Auschwitz, Levi ha trovato rifugio nel laboratorio della
Buna, la fabbrica di gomma annessa al Lager, in quanto brillante
laureato in chimica. È riuscito a evitare i lavori pesanti che ha svolto
sino a poco prima all’aperto, ma continua ad avere fame, e cerca sempre
di rubare qualcosa di piccolo e di insolito per scambiarlo con pane. Un
giorno trova in laboratorio un cassetto pieno di pipette, tubetti di
vetro graduati che servono per trasferire liquidi da un recipiente
all’altro, e ne riempie una tasca interna della giacca che si era
ingegnosamente cucito. Corre da un infermiere polacco che conosceva al
Reparto Infettivi, spiegandogli che le pipette potevano servire per
analisi chimiche. L’infermiere è poco interessato, dice che quel giorno
di pane non ce n’è più, al massimo può dargli un po’ di zuppa. Primo
torna nella camerata con una scodella mezza piena. Chi poteva aver
avanzato mezza scodella nel regno della fame? Quasi certamente un malato
grave. In quelle settimane nel campo s’erano scatenate in forma
epidemica difterite e scarlattina.
Auschwitz non era luogo di
cautele. La sera Primo divide con il suo fraterno amico Alberto la zuppa
sospetta. Pochi giorni dopo si sveglia con la febbre alta e non riesce a
deglutire. È scarlattina, e Primo non l’aveva fatta da bambino, al
contrario di Alberto. Viene ricoverato in infermeria proprio quando i
tedeschi decidono di abbandonare il campo. Da Berlino giunge l’ordine di
sopprimere i malati per non lasciare testimoni, ma non c’è più tempo,
le guardie fuggono portandosi dietro i prigionieri capaci di camminare.
Alberto parte con loro. «Venne a salutarmi, - racconta Levi - e poi
partì nella notte e nella neve, con altri sessantamila sventurati, per
quella marcia mortale da cui pochi tornarono. Io fui salvato, nel modo
più imprevedibile, dall’affare delle pipette rubate, che mi avevano
procurato una malattia proprio nel momento in cui, paradossalmente, non
poter camminare era una fortuna».
Corriere 1.7.14
Il peccato secondo Agostino
Ugo
Bianchi (1922-1995), storico delle religioni, professore in diverse
università, segretario e presidente della International Association for
the History of Religions, ritorna con il primo volume dei suoi scritti,
dedicato agli studi sul Cristianesimo delle origini. È da poco uscito
presso Vita e Pensiero nella collana di filosofia antica diretta da
Roberto Radice Religions in Antiquity (a cura di Lorenzo Bianchi, pp.
240, e 25). Pagine che affrontano temi rilevanti, soprattutto dedicati
ai rapporti tra religione e filosofia; i saggi sono in italiano, inglese
e francese. Oltre a taluni presupposti platonici presenti in Origene e
Gregorio di Nissa o alle osservazioni su un trattato della quarta
«Enneade» di Plotino (posto in comparazione con la teoria cosmogonica
origeniana), ecco approfondimenti sulla «doppia creazione» in autori e
correnti religiose del mondo antico, considerazioni sui criteri di
analisi degli apocrifi; anzi, uno scritto è dedicato a uno di essi:
«L’ascensione di Isaia». Né manca un saggio sugli aspetti ontologici
nella trasmissione del peccato in Agostino.
Corriere 1.7.14
Charlot, l’America amara del genio «Papà non fu tanto amato»
Geraldine Chaplin: ridicolizzava le finte libertà
di Maurizio Porro
Bologna
ha appena festeggiato il centenario della nascita di un leggendario
omino dalle scarpe larghe e sfasciate, la bombetta lisa e bastoncino di
bambù, di nome Charlot. Comparve nel 1914, il 7 febbraio, nel corto Kid
auto races at Venice (Charlot si distingue). Il suo inventore, 25enne di
nome Charlie Chaplin, era giunto in America su un bastimento dove
viaggiava anche Stan Laurel. La Cineteca diretta da Gianluca Farinelli
conclude così un anno di riedizioni di magnifici film del passato
restaurati, con l’omaggio, inserito nel programma della XVIII edizione
del «Cinema ritrovato», al Re dei clown.
A parlarci del famoso
papà è oggi la primogenita Geraldine, classe ’44, che a 8 anni in Luci
della ribalta fece una breve apparizione. Piena di lavoro («una
fortuna») ripete: «Non è male avere un papà immortale».
Cosa pensa oggi di lui, a 37 anni dalla morte avvenuta (e non poteva essere altrimenti) nella notte di Natale?
«Penso
sia nella storia del cinema, nel patrimonio immaginifico della
finzione, così come Shakespeare è teste del periodo elisabettiano e
Picasso rappresenta l’arte moderna».
Immortale anche nel quotidiano?
«Per
me sì, Charlot è il mio eroe personale e collettivo, è tutto quello che
apprezzo: ribelle, anarchico, anticonformista, politicamente scorretto,
follemente coraggioso. La sola cosa che gli sta a cuore è l’umanità,
difese la gente che non aveva difesa. Quando oggi rivedo i suoi film
provo ancora le stesse emozioni. Felicità, tragedia, nella vita si
cambia sempre, ma all’orizzonte dell’infinito di Charlot c’è sempre la
speranza».
Ricordi ?
«Ne racconto uno fresco, raccolto a
Madrid due giorni fa quando, andando a comperare del prosciutto,
incontro un signore cinquantenne, dal forte e caldo accento andaluso,
che mi riconosce e incomincia a piangere pensando a mio padre, dandogli
del genio, una scenata di commozione vera».
Qual è il titolo di Chaplin più attuale?
«Monsieur
Verdoux sembra girato oggi, parla di un uomo messo alla porta, della
mancanza di lavoro ed è assai moderno quel discorso straordinario sulle
condanne a morte: se uccidi milioni di persone sei un eroe, se ne uccidi
una, un criminale».
È quindi rimasto attuale, anzi eterno?
«Certo.
Pensi a Charlot emigrante che è del 1917 ma parla di cose che si
leggono tutti i giorni, l’arrivo negli States con la Statua della
Libertà. Mostra come ora il continuo sospetto delle autorità. Bisogna
difendersi ogni giorno, lui denunciava già tutto il buffo e il ridicolo
della vita e della “libertà” made in Usa».
Il britannico Chaplin
ha avuto una storia travagliata col Grande Paese: l’Fbi raccolse 1900
pagine su di lui in 50 anni. Perdonò l’America?
«Dovrebbe
domandarlo a lui, forse è l’America a non averlo mai davvero perdonato
anche se nel 1972 quando ricevette l’Oscar alla carriera ebbe la più
lunga ovazione della storia».
Viene in mente anche Benigni. Ci sono affinità?
«Adoro
Benigni, è politicamente scorretto come mio padre e con La vita è bella
ebbe il coraggio di ridere su fatti tragici, come Chaplin fece col
Grande dittatore . Credo che Benigni passerà la frontiera del tempo, ha
il potere riservato a pochi di far ridere e pensare. La magia vera di
mio padre avverata col Monello era riuscire a far ridere e piangere
nello stesso tempo, dono rarissimo».
Per esempio il famoso «The kid»…
«Che
era, noi figli crediamo, il suo titolo preferito, con Luci della città e
la Contessa di Hong Kong , ma Il Monello produsse per la prima volta
quella duplice emozione cui papà teneva molto andando contro la
tradizione».
Tra gli altri registi chi gli piaceva?
«Fra gli
italiani adorava Rossellini, soprattutto il Generale Della Rovere ma
amò molto, pur scoprendolo in ritardo col Posto delle fragole , anche
Bergman da cui sia lui sia mia madre Oona si sentivano enormemente
toccati».
Che rapporto aveva con l’Italia?
«La amava molto.
Davvero. Venivamo in vacanza al mare da piccoli. Ci fu una memorabile
serata alla Scala di Milano, adorava Venezia. E dell’Italia amava molto
il melodramma e fra i grandi prediligeva Puccini e soprattutto Bohéme ».
Chaplin veniva dal vaudeville: amò sempre il teatro?
«Sì, ma credo non riuscisse poi ad andarci molto quando si mise a lavorare nel cinema».
Un suo ricordo personale.
«L’ultimo
è sempre quello, quando non c’è più niente da fare. Chaplin, che aveva
sempre voglia di parlare, a un certo punto non parlava più, non
rispondeva al dottore che veniva a visitarlo, non gli diceva come stava e
quindi il medico capì che era giunta l’ora e avvertì mia madre che
entrò nella camera del marito: le disse che era pronto».
Pronto per passare il testimone?
«Sa
a chi? Credo al mio straordinario nipote James Thiérrée figlio di mia
sorella Victoria, la quinta figlia che per anni col marito Jean Baptiste
ha recitato nel fantastico Circo immaginario dove ha allevato questo
Charlot 2».
Quindi avete avuto tutti una eredità.
«Io i denti, mia figlia quando glielo chiedono dice i baffi».
Ma Chaplin sapeva che Charlot sarebbe stato immortale?
«Alla
fine, in fondo, senza proclamarlo, penso di sì. Lui non si dava del
genio da solo, ci diceva che si sentiva un pezzo unico, fuori dal coro».