mercoledì 2 luglio 2014

l’Unità 2.7.14
Ai lettori
Il CdR


Per i lavoratori de l’Unità si è arrivati al terzo mese di lavoro senza retribuzioni. Per alcuni collaboratori si è al quarto mese, per altri si arriva all’anno e mezzo. Inaccettabile per qualsiasi azienda, ancora di più per un’azienda di sinistra. Non c’è crisi che giustifichi un comportamento di questo tipo, con i rappresentanti sindacali lasciati all’oscuro di tutto per settimane. Non ci ha dato risposte l’amministratore delegato Fabrizio Meli che ha malgestito fino a una settimana fa, chiudendo la sua esperienza nel peggiore dei modi: la liquidazione. Non ci dà risposte l’azionista Matteo Fago, che pure si premura di annunciare una rinascita della testata, ancora in edicola solo grazie al lavoro non pagato dei dipendenti. Torniamo a ricordarlo con orgoglio: se il valore de l’Unità non si è depauperato finora è solo grazie al nostro impegno, alla nostra professionalità, al nostro attaccamento a un giornale, su cui esprimiamo la nostra protesta non firmando gli articoli da quasi due mesi. Non ci hanno ancora dato risposte i due liquidatori, che incontreremo giovedì. Per noi non sarà un appuntamento formale. O si prospetteranno soluzioni concrete, oppure sarà inevitabile una reazione dura, che per il sindacato significa lo sciopero.

Corriere 2.7.14
Chiti: sulla norma pasticcio inaccettabile


Caro direttore, 
Le chiedo ospitalità per alcune considerazioni sulla riforma costituzionale, ora in discussione in Senato. Chi, su alcuni punti, ha presentato proposte diverse, è stato accusato di sabotaggio. Al contrario vogliamo le riforme: sono urgenti. Devono però essere buone riforme, altrimenti la nostra democrazia si impoverirà. L’elezione indiretta provoca anche un pasticcio inaccettabile sull’immunità. Da un lato la estende agli amministratori in modo improprio, dall’altro differenzia tra sindaci e tra consiglieri regionali. C’è ampio accordo sul fatto che la Camera abbia l’esclusività del rapporto di fiducia con il governo e l’ultima parola su gran parte delle leggi, compresa quella di bilancio. Occorre mantenere - come in molte grandi democrazie - competenze paritarie di Camera e Senato su Costituzione, leggi elettorali e referendum, ordinamenti dell’Ue e delle Regioni, diritti fondamentali, quali quelli delle minoranze, la libertà religiosa, i temi eticamente sensibili. Non sui diritti ma sugli altri aspetti e sul numero dei senatori - 100 e non più 150 - si è tenuto conto delle nostre proposte: segno che non erano delle invenzioni per perdere tempo. Ritengo che sui diritti fondamentali debba mantenersi un bicameralismo paritario: non possono essere di esclusiva competenza della maggioranza di governo. È un ruolo di garanzia e di equilibrio da far svolgere al Senato: se per la Camera si adotta una legge maggioritaria che assicuri governabilità, è necessario avere un Senato aperto alla presenza delle forze più rappresentative in ogni regione. È importante una sua piena legittimazione attraverso l’elezione dei senatori da parte dei cittadini, in concomitanza con quella dei consigli regionali. Non ci sono rischi di far rientrare dalla finestra la fiducia ai governi: il Senato non si formerebbe in un’unica elezione né sarebbe sciolto ad una stessa scadenza. È anche superficiale dire che la riforma della Camera, con la riduzione da 630 a 470 deputati, non sia all’o.d.g. Chi lo stabilisce? Ci sono emendamenti precisi: si deve dire sì o no! Mi è stato ricordato che in passato ho sostenuto l’opzione del Bundesrat tedesco: è vero. Da sempre sono convinto che sia l’unica alternativa al Senato elettivo. Il modello tedesco va preso tutto quanto, non a piacimento. Nel Bundesrat siedono solo i governi regionali - non consiglieri e sindaci - e votano in modo unitario; sulle leggi non bicamerali, il Bundestag può modificare proposte del Senato solo con una maggioranza uguale a quella con cui sono state approvate. Infine, il Bundestag è eletto con legge proporzionale e sbarramento al 5%. 
Altre soluzioni non convincono. Gli Stati Uniti hanno sperimentato il Senato di secondo grado: sono passati al voto diretto dei cittadini dopo aver registrato gravi casi di corruzione e una rappresentanza troppo localistica. La Francia nel marzo scorso ha stabilito che dalle prossime elezioni non si potrà essere più sindaci, presidenti di regione e parlamentari. Esperienze fallite, da noi diventano innovazione? Voler mantenere ai cittadini il diritto di scegliere con il voto i loro rappresentanti nelle istituzioni sarebbe conservazione? Nel XXI secolo la democrazia è sfidata non solo dai terrorismi, ma da semplificazioni che danno vita a quella che viene definita dittatura delle maggioranze, un affievolirsi cioè dei controlli sui governi. È un pericolo dal quale guardarsi. La democrazia ha bisogno di partecipazione e governabilità, non di contrapporre l’una all’altra.
Vannino Chiti

l’Unità 2.7.14
Senato, c’è l’immunità Pd al M5S: collaboriamo
In aula il 9 il testo sulle riforme istituzionali. Previste norme per la minoranza
Lettera di Renzi ai Cinquestelle: «La vostra proposta di legge elettorale ha dei limiti ma siamo pronti al confronto»


Procede senza strappi in commissione Affari costituzionali il disegno di legge che riscrive il bicameralismo e il rapporto tra stato e Regioni. All’appello mancano ancora i nodi più caldi, come la modalità di elezione dei senatori (rinviati a dopo il vertice di Forza Italia di domani), ma c’è già un punto fermo: il disegno di legge approderà in Aula tra il 9 e il 10 luglio, così ha deciso ieri la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama. Ai 19 senatori di maggioranza contro il Senato ad elezione indiretta (guidati da Chiti) ieri si è aggiunto anche Antonio Azzollini di Ncd.
Ieri un primo nodo di merito è stato sciolto. Dopo le polemiche dei giorni scorsi sull’immunità dei senatori, con un ping pong di responsabilità tra la presidente e relatrice Anna Finocchiaro e il governo, ieri la norma che mantiene per deputati e senatori le stesse prerogative attuali è passata a larga maggioranza, con i soli voti contrari di M5s e Sel e il parere favorevole del governo.
La storia è questa: nella prima bozza del governo (testo base) ai senatori veniva tolta qualunque protezione per arresti e perquisizioni. I relatori Finocchiaro e Calderoli, nei loro emendamenti condivisi col governo, avevano invece reintrodotto l’autorizzazione da parte del Senato per i nuovi senatori, esattamente come avviene oggi e con uno scudo già molto limitato dalla riforma del 1993. La polemica era scoppiata, con uno scambio piuttosto duro tra Boschi e Finocchiaro, che sembra del tutto rientrato, visto che ieri il ministro per le Riforme ha preso atto della «maggioranza molto larga» a favore di questa norma. «Non è cambiato niente rispetto alla Costituzione vigente», spiega Finocchiaro. Abbiamo avuto una discussione generale molto ricca e un’indagine conoscitiva con molti costituzionalisti. Che il testo della nostra Costituzione restasse inalterato è stata una richiesta largamente avanzata. Tutti hanno confermato la necessità che restasse l’autorizzazione della camera di appartenenza per essere sottoposti a perquisizione, arresto e intercettazioni». Il M5s sale sulle barricate. «Uno sfregio al dialogo per i cittadini», s’infuoca il senatore Giovanni Endrizzi. «Hanno reintrodotto l’immunità senza nemmeno sapere se i membri del Senato saranno eletti dai cittadini .Dopo la sentenza della Consulta questo parlamento non ha la legittimità per cambiare la Costituzione».
Un concetto che ieri è stato rilanciato anche sul blog di Grillo, con l’ideologo Paolo Becchi che ha ribadito la illegittimità di questo Parlamento a cambiare la Costituzione, ha bocciato l’ipotesi di riforma del Senato voluta dal governo e ha invitato a discutere col Pd solo della legge elettorale: «A parte re Giorgio, la riforma del Senato non ce la chiede proprio nessuno. L’unica riforma utile è la legge elettorale. E la partita tra il Pd e il M5S è appena cominciata».
Sembra già una risposta alla lettera che in serata Renzi e il Pd hanno inviato alla delegazione M5sguidata da Luigi Di Maio dopo il vertice di mercoledì scorso. Nella lettera, il Pd parla di alcuni «limiti invalicabili» contenuti nella proposta M5s a prima firma Toninelli: «Non c’è la certezza di avere un vincitore e dunque non c’è governabilità, le alleanze si fanno dopo le elezioni, il sistema della preferenza negativa è troppo complicato e ci sono collegi con oltre40nomisulla scheda». «Avete correttivi per questi quattro punti? Ritenete sbagliate le nostre osservazioni? Siamo pronti a confrontarci», scrivono i 4 del Pd, che si firmano con i soli nomi: Matteo, Roberto, Debora e Alessandra. A questi 4 paletti, il Pd aggiunge anche 10 punti che riguardano l’introduzione di un secondo turno di ballottaggio, un premio di maggioranza del 15%, e un via libera preventivo della Consulta alla nuova legge elettorale.
C’è anche un corposo capitolo costituzionale, che tocca i punti principali del disegno di legge sul Senato, dal nuovo Titolo V, al taglio delle indennità per i consiglieri regionali, dall’abolizione del Cnel al superamento del bicameralismo perfetto. «Noi ci siamo. Senza la pretesa di aver ragione. Senza l’arroganza di fare da soli», chiude la delegazione Pd. La lettera non tocca però il nodo chiave delle preferenze, il vero mantra per il M5s. Che si prepara a rilanciare con una proposta sui collegi piccolissimi (alla spagnola) o con il ritorno al Mattarellum. Forza Italia, preoccupata dal dialogo Pd-M5s, preme per un sì all’Italicum subito dopo le riforme costituzionali. E Finocchiaro assicura: «La esamineremo subito dopo. E penso che ci possa un via libera della commissione prima della pausa estiva».
Ieri in commissione al Senato sono stati approvati alcuni emendamenti, che prevedono l’introduzione in Costituzione della tutela dei «diritti delle minoranze alla Camera» e l’impossibilità per sindaci, governatori e assessori di far parte dell’ufficio di presidenza del nuovo Senato. Infine, è stato approvato un emendamento degli exM5sche prevede il «dovere » per tutti i Parlamentari di «partecipare ai lavori della commissione e dell’Aula».

il Fatto 2.7.14
“Il governo è favorevole” L’immunità al Senato c’è
Lo scudo passa in commissione. Potrà servire anche a Napolitano
Le norme sull’anticorruzione slittano ancora (dopo la metà di luglio)
di Carlo Tecce


Venti minuti, poche obiezioni, un assenso convinto e la commissione Affari costituzionali approva l’emendamento di Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, i relatori di una riforma che trasforma la Carta: viene introdotta (o confermata) l’immunità per i futuri senatori, che poi senatori non sono, ma consiglieri regionali, sindaci e nominati.
Il Partito democratico ha votato compatto, assieme ai berlusconiani (con l’eccezione di Augusto Minzolini), ai leghisti e ai centristi-alfaniani misti. Sel e M5s contrari. Il ministro Maria Elena Boschi, presente in Commissione, ha concesso al tema un centinaio di secondi, in tre ha riassunto: “Il governo è favorevole”. Scomparso l’imbarazzo; pareva asfissiante un paio di settimane fa. Poi s’è scoperto che la protezione ai senatori aveva il timbro di Matteo Renzi, di un gruppo di democratici e, ricordano, di svariati costituzionalisti consultati in Commissione.
IL BERSANIANO Miguel Go-tor ha assistito a questi venti minuti, che avranno tempi supplementari in aula. Convinto, per nulla pentito: “Il Senato che aveva pensato Renzi non aveva poteri, noi abbiamo ripristinato le funzioni legislative, di controllo e di garanzia e abbiamo bisogno di un ombrello”. Perché, Gotor? “Perché? Io sono quasi sicuro di essere ascoltato in questo momento . Viviamo in un paese con precedenti eclatanti di spionaggi illegali”. E i politici locali che non saranno tra i fortunati 100, non sono discriminati? “La questione è stata aperta, ma non era possibile trovare una soluzione”. Con disprezzo per il pericolo, e per il cortocircuito normativo, la Commissione voleva coinvolgere la Consulta: in via informale, ma non interlocutoria, la Corte ha fatto sapere che non vuole cadere in impicci politici. E non vuole sbrigare questioni che non le competono: creare una sezione per accogliere o respingere le richieste dei Tribunali non avrebbe senso. Non è possibile. Per il governo non c’era neanche l’esigenza di disturbare la Consulta: l’immunità non è “dirimente” per le riforme . Anna Finocchiaro è in perfetta sintonia con Palazzo Chigi e il cosiddetto patto del Nazareno (allargato ai leghisti-alfaniani): “L’immunità non c’entra nulla con il mezzo di elezione. Non è cambiato niente rispetto alla Costituzione vigente, così come riformata nel ‘92”. Ma il Senato sta per cambiare. I Cinque Stelle dicono che l’immunità è uno sfregio al dialogo dei cittadini: “Non sanno neppure se i componenti saranno eletti o meno”. Il governo non vuole cedere sul Senato elettivo né tantomeno l’alleato Silvio Berlusconi è ricettivo. Renzi ha spedito una missiva, un elenco di buoni propositi ai Cinque Stelle e rimette i contrasti in sospeso. Ancora qualche giorno in Commissione, poi la settimana prossima la riforma sarà in aula. E in aula, però, non ci sarà il disegno di legge anticorruzione. Precedenza al Senato che corregge se stesso.
IL RIPRISTINO (o la tutela) di una guarentigia costituzionale di Palazzo Madama potrebbe tornare utile anche a Giorgio Napolitano che, dimissionario a breve o dimissionario più tardi, potrà usufruire dell’articolo 68 quando non alloggerà più al Colle. Ai magistrati di Palermo che lo volevano interrogare in qualità di testimone della trattativa Stato-mafia, il presidente della Repubblica inviò una lettera: “Non ho nulla da riferire”. E nulla ha riferito. Da senatore a vita senza immunità avrebbe riferito. Adesso non più. O mai più.

Repubblica 2.7.14
Al Senato l’immunità resta il M5S accusa e Renzi rilancia “troviamo un’altra strada”

Ampia maggioranza in commissione. Proteste da minoranza dem e Scelta civica I grillini : sfregio ai cittadini. E sulla legge elettorale: facciamola in cento giorni
di Silvio Buzzanca


ROMA. La nave delle riforme va e il testo sul nuovo Senato dovrebbe approdare in aula il 9 luglio. La novità di ieri e che deputati e senatori continueranno a godere dell’immunità parlamentare. Lo ha deciso a larghissima maggioranza la prima commissione di Palazzo Madama, impegnata nella discussione del testo di riforma. Hanno votato per lasciare le cose come stanno, e quindi “coprire” anche i futuri senatori, democratici, forzisti, alfaniani, centristi e leghisti. Hanno votato no i grillini e Sel. Il forzista Augusto Minzolini, invece ha scelto la via dell’astensione. Però l’ostilità all’immunità è più vasta di quello che dicono i numeri della commissione. Si schiera contro la democratica Sandra Zampa: «Sull’immunità dei senatori abbiamo sbagliato», dice . Contraria anche Linda Lanzillotta, senatrice di Scelta civica. Lo scudo, inoltre viene respinto al mittente da alcuni sindaci di grandi città: «Tenetevi l’immunità», dicono infatti Marino, Pisapia, De Magistris, Bianco, Orlando e Zedda.
Naturalmente i grillini sono sulle barricate, parlano di «sfregio ai cittadini». «Un voto da brividi», dice Luigi Di Maio. Ma gli altri partiti ribattono che i grillini avevano presentato un emendamento uguale a quello approvato.
Uno scambio di colpi che è passato in secondo piano appena sono stati resi noti i contenuti della lettera in dieci punti che Matteo Renzi ha indirizzato al Movimento Cinque Stelle.
Perché, nel passaggio sul nuovo Senato, il premier sembra volere aprire un dialogo con i grillini proprio sull’immunità. «Siete disponibili a trovare insieme una soluzione sul punto delle guarentigie costituzionali per i membri di Camera e Senato, individuando una risposta al tema immunità che non diventi occasione di impunità?» chiede. . «Noi sì», risponde Renzi. Il segretario del Pd nella sua lettera. rilancia su una legge elettorale che assicuri governabilità e sfida Grillo sul federalismo proponendo di togliere alcune competenze alle Regioni. Il premier incalza il leader grillino anche sul taglio dei costi della politica e sull’abolizione del Cnel. E gli chiede di agire insieme in Europa sul tema dell’immigrazione. I grillini a loro volta rispondono: «In cento giorni possiamo fare una legge elettorale che garantisca stabilità e governabilità».

Corriere 2.7.14
Immunità per i nuovi senatori
Sì di Pd, Forza Italia e Lega. Riforme, Renzi sfida i Cinque Stelle
di Dino Martirano


ROMA - L’immunità parlamentare resta piena anche per i nuovi senatori - consiglieri regionali e sindaci - che non saranno più eletti direttamente dai cittadini. I 100 nuovi inquilini di Palazzo Madama (5 di nomina presidenziale) avranno le stesse guarentigie che proteggono i parlamentari della Repubblica, ora tutti eletti a suffragio universale, dalle possibili invasioni di campo della magistratura. Dopo l’abolizione dell’autorizzazione a procedere nel ‘93, l’articolo 68 della Costituzione continuerà dunque a produrre effetti su tutti i membri del Parlamento: con l’insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni e con l’autorizzazione della Camera di appartenenza per le richieste di arresto, perquisizione e intercettazione avanzate dal giudice. 
A favore del mantenimento dell’immunità anche per i sindaci e i consiglieri regionali destinati a Palazzo Madama hanno votato in commissione il Pd, Forza Italia, la Lega, Scelta civica, Grandi autonomie e libertà e Ncd. Voto contrario di Sel, del M5S e dei grillini fuoriusciti mentre il forzista Augusto Minzolini non ha ubbidito al suo partito e si è dissociato, astenendosi, con una motivazione ineccepibile: «Ma come? Abbiamo votato l’immunità prima di sapere se il nuovo Senato sarà elettivo o no». La maggioranza trasversale per l’immunità è stata schiacciante e di fatto ha sbloccato uno dei nodi della riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione (federalismo) che, a questo punto, dovrebbe arrivare in aula al Senato il 9 o il 10 luglio, «ove concluso l’iter in commissione», per la prima delle quattro letture previste dall’articolo 138 della Carta. 
Il governo sul punto ha cambiato idea. Dal testo originario Renzi-Boschi, quello del Senato con i 108 sindaci dei capoluoghi, l’immunità era sparita. Cancellata per i senatori e mantenuta per i deputati. Poi è cambiato qualcosa, forse le pressioni di Ncd e Forza Italia hanno avuto un ruolo determinante, e così il ministro Maria Elena Boschi (Riforme) ha dato parere favorevole all’emendamento dei relatori Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli che, sopprimendo l’articolo 6 del testo governativo, di fatto ha ripristinato nella sua pienezza l’articolo 68 anche per i senatori. Il ministro ha motivato il cambio di rotta con la presa d’atto del dibattito sviluppatosi tra i costituzionalisti e in commissione, alla luce delle funzioni più pesanti di cui è stato investito il Senato con il testo dei relatori: «Si è formata una maggioranza molto ampia, anche Forza Italia e Lega hanno votato a favore». Bisognerà però vedere cosa succederà in aula. 
La minoranza del Pd guidata da Vannino Chiti, estromessa dalla commissione dopo la sostituzione di Corradino Mineo, ha annunciato che in aula ripresenterà gli emendamenti per eliminare il II e il III comma dell’ articolo 68 (autorizzazioni per arresto, perquisizioni e intercettazioni) per lasciare solo l’insindacabilità. Comunque, ragiona Felice Casson (Pd), «se proprio si vuole lasciare l’immunità, che a decidere sia la Corte costituzionale. Fermo restando che alla Consulta arriverebbero solo i casi in cui le Camere esprimono un diniego sulla richiesta del giudice». 
Ma anche Scelta civica non è convinta dell’immunità piena. Alessandro Maran ha votato sì in commissione ma Linda Lanzillotta ha detto di essere contraria allo scudo per i non eletti perché «coprirà anche gli atti compiuti dai senatori in qualità di consiglieri regionali». La soluzione, insiste la vicepresidente del Senato, «è quella della revoca in caso di arresto». Patrizia Bisinella della Lega, attaccata dai grillini, giustifica così il sì del Carroccio: «Solo la Lega aveva proposto l’abolizione integrale dell’immunità per deputati e senatori». Ma poi non è andata così e, per usare la parole del senatore Francesco Russo (Pd), «è stato fatto molto rumore per nulla». 


l’Unità 2.7.14
C’è un altro modo per riformare il Senato
di Carlo Smuraglia

Presidente Nazionale Anpi

IN QUESTA SETTIMANA DOVREBBE COMINCIARE LA DISCUSSIONE SULTESTOESUGLI EMENDAMENTI DELLA RIFORMA DEL SENATO.MI PIACEREBBECHE SI TRATTASSE di una discussione serena, approfondita e libera, come richiesto dalla delicatezza della materia (costituzionale). Ma non so se sarà così. È sempre lecito sperare, tuttavia, che non tanto e solo prevalga il buon senso, quanto che venga riconosciuta quell’esigenza di rispetto dei valori costituzionali e di attenta considerazione della delicatezza della posta in gioco, su cui mi sono già più volte soffermato.
In realtà, a forza di incontri, sembrano essere stati concordati aggiustamenti che, tuttavia, non mutano la sostanza e non rendono accettabile la riforma del Senato così come proposta.
Noi continuiamo a ritenere che ci siano alcuni aspetti fondamentali, da cui non è consentito allontanarsi: l’opportunità (la necessità) di differenziare il lavoro delle due Camere; l’esigenza di mantenere comunque un valido sistema bicamerale, rinnovato, ma sempre con due Camere che hanno uguale prestigio; l’esigenza di risolvere, prima di tutto, alcuni problemi fondamentali: la necessità di mantenere al Senato il connotato di autorevolezza di una Camera elettiva; la necessità di attribuire al Senato alcune funzioni fondamentali (a titolo esemplificativo, la partecipazione effettiva alla formazione delle leggi in materia costituzionale ed elettorale, in tema di trattati e rapporti internazionali, in tema di principi generali in materia di autonomie ed in tema di diritti fondamentali); l’utilità di individuare i modi più opportuni per assicurare la presenza della voce delle autonomie nonché quella di specifiche competenze, culturali e scientifiche; l’attribuzione al Senato di seri e severi poteri di controllo sull’esecutivo, sull’amministrazione pubblica e sulla concreta applicazione ed efficacia delle leggi approvate.
Se si realizzassero questi obiettivi, come più volte abbiamo detto, si otterrebbe il risultato di eliminare il «bicameralismo perfetto » (se non altro per l’attribuzione alla Camera della parte più rilevante del potere legislativo e per l’attribuzione alla sola Camera del voto di fiducia); e nel contempo si terrebbe fermo quel sistema di garanzie, di pesi e contrappesi che, con intelligenza e sensibilità costituzionale, fu costruito dal legislatore costituente e che deve essere mantenuto.
Se poi si procedesse all’unificazione di alcuni servizi delle due Camere e alla equa diminuzione del numero dei parlamentari, sia della Camera che del Senato, si avrebbe una soluzione complessivamente ragionevole, comprensibile per i cittadini e fedele, nello spirito, alla Costituzione, alla nostra tradizione ed alle esperienze realizzate in questo dopoguerra.
Capisco che una soluzione come quella che ho prospettato (a prescindere dagli aspetti particolari, sui quali è giusto che si intrattenga il Parlamento) può sembrare troppo razionale per i tempi che corrono. Ma forse, con un po’ di buona volontà, si potrebbe riuscire a capire che in materia costituzionale servono le modifiche, ma non gli spericolati azzardi.
È per questo che mi rivolgo soprattutto ai Senatori, perché riflettano bene su quello che fanno e faranno, rendendosi conto che l’art. 67 della Costituzione è stato scritto per renderli liberi e che questa libertà costituisce la ragione stessa per la quale si è stati eletti e la ragione per cui (art. 54 della Costituzione) bisogna agire - nell’esercizio della funzione - con «disciplina e onore».
Si dice che avendo l’Europa permesso un’apertura verso la flessibilità, adesso bisogna meritarla facendo «le riforme». Ma davvero c’è chi pensa che l’Europa sia particolarmente interessata alla riforma del Senato? Io penso di no e credo, anzi, che gliene importi (e forse ne sappia, addirittura) ben poco. In Europa ci sono diversi Paesi che hanno apportato modifiche al loro sistema parlamentare e questo è avvenuto nel disinteresse generale degli altri Paesi, che lo hanno (giustamente) ritenuto un problema interno. Per lo più, comunque, è stato confermato un sistema di bicameralismo “differenziato” nelle funzioni; ed anche di questo non si è accorto né entusiasmato nessuno.
Ci sono studi e processi di revisione sulle istituzioni parlamentari, in corso, in Belgio, Irlanda, Spagna e Regno Unito. Ma nessuno, in Europa, è apparso interessato a questi processi, e tanto meno li si è collegati alla tematica del rigore, dell’austerità e della flessibilità.
Più in generale, è ovvio che il Paese che volesse dare buona prova di sé, per ottenere qualcosa sul piano di una maggiore elasticità delle regole economiche e finanziarie, dovrebbe dimostrare di avere modificato la sua burocrazia, i suoi livelli di corruzione, la presenza della criminalità organizzata e di avere in corso piani concreti di rilancio delle attività produttive, del lavoro, dei consumi.
Un imprenditore che fosse interessato ad investire in Italia non chiederebbe, penso, se abbiamo o meno il bicameralismo perfetto, ma domanderebbe meno vincoli burocratici, meno lungaggini, meno balzelli, più sicurezza nei confronti della mafia e meno concorrenza sleale fondata sulla corruzione e sui comportamenti di coloro che non rispettano le regole.
Dovremmo, dunque, rassicurare l’Europa su questi piani e su questi punti essenziali, piuttosto che pensare ad una riforma istituzionale, che può essere utile ma non così urgente quanto l’abbattimento del deficit, la crescita, il rilancio dell’economia, la creazione di nuovi posti di lavoro. Se davvero l’Europa si convincerà e adotterà comportamenti concreti di maggior elasticità, avrà il diritto di chiederci di dimostrare di aver rassicurato i potenziali investitori e di aver dato reali speranze (se non addirittura certezze) ai milioni di giovani in cerca di lavoro.
Su questi aspetti, bisogna dire la verità e parlare chiaro, spiegando bene ai cittadini di che cosa si tratta; a meno che si voglia sostenere che togliendo di mezzo lo scoglio del Senato, si assicurerà la governabilità e questo rassicurerà i Paesi che ci guardano ancora con sospetto, come (nonostante tutto) la Germania. Ma allora bisognerebbe ricordarsi che intanto, per avere la Camera dei deputati in mano, bisogna vincere (e c’è ancora da risolvere il problema di una legge elettorale avversata da molti) e in secondo luogo che la «stabilità» politica non è tutto, perché c’è sempre il problema degli assetti e degli equilibri fra gli organi istituzionali, e prima ancora c’è il problema della rappresentanza, che deve essere garantita ai cittadini e non imposta nelle forme preferite da chi vuole governare indisturbato. Insomma, consiglierei a tutti la formula di manzoniana memoria («adelante, Pedro, con juicio») e poi di far prima di tutto scelte e assumere decisioni che vadano nella direzione dell’equità sociale, dell’uguaglianza e della libertà (anche dal bisogno).

il Fatto 2.7.14
Il caso Orlando
Quei cazziatoni al “moscio” Guardasigilli
di FD’E


L’ostensione di Andrea Orlando e Angelino a mo’ di valletti, l’altro giorno in conferenza stampa a Palazzo Chigi, è l’ennesima conferma che Matteo Renzi tratta i suoi ministri come assessori qualunque, come se non fosse un governo ma una giunta comunale. Il sindaco d’Italia, appunto. Un sindaco-premier che non tollera altri protagonisti splendenti ma solo comprimari ubbidienti.
Quello che è accaduto sulla giustizia è un esempio magistrale del renzismo che non vuole ombre altrui. Il balletto sulla riforma, anzi no sulle linee-guida, anzi no sulla consultazione popolare estiva (sulle spiagge già si registrano capannelli di bagnanti che discutono i dodici punti dell’imbarazzante compitino presentato lunedì), avrebbe generato almeno due veementi cazziatoni di Renzi al Guardasigilli Orlando. Il primo la settimana scorsa, quando Repubblica (il quotidiano più renziano d’Italia a eccezione dell’enclave Scalfari-Giannini) ha pensato di fare uno scoop anticipando pezzi di una riforma che non c’era e non c’è. Rivelano fonti di governo che il premier avrebbe rimproverato con durezza Orlando: “Andrea queste cose le devo gestire io, che non succeda mai più”. Orlando, mortificato, avrebbe provato a difendersi: “Matteo ma io non ne sapevo nulla”. Il ministro della Giustizia, raccontano ancora, non ha fatto in tempo a concludere la frase che il premier aveva già chiuso la conversazione. La scena si è ripetuta ieri mattina, nel day after dei dodici pensierini di lunedì. Orlando avrebbe voluto commentare alcuni editoriali negativi dei quotidiani e la risposta di “Matteo” è stato liquidatoria: “Non preoccuparti, ci penso io”. Clic. Poi rivolto a un deputato amico, Renzi avrebbe sentenziato, secondo l’Huffington Post: “Quanto è moscio questo”.
È IL “CI PENSO IO” di berlusconiana memoria che Renzi applica soprattutto nel campo della comunicazione. L’agenda setting, la scelta della notizia dominante del giorno, tipica della visione blairiana di Filippo Sensi, lo spin doctor del premier, è un’esclusiva di Palazzo Chigi. E guai a chi devia il corso del marketing renziano, come è capitato appunto, a torto o a ragione, al ministro Orlando. Di qui anche il fastidio per l’intervista di Delrio dell’altro giorno al Corsera. Per i temi trattati, anche delicati e scivolosi, avrebbe dovuto sollevare decine di commenti, invece l’ordine di scuderia è stato: “Non cavalcate l’intervista”. E ieri, poi, è arrivata la smentita sugli eurobond del ministro all’Economia Padoan, con un’altra intervista, stavolta al confindustriale Sole 24 Ore.
Renzi, soprattutto dopo il 40 per cento europeo, vuole brillare da solo. E il suo volto diventa feroce quando qualcosa non va per il verso giusto. Un altro aneddoto significativo riguarda la botticelliana Marianna Madia, destinataria di una battuta sul tormentone giallo del decretone sulla Pubblica amministrazione. A un certo punto, nel Consiglio dei ministri in cui si discuteva della materia, “Matteo” si è girato verso “Marianna” e le ha ordinato: “Che ci fai ancora qui, vatti a preparare che devi andare a Otto e mezzo”. C’è tutto Renzi, e c’è tutto il renzismo nella direttiva alla Madia. Viene in mente una bella e cruda lettera pubblicata da Michele De Lucia nel suo Berluschino, la biografia politica di Renzi. A scriverla un assessore dimissionario della giunta di Firenze: “Caro Matteo tratti i tuoi assessori come servitori e non riusciamo a parlarti se non per alcuni secondi tra una cosa e l’altra”.
ORLANDO, Delrio, Madia: o ministri maltrattati, o ministri servitori. E due a cui il premier non è ancora riuscito a prendere le misure sono Maurizio Lupi di Ncd e il bersaniano Maurizio Martina. Entrambi si occupano dell’Expo di Milano e questo sta mettendo molto in ansia, ma davvero molto, Palazzo Chigi. Se Lupi avesse optato per il seggio europeo, lasciando le Infrastrutture, Renzi avrebbe sparato i fuochi d’artificio per la gioia. Ma non è successo. Anche su Martina le riserve sono forti, per il timore che i lavori non finiscano in tempo. Nel Pd, dai giorni gloriosi del maggio europeo, circola una battuta che paragona Renzi a Maradona. “Finora non ce l’avevamo, adesso sì”. Con la differenza, però, che Diego, dall’alto del suo talento pedatorio, non cazziò mai un compagno di squadra del Napoli. E gli azzurri vinsero lo scudetto per la prima volta. Qualcosa vorrà dire.

Corriere 2.7.14
Orlando: io doroteo? Con Renzi nessuna frizione
Il Guardasigilli e le battute del premier: sono moderato, non certo immobilista
Monica Guerzoni


ROMA - «Doroteo io? Dal punto di vista culturale mi sento sideralmente lontano...». Andrea Orlando non si è offeso per quell’aggettivo che il premier gli ha cucito addosso e che sa tanto di naftalina. Non ci ha visto, giura, «alcuna nota polemica». E approfitta del piccolo caso sollevato dalle punzecchiature di Matteo Renzi per smentire attriti con il capo del governo e spiegare il suo metodo di lavoro: «Non sono un teorico del conflitto a prescindere. Ho cercato l’interlocuzione con tutti, andando dai magistrati e dagli avvocati... Sono convinto che il gradualismo sia una componente importante del riformismo e che, se hai idee forti, non devi sottrarti al confronto». 
Chissà se la pensa così anche il presidente del Consiglio, il quale lunedì, durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi, sembrava aver preso di mira il suo Guardasigilli. «Questa è la rivoluzione orlandiana - ha esordito Renzi davanti ai giornalisti -. È la via dell’Orlando, non furioso ma pacifico, con il suo stile quasi doroteo... La rivoluzione dell’Orlando doroteo». Il ministro ha sorriso, senza lasciar trapelare la sua reazione per l’accostamento indiretto a vecchie «glorie» della Prima Repubblica: ai vari Rumor, Colombo, Piccoli, Gava e gli altri democristiani che, nell’anno domini 1959, fondarono la corrente moderata della già moderatissima Balena Bianca. «Se doroteismo è sinonimo di immobilismo, ovviamente non mi riconosco in questa espressione» argomenta con pazienza il Guardasigilli, bene attento a non alimentare retropensieri e strumentalizzazioni: «Se invece doroteo è sinonimo di moderazione, confesso che i temi e la fase in alcuni momenti la consigliano. Tra l’altro si tratta di una virtù che ho sviluppato con l’età... È il momento di fare riforme significative e la mediazione fine a se stessa non è quello che serve». Nel Pd c’è chi ha letto nella battuta del premier una punta (o più) di fastidio per l’atteggiamento assai prudente dell’inquilino di via Arenula verso la magistratura. Eppure lui assicura che no, la sintonia con Matteo è intensa e la riforma è nata da una pedalata in tandem. 
«Da ragazzino - racconta Orlando - ero nella destra del Pci, quindi non sono mai stato un rivoluzionario. Però sono d’accordo con Renzi sul fatto che questo Paese abbia bisogno di alcune scosse». Tra i renziani qualcuno dubita che Orlando abbia l’aggressività necessaria per assestare alle toghe la scossa promessa da Renzi, eppure il Guardasigilli sente di godere della piena stima del leader. Incomprensioni? Tensioni con il premier? «Nulla di tutto questo, stiamo lavorando assieme proficuamente». Palazzo Chigi conferma. Niente attriti con Orlando, né di merito né di metodo. E se il Guardasigilli si è prodotto in qualche «sforzo di mediazione in più», è stato solo per un «rispettoso gioco delle parti». 
La battuta sulle correnti «ininfluenti» del Pd? Non era, a sentire lo staff di Orlando, diretta verso i «Giovani turchi» di cui il ministro è un elemento di punta. Tanto che Orlando, per nulla preoccupato, si diverte ad accostare i turchi dem ai dorotei diccì: «Noi, come loro, non abbiamo un leader unico, ma gruppi dirigenti collegiali». E una goccia d’acqua sul fuoco la getta anche Matteo Orfini, turco anch’egli e presidente del Pd: «Andrea doroteo? Io dico di no. Punto». 
Il video della conferenza stampa conferma che Orlando ha tenuto botta col sorriso sulle labbra fino a quando Renzi, sul finale, ha fatto quell’accenno alle intercettazioni, prendendo ancora una volta in prestito il suo nome: «Se io ho il fondato sospetto che Andrea Orlando stia commettendo un reato...». A questo punto il Guardasigilli ha posato la mano sinistra sul braccio destro di Renzi, con l’evidente intenzione di stopparlo: «Cambiamo esempio?». Il premier - che poco prima lo aveva paragonato, sempre scherzando, al procuratore di La Spezia scusandosi con quest’ultimo - ha sì cambiato esempio e però si è concesso un’ultima battuta: «Finché facevi il giudice andava bene, eh?». Un altro ci sarebbe rimasto male, ma Orlando no. Lui nelle battute del premier non ha letto freddezza o disistima, tutt’altro: «Renzi lo ha fatto per sdrammatizzare un tema su cui si sono concentrate tensioni enormi». 
Il caso è chiuso. Anzi, in via Arenula assicurano che non si è mai aperto. E quelle voci che si rincorrono nel Pd? È vero che il Guardasigilli starebbe meditando su un futuro politico fuori dal governo? Possibile che pensi di candidarsi alle prossime regionali? Orlando il moderato sorride e smentisce: «Davvero non vedo perché dovrei cercare vie di fuga. Sono concentrato sugli obiettivi della riforma e determinato ad arrivare in fondo» . 


il Fatto 2.7.14
Patto del Nazareno Domani il bis con Berlusconi


DOMANI è il giorno cerchiato sul calendario per serrare gli spifferi del patto del Nazareno, provare a dare la stretta definitiva sulle riforme costituzionali e poi dare il via ai voti sugli ultimi emendamenti in Commissione, in modo da arrivare in Aula di Palazzo Madama il 9 o il 10 luglio, come dichiarava ieri il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi.
Domani Berlusconi va al gruppo dei senatori di Forza Italia. E domani Matteo Renzi dovrebbe incontrarlo. L’appuntamento in programma con i senatori però ancora non ufficializzato.
L’idea che Berlusconi possa disertare l’incontro però non sembra possibile anche perchè il suo intervento è necessario per riportare la calma dentro il gruppo dei senatori e, contemporaneamente , mandare un messaggio chiaro a palazzo Chigi: Forza Italia ha intenzione di portare a termine le riforme su cui si è impegnata ma, allo stesso modo, il Pd non deve venire meno agli accordi. Ed il primo punto su cui il Cavaliere ha intenzione di incalzare il presidente del Consiglio è l’avvio della discussione sull'Italicum così come è stato licenziato dalla Camera.

il Fatto 2.7.14
Matteo Renzi balla da solo
CDM sempre più brevi, segreterie del Pd riunite su whatsapp (e non più all’alba), Nomine decise davanti a una pizza. Tratta il governo come un consiglio comunale
di Wanda Marra


Non lo so”, “decide Matteo”, “il Presidente non l’abbiamo visto”: capita spesso di provare a informarsi su provvedimenti di Palazzo Chigi, o sulle mosse prossime venture del governo e del Pd e di sentirsi rispondere così. In genere non è reticenza: è che proprio Renzi “balla da solo”, per usare la metafora di un dirigente Dem. E dunque, tende a fare tutto lui, delega il meno possibile, vuole l’ultima parola su qualsiasi cosa, non si fida praticamente di nessuno.
LUNEDÌ ha incontrato a ora di pranzo Andrea Orlando, il Guardasigilli che aveva pronti una serie di provvedimenti, e gli ha chiarito non solo che la riforma della giustizia era rimandata, ma che poi nel merito avrebbe deciso lui. Per chiudere la bozza d’entrata in Cdm del provvedimento sulla Pa, il ministro Madia ha dovuto aspettare che lui tornasse dal Vietnam . E fino a quando Napolitano non ha firmato i decreti, i diretti responsabili non sapevano neanche cosa ci sarebbe stato esattamente nella loro riforma. “Renzi ha leadership ed è giusto che i ministri intorno a lui non siano figure forti. Potrebbero essere solo elementi di disturbo”, commentava qualche corrispondente straniero il giorno del giuramento. Uno spunto che Renzi segue alla lettera. “Maria Elena, hai le slide? Ah, ma queste sono slide da secchiona” . Così prendeva in giro la Boschi durante la conferenza stampa di presentazione della riforma del Senato. “Poi Marianna domani vi spiega tutto”, diceva nel Cdm dedicato alla Pa. Quel domani non è mai arrivato. I Cdm sono brevissimi e neanche troppo tesi: c’è poco da discutere. Renzi i ministri competenti li vede prima, sente cosa hanno da dire, poi decide lui. “Non è vero che Matteo non ascolta: ascolta tutti. Magari per pochissimo. Poi sintetizza”, raccontano.
Il “Presidente” vuole avere l’ultima parola anche “tecnica” sulle leggi. Ecco l’imbuto, l’ingorgo. E le incomprensioni: capita che chi lavora con lui neanche sappia esattamente i contenuti dei testi. Gli unici a cui delega-sono quelli del “Giglio magico”: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luca Lotti gestisce le trattative per suo conto, magari ci mette la faccia, quando il premier preferisce evitare. La Boschi è la punta di diamante alle riforme: lei ha il mandato, lui ratifica ogni cosa. Il direttore del Dagl, Antonella Manzione, è quella che deve tradurre in legge le volontà del premier. Graziano Delrio, Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, diverso per carattere ed esperienza dai fiorentini ha avuto un ruolo centrale politico nel portare il premier alla guida del governo, ma ora preferisce dedicarsi a gestire una serie di partite amministrative centrali (tipo Alitalia). Molti lo vedono pronto per il Colle. Chiunque ha una certa autonomia fa fatica a sopravvivere accanto a Renzi. A Palazzo Chigi il premier non ha neanche una segretaria: si appoggia alla struttura, per molte cose fa da solo.
AL PARTITO, viceversa, Renzi è quasi assente. La segreteria praticamente non esiste. Da quando è diventato premier, la metà si è trasferita con lui al governo (Boschi, Lotti, Madia). Matteo ha nominato due vice segretari, Guerini e Serracchiani. Soprattutto al primo delega ogni pratica complicata e diplomatica. Perché poi il segretario è il lavoro che gli interessa di meno. Tutti gli altri sono sostanzialmente lasciati a loro stessi. Finiti i tempi delle riunioni all’alba. Anzi, le riunioni non si fanno neanche più. “Ma siamo perennemente convocati su Whatsapp”, raccontano loro. Sono mesi che si aspettano nuove nomine per la segreteria. Sempre rimandate perché lui “non ci ha messo la testa”. Quando poi ce la mette, fa quello che vuole: il giorno della chiusura delle liste per le europee, alle 2 di notte, ha mandato sms alle 5 prescelte per comunicare che sarebbero diventate capoliste, azzerando in un istante settimane di trattative. Lacrime delle ragazze, strepiti degli esclusi. La sera prima dell’Assemblea nazionale del Pd ha mangiato una pizza con i fedelissimi e ha ratificato una decisione che aveva preso da settimane: il presidente sarebbe stato Matteo Orfini. Il 17 giugno in un vertice a Palazzo Chigi con governo e Pd ha praticamente scritto l’ultima versione della riforma del Senato, immunità compresa. L’uomo è così: non propone, ma dispone. E se qualcuno prova a contrastarlo c’è lì quel 40,8%. I voti, tipo memento mori. Accentrava quando era presidente della Provincia di Firenze, lo faceva da Sindaco, continua da premier. Il problema, che molti cominciano a notare, è che più il perimetro dell’azione è largo e l’imbuto è stretto, più rischia di strozzarsi.

Il Fatto 2.7.14
La lettera
Scudo sbagliato, diciamo no
di Lucrezia Ricchiuti

senatrice Pd

Carissimi Renzi e Boschi, come sapete e giustamente non vi stancate di affermare tutti i giorni, all’Italia occorre cambiare verso, rottamando vecchie prassi economiche e costumi etici e promuovendo un deciso cambio generazionale. Tutto ciò ci consentirebbe di voltar pagina anche su corruzione e malaffare. Quel rapporto si ruppe plasticamente 22 anni fa, quando Bettino Craxi si alzò nell’emiciclo della Camera e chiamò tutti in correità, sostenendo che se lui era corrotto, erano corrotti tutti e che nessuno, in Parlamento e nella società, poteva chiamarsi fuori.
Era il luglio 1992. Nell’aprile 1993, a voto segreto, fu negata l’autorizzazione a procedere che la procura di Milano avanzò nei confronti di Craxi. Da allora - sebbene siano cambiati alcuni importanti aspetti tecnici dell’immunità parlamentare - c’è un filo rosso concettuale che corre fino a noi, passando per i dinieghi nei riguardi di Previti, Dell’Utri, Cosentino e Milanese; lungo questi anni passa un senso di amarezza dei cittadini verso una casta che spesso si protegge dalla legge, a prescindere da un rigoroso esame dei fatti. Con questo atteggiamento si tradisce il senso nobile delle immunità. Temo che nell’emendamento dei relatori riemerga quel tratto di conservazione di ceto che non comprendo e che moltissimi cittadini credo non capirebbero, specie in tempi di Expo e Mose.

Repubblica 2.7.14
L’amaca
di Michele Serra


SUL piano della teoria l'immunità parlamentare non fa una grinza. Difende l'agibilità politica di chi dissente anche radicalmente (fino ai limiti dell'illegalità), protegge l'eletto dal popolo, e dunque la volontà popolare, da eventuali intimidazioni giudiziarie (ci sono querele che valgono come una pistola puntata), insomma assicura alla politica un esercizio più libero e sereno delle proprie funzioni. L'immunità parlamentare è democratica.
Il problema è che di quella tutela molti politici hanno fatto un uso protervo e soprattutto non politico, ma personale, usando l'immunità come scudo per crimini economici, connivenze con la malavita e porcherie assortite; fino a renderla impopolare e odiosa; fino a farne sinonimo di privilegio e di impunità (un cambio di consonante che fa la differenza). Per giunta, e questo è un guaio ulteriore, è molto difficile intendere i deputati e i senatori delle ultime legislature come “eletti dal popolo”, essendo in larga misura nominati dalle varie leadership di partito. Circostanza che rende ben più fragile la loro autorità. Ne discende, a conti fatti, che la nemica più accanita dell'immunità parlamentare è stata fin qui la politica; a conferma che quando dei diritti si fa un pessimo uso, restituire valore a quei diritti diventa molto complicato.

l’Unità 2.7.14
Lavoro, è sprofondo rosa: boom di donne disoccupate
Le italiane senza lavoro sono quasi il 14%: è dai primi anni 2000 che non si registrava un tasso così alto
Camusso: «Senza politiche che creino posti è difficile pensare di ridurre la disoccupazione»


Attestata nel nostro Paese su livelli record ormai da mesi, la disoccupazione non accenna minimamente ad un’inversione di tendenza. Anzi, come certificato dai dati diffusi ieri, il costo della vita ritorna persino a salire, un andamento che per Susanna Camusso dimostra «come in assenza di politiche per la creazione di lavoro è difficile pensare che la disoccupazione si riduca». Ed un’ulteriore brutta notizia sta nell’incremento del numero di donne prive di un posto di lavoro, un dato in netta controtendenza rispetto a quello maschile, tanto da attestarsi nel mese di maggio su livelli da primato.
Dunque, il tasso di disoccupazione a maggio è lievemente cresciuto, attestandosi sul 12,6% (12,5% in aprile), con un incremento dello 0,1% su mese e dello 0,5% su anno. In questo modo l’indice è tornato ai livelli di marzo, vicino ai massimi storici del 12,7% registrati sia a gennaio che a febbraio. Numeri diffusi dall’Istat che ha quantificato in 3.222.000 il numero dei disoccupati, in aumento dello 0,8% su mese (pari a 26mila in più) e del 4,1% su base annua (in crescita di 127mila unità). Nel dettaglio, i disoccupati tra i 15-24enni sono 700mila: l’incidenza dei giovani senza lavoro sul totale dei cittadini della stessa classe di età (compresa la maggioranza che è ancora impegnata negli studi) è pari all’11,7%, cioè più di uno su dieci non svolge alcun mestiere, in crescita di 0,2% su mese e di 1,1% su anno. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi, occupati e non, è invece pari al 43%, in calo di 0,3% su mese Ma in aumento del 4,2% su anno. Ed ancora, a maggio gli occupati risultano essere 22.360.000 (+0,2% su mese pari a +52mila, -0,3% su anno pari a -51mila). Il tasso di occupazione è al 55,5%, in crescita dello 0,1% su mese e in calo dello 0,1% su anno.
Continuando ad esaminare i numeri forniti dall’Istituto nazionale di statistica, si nota come il numero di inattivi tra i 15 e i 64 anni è in calo dello 0,5% rispetto al mese precedente, e dell’1%nel paragone con un anno prima. Il tasso di inattività è così attestato al 36,3%, in calo di 0,2 punti percentuali su mese e di 0,3 punti su base annua. A maggio, poi, la disoccupazione cala per la componente maschile dell’1,6% ma cresce per quella femminile addirittura del 3,8%; su anno il numero dei disoccupati cresce sia per gli uomini, +2,2%, sia per le donne, +6,3%. Continuando a ragionare per genere, il tasso di disoccupazione maschile si attesta all’11,7%, in calo di 0,2 punti su mese e in aumento dello 0,2 punti su anno; di contro, quello femminile è pari al 13,8%, in crescita di 0,5 punti su mese e di 0,8 punti su base annua. In quest’ultimo caso si tratta dell’indice più alto dall’inizio delle serie storiche risalente al 2004 e, considerando i dati trimestrali destagionalizzati, dal secondo trimestre 2000.
DIFFERENZE RILEVANTI
Del resto, la differenza fra uomini e donne in tema di opportunità lavorative emerge pure da ulteriori dati. Infatti, l’inattività, sempre a maggio, diminuisce dello 0,8% fra gli uomini e solo dello 0,3% fra le donne; in calo anche a livello tendenziale dell’1,8% fra gli uomini e dello 0,6% fra le donne. I giovani inattivi sono invece 4.355.000, in calo dello 0,9% su mese, pari a 40mila in meno, e dello 0,6% su base annua, ossia 28mila in meno. Il tasso di inattività dei giovani tra 15 e 24 anni si attesta così al 72,8%, in calo dello 0,6 punti su mese e stabile su base annua. L’occupazione, sempre a maggio, è aumentata dello 0,6% fra gli uomini ma è calata dello 0,3% fra le donne, ed anche su base annua l’occupazione registra un incremento dello 0,3% fra gli uomini e diminuisce dell’1% fra le donne. Netta la differenza fra i sessi in relazione al tasso di occupazione maschile, che è al 64,8% (+0,3 punti su mese, +0,2 punti su anno) mentre quello femminile è ancorato al 46,3% (-0,2 punti su mese, +0,3 punti su anno). Infine, a maggio nella fascia dei giovani tra i 15 e i 24 anni gli occupati sono 928mila, in aumento del 2,7% rispetto ad aprile, pari a 24mila in più, ma in calo del 7,7% su base annua, cioè 77mila in meno. Il tasso di occupazione giovanile è così fissato al 15,5% (+0,4 punti su mese, -1,2 punti su anno).
Per il segretario generale della Cgil, come detto, per invertire il trend sulla disoccupazione bisogna investire nel lavoro. «È evidente che le difficoltà del Paese continuano ad esserci - ha dichiarato Susanna Camusso a margine di un seminario al Cnel - e siccome non sono state fatte politiche per la creazione di lavoro è difficile pensare che la disoccupazione si riduca ». Per la leader della Cgil «o si investe direttamente nella creazione di lavoro e si inverte la tendenza, o saremo costretti a registrare mese dopo mese un peggioramento della disoccupazione ». Secondo Camusso va quindi ripensato «il modello di sviluppo e di coesione sociale. La crescita non può essere solo legata all’export di beni».
54 mila occupati in più tra gli uomini, 29 mila in meno per le donne. I dati Istat sull’occupazione a maggio si prestano a una doppia lettura. Se si vede finalmente un piccolo segno più - salutato con soddisfazione dal ministro Poletti - desta allarme la nuova flessione del lavoro femminile.

il Fatto 2.7.14
Disoccupazione ancora s.u Record tra le donne


L'ITALIA INIZIA il semestre di presidente dell'Unione europea con l'ennesimo dato negativo. Dopo l'allarme lanciato ieri dall'Istat con il rischio di un ritorno della recessione già a fine giugno, ieri è arrivato anche il pesante dato sul tasso di disoccupazione, che a maggio è tornato a salire al 12,6%. A comunicarlo è l'Istat, nel consueto bollettino sui dati provvisori. I ricercatori dell’Istituto di statistica segnalano un aumento dello 0,1 rispetto ad aprile (rivisto al 12,5%) e di 0,5 punti nei dodici mesi. Unico aspetto positivo: rispetto al massimo storico del 12,7% di gennaio e febbraio, l’Istat intravede un "leggero miglioramento". Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è stabile al 43%: in calo di 0,3 punti percentuali su aprile, ma in crescita di 4,2 punti sull'anno. Il dato, in termini assoluti è lapidario: i disoccupati sono 3 milioni e 222 mila, 127 mila in più rispetto allo stesso mese del 2013 (+4,1%). A soffrire sono soprattutto le donne, con un tasso che tocca il 13,8%, ai massimi dal 2004, quando iniziarono le rilevazioni. La disoccupazione nell'Eurozona è invece rimasta stabile all'11,6% rispetto al mese precedente. Nei 28 ha visto un lieve calo al 10,3% dal 10,4% di aprile.

Corriere 2.7.14
Disoccupazione femminile a livelli record
A maggio il tasso sale al 12,6%, per le donne mai così alto dal 2004 (13,8%)
di Stefania Tamburello


ROMA - In maggio il numero dei disoccupati ha raggiunto i 3 milioni e 222 mila, 26 mila in più di aprile e 127 mila in più di maggio 2013. Sono queste le cifre che fotografano la situazione lavorativa italiana e che confermano la sostanziale frenata della caduta dell’occupazione provocata dalla crisi. Il tasso di disoccupazione, pari al 12,6%, è si tornato ad aumentare, dello 0,1% in termini congiunturali, ma è rimasto al di sotto del picco registrato in gennaio-febbraio. Senza contare che sempre lievemente si è ridotto il tasso di disoccupazione dei giovani che resta comunque al 43%. Sale invece, in controtendenza, raggiungendo il record storico, il tasso di disoccupazione femminile che tocca il 13,8% con 1.487 donne senza lavoro (gli uomini sono 1 milione 735). «Il lieve incremento del tasso generale di disoccupazione è dovuto alla componente femminile», spiegano i tecnici dell’Istituto di statistica. 
La situazione lavorativa delle donne condiziona dunque in negativo il quadro complessivo. E ciò anche se si guarda ai miglioramenti sul numero degli occupati, che in maggio sono stati 52 mila in più, toccando i 22 milioni 360 mila. Un dato quest’ultimo che, secondo il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, costituisce «una buona notizia» da non trascurare. L’ aumento complessivo, spiega in una nota il ministro, «è dovuto ad una crescita dell’occupazione di 80.000 unità tra gli uomini e, purtroppo, ad un calo di 28.000 tra le donne. Aumenta di 26.000 unità, ed è un’apparente contraddizione, il numero dei disoccupati come saldo tra 54.000 unità in più per le donne e 29.000 in meno per gli uomini. Il dato è evidentemente legato al fatto che «sta crescendo il numero delle persone che tornano a cercare lavoro». E può essere un primo indizio del fatto che «si guarda con maggiore fiducia alla possibilità di trovare un’occupazione». Per quanto riguarda i disoccupati «diminuisce, pur restando a livelli inaccettabilmente alti, il tasso della disoccupazione giovanile: dal 43,3 al 43%». La situazione complessiva dell’occupazione nel Paese - conclude quindi il ministro - «resta, ovviamente, difficile, in linea con una fase di transizione tuttora in corso. Non sarebbe corretto, però, non cogliere i segnali positivi che si registrano e che confidiamo possano consolidarsi nei prossimi mesi». In linea con quella di Poletti è la lettura dei dati Istat data dalla Confcommercio secondo cui i dati sull’andamento del mercato del lavoro nel mese di maggio «lasciano intravedere i primi segnali di assestamento» delle dinamiche dell’occupazione. È «un buon segno» la crescita degli occupati dopo un biennio caratterizzato da una sensibile riduzione delle persone impiegate nel processo produttivo (-724 mila tra gennaio 2012 e dicembre 2013) e nonostante l’ulteriore sviluppo del numero dei disoccupati. Uno sviluppo che è stato però, osserva ancora la Confcommercio, meno accentuato del passato (32 mila dalla fine del 2013, a fronte dei 761 mila registrati tra gennaio 2012 e dicembre 2013), «con una sostanziale stabilizzazione del tasso di disoccupazione attestato da un trimestre al 12,6%». 
«Per invertire il trend sulla disoccupazione bisogna investire nel lavoro», ha tagliato corto il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. 


l’Unità 2.7.14
Chiara Saraceno
«Mancano politiche sociali per sostenere le lavoratrici»


«Da un lato c’è questo dato allarmante - commenta la sociologa Chiara Saraceno -, ennesimo effetto della crisi, con la disoccupazione femminile che torna ad aumentare ben di più di quella maschile. Dall’altro c’è l’evidenza di un problema cronico, per risolvere il quale non può bastare la capacità delle donne, per quanto ammirevole, di organizzarsi, di cercare di conciliare la famiglia con l’attività lavorativa».
Vuole dire che fra vent’anni potremmo essere qui a fare la stessa intervista?
«Il rischio c’è, anche perché la via maestra per risolvere il problema della diversa incidenza della disoccupazione femminile sta nelle politiche sociali. Un argomento, questo, che tornando all’attualità non mi sembra la principale preoccupazione dell’attuale governo».
Che cosa rimprovera all’esecutivo?
«Mi limito a constatare che nell’agenda di Renzi la questione delle politiche sociali e quella dei servizi sono sparite, e questo dopo anni di tagli continui che hanno messo in enorme difficoltà le tante donne che devono dividersi fra casa e lavoro. Guardi, facendo riferimento alle ultime rivelazioni dell’Istat, c’è un dato che sintetizza bene la situazione».
Quale?
«Quello che evidenzia come per la prima volta da molto tempo a questa parte è diminuito il tasso di occupazione delle madri. Dopo anni di una crescita continua, seppur molto lenta, delle donne impegnate in famiglia e al lavoro, rischiamo in pochi mesi di tornare al punto partenza. La spiegazione è molto semplice e sta in quanto ho detto prima. Di fronte ai tagli alle politiche sociali ed al costo eccessivo dei servizi offerti in alternativa dai privati, pensiamo ad esempio al costo degli asili nido, sempre più donne sono costrette a mollare il lavoro per occuparsi ancor più dei figli».
Insomma, questo andamento nettamente divergente dell’occupazione femminile e maschile non la sorprende affatto.
«No, anche se poi i numeri vanno letti con attenzione. Facendolo ci si accorge che le dinamiche del lavoro femminile sono influenzate anche da un fenomeno particolare».
A cosa si riferisce?
«A molte donne che decidono di uscire dal grande gruppo della popolazione inattiva e segnalano la loro necessità di trovare un impiego. Necessità che se non viene soddisfatta finisce con l’ingrossare il dato percentuale relativo alle donne senza lavoro, anche senza una corrispondente perdita di occupazione femminile. Se poi aggiungiamo che quest’ultima c’è, eccome, allora la netta differenza con il mercato del lavoro maschile si spiega molto più facilmente».
In questi mesi si è molto parlato, e si è Anche fatto, intemadipresenzafemminileneipostidielevataresponsabilitàdirigenziale, ad esempio nei consigli di amministrazione delle grandi aziende. Un segnale in controtendenza?
«Fino a un certo punto. O meglio, si tratta di una tematica su cui bisogna evitare di fare confusione. Io giudico senz’altro positivamente il dibattito sulle quote rosa, così come il riequilibrio a favore delle donne nei più importanti organismi decisionali di aziende ed istituzioni. Ma non bisogna però utilizzare questo argomento, che riguarda pur sempre poche posizioni di vertice, per sviare in qualche modo l’attenzione».
Vale a dire?
«Che non ci sono vasi comunicanti. Che per una donna che entra in un grande consiglio di amministrazione, non ci sono migliaia di madri che trovano un posto di lavoro riuscendo a mantenere l’organizzazione della vita familiare senza andare incontro a spese ed orari insostenibili».

l’Unità 2.7.14
Esodati, testo unico oggi alla Camera


Via libera della commissione Lavoro della Camera all’emendamento del governo al testo unico sugli esodati che prevede una sesta salvaguardia per altre 32mila persone, che fanno alzare le posizioni tutelate dallo scoppio della «vergogna» esodati ad un totale di 170mila unità.
La commissione ha poi dato mandato alla relatrice Marialuisa Gnecchi (Pd) di consentire oggi alle 16 l’approdo in aula. L’emendamento del governo è stato in parte modificato. Tra i ritocchi sono state recepite le indicazione dello stesso governo sugli oneri per i l periodo 2017-2018-2019 ed è stato precisato che l’esecutivo riferirà al Parlamento «entro il 30 giugno» di ogni anno. Non è invece stato dichiarato ammissibile l’emendamento che chiedeva di risolvere il problema di pensionamento degli insegnanti, il cosiddetto «quota 96» - i circa quattromila insegnanti che a fine 2011 avevano già raggiunto il diritto alla pensione, bloccati invece da un’errata interpretazione della riforma Fornero - il parere del governo ha portato la maggioranza a proporre una soluzione alternativa. In una nota comune, Marialuisa Gnecchi e Cesare Damiano (Pd), precisano: «Non c’è nessun rifiuto di affrontare il tema di Quota 96 degli insegnanti. La non ammissibilità del tema rispetto all’emendamento alla proposta di legge sugli esodati formulata dal governo è semplicemente dovuta alla normale prassi della estraneità della materia. Del resto, questo tema è già oggetto di una apposita proposta di legge attualmente in discussione e può essere più agevolmente inserito come emendamento nel decreto pubblica amministrazione».
Altre polemiche sono state sollevate dal deputato di Sel, Giorgio Airaudo, che ha accusato il governo di prendere le risorse per «gli esodati dal fondo per l’occupazione e dalla Cassa integrazione in deroga». Anche qui arriva la specifica di Damiano e Gnecchi: «Le risorse aggiuntive, reperite dal Fondo per l’occupazione, verranno restituite nella legge di Stabilità: non esiste nessuna contrapposizione tra esodati e cassintegrati». Giudizi poco soddisfacenti sul provvedimento arrivano dai sindacati. Il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ha osservato: «Poletti all’inizio ha detto in più occasioni che avrebbe trovato una soluzione strutturale e non continuare con le toppe. Dicemmo che aveva ragione perché non si può continuare con l’agonia di queste persone. Ora non ci è chiara la ragione per cui abbia cambiato opinione. È evidente - ha concluso - che di salvaguardia in salvaguardia si continua a perpetrare un’ingiustizia nei confronti dei lavoratori e delle lavoratici».
Sulla stessa lunghezza d’onda la Cisl: «L’emendamento del governo che permette di affrontare le situazioni di maggiore criticità che si sarebbero prodotte con la scadenza delle attuali salvaguardie, fissata originariamente al 6 gennaio 2015, non rappresenta una soluzione strutturale al problema », dichiarato il segretario confederale della Cisl, Maurizio Petriccioli.

l’Unità 2.7.14
La strage degli immigrati
«Morti per colpa loro, l’ha voluto Allah»
Il 3 ottobre a Lampedusa ci furono 366 morti. Ieri arrestati 5 membri della banda, nelle intercettazioni dicevano: «Vanno picchiati, è per il loro bene»


Quella mattina, prima dell’alba, al largo di Lampedusa morirono 366 persone, secondo il bollettino ufficiale. Un’altra ventina, raccontano i migranti sopravvissuti, risulterebbero dispersi perunbilancio che fa di quanto accaduto il 3 ottobre scorso la più grave strage del secolo nelle acque del Mediterraneo. Nove mesi dopo, la polizia ha arrestato quelli che ritiene essere i responsabili dell’organizzazione di quel drammatico viaggio partito dalle coste della Libia. Una organizzazione che, secondo l’accusa, era composto da eritrei, etiopi e sudanesi, in grado di curare tutte le fasi del viaggio dall’Africa in Italia, con cellule in appoggio in diverse regioni italiane che fornivano supporto logistico ai migranti per proseguire la loro odissea verso il nord Europa.
In manette nell’operazione coordinata dalla Dda di Palermo e condotta dalle squadre mobili di Palermo e Agrigento, sono finite cinque persone (Tesfahiweit Woldunato in Eritrea,24 anni e residente ad Agrigento; Samuel Weldemicael, nato a Segheneyti, Eritrea, 26 anni e residente ad Agrigento; Mohammed, Salih nato in Eritrea 24 anni, residente ad Agrigento; Matywos Melles, nato a Asmara in Eritrea, 47 anni e residente ad Agrigento; Nuredin Atta Wehabrebi, nato ad Asmara, Eritrea, 30 anni e residente ad Agrigento) mentre sono ancora latitanti Yared Afwerke (nato in Eritrea, 24 anni e residente ad Agrigento), Shamshedin Abkadt (nato a Wukro, Eritrea), 29 anni e residente a Milano), Ermies Ghermaye alias Ermias Ghermay (nato in Etiopia e domiciliato a Tripoli in Libia) e John Maharay (nato in Sudan e domiciliato a Khartoum, in Sudan). Per tutti le accuse vanno dall’associazione per delinquere al favoreggiamento dell’immigrazione e della permanenza clandestina, aggravati dal carattere transnazionale. Secondo i magistrati che hanno condotto l’inchiesta ogni viaggio fruttava all’organizzazione circa un milione di euro. Le indagini, inoltre, hanno portato alla luce «continue violenze fisiche e reiterate torture che hanno subito numerosi migranti, nonché i ripetuti stupri, anche di gruppo, cui sono state sottoposte diverse donne».
Agghiaccianti le intercettazioni raccolte dagli uomini della polizia. Dice unodegli indagati, al telefono da Lampedusa, la mattina del 31 ottobre a proposito della strage del 3: «Ciò che è successo è dipeso solo dal destino e da alcuni di noi che non collaboravano perché molto giovani e si sono fatti prendere dal
panico. Il tunisino ha fatto due errori, il primo è stato quello di buttare via il satellitare ed il secondo quello di accendere il fuoco senza avvisarci. È stato il destino perché loro erano arrivati e dovevano solo attendere i soccorsi». «Ciò che fa male - gli risponde uno dei capi dell’organizzazione, John Maharay - è che sulla barca c’erano persone messe lì contro la loro volontà». «Che sono stati venduti al somalo che li torturava e violentava le donne». Poco più tardi parla Ermies Ghermay: «Quanti dei tuoi sono sopravvissuti? E quanti sono morti?». «48 sono sopravvissuti e altri quattro sono rimasti in Libia», gli risponde John. «Quanti erano in totale quelli tuoi?». «Erano 109, dei quali 68 sono morti». Spiega Ermies: «In quell’occasione c’erano tante persone che volevano partire e che mi disturbavano perché volevano partire. Io volevo farli partire in due viaggi ma loro insistevano e non volevano attendere. Sono stato costretto ad organizzare un solo barcone».
«In realtà quella volta c’erano molti migranti in gruppi e non volevano dividersi - prosegue John Maharay - pertanto con tutta la mia buona fede ho cercato di accontentarli imbarcandoli tutti nella stessa barca. Quando i migranti vengono rapiti sono costretti a pagare un riscatto molto caro. In questo caso io posso intervenire e mediare con i rapitori ». «Tante altre persone sono partite con gli organizzatori - chiosa Ermies - non arrivando mai a destinazione e diventando cibo per pesci e nessuno ne ha mai parlato». Poi il consiglio di John: «Questo ti fa capire che le persone a Mezrea vanno picchiate o consigliate. Ti assicuro che non gli fa male, perché tu lo fai per il loro bene. Ormai è capitato e non si può fare più nulla. Tu devi concentrarti e fare il tuo lavoro e non pensare a quello che dice la gente, pensa se avessi costretto la gente a restare in Libia. Ora a gente lo capirà. Io non accuso nessuno, tu non potevi fare nulla. Tu hai fatto quello che andava fatto. Questo è il loro destino, perché erano già arrivati, la colpa è loro perché sono voluti partire in tanti, quindi la colpa non è tua. Se avessero chiamato mentre erano in viaggio si sarebbero salvati, ma loro erano quasi entrati in porto alla distanza di 800-1000 metri. Il capitano non doveva bruciare il lenzuolo per farsi notare, senza il loro permesso. Tu hai fatto del tuo meglio, così ha voluto Allah».

il Fatto 2.7.14
“I migranti sono solo cibo per pesci”
Scafisti intercettati, si giustificano così: “morti in 366? Così ha voluto Allah”. Sgominata cellula eritrea in Italia
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo. Sequestri di persona, segregazioni, stupri di donne poi rimaste incinte, torture con scosse elettriche, richieste di riscatto: 30 mila intercettazioni compiute dallo Sco e dalle squadre mobili di Palermo e Agrigento sulle due sponde del Mediterraneo svelano il volto criminale del traffico di migranti: business alimentato dalle politiche di contenimento dei flussi migratori che hanno determinato – scrivono i pm – “come effetto collaterale, che la criminalità organizzata decidesse di investire risorse sempre più ingenti nella gestione illegale di tali flussi”. Con l’operazione Glauco scattata ieri notte, la polizia ha sgominato un’organizzazione con base in Sudan, appoggi ad Agrigento e a Roma e conosciuta persino in Australia: la Dda di Palermo ha fermato cinque tra eritrei, etiopi e sudanesi e altri quattro sono ricercati, due in Africa, l’etiope Ghermay Ermias, ritenuto il capo, e il sudanese John Mahray, uno in Svezia, l’altro a Roma. Per tutti verrà avviata la procedura di estradizione. Quattro fermati sono stati bloccati ad Agrigento nelle loro abitazioni. “Un paio svolgevano attività di lavapiatti presso locali della zona” ha detto il dirigente della Squadra mobile di Agrigento, Corrado Empoli.
I reati sono associazione per delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione e della permanenza clandestina, aggravati dal carattere transnazionale. Sono state compiute numerose perquisizioni, emesse cinque informazioni di garanzia nelle province di Agrigento, Catania, Milano, Roma e Torino; sequestrato anche denaro in contante e documenti su trasferimento di soldi attraverso money transfer. I nuovi schiavisti reclutavano i clandestini in Sudan, li trasferivano in Libia, e da lì, dopo mesi di segregazione, venivano imbarcati su barconi fatiscenti verso l’Italia. Non solo. L’assistenza ai migranti continuava dopo lo sbarco, con l’organizzazione delle fughe dai centri di accoglienza, e l’impegno da parte di una cellula composta da cittadini eritrei che curava la permanenza illegale dei migranti agevolandone l’espatrio, naturalmente illegale, verso altri Paesi dell’Unione europea, in particolare Norvegia e Germania, o del continente americano, tra tutti il Canada. Le indagini sono partite dal naufragio del barcone affondato il 3 ottobre del 2013 davanti l’isola dei Conigli, a Lampedusa, dopo che uno scafista aveva dato fuoco ad una coperta per richiamare l’attenzione dei soccorsi.
Gli stupri delle donne, le torture e le tariffe dei predoni per pane e acqua
Per venire in Italia devono pagare due volte, prima 1.500 euro ai predoni che violentano le loro donne lungo la traversata del deserto e poi altri 1.500 ai libici che li trasportano per mare. Più 7 mila per un passaporto che a molti non servirà più. I testimoni ascoltati dalla procura hanno raccontato di essere stati sequestrati nel deserto da miliziani armati capeggiati dal tunisino Muhidin a bordo di un pick up con una mitragliatrice montata sul tetto e condotti con la forza a Sheeba, in Libia. Lì i migranti sono stati rinchiusi in una grande abitazione e sottoposti a torture (manganellate sulle piante dei piedi, scariche elettriche, tentativi di soffocamento e stupri) in attesa che i loro familiari pagassero il riscatto richiesto (3.300 dollari americani a testa), per poi proseguire il viaggio verso Tripoli e, da lì, essere imbarcati clandestinamente per l’Italia. I migranti pagavano 4900 dollari per la traversata dalla Libia alla Sicilia, venivano tenuti prima due settimane a Sheeba e poi per un mese in una fattoria nelle campagne di Tripoli e nutriti due volte al giorno con pane e acqua.
Un indagato: “Vivo sempre all’Anagnina: l’America è dove si fanno i soldi, la mia è qui”
Dalle intercettazioni viene fuori tutto il cinismo e il disprezzo della vita umana dei trafficanti. “Inshallah! Così ha voluto Allah”, commenta Ermias a telefono alla notizia della morte dei 366 migranti. Per le vittime nessuna parola di pietà. E parlando con una donna che gli chiede se vive ancora “in quella casa all’Anagnina”, periferia di Roma, Shamshedin Abkadt, un altro degli indagati, risponde che morirebbe se non vivesse lì: “L’America è dove si fanno i soldi e la mia America è qui”.
“Solo questo suo viaggio ha avuto un’importanza mediatica elevata. Tante altre persone sono partite non arrivando mai, diventando cibo per pesci e nessuno ne ha mai parlato”, aggiunge al telefono Ermies Ghermaye parlando con John Mahray. E in un’altra telefonata spiega perché il barcone era stato sovraccaricato, scaricando sui migranti le responsabilità del naufragio di Lampedusa. “I migranti insistevano per partire, nessuno era disponibile ad attendere il secondo viaggio” dice al telefono Ermies Ghermaye. “Sono stato costretto a metterli tutti su un barcone’’. E in un’altra conversazione John Mahray spiega ad Ermies le regole del trasporto di clandestini: “Quando si organizza un viaggio per l’Italia le partenze di barche non devono avvenire con il mare in tempesta ed in secondo luogo non bisogna dare adito alle lamentele degli migranti. L’organizzatore del viaggio è il responsabile, quindi deve sapere aspettare il momento giusto per partire”.
Le ventisette salme dell’ultima strage arrivate ieri a Pozzallo
Ieri, infine, nel porto di Pozzallo è giunto il “barcone–bara’’ che ha trasportato i 27 africani morti da avvelenamento di ossido di carbonio perché costretti nel locale di prua senza alcuna aereazione. Dal racconto dei superstiti è emerso che molti tra le centinaia di migranti stipati come sardine hanno chiesto di tornare indietro, hanno implorato gli scafisti di cambiare la rotta e puntare di nuovo in Libia, ma non c’e’ stato nulla da fare: “ormai siamo qui e dobbiamo arrivare in Italia”, è stata la risposta. I due scafisti sono stati identificati e nei loro confronti potrebbe scattare l’accusa di omicidio volontari.

Corriere 2.7.14
La ferocia degli scafisti: i migranti morti? Colpa loro
di Giovanni Bianconi


«Tu non potevi fare nulla, hai fatto quello che andava fatto. Questo è il loro destino, perché già erano arrivati. La colpa è loro perché sono voluti partire in tanti». Per gli scafisti la strage di Lampedusa, 366 morti che il 3 ottobre scorso non riuscirono a toccare terra, fu solo un brutto incidente.
Per i trafficanti di uomini la strage di Lampedusa - 366 morti che il 3 ottobre scorso non riuscirono a toccare terra - fu solo un brutto incidente. Del quale si rammaricavano come fa un contadino quando l’annata va storta, per la siccità o altri motivi. Due di loro ne parlarono al telefono quasi un mese dopo, il 31 ottobre, intercettati dalla polizia italiana. «John commenta il naufragio - si legge nel riassunto della conversazione - dicendo che ciò che lo fa maggiormente arrabbiare è il fatto che il naufragio non è da addebitare alle condizioni meteo, ma ai soccorsi, e fa l’esempio di un agricoltore che può accettare che il suo raccolto non vada bene a causa della mancanza di pioggia, ma non all’incuria nel periodo della raccolta». 
John Maray, sudanese residente a Khartum, e Ermies (o Ermias) Ghermay, etiope che vive a Tripoli, sono tra i presunti organizzatori dei viaggi della disperazione individuati dalla Procura di Palermo che ieri ha ordinato il fermo di nove persone per crimini transnazionali legati al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E dai colloqui registrati dagli investigatori del Servizio centrale operativo emerge il fondato sospetto che proprio Ermies - irreperibile come il suo amico John - sia tra i responsabili della traversata che lo scorso anno si trasformò in una delle più gravi tragedie dell’immigrazione. 
Su quella barca erano troppi, si raccontano John ed Ermies, ma furono gli stessi profughi a insistere per salire e stiparsi oltre il consentito. «Ermies precisa che c’erano molti migranti in gruppi, e non volevano dividersi, pertanto ha cercato di accontentarli imbarcandoli tutti nella stessa barca. Ermies precisa che poteva chiamare la polizia libica così da farli arrestare o scappare, tanto il denaro era già stato incassato (3.300 dollari a testa per oltre 500 passeggeri, hanno riferito i superstiti ndr ), quindi la sua volontà era farli partire senza nessun problema». Dunque la responsabilità è degli stessi morti, come sostiene John: «Tu non potevi fare nulla, hai fatto quello che andava fatto. Questo è il loro destino, perché già erano arrivati. La colpa è loro perché sono voluti partire in tanti. Se avessero chiamato mentre erano in viaggio si sarebbero salvati, ma loro erano già entrati nel porto, a distanza di 800 o 1.000 metri. Il capitano non doveva bruciare il lenzuolo senza il loro permesso per farsi notare. Tu hai fatto il tuo meglio… Tutti hanno sbagliato a mettersi da un lato sbilanciando la barca e facendola affondare». 
Poco prima anche Ermies aveva detto: «Ormai è capitato, pace alle anime loro. Quanti erano sopravvissuti al Sinai non riuscendo a entrare in Israele? Era il loro destino». Piuttosto, il grande clamore provocato dalla strage metteva a rischio il lavoro futuro: «Ermies puntualizza che solo il suo viaggio ha avuto un’importanza mediatica elevata. Tante altre persone sono partite, con altri organizzatori, non arrivando mai a destinazione e diventando cibo per pesci, e nessuno ne ha mai parlato». E ancora: «Questo naufragio è stato troppo eclatante e tutti mi hanno dato la colpa per non aver dato a ognuno di loro il giubbotto di salvataggio. Ma se gli italiani che erano a 800 metri non hanno potuto fare nulla, io che posso fare?». 
John cerca di tranquillizzarlo invocando nuovamente il fato: «Quello che Dio ha scritto non si può cancellare. Io quando organizzo i viaggi cerco di trattare bene sempre i viaggiatori facendoli mangiare bene, ma questo non si significa che si possano salvare. È il destino che decide». In ogni caso, quando un’imbarcazione non ce la fa a trasportarli tutti, è meglio utilizzare le maniera forti con chi vuole partire a tutti i costi: «Le persone vanno picchiate e consigliate. Ti assicuro che non gli fa male, perché tu lo fai per il loro bene», spiega John a Ermies. 
Ai telefoni dei due trafficanti i poliziotti dello Sco sono risaliti attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti fuggiti da diversi Paesi dell’Africa. I quali hanno testimoniato non solo sulla «traversata della morte», ma anche sulla struttura alla quale si erano rivolti. Che comprende due fasi di «assistenza» a pagamento. La prima è il viaggio fino alle coste della Sicilia, e la seconda - quando la prima è andata a buon fine - l’aiuto per raggiungere le mete finali, spesso oltre i confini italiani. Per essere aiutati nella fuga dai centri di accoglienza e accompagnati nei Paesi di destinazione finale, i migranti si rivolgono ad altri contatti della stessa organizzazione, alcuni stabilizzatisi a Roma. E devono versare altri soldi: centinaia di euro per gli Stati più vicini, migliaia per quelli più distanti. Sono le conversazioni captate tra gli inquisiti a svelare il tariffario predisposto dai mercanti di esseri umani. 
A un eritreo che chiama da Israele per spostare un giovane nipote che vorrebbe chiedere asilo politico in Svezia come minorenne, «Tesfahiwet (uno degli indagati ndr ) dice che occorrono 800 euro». Un altro - Shemshedin Abkadt, eritreo anche lui - spiega a chi lo chiama per conto di un amico che mira all’Olanda, che per il Regno dei Tulipani ne servono 500; la stessa cifra che Shemshedin chiede per un documento italiano necessario a raggiungere il Canada: «Peccato - dice all’interlocutore - pochi giorni fa avevo disponibile un passaporto americano ma l’ho appena venduto». 
Un passaporto di Malta può valere fino a 2.000 euro, mentre arrivare in Messico costa 3.000 euro a migrante. Shemshedin vive a Roma, e alla donna che al telefono chiede se abita ancora «in quella casa schifosa» di periferia, lui risponde di sì, e che non ha alcuna intenzione di spostarsi: «L’America è dove si fanno i soldi, e la mia America è qui!».

Repubblica 2.7.14
Settecento bambini a rischio
Minori sbarcati da soli chiude il primo centro “Lo Stato non ci paga”
di A. Z.


PALERMO. Casa Mosè, il centro di prima accoglienza per minori stranieri non accompagnati gestito dall’organizzazione “Amici dei Bambini” a Messina, potrebbe essere il primo a chiudere i battenti. Aperto sette mesi fa per rispondere alle tante richieste degli enti locali alla ricerca di comunità disponibili ad accogliere i piccoli migranti, il centro – a fronte di 70 bambini ospitati e 105.000 euro spesi su anticipazioni bancarie – non ha mai incassato un solo euro dalle istituzioni. Semplicemente perché il Comune di Messina, così come tutti gli altri, non riceve più dallo Stato le somme da destinare all’accoglienza dei minori. E in tutta Italia, ma soprattutto al Sud, decine di associazioni, comunità, case di accoglienza si trovano nell’incredibile situazione di essere state nominate dai tribunali dei minorenni affidatari dei bambini e dunque di essere “costretti” a mantenerli senza che lo Stato, da mesi, paghi le spese. Proprio per questo, in rappresentanza di una ventina di cooperative di Sicilia, Campania e Puglia che ospitano circa 700 minorenni, nei giorni scorsi i ministeri dell’Interno, dell’Economia, del Lavoro e delle Politiche sociali sono stati denunciati per abbandono di minori, violazione dei mezzi di sussistenza e insolvenza fraudolenta dall’avvocato salentino Francesca Conte che ha depositato un esposto alla Procura di Roma.
«Alcune cooperative - spiega il legale - non ricevono un euro di ristoro né dallo Stato, né dai Comuni da tre anni e ora minacciano di dimettere gli oltre 700 minori che ospitano e di portarli sotto Palazzo Chigi e sotto le prefetture di riferimento, perché impossibilitate ad accoglierli ancora. Per farlo si sono dovute persino indebitare. Una situazione che rischia di trasformarsi in una bomba sociale.
Protesta l’associazione Aibi che ha finora fatto fronte ai mancati pagamenti con i fondi raccolti grazie alla campagna “Bambini in alto mare”. «A fronte di un’accoglienza deficitaria, in cui le istituzioni si rimbalzano a vicenda le responsabilità, c’è quella gestita dalle associazioni di volontariato che funziona e che, invece, viene dimenticata e, alla lunga, costretta ad arrendersi. Perché non si rendono subito disponibili le risorse del Fondo nazionale per i minorenni stranieri non accompagnati? ».

l’Unità 2.7.14
I compiti a casa sulle migrazioni
Gianpiero Dalla Zuanna

Senatore Pd

CON UN’ENNESIMA TRAGEDIA DEL MARE. TUTTAVIA, SENZA L’OPERAZIONE MARE NOSTRUM IN QUESTI MESI I MORTI SAREBBERO PROBABILMENTE STATI CENTINAIA, perché il flusso di profughi dalla Siria e da alcuni Paesi africani non si arresta, mentre la Libia non può o non vuole fermare le partenze verso le coste italiane. Per il governo italiano è certamente giusto andare in Europa a chiedere che il Mediterraneo sia considerato una frontiera europea, e che quindi si mettano in atto politiche collettive sull’asilo politico, primi fra tutti meccanismi per contingentare le partenze dalle zone di guerra, distribuendo i rifugiati fra i Paesi dell’Unione.
Tuttavia, se l’Italia vuole contare qualcosa su questo difficile tavolo negoziale, è importante che dimostri di «fare i compiti a casa» anche su altri aspetti delle migrazioni. I nostri partner difficilmente prenderanno sul serio proposte e richieste di collaborazione da un Paese che - negli ultimi tre decenni - non è riuscito né a regolare i flussi migratori né a mettere in atto politiche di integrazione. A parte la questione dei profughi e del diritto d’asilo, sono quattro le questioni urgenti, che andrebbero messe subito nell’agenda del governo e del Parlamento.
La prima è la tratta. Non è possibile per un Paese civile «ospitare» decine di migliaia di schiavi e di schiave (questo è il loro vero nome) che lavorano in condizioni di grave sfruttamento, in particolare nell’agricoltura e nell’edilizia, per paghe irrisorie e senza alcuna protezione, o sono sottoposte/sottoposti a un indicibile sfruttamento sessuale, per la gioia dei «caporali», delle «maman» e degli italiani che possono pagare meno i pomodori, o comprare sesso low cost.
La seconda è l’integrazione scolastica. I risultati del tanto vituperato Invalsi mostrano che i figli di stranieri - anche se nati in Italia - hanno risultati peggiori rispetto agli italiani: in matematica, ma soprattutto in Italiano. Non possiamo nutrirci della retorica delle pari opportunità se - come scrivevano i ragazzi di Barbiana - continuiamo a fare «parti uguali fra disuguali», non garantendo ai ragazzi stranieri (ma anche ai ragazzi italiani delle famiglie meno dotate culturalmente) un surplus di scuola, in particolare con corsi aggiuntivi di italiano.
La terza emergenza è la regolazione degli ingressi e delle espulsioni. Non saremo credibili attorno a nessun tavolo europeo se - per un cittadino extracomunitario - è praticamente impossibile entrare in Italia in modo regolare e se, una volta entrato, è praticamente impossibile espellerlo. La legge Bossi/Fini non ha mai funzionato, ma ora non viene proprio più applicata, almeno nella parte di regolazione dei flussi. È una legge che va rivoltata, da un lato configurando ragionevoli possibilità di immigrare in Italia per motivi di lavoro o di famiglia, dall’altro rendendo immediata ed effettiva l’espulsione per chi entra irregolarmente.
Last but not least la cittadinanza, che in Italia viene concessa con i criteri più restrittivi d’Europa, e con ingiustificabili lungaggini burocratiche. Diverse proposte giacciono negli archivi delle commissioni parlamentari: bisogna prenderle rapidamente in mano e portarle a compimento, in particolare accelerando la concessione per i minori che hanno frequentato parte delle scuole in Italia, e che si sentono italiani proprio come i nostri figli.
I cinque milioni di stranieri che vivono in Italia non sono una minaccia, ma un’opportunità straordinaria per dare una spinta al nostro Paese. Ma la politica deve fare la sua parte, perché politiche migratorie serie, lungimiranti e non populiste sono essenziali per essere credibili verso l’Europa e verso il mondo.

l’Unità 2.7.14
Migranti, bufala virale: l’unica vera malattia è la povertà


Macché vaiolo, è un banale caso di varicella. L’allarme era stato lanciato domenica sera. Un allarme lanciato da troppe fonti e con troppo fretta su un possibile caso di vaiolo tra i migranti salvati dalla nave Orione della Marina Militare è immediatamente rientrato. L’uomo è affetto da normale varicella. Lo strillo è stato tanto eclatante quanto infondato. Il virus del vaiolo (nelle due forme, Variola maior e Variola minor) è stato completamente eradicato nel 1979, come ha ufficialmente dichiarato l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1980. Anche i virus conservati per motivi di studio nei laboratori scientifici sono stati distrutti. In pratica, oggi non ce n’è traccia alcuna su tutto il pianeta. Cosicché prima di annunciarne il ritorno tutti dovrebbero fare molta attenzione.
La vicenda, dunque, potrebbe essere rubricata tra i casi di «cattiva informazione» - mediatica, ma non solo mediatica - se non avesse avuto un risvolto positivo: il sistema di controllo sanitario alle nostre frontiere ha funzionato molto bene. Il migrante malato è stato subito individuato dai medici presenti a bordo della Orione, come prevedono le leggi internazionali e il protocollo messo in atto da un accordo tra i ministeri della Sanità e della Difesa. Essendo sospetto portatore di una malattia infettiva, sono scattate le misure di prevenzione: una quarantena, revocata prontamente dopo aver accertato la natura della malattia. Il paziente è stato immediatamente trasportato, con un elicottero, dalla Orione fino all’ospedale Spallanzani di Roma, specializzato nella diagnosi e cura delle malattie infettive. Le indagini sono state rapide e il referto chiarissimo: si tratta di varicella. Se questa doveva essere un test sull’efficienza dei nostri sistemi di controllo, dunque, ha funzionato benissimo. Sgonfiando sul nascere ogni allarme, più o meno strumentale. Già perché la paure che i migranti portino con sé malattie infettive terribili è uno di quei luoghi comuni tanto diffusi, quanto infondati. Così come è un luogo comune tanto diffuso quanto infondato il fatto che noi saremmo impreparati di fronte a virus e batteri alieni. Tutto questo semplicemente non è vero. I migranti non sono portatori di chissà quali strane malattie. E il nostro sistema sanitario è, in ogni caso, pronto a contrastare l’arrivo di eventuali agenti infettivi pericolosi.
In Italia vivono quasi 4,5 milioni di stranieri provenienti da 190 diversi Paesi. Molti immigrati provengono effettivamente da aree del mondo dove ci sono malattie infettive endemiche come la tubercolosi (Tbc), l’Aids, una serie di malattie veneree, la malaria le epatiti. Ebbene, esiste un piano, chiamato «Sorveglianza sindromica delle popolazioni migranti» che da alcuni anni monitora costantemente la condizione sanitaria degli ospiti venuti dall’estero, anche dei clandestini. Per quanto riguarda questi ultimi, il sistema fa capo all’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ed è costituito da una rete regionale costituita dai centri di accoglienza. In pratica il personale sanitario di ogni centro di accoglienza monitora e segnala al Roma i nuovi casi relativi a 13 diverse sindromi poste sotto sorveglianza. Ogni giorno vengono elaborate schede molto dettagliate che vengono inviate alle Asl o ad altre strutture regionali e a poi all’Iss. Ciò consente di individuare piccole anomalie statistiche e, dunque, di tenere sotto controllo 13 diverse malattie infettive. I dati aggregati - assicura l’Iss - sono riassunti in un bollettino epidemiologico nazionale e inviati a tutte le strutture che partecipano alla sorveglianza. Inoltre sono pubblicati sul sito Epicentro (www.epicentro.iss.it) e, dunque, accessibili a tutti. Fino all’11 aprile 2011 il sistema aveva preso in esame 7.667 casi di immigrati contagiati. Ebbene nella metà dei casi (il 49,6% per la precisione) la malattia consisteva in «un’infezione respiratoria con febbre», in pratica una banale influenza. In un quarto dei casi (24,9% per la precisione) si trattava di «infestazioni», da piccolo insetti come pidocchi, e nel 22,2% dei casi da «gastroenterite senza sangue», insomma da mal di pancia. Le malattie dei migranti, dunque, sono del tutto simili alle nostre. Anzi, essendo la popolazione migrante costituita da persone di età media inferiore a quella italiana, ma adulte o, al più adolescenti, la morbilità dei migranti è inferiore a quella della popolazione italiana.
Lo dimostra il fatto, recita un documento dell’Istituto Superiore di Sanità, che anche malattie endemiche nelle zone di provenienza, come la tubercolosi, in Italia hanno bassa incidenza e sono stabili. I casi di Tbc, per esempio, si mantengono stabili in Italia intorno al valore di 7 o 8 casi ogni 100.000 abitanti da venti anni. Anche se ci sono regioni dove l’incidenza è più alta (l’Emilia-Romagna, per esempio, con 12 casi ogni 100.000 abitanti) e altre dove è considerevolmente più bassa (l’Abruzzo e il Molise, con un’incidenza inferiore a 3 casi ogni 100.000 abitanti).
Le uniche malattie infettive in crescita (in maniera non allarmante) tra le persone di nazionalità extra-comunitaria sono quelle sessualmente trasmissibili. In particolare aumentano i casi di Aids. Non solo perché arrivano più persone contagiate da aree dove il virus dell’Hiv è endemico, ma anche e forse soprattutto perché molte donne e anche molti uomini immigrati sono sottoposti qui in Italia a sfruttamento sessuale con scarsa o nulla protezione. L’unica malattia particolare dei migranti è la povertà. Ed è una malattia curabile.

il Fatto 2.7.14
Contagiati L’indifferenza non cambia verso
Leggenda delle malattie nell’Italia xenofoba
di Furio Colombo


Prima viene la leggenda delle malattie, elencate come in paurosi racconti ottocenteschi, che precedono i vaccini di Pasteur, la penicillina di Pauling e la produzione di massa degli antibiotici. E fingendo di non sapere che quasi tutte le misteriose infezioni senza cura che per certi periodi hanno terrorizzato il mondo, (dalla “mucca pazza” alla “aviaria”) sono tutte esplose (e per fortuna finite, ma non capite) nella parte industriale e ricca del mondo. Poi c’è la persuasione xenofoba che “vengono qui perché siamo noi a invitarli con l’accoglienza”. Nei giorni in cui a Pozzallo non ci sono celle frigorifere per i 30 morti finora trovati in mare radio e tv radunano esperti. Radio3, la mattina del 1° luglio aveva fra i suoi “esperti” un giornalista che ha detto: “Gli sciacalli sono sempre più sciacalli e calcolano la convenienza del trasporto in mezzo al mare, calcolano che c’è l’operazione Mare Nostrum che provvederà a portare tutti in salvo e i viaggi si moltiplicano”. La frase significa non sapere che non hanno una casa, ignorare cosa succede in Siria, Iraq, Libia, Sud Sudan, nella Repubblica Centrafricana, nel Rwanda, nel Congo, nel Mali, in Etiopia, Eritrea, Somalia, per fare un elenco parziale. Non è ignoranza. È una posizione politica radicata nel molle e disorientato terreno dell’informazione dal tenace governo Berlusconi-Bossi fondato su xenofobia, razzismo, superstizione e invenzione. È la credenza di una setta sorda e cieca ma attivissima (la stessa che, all’inaugurazione del Parlamento europeo, ha voltato le spalle a Beethoven e all’Inno alla Gioia) che pensa all’immigrazione come a un viaggio-premio per scansafatiche che poi diventeranno pericolosi se non li nutri e non gli dai una casa. Ma è la cultura del respingimento, inventata in Italia, da italiani, in questi anni, è un pensiero di indifferenza che si esprimeva nel vecchio e tradizionale “lasciar fare” e si è trasformato adesso in un tranquillo “lasciar morire”. Sentite. Primo, “aiutiamoli a casa loro”. È difficile che una persona mediamente informata possa credere in buona fede che siamo di fronte a popoli che resterebbero a casa, invece di rischiare la morte sul fondo del mare, se gli mandassimo un pacco regalo. Ma la frase circola, ed è quasi una parola d’ordine. Secondo, i diritti (di asilo, accoglienza, ricongiunzione familiare, dello stato di rifugiato) devono essere accertati nei Paesi d’origine di chi intende emigrare. Qui si aggirano tre fantasie. Una è che la burocrazia locale, invece di far scomparire il capo famiglia che vuole emigrare, gli darà carte e riconoscimenti necessari per presentarsi al Consolato a cui chiedere il visto. Un’altra che ci sia un Consolato. Infine, come vuole la Bossi-Fini, approvata senza vergogna a grande maggioranza, bisogna procurarsi il contratto di lavoro prima di partire. Terzo, un’operazione come Mare Nostrum incentiva il viaggio, invita i profughi, aumenta gli sbarchi. La frase è due volte una bestemmia contro l’umanità. Infatti Mare Nostrum non è altro che salvataggio in mare. E la differenza fra gli sbarchi di prima e gli sbarchi di adesso è data dalla differenza fra coloro che prima morivano e coloro che, adesso, non muoiono più. La superstizione della malattia è di gran lunga la più falsa e ripetuta. Era stato Maroni a inventare le mascherine bianche della polizia, in modo che noi tutti, sani spettatori di razza superiore, percepissimo il rischio del contagio. Infatti la mascherina non era per i morti, ma per giovani vivi e felici di essere vivi che in altri sbarchi, ho visto spinti come bestiame di qua e di là senza ordini e senza luoghi di accoglienza, per poi rinchiuderli in luoghi lerci e con i gabinetti otturati. L’Italia continua ad accettare superstizioni della sottocultura che ha dominato il Paese (troppo fragile l’opposizione, e adesso unita) per vent’anni. Nessuno dei nuovi giovani al governo ha provato pena o solo interesse di fronte alla folla di gente giovane che noi lasciamo nelle chiese e sulle banchine, uomini, donne e bambini di secondo livello. Siamo tutti troppo presi dalla celebrazione del semestre italiano.

l’Unità 2.7.14
Se per i media «migrante» fa rima con malattia


UN UOMO SI SENTE MALE, HA LA FEBBRE ALTA. È SU UN BARCONE CARICO DI PROFUGHI. I marinai della nave italiana che sta soccorrendo i naufraghi lo isolano dagli altri. Un medico lo visita e viene chiamato un elicottero. L’uomo viene portato nel reparto malattie tropicali di un ospedale di Roma. Il resto della storia dovrebbe riguardare lui solo e tutti quelli cui è capitata la stessa cosa. Perché ce ne sono e ce ne saranno: nel Canale di Sicilia ogni giorno navigano barche con migliaia di uomini, donne, bambini. Persone stremate dalla fame, dalla stanchezza, dalla nausea, dalla paura che il mare li inghiotta. Che molti si sentano male è normale, per una mera constatazione statistica. E però l’uomo, portato in elicottero all’ospedale Spallanzani di Roma, diventa un caso. Accendiamo la televisione, ieri mattina, e l’inviato d’una rete nazionale, da Pozzallo dove il barcone avrebbe dovuto approdare, ci dice che «forse» ha il «vaiolo delle scimmie». La conduttrice del programma aggiunge che può trattarsi di «una forma leggera di Ebola».
Forse, dicono. Ma ci sono parole che si mangiano i forse. Vaiolo, Ebola, e poi Colera, Tifo, Tubercolosi, Poliomelite. Scavano dentro di noi tunnel di paura. Forse sarebbe meglio evitarle in televisione, dove - si sa - le parole scivolano con leggerezza anche quando sono molto pesanti. Non ce l’abbiamo particolarmente con quell’inviato e con quella conduttrice. Hanno fatto quello che fanno molti altri, in questi giorni, e alcuni molto peggio di loro. Una famosa cantante ha annunciato, ci pare proprio nello stesso programma, l’arrivo del virus Ebola in telecronaca diretta. Il Giornale ha scritto che «Ebola e Tbc sbarcano con gli immigrati» e l’articolo è stato seguito da centinaia di mi piace il più icastico dei quali diceva così: «Un siluro al giorno toglie il migrante di torno». E si potrebbe continuare a lungo, a voler farsi del male nella Grande Giostra delle infamie on line sulla Rete. Anche a sforzarsi di dimenticare che nella politica italiana ha voce e trova ascolto pure chi sostiene che i naufraghi non dovrebbero essere salvati e chi lo fa «ha le giacche (le giacche?) sporche di sangue».
Quindi non gettiamo la croce sulle spalle di quell’inviato e di quella conduttrice. Magari, per farsi perdonare, potrebbero, nei prossimi giorni, recitare in diretta il comunicato con cui la Marina Militare, con la pignoleria che è propria dei militari, ha spiegato come e quanto siano attente, puntuali e rigorose le procedure adottate, sulle navi e poi a terra, per identificare, isolare e trattare i casi di allarme sanitario tra i migranti tratti in salvo. Tratti in salvo, aggiungiamo noi perché nel comunicato non c’è, con una delle operazioni più nobili e meglio riuscite delle Forze Armate italiane. Perché malati e fonti di contagi ce ne sono, è ovvio, e nessuno li nasconde. Come ce ne sono ovunque dove sono uomini e donne: tra di noi, nelle nostre città. Per questo esistono i medici e gli ospedali.
Perché siamo un Paese civile. Anche se talvolta viene qualche dubbio.

Corriere 2.7.14
Risponde Sergio Romano
Il colonialismo italiano prima e dopo il fascismo


Ho trovato molto convincente la tesi esposta da Claudio G. Segré nel libro La politica estera italiana/1860-1985 a proposito della continuità tra il colonialismo di stampo liberale e quello fascista. Il tentativo di De Gasperi dopo la guerra di ottenere il mantenimento di alcune zone dell’impero o di ottenere l’amministrazione fiduciaria dell’Africa orientale è comprensibile perché come presidente del Consiglio italiano aveva il dovere di tentare di salvare il prestigio della nazione (i vantaggi economici tratti dall’Italia dalle colonie sono dubbi) ma quanto espresso da Segré mi pare oltremodo convincente. 
Antonio Fadda 

Caro Fadda, 
Claudio Segré, autore tra l’altro di libri sulla conquista della Libia e su Italo Balbo, ha ragione. Ma avrebbe avuto altrettanta ragione se avesse constatato che vi fu continuità anche fra il colonialismo prefascista e quello praticato dai governi Mussolini dopo la marcia su Roma. Il ministro delle Colonie nei due governi Facta del 1922 fu Giovanni Amendola, leader del liberalismo antifascista e protagonista dell’«Aventino», l’infelice strategia con cui un fronte di parlamentari antifascisti disertò i lavori di Montecitorio nella speranza di rovesciare il governo Mussolini dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. La Libia, in quel periodo, si era pressoché interamente sottratta al controllo dell’amministrazione coloniale italiana. Quando fu nominato governatore della Tripolitania dal governo di Ivanoe Bonomi nel 1921, Giuseppe Volpi aveva il compito di riconquistare il territorio perduto e, in particolare, Misurata, la città che è stata anche recentemente, insieme a Bengasi, uno dei maggiori centri della rivolta contro Gheddafi. Volpi si attenne alle istruzioni e Amendola, quando divenne ministro, lo incoraggiò e lo sostenne. Volpi rimase a Tripoli fino al 1925 e continuò a fare con Mussolini una politica non diversa da quella che aveva fatto con Bonomi e Facta. Possiamo parlare di colonialismo fascista negli anni successivi, quando il generale Graziani riconquistò la Cirenaica con metodi alquanto diversi e scelte (come l’impiccagione di Omar Al Mukhtar) che hanno lasciato una macchia sull’amministrazione coloniale italiana. Ma alcuni Paesi (la Francia in Algeria, la Spagna in Marocco, la Gran Bretagna in Africa del Sud, i Paesi Bassi in Indonesia) non sono stati meno brutali. 
Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale fu subito evidente che l’Italia non sarebbe tornata in Etiopia, uno Stato troppo recentemente conquistato con una guerra che aveva provocato la condanna della Società delle Nazioni. Ma le altre colonie furono difese con gli argomenti di tutti i governi precedenti. L’opinione dominante era convinta che l’Italia fosse stata, nei suoi possedimenti africani, un faro di civiltà. La Chiesa italiana non voleva rinunciare alle istituzioni che aveva creato nelle colonie per diffondere la fede.Quasi tutti i partiti sostenevano che l’Italia avesse bisogno delle colonie per offrire ai suoi figli una terra in cui emigrare. Vi furono negoziati italo-inglesi, condotti da Carlo Sforza che sembrarono produrre un onorevole compromesso: la Tripolitania all’Italia, la Cirenaica alla Gran Bretagna. Ma l’Unione Sovietica voleva qualcosa per sé e cercava di boicottare le iniziative che avrebbero consolidato gli imperi coloniali delle potenze occidentali. L’accordo italo-inglese rimase lettera morta e la Gran Bretagna, a quel punto, promosse la creazione di un regno libico sotto la guida di Idris, il leader rispettato di una congregazione islamica, la Senussia, che esercita ancora una considerevole influenza sulla Cirenaica. In Italia vi furono manifestazioni di disappunto, ma durarono soltanto sino a quando, dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, ci accorgemmo che le colonie, per i Paesi che erano riusciti a conservarle, sarebbero state un grattacapo.

Repubblica 2.7.14
Lo Ior dimagrisce e prepara il ribaltone Von Freyberg in bilico

Avanza la riforma di Francesco, più poteri a Pell
Il presidente potrebbe dimettersi a giorni
di Paolo Rodari

CITTÀ DEL VATICANO. È in questi giorni che il C8, il consiglio dei cardinali che aiuta il Papa nel governo della Chiesa e nella riforma della curia romana, prenderà una decisione definitiva sul futuro delle finanze vaticane, e dunque anche sullo Ior. Per questo motivo in bilico non c’è soltanto l’attuale presidente Ernst von Freyberg, ma tutto un sistema che fino a oggi ha gestito l’intero apparato. Allo Ior, a parte le dimissioni forzate dell’ex direttore Paolo Cipriani, del suo vice Massimo Tulli e di altri quattro funzionari, nessuno ha lasciato dopo che il consiglio di sovrintendenza formato da Carl Anderson, Antonio Maria Marocco, Ronaldo Hermann Schmitz e Manuel Soto Serrano - tutti ancora in carica - defenestrò Ettore Gotti Tedeschi. Era il maggio del 2012. Di fatto, il cambiamento più significativo è avvenuto soltanto nella commissione di vigilanza dello Ior che riferisce del proprio operato direttamente al Papa. Qui l’uomo forte voluto da Francesco al posto di Tarcisio Bertone è il cardinale Santos Abril y Castelló, già arciprete della basilica papale di Santa Maria Maggiore.
Freyberg arrivò allo Ior in tempi ritenuti da molti sospetti, il 15 febbraio del 2013, e cioè appena tre giorni dopo la rinuncia al pontificato di Benedetto XVI. La nomina venne decisa dalla stessa commissione di vigilanza, allora guidata da Bertone. In questo anno e mezzo tuttavia, il nuovo presidente ha lavorato bene soprattutto sull’immagine dello Ior, togliendo il segreto sui conti e introducendo un regime di maggiore trasparenza. Eppure il suo incarico resta incerto, non sembra tanto a motivo delle sue competenze, quanto del nuovo assetto che riguarda sia lo Ior, sia l’Apsa (l’amministrazione del patrimonio), sia la Prefettura degli affari economici (sorvegli le amministrazione che dipendono dalla Santa Sede) e il governatorato.
L’idea più accreditata al momento è quella che maggiori poteri li assuma il Segretariato per l’economia, una sorta di «super dicastero» che già oggi sovrintende alla gestione delle attività economico-finanziarie della Santa Sede e della Città del Vaticano, compresa quella degli appalti e della gestione del personale. Il Segretariato è in mano al cardinale George Pell che sul piatto del C8 porta il suo progetto: separare le attività di mero servizio da quelle di banca d’investimento, dando maggiori poteri all’Apsa che dovrebbe divenire la banca centrale del Vaticano. In sostanza, lo Ior avrebbe mere funzioni di sportello e gestirebbe investimenti a breve termine. Questa nuova struttura necessiterebbe però di un presidente a tempo pieno e non part time , come nei fatti è stato fino a oggi Freyberg, diviso tra il lavoro a Roma e la famiglia in Germania. In uno Ior siffatto, potrebbe essere lo stesso Freyberg a farsi da parte, lasciando la sua casella libera. Anche la commissione cardinalizia di vigilanza dovrebbe cambiare pelle. Con un impiego dei cardinali più continuato. Francesco, infatti, necessita spesso di risposte in tempi rapidi e non sempre la commissione, riunendosi tre-quattro volte all’anno, è riuscita a darle.
Se il Papa accetterà il piano di Pell, molto cambierà Oltretevere, soprattutto a livello di spese. Spesso i singoli ministeri vaticani agiscono come monadi decidendo autonomamente uscite e investimenti. In futuro non dovrebbe più accadere. Ogni dicastero avrà un budget che non potrà essere disatteso per nessuna ragione. A capo degli stessi dicasteri economici potrebbero essere chiamati non più dei grandi tecnici ma semplicemente dei buoni manager, che sappiano rispondere alle direttive del Papa entrando con umiltà - su questo non si transigerà - nella sua weltanschauung.
Oltre al raduno del C8, il prossimo appuntamento importante per le finanze vaticane riguarda la pubblicazione del rapporto annuale dello Ior, «nel quale - fanno sapere dallo stesso Istituto - si chiarirà quanto fatto nell’ultimo anno». Il futuro dell’incarico a Freyberg, confermano, «rientra in un discorso più ampio, che riguarda la riforma della governance e la ridefinizione delle funzioni dell’Istituto». La sensazione, comunque, è che la riforma dell’economia vaticana - presa in mano dal Papa per prima rispetto a tutto il dossier riguardante la curia romana - avverrà entro luglio, o comunque non oltre il viaggio del Papa in Corea del Sud dal 14 al 18 agosto.

il Fatto 2.7.14
Renzi snobba il Meeting di CL E i ciellini cancellano Lupi
Il premier fa sapere di aver “declinato “ l’invito a Rimini

Mentre il ministro NCD e l’altro potente d’area, Mario Mauro, sono esclusi dal programma dell’incontro
di Marco Palombi


Guardate la cronaca”. Giorgio Vittadini, uomo forte di CL e architetto del relativo Meeting, apre ai presenti scenari da tregenda. Non si riferisce al caso Expo, come si temeva, ma elenca: Palestina, Nigeria, Iraq. “Ultimamente di queste cose non gliene frega niente a nessuno”, si duole. Un immediato desiderio di coscienza - non disgiunto da un sospiro di sollievo - percorre il romano Tempio di Adriano, dove è appena iniziata la presentazione dell’appuntamento di Rimini di quest’anno (dal 24 al 30 agosto) e s’aggirano i politici d’area: il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, che sta una mezz’ora e poi se ne va, e gli ex potenti in cerca di nuova sistemazione Mario Mauro e Roberto Formigoni, compostamente seduti in prima fila per tutto l’happening ciellino.
VITTADINI, tornando alla cronaca, è assai accorato. Di fronte a quel che accade, dice citando il cardinale Tauran, o si sta nel “cuore del potere” che “organizza guerre ventennali e poi si dimostra impotente” oppure si sceglie “il potere del cuore”, che “cambia la storia”. Ebbene, il potere del cuore ci sarà sicuramente all’appuntamento di Rimini (titolo: “Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo”), ma pure il cuore del potere non manca davvero: tra i main sponsor - quelli che pagano il Meeting, per capirci - ci sono Enel, Eni, Finmeccanica, Ferrovie (per inciso i grandi gruppi pubblici avevano annunciato pesanti tagli a questo tipo di spese), Wind, Sky, Nestlè, Sisal e Lottomatica, la cooperativa La Cascina, la società Illumia (testimonial: Cesare Prandelli) e Autostrade per l’Italia.
Pure tra gli ospiti il cuore del potere non scarseggia: oltre ai manager delle aziende paganti (molti di recente nomina renziana), ci sarà Sergio Marchionne, quattro anni dopo la prima apparizione riminese, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, persino l’informale ambasciatore del premier Oscar Farinetti parteciperà a un convegno (per non parlare dell’avatar dell’ex sindaco di Firenze, il nuovo inquilino di palazzo Vecchio Dario Nardella).
Il capo, invece, non ci sarà. “Lo abbiamo invitato, ci farà sapere”, dicono dal palco alle ore 18.30. Matteo Renzi “ha declinato l’invito”, smentiscono da Palazzo Chigi un paio d’ore dopo. Bello schiaffo, non c’è che dire, che fa il paio con quello che invece Comunione e Liberazione ha assestato proprio a Maurizio Lupi e Mario Mauro, i due politici che volevano intestarsi la rappresentanza ciellina dopo la giubilazione per eccesso di scandali del Celeste Formigoni: nessuno dei due compare nel programma ufficiale del Meeting.
IL RAPPORTO con la politica è proprio il tallone d’achille dell’happening riminese. Dopo gli andreottismi dantan e le più recenti ovazioni a Silvio Berlusconi, magari c’è la consuetudine, forse l’affetto, ma manca l’amore. “Non ci interessano i talk show politici - scandisce Vittadini - che poi secondo me sono il punto più basso della politica : noi vogliamo che chi sarà a Rimini scopra protagonisti nuovi. Questo sarà un meeting alternativo perché noi vogliamo, se mai ce ne siamo spostati, tornare all’ispirazione originale dell’incontro”.
I protagonisti nuovi e lo spirito orignario lo declina a seguire Bernhard Scholz, presidente della Compagnia delle Opere: a parte Marchionne, Squinzi e un’altra quantità di manager di grandi aziende (dalla Ferrero a Deutsche Bank, da Siemens a Snam eccetera eccetera), ci saranno nomi mai sentiti come il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, i ministri Poletti (Lavoro), Guidi (Sviluppo), Galletti (Ambiente) e Stefania Giannini (Istruzione), unica ospite politica sul palco di ieri. Pure per parlare di giustizia c’è una scelta di rottura: Luciano Violante. Non manca, ovviamente, il lato Expo 2015: il ministro delegato Maurizio Martina (Agricoltura) e il commissario Giuseppe Sala, protagonista di un succoso pomeriggio col governatore lombardo Roberto Maroni.
Alla presidente del Meeting, Elena Guarnieri, però, piace poco “il gossip”, già esecrato da Vittadini, e decide quindi - in chiusura - di riportare l’uditorio, magari distratto dall’attesa del buffet, ad un livello più alto (forse troppo) con splendido ritorno circolare all’urgenza della cronaca: “Questo Meeting - spiega - pone una domanda radicale a ognuno di noi: ma l’uomo è una risorsa adeguata per affrontare tutto questo? Il potere del cuore basta?” (per i curiosi, la risposta pare sia sì).

Repubblica 2.7.14
La visione religiosa del mondo
di Luigi Lunari

Caro ed egregio Corrado Augias, ho letto sul Venerdì la sua recensione di “Religione senza Dio” di Donald Dworkin. Ritengo di essere anch’io un «ateo molto religioso». Ma la mia spiegazione di questa apparente contraddizione, è più semplice dei ghirigori di Dworkin. La riassumo, con un paio di assiomi: 1) è stato l’uomo a creare Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa; 2) le religioni sono un codice di comportamento che l’uomo si dà nel tentativo, speranza, volontà di vincolarsi a norme di vita rispettose di sé e degli altri. Il primo principio dà conto della grande varietà di dei che hanno animato la storia; il secondo spiega la relatività e la provvisorietà di ogni sistema giuridico e morale, riflessi anche questi di altrettanti «momenti» dell’evoluzione umana.
Diffido di impostazioni ideologiche che finiscono col sostituire una superstizione con un’altra. Trovo urgente divulgare l’idea che Dio non esiste e che quando un papa o Osama Bin Laden affermano di agire per suo imperscrutabile ordine, dicono delle pericolose sciocchezze. Tengo a definirmi ateo ma molto religioso. Se si parte con l’idea che «la religione è più profonda di Dio...» la partenza avviene col piede sbagliato.
Non mi pare che l’opinione di Luigi Lunari, uno dei nostri migliori uomini di teatro, sia così distante da quella di Dworkin. Le accomuna, se non altro, un punto di vista diciamo umanistico sull’idea del divino presente in ogni società. Dworkin nel libro ora pubblicato dal Mulino scrive che la religione è una «visione del mondo per cui un valore intrinseco e oggettivo permea tutte le cose; l’universo e le sue creature suscitano meraviglia, la vita umana ha uno scopo e il cosmo ha un ordine». Aggiunge, qui è il punto: «Credere in un dio è solo una delle manifestazioni possibili di questa visione [religiosa] del mondo». La trovo una proposizione di elevata moralità. Sentirsi profondamente religiosi e credere in un’entità suprema non vanno necessariamente insieme. Siamo del resto in buona compagnia, da Spinoza a Nietzsche tanto per fare qualche nome. Senza dimenticare ovviamente Ludwig Feuerbach per il quale le religioni hanno un’origine pratica, rendono cioè oggettive le aspirazioni umane proiettandole in un’entità immaginaria. Per cui il filosofo può concludere: Non è Dio che crea l’uomo, ma l’uomo che crea l’idea di un essere infinito al quale attribuisce onniscienza, onnipotenza, amore. Possiamo sostituire questa figura con la Natura (Spinoza), ma anche con un senso di sé nel mondo rispettoso degli altri e della propria umana dignità. Dworkin assicura che i risultati sono ugualmente positivi; per di più aiutano a tenere lontani gli opposti fanatismi dei fedeli dottrinari e degli atei troppo zelanti.
Corrado Augias

il Fatto 2.7.14
Svolte
Effetto Francesco contro i padrini
di Daniela Ranieri


Succede così: tu chiedi a uno di fare da padrino a tuo figlio, e ti ritrovi imparentato con un mafioso. Perché si sa: ’ndranghetisti, camorristi e malecarni di tutte le specie fanno a gomitate per presenziare a quel rito arcaico che consiste nel mettere l’ala sopra a pupi da dilavare dal peccato e virgulti da cresimare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Per evitare ciò, come se il fresco delle navate e gli ori dei putti non fossero che lo sfondo di legami clanici ben più terreni, l’arcivescovo di Reggio Calabria ha lanciato una moratoria di 10 anni per spadrinare battesimi e cresime, cioè per togliere ai veri Padrini, che hanno conseguito il titolo col rito del coltello, il potere ineffabile di regalare protezione nel segno della croce. Il tutto con 5 secoli di ritardo sul Concilio di Trento , che mise un freno alla pratica di dare ai figli decine di padrini nel sospetto che dietro il padrinaggio selvaggio si celasse la volontà troppo umana di assicurarsi tutele estranee a quelle del catechismo.
Sarà stata la scomunica dei mafiosi pronunciata dal Papa (e sì che sarebbe bastata quella a dissuadere i credenti capobastone dal presentare domanda di padrinaggio), saranno stati i commissariamenti delle processioni del vibonese per evitare le “sfilate dei boss” (tutta una teoria di Inginocchiate e Affruntate e Addolorate e Inchinate affidate, invece che alle braccia forti e devote di padrini e picciotti, a quelle spicce e distratte della Protezione civile); certo è che il Chiesa-pride procede su carri di trasparenza e sobrietà mai visti prima. Così le “persone discusse”, eufemismo-capolavoro che abbisognerebbe delle musiche di Nino Rota, vengono gentilmente messe alla porta, e i mafiosi sono finalmente equiparati a divorziati, conviventi e tutti quelli non sposandosi in Chiesa hanno scelto il Demonio anche se non sono iscritti a nessuna cosca. Sembrano finiti i tempi in cui tra Chiesa e mafia ci si piaceva, tra ammuine e fuochi d’artificio alle feste del Santo Patrono, usate dalle ’ndrine per mandarsi messaggi e sancire il proprio potere sotto gli occhi indulgenti delle Madonne.
Questo Papa disturba l’intesa centenaria (raccontata da Gratteri e Nicaso in Acqua Santissima) e mette il dito nella piaga incerottata dai santini di Provenzano. Finché si parla di boss devoti, infatti, siamo nei pressi del folclore. È quando si constata che il padrinaggio non è solo l’istituto arcano e kitsch preferito dal malaffare per allargare la sua influenza, ma il fusto di una malapianta inestirpabile di tutto il Paese, che sono guai.
Così pare geniale e bislacca l’idea dell’Arcivescovo nel Paese in cui alla famiglia naturale si affianca e spesso si sostituisce non quella “spirituale” benedetta dal prete e composta da torme di compari e protettori, ma quella famiglia di interessi che si regge su favori e controfavori, aiuti e spintarelle, prossimità e entrature, e che non ha certo bisogno dell’olio santo per far lavorare ogni rotella della sua complessa e primitiva struttura.
PREFERENZE O NO, Porcellum o no, sotto elezioni si rinnova ogni volta il rito del padrinaggio politico. Tra vessilli di famiglie nobiliari o imprenditoriali srotolati dal palazzo del Comune e vassoi di sfogliatelle, frappe, panettoni, amaretti, illustrissimi sconosciuti vengono presi sottobraccio dal potente della sua cordata, che ne tesse le lodi sottomettendolo alla sua primogenitura celeste. Così l’aura del più vecchio, e sperabilmente il suo pelo sullo stomaco, si trasfonde sul nuovo, che porge la testa a un’immaginaria fonte battesimale. Ecce homo: se hai un favore da chiedere, se il tuo compare è in intesa col suo, se tuo figlio aspetta quella licenza, da oggi sai a chi rivolgerti.
Per non parlare del mondo del cosiddetto lavoro, sempre permeabile a quelle influenze stabilite da reti di relazioni para-parentali: se oggi è quasi un handicap avere un cognato deputato o un padre assessore (mentre sopravvive la figura gloriosa dello zio vescovo), il padrinaggio perdura come sistema che laicizza il Santo in Paradiso, tra il segreto di Fatima e quello di Pulcinella. Nei cunicoli del potere, dai corridoi Rai ai ponteggi delle grandi opere, ogni figlioccio ha un padrino, angelo del familismo amorale, l’opaca struttura che dà lavoro e sfama nei sensi più e meno nobili della parola, a dispetto di ogni moratoria di Arcivescovo.

l’Unità 2.7.14
Populisti senza futuro
di Michele Prospero


LA DESTRA ESTREMA DI FARAGE CHE, IN SEGNO DI SFIDA, VOLTA PLATEALMENTE LE SPALLE, mentre nell’aula di Strasburgo risuonano le note dell’Inno alla gioia, non compie solo un gesto volgare, che stride con quel senso delle istituzioni che sempre dovrebbe scandire la vita dei parlamenti democratici. Annuncia anche che per le accanite forze dell’antipolitica un fronte nuovo si è aperto, ed è dislocato dentro il cuore delle istituzioni europee. Il vecchio Hegel auspicava la pubblicità dei lavori parlamentari e celebrava le sedute descritte dalla stampa come una grande occasione per la crescita della società civile.
Pensava che il potere, sottoposto alla valutazione dell’opinione pubblica informata, operasse come «un grande spettacolo che educava egregiamente i cittadini». Quel sistema che connetteva il funzionamento degli organi della rappresentanza con la vigilanza critica della sfera pubblica, pare sempre più un paradisiaco mondo fantastico, che stride con le infernali cadenze della antipolitica di esportazione coltivata dalle destre europee. Se per Hegel «la pubblicità è il maggiore mezzo di educazione» (che suppone deputati che parlano tra loro sapendo «che devono servire da modello» per la cittadinanza che sta fuori il palazzo e va depurata da interessi e bisogni troppo angusti), per certi interpreti della antipolitica odierna, abituata al clima focoso della campagna elettorale permanente, quel momento di pubblicità per cui «le camere si connettono con il resto dell’opinione pubblica» cede ad ogni velleità pedagogica ed esalta invece la demagogia più sfacciata, la propaganda più becera, il gesto più rozzo. Un gesto in politica non è mai solo un gesto. Ha anche un significato sintomatico che rivela altre sofferenze che rimangono più nascoste.
Per questo la gazzarra degli uomini di Farage è anche un inquietante termometro del preoccupante livello di guardia cui è giunta in Europa la dialettica politica. E bene ha fatto il movimento di Grillo, che una formazione di destra radicale certamente non è, a dissociarsi dalle trovate degli scomodi alleati inglesi. Il problema di fondo però resta. Che senso ha per un non-partito trasversale (che raccoglie anche fette rilevanti di un consenso di sinistra) accasarsi con certe squallide figure e poi farsi venire gli scrupoli delle anime belle dinanzi alle loro prevedibili intemperanze? I movimenti populisti d’Europa sono tutti contaminati da un vizio d’origine. È certo lecito inveire contro le élite e aggredire le forme tradizionali della politica. Ma, quando si partecipa alle consultazioni e con il metodo democratico si raccolgono milioni di voti eleggendo schiere di deputati, si fa parte a pieno titolo delle disprezzate élite del potere. E non è più lecito agire dentro il palazzo con la intemperanza dei movimenti di protesta che annunciano il crollo del sistema o simulando la ingenuità dei semplici cittadini che esercitano un controllo sulle azioni del potere senza però sporcarsi le mani con l’onere delle scelte di governo.
Il male oscuro dell’Europa però non è la semplice antipolitica che irrompe come dialetto eccentrico e che a tratti si fa intollerante. Questa rude modalità espressiva, che rompe gli schemi abituali del confronto, è solo una manifestazione sintomatica. Il grande malato europeo rimane la crisi sociale che da sette anni colpisce e non trova le risposte adeguate, possibili ormai solo a livello continentale. La politica è ovunque travolta dal disagio sociale ma non riesce a rintracciare le condizioni culturali della propria autonomia. Eppure un ritorno della politica-progetto è indispensabile per spezzare il paradigma neoliberale che vede proprio nella politica che governa i processi una profonda irrazionalità.
Il liberismo, che vede nella politica autonoma dalle potenze del capitale una completa follia, e il populismo, che combatte contro lo spazio della rappresentanza in nome di spontanei e sempre genuini sentimenti coltivati dal basso, sono atteggiamenti tra loro speculari. Entrambi questi paradigmi lottano per impedire che la politica ritrovi una funzione e riconquisti cioè una autonomia che la riscatti dalla subalternità rispetto alle sentinelle del mercato e della finanza che con la mitologia dello Stato minimo hanno infranto il costituzionalismo europeo dei diritti. E in questo accanimento contro la ricostruzione di una politica che con autorevolezza torni a governare i processi sociali con misure di giustizia e di eguaglianza, gli euroscettici di piazza non sono poi così diversi dagli euroscettici di palazzo. In comune hanno l’avversione per ogni consolidamento delle istituzioni dell’Europa politica vista come condizione preliminare per uscire dalla crisi e dal malessere sociale sconfinato. Contestando Beethoven l’estrema destra europea fischiava contro il ritorno della politica e voltava le spalle al futuro.

l’Unità 2.7.14
Beethoven preso a calci

«Abbracciatevi, moltitudini. Questo bacio vada al mondo intero, fratelli». Quando, nel 1985, si decise che la Comunità europea doveva avere un inno e che l’inno doveva essere il movimento finale della Nona Sinfonia di Beethoven, noto ai più come l’Inno alla Gioia, si decise pure che lo si sarebbe eseguito senza parole. La decisione fu presa per non far torto a nessuno e anche perché – diciamolo – sul fatto che l’originale sia in tedesco qualcuno avrebbe potuto storcere il naso. Così le parole dell’ode «An die Freude» scritte da Friedrich Schiller nel 1785 e messe in musica da Ludwig van Beethoven, già sordo e malato, nel 1823 nelle cerimonie ufficiali dell’Unione europea non vengono cantate. Peccato, perché sono molto belle, esprimono l’anelito del Poeta alla fratellanza universale e furono scritte sotto la suggestione delle idee dell’illuminismo, quando tra gli artisti e i filosofi dell’Europa era diffusa l’idea che il progresso dell’umanità avrebbe portato pace e benessere in questa valle di lacrime. Magari. Schiller è morto nel 1805 e Beethoven nel 1827 e così il poeta e il compositore si sono risparmiati parecchie amarissime delusioni. Altro che lo sgarbo dei seguaci di quell’inglese con il cognome francese che con la corte dei suoi a Strasburgo ha mostrato il culo, più che all’Europa, alla musica e alla buona educazione. Chiediamo scusa per loro. Sono trascorsi due secoli ma per gli imbecilli gli anni non passano.

Repubblica 2.7.14
“Troppi tedeschi ai vertici”
di Andrea Tarquini


BERLINO. Troppi tedeschi, e soprattutto troppi democristiani di Angela Merkel, ai posti chiave nell’Europarlamento e nelle altre istituzioni dell’Unione europea. Ecco il mugugno diffusissimo a Strasburgo e Bruxelles, di cui riferisce ampiamente l’autorevole quotidiano liberal di Monaco Sueddeutsche Zeitung.
Su questo sfondo l’insistenza di Matteo Renzi a favore di Federica Mogherini come futuro “ministro degli Esteri” della Ue e di un riequilibrio delle nomine diventa partita europea, non solo italiana.
I conti sono presto fatti. Tre capigruppo parlamentari sono tedeschi: quelli di Popolari, Verdi e della Linke (sinistra radicale). Il socialdemocratico tedesco Martin Schulz è riconfermato. Il segretario generale dell’Assemblea, Klaus Welle, Cdu, resta in carica. Werner Hoyer, liberale tedesco, guida la Banca europea degli investimenti. Klaus Regling è al comando dello Esm, il fondo speciale salva euro istituito dall’eurozona. Uwe Corsepius, ex consigliere diplomatico di Angela Merkel, è segretario generale del Consiglio dei ministri dell’Unione europea. Martin Selmayr, democristiano tedesco, già capo dello staff elettorale di Juncker, è considerato altamente papabile come suo capo di gabinetto.
Il predominio tedesco viene denunciato dalla liberale francese Sylvie Goulard: «Troppo nazionalismo non è sano ». Purtroppo, la debolezza politica interna degli altri paesi crea vuoti di candidature che oggettivamente aprono spazio ai tedeschi. Nel Regno Unito, l’umore antieuropeo è così forte da rendere inappetibile a qualsiasi politico britannico l’ambizione pubblicamente espressa a una poltrona eccellente a Bruxelles o Strasburgo. In Francia, tutti sono sotto shock per il trionfo del Front National fascistoide e antieuropeo, e alla debolezza del Ps di governo e del suo impopolare capo dello Stato François Hollande si accoppiano ora i problemi interni alla Ump (opposizione di centrodestra) con l’indagine sull’ex presidente Sarkozy e altri scandali. In altri paesi, politici che meriterebbero poltrone europee temono di apparire candidati dei tedeschi: leader olandesi e finnici, la premier danese Helle Thorning- Schmidt, i due cavalli di razza polacchi, cioè il premier Donald Tusk e il ministro degli esteri Radoslaw “Radek” Sikorski.
Unica eccezione, l’Italia. Con Renzi, scrivono i media tedeschi, Roma ha ritrovato sia un ruolo, sia candidati credibili.

il Fatto 2.7.14
Fincantieri, l’ennesimo colpo dei soliti noti
Le privatizzazioni di Renzi
Le banche italiane infilano in tasca ai loro clienti le azioni della società che i fondi stranieri non hanno voluto
di Giorgio Meletti


Dicono che l’Italia stia cambiando verso, ma se si deve giudicare dal collocamento in Borsa delle azioni Fincantieri c’è poco da stare allegri. Anzi, l’impressione è che il premier Matteo Renzi stia mettendo la faccia, come ama dire, sull’ennesimo sconcio ai danni dei risparmiatori. Per capire la gravità della vicenda proviamo a ricostruirla nei dettagli.
Il 13 giugno scorso la Fincantieri ha comunicato di aver ottenuto dalla Consob l’approvazione del prospetto per la quotazione in Borsa. L’operazione è stata così descritta: collocamento di 704 milioni di azioni, a un prezzo compreso tra 0,78 e 1 euro; di questi titoli 104 milioni sono venduti dall’azionista finora unico di Fincantieri, la Cassa Depositi e Prestiti, mentre i restanti 600 milioni sono a titolo di aumento di capitale, cioè risorse che gli investitori versano nelle casse della società per rafforzarne il patrimonio e la capacità di investimento. In particolare, dei 704 milioni di titoli, 141 milioni sono destinati al pubblico dei risparmiatori (in gergo retail, che in inglese indica la vendita al dettaglio), mentre 563 milioni saranno offerti agli investitori istituzionali, cioè banche, fondi d’investimento e simili.
I clienti degli istituti usati come carne da cannone
Il comunicato della Fincantieri non dice che dentro il prospetto informativo - centinaia di pagine che il risparmiatore in genere non legge - è prevista la facoltà di claw-back. Che cos’è? Lo scoprirete più avanti. Il 16 giugno il pool delle banche collocatrici comincia a battere i mercati finanziari di mezzo mondo per piazzare le azioni. In Italia collocano le due maggiori banche nazionali, Intesa Sanpaolo e Unicredit. All’estero grossi nomi della finanza: Credit Suisse, Jp Morgan (che si avvale dell’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli) e Morgan Stanley, che schiera l’ex ministro dell’Economia Domenico Siniscalco. Una bella rimpatriata.
Il 27 giugno si chiude il collocamento e si scopre che, ohibò, i mitici mercati finanziari internazionali hanno mandato al diavolo i provetti venditori capitanati dai Grilli, Siniscalco e soci. Dei 563 milioni di azioni proposte ne hanno comprato appena una dozzina di milioni: in pratica le brillanti banche collocatrici hanno venduto la cinquantesima parte di ciò che il presidente della Cassa Depositi e Prestiti Franco Bassanini aveva affidato alle loro abili mani. Gli investitori istituzionali italiani per parte loro comprano una trentina di milioni di azioni, un ventesimo della quota offerta. Tra essi i grandi fondi di investimento che pure, in alcuni casi, fanno capo alle banche collocatrici.
Che cosa fa a questo punto il numero uno di Fincantieri Giuseppe Bono? Non si perde d’animo e corre ai ripari. Cancella l’offerta di azioni della Cassa Depositi e Prestiti in vendita, e riduce anche l’aumento di capitale, cosicché il collocamento si riduce da 704 a 450 milioni di azioni. Poi fissa il prezzo al minimo della forchetta, 0,78 euro. Ma il colpo del maestro si chiama claw-back. È la clausola che consente, in qualsiasi momento, di spostare i pesi del collocamento tra istituzionali e retail. I fondi internazionali hanno buone ragioni per tenersi alla larga dalle azioni Fincantieri? Benissimo, senza indagare oltre le hanno mollate ai risparmiatori italiani. Così agli istituzionali vanno 49 milioni di azioni (gliene avevano proposte 563 milioni), e ai poveri piccoli investitori privati che ancora si fidano della loro banca arrivano 401 milioni di azioni (313 milioni di euro sull’unghia) anziché i 141 milioni proposti.
Ci si potrebbe chiedere: ma se i risparmiatori i 400 milioni di azioni le hanno chieste, che male c’è? C’è che nessuno li ha avvertiti che i fondi internazionali su quelle azioni ci stavano sputando sopra. Chiunque frequenti le filiali delle banche conosce il ritornello che i funzionari sono addestrati a ripetere in cambio di un premio per ogni azione piazzata : “Guardi, è un’affarone, le Fincantieri andranno a ruba, la domanda sarà il triplo dell’offerta, quindi lei chieda tre lotti minimi da quattromila azioni, così quando si andrà al riparto avrà il suo pacchetto pari pari”. Puntualmente la domanda è stata il triplo dell’offerta (“un grande successo”), e adesso i nostri apprendisti stregoni si chiedono storditi: “Ma come mai i risparmiatori hanno capito la convenienza dell’affare e i soloni della finanza internazionale no?”.
“I fondi d’investimento non capiscono, i piccoli risparmiatori invece sì”
L’austero Sole 24 Ore, ha dato fiato a una considerazione indecente, suggerita dai trombettieri della grande operazione: “Chi ha seguito il dossier non addebita l'esito non brillante alla mancata distribuzione di dividendi per tre anni, quanto piuttosto alla difficoltà di far digerire l'operazione in breve tempo a investitori poco avvezzi al complesso business di Fincantieri”. Avete capito bene: i “poco avvezzi” sono i grandi fondi internazionali. I risparmiatori italiani invece hanno capito al volo il “complesso business”. Totò direbbe: “Ma mi faccia il piacere...”. Se Renzi consente che sotto il suo governo vengano fatti pasticci del genere poi magari non si lamenti se sente in giro un clima ostile alle imprese.
Domani il titolo Fincantieri fa il suo esordio in Borsa. Visto che nessuno ha voluto le azioni al collocamento c’è da vedere chi le vorrà comprare al listino. Allacciate le cinture.

il Fatto 2.7.14
Dalla Siria a Gioia Tauro
“Armi chimiche, troppi segreti: ministri non venite”
L’allarme dei sindaci di San Ferdinando e Rosarno: “trasbordo pericoloso, il governo ci ha tenuto all’oscuro”
di Enrico Fierro


inviato a Gioia Tauro (Reggio C.) La seconda nave è arrivata all’alba, alle quattro del mattino, con un’ora di anticipo rispetto ai tempi previsti. È la Ark futura, partita dalla Siria con un carico che parla di morte e distruzione: 600 tonnellate di armi chimiche. Micidiale Sa-rin, iprite e gas mostarda che verranno caricati sulla Cape Ray. Le due navi sono una al fianco dell’altra nel porto, tutto è pronto per il trasbordo, tutto è prontissimo, assicurano dalla sala operativa della prefettura, in caso di emergenze.
SULLE BANCHINE di Gioia Tauro sono state organizzate due stazioni di decontaminazione, un posto medico avanzato, una piazzola per l’atterraggio di elicotteri di soccorso, più due percorsi. Uno lo chiamano “pulito” e serve all’ingresso dei vigili del fuoco in “zona di eventuale contaminazione” l’altro, invece, lo definiscono “sporco” e serve all’uscita di persone “eventualmente contaminate”. Basterebbero solo i nomi a far tremare le vene ai polsi agli abitanti della Piana. Invece non si muove una foglia, nei Comuni che circondano il porto, Rosarno, San Ferdinando, Gioia, la gente è totalmente disinteressata. “Il porto? Sappiamo solo che siamo ancora in cassa integrazione. Il resto sono solo minchiate della politica” ci dice un ex portuale.
SAN FERDINANDO, sede del Comune. Il sindaco Mimmo Madafferi, 74 anni e tessera del Pd in tasca, è furibondo. “In Prefettura non vado, basta, mi sono rotto. Il governo ci sta prendendo in giro, siamo all’oscuro di tutto, non sappiamo neppure che tipo di sostanze saranno trasbordate. Dicono che arriva il ministro Galletti (a mezzogiorno terrà una conferenza stampa, ndr), se lo tengano a Reggio, per quanto mi riguarda non ho intenzione di ricevere nessun esponente del governo. Parlano del porto, della sua eccellenza, ci prendono in giro da anni con questa storia, la verità è che con questa operazione si spalancano le porte ad un uso militare delle nostre banchine. Possono fare tutto perché qui la gente è rassegnata”.
Bar di fronte al Municipio, gelati nella brioche e una foto in bianco e nero. 25 aprile 1975, 9,30 del mattino, il ministro della Cassa per il Mezzogiorno Giulio Andreotti assiste alla posa della prima pietra per la costruzione del porto di Gioia Tauro, “base d’asta 100 miliardi – informano le cronache dell’epoca – il più importante appalto indetto in ogni tempo nel nostro Paese”. Al rinfresco che seguì, dicono fossero presenti importanti esponenti del clan Piromalli.
Rosarno, qui è sindaco Elisabetta Tripodi, Pd anche lei. “Neppure io sono molto d’accordo con questa operazione, innanzitutto per una questione di metodo, noi sindaci e la gente del posto, lo abbiamo saputo dai telegiornali. Poi per la scelta di Gioia Tauro, infelice. La realtà è che qui abbiamo un porto in crisi e una cassa integrazione che dura da tre anni. Ma la gente è rassegnata, c’era più movimento e protesta a gennaio. La Calabria è senza voce, si sente suddita”. Mauro Francesco Minervino è un antropologo che da anni denuncia lo scempio ambientale della sua regione. Il suo libro più ferocemente contestato dal sistema di potere è La Calabria brucia.
“QUESTA è una regione saccheggiata, massacrata da abusi di ogni tipo. Le navi con le armi chimiche sono la dimostrazione che esiste una sorta di diritto di prelazione sulla Calabria da parte delle grandi potenze e dei gruppi di potere. Qui c’è una sorta di extraterritorialità del diritto internazionale e dei diritti civili. Lo dico perché c’erano mille altri porti, penso al Nord Africa e a Malta, da utilizzare. Ma hanno scelto questa terra, perché a Gioia Tauro le cose sporche le hanno già fatte. La Calabria è una regione acefala, la politica è debolissima, a Roma non contiamo un tubo, e qui stanno morendo anche i giornali”. Esagera lo studioso Minervino? Non proprio. Da mesi la Regione non ha più il presidente, Giuseppe Scopelliti, costretto a dimettersi dopo una condanna a sei mesi per falso in bilancio. Nel senso che formalmente Scopelliti non c’è, ma continua a firmare atti e il Consiglio è ancora in piedi. Con la totale complicità delle rachitica opposizione del Pd. I giornali. L’Ora della Calabria, quella dello scandalo Gentile, ha chiuso i battenti e il Quotidiano, presente in tutte le province e anche in Basilicata, è stato di fatto assorbito da un piccolo giornale di Avellino. Da poco è nato Il Garantista, finanziato da una cordata di imprenditori locali, molto schierato su battaglie contro il carcere duro per i mafiosi e lo scioglimento dei comuni condizionati dalla ’ndrangheta. “E noi siamo soli – ci dice Mimmo Macrì, portuale del sindacato Sul – non sappiamo cosa c’è in quelle navi, la realtà è che per due giorni ci metteranno tutti in cig. C’è tanta rabbia, ma nei singoli. La gente è sfiancata dalle promesse”. Il Porto doveva essere l’Eldorado, il Quinto centro siderurgico la fine della disoccupazione. Mille e 300 miliardi di investimento, ottomila posti di lavoro. Pane e prosperità. Alla fine, solo promesse e appalti inutili che hanno trasformato quattro pecorai delinquenti nella più potente holding criminale d’Europa.

l’Unità 2.7.14
Metro C senza fine
Già inghiottiti 5 miliardi Altri dieci anni di lavoro
Opera strategica per Roma, iniziata nel 2006 tra riserve e varianti un affare per i soliti noti

E i ritardi li paghiamo noi

La grande incompiuta sta sdraiata come Un immenso pachiderma sul più prezioso e delicato terreno del mondo, all’ombra della Basilica di Massenzio, sopra il merletto dei resti archeologici: è il cantiere della Metro C, con i suoi bandoni giallo-rossi,che rende virtuale la passeggiata pedonalizzata dei Fori. Per quanto tempo romani e visitatori dovranno convivere con il mammut, purtroppo, non è dato sapere, il ritardo nella consegna dei lavori si è cronicizzato - complice il fatto che il Consorzio di costruttori (Astaldi, Vianini, Consorzio cooperative costruttori, Ansaldo) non perde nulla: formalmente ci sono le penali per ogni giorno di ritardo ma è già aperto il contenzioso sulle responsabilità che, secondo il Consorzio, sono - ovviamente - del Campidoglio. Perdono i cittadini che pagano 275mila euro a metro lineare. Il tratto fino a piazza Lodi, la fermata che precede quella di San Giovanni, «sarà consegnata a fine agosto», promette il sito Metro C, ma si sa già che i collaudi non saranno terminati per quella data. E che la stazione appaltante, Roma metropolitane, società interamente partecipata dal comune, pagherà a parte i costi del pre-esercizio affidandolo allo stesso consorzio. Quello che si sta profilando non è che l’ultimo dei ritardi: l’opera è stata pensata nel 2001, progettata nel 2003, affidata al general contractor nel 2006, grazie a un ribasso di 360milioni di euro che, vinta, la gara, sono stati ampiamente compensati da riserve e varianti che hanno superato, nelle richieste, il miliardo di euro. Per avere un termine di paragone: a Madrid la costruzione del più recente tratto di «Tube» è stato ultimato in 36 mesi. Eppure il general contractor dovrebbe garantire l’opera chiavi in mano. Negli altri paesi è un soggetto terzo fra il pubblico e i costruttori, non una parte in causa.
Il sito web del Consorzio promette che le stazioni del Colosseo e piazza Venezia saranno pronte nel 2020. Nessuno ci crede, i più ottimisti parlano del 2025.
Metro C doveva costare, per intero, poco meno di 3 miliardi invece, già oggi, supera i 5. Intanto, però, ha perso pezzi: gli interscambi al Pigneto, quello con la linea D e, a nord, con le ferrovie. Metro C è nella Legge obiettivo proprio a causa della natura strategica, di una soluzione definitiva dei problemi di traffico traffico della Capitale. Ma, ad ogni pezzo che perde, viene menola strategia. La prima tratta doveva essere consegnata nell’aprile del 2011. Ora in Campidoglio si considera che saremo fortunati se i binari fino a Centocelle saranno messi in funzione nel 2015 (è il tratto di superficie che si è ingoiato il 92% del finanziamento). Mai passeggeri, al capolinea di Centocelle, si troveranno in un deserto urbano mal collegato con il resto della città. Per questa ragione, in base all’accordo concluso con la giunta Marino nel settembre del 2013, si dovevano completare i lavori fino a piazzale Lodi. Secondo indiscrezioni, si sta andando “indietro tutta” e, pur di aprire, si aprirà a Centocelle.
D’altra parte la situazione a San Giovanni non è senza handicap: il più recente si chiama perizia di variante n. 46, relativa alla costruzione del passaggio, a San Giovanni, dalla linea C alla linea A. È incredibile ma il progetto non la prevede e - allo stato degli atti - non si farà, a meno di nuovi extracosti. A San Giovanni i passeggeri dovranno uscire alla luce del sole e riscendere per prendere l’altra linea. Non è l’unico problema, l’altro - annoso - è la mancata progettazione del tronchetto per il cambio di marcia. La conseguenza è che, fra una corsa e l’altra, quando la linea sarà in funzione, ci saràun intervallo di 14 minuti. Al Colosseo, il buco che accompagnerà la vita romana per un paio di lustri, prelude a una, incomprensibile, megastazione. Nel progetto originario, là sotto, su richiesta dell’allora soprintendente Adriano LaRegina, doveva nascere, a compensazione, un museo archeologico. Il museo è scomparso ma la faraonica (e brutta a giudicare dai rendering) stazione sotterranea è rimasta, come se il viaggiatore aspirasse, invece che ad ammirare l’Anfiteatro, l’Arco di Costantino, i Fori e le basiliche, a una passeggiata nel centro commerciale sotterraneo, con buona pace delle attività su strada. L’aspetto più inquietante dell’ultimo anno è che subito dopo l’atto transattivo siglato il 13 settembre 2013, che doveva essere, secondo l’assessore Guido Improta, «tombale», il contenzioso è ripartito. La transazione si basa su una delibera Cipe che ha autorizzato il pagamento di 296 milioni di euro, altri costi, dice la delibera, saranno a carico del comune di Roma. Una determinazione dirigenziale del Campidoglio ha chiesto alla stazione appaltante RomaMetropolitane, di pagare la cifra, previa rinuncia del Consorzio al pagamento degli interessi. Metro C ha risposto minacciando una denuncia penale per concussione e Roma metropolitane, disattendendo la richiesta del comune, ha pagato senza fiatare.
È una vicenda che chiama in causa la stazione appaltante. All’assemblea romana del Pd di qualche giorno fa, il segretario, Lionello Cosentino, ha sollevato la questione, mettendo in fila la Metro C con il Mose e l’Expo, vicende legate dalle procedure «facili » della Legge obiettivo: «Il management è quello messo da Alemanno. Ora si parla di riassetto delle società del comune ma, prima di questo, sarebbe interessante ricevere una relazione su come sia stato possibile che i costi siano saliti da 3 a 5 miliardi». I ritardi non impediscono al Consorzio MetroCdiminacciare, ancora una volta, il fermo dei cantieri, perché il comune non ha pagato, nel 2013, lo stato avanzamento lavori (Sal). La cosa singolare è che il Campidoglio ha ricevuto dalla sua stazione appaltante, Roma Metropolitane, un decreto ingiuntivo. L'assessore Guido Improta ha annunciato che i vertici di Romametropolitane salteranno entro la fine del mese. In consiglio comunale, Athos De Luca, nota che la gestione di Roma metropolitane sarebbe costata 50 milioni di euro in 5 anni. E mette in dubbio che essa rappresenti gli interessi di Roma Capitale.

il Fatto 2.7.14
South stream Il tubo che serve a Mosca ma spaventa l’Europa
Il Maxi-condotto
Non possiamo contare sul gas americano e restiamo dipendenti da quello fornito da Putin. Che non si fida del tutto dell’Italia
di Gionata Picchio


Nel braccio di ferro politico e diplomatico tra Europa e Russia, che si è inasprito la scorsa settimana con l'accordo di libero scambio tra Unione europea e Ucraina, le infrastrutture energetiche come il South Stream sono diventate pedine chiave. Ma a chi serve il nuovo maxi-gasdotto? In certa misura proprio all'Europa, più di quanto Bruxelles voglia ammettere. Oltre naturalmente alle imprese partecipanti, tra cui le italiane Eni e Saipem. Ma più di tutti serve alla Russia, che dipende dai ricavi dell'export più che l'Europa dal suo gas.
L'Europa copre col metano quasi un quarto del suo fabbisogno di energia primaria. Il 30 per cento del gas che consuma viene dalla Russia e una metà di questo, circa 80 miliardi di metri cubi all'anno, transita per l'Ucraina. Negli ultimi anni le dispute Mosca-Kiev sul gas hanno portato all'interruzione dei flussi all'Europa nel 2006 e nel 2009. La risposta russa è stata tentare di aggirare l'Ucraina, a Nord col gasdotto North Stream con approdo in Germania, capacità 55 miliardi di metri cubi all'anno, inaugurato nel 2011-12, e a Sud con il South Stream, 63 miliardi di metri cubi all'anno, invece ancora da costruire.
I soci del tratto offshore del progetto , che attraverserà il Mar Nero per poi proseguire via Balcani fino in Europa centrale, sono la russa Gazprom col 50 per cento, Eni col 20, la francese Edf col 15 e la tedesca Wintershall, controllata di Basf (15). La decisione finale di investimento sul tratto sottomarino è stata presa nel 2012. L'avvio della prima linea è atteso a fine 2015 e dell'ultima nel 2018.
Con lo scoppio della crisi russo-ucraina, la tensione sul progetto è cresciuta. Se Bruxelles, da sempre sostenitrice del progetto rivale Nabucco, oggi tramontato, non aveva mai guardato South Stream con simpatia, da febbraio è passata a un aperto ostruzionismo. Arrivando di recente a chiedere e ottenere dalla Bulgaria, paese di transito del gasdotto, l'interruzione dei lavori sul tratto locale avviati a fine 2013.
Il bluff di Bruxelles
Nella linea europea non mancano le contraddizioni. Incoraggiando Kiev a spostare il suo asse verso Ovest, l'Europa ha contribuito a innescare una transizione politica dal futuro incerto. Conseguenza immediata e certa però è stata una nuova disputa sul gas tra Mosca e Kiev che la Ue fatica a gestire e che minaccia la sua stessa sicurezza energetica.
Nella partita con Mosca, Bruxelles insiste inoltre nel mostrare una carta che non ha: la possibilità di rinunciare dall'oggi al domani al gas russo. In realtà è vero che col calo dei consumi degli ultimi anni e la crescita delle rinnovabili il potere contrattuale della Russia si è fortemente ridimensionato. E che una limitata interruzione dei flussi sarebbe gestibile. Ma tutt'altra cosa è pensare di fare di colpo a meno di 130 miliardi di metri cubi di gas ogni anno.
Nessuna delle alternative ipotizzabili, infatti – dall'impostazione dagli Stati Uniti dello shale gas (quello estratto dalle rocce) alle forniture dal Mar Caspio – può coprire l'ammanco almeno nel medio termine. Nella migliore delle ipotesi gli Stati Uniti esporteranno circa 20 miliardi di metri cubi annui dal 2015 e altrettanti dal 2018, e per averli l'Ue dovrà competere con i prezzi dell'Asia. Quanto al Caspio, se il gasdotto Albania-Puglia TAP riuscirà a superare le opposizioni locali, porterà 10 miliardi di metri cubi annui di gas azero dal 2019. Infine, l'Europa può certo ridurre il peso del gas nel proprio mix energetico ma anche questo richiede tempo e risorse. Non a caso, in conclusione, secondo il think tank Oxford Institute for Energy Studies, da un punto di vista puramente commerciale la scelta migliore per l'Ue sarebbe di sostenere South Stream.
Meglio l’Austria che Tarvisio
Al maxi-gasdotto, che oltre a Eni vede in campo Saipem nella posa della prima linea, non mancano del resto neppure i sostenitori. Nato nel 2007 proprio in seno alla partnership tra Eni e Gazprom, South Stream ha sempre goduto dell'appoggio dei governi italiani, sia con l'ex premier Romano Prodi
– a cui, come racconta lui stesso, il Cremlino offrì perfino la presidenza del consorzio dopo la fine del suo governo – sia con Silvio Berlusconi, fino ad arrivare all'attuale governo.
Ciò non ha impedito tuttavia a Gazprom di spostare nei giorni scorsi dall'Italia all'Austria all'Italia il punto di arrivo europeo della pipeline. Interpellato dal Fatto Quotidiano l'ufficio stampa di Gazprom conferma che con gli accordi perfezionati la scorsa settimana con l'austriaca OMV – per anni sul fronte opposto come capofila del Nabucco – “l'approdo di South Stream in Europa diventa Baumgarten e non più Tarvisio”, come previsto negli ultimi anni.
Lo hub austriaco è oggi il più importante dell'Europa centrale e da qui il gas potrà proseguire per l'Italia attraverso il già esistente gasdotto TAG, controllato dalla Cassa depositi e prestiti, ha rimarcato nei giorni scorsi il numero due di Gazprom Alexander Medvedev.
In ogni caso il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro dello Sviluppo Federica Guidi ribadiscono spesso la strategicità dell'opera per il nostro Paese. E d'altra parte l'Italia non è l'unica voce "stonata" con le posizioni di Bruxelles verso la Russia. Ci sono i paesi di transito del South Stream, come la Bulgaria o l'Ungheria.
Costretti alle esportazioni
Altri Paesi sono legati a Mosca da una forte interdipendenza commerciale. Oltre alla stessa Italia è il caso della Germania, in prima linea (almeno fino a poco fa) nell'auspicare una soluzione negoziale alla crisi ucraina. O della Francia, che partecipa a South Stream con Edf e con la Russia ha in ballo una fornitura di navi porta-elicotteri per 1,2 miliardo di euro. In ogni caso la più interessata alla realizzazione di South Stream resta la Russia. Negli ultimi anni con la crisi dei consumi e l'aumento della concorrenza sul mercato Ue, la leadership di Mosca come fornitore di gas dell'Europa è finita sotto pressione. E in questo contesto di domanda già debole le politiche Ue su efficienza e rinnovabili hanno progressivamente eroso spazi di mercato al gas e il processo è destinato a proseguire. Per l'economia russa invece l'esportazione di gas rimane vitale per far quadrare i conti. Come emerge da un'analisi di Federico Pontoni e Antonio Sileo pubblicata sul sito lavoce.info, ad esempio, Gazprom realizza la stragrande maggioranza dei propri margini con l'export in Europa. Numeri che i recenti accordi russi con la Cina, pur aprendo prospettive di diversificazione nel medio termine, non bastano per ora a riequilibrare.

il Fatto 2.7.14
Argentina, un mese per evitare gli avvoltoi
Tango Stonato Lo Stato ha tenuto nascosti i dati del tracollo economico. Ora i nodi della gestione folle vengono al pettine: un mese per trovare l’accordo coi creditori
di Mario Seminerio


Nei giorni scorsi l'Istituto nazionale di statistica dell’Argentina ha comunicato che il Pil del paese è diminuito, nel primo trimestre, dello 0,8% su base trimestrale. Questo dato, sommandosi al calo dello 0,5% del quarto trimestre dello scorso anno, sancisce l'entrata del paese sudamericano in recessione, secondo una regola piuttosto rozza ma convenzionalmente accettata. È noto che le fonti ufficiali argentine non sono particolarmente affidabili, per usare un eufemismo, ma aver ammesso la contrazione (che probabilmente è di magnitudine ben superiore) è il dato rilevante.
I circoli viziosi di Cristina Kirchner
Quella argentina è una vera e propria horror story economica e di cocciuta negazione della realtà da parte dei suoi eletti ma anche degli elettori, di quelle che andrebbero insegnate nelle scuole quale paradigma di autoinganno destinato a finire in lacrime. È la retorica del primato della politica sull’economia, che in astratto sarebbe pure un principio a cui tendere, ma che in molti casi viene declinato in una dimensione onirica sin quando non accade il trauma epocale.
L’Argentina, sotto la guida di Cristina Fernandez de Kirchner, succeduta al suo defunto marito Nestor Kirchner, ha portato all'estremo il disprezzo della realtà, in un circolo vizioso che è ormai prossimo al capolinea.
La volontà politica di dare sussidi a chiunque e più in generale l’uso compulsivo della spesa pubblica hanno causato forti deficit fiscali, ma anche la progressiva perdita di competitività di un paese da sempre beneficiato dalla ricchezza di risorse del proprio territorio. Per questa via sono comparsi deficit commerciali che sembrava impossibile conseguire, e con essi il deflusso di valuta pregiata, i dollari. A questo punto, anziché tentare il riequilibrio e uscire dal mondo dei sogni in cui è possibile regalare tutto a tutti, la Kirchner si è imbarcata in una serie di azioni che hanno posto le basi per la catastrofe successiva.
Intanto, la manipolazione dei dati economici. Una grande tradizione delle classi politiche, quello di rompere il termometro. E quindi ecco l’istituto nazionale di statistica impegnato a manipolare i dati di inflazione effettiva. In questo caso anche per un motivo molto tangibile: i titoli di Stato legati all’inflazione emessi dal governo argentino, al crescere del costo della vita, costringono le casse pubbliche a spendere di più. Un po’ come farebbe un giocatore d’azzardo votato alla rovina, che raddoppia la posta a ogni giro per rifarsi delle perdite, il governo argentino, in luogo di fare un discorso adulto ai propri connazionali, ha dapprima preso il controllo della Banca centrale, privandola dell’indipendenza per appropriarsi delle sue riserve valutarie e, soprattutto, della sua capacità di stampare moneta, aumentando in tal modo gli squilibri.
Un gioco d’azzardo votato alla rovina
Poi è giunta l'era del controllo feroce dell’esportazione di valuta, con effetti tragicomici, come i super dazi imposti sugli acquisti dall’estero a mezzo di e-commerce, con l’obbligo aggiuntivo per i sudditi di recarsi personalmente a sdoganare l’acquisto.
E ancora, i crescenti vincoli all’uso delle carte di credito per i turisti argentini che si spostano anche solo in Uruguay con ferryboat per cercare gli agognati dollari; le restrizioni al rimpatrio dei profitti di aziende estere operanti sul suolo argentino, sino alla nazionalizzazione della società petrolifera Ypf, controllata dagli spagnoli di Repsol. Ma le riserve in dollari continuavano a calare: motivo per cui, a fine 2013, il governo ha accettato un “gradone” di svalutazione del cambio del peso e ha iniziato un timido cambio di direzione. Rialzo dei tassi d’interesse (e conseguente recessione), riapertura del negoziato col Club di Parigi dei paesi creditori, accordo con Repsol per indennizzarla dell'esproprio di Ypf. Il paese ha una disperata fame di capitali esteri per evitare la morte di un’asfissia largamente autoinflitta. E per ottenerli dovrà compiere dolorosissimi sacrifici. Nei giorni scorsi una sentenza della Corte suprema statunitense ha ordinato al governo argentino di pagare capitale ed interessi anche ai cosiddetti holdout, cioè agli investitori che hanno rifiutato di subire la decurtazione dei propri investimenti dopo il default, definiti sprezzantemente “avvoltoi” dalla Kirchner. All’Argentina, che afferma che il rispetto di questa sentenza causerebbe l’innesco di una giostra infernale che le dimezzerebbe le riserve valutarie, è materialmente impedito di pagare gli obbligazionisti che avevano accettato il concambio post-default del 2001. Avendo mancato il pagamento del 30 giugno, è iniziato il cosiddetto “periodo di grazia”: c’è tempo fino al 30 luglio per trovare un accordo con gli holdout ed evitare un nuovo disastroso default. In prospettiva, non si può neppure escludere che Buenos Aires richieda aiuti internazionali, magari allo stesso odiato Fmi.
Beffarda nemesi, quella capitata al paese che volle ignorare la realtà e che ora rischia di vedere vanificati i propri sforzi di tornare a giocare con le regole della medesima, perseguitata dal proprio passato. Ma è tutt'altro che scontato che la lezione possa servire anche a tutti i masanielli d’accatto che sovraffollano l’offerta politica italiana e che per anni, e sino a tempi molto recenti, hanno elevato uno Stato fallito come l’Argentina a improbabile modello di sovranità e giustizia sociale.

il Fatto 2.7.14
Falchi di guerra sui funerali dei tre adolescenti uccisi
La destra chiede la pena di morte, nei territori rinasce il jihadismo
di Giampiero Gramaglia


Riposa in pace, Naftali, figlio mio. Sentiremo sempre la tua voce nei nostri cuori”. È il saluto che Rachel Fraenkel, una madre ebrea, ha dato ieri al suo ragazzo di 16 anni, uno dei tre adolescenti rapiti e uccisi in Cisgiordania. Eyal aveva 19 anni, Gilad 16: è sua la voce che sussurra “Mi hanno rapito” in una telefonata alla polizia diffusa sul web. In Israele è stata una giornata di dolore e rabbia: tutto il Paese ha idealmente partecipato ai funerali, con il presidente Shimon Peres, ministri, generali, tanta gente comune. Il premier Benjamin Netanyahu ha trovato parole intense: “Un baratro morale ci separa dai nostri nemici. Loro celebrano la morte, noi la vita. Loro inneggiano alla crudeltà, noi alla pietà”. Eyal, Gilad e Naftali frequentavano la scuola rabbinica: sono stati sepolti, l’uno accanto all’altro, nel cimitero di Modiin, una colonia ultra-ortodossa tra Tel Aviv e Gerusalemme, dove la tensione è altissima. Un nuovo insediamento ebraico in Cisgiordania sarà intitolato alla loro memoria. Ci fu un tempo, peggiore di questo, in cui Israele viveva con frequenza drammi del genere e ne era quasi assuefatta. Adesso, l’eccezionalità dell’episodio ne acuisce il trauma. E le preghiere dei giusti, come la condanna unanime della diplomazia internazionale, non attenuano la frustrazione.
I TRE RAGAZZI erano scomparsi il 12 giugno. I cadaveri sono stati ritrovati lunedì, in un campo vicino a Hebron, non lontano da dove erano stati visti l’ultima volta mentre facevano l’autostop. Sequestro e uccisioni non sono stati finora rivendicati in modo convincente, ma Israele ne attribuisce la responsabilità ad Hamas. A caldo, il governo Netanyhau s’è però diviso sulla risposta militare e s’è per ora “limitato” a raid aerei notturni su Gaza, colpendo tra lunedì e martedì 34 obiettivi, facendo alcuni feriti. Due palestinesi sono rimasti uccisi in operazioni dell’esercito in Cisgiordania, a Jenin e a Hebron . Sempre a Hebron sono state rase al suolo le abitazioni di due presunti assassini attivisti di Hamas. Sono state le prime demolizioni “punitive” dal 2005. I falchi della coalizione al governo chiedono azioni più dure. Il partito filo-coloni giudica blandi i bombardamenti e propone otto possibili azioni, alcune delle quali “estreme”: operazioni su larga scala, confisca dei beni di Hamas, introduzione della pena di morte. Il governo deve ora decidere come procedere: modulare l’ampiezza della rappresaglia sulle pulsioni dell’opinione pubblica e gli inviti internazionali alla moderazione. Il rischio è quello di infiammare ulteriormente una Regione in fermento per l’avanzata degli jihadisti in Siria e in Iraq. Hamas nega ogni responsabilità diretta, ma non ha misconosciuto sequestri e omicidi. E avverte Netanyahu : “In caso di escalation militare, si apriranno le porte dell’inferno”. Il recente accordo tra Fatah e Hamas vacilla, Gaza e i Territori avvertono l’eco degli appelli qaedisti alla Guerra Santa. L’integralismo palestinese si ritrova più isolato e impotente che mai: la riconciliazione con Fatah doveva servire a sormontare difficoltà economiche. Ma ora Gaza si sente abbandonata dal suo governo ed esposta alla ritorsione israeliana.

Repubblica 2.7.14
David Grossman
“Per combattere il terrorismo bisogna sostenere Abu Mazen”
Di F. S.


Lo scrittore israeliano ha perso un figlio, Uri, nella guerra combattuta contro Hezbollah in Libano nell’estate del 2006. A lui ha dedicato il suo ultimo libro: “Caduto fuori dal tempo”. Eppure non nutre alcun odio, solo indignazione e tristezza. “Il dolore che la nazione prova in questo momento deve farci capire anche la sofferenza della parte opposta, che ogni vittima lascia dietro di sé un vuoto terribile”, dice. “L’unica via possibile verso una soluzione pacifica del conflitto - aggiunge - è rafforzare il governo dell’Autorità nazionale palestinese. Se il premier invece si arrenderà ai desideri di vendetta, cederà anche al terrorismo: il suo obiettivo non è altro che cancellare ogni possibilità di dialogo”.
MODIN . «È un giorno particolarmente difficile: vedere le bare di tre giovani, pieni di vita, dai volti raggianti, come riflettono le loro fotografie, e pensare che il loro futuro sia stato così crudelmente spezzato, che siano stati così brutalmente assassinati, provoca indignazione ed anche molta tristezza. È un giorno di grande tristezza. Tristezza per loro, ma anche per le migliaia di giovani israeliani e palestinesi, che già da 66 anni perdono la vita in un circolo chiuso di guerra, che non finisce mai. Basta pensare a quello che questi giovani israeliani e palestinesi avrebbero potuto sperimentare nella loro vita, avrebbero potuto creare, produrre e dare come contribuito alla loro società e vedere che tutto ciò è stato strappato loro a causa dell’odio, del fondamentalismo, della totale mancanza di capacità di fare i passi necessari per cambiare la situazione e portare la pace». La voce di David Grossman - lo scrittore israeliano che più incarna la generazione che alla pace non ha mai smesso di credere - tradisce l’emozione di chi ha subìto la scomparsa violenta e precoce di un figlio, l’animo che non riesce a trovare più pace e vive nel dolore dell’assenza.
Il dolore uccide la speranza?
«La speranza, il desiderio, è che il dolore che la nazione prova in questo momento le faccia capire anche il dolore della parte opposta, che ogni vittima ha genitori, una famiglia, degli amici, che lascia dietro di sé un vuoto terribile, che cambia la vita di tutti coloro che rimangono. Ma la realtà ci mostra che molto spesso le persone che hanno subìto una perdita diventano più estremiste. Il dolore le fa diventare vendicative e, senza che nemmeno se ne accorgano, diventano propagatrici di odio e violenza e provocano ad altri la stessa sofferenza di cui loro stesse sono state vittime».
Abu Mazen aveva appena concluso un accordo politico con Hamas. Ora questa tragedia rischia di affondarlo completamente...
«Non so se questo sia la fine dell’accordo. A priori non ho mai pensato che Anp e Hamas potessero andare d’accordo, perché i loro obiettivi sono diversi, il loro modo di operare è diverso: il governo di Abu Mazen si è discostato dal terrorismo in maniera totale, lo ha condannato senza mezzi termini e con molto coraggio e umanità, ha condannato il rapimento, dicendo: “È vero, sono coloni, ma sono anche esseri umani”. E credo che sia necessaria grandezza d’animo per dire una cosa del genere. Mentre Hamas non nasconde di volere costruire uno Stato islamico sulle rovine dello Stato d’Israele. Dal mio punto di vista, l’unica via è indebolire Hamas e rafforzare i partigiani della pace. Quanto più Israele rafforzerà Abu Mazen, darà speranza ai palestinesi nella Cisgiordania e quanto più gli abitanti di Gaza vedranno che il fanatismo e l’odio per Israele li sospingono sempre più profondamente nella miseria e nell’infelicità cambieranno: forse all’inizio soltanto per tattica, ma poi capiranno che la strada del dialogo e della pace porterà loro una vita migliore e il soddisfacimento di una parte delle loro aspirazioni e dei loro desideri. Non di tutti, ovviamente. Le stesse cose le dico anche al governo di Israele. In questo momento, mentre stiamo parlando, si sta radunando il gabinetto di sicurezza, che deve decidere quali misure prendere: ci sono proposte molto estremiste, dall’annessione di parte dei Territori occupati fino alla riconquista di Gaza per distruggere le infrastrutture di Hamas. Tutte queste idee alla fino faranno sprofondare noi e i palestinesi in una tragedia ancora più profonda: molte persone vi perderanno la vita e alla fine Israele e i palestinesi si ritroveranno allo stesso punto, in una situazione in cui nessuno dei due è in grado di liberarsi dell’altro e nessuno dei due è in grado di fare la pace».
Una strada possibile?
«La strada deve essere completamente diversa: ci deve essere il riconoscimento che la violenza non genera altro che una violenza ancora più grande. Temo che Israele reagirà in modo molto duro, poiché questa volta l’impatto è stato molto forte su moltissimi israeliani: se Netanyahu vuole dimostrare oggi di essere un vero leader, deve frenare le forze estremiste e non arrendersi a loro. Se, in ultimo, vi si arrendesse, questa sarebbe anche una resa di fronte al terrorismo: l’obiettivo del terrorismo palestinese è di cancellare ogni possibilità di dialogo fra Israele ed i palestinesi».

l’Unità 2.7.14
Israele può sconfiggere Hamas ma rischia il precipizio jihadista


Mai come in questo momento, dopo il barbaro assassinio dei tre ragazzi israeliani, la partita militare e quella politico-diplomatica sono tra loro strettamente intrecciate nell’eterno conflitto israelo-palestinese. Il primo a comprenderlo è Benjamin Netanyahu. Nella drammatica riunione del Gabinetto di governo successiva alla notizia del ritrovamento dei cadaveri di Eyal, Gilad e Naftali, il primo ministro israeliano ha dovuto frenare i falchi del suo esecutivo che richiedevano una immediata, devastante, operazione militare contro i terroristi di Hamas: la soluzione finale. Netanyahu ha frenato. Non perché si sia scoperto «colomba» maper calcolo politico. Nei giorni della formazione del governo di riconciliazione nazionale palestinese, il governo Fatah-Hamas, il premier israeliano aveva ammonito la comunità internazionale a non dare aperture di credito ad un esecutivo che inglobava una «formazione terroristica», Hamas per l’appunto. Ma l’avvertimento di Netanyahu era caduto nel vuoto. A Washington come nelle più influenti cancellerie europee, per non parlare delle capitali arabe.
SUL FILO DEL RASOIO
Tutti, con diverse gradazioni ma senza eccezioni, avevano manifestato la disponibilità a verificarlo nei fatti, un governo palestinese garantito dal presidente moderato, unico interlocutore su piazza: Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ora lo scenario è totalmente cambiato. Stravolto. Prim’ancora che una (spregevole) azione contro Israele, l’uccisione dei tre ragazzi è un colpo mortale inflitto alla residua credibilità di Abu Mazen. Il sequestro è avvenuto in quella Cisgiordania che avrebbe dovuto essere controllata dai servizi dell’Autorità Palestinese, un’area dove, sulla carta, Abu Mazen e Fatah potevano contare su un maggiore sostegno, e controllo del territorio, rispetto ad Hamas. Sulla carta. Perché nella realtà è da tempo ormai che Fatah ha perso terreno, nei campi profughi della West Bank come nelle università cisgiordane. Quanto poi all’efficienza dei servizi dell’Anp, questa è sempre stata vicino allo zero. Abu Mazen non è capace neanch edi controllare il giardino di casa sua, come potete credere che possa farsi garante di un compromesso con noi? Questo è il messaggio lanciato da Netanyahu ai leader mondiali in queste tragiche ore.
Certo, la politica unilaterale portata avanti da Tel Aviv, in particolare il rilancio in grande stile della colonizzazione dei Territori, ha contribuito e non poco a depotenziare la già malmessa linea del dialogo perseguita dalla leadership di Ramallah. Maresta il fatto che non solo agli occhi d’Israele, Abu Mazen si sia rivelato ancor meno di un’«anatra zoppa». La tragedia è che all’orizzonte non si intravede la figura di un leader forte, riconosciuto, capace di riuscire laddove tutti i suoi predecessori (compreso Yasser Arafat) hanno fallito. Il vuoto lasciato da una leadership debole, priva di carisma, viene ora colmato da figure che agiscono nell’ombra, dentro e fuori la Palestina.
Da questo punto di vista, l’assassinio di Eyal, Gilad, Naftali, è anche uno smacco della leadership politica di Hamas. Perché, se la politica ha ancora una logica, in questo momento di tutto avevano bisogno i capi politici di Hamas - da Khaled Meshaal a Ismail Haniyeh - meno che di un crimine così efferato, che fa saltare il tentativo di essere «sdoganati» dalla diplomazia internazionale. Ma questo elemento apre uno scenario per certi versi ancor più inquietante, non solo per Israele ma per l’intero scenario mediorientale. Uno scenario terremotato dall’avanzata di Isil in Iraq e dalla costituzione del «Califfato islamico» sulla dorsale Mosul-Aleppo. L’assassinio dei tre adolescenti israeliani potrebbe voler dire che cellule salafite, jihadisteo qaediste, «dormienti» in Palestina hanno avuto l’ordine di uscire allo scoperto, di agire, anche in sintonia, ideologico- operativa, con le parti più radicali delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas. Secondo recenti rapporti di intelligence occidentali, in Cisgiordania sarebbero presenti al meno un centinaio di cellule jihadiste. Un numero che si triplica nella Striscia di Gaza. Ciò che è avvenuto dimostra che quella compattezza nella catena di comando che aveva per lungo tempo contrassegnato l’agire di Hamas, è venuta meno.
Oggi, lo scontro non è più quello,c ome fu in passato, tra la dirigenza di Gaza e quella all’estero: lo scontro è interno alle varie anime di Hamas, ed ora trova protagonisti altri attori, mentre la vecchia guardia si scopre orfana dei suoi sponsor storici nell’infido Medio Oriente: quei Fratelli musulmani egiziani spazzati via dalla controrivoluzione del generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi. Fallita la via diplomatica, quella che sembra emergere è una «Terza intifada» eterodiretta, destinata a fare della «causa palestinese» un tassello di un disegno regionale che mira a ridisegnare non solo gli equilibri ma addirittura i confini statuali dell’intero Medio Oriente. Un nemico di questo genere, bene armato, pieno di soldi, privo di scrupoli, è ancor più difficile da combattere e da sconfiggere anche per uno dei più agguerriti, e meglio addestrati, eserciti al mondo: Tsahal.
Chi governa oggi in Israele lo sa bene. Per questo Netanyahu può vincere una battaglia - contro Hamas -ma perdere la guerra col nuovo Nemico: la piovra jihadista dai mille tentacoli. Se vista in questa luce, quella che si sta consumando in Terra Santa è una tragedia dove non ci sono vincitori. Ma solo sconfitti. Israeliani e Palestinesi. E noi con loro.
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il Fatto 2.7.14
Lo storico  I timori di Zeev Sternhell:
“I coloni vogliono vendicarli subito”
di Alessio Schiesari


Non c’è dubbio: Netanyahu sta usando l’uccisione dei tre ragazzi per chiudere in cassetto il processo di pace”. Zeev Sternhell – storico, saggista (in Italia pubblicato da Baldini&Castoldi ed editorialista del quotidiano Haaretz – è da sempre una colomba in polemica con l’ala più conservatrice del movimento dei coloni. È un sionista, ma un sionista atipico, che sembra preoccupato dall’aria che si respira in questi giorni a Gerusalemme.
Qual è l’Israele che sta affrontando i funerali dei tre ragazzi assassinati?
C’è sete di vendetta. Forse tra qualche giorno la situazione si raffredderà, ma ora l’aria brucia. Nessuno però sa come reagire. Il ministro della Difesa, Moshè Yaalon, ha proposto di costruire nuove colonie in Cisgiordania. È un modo di dire: “Ehi, da qui nessuno ci può cacciare”. Intanto l’esercito continuerà a rendere difficile la vita ai palestinesi . Ma c’è il rischio che la situazione sfugga di mano.
Cioè?
La vendetta dei coloni. Credo che il governo voglia dare una risposta forte, ma non brutale. Dovrà però essere sufficientemente energica da soddisfare i partiti di destra e i coloni. L’opinione pubblica chiede che i responsabili – non solo quelli dell’assassinio dei ragazzi, ma tutti i sostenitori di Hamas – soffrano. Che, tradotto in azione politica, significa più colonie.
Fin da subito il governo ha puntato l’indice contro Hamas, che però nega. Gli israeliani sono sicuri di avere individuato i responsabili?
Qui nessuno è sicuro di niente. Le notizie arrivano dai giornali. Ovviamente ce ne sono di indipendenti, ma nessuno può prescindere dalle fonti militari. Il fatto che alcuni importanti leader di Hamas siano spariti rafforza l’ipotesi che quella sia la pista giusta. Di buono c’è che i servizi di sicurezza dell’Olp e l’esercito israeliano stanno lavorando insieme, anche tanti palestinesi vogliono sapere cos’è successo.
Che senso avrebbe avuto per Hamas uccidere tre studenti?
Non c’è una motivazione politica chiara. Per questo bisogna capire se sia trattato di un’iniziativa individuale, com’è più probabile, o se invece sia un ordine partito dall’alto.
Che ne sarà del processo di pace, benché solo abbozzato?
Qui non c’è nessun processo e non c’è nessuna pace. John Kerry e Barack Obama c’hanno provato, ma il governo israeliano non ha dato risposte positive. Non avrebbe senso: qual è il dividendo politico nel fermare l’occupazione e riconoscere la Palestina indipendente? La tragedia dei tre ragazzi è stata usata come arma politica per condizionare l’opinione pubblica e chiudere in un cassetto ogni abbozzo di pacificazione. Per cambiare le cose ci vorrebbe un governo diverso, una coalizione diversa, ma non è facile. Sono processi politici complessi: siete italiani, dovresti saperlo bene anche voi.

Corriere 2.7.14
Lo Stato ebraico circondato da nuovi muri Ma può sperare negli amici regionali
Di Benny Morris


In questi ultimi mesi, Israele ha visto innalzarsi barriere da ogni lato, che minacciano di accerchiare e isolare lo Stato ebraico. Tre anni fa, l’ondata rivoluzionaria che ha investito il mondo arabo, la cosiddetta Primavera araba, annunciava una soluzione strategica duratura nella regione, con l’indebolimento di Egitto e Siria, le due principali potenze militari arabe che in passato hanno ripetutamente sferrato guerre sanguinose contro Israele. 
Ma i recenti sviluppi a Washington, in Turchia, Iraq e Siria, come pure nei territori palestinesi (in Cisgiordania e a Gaza) e persino in seno alla minoranza araba di Israele - 1,5 milioni di cittadini su una popolazione di 8 - sembrano tramare per isolare Israele, limitare i suoi spazi di manovra e minacciare il suo futuro. Negli Stati Uniti, il governo americano ha criticato Israele per il fallimento degli ultimi colloqui di pace con i palestinesi. Il presidente Obama non si ripresenterà alle prossime elezioni e pertanto non si preoccupa di ingraziarsi gli elettori ebrei né di rastrellare i loro contributi finanziari alla campagna elettorale. In molti hanno girato le spalle a Israele, abbandonandolo al suo destino. In Turchia, il primo ministro islamista Erdogan - sostenitore di Hamas a Gaza e dei Fratelli Musulmani in Egitto - gode di crescente popolarità e sicuramente si presenterà alle elezioni presidenziali, visto che già si prepara, con riforme legislative mirate, a rafforzare i poteri della presidenza nei prossimi mesi. 
La potente offensiva lanciata dal movimento sunnita Isis, nemico di Israele, nel nord e nell’ovest dell’Iraq, oltre al crescente predominio di questa organizzazione tra le milizie che combattono contro il regime di Bashar Assad a Damasco, pone chiaramente una seria minaccia a lungo termine per Israele. Sui confini di Israele, i territori palestinesi sono in crescente subbuglio, in seguito alla rottura dei negoziati israelo-palestinesi, che rimandano a un futuro non meglio definito la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese, e dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani in Cisgiordania. A seguito del drammatico evento, risalente a due settimane fa, Israele ha imposto la sua presenza militare nell’area di Hebron, causando la morte di cinque palestinesi nel corso dei setacciamenti alla ricerca dei ragazzi e dei loro sequestratori, arrestando circa 500 militanti (in prevalenza di Hamas). Le truppe israeliane stanno rendendo ancora la vita difficile nei territori, mentre danno la caccia ai rapitori assassini. Tuttavia, c’è ben poco che Israele possa fare nei confronti della leadership di Hamas, la quale si guarda bene dallo scatenare un attacco in grande stile, con il lancio di missili contro Tel Aviv, per non rischiare le ire del governo americano. 
In Israele, i rappresentanti della minoranza arabo-israeliana potrebbero essere già in rotta di collisione con il governo. Un parlamentare arabo della Knesset, Hanin Zoabi, ha dichiarato di recente che i rapitori e assassini dei tre ragazzi «non sono terroristi». Allo stesso tempo, Netanyahu ha approvato la messa al bando dell’organizzazione islamista arabo-israeliana, notoriamente solidale con Hamas. Se la sua proposta dovesse passare, proteste e scontri di piazza saranno inevitabili. 
Ma non tutto è perduto. All’orizzonte si profila qualche spiraglio di ottimismo. Innanzitutto, il rovesciamento del regime dei Fratelli Musulmani in Egitto, per opera dell’esercito egiziano, sotto il generale - oggi presidente - Al Sisi. In secondo luogo, la crescente potenza del governo autonomo del Kurdistan nel nord dell’Iraq. Entrambi questi sviluppi contribuiscono a rafforzare la posizione strategica di Israele. Tanto Al Sisi quanto Israele hanno interesse a combattere un nemico comune, i Fratelli Musulmani, i cui leader sono quasi tutti in prigione, e a distruggere il movimento islamista clandestino nella penisola del Sinai. Negli ultimi anni questi islamisti, nascosti tra le tribù beduine della penisola, hanno sferrato attacchi sia contro l’esercito egiziano sia contro bersagli israeliani. Al Sisi inoltre non è amico del regime di Hamas a Gaza, in cui vede il braccio palestinese della Fratellanza. 
In quanto al Kurdistan iracheno, dove Israele sin dagli anni Sessanta ha appoggiato i ribelli curdi contro il governo centrale di Bagdad, le forze locali hanno allargato la loro zona di influenza - inglobando la città petrolifera di Kirkuk - man mano che le truppe governative si ritirano verso sud sotto l’offensiva di Isis. Ieri Netanyahu, contrariamente alla politica americana, che punta a mantenere uno Stato iracheno unificato, ha espresso senza mezzi termini il sostegno di Israele alla trasformazione della zona autonoma curda in un vero Stato indipendente. 
(Traduzione di Rita Baldassarre )

Corriere 2.7.14
Quell’odio che acceca nel nome dell’«anti sionismo»
di Pier Luigi Battista


Scrivi di provare pietà per Naftali, Gilad e Eyal e verrai sommerso dagli insulti
Scrivi su Twitter che Naftali, Gilad ed Eyal, i tre ragazzi ebrei rapiti e trucidati in terra palestinese, dobbiamo sentirli come i «nostri» ragazzi, soffrire con loro e con le loro famiglie, averne pietà, detestare i terroristi che li hanno martirizzati, scrivi soltanto questo e verrai sommerso da un diluvio di insulti e contumelie. Il più benevolo tratta quei ragazzini di 16 anni come i numeri di un’equivalenza: non un briciolo di pietà che non contempli, simultaneamente, l’orrore per le gesta di padri descritti come orchi con le mani sporche di sangue. Il più accecato e inselvatichito dal fanatismo antisionista equipara tout court quei tre ragazzi agli aguzzini che non meritano compassione. E senti ancora una volta che una dismisura mostruosa colpisce gli ebrei, il sionismo, l’immagine di Israele. Come se un eccesso di violenza polemica ottenebrasse qualunque ragione, e anche qualunque sentimento semplicemente umano. 
La politica non c’entra. Il giudizio politico si interroga sul perché i terroristi hanno voluto colpire in modo così infame tre adolescenti che amavano studiare i testi religiosi e cantare nelle feste che rinsaldano la coesione della comunità. Il giudizio politico può anche criticare i vertici dello Stato di Israele se non sono capaci di fare una pace stabile con i palestinesi. Il giudizio politico spera che la reazione israeliana non porti altri lutti di innocenti. Il giudizio politico sa che la guerra è sempre una cosa atroce. Ma l’odio forsennato per Israele che non riesce a scolorirsi nemmeno di fronte allo spettacolo di tre ragazzi intenzionalmente annientati solo perché bollati con l’etichetta per gli assassini così repellente di «sionisti» eccede ogni giudizio politico. È fanatismo duro. È la disponibilità ad accogliere ancora la leggenda nera degli «ebrei» condannati a un destino cruento che non considera sfumature, giudizi equilibrati. Come se Israele e il sionismo fossero l’ultima materializzazione del Male assoluto per contrastare il quale non si deve escludere nessun mezzo, anche il più ripugnante. Anche il Terrore. Non la guerra, che colpisce indiscriminatamente. Ma il Terrore che colpisce uno ad uno le sue vittime, tre ragazzi che non stavano facendo nulla di male se non, semplicemente, esistere in una delle terre più incandescenti dell’universo. 
Il mondo è pieno di tiranni sanguinari, ma nessuno attira una quantità smisurata di odio come Israele, che peraltro non è una tirannia ma una democrazia, eppure viene descritta, senza alcun rispetto per la verità storica, come una congrega di carnefici assetati di sangue palestinese. Quando sono stati rapiti i tre ragazzi (raffigurati come usurpatori violenti di una terra altrui, senza alcuna mediazione), a Roma pattuglie di imbrattatori si sono adoperati per coprire pubblicità israeliane con scritte che deploravano l’essenza «nazista» di Israele. Gruppi di fanatici europei (gli italiani in prima fila in questa classifica della vergogna) partecipavano alla danza macabra che consisteva nel far compiere ai bambini palestinesi gesti con le tre dita che inneggiavano al rapimento dei tre ragazzi, quasi coetanei ma «luridi sionisti»: un sabba di odio e di ignoranza che non è nemmeno giustificato dalla vita degli oppressi, perché è il frutto di uno schematismo ideologico folle e disumano nato qui, non nato nelle terre martoriate. Manipoli di odiatori che non dicono una sola parola sull’oppressione mostruosa che fa sprofondare nella dittatura molti Stati geograficamente contigui ad Israele ma nemici acerrimi del «sionismo» e da sempre nemici di una soluzione politica pacifica per gli israeliani e i palestinesi che contempli la convivenza di due Stati per due popoli. 
Jorge Semprun la chiamava «emiplegia ideologica»: un modo di vedere doppio che nasconde una parte della realtà per deformarne un’altra. Sono gli odiatori che non vogliono dire una parola di pietà per Naftali, Gilad ed Eyal. Che aggredivano anni fa le manifestazioni per chiedere la liberazione di un altro giovane israeliano, Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da Hamas, e scambiato con un numero elevatissimo di prigionieri palestinesi. Un odio illimitato, aperto, dichiarato, rivendicato. Senza che faccia scandalo, nell’Occidente che piange per La vita è bella o per Schindler’s List , l’orrore di ragazzi ebrei, uccisi perché ebrei, in nome dell’«antisionismo».

Corriere 2.7.14
Marcia tra i grattacieli Hong Kong si ribella ai padroni della Cina
Mezzo milione in piazza per la democrazia
di Guido Santevecchi


HONG KONG - Il primo luglio è festa a Hong Kong. Lo decisero le autorità per celebrare il giorno del 1997 in cui la colonia britannica fu restituita alla Cina. Ma ieri alla manifestazione ufficiale per il 17° anniversario c’erano solo un paio di centinaia di anziani, sembravano pensionati precettati dal partito sotto uno striscione rosso con su scritto «Stabilizzare Hong Kong». Qualche chilometro di distanza e il colpo d’occhio era tutto diverso, per niente «stabilizzato»: il Victoria Park pieno di gente chiamata a raccolta dal movimento democratico per protestare contro Pechino, per chiedere di potersi scegliere i candidati alla carica di «chief executive», come qui viene chiamato il capo dell’amministrazione speciale, il governatore. 
Un mare di persone, per la grande maggioranza giovani, una foresta di cartelli con la scritta «Difendiamo la nostra città», «Suffragio universale», «Candidature libere», ha attraversato Hong Kong per ore. Ha piovuto, diluviato ieri, ma la gente non si è fatta scoraggiare, solo qualche tentativo di ripararsi sotto i cavalcavia e poi avanti ancora, verso Central, il cuore della metropoli finanziaria. Quanti erano? Gli organizzatori puntavano a 500 mila. Nel Victoria Park ci sono sei campi di calcio, prima della marcia i manifestanti per la democrazia li avevano riempiti tutti, e anche le strade intorno erano un fiume di gente. In questi casi è sempre difficile valutare, e anche questa volta ci sono stime differenti. Ma i reporter dei quotidiani di Hong Kong ci dicono di non aver mai visto una cosa del genere sulla loro isola. 
Erano settimane, mesi, che Hong Kong si preparava a questa giornata. Il confronto tra i due campi, quello legato alla madrepatria cinese e quello che vuole mantenere l’unicità della città. Fino al 2047 la Cina si è impegnata alla regola «un Paese due sistemi»: così Hong Kong dovrebbe mantenere libertà di parola, di stampa, di manifestazione, magistratura indipendente. E la città ad amministrazione speciale dovrebbe avere elezioni a suffragio universale nel 2017; ma il governo centrale cinese non vuole correre rischi e perciò esige che i candidati siano nominati da un consiglio di «saggi» fidati, con l’aggiunta che per essere in lista bisogna aver dimostrato di «amare la patria cinese». Così un migliaio di giovani attivisti riuniti nel movimento «Occupy Central with Love and Peace» e di docenti universitari cresciuti nel mito del «Rule of Law», lo Stato di Diritto ereditato dai britannici, hanno lanciato una sfida: un referendum informale sulla legge elettorale. Con l’obiettivo di ottenere libertà di scelta dei candidati alla carica di «chief executive». Pechino ha reagito pubblicando un libro bianco che ricorda: «L’autonomia di cui gode Hong Kong non è scontata, non è un diritto ereditario, è una concessione del governo cinese». 
Un monito che suona come la campana a morto per il principio «un Paese due sistemi», una minaccia di trasformare Hong Kong in un’altra delle cento città tutte uguali dell’impero. Ma proprio il desiderio di resistere ha spinto gli hongkonghesi a votare in massa nel referendum: quasi 800 mila. E poi a scendere in piazza. Nel successo del referendum c’è anche la protesta della gente, i più giovani in prima linea, contro la diseguaglianza sociale che ha creato qui la più alta concentrazione di milionari dell’Asia. «Senza un sistema democratico non è possibile premere sul governo per un cambiamento e un riequilibrio sociale», ci dicono i ragazzi di «Occupy Central». Se la loro voce non sarà ascoltata hanno giurato di occupare il distretto finanziario. 
Oltre alla parola democrazia, non è un caso che la bandiera più sventolata a Hong Kong sia quella del business. Per invocare la calma si sono schierate le camere di commercio internazionali (compresa quella italiana) con un appello a pagamento sui giornali; e le quattro potenti società di revisione, Ey, Kpmg, Deloitte e PwC, hanno ammonito che le multinazionali potrebbero abbandonare la città. Le grandi banche tacciono, ma agiscono: Hsbc e Standard Chartered hanno smesso di fare pubblicità sui giornali che sostengono il movimento anti-Cina. La libertà di stampa, con quella di manifestazione, e l’indipendenza del sistema giudiziario, sono i tratti caratteristici di Hong Kong. Ma da mesi i giornali sono sotto assedio. Ne parliamo con Jia Xi Ping, direttore del Ta Kung Pao , quotidiano locale schierato con la Cina. «Hong Kong è tornata alla madrepatria da 17 anni, è naturale che l’influenza di Pechino sia cresciuta». Il direttore non nega differenze conflittuali: «Noi siamo cresciuti nel comunismo, loro nel capitalismo, bisogna creare una nuova cultura. Ma sulla questione del suffragio universale nel 2017 non ci può essere discussione: qualcuno pensa che si possa svolgere come se Hong Kong fosse una nazione indipendente, non è così. Punto». 
Fuori però, i cronisti, anche quelli di Ta Kung Pao , ci dicono che la coda del corteo è potuta partire da Victoria Park solo alle sette di sera, tre ore dopo la testa, tanta era la folla. Si è fatto buio, si vede qualche falò: bruciano pagine con la scritta «Libro bianco di Pechino» e ritratti dell’attuale governatore, CY Leung, quello che al mattino, davanti al gruppetto di anziani precettati dal partito, aveva inneggiato all’amore per la madrepatria. Dal buio spunta un gruppetto di ragazzi fradici di pioggia e sudore. Portano una bara nera in spalla. Che cosa è? «Il funerale dell’illusione un Paese due sistemi», dicono. Ma intanto continuano a marciare, perché oggi Hong Kong è loro . 


Corriere 2.7.14
Il cardinale Zen: «Pechino ci vuole schiavi»
G. Sant.


HONG KONG - Joseph Zen Ze-kiun, cardinale emerito di Hong Kong, ha 82 anni. La settimana scorsa ha marciato nelle strade per 84 ore, in maglietta bianca con la scritta «referendum». E ieri è stato in strada ancora, per il grande corteo. Sua eminenza incita a difendere la formula democratica che l’ex colonia britannica ha ereditato da Londra. «È stato un mezzo miracolo», dice ora il cardinale, seduto in una stanza del seminario dei salesiani, stretto tra le belle colline verde tropicale e i grattacieli popolari grigio cemento. 
Cardinale, perché ha deciso di aderire in modo così spettacolare? 
«Perché libertà civile e libertà religiosa sono inseparabili. E in Cina sono negate entrambe. Per questo ho chiesto ai fedeli cattolici (350 mila su circa 7,2 milioni di abitanti, ndr) di votare, anche se la consultazione era solo simbolica. E il risultato è stato un mezzo miracolo: quasi 800 mila hongkonghesi hanno partecipato al referendum che si è concluso domenica». 
Un giornale di Hong Kong ha scritto che il dialogo tra Pechino e Vaticano potrebbe riprendere. Non teme di compromettere questa apertura con il suo appoggio al movimento democratico? 
«Non vedo tracce di dialogo e anche se Pechino dovesse tendere la mano, in queste condizioni sarebbe un inganno. Io conosco bene la situazione per la Chiesa cattolica in Cina: i nostri poveri vescovi sono schiavi, il partito comunista nega loro rispetto, cerca di privarli anche della dignità. Minaccia i loro familiari, oppure li tenta con promesse di favori inaccettabili. Noi non possiamo tacere». 
Quindi nessun dialogo, lei continuerà a far sentire la sua critica forte da Hong Kong? 
«Io dico a Roma che se da Pechino arrivassero concessioni vere per la Chiesa, allora potrei tacere. Se il Papa me lo chiedesse io potrei tacere, perché dietro il Santo Padre c’è lo Spirito Santo. Ma in questo momento è mio dovere parlare». 
Non spera che papa Francesco possa venire in Cina? 
«Io ora gli direi: “non venga, sarebbe manipolato”. I pochi coraggiosi non lo potrebbero incontrare, mentre il partito comunista gli presenterebbe i vescovi illegittimi, anche i tre scomunicati». 
Non pensa che il presidente Xi Jinping meriti un po’ di fiducia? 
«All’inizio avevamo qualche speranza in Xi, figlio di un riformista. Ma poi ha detto chiaro e più volte che il partito comunista non deve mollare neanche di un palmo, per non fare la fine dell’Urss. Per questo Xi non vuole accettare un voto libero a Hong Kong, ha paura che la gente lo possa chiedere anche in Cina». 
Qualcuno a Pechino ha parlato di legge marziale se la situazione a Hong Kong dovesse richiederlo. 
«La repressione? È possibile tutto, ma non c’è scelta. L’alternativa è accettare di essere schiavi». 


Repubblica 2.7.14
Il laboratorio dell’amore
Perché quattro matrimoni su dieci falliscono miseramente? Che cosa unisce? Che cosa divide? Se lo sono chiesti due psicologi che da quarant’anni studiano migliaia di coppie in un centro nel West degli Stati Uniti. Le loro profezie si sono rivelate esatte al 90%. La risposta che hanno trovato alle loro domande è in due parole di sconvolgente banalità
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON. IN UN laboratorio nel lontano West degli Stati Uniti sulle sponde dell’Oceano Pacifico, costruito e truccato per sembrare un civettuolo albergo di vacanze e riposo, migliaia di cavie umane transitano da 40 anni per aiutare i ricercatori a scoprire il segreto dell’amore. Non l’amore profano, la passione, il sesso, ma quel misterioso elemento che tiene unito un matrimonio oltre le colonne d’Ercole del tempo della noia, dell’abitudine e del divorzio. I media lo hanno ribattezzato the “Love Lab”, il laboratorio dell’amore e i due psicologi che lo hanno costruito, John e Juilie Gottman, preferiscono ovviamente questa romantica definizione al teutonico, e un po’ inquietante, nome accademico ufficiale, il Gottman Institute.
Ogni 30 secondi, neppure il tempo di bollire l’acqua, una coppia negli Stati Uniti divorzia. E i Gottman, insieme con un medico generalista e uno stuolo di assistenti nel laboratorio costruito sui terreni della Washington University, ogni giorno lavorano per fermare le lancette dei naufragi coniugali che cominciano a ticchettare nel momento stesso del giuramento reciproco e porteranno quattro matrimoni su dieci all’esplosione prima di raggiungere l’ottavo anno. Nessuno di loro, naturalmente, contesta la civiltà del divorzio, né il diritto di porre fine a relazioni e vite di coppia insostenibili, ma ogni matrimonio che muore è comunque un fallimento, oltre che spesso una catastrofe economica: soltanto in parcelle di avvocati e in spese legali, i divorzi costano ai coniugi 30 miliardi di dollari all’anno, abbastanza per costruire e varare tre superportaerei nucleari.
Se gli esperimenti e le ricerche nel Laboratorio dell’Amor Coniugale riaffiorano ogni anno nel mese di giugno (come è capitato anche una settimana fa con ampie citazioni sui giornali, tanto da meritare questo approfondimento solo su di loro) è perché questo è il mese per eccellenza dei “sì” che saranno pronunciati da coppie: circa 150mila volte, dalle cattedrali di Manhattan alle cappelle al neon con i fiori di plastica e i finti Elvis di Las Vegas. Voti che sono stati scambiati, fatti salvi episodi di profonda intossicazione alcolica non infrequenti a Las Vegas, di calcoli cinici e di infatuazioni momentanee, con profonda convinzione e partecipazione dai protagonisti. Perché mai, si chiesero i Gottman quarant’anni or sono, in quegli Anni ‘70 che registrarono l’esplosione di quell’istituto matrimoniale, addirittura di quel sacramento nel caso dei riti cattolici romani, che altre generazioni avevano vissuto per amore o per forza come indissolubile, quattro su dieci di quegli sposi falliranno miseramente in pochi anni?
Le statistiche e la gigantesca letteratura legale e giudiziaria hanno da tempo individuato le cinque cause principali dei naufragi, in America: nell’ordine, la mancanza di comunicazione; le finanze di famiglia; le violenze fisiche o psicologiche; la perdita di interesse nell’altro e, buon’ultima, l’infedeltà. Ma quello che il “Laboratorio” voleva scoprire era che cosa unisse, non che cosa dividesse. Dopo avere compulsato tonnellate di carte ed estrapolato numeri a chilometri (la prima scienza nella quale John Gottman si era laureato al Mit di Boston era la matematica), la moglie e lui decisero di condurre test fisiologici e psicologici sui volontari. Centotrenta coppie di novelli sposi furono invitate per un soggiorno nel resort sul Pacifico e trattate come fossero in luna di miele. In cambio, mariti e moglie, non necessariamente giovani, ma anche maturi, si sottoponevano a qualche ora di test condotti con elettrodi, contatti, misuratori di pressione, rilevatori di sudorazione, studio della muscolatura facciale, a tutti gli esami che potessero misurare le loro reazioni di fronte al coniuge e nelle situazioni di conflitto.
La prima ed essenziale scoperta fu una profonda differenziazione fra coloro che i Gottman chiamarono i master, i padroni di sé, e i disaster, quelli probabilisticamente avviati alla catastrofe. Ciò che distingueva gli uni dagli altri era la capacità dei master appunto di padroneggiare il meccanismo fondamentale di reazione di ogni animale di fronte a una difficoltà: l’istinto di fight or flight, di battersi o fuggire. Quanto più brusca e forte era la reazione misurata dagli strumenti, tanto più probabile era che ogni pretesto, ogni discussione, ogni lite nel futuro della coppia potesse degenerare nella fuga o nella lotta. Quanto più serena e collaborativa, al contrario, era la risposta, tanto maggiore sarebbe stata la disponibilità ad affrontare insieme gli inevitabili ostacoli e le trappole della vita di ogni coppia.
Piccoli esempi di futuri comportamenti erano ricavati da episodi apparentemente irrilevanti, come il “caso del picchio”. Nei boschi attorno al Love Lab, i picchi abbondano, e inevitabilmente passeggiando uno dei due sposi ne avrebbe notato uno. «Guarda! Un picchio!». L’osservazione, notano da allora i ricercatori, ha spesso nulla a che vedere con un improvviso interesse ornitologico. Lei, o lui, vogliono semplicemente indicare un oggetto di attenzione, un fiore, un animale, una vista, che possa servire a stabilire un dialogo con l’altro, dove il picchio, o l’usignolo, o la civetta, sono soltanto il pretesto. I master sanno rispondere al richiamo e aprire una conversazione, anche se dei picchi a loro non potrebbe importare di meno. I disaster si stringono nelle spalle e restano con i propri pensieri. «Si voltano via, anziché voltarsi verso l’altro » riassume Gottman.
Alle fine dei test, delle osservazioni e degli esami, le coppie di quella prima vacanza sotto gli sguardi dei cercatori d’amore furono seguite e così tutte le altre che presero via via il loro posto. E nello spazio di decenni, le profezie distillate dagli alambicchi
del laboratorio si sono rivelate esatte al 90%. Nove su dieci coppie candidate all’insuccesso divorziano entro gli 8 anni della media nazionale. E nove sulle dieci master sono arrivate oltre i 30 anni di unione. Un successo fondato su due parole di sconvolgente, quanto apparente banalità: gentilezza e generosità.
Non cortesia formale, da portiera aperta, non generosità da ninnoli e fiori (anche se contano pure quelli), ma gentilezza e generosità di spirito, nella ricerca dei pregi altri, nel riconoscimento dei sacrifici, nell’accettazione dei propri limiti. La capacità di apprezzare l’impegno, anche quando il risultato è pessimo, risolve i conflitti più banali che possono incancrenirsi fino a intossicare. Tutto, nel laboratorio dell’amore, alla fine si riassume nel dualismo fra la “passività distruttiva” e la “passività costruttiva”, nel dare, per ricevere. È sempre l’ingrediente magico di Giulietta, quando dice a Romeo: «Eppure io non desidero altro se non quello che possiedo, la mia generosità». Anche se bisogna ammettere che la loro storia non finì proprio benissimo.

l’Unità 2.7.14
No al velo integrale, la Corte europea sta con Parigi
Il volto coperto mina le relazioni sociali
I giudici ammettono però che il divieto incoraggia l’intolleranza


La norma che vieta di indossare il «velo integrale» imposto dal governo francese alle donne musulmane in Francia, «non è contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo» e «non viola la libertà di religione». Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che in questo modo ha risposto al ricorso di una giovane 20enne francese, secondo la quale la misura imposta dal governo di Parigi «avrebbe violato la sua libertà religiosa e di coscienza». Un punto di vista respinto dalla Corte di Strasburgo che considera legittimo l’obiettivo che si pone la legge francese, ossia quello di «promuovere l’armonia nella società». Non mostrare il volto mina le relazioni sociali e il vivere insieme. Quella di ieri è la prima sentenza su un caso del genere da quando nel 2010 il Parlamento francese ha approvato il divieto entrato in vigore nel 2011, di indossare il «burqa» e il «niqab».
La giovane donna che aveva presentato ricorso a Strasburgo aveva chiarito che «non nasconde il viso tutto il tempo, ma lo fa ogni tanto, per essere in pace con fede, cultura e convinzioni». Ed ha pure aggiunto che «nessuno, nemmeno il marito, la costringe a coprire il viso». Indossare il velo, quindi, sarebbe una sua libera scelta.
Per i contrari al divieto la legge «prende di mira i musulmani e stigmatizza l’Islam, che in Francia rappresenta una realtà importante, con i suoi 5 milioni di persone - una obiezione parzialmente accolta dai giudici che hanno ammesso che la norma in sé rischia di alimentare l’intolleranza. Ora, con la legge «anti-velo », le donne che si coprono il viso possono ricevere una multa da 150 euro oppure essere obbligate a frequentare un corso sulla cittadinanza. Se in un primo tempo il provvedimento era considerato «una misura di sicurezza», dato che le donne con il burqa o il niqab erano viste come potenziali estremiste e terroriste, poi le autorità francesi hanno chiarito come con quella proibizione volessero garantire il rispetto del «modello francese dell’integrazione», che prevede «l’assimilazione delle minoranze alla cultura della società ospitante».
Proprio questo ha motivato la critica al provvedimento di Amnesty International che giudica quel divieto «profondamente dannoso», perché «punisce le donne che esprimono le proprie convinzioni » e rappresenta «un colpo per il diritto alla libertà di espressione e religiosa ». In più lancerebbe un messaggio preoccupante: «Le donne non sono libere di esprimere le proprie opinioni religiose in pubblico». Lo spiegato il direttore del programma di Amnesty per l’Europa e l’Asia centrale, John Dalhuisen. «La Corte - ha osservato - ha accettato la tesi secondo cui il fatto di indossare il velo integrale sia contrario alle norme sociali prestabilite, necessarie per “vivere insieme”». «Come la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ribadito più volte - ha spiegato - il disagio e lo shock sono il prezzo che le società democratiche devono pagare per rendere possibile “il vivere insieme”. La verità è che costringendo le persone a “vivere insieme”, questa sentenza finirà per costringere una piccola minoranza a vivere separatamente, visto che in effetti obbliga le donne a scegliere tra l’espressione delle loro convinzioni religiose e la presenza in pubblico». Per questo Amnesty International giudica la legge anti-velo «né proporzionata, né necessaria».

Corriere 2.7.14
Strasburgo: vietare il burqa non viola i diritti umani
di Luigi Offeddu


STRASBURGO -Non è «una vittima» come dice di essere, S.A.S., ragazza di 24 anni, di passaporto francese e religione islamica. Se lo Stato le vieta di portare il burqa o altri veli integrali sul viso, come fa con una legge dal 2011, lo fa giustamente, per far sì che siano rispettate le «condizioni del vivere insieme», fra le quali c’è anche la libertà di guardarsi in faccia. 
Così ha sentenziato la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, con una decisione a maggioranza che tocca uno dei nervi più delicati dell’Europa del ventunesimo secolo. 
S.A.S. si era rivolta alla Corte sostenendo che né il marito, né alcun altro, le avevano mai imposto di indossare il burqa - tunica con copricapo totale, di tradizione afghana - o il niqab, velo che lascia scoperti solo gli occhi. «A volte li indosso, a volte no», ha detto poi la donna nell’aula. «Ma sono sempre libera di scegliere». 
Vere o no che fossero queste parole, i giudici hanno applicato un altro metro. Non si sono appellati ai motivi di sicurezza anti-terrorismo, che furono all’origine delle leggi anti-burqa in Francia e in Belgio - gli unici Paesi Ue ad averle mai proposte, e approvate. Ma hanno cercato di analizzare se questo divieto violasse la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I magistrati hanno ritenuto che vi siano tre principi in gioco: rispetto per l’uguaglianza di genere, rispetto per la dignità umana, e rispetto per le esigenze minime della vita in società, definibile anche come la necessità del «vivere insieme». Smantellati gli argomenti adottati dalla controparte a proposito dei primi due principi - nel senso che non sarebbero minacciati dal divieto di burqa e niqab - la Corte ha concluso che «la barriera eretta contro gli altri, da un velo che nasconde il volto, potrebbe minare la nozione del “vivere insieme”. Anche perché il volto “svolge un ruolo significativo nell’interazione sociale». 
«Gli individui potrebbero non desiderare di vedere, in luoghi aperti a tutti - ancora parole dei magistrati - pratiche o attitudini che chiamerebbero fondamentalmente in questione la possibilità di avere aperte relazioni interpersonali; quelle che formano, per consenso generale, un elemento indispensabile nella vita di comunità». 
In realtà, in Francia come in Belgio, è l’applicazione pratica di questa legge che rende tutto più difficile. 
A Bruxelles, per esempio, burqa e niqab sono rarissimi. Li indossano in genere donne di mezza età, con famiglia al seguito. La polizia raccomanda agli agenti elasticità. Ma nel dicembre 2011, uno di questi controlli con perquisizione provocò per una notte una rivolta di quartiere. Quanto ai timori del terrorismo islamico, qui non mancano certo: solo poche settimane fa l’odio ha colpito ferocemente il museo ebraico. Ma si tratta di azioni pressoché militari, purtroppo ben organizzate, e finora non sono stati trovati legami fra queste e i burqa. Nel frattempo, molte famiglie musulmane iscrivono le figlie alle scuole cattoliche dove possono portare il velo (mai il burqa) senza troppe curiosità altrui. 


l’Unità 2.7.14
Schroeder &Blair, la terza via del business


BLAIR E SCHRODER NON SONO UN BELL’ESEMPIO. E richiamarsi al famoso manifesto di entrambi del 1999 come ha fatto Renzi (La strada in avanti per i socialdemocratici in Europa) poi tradottosi nell’Agenda Schroeder 2003, varata nel 2010, è un errore.
Manifesto e agenda hanno reso Gran Bretagna e Germania due fra i paesi più inegualitari del mondo. Con taglio di pensioni, welfare, scuola e diritti. Dove ciò è accaduto di meno - la Germania - è stato per effetto della Concertazione, odiatissima da destra e liberal. La Konzertation ha costituito una sorta di politica dei redditi, con contratti di solidarietà e premi di produzione che hanno salvato il grosso della classe operaia tedesca dalla frantumazione. E lì il contratto nazionale ha un grande peso. È stato decisivo a stabilire il patto tra produttori che ha reso la Germania coesa e competitiva. Nel segno della Mittbestimmung, coi sindacati nei consigli di sorveglianza (e Schroeder tutto ciò non è riuscito ad eliminarlo!).
Ma per il resto ha ragione da vendere Luciano Gallino su Repubblica, quando cita i lavoratori in affitto triplicati (dal 2003 al 2102 da 300mila a 900mila), la metà degli occupati fino a 35 anni con contratti a termine, e un quarto degli occupati globali a basso salario (Niedriglohn): 8milioni di persone a 6 euro netti. E all’est a 2! Dati vergognosi, che si aggiungono al saccheggio sistematico della ex Germania est, con metà dei maschi adulti ormai assistiti, desertificazione e rapina delle industrie e degli immobili, discrimianzione di ogni tipo per gli «Ossie». Ed ecco altri numeri: dal 1989 al 2009 la Germania ha «investito» sull’est 1200 milioni di marchi, incassandone altrettanti dalle tasse dei lavoratori immigrati ad ovest, e ben 1400 come patrimonio incamerato. Infine Blair e Schroeder lavorano oggi l’uno per gli sceicchi, e l’altro per Gazprom. Soldi a palate, bugie sull’Iraq (Blair), conferenze e consulenze. La loro «strada in avanti» continua piuttosto bene, no?

l’Unità 2.7.14
Il respiro di Ovidio
«Le Metamorfosi» Tradotte da Sermonti
Scrive l’autore a proposito Del poema: «Undizionario mitologico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo» E l’approccio al testo È rigoroso, appassionato ma aperto al presente
di Giulio Ferroni


VITTORIO SERMONTI HA UNA DISPOSIZIONE ECCEZIONALE A FAR SENTIRE NELL’ARIA IL RESPIRO DELLA GRANDE LETTERATURA, seguendone tutte le pieghe senza tradire i significati originari, ma aprendoli alla piena comprensione presente: e senza nessuna imposizione del proprio rilievo di interprete, senza quella tendenza, comune a tanti interpreti e a critici anche prestigiosi, a prevaricare sui testi, a farne quasi uno specchio di sé. Le sue celebri letture dantesche hanno fatto davvero percepire il respiro della Commedia, l’hanno fatta vibrare nell’aria attraverso una dizione e una spiegazione misurate ed essenziali, hanno fatto toccare nello stesso tempo la distanza estrema di quel mondostorico e la sua vicinanza, il suo così essenziale e potente chiamare in causa ancora il nostro presente, la nostra vita pure così incommensurabilmente lontana da quella del tempo di Dante. Letture e spiegazioni vitali, non propriamente lezioni né tanto meno performance: con un misura di discretissima eleganza, che traduce e rende vivo il carattere autenticamente «civile» che nel contesto attuale può assumere il rapporto con i classici.
Sermonti sa far sentire quell’aria della poesia non solo attraverso la diretta presenza della sua voce, ma anche nella scrittura: e ciò risulta particolarmente evidente nelle sue versioni dei classici latini, non a caso i due classici che più hanno contato per Dante e per la sua formidabile invenzione, l’Eneide di Virgilio (traduzione con testo a fronte apparsa nel 2007) e ora le Metamorfosi di Ovidio (con testo a fronte, Rizzoli 2014, pp.838, €.21,00).Questa delle Metamorfosi è una versione che accompagna passo passo il testo, con grandissima fedeltà (seguendo ad uno ad uno i versi ovidiani, in veri e propri versi/prosa, che hanno una inconfondibile andatura), ma con una assoluta precisione di dizione, che ne scioglie le difficoltà di comprensione ma nello stesso tempo ne mantiene la tensione e il groviglio, la luce accecante, il ritmo dato dal perentorio succedersi di eventi mitici, dall’insistente affacciarsi di nomi, personaggi, situazioni favolose che si incalzano e si scalzano, si strappano continuamente la scena, si rapprendono nella fissità delle varie trasformazioni, che riducono i corpi umani alle più eterogenee figure e sostanze animali, vegetali, minerali, aeree.
La lingua di Sermonti sa far sentire questo ritmo e questa densità dell’originale attraverso una singolare colloquialità, che fa procedere la narrazione senza intoppi, in una continua meraviglia, che fa leva proprio sull’inserzione di espressioni del linguaggio corrente che fanno un convergente effetto di stranezza e di normalità; evita quel lessico troppo classicistico e quelle alterazioni sintattiche che tradizionalmente si è tentati di usare per rendere certe espressioni latine, e così dà al testo una natura singolarmente «contemporanea », una disponibilità comunicativa, che però rafforza il senso di distanza e di stranezza della sua materia e il fascino dei suo orizzonte favoloso (un solo esempio a caso: i capelli scomposti della ninfa Dafne, «positos sine lege capillos», vengono resi con «il lungo arruffio dei capelli»). Del resto la scelta di tradurre le Metamorfosi comporta già di per sé un essenziale confronto con il trasformarsi della lingua, con la metamorfosi che ogni testo subisce nel passaggio da una lingua all’altra, e, per un testo tanto lontano nel tempo, con il nesso tra trasformazione linguistica e mutazione culturale, distanza di orizzonti storici, antropologici, immaginari.
Nella breve ma intensa Introduzione Sermonti motiva questo suo impegno di traduttore, rivolgendosi direttamente ad un giovane destinatario e invitandolo a diffidare dei «profeti del Presente Assoluto» e di un sapere ridotto a 140 caratteri e a riconoscere «un sommesso ma fermo diritto all’anacronismo»: a questo lettore egli offre il poema, che ha cominciato ad amare attraverso Dante e i molteplici riferimenti che ad esso sono fatti nella Commedia, e che gli appare come «un libro sull’adolescenza, un dizionario mitologico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo in mutazione incarnandolo in figure letterarie»; libro che nel suo nucleo più intenso dà voce a «l’esperienza della mutazione in costanza di identità, che ogni adolescente patisce affacciandosi sul mondo», e con qualcosa di proliferante, con quell’effetto di disordine e di baraonda proprio delle stanze dei ragazzi, con un effetto di libertà e di anarchia, pur nel grande rigore formale e costruttivo.
Così il traduttore, ormai «vecchio», nel rapporto con Ovidio viene come a proiettarsi sul mondo dell’adolescenza, col desiderio (o forse l’illusione) di riannodare anche un solo adolescente di oggi alla bellezza sontuosa di quel singolare poema, alla ricchezza incalzante di quel susseguirsi di miti, in cui si dispiega la contraddittorietà delle situazioni umane, dei desideri, dell’amore, del dolore, della violenza e della potenza, della passione e della fragilità (sono miti che hanno alimentato l’immaginario dell’Occidente ancora fino al Novecento e di cui oggi si sta assurdamente perdendo la conoscenza, grazie all’invasione di miti banali e di plastica, di evanescenti e aggressivi modelli mediatici e tecnologici). Sermonti fa tutto ciò con quella urbana comunicatività di cui ho già detto, con una limpidezza in cui si annida la sua passione per la parola, per il fiorire di immagini che da essa scaturiscono (e quante vere e proprie visualizzazioni sono scaturite nel corso dei secoli dai miti ovidiani, nelle più varie arti figurative!).
Per chi è avanti negli anni la lettura di questa sua versione può fare davvero l’effetto di uno sguardo all’adolescenza (anche con un implicito invito a rivolgere ogni tanto l’occhio al testo latino): con un eccezionale piacere di lettura che fa sperare, come spera Sermonti, che davvero possa essere trasmesso a qualche adolescente di oggi, condotto a scoprire quell’incalzare di racconti mitici, che il poeta gestisce non senza malizia, non senza un pungente scetticismo, che non esclude l’incanto per la bellezza (quanta bellezza nelle figure femminili e maschili, nel loro portamento e nei loro gesti), la partecipazione alla sofferenza e la protesta contro la violenza – e qui la violenza è spesso quella degli dei o di un destino che rovinosamente si abbatte sui desideri degli esseri umani e sui loro corpi, fissandoli in quelle metamorfosi a cui non possono reagire, che li inseriscono nella natura privandoli della loro identità, di cui comunque restano tracce nella nuova condizione naturale.
Attraverso il susseguirsi di racconti mitici, legati l’un l’altro da molteplici fili, in un gioco sottilissimo di incastri, di racconti nel racconto (e non manca chi racconta metamorfosi di altri senza sapere che poco dopo subirà lui stesso una metamorfosi), Ovidio sembra come disegnare una sorta di storia mitica della natura e dell’umanità, nell’intreccio continuo che le metamorfosi creano tra uomini e natura, dal caos originario al suo tempo, quello della Roma imperiale di Augusto.
Questa storia si sviluppa sotto la flessuosa e perturbante spinta del desiderio, come una continua domanda sulla condizione umana, sulla forza di una natura che si avvolge sui corpi dei soggetti, che ci cattura nel proprio spazio, quasi senza concedere respiro, in un continuo conflitto tra illusioni, tenerezze, fragilità e intensità dell’amore da una parte e dall’altra ostilità degli dei e del fato, cieca violenza che rovinosamente si impone, effetto di invidia divina contro l’umana felicità.
Di questi miti si è nutrito per lunghi secoli il nostro immaginario: e su ogni nome (Sermonti nota del resto che spesso «la metamorfosi si compie all’interno di un nome») si dispongono vicende che sono state familiari alla grande arte europea (ben noti a Dante, Petrarca, Ariosto, Leopardi, e ancora a Montale, a Savinio…), e che spesso chiamano in causa delle coppie, con il vario dramma dei loro amori, da Apollo e Dafne, ad Eco e Narciso, a Piramo e Tisbe, ad Alfeo e Aretusa, a Cefalo e Procri, ecc. Nomi spesso dimenticati; ma sarebbe bello (e forse anche utile) che qualche adolescente, grazie a questa versione così aperta al presente, tornasse a ricordarli.

Libero 1.7.14
I giornalisti dell'Unità senza stipendio da 3 mesi

qui segnalazione di Francesco Maiorano


La Stampa 1.7.14
Piccola filosofia della moda
Vado a far shopping consigliata da Platone
La fenomenologia di una mania “femminile” tra Heidegger, Nietzsche e “Sex and the City”
di Michela Tamburrino

qui

Cronache Laiche 29.5.14
Pedofilia, il silenzio dei media sul boss di Comunione e liberazione
La scandalo di mons. Inzoli: un pedofilo per il papa, uno sconosciuto per i media e la magistratura.
di Mazzetta

qui segnalazione di Annalina Ferrante

SestoDailyNews.net 26.6.4
Tony Carnevale: Musica ad Impatto Emotivo!"
Una poetica musicale, un laboratorio, una formazione interiore
intervista di Conchita Occhipinti

qui

La Stampa 30.6.14
La felicità è possibile parola di Zarathustra
Esce l’ultimo volume della controstoria della filosofia Un Nietzsche epicureo che esalta l’edonismo tragico
Esce l’ultimo volume della controstoria della filosofia Un Nietzsche epicureo che esalta l’edonismo tragico
di Michel Onfray


La nozione di amor fati non si trova nel Così parlò Zarathustra; in compenso, la troviamo col Grande Sì all’Esistenza. Nell’affermare, accettare, aderire, dare il proprio assenso alla vita in tutte le sue forme, come ci invita a fare Nietzsche, c’è gioia, beatitudine, felicità, e, inaspettatamente, salute. La sofferenza in sé non è né buona né cattiva, ma se ne può fare buon uso. Il filosofo, nel caso specifico, sa come trarne il miglior partito.
Ecco perché e come si può comprendere questa affermazione che troviamo nel Canto del nottambulo: «Dolore è anche piacere». Non per masochismo, perché soffrire o far soffrire farebbe godere, ma perché dal modo con cui affrontiamo la sofferenza possiamo trarre godimento. Sapendo usare correttamente la malattia, scegliendo l’angolo giusto di attacco della sofferenza, la giusta prospettiva, si può andare oltre, superare la necessità accettandola, il che permette di «crearsi libertà» secondo l’invito delle prime pagine dello Zarathustra.
Si potrà così coglierà il senso profondo di questo celebre aforisma del Crepuscolo degli idoli: «Quel che non mi uccide, mi rende più forte», a proposito del quale si dimentica sempre di precisare che esso è preceduto da questa informazione essenziale: «Dalla scuola di guerra della vita». La sofferenza contro la quale il comune mortale pensa che non ci sia nulla da fare, è per il filosofo occasione per pensare, riflettere e proporre un antidoto esistenziale: non rifiutare, ma amare, dire Sì. Non storcere il naso, recalcitrare, irritarsi, perché è inutile, ma volere ardentemente ciò che ci capita.
La lezione della sofferenza? Una dichiarazione d’amore per la vita. Dire sì alla vita. Dire sì a tutto: sofferenza e felicità, dispiacere e piacere, miseria e gioia, malattia e salute, tristezza e allegria, dolore e soddisfazione, depressione ed estasi, prostrazione ed esaltazione, lutto ed esultanza. Ecco perché bisogna porsi sotto il segno del fanciullo che vive sanamente nell’«innocenza del divenire», e può, grazie alla sua natura buona, proferire un «Santo dire Sì». Amiamo ciò che accade, perché l’accadere ha luogo nella forma più potente, più feconda, più vera della volontà di potenza – perché essa è pura necessità.
La sofferenza, come tutto il resto, compresa la salute, deriva dal movimento della volontà di potenza. A che servirebbe prendersela e non volerla perché esprime la pura necessità? Anche affermando che non la si vuole, paradossalmente saremmo ancora voluti da essa: non si sfugge! Poiché siamo condannati a subire la sua legge, sotto il segno del dolore o sotto quello della salute, almeno risparmiamo le nostre forze evitando di dilapidarle inutilmente. La logica dell’Amor fati, quella del Grande Sì alla Vita, due espressioni per uno stesso invito, mostrano in che misura la sofferenza, che potrebbe sembrare un inconveniente, si rivela il più grande dei vantaggi: perché tempra, rende più forti.
(...)Ultimo momento (...) di questo nietzschismo epicureo: l’affermazione della felicità possibile. Nietzsche filosofo della felicità, pensatore di una saggezza esistenziale praticabile da tutti, ecco la lezione finale di questo percorso nella sua intera opera. Lungi dalle letture già proposte (il Nietzsche teofanico di Lou Salomé, il moralista di Andler, il decadente di Nordau, il metafisico di Heidegger, il nazionalsocialista di Lukács e di Elisabeth Förster la nazista, il fascista di Maulnier, il teutonico di Maurras, l’anarchico di Emma Goldman, il socialista di Jaurès, il marxista di Lefebvre, il mistico di Bataille, il genealogista di Foucault, il deleuziano di Deleuze, il semiologo di Klossowski, il decostruttore di Derrida, il tragico di Rosset, il cristiano che non sa di esserlo di Valadier, il filosofo artista di Vuarnet, l’ontologista di Boudot, il contemporaneo di Faye, il filosemita di Sarah Koffman, il cattivo di Comte-Sponville, l’antidemocratico di Ferry…), al termine di questa analisi io propongo il mio: il Nietzsche esistenziale, l’inventore di una saggezza destinata a chi se ne impadronisce.
La saggezza esistenziale di Nietzsche propone una variazione sul tema edonista. Critico, sì, di un certo edonismo, quello degli utilitaristi, ma in nome di una diversa concezione dell’edonismo – più precisamente vitalista. Per l’edonismo classico, il piacere costituisce il bene supremo, un obiettivo da realizzare prioritariamente. Nietzsche non accetta questo edonismo del piacere come fine. Per l’edonista vitalista che è Jean-Marie Guyau, la vita viene prima, occorre cercarne la formula più espansiva, il che genera, come conseguenza inevitabile, il piacere, la soddisfazione, la gioia, la felicità. Nietzsche sviluppa un edonismo della vita espansiva che gli somiglia.
Nietzsche fustiga la formula anglo-sassone dell’edonismo: misurare il valore a partire dalla quantità di piacere – come il pessimismo, l’eudemonismo, l’utilitarismo – indice di nichilismo, di pensiero malato, di ingenuità superficiali che edificano sulla compassione e la pietà. Coloro che se ne fanno promotori evidenziano assenza di salute, mostrano di essere stati abbandonati dalla vitalità e dalle forze, e perciò si rifugiano in morali di schiavi, come il cristianesimo o la sua formula moderna: il socialismo. L’edonista che fa del piacere il bene supremo tradisce una salute declinante e spera che tutti gli vadano dietro nel culto della vita discendente.
L’abolizione della sofferenza? Una sciocchezza, un’impossibilità, un’utopia metafisica radicale. Volere la fine di ciò che eleva ci porta verso il basso e getta ancora di più la civiltà europea nel nichilismo che la caratterizza. L’edonismo fustigato da Nietzsche è paradossalmente quello del cristianesimo e delle variazioni operate dai rivoluzionari socialisti, dagli anarchici pieni di risentimento, dagli utilitaristi anglo-sassoni, che vogliono farla finita con la sofferenza connaturata all’esercizio della vita. Questo edonismo è vanità e un inseguire il vento. Si deve cercare anzitutto felicità. La saggezza nietzscheana non è godimento facile dell’animale satollo, beatitudine a portata di mano ottenuta con ricette facili che supporrebbero la liberalizzazione del desiderio o l’adesione al piacere facile. Il piacere voluto da Nietzsche non è un fine, ma un risultato ottenuto dopo aver detto il grande sì alla vita.
Scrive Nietzsche nell’Anticristo, attaccando violentemente Kant: «Un’azione, a cui l’istinto della vita costringe, trova nel piacere la sua dimostrazione di essere un’azione giusta» (§ 11). La cosa viene dunque detta in modo chiaro: si deve tendere prima all’espansione della vita, al più di vita possibile, la più esuberante, la più abbondante, la più sontuosa, la più «tropicale» come scrive talora, la più espansiva, la più esuberante, la più istintiva, la più pulsionale, la più corporale dunque, e si otterrà poi il piacere che sempre accompagna l’esercizio della volontà di potenza. Si potrebbe dunque stabilire un’equivalenza che darebbe la formula dell’edonismo vitalista di Nietzsche: una volontà di godimento accompagna sempre la volontà di potenza.