giovedì 3 luglio 2014

l’Unità 3.7.14
Ai lettori
Il Cdr


Oggi incontreremo i liquidatori. Per una redazione in lotta da mesi, e da mesi senza stipendio, è un appuntamento cruciale. Ai liquidatori porremo domande precise ed esigeremo risposte altrettanto precise. Esistono offerte per l’acquisizione del giornale? E se sì, esse si fondano su progetti solidi e credibili, che tutelino tutti i lavoratori? Da indiscrezioni di stampa non smentite, apprendiamo che l’azionista Matteo Fago avrebbe già formulato una proposta di affitto della testata. Diciamo fin da ora che ci opporremo in ogni sede e con tutti gli strumenti consentiti dalla legge a operazioni tese a separare la testata dal suo corpo redazionale. È quanto ribadiremo nell’incontro di oggi ai liquidatori. Ed ancora: quando e come verranno pagate tutte le spettanze che giornalisti e poligrafici hanno maturato fino ad oggi? Se il giornale vive ancora, è grazie a noi, al nostro impegno, all’amore per questa testata. Ma la corda non può essere tirata oltre. Se non avremo risposte esaustive dai liquidatori, lo sciopero sarà inevitabile come altre iniziative di lotta.

il Fatto 3.7.14
Lorenza Carlassare
Costituzione e scudi
“L’immunità è eccessiva, anche a Montecitorio”
di Silvia Truzzi


La faccia tosta con cui si cerca di prendere in giro i cittadini è formidabile: l’immunità per il nuovo Senato di non eletti non la voleva nessuno. Poi, dopo qualche abracadabra, è ricomparsa, benedetta dal governo e da una larga maggioranza. Se la vedrà l’aula - ieri il ministro Boschi ha ipotizzato l’ennesima modifica - intanto si ragiona su questa bozza di riforma della Camera alta, passata attraverso giravolte, voltafaccia e modifiche di varia natura. Abbiamo chiesto lumi a Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova.
Professoressa, che pensa dell’immunità per il Senato composto, com’è ora, da sindaci e consiglieri regionali?
Mi sembra una proposta veramente inammissibile: sarebbe ragionevole estendere ai membri del ‘nuovo’ Senato l’insindacabilità, stabilendo che, come i deputati, non possano essere chiamati a rispondere per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Purché l’insindacabilità si riferisca unicamente alle funzioni senatoriali e non alle altre esercitate in diversa veste.
Un numero vergognoso di amministratori locali è sotto inchiesta per i rimborsi elettorali.
Questo aggrava ulteriormente una simile proposta e insinua il dubbio - spero infondato - che stia qui la vera ragione dell’intero impianto. Discutibile già perché conferisce a un Senato non elettivo alte funzioni come la revisione costituzionale e non solo funzioni consultive e di controllo su questioni regionali.
Lei sarebbe favorevole ad abolire l’autorizzazione a procedere per le perquisizioni, gli arresti e le intercettazioni di parlamentari anche alla Camera?
Forse oggi sarei favorevole soprattutto considerando il degrado morale, ma si dovrebbe riflettere.
Nella bozza approvata mercoledì è sparita l’ipotesi di utilizzare la Consulta come giudice delle autorizzazioni a procedere per i parlamentari.
Meno male! Era un’idea assurda che avrebbe inevitabilmente coinvolto la Corte in vicende politiche, esponendola a critiche pretestuose dell’una o dell’altra parte a seconda di come avesse deciso. Alla Corte andrebbe piuttosto affidato il controllo sulle elezioni come in Francia e in altri Paesi: tutte le questioni relative all’ineleggibilità, in particolare, avrebbero così un giudizio ‘terzo’ e non un giudizio proveniente dagli stessi parlamentari pronti a favorirsi a vicenda.
I sostenitori dell’immunità si appellano ai padri costituenti che la vollero nella Carta. Come dire: se Calamandrei e Dossetti hanno introdotto l’immunità, allora è una buona cosa. Vogliamo sfatare
questo mito?
La norma fu introdotta anche perché era già nello Statuto Albertino come in altre Carte costituzionali e, se applicata correttamente, potrebbe rimanere pur avendo in parte perso la sua giustificazione. Salva sempre l’insindacabilità che deve rimanere, non va dimenticata la diversa situazione da cui originano le prerogative parlamentari, dominata dalla presenza forte di un monarca. Nel Parlamento medievale la rivendicazione delle libertà nasceva dall’esigenza di garantirsi dalle pesanti interferenze regie; in Inghilterra la regola che la libertà di parola, di discussione e di azione in Parlamento non potesse essere contestata né in sede giudiziaria né in alcuna sede diversa da quella parlamentare (insindacabilità) fu codificata nel Bill of Rights nel 1689. In Francia, un secolo dopo, mentre il re era pronto a usare la forza contro i rappresentanti del Terzo stato riuniti in assemblea, fu approvata una dichiarazione che stabiliva l’inviolabilità della persona di ciascun deputato (immunità) che discende - dirà Robespierre - “dai principi che nessun centro di potere possa ergersi al di sopra del corpo rappresentativo della Nazione”. Ma se i senatori non sono neppure eletti?

Repubblica 3.7.14
Giuliano Pisapia
“L’immunità non serve né ai sindaci né ai senatori e basta con le due Camere”
intervista di Alessia Gallione


MILANO. Giuliano Pisapia, come sindaco di Milano è un potenziale nuovo senatore. Come altri colleghi di grandi città è contrario allo scudo: perché?
«Perché non c’è bisogno e non è opportuno introdurre una prerogativa, spesso trasformata in un ingiustificato privilegio, anche per coloro che oggi non godono di nessuna immunità. Un esempio sono proprio i sindaci. Più in generale, credo che non ci siano i presupposti, né politici né giuridici, perché l’immunità venga inserita nel testo finale della riforma del Senato. Toccherà all’aula il voto definitivo e spero che cambi orientamento rispetto alla commissione. Anche perché vedo un altro rischio: favorire chi vuole strumentalizzare questa vicenda per fare propaganda ».
Per il Senato, quindi, nessuna immunità. E per la Camera?
«Ci sono già stati molti cambiamenti e non c’è più quell’abuso dell’immunità che abbiamo visto in passato. Grazie a numerose sentenze della Corte Costituzionale e a un parlamento che finalmente rispetta la Costituzione, viene concessa solo in presenza di un concreto “fumus persecutionis”. Non è più necessario chiedere l’autorizzazione a procedere e si possono fare indagini a 360 gradi nei confronti dei deputati. Ricordo che il Parlamento ha votato recentemente per l’arresto di suoi componenti. Per questo credo che per la Camera si possa mantenere il sistema attuale, necessario per un corretto equilibrio tra i poteri dello Stato ».
Come dovrebbe trasformarsi il Senato?
«Rispondo con una domanda che non è e non vuole essere una provocazione: c’è veramente bisogno, a oltre 69 anni dalla dittatura fascista, di due Camere? Sono sempre più convinto, anche sulla base della mia esperienza parlamentare, che le ragioni e i validi motivi che hanno portato l’Assemblea costituente a ritenere opportuno un bicameralismo perfetto siano totalmente superate. Questa è un’opinione non solo condivisa dalla maggioranza dei cittadini, ma anche dalla gran parte dei costituzionalisti. Ritengo che non sia più necessario un Senato che, avendo competenze non irrilevanti, finirebbe con il determinare nuovi contrasti e allungare ulteriormente i tempi di decisioni fondamentali per il Paese. Naturalmente, in presenza di una sola Camera bisognerebbe introdurre pesi e contrappesi istituzionali e dovrebbero essere rafforzati gli organismi di controllo».
In questo modo, però, scomparirebbe anche il rapporto con gli enti locali.
«Si potrebbe pensare a un rafforzamento della Conferenza Stato-Regioni e, magari, a istituzionalizzare i rapporti tra lo Stato centrale e i Comuni».
La convince il percorso del governo sulle riforme? Che cosa manca?
«Finalmente dopo decenni di discussioni accademiche, commissioni parlamentari, proclami astratti, c’è la volontà di passare ai fatti e di realizzare riforme che non sono più procrastinabili. Il presidente del Consiglio si sta spendendo in prima persona: dopo il grande consenso delle elezioni europee, lo può fare con più forza. È però evidente che non basta una riforma, ne servono molte. C’è bisogno di una nuova legge elettorale che consenta di conciliare governabilità, rappresentanza e la possibilità per i cittadini di scegliere i deputati. Anche la riforma della giustizia è inderogabile. Adesso ci sono le condizioni per farla, per rendere il nostro sistema più celere, efficiente e garantista nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura. Approvarla davvero sarebbe un grande passo avanti per il Paese e per la sua credibilità internazionale».

Repubblica 3.7.14
Forza Italia vuole la norma salva-Galan “Non può andare in carcere”

Riforme, Renzi vede Berlusconi
di Liana Milella


ROMA. Alla vigilia di un nuovo incontro tra Renzi e Berlusconi, ma anche tra il premier e M5S, sulle riforme esplode il caso Galan. Il tema dell’immunità resta caldo, anche se il ministro Boschi lascia intendere che «la norma potrebbe cambiare in aula». Ma l’ex governatore rimette in campo la palla di un’immunità giocata in chiave super protettiva per parlamentari accusati di reati comuni. La norma non lo riguarda, e basta leggerla, ma lui cerca di approfittarne lo stesso per allontanare nel tempo la decisione della Camera sulla richiesta di arresto che incombe da Venezia. Succede che nell’ultimo decreto monstre del governo su pubblica amministrazione, poteri di Cantone, ma anche sulle misure compensative per chi ha subito un trattamento inumano in carcere, c’è pure la norma che blocca la custodia cautelare se il giudice ritiene che, alla fine di un processo, al condannato verrà inflitta una pena che non supera i tre anni. Lo stesso decreto stabilisce che non ci può essere carcere preventivo se l’imputato può godere della sospensione condizionale della pena. Norme “vecchie” perché erano già contenute nel ddl sulla custodia cautelare, che da tempo fa il ping pong tra Camera e Senato. Approvata in doppia lettura con una formula troppo stringente e che aveva allarmato l’Anm, è stata inserita nel decreto, come spiega il Guardasigilli Orlando, proprio per modificarla e mettere nelle mani del giudice, senza automatismi, l’eventuale decisione sull’arresto. Ma se la norma è questa Galan che c’entra? I magistrati di Venezia vogliono arrestarlo per corruzione, pena massima prevista 5 anni, e quindi è tutto da dimostrare che in un caso del genere il giudice possa ipotizzare adesso, con l’inchiesta sul Mose agli esordi, che l’esponente di Fi possa ottenere una condanna molto più bassa del massimo della pena prevista per un reato grave come la corruzione. Tuttavia, chi politicamente sta dalla parte di Galan ci prova lo stesso. Ecco che a Montecitorio, nella giunta per le autorizzazioni della Camera, presieduta dall’ex Pdl e ora Fratelli d’Italia Ignazio La Russa, è proprio il forzista Gianfranco Chiarelli a chiedere di respingere la richiesta d’arresto perché a Galan si applicherebbe la norma più favorevole dello stop alla custodia cautelare. La rissa, a quel punto, è inevitabile perché il Pd insorge e con Franco Vazio sostiene che la giunta non è un giudice di seconda istanza, ma deve solo «valutare l’eventuale presenza di un fumus persecutionis nella richiesta ». Galan, se vuole, potrà semmai far valere il principio del nuovo decreto in sede di riesame a Venezia. Ma tant’è, La Russa preferisce il rinvio all’11 luglio, nonostante M5S insista su un voto che non può andare oltre quella data.

Repubblica 3.7.14
Spinelli: “Da Renzi assicurazioni inquietanti, il rigore non è intaccato”


STRASBURGO. «In Europa deve cambiare tutto, alla Ue serve un New Deal alla Roosevelt». Barbara Spinelli, europarlamentare della Gue/Sinistra Unitaria, prende la parola a Strasburgo replicando a Renzi. Per la figlia di Altiero Spinelli, il fondatore dell’europeismo, che si è candidata con la lista Tsipras «il semestre italiano inizia con assicurazioni inquietanti: le regole economiche non vengono ridiscusse e neanche il credo liberista, con le riforme strutturali e il lavoro sempre più precario». È una critica incalzante la sua. L’Europa per essere all’altezza della scommessa per cui è nata ha bisogno - dice Spinelli - di «una Ue radicalmente rifondata, con investimenti nelle infrastrutture e nell'economia verde». Deve - incalza - non limitarsi a cambiare solo le parole, mentre tutto resta com’è.

Repubblica 3.7.14
Imu Chiesa, esenzione facile per scuole e cliniche private
di Valentina Conte


ROMA. Scuole paritarie e cliniche convenzionate con il sistema sanitario nazionale sono di fatto esentate dal pagamento di Imu e Tasi. E con ogni probabilità in modo ben più ampio di quanto avviene ora, specie per le scuole. La vicenda “Imu Chiesa” dopo ben due anni dal decreto Monti - quello che introdusse l’uso misto degli edifici di proprietà degli enti non commerciali (con le sole porzioni adibite ad attività di lucro soggette al pagamento dell’imposta) - arriva dunque ad una fine. Sancita ora, al terzo esecutivo dopo Monti e Letta, dall’atteso decreto del ministero dell’Economia firmato da Padoan il 26 giugno. Che rimanda al nuovo modello di dichiarazione Imu-Tasi per gli “Enc” (enti non commerciali) di color violetto e alle relative “Istruzioni”. Laddove si assegna, per le scuole, un parametro di retta annuale al di sotto del quale l’istituto è esentato dalle tasse. Un parametro assai generoso, dai 5.700 ai circa 7 mila euro l’anno. In grado di escludere anche chi fin qui pagava. Per gli ospedali basta l’accreditamento pubblico.
Più difficile sfuggire al fisco per alberghi e bed&breakfast. Dimezzate anche le sanzioni per chi non ottempera, fino a 258 euro (in base alla vecchia legge Ici e non a quella Tasi). Il termine per presentare le dichiarazioni relative al 2013 e 2012 (anni in cui non si è di fatto versato nulla) è il 30 settembre.

Repubblica 3.7.14
Il Papa “benedice” gli esorcisti
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO. Nel tempo di Francesco, Papa della Chiesa ospedale da campo che cura le ferite dell’umanità, il Vaticano offre un importante riconoscimento agli esorcisti, sacerdoti dediti non a caso a quel ministero che recentemente l’esorcista Sante Babolin ha definito, nel suo L’esorcismo ( Edizioni Messaggero Padova), «della consolazione». La consolazione dovuta a uomini e donne con disagi dell’anima più o meno gravi: alcuni, pochissimi, la Chiesa ritiene siano davvero posseduti dal maligno. Altri, la maggior parte, necessitano soltanto di affetto e cure mediche.
È di ieri la notizia diffusa dall’ Osservatore Romano che l’organizzazione internazionale degli esorcisti (Aie), fondata in Italia negli anni Ottanta da padre Gabriele Amorth, esorcista della Società di San Paolo, ha uno statuto giuridico. Il decreto, datato 13 giugno 2014, è della Congregazione per il clero. Per l’Aie il riconoscimento non è da poco. Per anni padre Amorth ha chiesto aiuto in Vaticano: troppi vescovi, a suo dire, non nominano esorcisti lasciando molte persone senza l’aiuto necessario. Col decreto, la Santa Sede riconosce l’operato dell’associazione e, in generale, l’intero esorcistato. Non a caso, è padre Francesco Bamonte, presidente dell’Aie, ad augurarsi che «altri sacerdoti si rendano conto di questa drammatica realtà, spesso ignorata o sottovalutata ». Infatti, anche «l’esorcismo è una forma di carità, beneficio di persone che soffrono; esso rientra, senza dubbio, tra le opere di misericordia corporale e spirituale».
Oggi l’Aie conta circa 250 esorcisti di diverse nazioni, ma sono molti di più i sacerdoti che trovano consigli e aiuto in essa. Francesco non ha mai parlato pubblicamente degli esorcismi. Più volte, però, soprattutto nelle omelie del mattino a Santa Marta, ha parlato del demonio. Anche recentemente quando ha detto: «Qualcuno di voi, forse, non so, può dire: “Ma, Padre, che antico è lei: parlare del diavolo nel ventunesimo secolo”. Ma, guardate che il diavolo c’è! Il diavolo c’è. Anche nel ventunesimo secolo! E non dobbiamo essere ingenui, eh? Dobbiamo imparare dal Vangelo come si fa la lotta contro di lui». Parole che testimoniano come per Francesco il diavolo non sia un mito né una metafora, ma un protagonista della storia.
Per la Chiesa la lotta contro il diavolo è anzitutto personale. Ma l’esorcista, nei casi più gravi, aiuta. Come ha riferito recentemente il sito d’informazione Terre d’America , era lo stesso Bergoglio quando era arcivescovo di Buenos Aires a inviare alcune persone da un suo esorcista di fiducia, Carlos Alberto Mancuso. Dice lo stesso Mancuso: «Venivano da me con il rosario che lui, Bergoglio, aveva dato loro perché pregassero»

Repubblica 3.7.14
Salerno
Ior, monsignor Scarano a giudizio per riciclaggio


SALERNO. È stato rinviato a giudizio monsignor Nunzio Scarano, l’ex funzionario vaticano dell’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, accusato di riciclaggio per un giro di false donazioni. Insieme al prelato salernitano, agli arresti domiciliari dallo scorso 21 gennaio, il gup del tribunale di Salerno Renata Sessa ha disposto il rinvio a giudizio per concorso in riciclaggio anche per il suo collaboratore don Luigi Noli e altre 49 persone, accogliendo le richieste del pm Elena Guarino.
Nell’inchiesta scattata nel 2013, gli inquirenti avevano accertato false donazioni provenienti da società offshore transitate su conti Ior intestati a Scarano. L’uomo, tramite un parente, aveva fatto recapitare al gup tramite il suo difensore Silverio Sica una lettera in cui chiedeva di scagionare gli altri imputati perché «ignari di tutto anche perché l’operazione di donazione era lecita». Sica ha precisato al gup che don Nunzio sosteneva di aver scritto la lettera «guidato dalla fede e dalla devozione nella Madonna».
Monsignor Scarano è imputato anche in un altro processo a Roma per corruzione nell’ambito dell’inchiesta sui venti milioni di euro che sarebbero dovuti rientrare in Italia attraverso un conto schermato dello Ior.

Repubblica 3.7.14
La missione di Telemaco
di Massimo Recalcati


LA POLITICA della rottamazione ha avuto il senso di introdurre una discontinuità necessaria in un mondo politico che nel suo insieme si è rivelato inadeguato a governare la vita della Comunità. Ma la figura di Telemaco - citata ieri da Renzi - va oltre la rottamazione.
INTANTO perché Telemaco - o il suo complesso come ho titolato un mio libro di due anni fa -, diversamente da Edipo, non vive nell’antagonismo mortale e sterile nei confronti dei padri come è accaduto per le generazioni del ‘68 e del ‘77. Telemaco si configura piuttosto come l’immagine del figlio giusto, cioè del giusto erede. Essere figli giusti, essere giusti eredi, significa riconoscere il debito simbolico con chi è venuto prima di noi. È entrare in una relazione generativa con i nostri avi. Questo ha fatto Renzi nei confronti dei padri costituenti dell’Unione Europea.
Il riconoscimento del debito è la condizione necessaria per essere giusti eredi. Ma Telemaco e con lui le nuove generazioni, sa bene che l’eredità non è acquisizione passiva di rendite, di beni o di geni. Piuttosto - come ricordava nell’ultima frase scritta di suo pugno il padre della psicoanalisi citando Goethe - per possedere davvero quello che i padri hanno lasciato devi riconquistarlo. È questo il movimento più autentico dell’ereditare. Ecco perché Telemaco non è solo una figura della nostalgia. Egli non si limita ad attendere dal mare il ritorno glorioso del padre per riportare la Legge ad Itaca offesa dai Proci. Non assomiglia per nulla ai personaggi beckettiani di Aspettando Godot che restano paralizzati nell’attesa di essere salvati. È necessario invece che il figlio si cimenti nel suo proprio viaggio e che corra il pericolo più grande, è necessario che sfidi il mare. È con il viaggio di Telemaco e non con quello di Ulisse che si apre l’Odissea di Omero. I Proci attentano la vita del figlio che vuole ristabilire la Legge nella sua città. Eppure i nostri figli - Matteo Renzi compreso - , diversamente da Telemaco, non sono figli di re, non ereditano regni. Piuttosto viene lasciato loro un mondo incerto, senza futuro e senza speranza. Ma il figlio giusto, il giusto erede, è anche colui che sa assumere fino in fondo la propria responsabilità. L’etimologia del termine erede - come ha mostrato bene Massimo Cacciari - viene infatti dal greco cheros che significa spoglio, deserto, mancante e che rinvia a orphanos, orfano. Questo significa che è solo il viaggio del figlio che rende possibile la fondazione di una nuova alleanza tra le generazioni.
Il nostro tempo non è il tempo degli adulti che non esistono più e di cui la crisi della politica è stata una delle manifestazioni più acute. I padri si sono persi nella maschera paradossale di una giovinezza che non vorrebbe mai finire confondendosi coi loro figli. La notte dei Proci che ha caratterizzato i nostri ultimi venti anni è anche la notte di una caduta della differenza simbolica tra le generazioni. Oggi è il tempo dei figli e del loro viaggio: Telemaco, diversamente da Edipo non vuole la pelle del padre, non rifiuta la filiazione, non entra in un conflitto mortale con i suoi avi. Sa che per riportare la Legge ad Itaca bisogna unire le forze, bisogna rifondare un patto tra le generazioni.

Corriere 3.7.14
Telemaco, l’Erede che forse non Fu mai Re
di Eva Cantarella


Di Telemaco si parla poco, ha detto Renzi. È vero, se ne parla poco. E non a caso, con un padre come quello che aveva. Se il confronto con un genitore celebre è spesso molto difficile, come non pensare con simpatia al figlio di un eroe assolutamente speciale qual era Ulisse, l’ «uomo dalle molte astuzie» capace di compiere imprese che neppure il più forte degli Achei, Achille, sarebbe mai riuscito a compiere? E come se questo non bastasse quel padre era partito per la guerra lasciando Telemaco ancora bambino e la moglie Penelope alle prese con ben cento otto pretendenti, che volevano sposarla per conquistare il potere su Itaca. Povero Telemaco. All’inizio dell’Odissea lo incontriamo quando ha raggiunto l’età adulta. Esortato dalla dea Atena convoca l’assemblea degli itacesi, ai quali chiede di dargli una nave per andare a cercare notizie del padre, come ben noto assente da vent’anni. Gli itacesi non ci pensano neppure. È solo per intervento di Atena che Telemaco riesce a partire per interrogare Nestore e Menelao: non per colpa sua, un viaggio del tutto vano. Per ritrovarlo in azione dobbiamo aspettare che Ulisse, tornato finalmente a Itaca, lo incontri di nascosto e gli esponga il suo piano di battaglia. L’operazione scatta durante la celebre gara con l’arco, indetta da Penelope per decidere a quale dei proci concederà la sua mano. Affiancato da Telemaco, Ulisse stermina i pretendenti. Il potere regale è di nuovo nelle sue mani. E Telemaco? Quale sarà il suo ruolo? A Itaca non esistevamo regole dinastiche. Il potere regale passava ai figli solo se questi lo avevano meritato. Telemaco lo meritò? Non lo sappiamo.

La Stampa 3.7.14
Telemaco senza fili
di Massimo Gramellini


Hai venti minuti per parlare davanti a una platea di europarlamentari gentilmente offerti da un’azienda di surgelati. Puoi berlusconeggiare, ribadendo lo stereotipo dell’italiano simpatico, furbo e un po’ cafone. Oppure mariomonteggiare, ipnotizzando con dei mantra numerici un pubblico che non chiede di meglio per continuare a dormire in pace. Potresti persino enricoletteggiare e produrti in una lista di promesse di buon senso che qualunque presidente di turno dell’Unione Europea ripete senza sosta da vent’anni. Invece, essendo Renzi e non facendoti difetto l’autostima, decidi di renzeggiare. Evochi lo spirito dei tuoi idoli Blair e Obama – nessuno dei due, guarda caso, centroeuropeo – e ti produci in un monologo carico di valori, passioni, riferimenti storici e letterari. Avendo letto il libro omonimo dello psicanalista Recalcati, attingi a «Il complesso di Telemaco» ed elevi il figlio di Ulisse che cerca di meritarsi l’eredità a simbolo della tua idea di Europa. Il problema è che lo stai dicendo proprio all’assemblea dei Proci, che oggi non sono i principi di Itaca e neppure i politici italiani che ogni giorno costringono Penelope Boschi a fare e disfare la tela delle riforme. Sono i burocrati di Strasburgo, i ragionieri di Berlino e gli eurofobi di Farage e Le Pen: tutta gente molto prosaica e prevenuta, che da te vorrebbe sapere soltanto una cosa: quando pagherai i debiti, affamando sempre di più quegli scansafatiche baciati dal sole dei tuoi connazionali. 
Per fare fuori i Proci che il destino ti ha dato in sorte un bel discorso purtroppo non basta. Come Telemaco, avresti bisogno dell’esperienza di Ulisse. Invece hai solo D’Alema.

La Stampa 3.7.14
Telemaco, mille geniali metafore
di Silvia Ronchey


Transfert geniale questo di Matteo Renzi con Telemaco, che l’ispirazione sia stata mediata dalla musa di uno psicanalista lacaniano, come qualcuno ha ipotizzato su twitter, o gli sia venuta direttamente da Omero, come si direbbe dalle altre citazioni classiche intessute nel discorso preparato per iscritto, ma tenuto a braccio, in cui ha esposto i suoi e nostri problemi all’assemblea dell’europarlamento un po’ come Telemaco nel palazzo di Nestore a Pilo nel terzo libro dell’Odissea.
Alto e squadrato, eloquente e conciso, come figlio di Ulisse e rappresentante dell’evocata «generazione Telemaco» Renzi funziona nell’immagine anche meglio dell’efebico Telemaco televisivo della nostra, se non sua, infanzia.
Soprattutto funziona diabolicamente l’immagine di un’Italia-Itaca in cui anche il locale parlamento, che Telemaco presiede all’inizio del secondo libro, è sopraffatto dai Proci, dialettici e scostumati divoratori dell’erario cittadino; di un’Italia-Penelope che tesse e stesse la sua tela, disperata e paziente, pur di non cedere a nessuno di loro la mano e la corona dello sposo Ulisse; il quale però è da vent’anni assente, latitante, morto o disperso in mare, e non sa o forse non vuole tornare.
Ma Atena, dea della ragione, affianca Telemaco e lo rassicura, gli dice di darsi da fare, di muoversi, di viaggiare. E’ quella che gli antichisti conoscono come la Telemachia. E fatto sta che al suo termine il dinamismo del figlio e i rischi che da ogni parte si attira convincono gli dèi dell’Olimpo a far sì che il padre lontano lasci Calipso e intraprenda davvero il ritorno in patria.
Siamo nel quinto libro e ce ne vorranno altri diciannove prima che Ulisse torni, uccida i Proci e riconquisti Itaca. Se Renzi si propone come Telemaco, il percorso che propone al Parlamento europeo non è certo breve né tanto meno facile - è un’odissea - e il messaggio che lancia all’inizio del semestre di presidenza italiana non è né superficiale né ottimistico, ma volutamente intriso di antica, dolente e anche umile lucidità mediterranea.

Corriere 3.7.14
Generazione Telemaco (in attesa di crescita)
di Franco Venturini


Se Matteo Renzi voleva contrapporre la passione della «generazione Telemaco» al banale burocratese di una Europa stanca, il suo debutto al Parlamento di Strasburgo è stato un successo e l’intervento di José Manuel Barroso gli ha dato ragione a tempo di record. Ma se il premier si proponeva di coinvolgere l’Aula in una svolta programmatica, se intendeva spiegare in concreto quali cambiamenti favorevoli alla crescita l’Italia sosterrà nel semestre, allora il discorso tenuto ieri difficilmente troverà posto tra i momenti decisivi della storia europea.
Sarebbe ingenuo pensare che Renzi non abbia calcolato le sue scelte: a lui interessava scuotere un albero che tutti considerano malridotto, stimolare valori comuni spesso dimenticati, ricordare con orgoglio radici di civiltà lontane (guarda caso greche e romane), e poi passare al moderno indicando genericamente nella crescita l’unico futuro possibile per l’Europa. Non voleva, il presidente del Consiglio, mettersi a parlare di parametri cifrati o di «flessibilità» molto annunciate in Italia ma in concreto tutte da definire. E così ha fatto, almeno fino a quando la parola è passata ai deputati e il capogruppo del Ppe, il tedesco Manfred Weber, gli ha rovinato il tragitto previsto.
Come se non avesse ascoltato le vaghezze economiche contenute nel discorso di Renzi, Weber ha preso di petto «l’idea di tempi più lunghi per rispettare i parametri del deficit e del debito» . Allora, nella replica, si è visto un altro Renzi. Se Weber parlava a nome del Ppe, non è aggiornato. Se parlava a nome della Germania, provi a ricordare quando si dovette concedere flessibilità alla Germania che era fuori dai parametri. E poi niente pregiudizi e niente lezioni all’Italia, da nessuno. Insomma, l’esibizione prevista soft è diventata aspra all’improvviso, come se una misteriosa sirena avesse suonato l’allarme per passare dai voli pindarici alla assai più difficile realtà europea.
Il ghiaccio sotto i piedi di Renzi è dunque piuttosto sottile, ma va detto che prima dell’incidente con Manfred Weber il presidente del Consiglio ha seguito con abilità la traccia che si era proposto. Un giovanile selfie , ha detto parlando a braccio, ci mostrerebbe una Europa stanca, annoiata, forse rassegnata. Bisogna avere il coraggio di reagire, di ritrovare la sua anima e la sua identità che non si esauriscono nella lotta alla crisi finanziaria. Attenzione: sulla crisi finanziaria e le questioni economiche in generale «ci faremo sentire con forza». Ma non qui e non oggi, per ora basterà ribadire che l’Italia non chiede di cambiare le regole, è decisa ad osservare come priorità l’attuazione delle riforme a casa propria, e «non si rivolge all’Europa per avere, bensì per dare». In parole meno roboanti, la nostra presidenza si batterà per ricordare che il patto di stabilità si chiama anche «di crescita», e che risiede appunto nell’incoraggiamento della crescita l’unica speranza di riscatto dell’Italia e dell’Europa intera.
Renzi ha insistito molto sulla politica estera, forse per incoraggiare la candidatura di Federica Mogherini, che sedeva al suo fianco come vuole il protocollo, alla carica di Alto rappresentante. Il premier ha citato la Libia, collegata al dramma dell’immigrazione che l’Europa dovrà alleviare. Il Medio Oriente, dove «i ragazzi devono poter crescere», i palestinesi hanno diritto a una patria e Israele non ha soltanto il diritto ma anche il dovere di esistere «per ricordare a tutti noi i valori della memoria e del futuro». Le donne cristiane vittime di violenza, dal Pakistan al Sudan alla Nigeria. E poi l’Ucraina con il suo desiderio di libertà e di Europa, ma «non possiamo costruire l’Europa contro il nostro più grande vicino» (la Russia, ndr). E ancora mano tesa alla Gran Bretagna in tema di semplificazione delle istituzioni, l’Europa come «faro di civiltà», la «generazione Telemaco» che deve anche lei cercare, viaggiare, meritarsi l’eredità di Ulisse cioè dei fondatori.
Un Renzi doc, che nella foga ha anche commesso qualche errore: nulla sui marò nemmeno nella replica, il punto stampa saltato perché una serata tv lo attendeva a Roma. Poco male, se il Premier vincerà la partita che conta e che dopo ieri resta apertissima. Quella della crescita che deciderà tutto, per usare le sue parole.

il Sole 3.7.14
Renzi blinda il patto con Berlusconi
Riforme. Procede il voto: bocciato emendamento dei frondisti di Pd e Fi
Il bicameralismo resta solo per leggi costituzionali ed elettorali e per Ue
Oggi vertice su Italicum e Senato - Forse incontro anche con il M5S - Immunità, si cambia in Aula
di Emilia Patta


ROMA Il patto del Nazareno stretto tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi si avvia verso la definitiva blindatura. Come anticipato ieri dal Sole 24 Ore, premier ed ex premier si incontreranno questa mattina – è la terza volta da gennaio – per definire le possibili modifiche all'Italicum già approvato dalla Camera. Si ragiona su una limatura delle soglie (dal 37 al 40% quella al di sotto della quale scatta il ballottaggio, e una semplificazione al 4 o 5% di tutte le soglie di ingresso), mentre restano aperte le questioni delle preferenze e dell'alternanza di genere, entrambe mal viste dall'ex Cavaliere. Nel primo pomeriggio, poi, Berlusconi incontrerà i parlamentari di Forza Italia per dettare la linea sulle riforme istituzionali all'esame del Senato mettendo a tacere – o almeno depotenziando – la fronda dei dissidenti favorevoli al mantenimento di un Senato elettivo, da Renato Brunetta ad Augusto Minzolini. «Non è ancora ufficiale ma penso di sì, domattina (oggi, ndr) vedrò Berlusconi – ha confermato lo stesso Renzi in serata a Porta a porta –. Domani (oggi, ndr) dovrebbe essere anche il giorno dell'incontro con il M5S, ma non con Grillo. Ci sentiamo e fissiamo l'appuntamento». Il dialogo con i grillini continua, almeno formalmente, ma è sempre Renzi a far capire che solo il primo forno – quello aperto ormai da mesi con l'ex Cavaliere – è quello che produrrà l'accordo: «Mi sentirei di dire che la vicenda con Berlusconi è bene incanalata». Mentre la proposta avanzata dal M5S, che Renzi chiama il "Complicatellum", «non sta in piedi, se non dal punto di vista filosofico, perché è l'unico sistema in cui chi vince non governa».
Intanto in commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama continuano, senza scivoloni per il governo, le votazioni sul Ddl di revisione costituzionale che trasforma il Senato in Camera delle Autonomie e riforma il Titolo V. Ieri è stato approvato l'emendamento dei relatori Anna Finocchiaro (Pd) e Roberto Calderoli (Lega) che definisce le competenze del nuovo Senato: la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere (e quindi in regime di bicameralismo perfetto) per le leggi di revisione costituzionale, per le leggi elettorali e i referendum popolari e per le leggi che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione europea. Tutte le altre leggi sono approvate dalla sola Camera dei deputati. Significativo il fatto che la commissione ha anche bocciato l'emendamento presentato da Vannino Chiti, Mario Mauro e altri 35 senatori dissidenti che riattribuiva al futuro Senato molte competenze rispristinando di fatto l'attuale bicameralismo. I "frondisti" del Pd e di Fi sono insomma stati respinti, buon viatico per il governo in vista del passaggio in Aula.
Quanto alla questione immunità, ripristinata per i neo senatori con un largo voto in commissione (Pd, Fi e Lega) anche se il testo originario del governo non la prevedeva, resta ancora aperta. Come lo stesso Renzi aveva fatto intendere martedì nella lettera al M5S: «Siete disponibili a trovare insieme una soluzione sul punto delle guarentigie costituzionali per i membri di Camera e Senato?». Insomma, la soluzione potrà essere trovata in Aula, come ha confermato ieri la ministra per le Riforme Maria Elena Boschi («tutto è sempre possibile in Aula»). Le ipotesi allo studio sono sostanzialmente due: lasciare per i neo senatori lo scudo dell'articolo 68 della Costituzione solo per quanto riguarda l'«insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi nell'esercizio delle funzioni», togliendo quindi l'autorizzazione a procedere in caso di arresto o intercettazioni; oppure demandare in tutto o in parte la questione dell'immunità per tutti i parlamentari alla Consulta, anche se dai giudici costituzionali sono già trapelate perplessità a riguardo per timore di una eccessiva "politicizzazione" della Corte (altre ipotesi: dare la parola definitiva alla Consulta solo se l'autorizzazione è negata dalla Camera di appartenenza, oppure prevedere che la decisione sia lasciata a un Giurì composto da 5 presidenti emeriti). La soluzione politica e tecnica potrebbe insomma arrivare nei prossimi giorni, direttamente in Aula. Ma per Renzi la priorità è andare avanti velocemente. Tanto che molti, in Senato, scommettono che alla fine l'immunità resterà così com'è.

il Sole 3.7.14
Vicepresidente Mediaset
«Il premier ha una chance unica, è il più bravo comunicatore dopo mio padre»
Piersilvio Berlusconi: tifo per Renzi


ROMA «La crisi che stiamo vivendo è troppo lunga. Non c'è più un minuto da perdere: come italiano e come imprenditore, tifo per le riforme subito e per la fretta del governo. Renzi ha una chance unica e una grandissima responsabilità». È l'endorsement, a sorpresa, di Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente Mediaset, per l'esecutivo e il premier, che definisce «il più bravo comunicatore dopo mio padre».
L'occasione è la presentazione dei nuovi palinsesti Mediaset, nello studio 11 di Cologno Monzese con le pareti trasformate in enormi vidiwall su cui rimbalzano video, slogan e slide. «La crisi – ribadisce Pier Silvio Berlusconi – ha colpito tutti, in particolare il settore dell'editoria e chi vive di pubblicità. Negli ultimi cinque anni il mercato pubblicitario ha subito una flessione del 34%: è stato un vero e proprio tsunami». Mediaset ha saputo reagire, rivendica snocciolando dati e illustrando grafici, «mettendo in sicurezza l'azienda e trovando la forza per spingere verso il futuro». Ma servono «stabilità e riforme che facciano ripartire l'economia: tifo per un governo che le faccia in fretta».
Definisce «indispensabile» intervenire su «giustizia, lavoro, tasse». Poi, però, «è importante vedere come sono le riforme, perché vanno fatte bene, e con chi si fanno», sottolinea con un sorriso, alludendo evidentemente alla tenuta dell'"asse" tra il Pd e Forza Italia. «Anche in famiglia la pensano così su Renzi?», gli viene chiesto. E lui: «Penso che mio padre abbia tutto l'interesse per cambiare in meglio il paese, per esperienza e senso di responsabilità». «Avete visto, per la prima volta ho usato le slide, dopo che lo ha fatto Renzi», scherza poi con i giornalisti. Quindi riprende il filo del discorso: «Avevo messo in conto di suscitare sorpresa. Ma in un Paese che ha bisogno di riforme io tifo per Renzi, e chi non lo farebbe con chi ha preso il 40%». E poi l'ex sindaco di Firenze, «è il più bravo comunicatore dopo mio padre. La fiducia se la merita, ha fatto un gran lavoro. Speriamo ce la faccia: la cosa peggiore è deludere le promesse».
Qualcuno prova anche a pungolarlo su un suo possibile ingresso in politica: «Mai dire mai», risponde con una battuta. Poi fa un passo indietro, sferzando indirettamente Forza Italia: «Per fare politica bisogna studiare, essere preparati, non basta il nome. E poi sarebbe da pazzi scendere in campo quando c'è già il più forte di tutti. Non vedo grande concorrenza in giro: se non succede qualcosa, Renzi vince per vent'anni». Non entra nel merito del taglio da 150 milioni imposto dal governo alla Rai: «Negli ultimi due anni a Mediaset abbiamo tagliato 620 milioni: mi sembra che fare efficienza sia doveroso».

Repubblica 3.7.14
E Piersilvio canta le lodi dell’avversario di papà
“Tifo per Matteo, durerà 20 anni”
di Filippo Ceccarelli


ATTRAZIONE fatale, forse cordiale, però pure funzionale, per non dire venale dal momento che si tratta pur sempre di un’azienda che con il potere politico deve fare i suoi conti. Ha detto ieri il vicepresidente Mediaset Pier Silvio Berlusconi: «In un paese che ha bisogno di riforme io tifo per Renzi».
HA QUINDI aggiunto, con una formula che non è suonata proprio felice sul piano della nobiltà: «E chi non lo farebbe con chi ha preso il 40 per cento?». A giudizio del secondogenito della dinastia di Arcore il premier del centrosinistra è comunque «il più bravo comunicatore dopo mio padre. La fiducia se la merita, ha fatto un gran lavoro, speriamo che ce la faccia, la cosa peggiore è deludere le speranze». Amen.
Si tratta di un’uscita che fuoriesce dalle logiche per così dire di sistema, influenzata come appare da una specie di miscuglione pop che tiene insieme post-familismo e interessi economici. Sintomatico in questo senso appare il verbo - «tifare» che Pier Silvio, detto «Dudi», ha usato per esprimere la sua adesione insieme leggiadra e passionale al renzismo.
Anche Ennio Doris, d’altra parte, il fidatissimo finanziere vicino alla famiglia, ha proclamato testualmente tre mesi fa, presentando la sua autobiografia « C’è anche domani », (Sperling& Kupfer): «Io voto Silvio, ma faccio il tifo per Renzi». Così come piuttosto impegnativa è la definizione che un’altra figura decisiva da quelle parti, Fedele Confalonieri, anche lui di recente ha scolpito sul leader del Pd: «Un Berlusconi con 40 anni di meno».
Tanto sul tifo che sull’immedesimazione Silvio-Matteo si possono aggiungere diverse pezze d’appoggio famigliari. Barbara terza figlia fu la prima (2010) a dichiarare il proprio apprezzamento per Renzi; Marina, sia pure a distanza, ha sempre espresso parole rispettose per un uomo politico che ha liquidato vent’anni di antiberlusconismo e come tale «certifica la sconfitta» di una certa sinistra. Idealmente, ma calorosamente «renzista» è anche Francesca Pascale, tanto da aver costretto Silvione a telefonare in piena notte al vincitore delle primarie per complimentarsi, e con lei tutte le ragazze del cerchio magico che in quell’occasione esultarono attorno alla cornetta.
Non solo, ma i raccoglitori dell’indispensabile e spesso stucchevole materiale che colora l’odierna vita pubblica possono a buon diritto documentare come Renzi non solo sia stimato, ma anzi venga ripetutamente e pubblicamente vezzeggiato da figure e figurine che più berlusconiane non potrebbero essere. Da Dell’Utri («Lo avrei assunto di corsa») a Briatore («Lo voterei al cento per cento»), dal tele-precettore Del Debbio («Sinceramente lo voterei») a Signorini («Parla alla pancia del paese»), fino a Lele Mora per il quale Renzi è «uno strafico, è seducente, ha un viso sensuale», e via di questo passo.
L’impressione, comunque, è che nessuno di loro si sarebbe mai sbilanciato senza aver chiaro ciò che dell’attuale premier pensa il loro idolo - e qui tra i mille riconoscimenti vale menzionare quello con cui nel dicembre del 2010 l’allora presidente del Consiglio congedò il 35enne sindaco fiorentino dopo averlo avuto a pranzo: «Ti apprezzo perché mi assomigli». E per quanto venga la curiosità di sapere in che modo Renzi, ben lesto di lingua, reagì dinanzi a quell’attestato di egotica solennità, si segnala che sopraffatto dai più imbarazzanti osequi, commentò un giorno: «A questo punto mi manca solo l’ endorsement di Jack lo Squartatore ». Ieri, dopo aver rimarcato pure l’uso delle slide nella presentazione dei palinsesti Mediaset, Pier Silvio ha concluso: «Se non succede qualcosa, Renzi vince per vent’anni». Al netto delle reazioni dei poveri dirigenti di Forza Italia, che dunque si sbattono invano, con maliziosa superficialità se ne potrebbe dedurre che la famiglia e l’azienda salgono definitivamente sul già affollato carro presidenziale proprio per ingraziarsi il guidatore.
Sennonché, al di là delle nebulose e pasticciate riforme che molto in teoria dovrebbero trasformare il Grande Condannato in un padre della Patria, l’osservazione dei dati, anche elettorali, suggerisce che nessun leader ha mai danneggiato Berlusconi più di quanto sia riuscito finora a Renzi; e proprio stringendolo in quell’abbraccio che in un fuorionda, cioè in un momento di verità, è stato designato da un fedelissimo (Toti) «mortale».
Chi conosce le dinamiche e la legge dei simili che regolano l’omeopatia - « Similia similibus curentur », le cose simili si curano con le loro simili - se ne sorprende fino a un certo punto. Così il berlusconismo rende omaggio a chi lo sta consumando e si appresta a sostituirlo. Attrazione fatale, perciò, attrazione micidiale, attrazione terminale.

Corriere 3.7.14
Da D’Alema a Renzi Il Biscione filogovernativo con il capo all’opposizione
di Francesco Verderami


ROMA — Primum Mediaset. Tra la difesa dei bilanci dell’azienda e la difesa dei consensi del partito, Pier Silvio Berlusconi ha optato apertamente per il core business di famiglia, con un endorsement per Matteo Renzi che — lo sapeva — «susciterà sorpresa». Così infatti è stato, soprattutto in Forza Italia, dove si è avvertito un senso di vuoto e di smarrimento per il modo in cui il figlio ha diviso ciò che per venti anni il padre aveva tenuto unito. C’è un motivo quindi se ai piani alti del Biscione i navigatori più consumati hanno provato ieri ad attenuare l’impatto determinato dalle parole del vice presidente Mediaset, che mai si era esposto in modo tanto compiuto sulle questioni politiche, finendo per esporre anche l’azienda, il partito, la famiglia.
È vero, come ogni impresa il Biscione è sempre stato filo governativo, ricavandone dividendi e tutele anche dopo la «discesa in campo» del Cavaliere. «Mediaset è un patrimonio nazionale», disse Massimo D’Alema, seppellendo l’ascia di guerra che Walter Veltroni aveva usato con i referendum (persi) sugli spot. E fu la svolta. Per certi aspetti, insomma, Pier Silvio Berlusconi non avrebbe fatto altro che applicare con Renzi l’insegnamento di Fedele Confalonieri, secondo cui «la politica è la politica, l’azienda è l’azienda». E in tempi di opposizione la linea di lotta stabilita ad Arcore non può confliggere con la linea di governo decisa a Cologno Monzese: «Il nostro mestiere va bene se va bene l’economia», dice spesso «zio Fedele».
È andata avanti così per venti anni, anche dopo il «complotto» che ha estromesso Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi: montiani con Monti, lettiani con Letta, renziani con Renzi, «e sempre in periodi distanti da campagne elettorali», questa era la regola. Finché Pier Silvio, l’altra sera — presentando i palinsesti delle reti tv — ha dichiarato di «tifare» per il premier, accordandogli «la fiducia che si merita», e sottolineando soprattutto come il Paese oggi abbia bisogno «di stabilità», oltre che di riforme. È un’opinione che confligge con la linea politica portata avanti finora dal padre, che da quando ha rotto con il governo Letta ha sempre teorizzato l’imminenza delle elezioni in modo da tenere uniti il suo partito e il suo bacino di consensi.
Il vice presidente di Mediaset è parso rompere uno schema, o comunque evidenziare il logoramento dello schema che ha tenuto insieme Biscione e Forza Italia, passato alla storia come il «partito-azienda». Ennio Doris, amico di vecchia data del Cavaliere, respinge questa definizione «che gli avversari di Berlusconi hanno sempre usato per attaccarlo», e fornisce una spiegazione di quanto è accaduto: «Nella realtà dei fatti i figli di Silvio sono sempre rimasti fuori dalla politica. E ora che hanno incarichi ai vertici delle loro imprese sta emergendo la totale separazione tra i destini delle aziende e quelle del partito». Di più, Pier Silvio sembra porre anche fine alla telenovela su un’eventuale prosecuzione della dinastia berlusconiana in politica: «Sarebbe da pazzi scendere in campo quando c’è già il più forte di tutti. Se non succede qualcosa, Renzi vince per venti anni».
Resta da capire se la sortita del vice presidente Mediaset sia il frutto di un convincimento personale maturato nel tempo o di un eccesso di comunicazione su una materia così sensibile. Di certo c’è che in una parte della famiglia e del management le sue parole sono giunte inaspettate: perché un conto è invitare il governo a non caricare di ulteriori norme un settore come quello televisivo già gravato da molti vincoli, altra cosa è gareggiare con Murdoch nel sostenere il premier tramite la tv. E comunque non è questo che preoccupa Marina Berlusconi, quanto l’imminente sentenza sul «caso Mediatrade» che riguarda anche il fratello, e che viene vissuta con l’ansia di chi sente la propria famiglia «sotto assedio». È una spada di Damocle che va ad aggiungersi a quella posta sul capo del padre, in appello sul «caso Ruby».
Luglio si preannuncia come un mese cruciale per la famiglia Berlusconi e per il suo impero: diviso tra i verdetti giudiziari e la necessità di decidere se restare in Spagna nella pay-tv con un forte investimento o vendere a Telefonica uscendo da quel mercato. Ed è evidente che in quel mondo oggi la politica non è più prioritaria, che la tutela delle imprese val bene il sacrificio della politica. Se definitivo o momentaneo si vedrà. Per ora Pier Silvio «tifa» Renzi, a cui — come racconta Doris — «la storia è caduta addosso»: «E il premier può davvero inaugurare un lungo ciclo, grazie anche a Silvio Berlusconi, che con spirito di sacrificio sta appoggiando il percorso delle riforme. Ma alle parole Renzi dovrà far seguire i fatti. Perché se l’economia non dovesse ripartire, ne pagherebbe le conseguenze». «La cosa peggiore è deludere le promesse», ha detto l’altra sera Pier Silvio. Sta in questo frammento l’unico margine di ambiguità, quasi che il tifo celi in realtà una sfida.

Corriere 3.7.14
L’asse nordeuropeo già alza barriere a difesa del rigore
di Massimo Franco


Il discorso a braccio di Matteo Renzi al Parlamento europeo è stato orgoglioso, a tratti perfino sferzante, e attento a presentare il semestre di presidenza italiana come uno spartiacque. Ha riproposto l’idea della «nuova generazione» destinata a prendere in mano il Vecchio Continente: un tema che gli ha portato fortuna in Italia. Ed ha ribadito che senza crescita l’Ue non andrà avanti. Ma il problema non è quello che ha sostenuto, quanto l’accoglienza ricevuta. Renzi parlava ad un’Europa che ha appena eletto due navigatori esperti come Jean-Claude Junker e Martin Schulz; e che non sembra ansiosa di assecondare il verbo renziano. La sua richiesta di «ritrovare un’anima» è stata accolta da applausi scrocianti dei parlamentari del Pd, mai così numerosi dopo le elezioni del 25 maggio.
Non sono sfuggite, tuttavia, le ironie dell’ex presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, né l’attacco frontale dei Popolari, guidati dal tedesco Manfred Weber, sulle richieste di flessibilità finanziaria del governo di Roma. «I debiti non creano futuro, lo distruggono», secondo Weber. «L’Italia ha il 130 per cento di debito pubblico. Dove prende i soldi?». È la conferma che la sfida di Renzi sarà dura; e che l’incomprensione non è solo politica ma geografica. Esiste una filiera nordeuropea della quale fanno parte i popolari ma anche spezzoni della sinistra, che diffida dell’Italia e lo dice.
Rifiuta un allentamento dei vincoli finanziari. E, vedendo in Renzi il capofila di questa strategia insieme con una Francia in affanno, lo attacca frontalmente. «Come possiamo essere sicuri che le riforme saranno fatte?», ha chiesto Weber retoricamente. «Se qualcuno pensa di darci lezioni», ha replicato il premier, «ha sbagliato posto». Renzi fa presente che un frammento del Ppe, il Nuovo centrodestra, appoggia il suo esecutivo; e che proprio alla Germania «fu non solo concessa flessibilità ma di violare i limiti ed essere un Paese che cresce. Non ho paura dei giudizi ma di alcuni pregiudizi». In effetti, con i pregiudizi anti-italiani il semestre di presidenza ha già cominciato a fare i conti.
Difficile che contribuisca ad attenuarli l’annullamento della conferenza stampa congiunta col socialista Schultz per gli impegni televisivi del premier: uno sgarbo. Ma l’offensiva tedesca sul rigore sembra fatta apposta per irritare Palazzo Chigi che ha appoggiato Junker in cambio di assicurazioni proprio su questo punto. Il capo del governo ha giurato che l’Italia «è la prima a voler cambiare». Forse il suo riferimento a un’Europa che offrirebbe «il volto della stanchezza, della rassegnazione e della noia», non è stato gradito. Insomma, il semestre di presidenza sarà una passerella piena di opportunità e insieme di insidie. La sicurezza ostentata da Renzi è un’arma formidabile. Ma potrebbe rivelarsi a doppio taglio.

il Fatto 3.7.14
Traumatico debutto del semestre europeo
Lui: “Non prendo lezioni”
Niente flessibilità, i tedeschi attaccano Renzi a Strasburgo
di Stefano Feltri


Il semestre di presidenza dell’Unione europea da parte dell’Italia non poteva cominciare peggio, con il premier Matteo Renzi sotto attacco dei tedeschi e la grande coalizione europea tra socialisti e popolari che vacilla, mettendo a rischio la conferma di Jean Claude Juncker alla guida della nuova Commissione europea. Il premier Matteo Renzi arriva a Strasburgo per la seduta inaugurale della legislatura e per presentare il programma dell’Italia dei prossimi sei mesi. Dodici minuti di intervento che saranno ricordati per l’espressione “generazione Telemaco”, quella dei figli (il padre di Telemaco era Ulisse) che deve “meritarsi il peso dell’eredità”. Un discorso che ottiene applausi, ma prudente: nessun riferimento esplicito alla necessità di rivedere i trattati sul rigore, nessuna rivendicazione del (presunto) successo ottenuto al Consiglio europeo della settimana scorsa, riforme in cambio di flessibilità, nessuna denuncia delle inadempienze europee nelle tragedie dei migranti.
L’ATTACCO di Manfred Weber arriva a freddo: il capogruppo del Partito popolare europeo (i conservatori) colpisce proprio sulla flessibilità: “Abbiamo imparato due lezioni dalla crisi: dobbiamo rimanere fedeli alle regole e applicarle, il debito non è la soluzione”. E per essere più esplicito: “La flessibilità di bilancio è la strada sbagliata”. Weber è un ingegnere tedesco di 42 anni che da dieci è europarlamentare, uomo forte della Csu in Baviera, è considerato il leader emergente della Germania in Europa, l’uomo su cui Angela Merkel si appoggia per controllare il Parlamento, oltre alle altre istituzioni europee. A Strasburgo i dibattiti sono sempre tosti, i parlamentari sono più preparati dei loro omologhi nazionali e pronti a dare battaglia nel merito dei dossier più che sulla comunicazione (le tv contano meno). Ma un attacco come quello di Weber non era atteso.
Renzi non la prende bene. Il premier sperava in una partenza più tranquilla, tanto che si era prenotato la puntata speciale di Porta a Porta per celebrare il suo lancio europeo. E invece Weber trasforma l’inizio della presidenza italiana in quella che potrebbe essere la prima crisi della grande coalizione europea tra popolari, socialisti e liberali. Interpretazione minimalista: Weber è appena diventato capogruppo, deve ancora prendere le misure, nella sua foga di parlare al suo elettorato tedesco ha scavalcato in intransigenza anche la posizione ufficiale di Berlino (la flessibilità si può avere ma solo nel limite fissato dai trattati attuali). Interpretazione più seria: lo scontro è profondo e porterà alla bocciatura di Juncker come presidente della Commissione europea, il voto è il 16 luglio.
“Se cade il punto della flessibilità non c’è il compromesso e cade l’accordo su Juncker”, dice Gianni Pittella, l’eurodeputato del Pd che è appena diventato capogruppo dei socialisti. L’intervento di Weber, secondo Pittella, è “un passo falso” che “se fosse confermato metterebbe a rischio la collaborazione" tra Ppe e S&D” (il Pse ora si chiama Socialisti & democratici). Martin Schulz invece prova a raffreddare: “Le parole di Weber non mettono in discussione l’accordo su Juncker”. E Renzi: “Non accettiamo lezioni”.
LA QUESTIONE è su due livelli. Primo: la grande coalizione è più complessa da gestire del previsto, come dimostra il fatto che Schulz ha ottenuto 70 voti in meno del previsto nell’elezione alla presidenza. Dai socialisti spagnoli insidiati da Podemos (il partito degli indignati) alla destra francese dell’Ump assediata dal Front National, sono tante le componenti fuori controllo della maggioranza. Il Parlamento in questa legislatura avrà più poteri, ma sarà anche molto più politico, quindi difficile da controllare.
Seconda questione: Ppe, Pse, e tutto il Parlamento hanno vinto la loro battaglia costringendo il Consiglio - cioè i governi nazionali - a indicare come presidente della Commissione il capofila del partito che ha preso più voti alle elezioni, Juncker del Ppe. Una rivoluzione che ha fatto indignare la Gran Bretagna di David Cameron, è la prima volta che i leader si piegano al volere degli elettori, in una interpretazione estesa del trattato di Lisbona che dice solo di “tenere conto” del risultato del voto.
Juncker come simbolo della democrazia elettorale. Ma nessuno ama l’ex premier lussemburghese, nei giri brussellesi da vent’anni. E ora che è stato affermato il principio, fissando il precedente, si potrebbe anche cambiare nome scegliendo qualcuno più gradito a destra e sinistra se il lussemburghese non prendesse la fiducia quando si presenterà all’Europarlamento il 16 luglio. Mentre Renzi ha un paio di mesi per tradurre in risultati concreti questo chiacchiericcio sulla flessibilità: con una crescita del Pil per il 2014 stimata a +0,2 per cento invece che lo 0,8 con i tagli alla spesa pubblica molto difficili da fare e con le coperture strutturali degli 80 euro ancora da trovare, al premier servono margini di manovra per evitare di dover fare tagli e tasse alla vigilia del 2015. L’anno in cui potrebbe essere costretto a chiamare le elezioni anticipate, sia che le riforme istituzionali falliscano sia che vengano completate.

il Fatto 3.7.14
Evita i giornalisti e scappa a Porta a Porta
Salta la conferenza stampa con Schulz
Preferisce il comizio in tv
Giuà si parla di elezioni anticipate in primavera
di Wanda Marra


Mancano pochi minuti alla fine del Tg 1 ed ecco che irrompe il collegamento. Musica di “Via col vento” in sottofondo, appare lo studio di “Porta a Porta”. Abito blu e cravatta rossa, Matteo Renzi, in piedi. Accanto a lui Bruno Vespa, anche lui in piedi. Il premier chiarisce subito lo “spirito” della sua presenza: “Siamo andati in Europa, abbiamo detto le nostre cose. Ma il tempo in cui andavamo a farci fare le lezioncine è finito. Anche basta”. Per dare la sua versione dei fatti sull’apertura di “’sto semestre”, Renzi ha fatto addirittura riaprire il salotto di Vespa. Pre-meditando l’auto spottone, Matteo salta pure la conferenza stampa rituale a Strasburgo. E unisce l’utile al dilettevole: dove l’utile è la possibilità di fare un comizio tv, il dilettevole è evitare di rispondere alle domande dei giornalisti europei. L’apertura del semestre però è stata tuttaltro che trionfale: ma Renzi non si perde d’animo. Porta avanti la sua filosofia: “Se facciamo l’Italia, questo paese lo portiamo fuori dalla crisi. Io sono molto tranquillo”. Perché “questi (i rigoristi europei, ndr) stanno facendo gli splendidi”. Poi, il leit motiv preferito: “Era dal 1958 che nessuno prendeva tutti questi voti”. Vespa ascolta, intercala. Ogni tanto prova a fare più che qualche domanda qualche obiezione. Per esempio sulla casa. “Lei deve essere chiaro sull’Imu, sulla Tasi. Perché tassare le case agli italiani sarebbe come tassare la birra o i wurstel ai tedeschi”, dice, pensando evidentemente alla sua villa a Ponza.
RENZI prende tempo. Scherza: “Avrei qualcosa da ridire sul paragone”. Però, “non sono in condizione di prendere l’impegno sulla casa”. Divaga: “Posso farlo sulla dichiarazione dei redditi precompilata, sulla semplificazione...”. E con la stessa abilità si rifiuta di prendere in considerazione la velata critica sul fatto che sulla giustizia più che di riforma si è trattato di pochi appunti. Ma il comizio entra nel vivo quando si parla della riforma del Senato. Perché al momento Renzi sa che si tratta dell’unico vero biglietto da visita che può offrire all’Europa. E infatti l’ordine di scuderia alla Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama è stato chiaro: votare tutto il più presto possibile. Non cambiare nulla, nodi rimandato all’Aula (come si affretta a promettere la Boschi sull’immunità). E infatti, i lavori si sono velocizzati. Questo è l’accordo con Berlusconi. Che però va registrato. Annuncia Renzi a Vespa: “Domani (oggi, ndr.) è il giorno in cui dovremmo incontrarci sia con Forza Italia che con i Cinque Stelle”. Poi chiarisce di nuovo l’ordine di priorità e di importanza, che non è cambiato. Vince il patto del Nazareno. Tant’è vero che il vicesegretario, Guerini quasi in contemporanea al premier dà la linea, quella ufficiale: “Incontreremo i Cinque Stelle solo se rispondono ai dieci punti”. La porta è aperta, ma decisamente secondaria. Ecco Renzi: “Berlusconi ha mantenuto tutti gli impegni. La vicenda è abbastanza ben incanalata su legge elettorale, Senato, Titolo V”. Non a caso ieri Piersilvio diceva: “Come italiano e come imprenditore tifo per le riforme subito e per la fretta del governo. Renzi ha una chance unica e una grandissima responsabilità". Oltre ad essere "il più bravo comunicatore dopo mio padre". Qualche problema c’è e Renzi lo sa bene. Per esempio sulla legge elettorale: Forza Italia non ha nessuna intenzione di farsi scavalcare dai Cinque Stelle. Non molla sull’impianto dell’Italicum. Renzi sceglie ancora: “Il problema del sistema elettorale di Grillo, il complicatellum, è che chi vince non governa”. Quello del Nazareno resta l’asse privilegiato, al netto di sorprese di B. Anche perché Matteo è in campagna elettorale: l’autunno si avvicina, il rischio di schiantarsi sulla manovra è concreto. E allora, deve cercare di portare a casa almeno il sì del Senato alle riforme. E soprattutto la legge elettorale. Dopodiché si può anche votare, magari in primavera come alcuni cominciano a dire.

Repubblica 3.7.14
Sgarbo ai giornalisti di Strasburgo per andare da Vespa
di F. Bei


STRASBURGO. C’è una prima volta per tutto. Anche Matteo Renzi, il turbo-comunicatore, stavolta è scivolato su una buccia di banana, con uno sgarbo fatto ai giornalisti europei. La conferenza stampa che tradizionalmente vede insieme il presidente di turno, quello del parlamento e della Commissione, è stata infatti inspiegabilmente cancellata da Renzi dopo essere stata annunciata sugli schermi di Strasburgo per tutta la giornata con tanto di orario. In Italia magari nessuno ci farebbe caso, ma la sala stampa europea è un ambiente suscettibile e i giornalisti non sono famosi per essere compiacenti con i politici e con i premier italiani in particolare (chiedere a Berlusconi). Oltretutto si rischia anche un incidente diplomatico, visto che l’appuntamento coinvolge Schulz e Barroso.
Ad aggravare la situazione c’è anche il tam-tam del palazzo: tutti accreditano l’idea che Renzi abbia fretta di tornare a Roma per partecipare a Porta a porta. Così, mentre si rincorrono le voci sulla conferenza stampa prima confermata, poi cancellata, poi di nuovo fissata, è lo stesso Martin Schulz, parlando con i giornalisti prima che la seduta inizi, a tagliare la testa al toro. Confermando involontariamente i sospetti: «Non è la prima volta che salta una conferenza stampa. Non è perché non vogliamo ma eccezionalmente ed esclusivamente a causa di restrizioni di orario del premier. Non spetta a me commentare l’agenda di un presidente del Consiglio».
I colleghi stranieri si lamentano. La tradizione non scritta del parlamento europeo («dai tempi del trattato di Maastricht », ricorda un anziano frequentatore del palazzo) vuole infatti che il premier di turno, all’inizio del semestre, si sottoponga alla domande sul suo programma. Senza restrizioni di argomenti o di tempi. Invece Renzi sembra sfuggire ai giornalisti, come aveva preso a fare Berlusconi negli ultimi, tormentati, anni del suo mandato. L’opposizione chiaramente ci salta su. Il leghista Matteo Salvini non si lascia sfuggire l’occasione e in aula attacca: «Ci son rimasto male, mi aspettavo di più, forse la stanchezza, forse il fatto che non può rispondere alle domande dei giornalisti perché deve partecipare a una trasmissione televisiva in Italia». José Barroso, finito di parlare, si alza e se ne va. Così fa Renzi, per una volta fuori sincrono rispetto all’umore dei media.

il Fatto 3.7.14
Nomine, il Granducato renziano
Da Palazzo Chigi a Bruxelles, dalle società pubbliche al sottogoverno, la poltrona parla toscano
di Marco Palombi e Carlo Tecce


Ormai per essere nominati a qualcosa il requisito base è essere toscani”. La battuta - anonima, perché nessuno oggi vuole sfidare il re e la sua corazza del 40,8% - che circola nei palazzi della politica ha del vero. In ogni tornata di nomine, in tutti i posti che contano, in ogni crocicchio decisivo del potere c’è un profluvio di toscani in purezza o naturalizzati: governo, partito, società pubbliche. Persino la cittadinanza ormai si ottiene per speciali meriti di geografia renziana: quella concessa a Joseph Weiler, giurista statunitense e presidente dell’Istituto europeo di Fiesole, per dire, è stato il primo argomento della conferenza stampa di Matteo Renzi lunedì scorso, subito dopo le condoglianze per la morte di decine di immigrati nel canale di Sicilia. Quella che segue è una breve panoramica di come Roma s’avvia a diventare il Granducato di Toscana.
Esecutivo e Pd?
Faccenda fiorentina
I casi più eclatanti sono, ovviamente, quelli di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme e unico volto pubblico del governo (escluso Renzi), e Luca Lotti, sottosegretario a Palazzo Chigi e plenipotenziario per il sottobosco della Capitale e non solo. Ai due va aggiunto un altro renzianissimo dal compito delicato quanto fondamentale: il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi (mentre un’altra componente del cosiddetto “giglio magico”, Simona Bonafè, s’è dovuta accontentare del ruolo di capolista nella circoscrizione Centro alle Europee). Ma non sono certo gli unici: Erasmo D’Angelis, già consigliere regionale in Toscana e ai vertici di Publiacqua, dopo essere stato sottosegretario (ai Trasporti) con Enrico Letta in quota Renzi, oggi fa “il capo struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche” a Palazzo Chigi e il capo segreteria del premier (ma la nomina, come molte altre, è in attesa di firma).
A capo dell’ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio c’è poi Antonella Manzione, ex capo dei vigili a Firenze durante l’era Renzi (il fratello, Domenico Manzione, invece, è viceministro dell’Interno). Sempre a Palazzo Chigi lavorano il fotografo Tiberio Barchielli, da Rignano sull’Arno, il paese del piccolo Matteo, e - informalmente, in attesa del decreto di nomina - due consiglieri che erano già vicini al Renzi sindaco di Firenze: Giuliano da Empoli, che è pure presidente del fiorentinissimo Gabinetto Viesseux, e l’ex McKinsey Yoram Gutgeld, che vive da mesi in agonia speranzosa della nomina ufficiale a capo della cabina di regia economica del governo. Pure all’Agenzia delle Entrate, nonostante le resistenze dell’ex regnante Attilio Befera, è arrivata una toscana: Rossella Orlandi, empolese che ha lavorato a lungo a Firenze. Se ai renziani stretti al governo aggiungiamo i toscani in via di conversione, la pattuglia si fa battaglione: Lapo Pistelli, che fu mentore del giovanissimo Renzi e poi sua vittima sacrificale alle primarie per il sindaco di Firenze, è viceministro agli Esteri in attesa di promozione quando Federica Mogherini si accomoderà nella Commissione Ue. Viceministri sono il franceschiniano Antonello Giacomelli da Prato (che ha in mano la delicata partita della Rai) e il socialista Riccardo Nencini da Barberino di Mugello. Sottosegretari sono invece il magistrato Cosimo Ferri, pontremolese che nel curriculum vanta anche l’amicizia di Denis Verdini, il fiorentino Gabriele Toccafondi, alfaniano che invece col ras berlusconiano non parla quasi più, e Silvia Velo, già bersaniana, a cui è stata concessa una poltrona all’Ambiente.
Finanziatori e legali nelle Spa pubbliche
I vecchi boiardi liquidati, quattro donne presidenti, tanti amici nei Cda. Renzi ha affrontato così la tornata di nomine per le società partecipate dallo Stato. Quando il premier ha pubblicato la dichiarazione dei redditi, un paio di mesi fa, in calce c’era il none di Marco Seracini , commercialista di mestiere e ora nel collegio sindacale di Eni. Seracini ha scoperto l’indole renziana prestissimo: l’associazione Noi Link, prototipo di Fondazione Open (o Big Bang), utilizzata per la campagna elettorale da sindaco, fu proprio un’intuizione di Seracini. Appena eletto, Renzi l’ha spedito al vertici di Montedomini, un’azienda pubblica fiorentina di servizi alla persona.
Oltre al commercialista, c’è l’avvocato civilista: è il pistoiese Alberto Bianchi, studio a Firenze, amico di Lapo Pistelli, liquidatore di Efim, il fondo per il finanziamento per l’industria meccanica, roba da Prima Repubblica. Per una parcella di Efim a un gruppo di avvocati, la Corte dei Conti ha condannato Bianchi per danno erariale: 4,7 milioni di euro. Ci sarà l’appello e l’avvocato piestoiese è convinto di poter ribaltare la sentenza. Nel frattempo, Renzi l’ha indicato nel Cda di Enel. Il legame fra il premier e Bianchi è strettissimo: assieme a Maria Elena Boschi, Marco Carrai e Luca Lotti, il pistoiese gestisce la Fondazione Open, la cassaforte renziana. Il fratello Francesco Bianchi è commissario straordinario del Maggio Fiorentino da febbraio 2013, il ministro era Lorenzo Ornaghi.
DUNQUE: il commercialista, l’avvocato e il finanziatore. Fabrizio Landi di Siena, consigliere d’amministrazione di Fin-meccanica, contribuì alla raccolta fondi di Renzi con 10.000 euro. Landi proviene da Esaota, una grossa aziende specializzata in apparecchi biomedicali. L’attuale sindaco Dario Nardella ha presentato Landi a Renzi. Il primo giro di aziende pubbliche, s’è chiuso con altri due colpi renziani. L’imprenditrice Elisabetta Fabri, fiorentina, rampolla di una famiglia di albergatori (Starthotels), è andata in Poste Italiane. E Diva Moriani, aretina trapiantata a Firenze, vicepresidente di In-tek, la società di Vincenzo Manes finanziatore di Renzi, ha trovato spazio in Eni.
Il presidente del Consiglio ha promosso un intero studio legale. Gli avvocati erano tre, due sono molto noti: la ministro Boschi e il tesoriere del Pd Bonifazi. Il terzo, meno conosciuto, è Federico Lovadina, tributarista, fiorentino. A 32 anni, nel 2011, il sindaco l’ha nominato nel Cda di Mercafir, il mercato ortofrutticolo, adesso il gran salto: Cda di Ferrovie dello Stato. In Fs, c’è anche Gioia Ghezzi, undici anni in McKinsey & C, che in passato ha aiutato Renzi a Firenze per scrivere un progetto di legge sull’omicidio stradale. L’ultima scelta è caduta su Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore in pensione, ex capo di gabinetto di Massimo D’Alema alla Farnesina: è il commissario italiano in Europa al posto di Antonio Tajani, ora europarlamentare di Forza Italia. È di Pisa. Il toscanismo sostituisce il berlusconismo.

il Fatto 3.7.14
Sforbiciate
Le linee-guida colpiscono anche la scuola
di Salvatore Cannavò


Le linee-guida di Renzi colpiscono ancora. Stavolta la Scuola per la quale il governo sta pensando a un progetto di “riforma” (le virgolette sono d’obbligo) da presentare a luglio ma descritte ieri dal quotidiano Repubblica. Aumento dell’orario per i docenti fino a 36 ore, sia pure volontario, aumenti basati sugli aumenti di orario, scuole aperte “11 mesi su 12”, fine delle graduatorie di istituto, laurea 3+2 e poi tirocinio di un anno per abilitarsi e accedere ai concorsi, esaurimento delle graduatorie provinciali esistenti, istituti aperti dalle 7 alle 22 per attività extra-scolastiche, associazionistiche e altro. Il piano è stato presentato dal quotidiano romano con un’intervista al sottosegretario renziano, Roberto Reggi, che dopo le elezioni europee sembra aver “commissariato” la ministra Giannini. A reagire duramente contro le proposte di Reggi sono stati i deputati M5S della Commissione Cultura della Camera. “Si parla di supplenze gratuite per i docenti - scrivono in una nota - di cancellazione delle graduatorie d’istituto senza assunzioni, aumento fino a 12 ore lavorative per i docenti della scuola primaria e dell’infanzia senza un aumento della retribuzione, taglio dell’ultimo anno di scuola superiore per i licei. Il tutto per un risparmio di circa 1 miliardo e mezzo di euro”. Le linee sembrano infatti simili a quelle dalla ministra Gelmini: presentare i risparmi sotto la veste di riforme a vantaggio delle famiglie. Allora fu il grembiulino, oggi la scuola aperta di pomeriggio. Anche la Cgil boccia le linee-guida: “Nomi nuovi, ma pratiche vecchissime” dice il segretario della Flc, Domenico Pantaleo: “Legge delega al posto del contratto, lavoro gratis, raddoppio delle ore per i docenti e licenziamento dei precari. Non è così che si cambia verso al diritto allo studio”.
Il governo, però, non sembra preoccupato: Reggi, infatti, annuncia che si rivolgerà direttamente alle famiglie. Intanto, il Cipe ha sbloccato gli stanziamenti per l’edilizia scolastica, con 400 milioni per le opere di ristrutturazione. Pochi giorni fa, Renzi aveva sbloccato anche i fondi del Patto di stabilità interno. Quando presentò il piano per la scuola pubblica, parlò di circa 3 miliardi. A oggi ha garantito solo 800 milioni.

Repubblica 3.7.14
La rivolta dei sindacati sugli orari lunghi dei professori
di Corrado Zunino


ROMA. La reazione dei sindacati degli insegnanti al Piano scuola è dura, e rapida. A “Repubblica” il sottosegretario Roberto Reggi, che ha ampie deleghe da parte del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, aveva anticipato: allungamento dell’orario a 36 ore, aumenti per i docenti che chiedono responsabilità e offrono competenze specifiche (lingue, informatica), istituti aperti fino alle 22 e fino alla fine di luglio, un unico canale di assunzione che passa per la laurea magistrale.
Ieri, di prim’ora, la rappresentativa Gilda ha parlato apertamente di sciopero: «La scuola viene considerata dalla politica come una caserma, per certi versi un’azienda», ha detto il coordinatore Rino Di Meglio, «se quello che il ministro Giannini vuole presentarci è un contratto di autorità, scavalcando i sindacati, da settembre sarà guerra aperta». E così i Cobas: «Invitiamo i sindacati di base a un’azione comune», la Cub scuola. La Cgil (Flc) parla di tagli montiani: «Nomi nuovi, ma pratiche vecchissime. Legge delega al posto del contratto, lavoro gratis, raddoppio delle ore per i docenti e licenziamento dei precari». Ma è disposta a discutere «tutti i cambiamenti necessari». L’Anief: «È uno tsunami che spazza via quasi mezzo milione di supplenti e riduce di un anno le superiori». L’Ugl, a destra, è critica, la Cisl aperta. Per gli studenti «il ministro non ha un’idea di scuola» e amplifica «la retorica del docente fannullone», ma l’Uds chiede di portare avanti l’idea degli istituti aperti fino a sera.
Il ministro Giannini conferma che la riforma contrattuale correrà veloce: «Entro la fine dell’estate presenteremo il decreto legislativo per la riorganizzazione della scuola. Se possibile, prima delle ferie estive. Decreto per le cose più urgenti e poi, probabilmente, una legge delega».
Nel Pd ci sono già voci diverse. Francesca Puglisi, capogruppo Pd in commissione Istruzione al Senato, si allontana dalla Cgil: «Scuole aperte tutto il giorno, anche per fare musica e sport. Chi tuona preventivamente contro, sbaglia. Questa proposta accoglie le linee guida di molti sindacati». Davide Faraone, responsabile Scuola del Pd, e la parlamentare Simona Malpezzi, chiedono invece un aumento per tutti: «Alla crescita dell’orario scolastico degli insegnanti dovrà corrispondere una crescita delle retribuzioni. Il contratto è bloccato da ben sette anni». Favorevole alla riforma il Pdl.

La Stampa 3.7.14
I magistrati attaccano il decreto del governo
“Fuori stalker e rapinatori”
La denuncia: “Liberi soggetti socialmente pericolosi”
di Francesco Grignetti


Un indulto mascherato? I magistrati cominciano a pensare di sì. Nell’ultimo decreto del 26 giugno si legge: «Non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni».
Va spiegata, questa novità: dato che fino a tre anni di pena il condannato ha diritto ad andare ai domiciliari, non avrebbe senso un’anticipazione di pena (e in cella) attraverso la custodia cautelare. Ma un meccanismo così garantista non convince i magistrati: con quel limite dei tre anni, tanti reati - dallo stalking ai maltrattamenti in famiglia, persino alla rapina semplice - di fatto non portano più in carcere. Ai domiciliari, al limite. Sperando che almeno l’arrestato ce l’abbia, un domicilio.
Da notare che il provvedimento vale anche per gli arresti in flagranza di reato. E così si vedono le prime scarcerazioni obbligate. A Torino, ieri, la procura ha dovuto dare parere favorevole alla scarcerazione (con eventuali arresti domiciliari, tutti da verificare) di un immigrato marocchino al quale erano appena stati inflitti tre anni di reclusione per rapina. A Milano, sempre ieri, i magistrati hanno incontrato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, per parlare del decreto. Da un paio di giorni, infatti, i presidenti delle sezioni penali stanno facendo i conti di quante saranno le persone che, senza un luogo dove poter essere poste ai domiciliari, dovranno essere rimesse in libertà.
«Questa norma - spiega scandalizzato Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione - impone ai giudici di non applicare la custodia cautelare in carcere a soggetti che sono socialmente pericolosi, anche se riportano condanne per reati meno gravi, ma che interessano la criminalità di strada. Inoltre segna un particolare punto di arresto nella tutela delle donne vittime di violenze. Tutto ciò pone problemi per la sicurezza dei cittadini».
Il ministro Orlando non nasconde che il decreto è un male minore. Ma precisa: «Il governo ha corretto una norma approvata dal Parlamento». A chi considera troppo garantista il decreto, infatti, Orlando spiega che appena divenuto ministro ha scoperto con meraviglia che certi articoli della legge sulla custodia cautelare, approvati da Camera e Senato, erano addirittura ultragarantisti. E siccome erano stati votati erano ormai immodificabili.
A leggere il testo del Parlamento, infatti, «si stabiliva il divieto di qualunque misura cautelare detentiva nel caso della previsione di una pena non superiore a tre anni». Nè in carcere, e neppure ai domiciliari.
Questo dunque il senso del decreto del 26 giugno: una correzione in corsa quando ormai la frittata era fatta. Conclusioni del ministro: «Il testo introdotto, che prevede la possibilità di applicare gli arresti domiciliari, nella direzione di garantire una maggior sicurezza dei cittadini, consentirà comunque al Parlamento di intervenire».

Corriere 3.7.14
«Garanzia giovani», perché non funziona
I distruttori dI lavoro
di Maurizio Ferrera


La disoccupazione giovanile continua a crescere, soprattutto fra le donne. Due mesi fa ha preso avvio il programma «Garanzia giovani», cofinanziato dall’Unione Europea, il cui obiettivo è proprio quello di aiutare chi ha meno di 29 anni a inserirsi nel mondo del lavoro. Otto settimane non bastano certo a produrre risultati concreti. È però lecito chiedersi a che punto siamo e che cosa possiamo aspettarci da questa ambiziosa iniziativa.
Quasi 100 mila giovani si sono già iscritti al portale Internet e molti sono stati anche intervistati dai servizi per l’impiego. La vera sfida comincia adesso. La «Garanzia» prevede infatti che entro quattro mesi il disoccupato riceva una proposta concreta di inserimento. Sul portale si legge che le aziende per ora hanno segnalato circa 2 mila occasioni di lavoro: un numero davvero esiguo, anche tenendo conto della crisi. Bisogna migliorare con urgenza i flussi informativi sulle posizioni vacanti in tutti i settori dell’economia.
Il compito di attuare la «Garanzia» spetta alle Regioni. Quelle del Centro-Nord (in parte anche la Puglia) sembrano sulla buona strada. Lombardia, Toscana e Lazio hanno già incontrato più di un terzo dei loro iscritti. Le Regioni del Mezzogiorno sono invece quasi ferme. E ciò che sta accadendo solleva, purtroppo, più di una preoccupazione. Nel piano di spesa della Sicilia, ad esempio, quasi due terzi dei 178 milioni di euro disponibili verranno destinati all’«accoglienza» e alla formazione, solo il 6 per cento ad attività concrete come l’apprendistato. Per quest’ultima voce («già incentivata da altre leggi») la Sardegna non prevede neppure un euro, mentre abbonda in sussidi a formatori e mediatori. La Calabria dal canto suo ha appena chiuso un bando per 500 tirocini con modalità di selezione che rischiano di riprodurre sotto nuove spoglie le tradizionali logiche clientelari.
Dati questi segnali, vi è un’alta probabilità che la «Garanzia» fallisca proprio nelle aree del Paese dove è più necessaria. Invece di innescare dinamiche virtuose nei mercati del lavoro del Mezzogiorno, le risorse europee rischiano di alimentare, come in passato, il sottosviluppo assistito. Bruxelles è preoccupata e non ha ancora formalmente approvato il piano italiano: non una bella figura per il Paese che più aveva insistito per mobilitare i fondi Ue e che ora detiene la presidenza di turno.
Per evitare il fallimento, il governo deve attivarsi subito su almeno due fronti. Innanzitutto imponendo alle Regioni il rispetto di criteri minimi di trasparenza ed efficacia nella fornitura dei servizi (costi standard, pagamento sulla base dei risultati, apertura alle agenzie del lavoro private e così via). In secondo luogo, collegando la «Garanzia giovani» in modo più diretto al mondo delle imprese. Occorrono incentivi, accordi, politiche di livello nazionale. Nel Mezzogiorno ciò significa attrarre investimenti, avviare una seria politica per il turismo e per i servizi, in modo da facilitare anche iniziative dal basso di autoimpiego e di start-up. Un’opportunità concreta di mettersi in gioco nel mercato, in base alle proprie capacità e ai propri talenti: questa è la vera «garanzia» che dobbiamo offrire ai giovani italiani. Iniziando da quelli (troppi) che oggi non riescono a uscire con le proprie gambe dalle trappole dell’inattività, della disoccupazione e dell’assistenzialismo.

il Fatto 3.7.14
Trattativa e “Romanzo Quirinale”
Napolitano dovrà dire la verità
Al processo Stato-Mafia testimonieranno la prossima settimana Grasso, Marra, Ciani e Vitaliano Esposito
Poi, alla ripresa a settembre, sarà convocato il Presidente
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo. Nell’aula bunker di Palermo comincia la marcia di avvicinamento dei giudici al Colle più alto di Roma: il processo sulla trattativa Stato-mafia è pronto a sfogliare le pagine cruciali del Romanzo Quirinale. A settembre, subito dopo la pausa estiva, è prevista l’audizione di Giorgio Napolitano dopo che sul pretorio, a partire da venerdì 11 luglio, sfileranno i protagonisti del ‘giallo’ istituzionale più imbarazzante della storia repubblicana: le pressioni telefoniche esercitate da Nicola Mancino sul Colle, nelle conversazioni con Loris D’Ambrosio, consulente giuridico di Napolitano (di quelle con il capo dello Stato non si sa nulla perché sono state distrutte), per evitare di essere sottoposto a confronto con l’ex ministro Claudio Martelli nel processo agli ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, accusati (e poi assolti con il dubbio) di avere fatto fuggire Bernardo Provenzano dal covo di Mezzojuso nell’ottobre del 1995.
Ma non è ancora detto che l’inquilino del Quirinale debba realmente aprire il portone al plotone di giudici, pm e avvocati palermitani pronti a volare a Roma per raccogliere la sua deposizione sui timori espressi da D’Ambrosio, poco prima di morire stroncato da un infarto, in una lettera nella quale si diceva preoccupato di essere stato usato come “utile scriba” per fare da scudo a “indicibili accordi” nel periodo tra l’89 e il ’93. Sulla deposizione di Napolitano deve ancora pronunciarsi, infatti, il presidente della Corte d’assise Alfredo Montalto, dopo che nel novembre scorso il capo dello Stato ha voluto esporre con una missiva ai giudici di Palermo “i limiti delle sue reali conoscenze in relazione al capitolo di prova testimoniale ammesso”. Pur dicendosi pronto a farsi interrogare, infatti, Napolitano ha informato le parti processuali che sul tema del capitolato relativo alla sua audizione - e cioè sui tormenti di D’Ambrosio - non sa più di tanto. In attesa di Napolitano i primi a sfilare sul pretorio saranno l’ex Procuratore nazionale antimafia, oggi presidente del Senato, Pietro Grasso e il segretario generale del Quirinale Donato Marra. Il primo, rinunciando alle sue prerogative istituzionali, qualche giorno fa dalla Palestina ha scelto di deporre a Palermo (“L’aula bunker - ha detto - è un pezzo della mia vita, per me resta il tempio della verità”) e insieme al segretario del Colle dovrà ricostruire le conversazioni e le richieste giunte dalla Procura generale della Cassazione per indurlo a “coordinare” e forse, come egli stesso ha scritto, ad avocare l’inchiesta sulla trattativa condotta dalla Procura di Palermo. Il secondo dovrà spiegare, invece, le fibrillazioni dell’intero staff del Quirinale sottoposto a un autentico pressing telefonico da parte di Mancino nel periodo tra la fine del 2011 e la primavera del 2012, fino a spingere il capo dello Stato a stilare una lettera indirizzata al Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito per indurre Grasso a intervenire. Ed è proprio Esposito, insieme al suo successore, il Pg Gianfranco Ciani, e all’aggiunto Pasquale Ciccolo , il teste che sarà sentito a Palermo giovedì 17 luglio: anche loro dovranno ricostruire in aula la catena di sollecitazioni istituzionali approdate a piazza Cavour su input di Mancino. Nell’aula bunker, intanto, si riprende stamane con l’audizione del pentito catanese Maurizio Avola, tra i primi a citare la sigla “Falange Armata”, utilizzata da Cosa Nostra per rivendicare gli attentati di natura terroristico-eversiva della stagione ‘92-‘94. La prossima udienza è fissata per giovedì 10 luglio e in quella data verranno ascoltati l’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita e il pentito Antonio Galliano. Leader della ‘sinistra’ Dc, la stessa corrente di Mancino e dell’ex senatore Calogero Mannino (entrambi imputati del processo, anche se il secondo viene giudicato con il rito abbreviato), De Mita dovrà riferire, tra l’altro, delle preoccupazioni di Mannino sulla necessità di concordare una versione comune tra esponenti della stessa corrente, dopo le accuse di Massimo Ciancimino. Preoccupazioni timidamente confermate, nella scorsa udienza, da Giuseppe Gargani, altro big della sinistra Dc, che per la prima volta ha ammesso in aula come l’intero Parlamento fosse a conoscenza della revoca dei provvedimenti di 41 bis per 334 detenuti mafiosi da parte del Guardasigilli Giovanni Con-so nel novembre ’93 (circostanza sempre negata da Mancino, che disse di aver saputo tutto da un giornalista). Per la Procura è una delle “prove regine” dell’esistenza della trattativa.

il Fatto 3.7.14
Il dietrofront di “Repubblica”: ora il bavaglio va bene


ERA il 2010, ma sembra passata un’epoca. Berlusconi tentava di cambiare la legge sulle intercettazioni, proibendo ai giornali di pubblicarle. Ma sulla sua strada trova un avversario tosto: la Repubblica. Il quotidiano lancia la campagna dei post-it: gli articoli sono accompagnati dalla scritta “Con la legge bavaglio non leggerete più questo articolo”. Segue un’innovativa campagna 2.0, chi vuole può inviare una foto con un post-it appiccicato addosso, che verrà pubblicata. L’iniziativa è un successo, per questo ogni volta che un governo ci prova la campagna riprende. Sul giornale di ieri invece c’erano due interviste entrambe pro bavaglio. Questo il titolo di quella a Vietti: “Filtrare le intercettazioni e distruggere quelle irrilveanti”. Sotto, parla il garante Antonello Soro: “Sulla pubblicazione dei nastri serve una svolta”. Solo un eccesso di pluralismo o il bavaglio ora va bene?

il Fatto 3.7.14
Contratto stampa, volano gli stracci tra Ordine e Fnsi


IL CONTRATTO dei giornalisti continua a dividere la categoria. Ieri sono state annunciate due manifestazioni di protesta: una, “Per un nuovo sindacato”, per sabato 5 luglio. L'altra, l'8 luglio, con un sit-in sotto la sede del sindacato nazionale, la Fnsi. Il contenzioso riguarda il lavoro “autonomo”, ma anche le concessioni fatte agli editori in cambio di un intervento di 120 milioni da parte del governo. Una componente della Fnsi, “Punto e a capo”, ha annunciato l’abbandono del sindacato mentre il segretario di Stampa romana, Paolo Butturini, pensa che “il sindacato vada ricostruito”. Ma l’attacco più duro viene dal presidente dell'Ordine, Enzo Jacopino, secondo cui “il sindacato è guidato da comici e imbecilli” nemici dei giornalisti “più di Beppe Grillo”. “Ripassi l’esame” gli risponde il segretario della Fnsi, Franco Siddi, “parlare senza documentarsi è peccato mortale”

l’Unità 3.7.14
Naufraga un gommone Lampedusa, 80 dispersi
I superstiti hanno raccontato di corpi gettati in mare dagli scafisti
In due giorni salvati 5mila migranti. I morti di Pozzallo salgono a 45


Una strage continua. Dopo i quarantacinque immigrati morti nella stiva, altri 75 forse ottanta profughi sarebbero annegati nella traversata verso l’Italia. L’allarme, ancora in corso di verifica, è stato lanciato dall’Alto Commissariato per i Rifugiati e troverebbe conferma dalle testimonianze dei compagni di viaggio arrivati ieri a Catania su una delle navi che partecipano all’operazione Mare Nostrum. Il naufragio sarebbe avvenuto nel Canale di Sicilia e i superstiti, 27 in tutto, hanno raccontato dei loro compagni gettati in mare. Ma anche i profughi recuperati dalla Grecale, quelli che hanno fatto il viaggio con i compagni soffocati nella stiva parlano di altre persone disperse. Almeno quattro. E a Porto Empedocle mancano altre quattro persone. Dei nuovi dispersi si sta occupando ora la Procura di Catania che ha aperto un’inchiesta.
Cinquemila persone salvate dalla Marina Militare nelle ultime 48 ore, ma sono più di cinquecento i migranti e i rifugiato morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2014. L’Unhcr ha elogiato l’operato dei soccorritori e dell’Italia che ha permesso comunque di limitare il numero dei morti. «Nonostante gli enormi sforzi sostenuti delle autorità italiane e l’aiuto costante prestato dalle imbarcazioni private - si legge in una nota dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati - centinaia di migranti e rifugiati innocenti continuano a perdere la vita alle frontiere d’Europa. Queste ulteriori tragedie dimostrano che i rifugiati non hanno altra possibilità se non rischiare la vita nella traversata del Mediterraneo per cercare rifugio da guerre e persecuzioni ». «I rifugiati non hanno altre possibilità - dice la nota dell’Alto Commissariato - se non rischiare la vita nella traversata per scappare da guerre e persecuzioni. Ma è necessario che i governi forniscano urgentemente alternative legali ai pericolosi viaggi per mare come l’ammissione per ragioni umanitarie e l’accesso agevolato per ricongiungimento familiare garantendo loro la possibilità di cercare e trovare protezione e asilo».
Le navi della Marina anche ieri hanno raccolto in mare decine di persone in diversi punti del Mediterraneo. I numeri fanno paura, basti pensare che solo a Porto Empedocle dove ieri sono sbarcati altri 215 immigrati tra cui 22 donne e 13 minori, dall’inizio dell’anno ha accolto 8.043 migranti nel corso di 25 operazioni. Ieri mattina un altro carico è stato raccolto dalla Guardia Costiera cento miglia a sud di Augusta. A bordo della carretta del mare c’erano 150 immigrati. Mentre a Porto Paolo, sempre ieri mattina, è stato soccorso un barcone con più di duecento migranti di cui 54 bambini.
QUINDICI CADAVERI IN PIÚ
È poi finita con un’ulteriore tragica notizia la vicenda del barcone stipato all’inverosimile arrivato nelle scorse ore a Pozzallo. I Vigili del Fuoco hanno impiegato ore e sono stati costretti a tagliare una parte dell’imbarcazione per recuperare i cadaveri degli immigrati rimasti in trappola nella stiva e alla fine ne hanno contati 15 di più, 45 invece di trenta. L’operazione è finita alle 5.30. Confermata invece la ricostruzione: trentasei ore è durato il viaggio dalla Libia. Molti testimoni hanno raccontato che i compagni di traversata sono stati costretti a restare nella stiva senza possibilità di uscire per respirare. Quando più volte hanno cercato di aprire la botola e risalire sono stati spinti indietro dagli altri immigrati che altrimenti sarebbero caduti in acqua. Secondo la polizia, per questa traversata dell’orrore i trafficanti libici avrebbero incassato quasi un milione di dollari. Dopo sedici ore sono stati invece identificati i presunti scafisti. Sono il senegalese Oussman Maron e il gambiano Ibrahima Conte. L’accusa è sequestro di persona per aver rinchiuso gli immigrati nella ghiacciaia adibita alla conservazione del pesce, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e morte come conseguenza di altro delitto.
Intanto a Marsala è scoppiato un caso accoglienza. Il Comune ha infatti rifiutato di aprire ai migranti una struttura ricettiva nel cuore della salina Ettore Infersa, all’interno della Riserva dello Stagnone. La Fondazione Francesco d’Assisi che gestisce l’albergo «Borgo della Pace» aveva chiesto e ottenuto dalla prefettura di Trapani di ospitare circa una trentina di richiedenti asilo dopo gli ultimi sbarchi, ma il Comune di Marsala si è opposto sostenendo che avrebbe danneggiato il turismo locale. Contro il centro per gli immigrati si è schierata in prima fila il sindaco Giulia Adamo. «La struttura è stata costruita con finanziamento pubblico di oltre 500mila euro al fine di farne un punto di ritrovo spirituale. Poi si è pensato all’accoglienza. È inconcepibile - ha detto il sindaco - l’idea che si possano continuare a utilizzare risorse finanziarie pubbliche anche per il suo mantenimento».

Repubblica 3.7.14
Un’altra strage in mare affonda un gommone 80 migranti dispersi
In 27 si sono salvati: “Ma a bordo eravamo più di cento”
E a Pozzallo salgono a 45 gli uomini asfissiati nella stiva
di Alessandra Ziniti


CATANIA. Ogni profugo che scende racconta nuove storie di morte e di orrore. «Non c’eravamo solo noi su quel gommone. Da Al Zwara siamo partiti in centouno. Gli altri sono caduti in mare, sono affogati, quando ci hanno salvati erano già scomparsi tra le onde». Basta fare una sottrazione ed ecco il numero di una nuova tragedia: dei centouno stipati su quel gommone che ha cominciato a sgonfiarsi dopo mezza giornata di navigazione ne sono arrivati solo ventisette. Tanti erano i profughi che un mercantile, che sabato ha avvistato l’imbarcazione mezzo affondata, ha poi consegnato alla nave Orione della Marina militare. Dunque all’appello mancherebbero in settantaquattro. Dispersi come dispersi sarebbero altri quattro ragazzi, un marocchino e tre subsahariani, saliti a bordo di un barcone senza un goccio d’acqua da bere e buttatisi in mare nel folle tentativo di raggiungere un’altra nave che incrociava poco distante, mentre altri due uomini (dopo aver bevuto acqua di mare) sarebbero morti a bordo disidratati e sarebbero poi stati gettati in acqua: entrambi siriani, un giovane e un anziano. I loro compagni, 215, ancora con negli occhi l’orrore della loro fine, sono stati salvati poche ore dopo dal mercantile “Asso” e sono sbarcati ieri mattina a Porto Empedocle. E la triste contabilità di chi non ce l’ha fatta è aumentata di altre sei unità. «La barca sulla quale viaggiavamo - hanno raccontato agli operatori dell’Unhcr - era partita dalla Libia sabato ma il secondo giorno si è rotto il motore e siamo rimasti fermi, in balia del mare, senza acqua da bere».
Ancora ottanta vittime, dunque, solo nell’ultimo weekend, almeno stando al racconto di chi ce l’ha fatta, che vanno ad aggiungersi ai quarantacinque morti asfissiati all’interno della stiva di quel barcone trainato ieri a Pozzallo dalla nave Grecale e sul quale viaggiavano in seicentoundici. Sulle salme, tutte di giovani o di giovanissimi uomini del centro Africa, recuperate con molta difficoltà dai vigili del fuoco, ieri sono cominciate le autopsie per verificare le cause della morte, mentre gli investigatori della squadra mobile di Ragusa hanno individuato ed arrestato i due scafisti del viaggio che ha fruttato agli organizzatori più di un milione di dollari. I due, un senegalese e un gambiano, sono accusati anche di sequestro di persona, per aver tenuto i migranti costretti nella stiva impedendo loro l’unica via di fuga.
Le notizie, ancora vaghe, delle nuove vittime sono arrivate ieri grazie alle testimonianze degli ultimi arrivati raccolte dagli operatori dell’Unhcr che stima in 500 i migranti morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2014. Una stima sicuramente per difetto visto che, certamente, di altri incidenti e naufragi non è mai arrivata notizia. Il racconto dei profughi sbarcati a Catania dalla nave Orione è considerato attendibile dagli inquirenti. La conferma arriva anche dal procuratore di Catania Giovanni Salvi, che ha aperto un’inchiesta: «Il naufragio - spiega - sarebbe avvenuto per le pessime condizioni del gommone, che era sovraffollato, sul natante infatti risulta che si trovassero 101 persone. Queste informazioni naturalmente sono provvisorie e dovranno essere oggetto di ulteriore verifiche».

l’Unità 3.7.14
Pronto il Piano nazionale accoglienza profughi
«Un centro in ogni regione, tre livelli di accoglienza»


Tre livelli di accoglienza, un centro in ogni regione, percentuale di ospiti stranieri in proporzione alla grandezza della singola regione, 30 euro il costo medio al giorno per ogni immigrato/rifugiato, libertà di muoversi in area Schengen una volta avvenuta l’identificazione. Il Piano è pronto e attende il via libera definitivo giovedì 10 luglio quando si riunirà la conferenza Stato- Regioni. I timori che qualche governatore, ad esempio Lombardia e Veneto si possano opporre, è nelle cose. «Ma - ragionano dal Viminale - se la nostra proposta fallisce si deve sapere che un secondo dopo si va in emergenza, cioè con la nomina di un Commissario speciale che a quel punto imporrà le sue decisioni».
Ieri il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha spiegato le linee principali del suo mandato davanti alla Commissione Affari costituzionali del Senato. «Anche i morti, non solo i vivi, volevano arrivare in Europa - ha detto - noi chiediamo all'Unione Europea che mandi Frontex ad occuparsi del Mediterraneo. Il semestre italiano di presidenza può e deve essere una svolta». L’Italia comincia il semestre con le carte in regola: non si è mai sottratta, a differenza di altri paesi che affacciano sul Mediterraneo, alle operazioni di soccorso, si può dire che se ne sta facendo carico - nonostante appelli e promesse - unilateralmente. E ora è anche in grado di presentare un Piano nazionale di accoglienza dei profughi. Perchè di questo si parla davanti ai numeri degli sbarchi: oltre 65 mila dall’inizio dell’anno; furono 61 mila nell’estate 2011 dopo la primavera araba. Mai stati così tanti.
Un flusso migratorio, ha proseguito Alfano, «difficile da bloccare » che sarà uno dei temi principali dell'agenda del semestre. Un flusso migratorio che l’Italia vuol dimostrare di saper gestire e non solo subìre. Alfano ha dato la delega per immigrazione al sottosegretario Domenico Manzione, lucchese, ex magistrato. Il Piano è articolato su tre livelli. Il primo prevede due grandi centri di prima emergenza in Sicilia, la regione dove avvengono gli sbarchi e che attualmente ospita il 35% degli arrivi («una percentuale insopportabile per l’isola»). Si tratta di due hub (come gli aeroporti da dove poi si può partire per tutte le destinazioni), due centri dove avverrà la primissima accoglienza, l’emergenza, i primi controlli sanitari, cibo e abiti. «La Difesa sta provvedendo ad indicare i siti - spiegano al Viminale - non ci saranno nè campi, nè tende. Parliamo di strutture abitabili come caserme e, perchè no, anche immobili sequestrati alle mafie». Il lasso di tempo previsto di presenza nel primo livello è «intorno a una settimana, a secondo del numero degli arrivi».
Il secondo livello prevede la fase delle mediazione culturale, linguistica, dell’identificazione e, solo a quel punto, dell’eventuale domanda di asilo per ottenere lo status di rifugiato. È a questo punto che, in genere, si crea il tappo. «Molte di queste persone - si spiega - non vogliono farsi identificare, non accettano di farsi prendere le impronte digitali. Di fronte a questa eventualità, però, saremo inflessibili: chi non accetta l’identificazione deve sapere che verrà trasferito in un centro di accoglienza da cui non potrà uscire».
Lo straniero che, invece, collabora, subito dopo l’identificazione sarà trasferito alle strutture che rappresentano il terzo livello del Piano nazionale, i cosiddetti SPRAR (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) dove lo straniero avvia un percorso di integrazione se decide di restare in Italia. Oppure («la maggior parte delle volte») avvia le pratiche per il ricongiungimento familiare in un paese di area Schengen.
A livello di costi il governo è convinto che un sistema così integrato «pur non potendone prevedere i numeri» possa costare meno di quello che accade oggi che siamo in piena emergenza e gli arrivi vengono dirottati in alberghi e pensioni.
Difficile fare calcoli precisi perchè le presenze oscillano in continuazione. Di certo, una volta avviato il Piano, i costi saranno più contenuti e controllati visto che si parla di 30 euro al giorno. Lo Stato trasferirà alle Regioni che a loro volta utilizzeranno i volontari del Terzo Settore. Tutti già consapevoli, e si spera immuni, delle truffe avvenute in passato.
L’emergenza, finora, ci è costata circa 10 milioni al mese. Trecentomila se ne vanno ogni giorno solo per Mare Nostrum. Un costo non più sopportabile.

Corriere 3.7.14
I mille figli di «Mamma Virginia» la donna che dà casa ai piccoli immigrati
di Felice Cavallaro


POZZALLO (Ragusa)— Senti chiamare «mamma» fra le brande dei minori arrivati dalla Siria o fra i ragazzi egiziani che giocano a pallone e corre lei, Virginia Giugno, una quarantenne alta e bruna, gli occhi dolci, pronta per coccolare i giovani sventurati senza genitori, i piccoli migranti in cerca di futuro, prima diffidenti, poi attaccati come ventose alla coordinatrice della protezione civile perché per tutti è «Mamma Virginia».
Quando si è laureata in lingue e letteratura straniere e quando il sindaco Luigi Ammatuna l’ha nominata capo di gabinetto pensava di dover seguire nella vita solo le sue due figlie, una all’università, l’altra al liceo. E invece adesso deve dividersi fra Walid, Ayman, Sam e centinaia di altri «non accompagnati» che ad ogni sbarco le vengono affidati per decidere come assisterli, se trattenerli a Pozzallo, magari iscrivendoli a scuola, se stabilire un contatto con le case famiglia, con le parrocchie, con i centri Spar del ministero dell’Interno. Lei scheda i dati, annota le debolezze, l’estro, le aspirazioni di ognuno, cerca di capire cosa è meglio fare, dove è meglio indirizzare ogni ragazzo. Come ha fatto lunedì per 72 minori spostati dal Centro accoglienza del porto di Pozzallo per fare spazio agli altri 50 arrivati con i primi naufraghi salvati sul peschereccio dell’orrore.
«Il più piccolo in questi giorni ha 12 anni. Il primo compito è separarli dai maggiorenni, se non hanno genitori. E subito tirarli fuori dal Centro che è sempre un capannone dove non si può costruire niente, passando invece a strutture “ponte”, come le definiamo, in attesa di qualcosa che dia sempre più certezze: una parrocchia, una casa famiglia, un centro per minori...» racconta Mamma Virginia che negli ultimi mesi ha ribaltato qualche convinzione. «Vedevo davanti a me questi ragazzi mandati da soli nel pozzo nero del Mediterraneo e pensavo a genitori scriteriati, incapaci di tenerseli vicini. Ma ho capito che è esattamente il contrario» spiega. «Ho capito che le famiglie investono tutto per consentire a questi ragazzi di fuggire da fame e stenti, di non farsi arruolare a sedici anni come soldati armati di fucili che pesano più di loro. Fra la morte per fame o guerra e il rischio di giocare la vita nella roulette del Mediterraneo, i genitori puntano sul viaggio della speranza mettendo i loro figli nelle mani dei trafficanti. Una scommessa. Che noi finiamo per raccogliere...».
Ed è questa la storia di Ayman, 14 anni, il viso di un bambino, gli occhi inzuppati, i primi tempi con un inglese pasticciato, «blis blis » per dire «please », per invocare di essere rimandato in Egitto, come ricorda la coordinatrice: «Mi ripeteva: “Non volevo venire, mi ha costretto mio padre, voglio tornare a casa, a fare il medico al Cairo...”. E io a confortarlo difendendo quel padre mai visto, convincendolo che il futuro stava davanti a lui e non dietro». Come ha fatto con Welid Moahomud, un altro ragazzo egiziano di 15 anni, l’italiano appreso con lei che lo chiama «Kit Kat»: «Lo rimproveravo per le barrette di cioccolato divorate in continuazione, per la sigaretta fumata di nascosto... Ma dopo un anno, trovato un collegio in Calabria, ecco la pagella della promozione in terza media che mi ha inviato via Facebook. Ero fiera, come se l’esame l’avesse superato mia figlia». Vorrebbe sempre il meglio una mamma per i propri figli, spiega lei, però si intristisce: «Mi ritrovo spesso a scegliere il loro destino rispondendo a richieste del ministero o dei centri specializzati da dove mi arrivano la mail per la disponibilità di un posto in una struttura o in un’altra. E’ accaduto quest’inverno. Un posto in un ottimo centro di Pachino. Ma in quel momento avevo 107 minori a me affidati. E dovevo sceglierne uno, uno soltanto per regalargli il futuro. Una violenza per gli altri. Ho dovuto, a malincuore. Facendo preparare il bagaglio con le sue piccole cose a Promise Aberun, 16 anni, il più socievole, sempre allegro, felice quando gli ho spiegato che avrebbe studiato, ospite in una casa vera, senza brande, con istitutori di prim’ordine, con tanti giochi e tanti libri. Ma un giorno, un brutto giorno, un mese e tre giorni fa, li hanno portati al mare, in gita, e Promise è annegato, il corpo ritrovato tre giorni dopo. Ecco, l’avevo scelto io. Ed è come se l’avessi mandato io su quella spiaggia, fra quelle onde che se lo sono portato via».
Torna il sorriso parlando di Sam, 12 anni, «una intelligenza superiore», come dice raccontando la storia di un altro bambino arrivato da solo: «Mamma e fratello arrestati alla partenza dalla Libia da poliziotti che volevano essere pagati. Loro sono fuggiti temendo il peggio, ma gridando a Sam di salire sul barcone mentre salpava. Ed è arrivato qui, solo, poi viziato da tutti: l’elicotterino, la macchinina, la maglietta alla moda. La sera però mi abbracciava e io morivo: “Virginia, mi manca la mamma”. Lo stringevo forte. Si addormentava... Adesso con gli angeli di Save the children sta in una buona struttura a Catania. E lavoriamo tutti per rintracciare la mamma, per agevolare il ricongiungimento...». Ed è davanti a tragedie come queste che l’umanità scopre il peggio, ma anche il meglio di se stessa.

l’Unità 3.7.14
G8, chiesto risarcimento milionario a cinque agenti
La Corte dei Conti ha disposto il pignoramento di un quinto della retribuzione per
i condannati
La madre: «Quello che speravo»


Sequestro conservativo di un quinto dello stipendio e di beni mobili e immobili a carico dei quattro agenti di polizia condannati per la morte di Federico Aldrovandi, a copertura di un danno erariale subito dal ministero dell'Interno pari, complessivamente, a 1 milione e 870mila euro: è quanto ha disposto la Corte dei conti dell'Emilia Romagna accogliendo la richiesta della Procura regionale contabile.
Dopo le verifiche istruttorie, la Procura della Corte dei conti dell'Emilia Romagna aveva parlato della sussistenza di una grave fattispecie di danno erariale subita dal ministero dell' Interno, che nel 2010 aveva stipulato un atto negoziale di transazione in favore dei familiari del 18enne, morto nel settembre 2005 in un parco pubblico a Ferrara nel corso di un controllo di polizia. Ciascuno dei quattro agenti condannati in via definitiva per l'«eccesso colposo nell'omicidio colposo» di Federico Aldrovandi, secondo quanto stabilito dai magistrati contabili, dovrà risarcire una danno di 467mila euro. L’udienza di comparizione, in cui si discuterà della convalida dell’atto di sequestro conservativo, davanti ai giudici della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per l’Emilia Romagna è fissata per la settimana prossima, il 9 luglio. A sostegno dell’azione di risarcimento del danno erariale hanno concorso una serie di motivazioni, quelle che sono riportate nelle vari sentenze penali già passate in giudicato in questi anni. Infatti, secondo la Procura regionale, le motivazioni addotte dai vari giudici (soprattutto quelli di Cassazione che hanno posto il sigillo finale sul caso, confermando tutti i rilievi dei giudici di primo grado e d’appello) hanno delineato tutti gli elementi di fatto circostanziati negli atti, imputabili ai quattro agenti, che costituiscono la fonte di causa del danno arrecato agli eredi a seguito della morte di Federico Aldrovandi.
«È quello che speravo, mi aspettavo e ritengo giusto, profondamente giusto» commenta Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi: «Mi sembra - aggiunge - che alla fine la giustizia arrivi davvero: questa è un grande notizia e sono senza parole. Il provvedimento della Corte dei conti, anche se ancora parziale e non definitivo, è il completamento giusto della sentenza di condanna per la morte di mio figlio».
I sindacati di polizia hanno accolto invece come un accanimento la notifica del sequestro conservativo di 1/5 dello stipendio e dei beni dei quattro agenti (Paolo Forlani, Enzo Pontani, Luca Pollastri e Monica Segatto) che nel frattempo hanno scontato la pena cui sono stati condannati e sono tornati in servizio: «È un provvedimento eccessivo, mi sembra un accanimento» spiega Stefano Parziale segretario del Silp di Ferrara ricordando i mezzi che hanno a disposizione i colleghi per potersi difendere «con uno stipendio che non arriva a 1500 euro al mese». «Che vengano ora a chiedere il risarcimento ai colleghi lascia alquanto perplessi » spiega Stefano Paoloni, presidente del Sap: «È questo il trattamento che il nostro paese riserva agli operatori di polizia ci lascia sbalorditi, prima decide un risarcimento in modo autonomo (lo fece il ministero degli Interni dopo il processo di primo grado, risarcendo la famiglia, senza consultare i legali degli agenti sotto processo, ndr) e poi ne chiede conto ai propri operatori: ricordo ciò che ripetiamo da tempo, che in questa vicenda le vittime sono sempre state 5, Federico Aldrovandi e i 4 colleghi. Questo provvedimento è la conferma: ovviamente abbiamo fiducia nell'esito del giudizio della Corte dei conti che valuterà il caso con attenzione e ci auguriamo non ritenga di adottare conseguenze patrimoniali ai colleghi che debbono rispondere di reati di natura colposa al di fuori della propria volontà».

l’Unità 3.7.14
La follia degli Opg Un doc dà voce a Luigi, «il matto»
Ieri su Rai3 il film di Francesco Cordio, atto d’accusa della condizione disumana nei manicomi giudiziari
di Anita Eusebi


«MA DOVE MI STANNO PORTANDO ADESSO, IN MANICOMIO? I MANICOMI SONO CHIUSI, IO SAPEVO». Luigi Rigoni ha vissuto sulla propria pelle l’inferno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la sua testimonianza è il filo conduttore di Lo Stato della follia, il film documentario del regista Francesco Cordio che denuncia l’orrore degli Opg, integrando la narrazione di Rigoni con i filmati realizzati dallo stesso Cordio durante i sopralluoghi effettuati a sorpresa negli Opg nel 2010 dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, presieduta da Ignazio Marino.
Lo Stato della follia, passato in tv ieri sera a Doc3, il contenitore per documentari della terza rete Rai, è un pugno in faccia a chi calpesta i più elementari diritti, costituzionalmente garantiti, di ogni essere umano. Uno spietato atto di accusa, una richiesta di verità e giustizia. Ed è una carezza di rispetto, alla dignità di vite dimenticate negli Opg, agli sguardi spenti dall’abuso di psicofarmaci, da celle di isolamento e letti di contenzione. «L’impatto è stato devastante - afferma Cordio - tornare a casa da quei luoghi è stato un incubo, carico di urla, strazi, odori, sofferenze, occhi e mani che non si scollavano di dosso. Ogni volta uscire era insieme un sollievo e una condanna: il pensiero impotente di lasciare quelle persone alla loro non-vita». «Ciò che vedemmo destò in noi sconcerto, turbamento e profonda indignazione», dichiara Marino. «Il film di Cordio è un lavoro importante perché rompe il velo del silenzio e dà voce a persone dimenticate da tutti. E lo fa da testimone di una storia».
Le immagini sono crude, la realtà lo è ancora di più. Immagini che lasciano addosso un senso terribile di rabbia e impotenza, di vergogna e dolore, per lo stato di massimo degrado da un lato, il senso profondo e drammatico di abbandono, desolazione e umanità dall’altro. «Signori del Senato apritemi la porta vi devo parlare, mi trattano male, tutti devono sapere la verità su cosa succede qua dentro», grida qualcuno reclamando l’attenzione della telecamera, mentre gli agenti di sicurezza corrono svelti a chiudere le celle, a zittire, ad allontanare. C’è chi invoca il padre perché lo venga a salvare, «sto a mori’ qua dentro, io non so’ pericoloso - dice -. Ero un bambino normale».
Persone. Restano in Opg con il marchio «pericoloso per sé e per gli altri» - anche se non hanno mai ucciso nessuno - ma per aver preso a calci una slot machine; o per una rapina di settemila lire compiuta più di vent’anni fa, con la mano sotto la maglia a mo’ di pistola. Misure di sicurezza prorogate all’infinito che rispondono a perizie psichiatriche che neanche si trovano più. E accanto alla presunta pericolosità, l’incapacità di intendere e volere, «una concezione che dopo Freud è stata superata dalla scienza», afferma lo psichiatra Vittorino Andreoli. Forse. Comunque non certo dal Codice Penale. E la responsabilità di eventuali crimini va tutta alla malattia, come se la persona non esistesse nemmeno. «Ma Van Gogh quando dipingeva era lui a dipingere, o la sua follia? E Proust, Saba, Pavese, Dick, Campana, erano loro a scrivere o la loro depressione, la loro schizofrenia?». Queste le parole sullo sfondo della voce narrante di Rigoni.
In Opg c’è chi resiste vent’anni, chi tre giorni. C’è chi sopravvive all’inferno, e chi si arrende. «Nel caso passassero settimane senza che nessuno si impiccasse, veniva quasi da chiedersi come mai? - dice Rigoni - Che ogni tanto qualcuno si impicchi è il minimo che possa accadere in luoghi come questi». «Fa quasi sorridere se non ci fosse da piangere», commenta un ragazzo tra gli internati, con una lucidità, un’ironia e una rassegnazione che ferisce più delle urla in sottofondo. «L’uomo è un animale che si abitua sempre. Ma qua viene messo a dura prova», ribadisce con grande dignità. E fa male sapere che proprio lui di lì a poco si è tolto la vita. Il film Lo Stato della follia, trasmesso ieri sera, è stato dedicato a lui, «a tutti quelli che messi a dura prova non sono riusciti ad abituarsi ». Ospedale Psichiatrico Giudiziario, un’accozzaglia di tre parole, un eufemismo d’origine lombrosiana, laddove di luogo di cura non v’è traccia, né c’è nulla di psichiatrico se non la follia di continuare a mantenere ancora in piedi istituti di questo tipo, «luoghi orrendi, istituzioni che vorrebbero curare la malattia e contenere la pericolosità, ma che come tutte le istituzioni totali la malattia la riproducono, perché invece di essere posti di cura sono fabbriche di malattia».

l’Unità 3.7.14
Verdi eroe del 1849
Oggi il Campidoglio ricorda la Repubblica Romana a 165 anni dalla fondazione
Parleranno Vittorio Emiliani, di cui pubblichiamo l’intervento, e Giuseppe Monsagrati
Letture di Massimo Wertmüller
di  Vittorio Emiliani


Oggi alle 10 nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio si ricorda il 165° anniversario della Repubblica Roma del 1849, conclusa con la votazione della Costituzione all’epoca più avanzata d’Europa. La manifestazione, organizzata ogni anno dall’Associazione Amilcare Cipriani, sarà aperta dal suo presidente Enrico Luciani. Seguiranno la relazione dello storico Giuseppe Monsagrati La memoria della Repubblica Romana e della sua Costituzione e la comunicazione di Vittorio Emiliani. Anche Giuseppe Verdi a Roma nel 1849 (di cui riproduciamo il testo). L’attore Massimo Wertmüller leggerà testi dell’epoca.
LA SECONDA REPUBBLICA ROMANA, QUELLA DEL 1849- LA PRIMA,  GIACOBINA, ERA STATA FONDATA ALL’ARRIVO DEI FRANCESI NEL 1797- comincia a nascere, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta, col voto a suffragio universale maschile per l’Assemblea Costituente indetto nello Stato Pontificio alla fine di gennaio del 1849. Per la prima volta esponenti delle comunità israelitiche votano e vengono votati: tre (Giuseppe Revere, Abramo Pesaro e Salvatore Anau) risultano eletti alla Costituente e altri due (Samuele Alatri e Settimio Piperno) nel Consiglio comunale di Roma. In quei giorni nel centralissimo Teatro Argentina la si prepara «prima» assoluta di un’opera nuova e attesissima di Giuseppe Verdi, all’epoca trentaseienne: La battaglia di Legnano, su libretto di Salvatore Cammarano. In cui si esalta l’epica vittoria della Lega dei Comuni e del Pontefice sul Barbarossa. Il coro iniziale dice già tutto sullo spirito del melodramma:
«Viva Italia! un sacro patto/ Tutti stringe i figli suoi/ Esso al fin di tanti ha fatto/ Un sol popolo d’eroi! Viva Italia forte ed una/ Colla spada e col pensier!/ Questo suol che a noi fu cuna,/ Tomba sia dello stranier!»
L’aspettativa è enorme in quella Roma di nemmeno 200 mila abitanti, dove stanno confluendo patrioti da tutta Italia. Alla prova generale centinaia di persone con coccarde e bandiere tricolori hanno invaso platea e palchi. Un delirio. Alla «prima» del 27 gennaio - dove svetta il giovane tenore pavese Gaetano Fraschini - si deve replicare per intero il quarto atto. Giuseppe Verdi risponde ad almeno venti entusiastiche chiamate alla ribalta. «All’indomani», si legge su di un foglio romano, «non si trovava più né un palco né un biglietto né un libretto dell’opera. Tutto venduto».
Si può ben dire che la Repubblica Romana del ’49 si apra sulle note di Giuseppe Verdi. Un appassionante racconto che sarebbe stato bello vedere sviluppato da un regista come Gigi Magni che - vogliamo ricordarlo qui - inaugurò queste manifestazioni volute con benemerita ostinazione da Enrico Luciani, su al Gianicolo, davanti ad una vera folla. Folla che poi ha sempre accompagnato le rievocazioni del 1849 romano, drammatico e glorioso, sostenendo l’istanza di rispettare di più il Mausoleo del Gianicolo dove sono ricordati i 400 caduti, per lo più giovani e ragazzi, e di restituire a Verdi e al suo forte spirito risorgimentale, unitario, il coro Va’ pensiero assurdamente piegato dalla Lega Nord a inno secessionista. Proprio quel Verdi che, dopo le prime recite della Battaglia di Legnano, ha lasciato Roma «con dolore, ma spero presto di ritornarci». Lo scrive da Napoli borbonica dove prepara Luisa Miller. La città gli appare «un paradiso per la vista, un inferno per il cuore!»
Da lì assiste impotente e desolato alla caduta delle due Repubbliche, a Roma e a Venezia. In parte lo conforta la notizia secondo cui «i Francesi fanno del loro meglio per accattivarsi i Romani, ma finora questi sono dignitosissimi e fieri», tanto da non partecipare alle feste e alle parate francesi. Essi tengono dunque, annota Verdi, un «contegno lodevolissimo». E’ ancora il Verdi repubblicano, mazziniano del 1848-49 (che molto sarebbe piaciuto al nostro Gigi Magni). In una lettera al librettista Francesco Maria Piave, arruolatosi poi nella Guardia Nazionale, ha scritto con grande ottimismo: «L’ora è suonata della sua liberazione. È il popolo che la vuole (…), ancora pochi anni e l’Italia sarà libera, una e repubblicana!». All’Italia unita si giunse nel 1861, a Roma capitale nel 1870. Ma ci volle quasi un secolo perché si arrivasse all’Italia repubblicana.
Nel 1849, sul Gianicolo, a Porta San Pancrazio, combatterono a difesa della Repubblica Romana tanti giovani e giovanissimi venuti dall’Emilia-Romagna, dalla Lombardia, dal Veneto, dal Lazio e, a Roma, soprattutto da Trastevere. Fra loro un apprendista maiolicaro, un ceramista, il diciottenne Antonio Cotogni che, scampato alla battaglia, doveva successivamente diventare uno dei grandi baritoni dell’800, prediletto da Giuseppe Verdi e acclamato in tutto il mondo. Cotogni, in seguito, insegnò per anni, per decenni canto a Santa Cecilia e avendo fra gli allievi alcuni fra i più grandi del ’900. Da De Luca, a Lauri Volpi, a Stracciari, a Galeffi, a Titta Ruffo. Quest’ultimo, baritono fra i più grandi e apprezzati del ‘900, cognato di Giacomo Matteotti che ne aveva sposato la sorella Velia Titta, dopo il 1924 non vorrà più cantare nell’Italia di Mussolini. Espatria, ma nel 1937, durante un breve rientro dagli Stati Uniti, viene arrestato e incarcerato. Liberato per le proteste di mezzo mondo, gli sequestrano il passaporto. Sarà tenuto come segregato, in volontario silenzio, per cinque anni, fino al 1943, nella casa di Firenze. Qui il 26 luglio ’43, alla notizia dell’arresto di Mussolini, il grande Titta Ruffo, dal suo balcone sul Lungarno, intonerà per la folla che lo reclama la Marsigliese. Altre belle, epiche storie - queste di Antonio Cotogni e di Titta Ruffo - che aspettano un narratore, cinematografico o televisivo, un altro Gigi Magni, ma che intanto noi qui abbiamo voluto ricordare con intatta passione.

Repubblica 3.7.14
L’eterno trasformismo italiano
di Massimo L. Salvadori


PER un membro delle Camere essere accusato di trasformismo equivale ad una condanna oltre che politica anche morale. Il trasformista è un voltagabbana, un inquinatore della moralità pubblica e privata, un portatore di germi. Nella nostra storia politica e culturale, a bollare il trasformismo come una malattia che corrode le fibre del paese, è stata una folta schiera di autorevoli scrittori. Valgano per tutti i nomi di Salvemini, Dorso, Gobetti, a cui è da aggiungere quello di Denis Mack Smith, che nella sua Storia d’Italia ha letto pressoché interamente la politica italiana dal Risorgimento in poi alla luce della mala pianta del trasformismo ovvero della tendenza di gruppi e di singoli a cambiare casacca abbandonando la sponda dell’opposizione per passare a quella del governo. Nel caso migliore il trasformista è uno che cambia opinione e intende concorrere ad una linea ritenuta più idonea; nel peggiore un opportunista che si aspetta di essere ripagato ottenendo vantaggi personali in termini di influenza e potere; nel più deteriore una persona che si fa comprare in cambio di moneta sonante. Sugli ultimi due casi che attengono a forme di corruzione pura e semplice, ancorché diverse tra loro e nonostante la loro importanza, non intendo soffermarmi. Non c’è molto da dire. Conviene invece riflettere sul primo di essi, che, per distinguerlo dalle altre forme, possiamo definire “politico”.
Questo ha avuto le sue radici nel “connubio” di cui fu artefice Cavour nel 1852, quando - per mettere ai margini nel Parlamento subalpino da un lato la destra reazionaria e clericale, dall’altro la sinistra democratica e repubblicana - invitò le forze a convergere sul centro di cui era il leader. Ma a fare entrare nel lessico politico il termine “trasformismo” fu Depretis, che, capo del governo dal 1876, nel famoso discorso tenuto a Stradella nel 1882 sostenne che la distinzione tra la Destra e la Sinistra del partito liberale aveva perso di significato e pertanto invitò in particolare i membri della prima a raggiungere i banchi della seconda trasformandosi in progressisti. Da allora in avanti, l’Italia ha assistito ad un susseguirsi di ondate di trasformismo.
Il fenomeno è andato manifestandosi tanto nei lunghi periodi di monopolio o oligopolio di potere esercitato da un partito o da un’alleanza di partiti in assenza della possi-bilità di alternative di governo, vale a dire nei sistemi politici bloccati, quanto durante le fasi di riassestamento provocate dalla caduta o dalla forte erosione di un sistema precedentemente consolidato. Il trasformismo politico si afferma (intrecciandosi all’opportunismo personale, ma non sempre) in due situazioni: allorché individui e gruppi già di opposizione, sentendosi privati di prospettive raggiungono i luoghi del potere (ad esempio, Crispi e i suoi da democratici mazziniani diventarono zelanti monarchici conservatori; Nenni e i suoi da alleati dei comunisti passarono all’alleanza con i democristiani); oppure quando, in presenza di un intero sistema che frana, vecchi partiti e raggruppamenti fattisi obsoleti e svuotatisi si ricollocano intorno ad un nuovo centro aggregatore (liberali, popolari e altri ancora raggiunsero il carro di Mussolini nella fase conclusiva del primo dopoguerra; ex democristiani, ex socialisti craxiani, ex liberali, ex repubblicani, neofascisti e leghisti nel crollo della Prima repubblica aderirono al rassemblement di cui si fece artefice Berlusconi). Alla luce di queste considerazioni, si può comprendere come il trasformismo costituisca una costante assai significativa della storia d’Italia, che, per quanto la si carichi di connotazioni negative, ne rispecchia comunque caratteristiche ad essa organiche.
Oggi ci troviamo ancora una volta in una crisi di sistema, che, solo in parte alle nostre spalle, ha determinato e determina nuovi rapporti di forza e nuovi equilibri; e in questo contesto si è tornati e si torna a parlare di trasformismo. Dopo che è stato mutilato il partito di Berlusconi con il sorgere del Nuovo centro destra entrato al governo, e si è disfatta Scelta civica, ora va scindendosi Sinistra e libertà. Dal canto suo anche Grillo ha i suoi trasformisti. La clamorosa vittoria di Renzi alle elezioni europee ha accelerato la spinta ai mutamenti di posizione, come mostrato dai vari esponenti di Sc e Sel che vanno orientandosi verso il Pd direttamente o in ogni caso la sua area parlamentare. E, come sempre, si levano grida di indignazione. Fatto è che la sostanza che muove chi “si trasforma” rimane quella: il maturare e l’affermarsi di nuovi equilibri. Patologia o fisiologia della nostra politica? Non basta il moralismo a dare la risposta: a fare venire meno il trasformismo può essere unicamente un mutamento qualitativo delle basi stesse dei processi politici e dei meccanismi istituzionali.

Corriere 3.7.14
Verso una «Medicina narrativa» che aiuti il cammino del paziente
di Mario Pappagallo


Se nel compilare la cartella clinica di un paziente si prendesse nota anche della sua vita privata, emozioni e delusioni, amori, preoccupazioni, letture e film preferiti, si creerebbe quell’empatia necessaria a rendere più efficaci le cure (e ridurre anche tempi di guarigione e degenza). La vera alleanza terapeutica sarebbe compiuta e la fiducia medico paziente tornerebbe a prevalere. Il malato torna a essere persona, e non numero o malattia. Il medico torna amico e non «estraneo».
È la filosofia di base della sempre più emergente Medicina narrativa, o Narrative based medicine (Nbm ). La sua prima comparsa in letteratura scientifica con questa denominazione risale alla fine degli anni 90 in una raccolta di articoli pubblicati sul British Medical Journal . Le sue radici vanno cercate negli Stati Uniti e, in particolare, nel terreno fertile della Harvard medical school , dove questa disciplina è nata grazie all’opera di due psichiatri e antropologi, Arthur Kleinman (1980) e Byron Good (1999), subito divenuti punti di riferimento irrinunciabili per chiunque si interessi alla narrazione in ambito medico. Oggi è questa la nouvelle vague della sanità. Ai congressi si mettono in scena performance con malati e medici, sul web fioccano siti e blog che raccolgono storie di pazienti e confronti con medici. Per esempio, sul diabete (il tuo diabete.it) o sull’asma allergico grave (Ispirami). In scena va sia la capacità del
medico di comprendere le storie dei pazienti, sia la capacità e la volontà del paziente a raccontare la propria storia. Le testimonianze, poi, se correttamente raccolte, interpretate e analizzate attraverso apposite tecniche e metodologie, possono contribuire a migliorare i percorsi di assistenza e cura.
Ma le prime visite devono durare tempo, creare feeling , essere un rito di ascolto reciproco. E c’è anche un made in Italy : Rosalba Panzieri, psicologa e scrittrice, ha creato «Letteratura e teatro in corsia», laboratorio mirato a migliorare le terapie anche con l’arte.

La Stampa 3.7.14
Glezos, l’ex partigiano greco che torna a combattere in Europa
“Nell’Ue non ci sono nazisti, ma il capitale e i governi autoritari”
di Marco Bresolin


Sulle enciclopedie greche, alla voce Resistenza spunta la sua immagine. Baffoni bianchi illuminati da due occhi azzurro-verdi, una schiena che di anno in anno si fa sempre più curva. Perché lì sopra c’è il peso di una storia, quella di Manolis Glezos. Perché lì sopra c’è il peso della Storia, quella europea del Novecento.
Novantadue anni a settembre, di cui dodici passati in carcere. E’ sopravvissuto a un ergastolo, a due condanne a morte e a un’infinita serie di torture. Ha combattuto per difendere la sua Grecia durante la seconda guerra mondiale e contro il regime dei colonnelli. Era un partigiano. Oggi è a Strasburgo perché vuole cambiare l’Europa da deputato. «Se non ci provi, non ci riesci» sorride prendendoci sottobraccio come un vecchio zio che ha tante cose da raccontare. Come quella volta che nel 1941, a 18 anni, salì sull’Acropoli per togliere la bandiera nazista e sostituirla con quella greca. I tedeschi prima lo condannarono in contumacia, poi riuscirono ad arrestarlo. Ma lui per un pelo sfuggì al plotone d’esecuzione. Una storia che si ripeterà nel corso degli anni.
Se Alexis Tsipras è la copertina di Syriza, Glezos è senza dubbio uno dei capitoli più importanti del partito della sinistra greca. Comunista convinto, ma altrettanto europeista. «La nostra Europa è quella della democrazia e della cultura, non dell’economia e della finanza. Dobbiamo ridare la sovranità al popolo».
Oggi i nazisti non ci sono più, ma chi sono i nemici contro cui combattere qui, nei palazzi dell’Ue? Manolis punta l’indice: «Il capitale, la corruzione. E i governi autoritari. Dobbiamo opporci all’Europa della Nato, della Germania, della Gran Bretagna e della Francia». I nemici hanno un nome e confini ben precisi. L’Italia si salva, anche perché appena si parla della nostra Penisola il vecchio partigiano sgrana gli occhi. Sorride: «Mia figlia insegna l’italiano a scuola, io parlo un poco italiano». Racconta della sue tappe di quel lungo viaggio che tra domenica e lunedì l’ha portato a Strasburgo: in nave fino ad Ancona, il resto tutto in auto. Due sole soste a Parma e Zurigo. «Ho 92 anni, qualche problema al cuore. Il bypass non mi permette di prendere l’aereo». Ma di viaggiare per mille chilometri in auto, sì. Soprattutto se al fianco c’è l’inseparabile moglie (ma quella è un’altra questione di cuore).
Comunque lui a Bruxelles e Strasburgo ci andrà, eccome. «Lavorerò in due commissioni: Cultura e Agricoltura. Saranno cinque anni intensi» promette con lo sguardo che punta lontano. È diretto verso la sua battaglia più grande, che anche questa volta finisce a Berlino. «La Grecia è il Paese che ha pagato il prezzo più alto durante la seconda guerra mondiale. Ha perso il 13 per cento della sua popolazione e io centinaia di amici». Gli occhi si fanno lucidi, alza la voce: «Non è possibile che il governo tedesco si rifiuti di restituire i beni e i tesori artistici rubati in Grecia». Ma c’è dell’altro. L’occupazione tedesca aveva imposto alla Grecia un prestito forzoso, mai restituito. Con gli interessi fanno 200 miliardi di euro, o giù di lì. Glezos fa parte del comitato greco che lotta per riavere indietro quei soldi e ora porterà avanti la sua battaglia dall’interno del Parlamento Ue. Dove la bandiera tedesca, adesso, sventola con un po’ di timore.

Corriere 3.7.14
il Parlamento incapace di decidere responsabile del Caos in Iraq
di Lorenzo Cremonesi


In Iraq il fallimento della politica apre la strada al conflitto nazionale e alla destabilizzazione regionale. È difficile trovare un caso tanto evidente di incompetenza e inadeguatezza da parte della classe dirigente di un Paese le cui sorti sono legate appunto alla capacità di trovare una via di mediazione che rinnovi il patto sociale interno. Siamo di fronte ad un caso classico, quasi da laboratorio delle scienze umane: dove finisce la politica, iniziano il caos, la violenza e infine la guerra. Il tragico della situazione è che la soluzione è nota a tutti. Ma nessuno sa o vuole metterla in pratica. La chiede larga parte del Paese, la suggeriscono numerosi partner della comunità internazionale, con gli Stati Uniti in testa. Occorre trovare subito un nuovo premier al posto dello sciita Nouri al Maliki, che sia in grado di riaprire il dialogo con sunniti e curdi. Invece si perde tempo. L’urgenza dovrebbe spingere a fare in fretta, ma si procrastina, prevale la logica impotente del rinvio.
Due giorni fa la prima seduta del nuovo parlamento, così come definito dal voto dello scorso 30 aprile, si è conclusa senza un nulla di fatto tra polemiche, accuse reciproche e infine l’assenza del numero legale dei deputati per prendere alcuna decisione. La nuova seduta pare sia convocata per l’8 luglio.
Sembrerebbero accadimenti normali per qualsiasi democrazia. Il problema però sta nel fatto che questi non sono tempi normali. In Iraq e ai suoi confini settentrionali con la Siria è in corso una lacerante guerra civile. La sovranità del governo centrale nella capitale è improvvisamente ristretta a metà del Paese. Solo pochi giorni fa sembrava che i gruppi radicali legati al nuovo Califfato sunnita potessero addirittura arrivare a prendere Bagdad, dopo aver occupato Mosul e larga parte del nord-ovest iracheno. Le Nazioni Unite segnalano che a giugno sono morte quasi 2.500 persone, di cui 1.500 civili, ma ciò non comprende la provincia di Al Anbar, che sta al cuore della sommossa sunnita. Ciò significa che il numero delle vittime potrebbe essere in realtà simile a quello di 3.000 mensili che caratterizzò il periodo peggiore della guerra tra sciiti e sunniti nel 2006-7. Le violenze sono destinate a peggiorare. Tanti nello stesso campo sciita vorrebbero dunque sostituire Maliki, ma non si accordano sul nome del nuovo leader. Il loro fallimento è la tomba dell’Iraq.

Corriere 3.7.14
Ucciso ragazzo arabo, rivolta a Gerusalemme
Rapito e bruciato a 16 anni
Abu Mazen accusa i coloni
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Le granate assordanti rimbombano nella moschea. Le preghiere non si fermano come gli scontri tra arabi e poliziotti israeliani che fuori vanno avanti da ore. Da quando nel quartiere di Shuafat sono cominciate a girare le voci che il corpo trovato carbonizzato nella foresta attorno a Gerusalemme sia quello di Mohammed, che il giovane palestinese sia stato ucciso per vendetta. È quello che pensano i parenti: «È un crimine dei coloni, la rappresaglia per l’uccisione dei tre ragazzi israeliani», dice il cugino Said. È quello che ripete Abu Mazen, il presidente palestinese: «Sono stati loro, il premier Benjamin Netanyahu adesso deve dare la caccia ai responsabili». È quello che temono i politici israeliani che si affrettano a condannare ogni forma di ritorsione personale.
Gli amici avevano avvertito il padre di Mohammed all’alba: «È stato rapito, lo hanno costretto a salire su un’auto». Le telecamere sul negozio di famiglia hanno ripreso la scena, è uno degli elementi su cui lavora la polizia. Che per ora continua a mantenere aperte tutte le ipotesi: l’omicidio potrebbe avere motivazioni non politiche. «Mi hanno detto che pensano a una lite all’interno del clan, a questioni di onore — dice l’imam della moschea —. Non è possibile, l’ultima disputa tra cugini è stata due anni fa e sono stato io a mediare la riconciliazione».
Mohammed Abu Khudair aveva sedici anni. Ieri si è svegliato alle 3.30, ha consumato il piccolo pasto prima della preghiera, ha giocato al computer con il fratello, è uscito per andare in moschea. È stata l’ultima volta che la madre Suha lo ha visto. Un’auto sarebbe arrivata dalla direzione della colonia di Pisgat Zeev — dicono i testimoni — e avrebbe compiuto un’inversione per avvicinarsi al ragazzo. «Quando abbiamo capito che lo stavano portando via — ci siamo messi a urlare e abbiamo provato a inseguirli».
Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, promette di trovare i colpevoli di quello che John Kerry, segretario di Stato americano, definisce un «crimine efferato»: «Quelli che intraprendono azioni di vendetta finiscono solo per destabilizzare una situazione già esplosiva». Al tramonto le sirene sono suonate nel sud di Israele: la fine della giornata di digiuno per il mese di Ramadan è coincisa con i lanci di razzi dalla Striscia di Gaza.
Il palo del cartello stradale usato come clava non basta a distruggere quel che resta della pensilina. Qui passa il treno leggero che attraversa Gerusalemme. Adesso sono solo fiamme e la nebbia dei gas lacrimogeni. I palestinesi sospettano che qualunque straniero o faccia sconosciuta possa essere un agente israeliano. Minacciano, fermano, perquisiscono. Gli scontri sono andati avanti fino alla notte, i feriti sono almeno settanta, l’asfalto coperto dalle pietre lanciate sembra bianco.
La casa di Mohammed sta in mezzo alla violenza. La madre nomina tutti i suoi figli, sette, uno dopo l’altro fino a quello che non tornerà. La polizia ha portato lei e il marito Hussein nella caserma in centro, ha prelevato la saliva per i test del Dna. Per riavere il corpo devono aspettare l’autopsia, i funerali sono previsti per oggi.
«I palestinesi non hanno bisogno di aspettare i risultati del medico legale — scrive Amos Harel sul quotidiano Haaretz —. A differenza degli investigatori non hanno dubbi su chi e perché abbia commesso l’omicidio». Martedì sera, dopo i funerali dei tre ragazzi israeliani uccisi in Cisgiordania, gruppi di estremisti ebrei hanno marciato per le strade di Gerusalemme gridando slogan razzisti e attaccando chi sembrava arabo.

Corriere 3.7.14
Incapaci di Mostrare Dolore se Muoiono i Figli degli Altri
Hlehel, arabo israeliano: le colpe dell’occupazione
di Ala Hlehel


Benjamin Netanyahu dopo il ritrovamento dei tre ragazzi uccisi ha detto: «Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un bambino». I genitori di Hussein Abu Khdeir, il ragazzo palestinese di 16 anni presumibilmente rapito da estremisti ebrei nel quartiere Shu’afat di Gerusalemme Est e il cui corpo è stato ritrovato bruciato nella foresta Dir Yassin, potrebbero dire la stessa cosa. Unità dei popoli.
Questo conflitto ha mietuto un’infinità di vittime fra i bambini, in particolare fra bambini palestinesi. Durante l’operazione Piombo Fuso, a Gaza, centinaia di bambini e neonati morirono colpiti dalle bombe lanciate dall’aviazione israeliana. Ma quelle morti non fecero breccia nel cuore degli israeliani. Molti di loro applaudirono e chiesero di «radere al suolo la Striscia di Gaza». Questa espressione, «radere al suolo», è diventata di prassi in sanguinosi periodi di crisi. Significa distruggere qualunque cosa: case, ospedali, scuole, edifici governativi, parchi, strade. Che i palestinesi spariscano e ci lascino in pace… Il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi indicano alla maggior parte degli israeliani che la pretesa di «radere al suolo» è la via giusta. Anche quando la parlamentare Hanin Zoabi, in un’intervista a un giornale, cerca di inserire il rapimento in un contesto più ampio, lei stessa diventa vittima della pretesa di «radere al suolo», di «annientare».
L’ex primo ministro Barak una volta ha detto che se fosse stato palestinese si sarebbe unito a Hamas. Molti ex capi dei servizi di sicurezza israeliani esortano a un dialogo diretto con Hamas ma, per l’appunto, sono «ex», che cosa capiscono degli arabi? Fin dal primo momento in cui ha avuto notizia del rapimento, Netanyahu ha cominciato a sfruttare la tragedia: nella sua prima dichiarazione già additava Hamas come obiettivo da «annientare» e definiva il governo di unità palestinese «Satana».
La cosa più preoccupante nella situazione caotica in cui ci troviamo è il disconoscimento dell’umanità dai palestinesi. I barbari che ieri notte a Gerusalemme cercavano arabi da picchiare e umiliare seguono la strada segnata dai ministri Bennett e Lieberman. Come arabo, palestinese e cittadino israeliano seguo il deterioramento del dialogo politico in Israele e ho paura. Una paura che nasce da un razzismo istituzionale e pubblico sempre più radicato. Ho paura per il futuro dei miei figli e temo vari orribili scenari. Il conflitto non è più uno scontro politico in cui esistono prese di posizioni diverse. L’opinione pubblica sionista non tollera più la solidarietà con le vittime «dell’altra parte» ma pretende che l’identificazione e la solidarietà siano solo ed esclusivamente con «le nostre vittime». Sono sicuro che la stragrande maggioranza del popolo palestinese non abbia gioito per l’uccisione di tre ragazzi, sebbene non sia neppure in lutto.
Negli ultimi tempi noto un atteggiamento di crescente apatia maturato all’ombra della cattiveria che sta prendendo il sopravvento sul Paese. Un’apatia che entrambe le parti mostrano verso il dolore dell’altra. Eppure, per quanto mi riguarda, non c’è simmetria né somiglianze tra le due. È la parte forte, per definizione, a dettare i toni, l’azione e il dialogo. Israele potrebbe compiere una rivoluzione in questo senso. Se rinunciasse a uccidere, a espropriare terre, a compiere raid in migliaia di case, la tragedia umana delle madri dei tre ragazzi potrebbe suscitare l’empatia dei palestinesi.
Ma come può un popolo calpestato e umiliato provare un sentimento simile? Sarebbe assurdo. E l’aspettativa dei leader della destra al governo della nazione che i palestinesi mostrino empatia e pietà è insensata e ipocrita. La solidarietà non è un valore assoluto e indiscusso. La solidarietà implica un comportamento e un approccio umano da parte di tutti. Gli israeliani condannano ogni atto di violenza dei palestinesi mirato a ottenere la libertà ma esaltano le azioni terroristiche del Lehi e dell’Irgun (due gruppi terroristi sionisti n.d.t) durante il mandato britannico. Questo è sdoppiamento della personalità. Il sentimento della pietà deve essere comune a entrambe le parti ma esser presente soprattutto nel più forte. Se il più forte rifiuta di mostrarsi compassionevole non si sorprenda allora che l’altra parte faccia altrettanto.
Uno dei più grandi successi di Israele è la creazione di una realtà sdoppiata fino all’assurdo: da un lato l’esistenza di un Paese con meccanismi democratici all’interno della Linea Verde, dall’altro la presenza di un’aggressiva forza di occupazione al di là di quella linea. Gli ebrei in Israele non pagano ormai più alcun prezzo per l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza e non c’è ragione che questa situazione li preoccupi. Territori occupati? Non fate ridere gli spettatori di Channel 2. L’illusione di normalità soffoca ogni tentativo di risvegliare la coscienza pubblica israeliana circa le ingiustizie dell’occupazione e così le organizzazioni per i diritti umani e i pochi membri della Knesset (per lo più arabi) che ancora insistono a parlare dell’occupazione sono diventati una sorta di strane e noiose creature che non permettono al pubblico di godere dei piaceri della bella vita israeliana.
Nonostante le divergenze politiche e l’intorpidimento dei sensi che incombe su tutti noi, le immagini dei ragazzi rapiti e uccisi non ci abbandonano. Come padre di due bambini provo rabbia, ansia e un grande senso di tristezza al solo pensiero che qualcuno si azzardi a fare una cosa del genere a mio figlio: sentimenti universali e comuni a tutti i genitori di tutto il mondo. Il vero aspetto triste della nostra realtà è l’incapacità di separare questo sentimento dalla realtà politica. E di questo do la colpa a Israele e all’occupazione.

Corriere 3.7.14
Quegli appelli alla vendetta, Israele teme i killer in casa
di D.F.


GERUSALEMME — Gli estremisti che su Facebook invocano la vendetta a nome di Israele. L’altra Israele che marcia verso la residenza del premier Benjamin Netanyahu per protestare contro l’odio razzista e gridare come una preghiera le parole di Gandhi: «Occhio per occhio rende il mondo cieco». I genitori di Naftali Frenkel, ucciso dai rapitori palestinesi, che ripetono «non c’è differenza tra il sangue di un ragazzo ebreo e quello di un arabo. Un assassinio è un assassinio, non esiste giustificazione, non esiste perdono». Le squadracce che in nome di loro figlio per le strade di Gerusalemme attaccano i palestinesi (o chi a loro sembra tale dopo aver chiesto l’ora e valutato l’accento). Il rabbino Noam Perel, segretario generale del movimento giovanile religioso Bnei Akiva: «L’esercito israeliano deve trasformarsi in un esercito di vendicatori che non si fermeranno fino a quando avranno accumulato trecento scalpi». Il rabbino Benny Lau: «Un giovane palestinese si svegliava ogni mattina per andare a pregare e non potrà più. Deve entrare nelle nostre preghiere». Netanyahu sa che trovare — e in fretta — chi abbia ucciso Mohammed Abu Khudair è l’unica risposta ai critici che adesso gli rinfacciano le parole pronunciate ai funerali dei tre ragazzi israeliani sequestrati e ammazzati: «Un baratro morale ci separa dai nostri nemici. Loro celebrano la morte, noi la vita. Loro inneggiano alla crudeltà, noi alla pietà. Questa è la base della nostra forza». Così il primo ministro lancia un appello «perché nessuno prenda la legge nelle proprie mani» (e qui pensa anche agli ultrà delle colonie), invoca un’indagine rapida ma avverte: «Le motivazioni dell’omicidio non sono ancora chiare». Lo Shin Bet segue e prova a infiltrare da anni i gruppi più radicali della destra israeliana. Pochi giorni prima della visita di papa Francesco alla fine di maggio sul muro di un centro religioso a Gerusalemme erano apparse scritte anticristiane e i servizi segreti interni temevano che gli oltranzisti ebrei stessero pianificando un attacco da far coincidere con la presenza del Pontefice. Allora il romanziere Amos Oz aveva definito gli estremisti cresciuti negli avamposti in Cisgiordania «neonazisti». Le manifestazioni razziste dell’altro ieri hanno spinto lo scrittore Ayman Sikseck, arabo israeliano che vive a Jaffa, a ricordare che la madre è stata assalita in un supermercato della città a maggioranza araba (fa parte del Comune di Tel Aviv): «Sono le conseguenze dell’incitamento verbale. Prima l’abuso arriva a parole, poi cominci a capire che in certi posti è meglio non andare». Hody Nemes — sulla rivista Forward , dedicata alla cultura ebraica — ripete che la Torah (a differenza di codici mediorientali come quello di Hammurabi) proibisce la vendetta: «Se un terrorista colpisce le famiglie israeliane, deve essere punito per il suo crimine. Ma lasciate in pace la sua famiglia e i palestinesi innocenti ».

l’Unità 3.7.14
Rapito e ucciso ragazzo palestinese
Abu Mazen: Israele è responsabile dell’omicidio
La famiglia di uno dei tre seminaristi: «È un atto orribile»
Netanyahu annuncia un’inchiesta


Il rischio si è materializzato poche ore dopo il funerale dei tre adolescenti israeliani. Il rischio di un conflitto che degenera in faida, dove a prevalere è la logica, devastante, della vendetta. Un giovane palestinese di 16 anni, Muhammad Husein Abu Khodair, è stato sequestrato e ucciso e il Suo cadavere è stato rinvenuto in un bosco a Gerusalemme, un’ora più tardi. Gli investigatori sono ancora cauti, ma tutto lascia pensare che si tratti di una rappresaglia di ebrei ultraortodossi, come dimostrano anche le aggressioni e gli scontri di cui arriva notizia da Gerusalemme e da altre zone di Israele. Il giovane è stato bloccato all’alba nei pressi di una moschea nell’area di Beit Hanina, a Gerusalemme Est, ed è stato costretto a salire su un’automobile di colore nero. Dura la condanna del premier israeliano, Benyamin Netanyahu, che ha definito il rapimento e l’uccisione del ragazzo palestinese a Gerusalemme «un crimine abominevole». Netanyahu - che ha incontrato a Gerusalemme il ministro della pubblica sicurezza Yitzhak Aharonovich - ha chiesto «un’immediata inchiesta sull’uccisione del giovane palestinese e sulle circostanze intorno alla morte». «Israele - ha aggiunto - è un Paese di legge e ognuno è obbligato ad agire in accordo con la legge stessa». Aharonovich ha detto di «temere un sospetto rapimento, sappiamo sul ragazzo che è stato probabilmente rapito e pensiamo anche che ci sia una connessione con il corpo (ritrovato). Queste cose sono ora sotto inchiesta». «Se un giovane arabo è stato ucciso per motivi nazionalistici è un atto orrendo e orribile», ha dichiarato la famiglia di Natali Frankael, uno dei tre seminaristi uccisi.
SPIRALE DI SANGUE Il presidente palestinese Mahmoud Abbas( Abu Mazen)aveva chiesto a Israele di condannare l’episodio, mentre il governo dell’Anp attraverso il suo portavoce, Ihab Basseso, ha chiesto alla comunità internazionale di agire attraverso «istituzioni legali e umanitarie per proteggere dalla continua escalation di violenza da parte di Israele». La richiesta di Abu Mazen ricalca quella avanzata da Netanyahu durante il rapimento dei tre ragazzi israeliani. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese ha anche chiesto a Israele di «prendere delle misure concrete sul campo per arrestare gli attacchi di coloni e il caos che deriva da queste aggressioni». L’Anp ritiene Israele responsabile dell’uccisione del ragazzo palestinese, ha fatto sapere Nabil Abu Rudeineh, portavoce del presidente palestinese, aggiungendo che Israele deve «trovare gli assassini e portarli davanti alla giustizia». Da Gaza, interviene Hamas. «La nostra gente non rimarrà inerme davanti a questo crimine così come a tutti gli omicidi e alla distruzioni commesse da parte dei vostri coloni e voi pagherete il prezzo di questi crimini», ha ammonito l’organizzazione estremista rivolgendosi alle autorità israeliane ritenute «responsabili» della morte del palestinese. ln serata, la Casa Bianca ha condannato l’«uccisione atroce» dell’adolescente palestinese. L’amministrazione Obama invita a «fare passi per prevenire un'atmosfera di vendetta».
TENSIONEALTISSIMA Quando si è diffusa la notizia della morte delragazzino,200giovani palestinesi si sono scontrati con la polizia, lanciando pietre. Gli agenti hanno risposto con granate stordenti e proiettili di gomma. La situazione in città resta molto tesa: l’altro ieri dopo i funerali dei tre giovani israeliani uccisi in Cisgiordania, circa 200 israeliani si sono riversati in strada bloccando il traffico automobilistico e alcuni treni leggeri al grido «a mortegli arabi». La polizia ha riferito che 47 persone sono state arrestate. Quattro adolescenti israeliani sono stati fermati l’altra a notte a Gerusalemme per aver aggredito due palestinesi in centro. Salgono a tre così i palestinesi uccisi nel giro di 24 ore, dopo il ritrovamento dei ragazzi israeliani ammazzati e dilaniati. Nel corso di un raid in un campo profughi a Jenin, nel nord della Cisgiordania, le truppe israeliane hanno ucciso martedì pomeriggio un adolescente palestinese, Yusuf Abu Zagher, 20 anni. Secondo i militari aveva scagliato contro di loro un ordigno. Fonti palestinesi sostengono che l’incidente sia estraneo alle operazioni lanciate da Israele nella parte meridionale del territorio dopo l’uccisione dei tre giovani coloni. Secondo fonti locali, i cacciabombardieri israeliani hanno attaccato obiettivi militari del gruppo estremista palestinese Jihad Islamica e del movimento islamico Hamas, a cui Israele attribuisce il sequestro e l’assassinio dei tre giovani. Un altro palestinese è morto per ferite d’arma da fuoco a Hebron, non lontano da dove sono stati trovati i corpi dei tre seminaristi delle scuole rabbiniche. Un giovane ebreo a volto coperto è stato bloccato dagli agenti mentre cercava di aggredire un dipendente di un fast food americano nell’area pedonale di Gerusalemme. Altri tre ragazzini sono stati arrestati durante un tentativo di aggressione al dipendente palestinese di un negozio. La faida non è più un rischio. È una tragica certezza.

il Fatto 3.7.14
Polveriera Medio Oriente comanda la legge del taglione
Dopo l’omicidio di trre giovani israeliani, ieri la stessa sorte è toccata a un palestinese
Sospetti sui coloni, mentre a Gerusalemme esplode la rabbia delle due fazioni

di Giampiero Gramaglia

Primitiva, barbara, disumana, scatta a Gerusalemme la legge del taglione. Un giovane palestinese è stato sequestrato e ucciso, ieri, all’alba, con un atto di apparente rappresaglia, dopo il rapimento e l’assassinio nei giorni scorsi di tre giovani israeliani, studenti di una scuola rabbinica. Il governo israeliano è impegnato a individuare e punire i colpevoli del triplice omicidio, di cui attribuisce la responsabilità ad Hamas. E il presidente palestinese Abu Mazen intima a Israele d’identificare e perseguire gli autori del crimine di Gerusalemme.
Mohammad Abu Khdeir, 16 anni, è stato sequestrato di prima mattina nel quartiere di Beit Hanina, nella zona est. Qualche ora dopo, il suo corpo, su cui erano evidenti “tracce di violenza”, è stato ritrovato nella zona ovest. Il ragazzo era uscito di casa per andare a bere e recarsi poi alla moschea, per la prima preghiera. Testimoni riferiscono di averlo visto spinto a forza su un’auto nera, la stessa - pare - che era stata segnalata lunedì sera, quando il suo autista aveva cercato di rapire un bimbo palestinese di 7 anni.
MENTRE c’è chi pensa a farsi giustizia da solo, l’esercito israeliano continua a cercare i sequestratori e assassini dei tre adolescenti israeliani, rapiti il 12 giugno nei pressi di Hebron e ritrovati cadaveri, nella stessa zona, lunedì scorso . Nella notte tra martedì e mercoledì, i militari hanno arrestato oltre 40 palestinesi e hanno distrutto la casa di un elemento di Hamas accusato di essere implicato nell’omicidio di un poliziotto israeliano il 14 aprile in Cisgiordania. È stata la seconda notte consecutiva in cui l’esercito israeliano ha demolito case di palestinesi, come non accadeva più dal 2007. Invece, non si ha più notizia di raid aerei e bombardamenti sulla Striscia di Gaza.
Per i media israeliani e palestinesi, non c’è dubbio che il sequestro e l’assassinio di Gerusalemme siano stati un atto di rappresaglia. E c’è il rischio di una catena di violenze e ritorsioni, nel clima già tesissimo di questi giorni, mentre nei Territori è forte l’eco della Guerra Santa delle milizie jihadiste tra Siria e Iraq.
Violenti scontri ci sono stati nel quartiere di Beit Hanina: giovani palestinesi hanno tirato pietre e molotov, poliziotti israeliani hanno risposto con pallottole di gomma. Fonti mediche citate dall’Afp indicano che quasi 70 palestinesi sono stati feriti, tre dei quali da veri proiettili.
Martedì, invece, erano stati circa duecento integralisti ebrei a creare una sommossa, bloccando le vie d’accesso a Gerusalemme. La polizia alza ovunque il livello d’allerta, dopo avere già rafforzato gli effettivi su tutto il territorio, per prevenire attentati o rappresaglie.
ABU MAZEN chiede al governo israeliano “di punire gli assassini, se vuole la pace fra i due popoli, palestinese e israeliano”. E sollecita “misure concrete” per “fermare gli attacchi dei coloni e il caos che ne deriva”. Hamas, invece, assicura che i leader israeliani pagheranno i crimini commessi da “orde di coloni”, di cui sono - dice - “direttamente responsabili”.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, condanna “questo crimine abominevole” che la polizia non mette in esplicita relazione con il triplice omicidio nei Territori; invita gli inquirenti a scoprirne gli autori; e chiede che “nessuno pensi di farsi giustizia da solo”: Israele è “uno Stato di diritto”.
Pure i partiti israeliani pro-coloni denunciano “l’atto di odio sconvolgente”. E i familiari degli studenti rabbinici uccisi ammoniscono: “Il sangue ha un solo colore. Un omicidio è un omicidio, quale che sia la nazionalità o l’età della vittima, e non può essere giustificato”.
Robert Serry, coordinatore dell’Onu per il processo di pace in Medio Oriente - un processo che, oggi, appare ineluttabilmente fermo -, invita le autorità israeliane e palestinesi “a fare di tutto per evitare di esacerbare un’atmosfera già tesa”.

Repubblica 3.7.14
Il ragazzo palestinese ucciso per vendetta
Aveva 17 anni, rapito mentre tornava dalla moschea
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. “KAFFIR , kaffir”, urlano gli amici di Mohammed mentre caricano con le pietre le frombole, la kefiah nasconde i volti e li protegge dai lacrimogeni che la polizia da un paio d’ore sta sparando senza risparmio sulla Shuafat Road. La strada che taglia in due questo quartiere di Gerusalemme Est, abitato dai palestinesi, è un campo di battaglia, volano le molotov, bruciano i copertoni d’auto. La loro rabbia è esplosa quando si è diffusa la notizia che Mohamed Abu Khdeir, un ragazzo del quartiere di 17 anni, è stato ritrovato assassinato in un parco dall’altra parte della città alle prime luci dell’alba. In quella che sembra una vendetta per la morte dei tre seminaristi ebrei, rapiti e uccisi la sera del 12 giugno a Hebron. Gli investigatori sono ancora cauti, ma tutto lascia pensare che si tratti di una rappresaglia dei coloni, come dimostrano anche le aggressioni e gli scontri non solo qui a Gerusalemme ma anche in altre zone di Israele. A fine giornata solo a Gerusalemme si contano una settantina di feriti, cinquanta arresti. L’odio carsico che attraversa le due comunità da ieri anche nella Città Santa è merce libera, scorre nelle strade, nei proclami di vendette delle radio libere, il tam-tam è partito nei web site, su Facebook, su YouTube. Guerriglia nei quartieri palestinesi nella zona Est, pestaggi e spedizioni punitive dei coloni contro gli arabi-israeliani a Ovest. C’è stato un gruppo di militari in divisa che si è fatto riprendere mentre inneggia alla morte degli arabi, ovunque e dovunque. Prende una pericolosa velocità il divenire degli eventi che gli appelli del presidente Abu Mazen da una parte e del premier israeliano dall’altra non sembrano in grado di arginare.
Il giovane Mohammed è stato bloccato all’alba di ieri - era appena uscito da una moschea tra Shuafat e il vicino quartiere di Beit Hanina, dopo la prima preghiera del mattino - e costretto a salire su un’automobile di colore nero. Racconta suo cugino che si erano appena salutati, quando Mohammed è stato avvicinato da una Hyundai nera, qualcuno gli ha detto qualcosa dal finestrino; poi è sceso e ha spinto il giovane a bordo. «Proveniva dalla direzione di Pisgat Zeev (un insediamento di coloni adiacente, ndr) ha fatto un’inversione ad U, lo hanno chiamato e poi l’hanno costretto a salire a bordo. La gente si è accorta di quanto avveniva e ha cercato di inseguire la macchina». Una sequenza da commando, con il tratto distintivo della rappresaglia. Un ragazzo innocente, che andava alle superiori, che viveva in una modesta casa che è proprio davanti alla battaglia in corso sulla strada, invasa dai fumi nauseabondi dei gas lacrimogeni. L’odio si è preso la vita di Mohammed, come quella di Naftali, Gilad e Eyal. Poteva prendersi Mousa, un ragazzino che già lunedì sera stava per essere rapito sempre a Shuafat. La gente del quartiere racconta che alcuni coloni, a bordo di auto Honda, avrebbero cercato di trascinare il bambino, Mousa Zalum, sulla vettura ed è stato solo grazie all’immediato intervento della madre e alcuni passanti che il rapimento non è stato portato a termine. La polizia israeliana ha aperto un’inchiesta e ha preso in consegna il materiale video registrato dalle telecamere di sicurezza dei negozi circostanti.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha condannato lo «spregevole omicidio», ha definito l’assassinio del ragazzo palestinese come un «atto abominevole » e ha chiesto alle forze di polizia di lavorare il più velocemente possibile per trovare i colpevoli dell’omicidio del giovane, per evitare che si inneschi un meccanismo a catena di vendette trasversali. Il presidente palestinese, Abu Mazen, gli aveva chiesto una ferma condanna, così «come noi» - ha ricordato - «abbiamo condannato il sequestro e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani». Netanyahu ha lanciato un appello a tutte le parti: «Non fatevi giustizia da soli, Israele è uno Stato di diritto e tutti devono rispettare la legge». Già lunedì sera la polizia israeliana ha effettuato una cinquantina di arresti fra alcuni esponenti dei coloni e degli ultras del Beit Jerusalem, squadristi noti per la loro xenofobia anti-araba. «Dobbiamo formare una diga contro l’odio», dice il leader laburista e capo dell’opposizione, Haim Herzog, e qualcuno raccoglie il ramoscello d’ulivo. E’ la famiglia di Naftali Frankel, uno dei tre seminaristi assassinati da una banda di Hamas e sepolti solo due giorni fa. Dice Yishai Frankel, lo zio di Naftali, che «non c’è differenza tra sangue e sangue. Se un giovane arabo è stato ucciso per motivi nazionalistici è un atto orrendo e orribile, un assassinio è un assassinio non importa la nazionalità o l’età».
Cavalca invece quest’ondata Hamas, che si è subito ri-appropriato del suo abituale linguaggio fatto di proclami, minacce e promesse di morte. «Pagherete il prezzo per questi crimini», avverte il movimento islamista da Gaza, che a sua volta nel mirino perché considerato responsabile dell’uccisione dei ragazzi israeliani. I suoi leader nella Striscia sono da giorni “nei rifugi” sottoterra approntati da tempo per queste emergenze. Sul terreno restano i miliziani-lanciatori che attivano i missili che non cessano di cadere nel sud di Israele, ieri altri cinque hanno fatto suonare le sirene di allarme in tutte le cittadine circostanti la Striscia mentre la batteria antimissile “Iron Dome” entrava in funzione e i caccia con la Stella di David tornavano a colpire.

il Fatto Lettere 3.7.14
Quanto pesano le morti israeliane
di Ireo Bon


L'assassinio dei tre giovani coloni ebrei, Eyal Gifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, è esecrabile ma non più di quello. Ma poi ci sono i morti per mano dell’esercito israeliano. I due ragazzi palestinesi, Nadeen Nawara e Mohammed Daher, il 15 maggio vicino alla prigione di Ofer, il pescatore Imad Salem ucciso nella sua barca il 7 giugno, i sei giovani e innocenti palestinesi uccisi dopo la scomparsa dei coloni. Ma queste morti, a differenza di quella dei ragazzi ebrei, non hanno fatto scalpore perché rientrano nella normalità. Qui sta il problema dell'apparentemente insolubile conflitto: il doppio peso con cui i governi occidentali giudicano le azioni israeliane e palestinesi e l'accettazione come fatto normale, anche da parte dei media, di un'occupazione israeliana illegale, oppressiva e spesso criminale. La pace in Israele-Palestina è possibile. Basta che la comunità internazionale obblighi lo Stato d'Israele a rispettare le risoluzioni Onu e la sentenza della Corte internazionale dell'Aia, con la fine dell'occupazione e il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

Repubblica 3.7.14
Africa, in trincea con i medici che combattono l’incubo Ebola
di Pietro Del Re


CONAKRY. PERFINO gli addetti alle pulizie sembrano samurai avveniristici, bardati di tute gialle, cuffie, ampi grembiuli di cerata, stivaloni e occhiali da sci, per non lasciare scoperto neanche un millimetro quadrato di pelle. Qui, del resto, nell’avamposto dove si combatte Ebola, tutto evoca la guerra, dalla marziale disciplina con cui operano i medici ai bollettini sanitari che contano le perdite delle battaglie contro il più infido dei nemici, il virus di febbre emorragica che dallo scorso marzo ha già provocato cinquecento morti in Africa occidentale. «Pochi giorni fa è arrivata un’intera famiglia contagiata, e ieri è deceduto il più giovane dei suoi figli, un bimbo di 7 mesi», racconta Chiara Montaldo, 39 anni, infettivologa genovese che dirige questo centro d’emergenza allestito da Medici senza frontiere all’interno del più grande ospedale di Conakry, malconcia capitale della Repubblica di Guinea, nel tentativo di arginare l’epidemia.
Nel centro d’emergenza, che consiste in una decina di capienti tende bianche e in una fila di piccole stanze in muratura, aleggia ovunque la puzza di cloro con cui si disinfetta ogni cosa: tutto ciò che entra, ma soprattutto quello che esce dal lazzaretto. Dice ancora la Montaldo: «Il problema è che l’infezione di Ebola comincia con sintomi aspecifici, perciò quando arriva un paziente “sospetto” sono costretta a intervistarlo a lungo prima di decidere se accoglierlo o no. Ed è sempre una scelta molto sofferta: se lo lascio andare c’è il rischio di rimettere in giro un potenziale “untore”, se lo faccio entrare ed è sano, può lui stesso infettarsi al contatto con gli altri malati». Ed eccoli i pazienti di Ebola, che dalla postazione destinata ai parenti, a distanza di sicurezza da ogni possibile contatto, vediamo sdraiati nelle loro cellette come monaci appestati, circondati dai benevoli “samurai” che li aiutano a reidratarsi per via dell’enorme quantità di liquidi che perdono con diarree continue. «Muoiono soprattutto per questo motivo, come prosciugati dal virus. Infatti, il ceppo di questa epidemia raramente uccide con le emorragie come succedeva nel corso di altre infezioni, quando i pazienti vomitavano sangue, lacrimavano sangue, perdevano sangue dal naso, dalle gengive, dal retto», spiega l’infettivologa.
Negli anni scorsi il flagello ha funestato il Congo, il Gabon, l’Uganda, ma mai la Guinea: perciò, quando qui è scoppiata l’epidemia, nessuno ha saputo come affrontarla, non solo nei villaggi della giungla, ma neanche a Conakry, prima capitale della storia gravemente colpita. Già, perché Ebola gode di una fama sinistra, essendo la malattia della paura e dell’esclusione, del rigetto e della superstizione. Come succedeva in Europa durante la peste nera, su di essa si raccontano ridicole e irragionevoli assurdità. «Una di queste consiste nel sostenere che siamo stati noi di Medici senza frontiere a diffondere il virus per sterminare la popolazione della Guinea», sostiene Marc Poncin, capo progetto di Msf in Guinea.
A Conakry, dove il Parlamento si erge davanti a una discarica e dove perfino in pieno centro le strade sono accidentate come tratturi di montagna, ma dove il presidio di Msf è ormai rodato alla perfezione e dove la campagna di sensibilizzazione è stata capillare, si era pensato poche settimane fa di aver scongiurato il peggio fermando la diffusione del virus. Ma nei giorni scorsi, con l’arrivo di altri pazienti “sospetti” che gli esami di laboratorio hanno rivelato essere infettati dal morbo, è svanita l’illusione. E ciò perché anche nella capitale permangono molti comportamenti a rischio: al mercato di Tannerie, per esempio, è bastato sganciare pochi franchi guineani per trovare l’ormai vietatissima carne di scimmia, considerata assieme al pipistrello uno dei maggiori serbatoi di Ebola. Dice ancora Chiara Montaldo: «Qui riusciamo a salvare quasi tre pazienti su quattro. Ed è una cifra da primato. Altrove, invece, quando i pazienti arrivano a uno stadio già avanzato della malattia, ne muoiono anche 8 su 10». Come accade nelle vicine Sierra Leone e Liberia, dove il virus s’è appena affacciato. E ha cominciato a mietere copiosamente le sue vittime.

l’Unità 3.7.14
E poi basta con la Realtà
Beppe Fenoglio
Cosa ha spinto molti scrittori a interrogarsi sul nostro passato?
di Giuseppe


NEL 1957, DOPO AVER DATO ALLE STAMPE IL SUO SECONDO LIBRO, «LA MALORA», Beppe Fenoglio scrive a Calvino di star scrivendo un «libro grosso», «un libro che abbraccia il quinquennio 1940- 1945». La malora era uscito tre anni prima e il suo editore Garzanti - forse anche insoddisfatto della gestione sul romanzo di Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di cui appunto Gadda minacciava di non inviare la seconda parte - gli chiede di tagliare, dicendogli di voler pubblicare un libro subito, il prima possibile.
Fenoglio allora divide quel «libro grosso» in due parti e pubblica Primavera di bellezza. La seconda parte diventerà poi, ma soltanto in seguito, Il partigiano Johnny, e per ora rimarrà sospesa. Beppe Fenoglio, però, vedeva questo «libro grosso» mai pubblicato proprio il libro che gli avrebbe fatto chiudere i conti con la Resistenza. Pubblicato quello, che «romanzo propriamente non è» (come scrive di nuovo a Italo Calvino), si sarebbe liberato una volta per tutte dal «debito nei confronti del passato e del presente», dal debito nei confronti della realtà, e si sarebbe potuto dedicare al romanzo.
Solo che questo scacco, la mancata pubblicazione del «libro grosso» tutto insieme, genera una sorta di coazione a ripetere nell’opera di Fenoglio, all’interno della quale Beppe non riuscirà mai a liberarsi davvero dal tema della Resistenza, dal suo debito nei confronti del suo tempo. Mai, per tutta la sua vita.
Ciò che pubblica dopo Primavera di bellezza è Una questione privata, a mio modo di vedere il suo capolavoro.
Una splendida storia d’amore. Una storia d’amore, innanzitutto. Con in mezzo la Resistenza, certo. La Guerra che si frappone ai due amanti (anzi, all’amante e all’amata che forse non riama; anzi, che non riama). Un libro che lui vedeva come un «romanzo», a differenza da ciò che l’ha preceduto, che Fenoglio ascriveva alla diaristica di guerra. «Mentre in Primavera di bellezza ho cercato di fare romanzo con modi aromanzeschi, nel nuovo libro mi avvarrò di tutti gli schemi ed elementi più propriamente romanzeschi», scrive infatti Fenoglio in una lettera a Livio Garzanti per annunciargli Una questione privata. E ancora: «Il nuovo libro, anziché consistere in una cavalcata 1943-1945, si concentrerà in un unico episodio, fissato nella estate del 1944, nel quale io cercherò di far confluire tutti gli elementi e gli aspetti della guerra civile. Mentre Primavera di bellezza è libro lineare, in quanto parte da A per giungere a B, il nuovo libro sarà circolare, nel senso che i medesimi personaggi che aprono la vicenda la chiuderanno».
Ecco. Fenoglio divide - a modo suo, ovvio - ciò che è «non - romanzo» («aromanzesco») da ciò che è «romanzo». E l’impossibilità di chiudere il «libro grosso» una volta per tutte gli impedirà di chiudere una volta per tutte anche con il non-romanzesco (con il debito nei confronti della Realtà), che tornerà (nei contenuti) in tutti i suoi romanzi successivi.
Questo momento della vita creativa di Beppe Fenoglio mi è sempre sembrato fondamentale. Mi ha sempre parlato.
L’abbandono del «debito» contratto con il proprio tempo. Abbandono che lascerebbe liberi di dedicarsi «al romanzo». Abbandono che Fenoglio non riesce mai a sancire. Come un marito che non potendo staccarsi dalla moglie accompagnata al binario, si mettesse a correre da forsennato a fianco del treno per tutta la lunghezza della tratta.
Naturalmente un tale «movimento» si trova in molti degli scrittori di quel periodo: in Franco Fortini, in Mario Rigoni Stern, in Marcello Venturi, nello stesso Calvino (anche se con una declinazione fantastica e fiabesca), e certamente in Primo Levi, che solo con La chiave a stella e Se non ora, quando? giunge al romanzo.
La fatica per affrancarsi da quel debito nei confronti della realtà. Debito non certo per ciò che la realtà ha dato in più, ma per quello che ha tolto. O meglio: per quello che ha dato in più in «concetto», in pensiero, togliendolo nel reale.
La realtà toglie, nega, e così assegna alla dannazione del pensiero, del racconto, della denuncia, della testimonianza, della ruminazione. Ecco che riappare la frattura originaria, quella parmenidea, tutta occidentale, tra essere e pensare. Tra realtà e concetto, e rappresentazione.
Ma non certo nella forma di un Realismo o Nuovo Realismo da contrapporre alla finzione immaginifica, o fratture di questo genere che la filosofia e soprattutto la letteratura della seconda metà del Novecento hanno finalmente colmato. Che non ci sia una separazione tra Realtà e Pensiero è una questione che non dà più tormento a nessuno. «Realtà», scrive va Nabokov (scriveva, appunto) è l’unica parola da scrivere (ancora) tra virgolette. E lo scriveva, infatti. Con una semplicità tale da riconciliare il tutto senza scandali. «Foglio- mondo», lo chiamava partendo dalla prospettiva opposta - quella filosofica - Peirce, di nuovo però collegando le due parti in un unico (il foglio/la scrittura, e il mondo).
La separazione non c’è, dunque: ogni narrazione è narrazione del mondo. E il mondo si dà soltanto se raccontato. Tutto è perfetto.
E infatti la questione, per me, è adesso tutta spostata sul piano del «debito». È lì che si ripropone la frattura tra Realtà e Racconto, tra Realtà e Romanzo.
Quanto più la realtà mi toglie, tanto più il mio pensiero ha bisogno di entra re in una coazione a ripetere per farsi carico di questa mancanza. Era la chiave con cui Freud spiegava gli incubi ricorrenti dei reduci di guerra. Ci si chiedeva perché la mente umana anziché cancellare, rimuovere, una volta per tutte gli eventi traumatici, continuasse a riproporli ogni volta che si chiudevano gli occhi e si piombava nello stato di sonno. Ecco la chiave freudiana: coazione a ripetere nell’immaginazione di una situazione traumatica, al fine di addomesticarla, di renderla meno pericolosa nel racconto. Al fine di conoscerla meglio, analizzarla sempre più a ogni sua riproposizione, così da smontarne la pericolosità.
Ecco, questo è il punto, per me. Io è da qui, almeno per ora (ma, come il grande Beppe Fenoglio, spero e spero ancora e ancora in un prossimo futuro di affrancamento) che non riesco a far uscire la mia produzione letteraria.
Fintanto che vedrò lamia realtà, il mio quartiere, la mia città, il mio Paese, ciò che mi circonda, come «debito», come qualcosa che manca all’intero - a uno stadio che io definirei perfetto, tondo, giusto, netto, pulito, in ultima analisi «etico ed estetico» insieme - sentirò la coazione a ripetere narrazioni che si misurino con quella Realtà e cerchino di raccontarla nella sua durezza, nella riproposizione del trauma, nell’illusione che l’analisi e il racconto lo allevi di volta in volta.
Lo so, è una schiavitù. Ma non è colpa mia, mi ripetevo da bambino, se sono cresciuto con le stragi di mafia, la proliferazione della corruzione a ogni livello istituzionale e privato, la corruzione dei costumi e l’appiattimento brutale dell’immaginario. Non è mia la colpa di questa ferita, di questo debito che ho con la realtà. La Resistenza, diceva Fenoglio.
«E poi basta coi partigiani», dice Beppe in un’intervista al Giorno, del gennaio del 1960.
«E poi basta coi partigiani».
E poi basta con la Realtà, appunto.

Corriere 3.7.14
La marcia su Roma cominciò a Fiume
La sfida di d’Annunzio e gli errori del governo Nitti minarono l’autorità dello Stato
di Sergio Romano


Le guerre del XIX secolo furono piuttosto brevi: qualche settimana o qualche mese di operazioni militari, un armistizio, un trattato di pace con scambio di territori e indennizzi a carico dello Stato sconfitto. La Grande guerra fu troppo lunga e cruenta perché tutti gli Stati, alla fine dell’ultima battaglia, potessero tornare alla normalità della pace. Mentre i vincitori conservarono il sistema istituzionale dell’anteguerra (monarchia o repubblica), gli sconfitti precipitarono tutti nel caos delle rivolte sociali, dei moti rivoluzionari, dei colpi di Stato e dei putsch militari. Fu questa la sorte della Russia zarista, quando la guerra non era ancora terminata, e più tardi della Germania, della Baviera, dell’Austria, dell’Ungheria e della Turchia ottomana.
Nel 1919 l’Italia si colloca a mezza strada. Non è sconvolta da una rivoluzione, ha ancora un re e un Parlamento, siede con i vincitori al tavolo della pace. Ma nelle fabbriche si sciopera e nelle strade i reduci, quando indossano l’uniforme, vengono svillaneggiati e derisi. Vi fu un treno che attraversò il Paese, tra folle silenziose e commosse nelle stazioni dove fece sosta, per deporre la salma del Milite Ignoto sul monumento a Vittorio Emanuele II. Ma a differenza di ciò che accadde in altre capitali dei Paesi alleati, non vi fu a Roma una grande sfilata della vittoria con la partecipazione di tutte le forze armate.
L’Italia aveva vinto, ma una parte del suo popolo sembrava convinta che la vera vittoria sarebbe giunta soltanto dopo un grande rivolgimento politico e sociale; mentre altri, soprattutto negli ambienti nazionalisti e militari, chiedevano che il governo rivendicasse con maggiore energia, insieme a tutti i territori adriatici promessi dagli Alleati a Londra prima dell’intervento italiano, la città di Fiume, un porto di lingua italiana, ma collocato in un territorio abitato da 200 mila croati. Nel 1919, quindi, l’Italia era divisa fra due fazioni: quelli che aspettavano la rivoluzione e quelli che rivendicavano il premio della guerra deplorando la «vittoria mutilata» (un frase coniata da Gabriele d’Annunzio in una «preghiera» del 1918). È questo il tema del libro di Marina Cattaruzza, apparso ora presso il Mulino, L’Italia e la questione adriatica .
Fra il trattato di Londra dell’aprile 1915 e il crollo degli Imperi centrali nel novembre del 1918 erano accadute molte cose. Vi erano stati i 14 punti di Woodrow Wilson, un testo evangelico in cui il presidente degli Stati Uniti predicava l’autodeterminazione dei popoli e la diplomazia alla luce del sole. Vi era stato il patto di Roma dell’aprile 1918, a cui avevano partecipato tutte le nazionalità irredente dell’Impero austro-ungarico. Vi era stata infine la nascita del Regno dei serbi, croati e sloveni, che rivendicò per sé, sin dal suo primo vagito, tutti i territori asburgici sino alla Venezia Giulia e a una parte del Friuli.
In questa nuova situazione, come ricorda Marina Cattaruzza, l’Italia cercò di rivendicare la Dalmazia (dove la maggioranza della popolazione era croata), in nome del trattato di Londra, e Fiume (dove gli italiani avevano creato un Consiglio nazionale e chiedevano l’annessione al Regno), in nome del diritto dei popoli all’autodeterminazione. Ma Wilson s’impuntò e respinse la richiesta italiana, sostenendo che Fiume era il porto naturale dei croati e, quindi, del nuovo regno jugoslavo.
In questa situazione, mentre Vittorio Emanuele Orlando abbandonava la conferenza della pace e cedeva a Francesco Saverio Nitti la presidenza del Consiglio, l’Italia fu messa di fronte a un imbarazzante fatto compiuto. Un poeta armato, sempre alla ricerca di un palcoscenico nazionale e internazionale, credette di averlo trovato a Fiume. D’Annunzio marciò sulla città alla testa di una legione e vi fu accolto come un trionfatore. Molti di quei legionari erano volontari, accorsi da diversi orizzonti politici e geografici, ma altri erano disertori del Regio Esercito; e la presa di Fiume non sarebbe stata possibile, se parecchi comandanti dei corpi militari dislocati nella zona non avessero chiuso gli occhi e qualche generale (fra cui Pietro Badoglio) non avesse permesso l’invio di rifornimenti ai ribelli.
Di fronte a questo ammutinamento il governo sarebbe dovuto intervenire con fermezza e restaurare l’ordine. Ma Nitti sperò di potere sfruttare l’«impresa» dannunziana per convincere gli Alleati ad ammorbidire le posizioni di Wilson e fu, in quel frangente, più scaltro che saggio. Marina Cattaruzza riesce a descrivere perfettamente un dramma che va in scena contemporaneamente a Fiume, dove d’Annunzio accende gli animi con la sua bellicosa oratoria; a Montecitorio, dove la Camera non riesce ad accordarsi su una linea politicamente realistica; a Washington, dove Wilson tratta l’Italia con un rigore puritano; e a Parigi, dove i primi ministri della Francia e della Gran Bretagna (Georges Clemenceau e David Lloyd George) si chiedono se l’Italia abbia ancora un governo o non sia sull’orlo di una guerra civile.
La situazione cambiò quando Wilson, colpito da una trombosi, uscì di scena, e Nitti, dopo le elezioni politiche del 1919, cedette il governo a Giovanni Giolitti. Con il ritorno al potere di un uomo che non aveva voluto la guerra, e l’arrivo agli Esteri di Carlo Sforza, il nostro Paese cominciò a rinsavire. Invece di lasciare la partita nelle mani degli Alleati, i governi dell’Italia e della Jugoslavia decisero di pensare al loro futuro di Paesi uniti da uno stesso mare, piuttosto che perdere la pace concentrandosi sulla spartizione delle spoglie asburgiche. Il trattato che venne firmato a Rapallo, nel novembre 1920, lasciò la Dalmazia alla Jugoslavia, fissò il confine sul Monte Nevoso, dette Zara, alcune isole e l’Istria all’Italia, con norme che assicuravano garanzie alle comunità italiane.
Restava al governo di Roma il compito ingrato di liberare Fiume dall’ingombrante presenza del poeta. Ma, dopo l’ultimatum di Giolitti, d’Annunzio non resisté alla tentazione del «gesto» e dichiarò guerra allo Stato italiano. Il capo del governo, tuttavia, lo prese alla lettera e dette ordine al generale Enrico Caviglia di passare all’azione. Quello del 1920, quindi, fu un «Natale di sangue». La questione adriatica fu risolta, almeno per il momento, ma nella società e nelle forze armate esistevano umori e turbolenze che non garantivano la stabilità del Paese. Nella vicenda di Fiume vi sono molti degli ingredienti che contribuiranno due anni dopo all’avvento del fascismo.

Repubblica 3.7.14
La beffa a Goebbels “Io, icona degli ariani ero una bambina ebrea”
L’incredibile storia di Hessy Taft, che oggi vive negli Usa “La mia foto usata dai mezzi di propaganda nazisti”
di Andrea Tarquini


BERLINO. Nelle immagini diffuse ovunque dal ministero della Propaganda di Joseph Goebbels, lei fotografata a sei mesi era la bimba ariana modello. Sonne ins Haus , il rotocalco nazista per famiglie del Terzo Reich, dedicò al suo volto paffuto e dolce la sua cover story più famosa. L’immagine fu distribuita al fronte a ogni soldato come simbolo della purezza da imporre al mondo col sangue. E invece no: la piccola era ebrea, ma il regime non se n’era accorto. Questa è la storia di Hessy Levinson, oggi Hessy Taft, ieri bimba della buona borghesia ebrea e mitteleuropea, costretta a fuggire da Berlino, oggi vivace ottantenne docente di medicina a New York.
«Oggi ci rido sopra, ma se i nazisti avessero scoperto allora chi veramente ero io, bimba perfetta di sei mesi ma ebrea e non già ariana, oggi non sarei viva, non sarei qui a raccontarvi la mia storia », dice Hessy alla Bild Zeitung che l’ha trovata negli Stati Uniti. A volte, non solo la crudeltà delle dittature più spietate, anche la loro stupidità miope può dare l’idea dell’infinito. Che la bambina appartenesse a quella che loro consideravano “razza inferiore” non se ne accorse nessuno: né il coltissimo e sospettoso Goebbels né la Gestapo, né le Ss, né il famigerato Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, autorità assoluta della repressione e dell’Olocausto.
Hessy non era ancora nata quando nel 1928 i signori Levinson, suoi genitori, cantanti lirici di fama dell’Opera di Riga - nella Lettonia che più tardi Stalin si sarebbe annesso con gli altri Stati baltici con l’assenso del Führer - si trasferirono a Berlino. Niente di più naturale e desiderato allora, per gli intellettuali ebrei del Mitteleuropa. I Levinson ebbero un contratto alla Deutsche Oper, accettarono subito ignari del Male assoluto alle porte. Hessy nacque lì, a due passi dalla Porta di Brandeburgo, e aveva sei mesi quando mamma Polin la portò da Hans Ballin, il fotografo più famoso nella capitale. Mamma e papà volevano solo imprimere la Memoria in un’immagine, non immaginavano quanto accadde dopo. Con la persecuzione antisemita già trionfante, i coniugi Levinson persero ovviamente il lavoro. Mentre gli ebrei venivano percossi ogni giorno dai benpensanti ariani sul Kurfürstendamm, il boulevard elegante di Berlino, e il grande espressionista Max Liebermann si toglieva la vita per scampare al peggio, papà Levinson si ritrovò a guadagnarsi da vivere a pulire stalle di suini.
Pochi mesi dopo la foto da Herr Ballin, arriva la sorpresa che sgomenta i Levinson. Il volto di Hessy campeggia sulla copertina di Sonne ins Haus, il magazine nazista che incitava a formare numerose famiglie ariane. La foto fu scelta e lodata da Goebbels in persona: chi meglio di quella bimba mostra che siamo superiori, pensò il genio del regime che poi nel maggio ’45 insieme alla moglie Magda uccise i figli per poi uccidersi con lei, nel Bunker della cancelleria sotto Berlino presa dai russi: «In un mondo senza Hitler i bimbi non hanno ragione di vivere». I Levinson tremarono: e se ci scoprono, se scoprono che lei è figlia nostra, noi che siamo stati licenziati dall’Opera perché ebrei? Per mesi non portarono più la bimba in strada, troppa paura che i mille e mille delatori la riconoscessero.
Poi riuscirono a fuggire: a Parigi, poi dopo la veloce resa francese a Cuba, poi nel 1949 a New York, dove Hessy crebbe, si sposò, fece carriera. Pochi giorni fa Hessy ha narrato tutto ai curatori dello Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme, e donato loro una copia del rotocalco nazista con lei, eroina- baby sbagliata ma non scoperta. «Sapevo benissimo che erano ebrei, ma volevo gettare i nazisti nel ridicolo facendo di quella baby perfetta una loro eroina», disse poi Herr Ballin, il fotografo di grido. Ci riuscì: i Levinson si salvarono fuggendo, Hessy è ancora viva.
Ma solo ieri il flop nazista è stato scoperto, decenni dopo che le “fortezze volanti” americane, i Lancaster britannici, gli Ilyushin 2 e i tank di Zhukov e Rokossovskij avevano ridotto in cenere il “Reich millenario”. Hessy vive felice, ma tra sentimenti contrapposti: per fortuna i nazisti furono troppo sicuri di sé e troppo stupidi per scoprire la verità, quel loro nemico di fondo.

Repubblica 3.7.14
Antonioni secondo Don DeLillo
“Rendeva bello perfino il brutto”
di Don DeLillo


IN DESERTO ROSSO Antonioni dipinge il paesaggio desolato del mondo industriale. Nei primi istanti del film un canto solitario accompagna le immagini sfocate di uno stabilimento industriale. È pura voce, senza parole, femminile, sognante, un lamento delicato che si stende sulle distese di macerie e l’orizzonte lugubre. Il canto finisce quando finiscono i titoli. In questo potente paesaggio tossico si muovono una donna disturbata e un bambino. Sullo sfondo, nel grigiore, si stagliano vagoni cisterna e torri di raffreddamento. C’è un suppurare di melma e fango. Dagli sfiatatoi, fiammate di gas avvampano contro i cieli sbiancati.
Capiamo che la donna è disturbata quando si avvicina a un uomo davanti alla raffineria e gli chiede di venderle il panino che sta mangiando.
Una piccola automobile bianca emerge dalla massa di sagome scure dei lavoratori in sciopero. In lontananza si sente uno sferragliare pesante.
La donna porta un bel cappotto verde, il bambino un cappotto marrone chiaro, e sono figure vivaci che risaltano contro la terra annerita - una zona appositamente dipinta dalla troupe del film con le bombolette spray.
La donna mangia il panino con fare furtivo, nascosta a metà fra le erbacce alte. Sembra che si sia dimenticata il bambino, che entra correndo nell’inquadratura, ansioso di ricongiungersi a lei.
La prima volta che la vediamo, la donna ha i capelli rossi, o di un castano rossastro; poi, sotto una luce diversa, prendono un riflesso biondo; e poi, in un’altra inquadratura ancora, diventano semplicemente castani.
Il marito è un ingegnere che lavora nel grande stabilimento. Il bambino è loro figlio. I personaggi hanno dei nomi? La donna angosciata è interpretata da Monica Vitti. Il suo nome è questo.
L’attrice è apparsa nei tre film precedenti del regista, molto elogiati, tutti in bianco e nero. Qui la devastazione attorno a lei è inquadrata e ripresa in modo da apparire bellissima. È bellissima perché è il primo film di Antonioni a colori, e cosa c’è nel film di più importante di questo?
Qui la bellezza è un’ossessione. Sembra che il film non possa evitare di essere bello. L’ansia e la disperazione della donna sono sempre incorniciate da inquadrature curatissime, perfette mescolanze di forme e colori.
«Perché quel fumo è giallo?», chiede il bambino.
«Perché c’è il veleno», dice la donna.
Ma quel fumo è anche bellissimo. Antonioni ha parlato del ritmo del colore. Questo vale anche per gli interni. I toni freddi della fabbrica, le scale, i pavimenti, le pompe e le valvole, i tubi a vista, le macchine che martellano.
Il marito dice a un collega che la donna non è mai riuscita a riprendersi da un incidente automobilistico. È ancora in parziale stato di shock. E la sua instabilità è legata allo spettro di tutta questa tecnologia sputacchiante? È ragionevole credere che sia già una donna psichicamente labile, a cui l’ambiente circostante suscita una più profonda angoscia.
Il marito e il collega guardano giganteschi sbuffi di vapore uscire con violenza dai tubi di scarico.
La donna adesso è in casa sua. Stanze, porte, pareti. Le superfici in tinta fra loro, le ringhiere blu. Il pupazzetto robot del bambino che marcia avanti e indietro tutta la notte, abbandonato a se stesso, versione scheletrica dei macchinari della fabbrica che sono in azione senza sosta. Moglie e marito in pigiama e camicia da notte bianchi, inquadrati contro un muro blu scuro.
Il collega del marito su una lunga strada curva a colori scialbi che si può vedere come un emblema della prima arte povera - tutta la strada acciottolata fra i muri scrostati è un objet trouvé pensato per il puro piacere estetico.
Nel negozio che un giorno spera di aprire, la donna è circondata da pareti su cui sono state stese ampie pennellate di colore, e quella che abbiamo davanti è praticamente una visione uscita da un dipinto di Rothko: una tela che trascende la sua categoria e diventa la fase iniziale di un murale.
Tutta questa bellezza e questa simmetria. Sono consapevoli di se stesse? La domanda non ha senso. Qui è tutto autoconsapevole. È tutto un abbandonarsi a una bellezza che aleggia dentro il film nei brandelli della disperazione della donna.
Il collega del marito fa visita al negozio e la donna gli dice che non sa che tipo di merce venderà, quando sarà aperto. A terra ci sono secchi di vernice impilati. Una volta che le pareti del locale saranno completamente dipinte, ci sarà motivo di aprirlo?
Può darsi che uomo e donna sentano il reciproco richiamo di una storia d’amore che sta nascendo. O quantomeno lo sente la macchina da presa, che si concentra sulla loro rispettiva posizione nella stanza, che si aggancia a uno sguardo o a un’occhiata. Questa è la lingua che parla la macchina da presa.
E questo è un regista che non dipende dalle parole di una sceneggiatura definitiva. Ha bisogno della cinepresa, ha bisogno di stare nella location o sul set, a ritoccare i dialoghi, a permettere l’improvvisazione, a sentire le voci dei personaggi, uomini e donne che cercano perennemente di creare un legame.
«Lei non può immaginare le paure che ho io», dirà la donna.
Esce dalla porta del negozio - e contemporaneamente, in fondo alla strada, un’altra donna si avvicina a un’altra porta, poi retrocede verso il centro della strada. Dettagli del momento sincrono. Lo spettatore impara a guardare.
C’è una scena con un fruttivendolo dove tutto è grigio. Le pietre del selciato, la parte superiore di un muro di mattoni, i vestiti del fruttivendolo, il cappotto della donna, il carretto della frutta, la frutta stessa. Costruite le scene, naturalistici i personaggi. Sono uomini e donne che camminano e parlano, corpi reali, vite complesse.

Repubblica 3.7.14
Per la prima volta un libro fotografico racconta il simbolo delle lotte femministe
Quel gesto spudorato con cui le donne cambiarono la storia
di Simonetta Fiori


QUASI sempre sorridono. E anche quando la bocca disegna rabbia, lo sguardo è ironico, luminoso, fiero della nuova sfida. Ridono le donne, così meravigliosamente diverse tra loro. Giovani e vecchie, anche molto vecchie, filiformi e grasse, borghesi up-to-date e casalinghe in vestaglia, botticelliane e goffe, tutte lunarmente distanti da canoni estetici omologanti. Sono le donne degli anni Settanta, ritratte mentre compongono nell’aria quel gesto spudorato che segnerà la storia del femminismo. Un triangolo fatto con le dita, unendo le punte dei pollici e quelle degli indici. In mezzo il vuoto, il varco di libertà attraverso cui passò una rivoluzione. Forse l’unica che ci siastata veramente in Italia.
Èmerito di una piccola casa editrice, Derive Approdi, riproporre dopo quarant’anni l’album fotografico del gesto iconico delle lotte femministe. Nelle mani era custodito lo scandalo. Le dita ribelli annunciavano al mondo che le donne erano padrone: del corpo, della sessualità, della contraccezione. Di nuove relazioni sentimentali e sociali. Di un modo diverso di stare a casa, in fabbrica o all’università. E di un nuovo immaginario che ribaltava logiche patriarcali. La favola bella della costola di Adamo era finita. Cominciava un’altra storia, narrata per la prima volta da una voce femminile ( Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte , a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, pagg.168, euro 20).
Ma come nacque quella “mossa simbolica” destinata a sconvolgere un paese che ancora ammetteva il delitto d’onore, “le pene corporali” dei mariti e dei padri, un diritto di famiglia arretrato? Al pari di tanti segni consegnati al mito, è difficile rintracciarne l’origine. Rovistando tra le memorie femministe, Laura Corradi ci conduce a Parigi, tra migliaia di persone riunite alla Mutualité. È il 1971, l’atmosfera carica di pathos. Performance musicali, filmati e testi recitati evocano le violenze contro le donne. Tra gli ospiti illustri anche Simone de Beauvoir. Dalla platea s’alza una giovane militante italiana che unisce pollici e indici per aria. Il gesto della vagina. «Istintivamente mi venne da fare così», racconta ora Giovanna Pala. «Il simbolo, per la prima volta, l’avevo visto sulla copertina di una rivista francese, Le Torchion Brule . Mi aveva colpito per l’immediatezza del messaggio. Quando alcuni ragazzi alzarono il pugno chiuso, io feci quell’altro segno, anche per affermare la mia diversità». L’Espresso, ancora in formato lenzuolo, uscì con una foto di Giovanna in copertina. E in pochi mesi l’impudico gesto si sarebbe impadronito del movimento delle donne.
Se molte cose del femminismo le avevamo importate dal Nord America, la rivoluzione del triangolo fece il percorso inverso, dall’Europa a New York. Bisogna però aggiungere che Oltreoceano, sin dalla metà degli anni Sessanta, la Vagina painting della giapponese Kubota aveva inaugurato la stagione creativa delle Betty Dodson, Judy Chicago e Niki de Saint Phalle, tutte decise a violare nell’arte il tabù dell’iconografia vulvare. Per l’ignaro Courbet dell’ Origine del mondo cominciava un’epoca di rinnovata fortuna.
Non tutte le donne approvavano. Molte se ne ritraevano con fastidio o ne denunciavano l’ambivalenza. Miriam Mafai, rievocando le piazze ardenti di quegli anni, confessa lo smarrimento delle più anziane. Anche Paola Agosti, sapientissima fotografa del movimento, ammette la fatica del confronto con “l’ideologia femminista”. E gli uomini? Tra tante militanti, sociologhe, antropologhe, filosofe, storiche dell’arte e registe interpellate dal Gesto femminista , s’avverte la mancanza di una voce maschile. Come reagirono alla provocazione? “Sordi” e “ciechi”, sintetizza nel suo bel saggio Letizia Paolozzi. Sappiamo poco di ciò che accadde all’identità dell’uomo. Quasi nessuno intercettò il baldanzoso gesto che rovesciava il mondo. Ritirarsi nel proprio guscio fu la pratica più diffusa. Far finta di niente, sperare che la ricreazione finisse.
Ma la campanella sarebbe suonata troppo tardi.
E oggi, cos’è rimasto del significato politico di quel simbolo? Se esporre allora l’organo della sessualità ebbe un’innegabile carica dirompente, riproporlo oggi diventa un atto imputabile di ambiguità. Consegnato il gesto delle mani al robivecchi del femminismo, sopravvive invece il segno genitale che in anni più recenti ha nutrito in America l’iconografia delle Vagina Warriors e del V-day. Una bandiera estetica che rischia di annacquare la portata sovversiva delle origini. Le “vagine parlanti” di Eva Ensler - nota con lucidità Laura Corradi - tendono a inchiodare le donne al sesso biologico, esattamente come nel passato. La sessualità diventa la componente predominante dell’identità femminile, lasciando in ombra quelle trasformazioni sociali ed economiche che un tempo erano parte essenziale della protesta. Lo spiegano bene le femministe culturalmente più agguerrite: emanciparsi non significa solo far carriera o amabilmente colloquiare con il proprio organo sessuale. Non è un caso che sull’attivismo nordamericano cresciuto intorno ai Monologhi della Ensler siano fioccate accuse di colonialismo: è la critica mossa dalle donne escluse, quelle del vasto mondo non occidentale. Anche sul topless delle Femen, le studentesse che mettono in mostra il corpo al posto delle armi, s’allunga il sospetto di voyerismo. E qualche perplessità sollevano gli show che spettacolarizzano il dolore delle donne puntando sull’effetto mediatico e su corpi attraenti.
Il salto di civiltà viene disegnato anche dalle diverse “parole d’ordine” scandite nel tempo. Da “Il corpo è mio e lo gestisco io”, didascalia del femminismo storico, a “Figa è bello” e “Fuck me” ora orgogliosamente esibiti su magliette aderenti. Ancor più di poderosi trattati, pochi slogan possono raccontare il tramonto di una speranza collettiva. E spiegare perché oggi le ragazze, molto più libere sessualmente, sorridano di meno di quelle nonne assai più libere nella testa.

Repubblica 3.7.14
Noi Donne
Le attività, i pensieri e i movimenti di genere
I settant’anni della rivista dove tutto cominciò


LUGLIO 1944. Noi Donne esce dalla clandestinità. Settant’anni fa una tipografia di Napoli manda in stampa il primo numero ufficiale dello storico giornale. La direzione è di Laura Bracco con la collaborazione di Nadia Spano e Rosetta Longo. L’intento è quello di fare circolare un foglio politico nel quale si ritrovino le energie femminili che vogliono partecipare alla costruzione di una società diversa, sia nell’Italia occupata che in quella parte del Paese già liberata. Dal terzo numero direzione e amministrazione si spostano a Roma e alla Bracco si affianca Vittoria Giunti, insegnante che usciva dalla lotta antifascista clandestina. Dal 1945 agli anni Novanta il giornale sarà editato grazie all’Unione delle donne italiane: inizialmente mensile, diverrà un settimanale con la direzione di Giuliana Dal Pozzo e di Miriam Mafai. Nel 1981 torna a uscire con cadenza mensile e dal 1990 cammina in autonomia dall’Udi, ma con uguale impegno: raccontare le attività, i pensieri e i movimenti delle donne, promuovere le campagne per la parità di genere.

La Stampa 3.7.14
La banalità dello spiare
Tradire gli amici nella Ddr
L’intervento che la scrittrice australiana Anna Funder leggerà domani al festival Le Conversazioni di Capri: diventare delatore passo dopo passo
di Anna Funder


Scrissi questa storia molto tempo fa per C’era una volta la Ddr, ma poi dovetti escluderla da quel libro. Non per particolari motivi estetici - non è né migliore né peggiore delle altre. Ma un libro è come una struttura architettonica, un arco di pietra. Per stare su, può avere solo un determinato numero di conci o ne verrà meno la tensione.
L’intervista ebbe luogo 17 anni fa. All’epoca mi sentivo più innocente, se non esattamente pura. (...)
Con questo intendo che non capivo perché volessi fare quello che volevo fare. Si trattava, grosso modo, di un’indagine su come la gente potesse venire corrotta, snaturata moralmente, dalla paura. Per come la vedo ora, la paura è una specie di software dannoso installato nell’anima - paura che il benessere tuo e dei tuoi figli venga distrutto. Paura è quando stai a guardare il tuo futuro tenuto in ostaggio.
All’epoca, misi con disinvoltura un’inserzione negli annunci personali del quotidiano «Märkische Allgemeine» di Potsdam - «Scrittrice australiana cerca ex dipendenti Stasi per interviste» - a caccia di uomini che avessero lavorato per i servizi segreti disposti a parlare con me. (...) E fu così che Herr Braun mi chiamò a casa. (...)
Fuori i fiocchi di neve cadono grandi e pigri. Sono seduta con Herr Braun nel soggiorno di casa sua in un vecchio quartiere di Potsdam e lui mi mostra il suo libro: Cronaca del ponte di Glienicke, Parte I e II di Horst Braun.
Herr Braun e la moglie sono un paio di bulldog: le amichevoli facce tremolanti e i corpi tarchiati. Anche il loro cane è un bulldog, con tanto di mascella bavosa e rumorini dal naso, ma le statuine che riempiono la stanza sono tutte, per qualche ragione, conigli. Ci sono coniglietti di porcellana sulla libreria e giocosi conigli con la coda bianca che se la spassano sul tavolinetto. Un coniglio giallo acceso si lecca la pancia sul davanzale della finestra. (...)
Tengo la Cronaca appoggiata in grembo. Si tratta di un album per foto più grande del normale, in cui Herr Braun ha attaccato dei disegni del suo beneamato ponte di Glienicke nel corso dei secoli. Sono disegni che ha fatto lui stesso ricalcando con cura fotografie o schizzi che ha trovato nei libri, colorandoli poi a matita. Sotto, ha scritto a biro in bella grafia: «Il ponte di Glienicke visto da sud». In effetti, man mano che giro le pagine vedo che quasi tutti, a parte un paio dei primi, sono «Il ponte di Glienicke visto da sud», perché fino alla caduta del Muro quella era l’unica prospettiva da cui lui, tedesco dell’Est, poteva vederlo.
Posso capire la sua fascinazione per il ponte. Dovendo pattugliare un ponte della Germania Est, chiunque sceglierebbe quello di Glienicke. È lì che venivano organizzati i famosi scambi di spie fra russi e americani, e fra le due Germanie. È stato immortalato in molti film: le spie che emergono dalla nebbia su ciascun lato e si dirigono verso il macchinone nero che le aspetta su quello opposto. Ma ora il suo ponte non è più niente, perché non c’è un confine che lo attraversi. (...)
Quando sono arrivata, Herr Braun mi ha detto: «Sa, io non ero un Markus Wolf». Il che è vero; è stato per trent’anni guardia di frontiera addetta al controllo dei passaporti, verificando chi entrava e chi usciva. Ma è stato anche qualcosa di più: un informatore sui suoi colleghi fin dai primi Anni 60.
Tutto cominciò quando un tenente arrivò in mensa e chiese al «compagno Braun» di seguirlo in un’altra stanza. Chiacchierarono. «Mi lusingava il fatto che con me usasse il confidenziale “du”», ha detto Braun, «mi chiese solo cosa stavano combinando Tizio e Caio, se il caporale era tornato a casa ubriaco o se ero venuto a sapere di qualche altro compagno che riceveva posta dall’Occidente. Cominciai a incontrarlo con regolarità. Un giorno mi disse: “Senti, pensi che potresti metterlo per iscritto, quello che mi stai dicendo del tal dei tali? E io lo feci”». Herr Braun si è guardato le mani, dalle unghie sorprendentemente lunghe, ricurve e marroni. «Mi sentivo importante. La cosa mi dava una certa eccitazione. Inoltre, eri in qualche modo protetto da alcune cose che potevano succederti, se stavi con Loro». Ha fatto un respiro profondo. «È stata la paura», ha aggiunto.
In seguito il compagno Braun fu mandato in un campo di addestramento segreto della Stasi dove gli insegnarono a forzare le serrature di appartamenti e automobili, a utilizzare nascondigli insospettabili come «cassette della posta» segrete, a far saltare in aria cose con gli esplosivi e ad aprire buste e fotografarne il contenuto senza lasciarvi tracce di sudorazione nervosa. Una notte lui e gli altri allievi ufficiali ricevettero nomi e documenti di identità falsi e vennero portati in pullman in un posto isolato a 200 km di distanza da tutto con cento marchi in tasca e le istruzioni per sopravvivere con le proprie risorse e tornare al campo.
«Ci consideravano una quinta colonna, da lanciare dietro le linee nemiche in caso di necessità», mi ha detto. «Per nostra fortuna non si arrivò mai a tanto». Fu un addestramento di alto livello per Herr Braun, la cui carriera, salvo questa parentesi esaltante, consistette nel sorvegliare cose: il confine, poi i carcerati di un centro di detenzione preventiva e infine, il suo lavoro preferito, il ponte di Glienicke.
Gli ho chiesto se avesse mai avuto la tentazione di attraversare il ponte.
«Mai. Perché avrei dovuto? Qui non mi mancava niente». Ha fatto una pausa. «Anche se a volte di notte, quando eravamo solo noi guardie, camminavamo fino alla linea bianca sul ponte per guardare l’Ovest che stava al di là. Ma non ci è mai venuto in mente di passare dall’altra parte».
«Allora perché andavate alla linea?».
Ha scrollato le spalle. «Per sgranchirci le gambe. Per vedere se qualcuno aveva perso qualcosa». Dalla cucina arrivano effluvi di carne sui fornelli. «Mi rendo conto adesso che quello che ho fatto è stato abusare della fiducia degli altri», attacca, «ma non ne ho un ricordo ben definito». Guarda su, una macchia sul soffitto e poi giù, i coniglietti che giocano sul tavolino. «Ora so che è stata una carognata». Fa una pausa. «È stato un tradimento e ho messo delle persone nella merda fino al collo, perché mi ritenevano un amico e si confidavano, e invece…».
La sua faccia da cane bastonato è di quelle che attirano le confessioni e non suscitano sospetti. È una faccia indulgente, una faccia con acquosi occhi marroni sovrastati da una fronte perennemente corrugata con aria innocente o sorpresa. E ora che mi ha detto tutte queste cose tristi seduta qui, è una faccia che vuole qualcosa in cambio. «Allora glielo chiedo di nuovo», dice, «può aiutarmi a farlo pubblicare?». Allunga la mano verso il mio grembo e la piazza sul suo libro. «Il mio ponte non interessa più a nessuno qui».

Corriere 3.7.14
Vizi e virtù di un mondo freddo
La famiglia secondo de Oliveira
di Maurizio Porro


Girato a 104 anni – oggi ne ha 106 – dall’infrangibile maestro portoghese Manoel de Oliveira, Gebo e l’ombra , tratto da una pièce di Raul Brandao del 1923, è uno dei pochi regali di questa estate cinematografica che sembra peggio di sempre.
Il film da camera del grande regista, tutto in una sera e in una notte, mostra l’essere o non essere di una famiglia in attesa. Siamo a inizio 900, nel rustico tinello dove un padre che da anni ha perso i contatti col figlio, finge con la moglie di essere con lui in corrispondenza: ma ecco che una sera, annunciato biblicamente dall’ombra alla finestra, il rampollo prodigo nei guai torna davvero ma per rubare i soldi che il genitore contabile cecoviano aveva conservato (il potere del denaro è il motore): siamo tutti colpevoli, afferma.
Quindi da un lato la conservazione, dall’altro il movimento, la rottura, anche illegale, perfino il crimine per infrangere l’immobilità di chi accetta anche di mentire pur di mantenere ordine e silenzio. Tutto ciò, come sempre, non è virgolettato dal regista, capace di orchestrare 91 minuti di dialogo misto e vivace, dove anche le parole sono illuminate dalla fotografia di Renato Berta, un interno alla Vermeer, più umile, in cui sono plasticamente messi in rilievo vizi e virtù, con una porta che divide da un mondo freddo, bagnato e invisibile.
Il regista festeggia il suo talento con una grande compagnia di attori: Michel Lonsdale è di una palpabile, infinita tristezza con cui rappresenta il sesto stato dei poveri, dei deboli rassegnati. Intorno a lui girano tre donne variamente illuse: la moglie Claudia Cardinale che vuole ignorare la verità sul figlio fuggito, la nuora Leonor Silveira che ha un sesto senso che la aiuta a capire la verità, la vicina Jeanne Moreau in visita ottocentesca.
Gruppo di famiglia di terza età (meno Ricardo Trepa, il fuggiasco) cui l’autore affida un messaggio di poca speranza nella bottiglia.

La Stampa 3.7.14
Americani, ammalati di dolore
È allarme per l’abuso di pillole
Nel 2012 i medici americani hanno firmato 259 milioni di ricette per antidolorifici, cioè abbastanza per fornire un flacone a ogni adulto. Ogni giorno negli Stati Uniti muoiono 46 persone per overdose di painkillers
di Polo Mastrolilli

qui

La Stampa 3.7.14
La sorella di Julia Roberts: “Colpa sua se mi uccido”
Resa nota una lettera choc di Nancy Motes al fidanzato al processo contro l’attrice per la sua eredità
di Paolo Mastrolilli


«Mia madre e la mia cosìddetta sorella non riceveranno nulla, eccetto il ricordo di essere state loro a spingermi nella peggior depressione in cui sia mai stata». Così scriveva Nancy Motes, nella nota con cui in sostanza accusava Julia Roberts di averla spinta al suicidio. La famosa attrice, infatti, è la sorella a cui si riferiva in una delle tre lettere lasciate prima di togliersi la vita. Nancy, 37 anni, era la sorellastra di Julia. Nel febbraio scorso si è suicidata a Los Angeles, lasciandosi affogare nella vasca da bagno, dopo aver preso una overdose di psicofarmaci. Prima di compiere questo gesto, ha lasciato tre lettere, una indirizzata al fidanzato John Dilbeck, una alla madre e alla sorella, e la terza «a tutti». Le note alla sorella e a tutti sono rimaste segrete, ma quella al fidanzato è stata pubblicata, nel corso del processo che oppone proprio Dilbeck alla Roberts per il controllo dell’eredità di Nancy. Lo scopo di questa mossa è evidente. La lettera infatti dimostra quanto le due sorelle fossero in conflitto, escludendo quindi la possibilità che la suicida volesse lasciare qualcosa a chi riteneva di fatto responsabile del suo gesto estremo.
Nancy e Julia erano figlie delle stessa madre, ma il loro rapporto si era incrinato in fretta. In passato la Motes, che faceva l’assistente alla produzione di Glee, aveva accusato pubblicamente la sorella di averla tormentata da bambina per il suo peso. Aveva raccontato questa storia ad un giornale, provocando una durissima reazione di Julia. Nancy allora aveva risposto con questo messaggio su Twitter: «L’ho fatto solo affinché voi tutti sappiate che la fidanzatina d’America è una cagna». La lite era proseguita, con altri tweet tipo questo: «Volete essere i fan di qualcuno così crudele? Non è neppure una brava attrice».
Nella lettera lasciata al fidanzato la Motes gli chiede scusa, scrivendo che «sono stata fortunata ad essere amata da uno come te», anche se lui le diceva che «non sei nulla, solo una tossica». Tutta la sua rabbia, però, è rivolta verso Julia: «Scoppio a piangere ogni mattina, solo perché mi sono svegliata». Quindi seguono le parole che accusano la Roberts: «Lei e mia madre sono coloro che mi hanno spinta nella depressione più profonda in cui sia mai stata».