venerdì 4 luglio 2014

l’Unità 4.7.14
Un mese di tempo
il Cdr e la Rsu


L’Unità ha un mese di vita: se entro la fine di luglio non si manifesterà un’offerta di acquisto solida, credibile, che salvaguardi la testata e i suoi lavoratori, il fallimento non sarà più un rischio ma una certezza. Questo è il quadro drammatico che è emerso dall’incontro di ieri con i liquidatori, a cui diamo atto di grande professionalità e sensibilità alle ragioni dei lavoratori.
Noi abbiamo un mese di vita, voi non avete più alibi. Non li ha il socio di riferimento Matteo Fago, che è venuto meno agli impegni presi con i dipendenti, mettendo anche a rischio la continuità aziendale. Ma non hanno più alibi neanche gli altri soci della Nie, Renato Soru, Maurizio Mian e Maria Claudia Ioannucci, che negli anni hanno contribuito alla dismissione del giornale, con scelte scellerate. Non hanno più alibi tutti quelli che a parole si sono detti pronti a salvare la testata fondata da Antonio Gramsci. Se è davvero così, non c’è più tempo da perdere: bisogna agire ora.
I lavoratori rivendicano con orgoglio di aver combattuto in difesa non solo dei posti di lavoro,maper la vita di quello che resta un grande giornale della sinistra.
Abbiamo garantito la presenza in edicola del giornale anche senza ricevere da mesi gli stipendi. La redazione ha rinunciato per quasi due mesi a firmare gli articoli.
Oggi entriamo in una nuova fase, sapendo che il tempo ci è nemico. Domani il giornale non sarà in edicola, perché a fronte di impegni che restano inevasi lo sciopero era inevitabile. Martedì prossimo organizzeremo a Roma un incontro pubblico a sostegno della nostra battaglia di libertà.
Agli organizzatori delle Feste dell’Unità chiediamo uno spazio per denunciare la situazione del giornale e raccontare il senso della nostra lotta. Mentre si organizzano le Feste dell’Unità si sta prefigurando «la festa all’Unità». Noi faremo di tutto perché ciò non avvenga. E voi?

il Fatto 4.7.14
Libertà e Giustizia contro l’accordo con gli indagati

OGNUNO si sceglie i suoi”. Inizia così la dura presa di posizione che Libertà e Giustizia, l’associazione da sempre schierata a difesa della Costituzione, prende contro l’ipotesi di un accordo sulle riforme tra Forza Italia e Pd sancita dall’ultimo incontro a Palazzo Chigi: “Libertà e Giustizia - è scritto nella nota di condanna riconoscerà mai a Berlusconi Silvio (condannato in via definitiva per frode fiscale), Verdini Denis (indagato per false fatture, mendacio bancario, appalti G8 L’Aquila, associazione a delinquere e abuso d’ufficio), Letta Gianni (indagato dal 2008 per reati di abuso d’ufficio, turbativa d’asta e truffa aggravata, inchiesta poi archiviata nel 2011) il diritto di mettere le loro mani sulla Costituzione nata dalla Resistenza. Saremo pochi? Saremo gufi? Saremo professoroni e parrucconi? Sempre meglio che complici di questa congrega”. L’accordo dei condannati e degli indagati non piace. L’associzione non mancherà di far sentire la propria voce.

Il Sole 4.7.14
Ue, scontro Bundesbank-Renzi
di Davide Colombo


ROMA. Non c'è stato solo il faccia a faccia con Silvio Berlusconi per verificare la tenuta del patto stretto al Nazzareno sulle riforme nella lunga giornata di Matteo Renzi. Ieri il premier ha incontrato a Palazzo Chigi per un paio d'ore il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, con la squadra dei tecnici dell'Economia. Una riunione per fare il punto sul quadro economico e di finanza pubblica alla vigilia della bilaterale con la Commissione Ue e il vertice Ecofin della prossima settimana, che sarà presieduto da Padoan.
Clima sereno, trapela da palazzo, nonostante il ripetersi di previsori che annunciano come «inevitabile» una manovra correttiva vista la bassa crescita. E nonostante le nuove stilettate giunte dalla Germania, questa volta da parte del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, sul premier italiano «che dice che la fotografia dell'Europa è il volto della noia e ci dice cosa dobbiamo fare. Ma fare più debiti non è il presupposto della crescita». Dichiarazioni che seguono a quanto ha sibilato in un convegno della Cdu il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, ricordando l'ultimo suo incontro con Padoan in cui gli avrebbe ricordato che bisogna attenersi a quello che è stato concordato: «Rifiuto il tema della flessibilità – ha detto –. Abbiamo bisogno di crescita questo sì, e di investimenti». Parole che Palazzo Chigi non lascia cadere nel vuoto: «Se la Bundesbank pensa di farci paura forse ha sbagliato Paese. Sicuramente ha sbagliato governo». «L'Europa – è la replica – non è dei banchieri tedeschi ma dei cittadini europei».
Insomma un clima di scontro. Ma che certo non preoccupa il premier, convinto che nei prossimi mesi sulla crescita si sentirà l'effetto del bonus Irpef. Non ci sarà nessuna manovra correttiva, ha assicurato. E sulle previsioni in circolazione sussurra ai suoi che, di solito, chi le fa non ci azzecca.
Ieri gli ultimi a ipotizzare una correzione sono stati gli analisti di Mediobanca: una manovra da almeno 10 miliardi dopo l'estate sembra inevitabile, scrivono in uno studio, visto che il Pil viaggia sotto lo 0,8% previsto. Lo studio degli analisti Antonio Guglielmi e Javier Suarez si concentra in realtà sui possibili benefici nel Paese, che verranno da una «lunga lista di possibili notizie positive» che avranno effetto nel 2015 e nel 2016. Ma nel breve un intervento sarebbe «inevitabile» per evitare che il deficit superi la soglia del 3%.
In realtà quella soglia non dovrebbe essere infranta. Il deficit, anche se ci fosse un brusco rallentamento dell'economia, non supererà comunque il 3% secondo le analisi di sensitività fatte dal Tesoro e che prevedono che con mezzo punto in meno di crescita - e quindi con un Pil a +0,3% - il deficit si attesterebbe al 2,8%. Niente manovra quindi.
A pesare ci sono però anche i dati del fabbisogno del primo semestre, arrivati due giorni fa con la sorpresa (peraltro attesa all'Economia) di un dimezzamento dell'avanzo di giugno (da 13,5 miliardi del 2013 ai 7,7 di quest'anno). È il frutto delle decisioni prese negli ultimi mesi: dal bonus di 80 euro, al pagamento dei debiti Pa. E c'è poi, su quel dato, un effetto calendario su alcuni importanti pagamenti e sugli incassi di imposte di rilievo. La situazione è sotto controllo, insistono i tecnici, ma su quei numeri l'esame del ministero dell'Economia è in corso. Anche perché vanno incrociati con le stime Istat sul Pil sempre di ieri l'altro: la crescita del secondo semestre potrebbe attestarsi tra -0,1% e +0,3%. Se confermate la stima del Governo di una crescita dello 0,8% quest'anno diventerebbe irrealistica. Ma per un'eventuale revisione da parte del Tesoro si devono aspettare le stime flash Istat del 6 agosto.

Repubblica 4.7.14
La Bundesbank a Renzi “Non ci dia lezioni meno parole, più fatti”
Weidmann: l’Italia avvii le riforme, riduca il debito e non usi i tassi bassi per finanziare altre spese
di A. T.


BERLINO. «Renzi afferma che l’Europa ha il volto della noia, e poi ci dice che cosa dovremmo fare. Io gli rispondo che fare più debiti non è il presupposto della crescita, e che alle promesse devono seguire i fatti, le riforme vanno fatte e non solo annunciate ». Così il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, parlando ieri al Wirtschaftstag, il convegno economico europeo della Cdu di Angela Merkel, ha lanciato un durissimo attacco al discorso tenuto mercoledì all’Europarlamento a Strasburgo dal presidente del Consiglio.
Come a dire, parafrasando il titolo d’un episodio di “Guerre stellari”, che ‘l’Impero colpisce ancora.
«C’è da temere che i tassi bassi non vengano usati per fare le riforme, bensì per finanziare altre spese», ha incalzato il giovane, precisissimo e calmo capo dei Templari di Buba, come nel gergo delle banche centrali vengono definiti i leader della Bundesbank, sempre fedeli al loro motto storico, “Siamo arroganti perché siamo bravi”. «I bassi tassi d’interesse rinnovati nel lungo periodo allentano la pressione sui governi per procedere sulla strada delle riforme e del risanamento dei bilanci», ha continuato Weidmann. Ammonendo contro il rischio di “contraccolpi della crisi”, egli ha poi affermato che «è importante chiarire che l’Eurosistema non tarderà troppo nel tornare a una normalizzazione della politica monetaria per riguardo alle finanze degli Stati». In chiaro: non dobbiamo lasciare tassi bassi troppo a lungo. Linea dura made in Bundesbank, opposta a quella di Draghi. E Angela Merkel, ospite d’onore al Wirtschaftstag, ha scelto una prudente linea mediana: ha elogiato l’Irlanda, «che riforma senza chiedere più soldi europei e più spese», ha affermato che «più spese non sono la ricetta contro la disoccupazione », ma ha aggiunto che «noi tedeschi dobbiamo imparare a pensare più da europei e capire che ci va bene solo quando va bene anche a tutta l’Europa»

Repubblica 4.7.14
L’ira di Palazzo Chigi: “Non ci fanno paura, l’Europa non è loro”
Il governo è sicuro: “Decide la Merkel e la linea della Cancelliera è un’altra”
di Alberto D’Argenio



L’EUROPA non è dei banchieri tedeschi, l’Europa è dei cittadini europei». Il premier Matteo Renzi legge con disappunto l’attacco che gli riserva il potente presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Ma non perde le proprie certezze.
MA IL premier non perde la calma. «Bene bene, questo è un ottimo segnale, se pensano di farci paura lo vedranno, hanno sbagliato governo ». Però al secondo giorno consecutivo di attacchi tedeschi all’Italia - mercoledì era stato il capogruppo del Ppe a Strasburgo Manfred Weber - a Palazzo Chigi rifiutano di parlare di incidente tra Roma e Berlino. Già, perché la convinzione di Renzi e del suo staff è che né Weidman, né Weber, né Schaeuble rappresentino la linea della Germania. «In Germania decide la Merkel e la linea della Cancelliera è un’altra». Il governo italiano non perde il sangue freddo nella battaglia per ottenere maggiore flessibilità sui conti in cambio di riforme. D’altra parte, ricordano tutti come un mantra, «Roma non chiede di cambiare il Patto di stabilità, ma di interpretarlo in modo più elastico per far ripartire l’economia». Ma visto che la prudenza non è mai troppa, il governo prepara le contromisure per farsi valere in Europa e lo fa in collegamento con gli uomini di peso del Pd all’Europarlamento. Già, perché il 15 luglio il popolare Jean Claude Juncker dovrà ottenere la fiducia di Strasburgo. E come dice Simona Bonafè il presidente in pectore della Commissione europea per passare «ci dovrà dare delle spiegazioni, ci dovrà dire come intende applicare la flessibilità già concordata ». Con il Partito democratico pronto a far saltare il patto con il Ppe con il quale governa il Parlamento di Strasburgo in Grande Coalizione. E nella battaglia europea Renzi e il Pd sanno di avere anche la copertura del presidente Napolitano, che ieri ha ricordato come l’Italia «negli ultimi anni ha fatto molto, l'aggiustamento della finanza pubblica che c'è stato in Italia negli ultimi anni può sfidare qualsiasi termine di paragone ». E il Capo dello Stato ha ricordato che il risanamento dei conti deve essere combinato «all’imperioso obiettivo del rilancio della crescita».
Renzi sapeva che la vittoria ottenuta sette giorni fa a Bruxelles con l’approvazione da parte dei leader del documento sulla flessibilità sarebbe stata solo la prima battaglia per arrivare davvero a un Patto meno dogmatico, visto che il principio politico apbolezza provato dai capi di Stato e di governo ora deve essere declinato in realtà principalmente dalla Commissione. E il premier per chiudere la partita conta sulla Cancelliera: «La Merkel ha interesse ad avere un rapporto con Renzi — spiegano gli esperti di Europa del Pd — altrimenti l’Unione con chi la manda avanti?». Considerazione che sconta la dela politica di Hollande e l’isolamento di Cameron. E c’è la convinzione che anche la donna più potente del mondo voglia sinceramente andare verso la flessibilità per aiutare la ripresa in tutto in Continente. E in queste ore ad ammorbidire Schaeuble ci pensa il ministro Padoan con telefonate assai frequenti. La situazione ricorda il 2012, quando i falchi guidati dalla Buba di Weidman e dal Finanzminister picchiavano contro lo scudo antispread chiesto da Monti per salvare la moneta unica: alla fine la Merkel sostenne l’Italia e nonostante le bordate lo scudo passò. L’ottimismo di Renzi sulla partita europea è anche dovuto dal fatto che la Germania non è un monolite, che anche a Berlino si fa politica e c’è chi si comporta duramente con i paesi del Sud Europa per lucrare voti. Per questo ieri non ci sono stati contatti chiarificatori tra Renzi e la Merkel dopo l’agguato di Weber al Parlamento europeo, visto che il quarantunenne capogruppo del Ppe milita tra le fila della Csu, alleato bavarese della Cdu della Cancelliera spesso su posizioni più intransigenti. «Anche da loro si fa politica», è la certezza del governo italiano. Così come si pensa ci sia anche una dose di gioco delle parti, con i falchi alla Schaeuble dentro alla Cdu che fanno i duri per tranquillizzare la base del partito e l’opinione pubblica sul fatto che la Germania non permetterà un allentamento delle regole di bilancio dell’eurozona. Salvo poi far passare in sordina le novità in Europa. Almeno questa è la scommessa italiana.

il Fatto 4.7.14
La guerra tra Matteo e Angela vale 20 miliardi di manovra
Il Ppe insiste: niente modifiche al patto. E la Bundesbank attacca l’Italia
di Marco Palombi


Lo scontro con i rigoristi e la commissione Ue è appena iniziato, ma da ieri Matteo Renzi ha ufficialmente al suo fianco anche Giorgio Napolitano, già mentore e dante causa politico dei governi del rigore di Monti e Letta: “Bisogna dire che abbiamo fatto molto negli ultimi anni: l’aggiustamento della finanza pubblica che c’è stato in Italia può sfidare qualsiasi termine di paragone”, ha scandito il presidente della Repubblica ricevendo l’esecutivo europeo per l’inaugurazione del semestre italiano alla guida del Consiglio dell’Unione.
Al premier italiano, peraltro, serve tutto l’aiuto possibile visto che la faccenda è tanto complicata quanto rilevante per la carne e il sangue di milioni di italiani. Giova ripetere: i conti italiani sono in parte migliorati in questi anni, al prezzo però di una violenta recessione economica innescata dalle pesanti manovre di tagli e tasse susseguitesi dall’estate 2011 (una compressione della spesa pubblica o un aumento delle imposte hanno, infatti, sempre un effetto recessivo).
DI COSA parliamo nel merito? È semplice: solo per rispettare i vincoli di bilancio contrattati in Europa dai suoi predecessori per il 2015, questo governo dovrebbe in autunno effettuare una manovra da 20 miliardi di euro (una correzione del rapporto decificit/Pil dell’1,2%). Se poi, come ha promesso Renzi volesse confermare gli 80 euro, dovrebbe trovare altri dieci miliardi. Per estendere il bonus a pensionati e incapienti altrettanti . Una manovra di queste dimensioni semplicemente ucciderebbe l’Italia.
Gli analisti di Mediobanca securities - pure assai ottimisti per il 2015-2016, anche per via di presunte “iniziative keynesiane” sugli investimenti pubblici che Renzi si appresta a mettere in campo - prevedono problemi già per il 2014: la crescita del Pil inferiore al previsto 0,8% (e lo scostamento dello 0,2% dagli obiettivi già certificato dalla Ue) costringeranno l’esecutivo a una correzione in corsa da 10 miliardi per rimanere col deficit sotto al 3% del Pil. “Le cose potrebbero dover peggiorare prima di poter migliorare”, si legge nel report pubblicato ieri.
Questa è insomma la dimensione della partita che si gioca tra Roma, Berlino e Bruxelles. Le trattative tra i socialisti europei (a cui è affiliato il Pd di Matteo Renzi) e i popolari europei egemonizzati dall’asse del rigore sono in corso: i primi potrebbero affossare la candidatura di Jean Claude Juncker alla guida della commissione Ue se non si troverà un accordo su una interpretazione più flessibile del Patto di Stabilità (e crescita, aggiungono sempre gli italiani). I sostenitori del neo-capogruppo a Strasburgo del Ppe, Manfred Weber - che mercoledì ha duramente attaccato l’Italia e il suo premier per la pretesa di avere maggiore flessibilità sui conti pubblici - si fanno forti del documento programmatico 2014-2019 dei Popolari europei rivolto alla prossima commissione: le regole del Patto, c’è scritto, “devono essere pienamente applicate e rispettate” e “non deve esserci nessun cambiamento o concessione motivata da ragioni politiche”. Non solo: “l’Eurozona deve essere guidata da un presidente permanente dell’Eurogruppo che deve essere anche il commissario agli Affari economici e monetari”. In sostanza, un guardiano dei bilanci dei Piigs.
LA GUERRA, comunque, è ancora ai suoi inizi: si schierano le truppe, si verifica la tenuta del fronte avverso. Angela Merkel, per dire, ieri ha parlato con toni aulici del fatto che la Germania nel 2015 raggiungerà il pareggio di bilancio: “È un cambio di paradigma nella storia della Repubblica federale tedesca”. Un messaggio al suo elettorato che dovrebbe suonare assai preoccupante anche in Italia.
TROPPO DIFFIDENTI? Basta sentire Jens Weidmann, presidente della Bundesbank (un po’ il santuario del rigore), che ieri sera è intervenuto al consiglio economico della Cdu (il partito della Cancelliera) notando con sottile malizia: “Il premier italiano dice che la fotografia dell’Europa è il volto della noia e ci dice cosa dobbiamo fare”. Roba da matti, avrebbe detto se non fosse così educato. Niente critiche dirette a Mateo Renzi, non si usa, ma una serie di stilettate: “Le riforme vanno fatte, non solo annunciate”; “i tassi sui titoli di Stato italiani e spagnoli non sono mai stati così bassi” e “c’è da temere che non vengano usati per fare le riforme ma per finanziare altre spese”; “fare più debiti non è il presupposto della crescita”.
Matteo Renzi ieri non ha parlato di politica economica, ma s’è visto col ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per fare il punto della situazione prima del bilaterale di oggi con la Commissione Ue e dell’Ecofin di lunedì prossimo: la manovra non serve, continua a sostenere il governo. Il punto è che non si tratta di una scelta tecnica: come sempre, prima si deciderà la battaglia politica, poi regolamenti, esperti e consiglieri del principe seguiranno. Persino se tedeschi.

La Stampa 4.7.14
Mediobanca
«Una manovra da 10 miliardi dopo l’estate»
di Luca Fornovo


La luna di miele tra Renzi e la finanza sembra subire un brusco (forse solo momentaneo) colpo d’arresto. Una delle più blasonate banche d’affari arriva a scrivere in un report fresco di stampa che servirà una manovra da almeno 10 miliardi all’Italia dopo l’estate, per riportare in rotta i conti pubblici e rispettare il tetto del 3% di deficit.
A vaticinare nuvoloni e temporali all’orizzonte del governo, non è una qualsiasi Cassandra della finanza, ma Mediobanca. Due suoi analisti, Antonio Guglielmi e Javier Suarez, ritengono inevitabile la manovra per un semplice motivo: il Pil viaggia sotto lo 0,8% previsto dal governo, insomma cresciamo meno delle attese. E alla mancata ripresa si aggiungono altre difficoltà: nuove tasse e tagli alla spesa che penalizzeranno ancora di più la crescita. Ma se come scrive lo studio, «le cose potrebbero dover peggiorare prima di poter migliorare» e quindi nel breve periodo ci saranno nuove «pene» per l’Italia, Mediobanca Securities è invece ottimista sull’impatto già nel 2015 dell’economia del governo, la «Renzinomics».
Gli analisti si aspettano benefici, che verranno da una «lunga lista di possibili buone notizie» che avranno effetto nel 2015 e 2016. Per esempio, Mediobanca accoglie con favore l’apertura di Renzi a politiche keynesiane, come la crescita con investimenti pubblici, perché - scrivono Guglielmi e Suarez - «pensiamo che per l’Italia sia l’unico modo di cominciare rapidamente a crescere». Ma non sarà facile far cambiare idea all’Europa: Renzi vuole un allentamento dell’austerity per aver tempo e risorse per sviluppare le riforme nel Paese. «Ma l’Europa vuole prima le riforme». Un’impresa difficile ma non impossibile visto che, dopo l’affermazione «storica» alle elezioni europee, Renzi ha qualche asso nella manica in più. Anche le mosse della Banca centrale europea verranno in aiuto, in particolare il nuovo programma di finanziamenti «Ltro» alle banche, stimato ieri dal governatore della Bce Mario Draghi in mille miliardi, potrebbero aggiungere, scrivono gli analisti, un 5% circa all’utile per azione delle banche italiane nel 2016», Ubi in testa.
La “Renzinomics” e il mix di riforme che la compone vale 21 miliardi nel 2015, ma per il 30-50% dovranno prima venir accolte dalla Ue. Ecco perché, suggerisce lo studio di Mediobanca, «Renzi deve parlare più forte in Europa» per trovare un compromesso e avere un allentamento o un rinvio del Fiscal Compact. Senza Patto di Stabilità o mantenendo il rapporto debito/Pil al 135% si libererebbero davvero molti soldi: 26 miliardi nel primo anno e 77 miliardi nel quarto.

Il Sole 4.7.14
Renzi e Berlusconi blindano il patto
Ok ai ritocchi sulle soglie dell'Italicum ma la minoranza Pd annuncia battaglia sulle liste bloccate
di Em. Pa.


ROMA «Un buon clima, l'accordo stretto al Nazareno tiene. L'obiettivo è portare a casa le riforme prima dell'estate, le condizioni ci sono». Matteo Renzi è soddisfatto dopo il vertice mattutino con Silvio Berlusconi. Due ore di incontro – il terzo dalla prima sigla del patto del Nazareno il 18 gennaio e il secondo a Palazzo Chigi – per ristabilire l'asse inossidabile sulle riforme al di là del dialogo aperto con Beppe Grillo. Renzi ottiene il sì di Berlusconi alla riforma del Senato necessaria anche per "accreditarsi" in Europa all'inizio del semestre, compresa la non elettività dei neo senatori. E Berlusconi ottiene la garanzia che l'impianto dell'Italicum resterà quello stabilito senza modifiche che non siano concordate: ribadito il no alle preferenze in favore delle contestate piccole liste bloccate, si è ragionato solo sulla possibilità di alzare la soglia per far scattare il ballottaggio dal 37% al 40% e «metodologicamente» di cambiare insieme anche le soglie di ingresso, uniformandole al 4 o 5% sia per i partiti coalizzati sia per quelli non coalizzati come chiede il Nuovo centrodestra. E il risultato è un'accelerazione generale del processo riformatore. «Dopo il voto al Senato sulle riforme si procede entro l'estate anche con la seconda lettura dell'Italicum già approvato alla Camera», assicura uscendo da Palazzo Chigi il vice del Pd Lorenzo Guerini, che ha partecipato all'incontro con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (ad accompagnare Berlusconi Gianni Letta e Denis Verdini).
Durante l'incontro al piano nobile di Palazzo Chigi che ospita l'appartamento del premier c'è stato anche il tempo di due chiacchiere tra il milanista Guerini e Berlusconi sul Milan e sul mondiale di Mario Balotelli. Ma durante il caffè preso faccia a faccia, l'ex Cavaliere ha chiesto e ottenuto di restare interlocutore privilegiato su riforme e legge elettorale. «Facciamole io e te, Matteo». Per Berlusconi, che ha voluto fortemente questo terzo incontro, restare al tavolo delle riforme senza essere scavalcato dal M5S è evidentemente vitale. Anche per avere voce in capitolo su altre questioni, a cominciare dalla giustizia. Come ha riferito Berlusconi incontrando i suoi parlamentari alla Camera nel pomeriggio, «Renzi ci ha promesso che ci coinvolgerà nella stesura dei 12 punti, la riforma della giustizia la faremo insieme. È quella la riforma delle riforme». Da parte sua Renzi non può non tenere aperta la porta del dialogo con i pentastellati, anche se ha rassicurato l'ex Cavaliere che lui resta il partner numero 1 sulle riforme. L'incontro con la delegazione del M5S ci sarà lunedì, e forse proprio per questo Berlusconi ha evitato di chiudere l'agitata assemblea dei suoi con un voto e una decisione definitiva aggiornando in serata la discussione ad un'altra assemblea che si terrà probabilmente martedì. «Siamo disponibilissimi a reicontrare i grillini – ha spiegato Renzi ai suoi –. Ma chiediamo risposte nel merito dei temi che abbiamo posto. Per istruire l'incontro di lunedì, restiamo in attesa di risposte da parte del M5S».
Da parte di Grillo, che ieri ha a sua volta riunito i suoi parlamentari alla Camera, arriva per ora una risposta che è un programma di battaglia: «L'Italicum ha dei caratteri di incostituzionalità. Noi vogliamo le preferenze e vogliamo discutere di questo». Chiaro che essere relegato al ruolo di interlocutore non privilegiato nel giorno della ri-sigillata intesa tra Renzi e Berlusconi innervosisce il leader del M5S. Che va all'attacco definendo tra l'altro Renzi «un bambino». L'impressione di Renzi è tuttavia che Grillo possa presentarsi a sorpresa all'incontro di lunedì assieme a Luigi Di Maio e ai capigruppo. «Non ho informazioni al riguardo, è una sensazione», confida ai suoi. Ad ogni modo il riferimento di Grillo alle preferenze non è certo casuale. È lì che si appuntano le nuove difficoltà per Renzi e per il patto del Nazareno (si veda l'articolo in basso). Il bersaniano Alfredo D'Attorre lo dice chiaro e tondo: «Il nostro via libera al Senato non elettivo è legato in maniera indissolubile ad una legge elettorale senza liste bloccate. Così questa legge non la votiamo».

Il Sole 4.7.14
Quelle preferenze invise al Cav. E anche al premier
Nell'incontro di ieri le liste bloccate sono state date per assodate e si è discusso soprattutto di soglie e tetti
di Emilia Patta


La prossima vera grana per Matteo Renzi ha il titolo "preferenze". La verità è che le piccole liste bloccate dell'Italicum – ossia il sistema proporzionale con liste di pochi nomi, riconoscibili sì ma non scelti direttamente dagli elettori – sono il cuore del patto del Nazareno siglato a gennaio. Fermamente volute da Silvio Berlusconi e non sgradite a Renzi, le piccole liste bloccate restano e resteranno al loro posto. Tanto è vero che nell'incontro di ieri mattina il punto è stato dato talmente per assodato che non ci si è soffermati sopra più di tanto. Mentre si è discusso della possibilità di alzare dal 37% al 40% la soglia per far scattare il ballottaggio e «metodologicamente» di cambiare insieme anche le soglie di sbarramento; il che vuol dire accontentare il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano uniformandole al 4 o 5% sia per i partiti coalizzati sia per quelli non coalizzati. Stop. Il resto dell'impianto dell'Italicum resta lo stesso.
Non solo non ci saranno le preferenze, ma i piccoli partiti in coalizione che non raggiungeranno la soglia di sbarramento contribuiranno comunque a far scattare il premio di maggioranza (o il ballottaggio) così come imposto a suo tempo da Berlusconi. Un partito del 3% come Fratelli d'Italia, insomma, porterà acqua al mulino della coalizione anche se non avrà rappresentanti alla Camera. Su questo punto, così come sulle preferenze, Berlusconi non ha mollato e non è intenzionato a mollare. Renzi lo sa da mesi, naturalmente. Ma è una questione così delicata che è meglio non esplicitarla troppo, e non prima di aver portato a casa il primo sì del Senato alle riforme costituzionali. Per questo Lorenzo Guerini dice che quello sulle preferenze «è un ragionamento aperto». Per questo lo stesso Renzi qualche giorno fa ha pubblicamente aperto alla possibilità di introdurre le preferenze. In Parlamento la minoranza del Pd che ora si rifà all'area riformista è sul piede di guerra e già minaccia di non votare l'Italicum se resteranno le liste bloccate. A conti fatti, si tratta di una trentina di senatori e quasi un centinaio di deputati. E ieri l'ex segretario Pier Luigi Bersani è salito al Colle proprio per esprimere il suo pensiero e la sua preoccupazione su questo punto: con un Senato non più elettivo – è il ragionamento di Bersani – e una Camera eletta con liste bloccate ci ritroveremo un Parlamento di nominati, con gravi rischi per la democrazia. E anche Beppe Grillo, capita l'antifona, si è subito allineato mettendo da parte la proposta di legge elettorale "Democratellum" già bocciata da Renzi e insistendo proprio sulle preferenze: «La loro legge ha dei caratteri incostituzionali, noi vogliamo le preferenze». Per Renzi un asse pericoloso, quello sulle preferenze, che potrebbe incrociare parte del Pd grillini e centristi in una opposizione di fatto al patto del Nazareno. Da qui l'esigenza per il premier di muoversi con cautela sul punto. Portando prima a casa il voto del Senato sulle riforme costituzionali entro luglio.
Personalmente Renzi non ha mai amato le preferenze. Piuttosto, meglio il sistema dei collegi uninominali del vecchio Mattarellum. Ma, accademia a parte, ora il premier ha un motivo squisitamente politico per non strapparsi i capelli in favore delle preferenze. È evidente che le piccole liste bloccate daranno al leader del Pd la possibilità di disegnare più a sua immagine e somiglianza la prossima rappresentanza parlamentare democratica. E l'esperienza di questi mesi ha dimostrato quanto è importante, dal suo punto di vista, avere gruppi parlamentari omogenei per portare avanti le riforme. Mai più Chiti e Mineo, insomma, nella prossima legislatura. Da una parte la fedeltà al patto con l'ex Cavaliere e la necessità di avere in cambio dell'Italicum il sostegno di Fi alle riforme costituzionali; dall'altra la volontà di non lasciare con le preferenze sacche di potere ai "nemici" interni, che potrebbero far leva sul loro radicamento nel territorio per ottenere la ricandidatura: le ragioni politiche in favore delle piccole liste bloccate sono per il premier più profonde di quanto possa sembrare. Più profonde e più solide della propaganda grillina che verrà.

Il Sole 4.7.14
«Grillinum» fuori tempo
di Roberto D'Alimonte


Non sarà Grillo l'interlocutore di Renzi sulle riforme istituzionali. Almeno non per ora. È questo il senso dell'incontro di ieri tra Renzi e Berlusconi. Il patto del Nazareno tiene. Il M5S è arrivato tardi. A gennaio avrebbe forse potuto essere un interlocutore influente.
Dopo tutto il modello di riforma elettorale proposto ora dal M5S non è lontano da uno dei tre modelli indicati da Renzi. Ma a gennaio è stata fatta una scelta diversa che ieri è stata confermata. Ricominciare da capo non ha senso. Per la riforma elettorale si andrà avanti con l'Italicum. Ed è bene che sia così. La proposta del M5S non è campata per aria ma, oltre ad essere arrivata tardi, ha dei limiti che la rendono meno preferibile dell'Italicum.
L'obiettivo principale del nuovo sistema elettorale deve essere quello di garantire che la sera delle elezioni si sappia chi ha vinto. Quello che in gergo si chiama la "decisività" del voto degli elettori. Sono i cittadini a scegliere il governo. Su questo pare che anche il M5S sia d'accordo. Quanto meno immaginiamo che lo sia. Bene, questo obiettivo si potrebbe certamente realizzare anche con il grillinum, ma al costo di sacrificare eccessivamente la rappresentatività. Infatti per ottenere questo risultato si dovrebbero fare circoscrizioni elettorali molto piccole, cioè con pochi seggi da assegnare. Solo in questo modo il sistema elettorale potrebbe produrre un livello di disproporzionalità – vale a dire una distorsione voti-seggi – tale da assicurare che il partito o la coalizione con la maggioranza relativa dei voti ottenga la maggioranza assoluta dei seggi. Però, battendo questa strada, si finisce col penalizzare fortemente la rappresentanza delle formazioni minori.
Lo stesso obiettivo si può ottenere con l'Italicum in maniera più semplice e più trasparente. Infatti con questo sistema di voto se un partito supera una certa soglia – che sia parte di una coalizione o no – avrà comunque un certo numero di seggi. Così anche le formazioni minori sono rappresentate. L'importante è che la soglia non sia troppo elevata. E soprattutto che sia unica per tutti i partiti. E in questo l'Italicum, come abbiamo scritto più volte, andrebbe rivisto. Le soglie attualmente previste sono troppe, troppo elevate e troppo distorsive.
Il vero vantaggio dell'Italicum sul grillinum però è un altro. Si chiama ballottaggio. Nel nostro paese sono in tanti quelli che ancora pensano che proporzionalità e democrazia siano la stessa cosa. E allora è bene che se un partito o una coalizione non ha i voti per ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in base alle prime preferenze degli elettori ci sia un secondo turno in cui contino anche le seconde preferenze. Dopodiché alla maggioranza dei voti corrisponderà necessariamente la maggioranza dei seggi. Detto altrimenti: il meccanismo del ballottaggio legittima meglio la disproporzionalità rispetto a quello delle piccole circoscrizioni. Nella attuale versione dell'Italicum il ballottaggio è previsto solo se un partito o una coalizione non arriva al 37% dei voti al primo turno. In questo caso sono gli elettori che vanno a votare al secondo turno a scegliere il vincitore tra i primi due competitori. Se invece un partito o una coalizione arrivano al 37% al posto del ballottaggio c'è un premio pari al 15% dei seggi che si aggiungono a quelli naturalmente ottenuti da chi arriva primo in termini di voti. È un altro modo di produrre disproporzionalità, ma è peggio del ballottaggio. Per questo sarebbe più funzionale che la soglia del 37% sia alzata. Non si sa se questo sia stato un argomento discusso ieri.
Si sa invece che tra Renzi e Berlusconi si è parlato di preferenze. Per il premier è un argomento ostico. Berlusconi è da sempre contrario. Il M5S ne ha fatto un cavallo di battaglia e la stessa cosa si appresta a fare una parte del Pd. Dare la possibilità agli elettori di scegliere i candidati suona bene. E lo stesso si può dire del Senato eletto direttamente dal popolo anziché dai consigli regionali. Il fatto che le preferenze e l'elezione diretta dei membri della seconda camera siano istituti rarissimi nelle altre democrazie non conta. Ma questo è un dettaglio che si perde nel vortice della retorica politica che caratterizza la discussione su questi temi. Alla fine, se fosse per il premier le preferenze si potrebbero anche introdurre ma è difficile che Berlusconi faccia marcia indietro. E allora vale la pena di far saltare tutto? Una buona riforma elettorale val bene una lista bloccata.

l’Unità 4.7.14
Nuovo Senato e legge elettorale regge l’intesa Renzi-Berlusconi


Un caffè e pochi intimi, nell’appartamento del premier al secondo piano di Palazzo Chigi e due ore di confronto serrato. Da una parte Matteo Renzi e il suo vice al Nazareno Lorenzo Guerini, dall’altra Silvio Berlusconi, Denis Verdini e Gianni Letta, al centro il patto siglato dai due leader sulle riforme e oggi ad una verifica e messa a punto finale.
Clima disteso, Guerini non resiste e da tifoso del Milan cede alla tentazione, Balotelli e il mondiale per un momento hanno la meglio sulle riforme. Berlusconi incassa, ai suoi più tardi dirà che dopo questo mondiali «Balotelli ha perso valore», altro che i 35 milioni di euro su cui si stava trattando per la sua vendita.
IL PATTO DEL NAZARENO
Alla fine dell’incontro tutti si dicono soddisfatti, «il patto del Nazareno tiene », è il bilancio ufficiale. Lo dice Guerini, lasciando il palazzo del governo, «Incontro molto positivo, abbiamo confermato il percorso fin qui realizzato sulle riforme. il confronto è aperto con tutte le forze politiche», e lo dice Denis Verdini a chi lo ferma in Transatlantico per avere notizie. Ma lo dice soprattutto Renzi parlando con i suoi. «Ragazzi, ci sono tutti i presupposti per portare a casa le riforme prima dell’estate».
Ma il senso politico di questo faccia a faccia è stato quello di ribadire a Berlusconi che ogni modifica all’impianto generale delle riforme costituzionali e dell’Italicum non può che essere condiviso prima di tutto fra i contraenti originari di quel patto. Come a dire: non permetteremo a Beppe Grillo di spezzare quel fronte con richieste che non saranno accettate da tutti. «Silvio, quando prendo un impegno io lo porto fino in fondo», l’assicurazione di Renzi al leader azzurro. E l’impegno reciproco è stato quello di andare avanti con la riforma del Senato, anche se Berlusconi conosce bene i malumori nel suo partito, e di accelerare sull’Italicum. E proprio sulla legge elettorale si è discusso più a lungo. Su un punto in particolare: le soglie di sbarramento. L’ipotesi su cui si sta ragionando e quella della soglia del 37% prevista nell’attuale testo licenziato alla Camera. Renzi ha proposto di alzarla fino al 40% per ottenere il premio di maggioranza (ma a quel punto salterebbe il ballottaggio). Berlusconi ha preso tempo ma non ha chiuso, «possiamo discuterne», è stata la risposta. Di preferenze, invece, non si è parlato affatto. «Quelle interessano solo a Grillo», commenta un deputato Pd. E gli interessano così tanto da porta come conditio sine qua non per poter aprire il dialogo. Secca la risposta di Guerini: «Noi abbiamo posto dieci domande al M5s, aspettiamo le risposte. Se accettano le nostre condizioni si parla, altrimenti non si rimette tutto in discussione. Se per loro sono le preferenze la priorità, per noi è la governabilità». Renzi con i suoi è stato chiaro sulla linea da tenere con Grillo (che secondo il premier si presenterà all’incontro fissato per lunedì): disponibilissimi a reincontrarli, «ma chiediamo risposte nel merito dei temi che abbiamo posto». Renzi dice, trasparenza, nessuna puntigliosità, ma prima dell’incontro di lunedì, «vogliamo risposte chiare».
L’INCONTRO CON GRILLO
Ma anche nel Pd ci sono maldipancia, non solo sulla riforma del Senato, ma anche sull’Italicum. Ieri mattina, durante la plenaria di Camera e Senato per il voto per il Csm e la Corte Costituzionale, un senatore ricordava che «quando Renzi è andato a Palazzo Chigi siamo stati chiari: noi ti appoggiamo ma poi sulla legge elettorale devi tener conto delle nostre posizioni». Solo che poi è arrivato quel 40,8% di voti che ha cambiato tutto. Renzi sa che adesso gli elettori aspettano risposte concrete, segnali concreti. E se gli 80 euro sono stati un segnale importante, adesso l’altro passo sono le riforme. Su questo il premier non intende fare un passo indietro e già digerisce male il ritardo e lo slittamento registrato su Senato e Titolo V rispetto alla tabella di marcia che si era dato nei mesi scorsi.
Per questo anche l’apertura del M5s, che Renzi non sottovaluta e ritiene importante, ha un senso, nel ragionamento del premier, se serve ad allargare il consenso parlamentare sulle riforme, a patto che non si traduca in un ulteriore e sterile slittamento. Lunedì alle 3 del pomeriggio ci sarà l’incontro, ma ieri mattina gli sherpa Pd hanno fatto sapere senza troppi giri di parole che il confronto deve essere leale e non è accettabile che da una parte il M5s si dice disponibile al dialogo e dall’altra Grillo continua a insultare Renzi dal suo blog. La novità rispetto a qualche tempo fa è che oggi i deputati grillini sono più cauti e ieri mentre Grillo tornava all’attacco, loro in Aula erano decisamente più morbidi, tanto che Danino Toninelli, intercettato Guerini in Aula lo ha avvicinato spiegando che la cosa più importante è non fermare il dialogo e continuare il confronto.
Ma la giornata di Palazzo Chigi ieri è stata piuttosto intensa anche su altri fronti. Renzi ha incontrato il ministro Padoan e la squadra del Mef per fare il punto in vista del bilaterale con il presidente della Commissione Ue, José Manuel Durão Barroso , questa mattina a Villa Madama e della seduta dell’Ecofin che la prossima settimana presiederà proprio il titolare di via XX settembre. Ma ieri Renzi è tornato anche sulle previsioni nefaste (l’ultima ieri di Mediobanca) di chi ritiene inevitabile una nuova manovra correttiva da dieci miliardi di euro. Renzi rassicura e lancia sassolini: «Ma se non azzeccano una previsione da anni...». Da Palazzo Chigi ribadiscono che non ci sono manovre in vista. Per il premier è solo un altro degli attacchi dei «gufi».

il Fatto 4.7.14
B. va da Renzi, l’inciucio regge
Due ore di colloquio a Palazzo Chigi per approvare le riforme prima della pausa estiva
di Wanda Marra


Sono da poco passate le 8 e mezza quando Silvio Berlusconi varca la porta di Palazzo Chigi, per andare a incontrare Matteo Renzi. Con lui, ci sono Gianni Letta e Denis Verdini. Con il premier c’è Lorenzo Guerini, lo stesso che andò a prendere l’ex Cavaliere all’entrata del Nazareno, lo scorso 18 gennaio. Quel giorno dal quale è partita la collaborazione tra i due, abbastanza forte da permettere all’allora segretario di potersi giocare la carta delle riforme con FI anche “defenestrando” il governo Letta. “L’accordo tiene”, è il messaggio che Renzi a incontro finito vuole mandare a tutti: dall’Europa al Parlamento italiano.
È LA TERZA volta che i due si incontrano (la seconda a Palazzo Chigi): un canale di comunicazione lo hanno instaurato da subito. Berlusconi è estremamente cordiale, ai limiti della mansuetudine. Renzi è più istituzionale di quel che ci si aspetterebbe: ha il coltello dalla parte del manico. Non manca il solito sfogo dell’ex Cavaliere: “Questi magistrati ce l’hanno tutti con me”, dice, con tanto di preoccupazione sulla sentenza di Appello in arrivo su Ruby. B. sa che l’altro ha trovato molte resistenze dalla magistratura. E dunque, batte sul tasto dell’empatia. Renzi ci tiene a raccontare gli sforzi che sta facendo per combattere chi, tra mandarini nei Palazzi e poteri forti, frena le riforme. E in Europa per piegare i rigoristi e tornare alla crescita. "Ieri hai capito come sono questi tedeschi", lo spalleggia B.. La simpatia, la stima per il più giovane premier sono palpabili e gli fanno commentare, non senza invidia: “La sinistra ha trovato un leader sotto al cavolo”. Non manca neanche la recriminazione: “Le europee sono andate male, perché mi sono messo a fare le riforme con voi”. Ma Renzi lo richiama al punto: “È una grande occasione, è importante per l’Italia. Così farai il padre costituente”.. I due a un certo punto si prendono un caffè da soli. I voti di Forza Italia sul Senato sono condizionati a un accordo sulla riforma della giustizia, non a caso congelata. Nel dettaglio non entrano, ma Berlusconi chiede formalmente di partecipare alla scrittura delle regole. Il clima è talmente rilassato che alla fine Guerini, da milanista, si lascia scappare la battuta calcistica: “Non è che vendete De Sciglio?”. “No, no, tranquillo , non si vende”. Nel merito, dunque, l’accordo, viene registrato. Non blindato. Perché poi la fronda dentro FI è immensa e la dissidenza nel Pd un’incognita. E dunque: la riforma del Senato dovrà essere approvata così com’è prima dell’estate. Con qualche punto di modifica: l’immunità potrebbe essere riformulata, ma non è centrale. Si discute sulla modalità di elezione del presidente della Repubblica. Gettonatissimo l’emendamento di Francesco Russo, quello che prevede che dalla terza votazione si vada avanti ad oltranza con una maggioranza richiesta dei tre quinti. Resta la questione legge elettorale. Tema decisivo: perché l’Italicum così com’è non consentirebbe il voto neanche se fosse approvato (vale solo per la Camera). I due si accordano per iniziare l’iter a Palazzo Madama prima dell’estate. C’è in ballo la questione soglie: si tratterebbe di alzare quella di accesso al premio di maggioranza (al 40%) e quella di ingresso in Parlamento. Di preferenze non si parla: FI non le vuole, i senatori di minoranza Pd annunciano battaglia per introdurle. E allora, ecco che potrebbe partire il piano B: Renzi per lunedì ha in agenda l’incontro con i Cinque Stelle. Si riparte dall’Italicum. Ma il gioco potrebbe essere di portarli a un accordo sul Mattarellum, sistema pronto all’uso, con la possibilità di decidere quando staccare la spina alla legislatura senza dover correre il rischio di un voto con un proporzionale puro. Matteo a sera commenta che con B. il clima è stato buono. Ma soprattutto si dice “disponibilissimo” a rincontrare” il M5S, se arrivano “risposte nel merito”.

La Stampa 4.7.14
Tra i due leader di Pd e Forza Italia
Quattro punti chiave per un patto di sistema
Senato, Italicum, giustizia. E una rassicurazione su Mediaset
di Ugo Magri e Fabio Martini


Due telefonate segrete la dicono lunga sui rapporti che corrono tra Berlusconi e Renzi. Ieri mattina, prima di recarsi dal nuovo giovane padrone d’Italia, l’ex Cavaliere ha chiamato il figlio Piersilvio. Per fargli sapere quanto era piaciuta a papà la pubblica uscita del giorno prima a sostegno del premier: «Non avresti potuto scegliere un momento migliore. Con i tuoi elogi tu mi hai fatto un assist meraviglioso. Ora io devo soltanto metterlo in rete...». Già, perché l’incontro con Renzi non è servito solo a mettere in sicurezza la riforma del Senato e del Titolo V. Né semplicemente a ribadire che l’«Italicum» non si tocca, e anzi proprio dal testo approvato alla Camera si dovrà ripartire. Nelle due ore di colloquio al terzo piano di Palazzo Chigi sono state gettate le basi per un’intesa a 360 gradi, che si proietta su temi cari all’ex Cavaliere come la giustizia o le televisioni, e addirittura prefigura una collaborazione stretta quando ci sarà da eleggere il nuovo Presidente della Repubblica (il giorno, è chiaro, che Napolitano riterrà di avere concluso la sua missione).
L’altra telefonata rivelatrice è delle nove di ieri sera. Cioè dopo che Forza Italia era precipitata nel caos, e non si capiva più se Silvio avesse ancora in pugno la situazione. «Non devi minimamente preoccuparti», ha dato la sua parola Verdini a Renzi, «perché Berlusconi mi prega di farti sapere che lui resta fedele alle intese. Semplicemente, oggi ha lasciato che i suoi parlamentari si sfogassero un po’. Ma è sicuro che, tempo qualche giorno, torneranno tutti all’ovile». Non saranno dunque Brunetta e Minzolini a far saltare un patto che guarda lontano, e mira ad affrontare di comune accordo argomenti finora considerati «tabù». Basti dire che nella «riforma complessiva della giustizia» promessa da Renzi a Berlusconi ci sarà anche la nuova normativa sulla responsabilità civile dei giudici, un articolato non punitivo, che non prevederà la rivalsa sul singolo magistrato, ma che sul «modello europeo», amplierà le maglie - attualmente strettissime - per perseguire una «colpa grave». Tra un sorso e l’altro di caffè si è chiacchierato - e trovato anche un’intesa di massima - sulle nomine alla Consulta e al Csm di indicazione parlamentare: per i giudici della Consulta l’intesa prevede un giudice (donna) al Pd e uno a Forza Italia; degli otto membri “laici” in votazione in questi giorni, 4 andranno al Pd e 4 agli altri partiti.
Rientrato da Strasburgo, ieri mattina il presidente del Consiglio ha affrontato l’incontro con Berlusconi con la consueta nonchalance ma con un imperativo categorico molto pragmatico: blindare una volta per tutte le due riforme che più gli garantiscono il futuro. Anzitutto la riforma del Senato che per Renzi è più strategica di quanto appaia perché «diventerà la vera leva anti-casta, l’ arma con la quale il premier potrà affrontare le varie corporazioni con un argomento decisivo: la politica ha fatto il suo dovere, ora tocca a voi», come spiega il vicepresidente dei senatori Giorgio Tonini, l’unico renziano che a febbraio disse pubblicamente a Renzi - ricevendone soddisfazione tre mesi dopo- che quel Senato di sindaci non aveva molto senso. Nell’incontro del salottino, presenti oltre a Verdini pure Letta (lo zio Gianni) e Guerini, Berlusconi ha preannunciato a Renzi che piegare la resistenza dei suoi senatori sulle barricate non sarebbe stato facile, ma alla fine ha annuito: la riforma del Senato si può fare. Naturalmente Renzi voleva blindare - e Berlusconi anche su questo ha detto sì - la legge elettorale nella versione che più conviene al Pd: doppio turno e ballottaggio. Come dice Renzi: «A Berlusconi non è mai piaciuto il ballottaggio ma lo ha accettato, come a me non sono mai piaciuti tanti aspetti della legge elettorale che ho accettato».
Se si dà retta al giro berlusconiano, il padrone di Mediaset avrebbe profittato dell’incontro per chiedere precise garanzie circa il destino del le sue aziende. Dettate dal timore che il governo possa recepire qualche direttiva europea relativa al tetto della pubblicità: tema caro a un renziano convinto qual è Gentiloni. Che già in passato si era battuto da ministro per limitare l’affollamento pubblicitario sulle reti del Biscione. Non si sa in quali termini Berlusconi abbia sollevato il problema, tantomeno in che modo Renzi abbia risposto. Ma che se ne sia parlato durante il faccia a faccia, ai vertici di Forza Italia ne sono tutti arci-convinti. Al punto che molti senatori in rivolta, neppure troppo sottovoce, hanno protestato: «Per difendere le sue ragioni, Silvio sacrifica le nostre. E non è la prima volta...».

Repubblica 4.7.14
Bersani in trincea: “No ai nominati”
Nel Pd parte la battaglia contro la blindatura dell’Italicum
Cuperlo: le liste bloccate sono irricevibili
Un nutrito drappello di senatori pronto a disobbedire: il Senato non elettivo passa se si apre alle preferenze
di Giovanna Casadio


ROMA. «Discutiamo nel Pd prima di tutto, non è obbligatorio che ci sia sempre Berlusconi di mezzo». Alla vigilia dell’incontro di Palazzo Chigi, Pierluigi Bersani, che pure dice di volere mantenere un basso profilo, non può trattenere una battuta sull’Italicum: «Non va, non va - scuote la testa - non possiamo sommare nomine a nomine, poi cosa verrà, il Grande Nominatore... ». E lo stato d’animo dell’ex segretario democratico è la cartina di tornasole di quello che accade nelle file del Pd dopo il faccia a faccia tra Renzi e l’ex Cavaliere, con la conferma del patto del Nazareno sia sul nuovo Senato che sulla legge elettorale. È la blindatura dell’Italicum a provocare una rivolta democratica.
Scende in trincea non solo “Area riformista”, la corrente che tiene insieme bersaniani, dalemiani, alcuni lettiani ed è capitanata dal capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza. Il malumore si estende a macchia d’olio. Gianni Cuperlo di Sinistra dem è lapidario: «Le liste bloccate sono irricevibili. E sono tra l’altro una delle ragioni che ha provocato lo scollamento dei cittadini dal Parlamento e dalle istituzioni. Il patto del Nazareno non vale se il Parlamento decide altrimenti ».
Per calmare le acque sull’Italicum, Renzi avrebbe bisogno di un po’ di tempo, di lasciare passare l’estate. Ma Berlusconi ha imposto una accelerazione, un via libera alla trasformazione del Senato in Camera delle autonomie non elettiva, così come Renzi la vuole, a condizione di incassare in fretta l’accordo politico sulla legge elettorale così com’è. Niente preferenze, neppure collegi uninominali: è il diktat forzista. Ecco che il nervo scoperto del Pd si fa dolente. Alfredo D’Attorre, deputato democratico, annuncia che c’è un nutrito drappello di parlamentari, anche di senatori, pronto a disobbedire. Pone un aut aut: «Non c’è accordo con Berlusconi su questo che possa tenere. Il via libera al Senato di non eletti è legato al fatto che si vada a una legge elettorale senza liste bloccate». Il cerino è nelle mani di Renzi. Il vice segretario Lorenzo Guerini racconta ai dem che gli chiedono notizie più dettagliate, che sulle preferenze non si è approfondito. Fa intendere che comunque la risposta del leader di Fi è “no”. Berlusconi è disposto - spiega Guerini - ad aggiustamenti, ad esempio sulla soglia da alzare per accedere al premio di maggioranza. Stop. «Se si cambia, si cambia insieme », è il leit motiv uscito dall’incontro di Palazzo Chigi.
Non a caso, a mettere il dito nella piaga è il grillino Luigi Di Maio, in vista dell’incontro che il Pd ha fissato con i 5Stelle lunedì pomeriggio e al quale Renzi pensa possa essere presente Grillo. «Non ho informazioni, è una sensazione», ha confidato il premier-segretario. Di Maio appunto, sostiene che sarebbe stato bello lo streaming da Palazzo Chigi, tanto per vedere se Renzi e Berlusconi alla fine hanno parlato di preferenze. Una cosa tuttavia è certa per i senatori dem: se si tira la corda sull’Italicum e lo si ingessa «succede la rivoluzione nel Pd e pure nei piccoli partiti». Già il Nuovo centrodestra con Quagliariello e con Sacconi hanno dato l’alt: «L’Italicum va corretto ». Offrono così la sponda al dissenso democratico. Un asse potrebbe crearsi quindi al Senato tra i dem a favore delle preferenze, i 5Stelle e gli alfaniani. Anna Finocchiaro, la presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, è molto cauta sui tempi. Ai colleghi del Pd che le hanno chiesto i tempi previsti dell’Italicum, ha risposto elencando il calendario dei lavori parlamentari: incardinare in commissione la legge elettorale si può, sapendo però che il via libera al nuovo Senato richiederà ancora un po’ di tempo, che dopo c’è la riforma della Pubblica amministrazione, i decreti in scadenza... Tempo che può essere utilmente impiegato per trovare mediazioni indispensabili. Maria Elena Boschi, la ministra delle Riforme, si è spinta a parlare di liste più corte, di 3 o 4 candidati, nell’Italicum. Niente di più. Ma nel Pd potrebbe non bastare.

Repubblica 4.7.14
Patto tra Renzi e Berlusconi ma Forza Italia si spacca
“Senato eletto o salta tutto”


ROMA. Due ore di colloquio a Palazzo Chigi fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi per “muovere” il carro delle riforme. Alla presenza di Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd, e dei fidati berlusconiani Gianni Letta e Paolo Romani, si è deciso di blindare l’accordo sul Senato e di arrivare all’approvazione definitiva dell’Italicum a Palazzo Madama prima della pausa estiva. La legge elettorale dovrebbe passare così senza modifiche: quindi niente preferenze o collegi e niente modifiche alle soglie di sbarramento e per il premio. Durante il colloquio sembra che Berlusconi abbia però proposto di allargare il “metodo” che si sta usando anche alla riforma della giustizia, chiedendo di partecipare alla stesura dei progetti annunciati lunedì. Il premier nega però che durante l’incontro si sia parlato di giustizia.
Forte di questi risultati, l’ex Cavaliere si è presentato all’attesissima assemblea dei suoi gruppi parlamentari.
Ma nella Sala della Regina di Montecitorio la discussione è stata molto accesa. Deputati e senatori si sono spaccati e la fronda, invece di rientrare, si è allargata. Un gruppo di senatori, guidati da Augusto Minzolini continua a chiedere che i senatori vengano eletti e non designati.
Per uscire dall’impasse Berlusconi ha deciso di aggiornare l’assemblea alla settimana prossima. Nel frattempo Beppe Grillo rilanciava sulla legge elettorale e accusava: «La nostra è costituzionale, quella fatta dai loschi no. Noi vogliamo ragionare, ma la loro legge è già finita». Comunque lunedì è previsto un incontro fra il Pd e i grillini per discutere di legge elettorale. Grillo non ci andrà, ma in serata ha fatto sapere che ci potrebbe essere un accordo se si abbassasse la soglia per il premio di maggioranza e si tornasse alle preferenze.

Corriere 4.7.14
Il lodo Boschi offerto all’ex Cavaliere
Il gioco delle preferenze mascherate
di Francesco Verderami


ROMA — Altro che riforma del Senato, Renzi e Berlusconi stanno per chiudere l’accordo sulla riforma elettorale, unico tema che ormai interessa il Cavaliere, a parte la salvaguardia delle aziende. E se l’ex premier chiede «precise garanzie» per evitare che Forza Italia venga «scalata» alle prossime consultazioni, il premier è pronto a offrigli un compromesso che prevede le preferenze senza di fatto prevederle. Sono i miracoli della politica creativa, stanno dentro un dossier del ministro per le Riforme che la prossima settimana sarà recapitato a Verdini, l’esperto berlusconiano della materia.
Il «modello Boschi» all’apparenza è semplice, stabilisce che i capilista di un partito scattino automaticamente con la conquista del primo seggio: di fatto sarebbero dei «nominati». Gli altri candidati, invece, si disputerebbero lo scranno di Montecitorio attraverso i consensi. Nulla di strano: questo sistema potrebbe essere interpretato come un meccanismo di garanzia per i gruppi dirigenti. Se non fosse che — grazie a una serie di «accorgimenti tecnici» — con l’Italicum si produrrebbe un effetto «blindatura» dei gruppi parlamentari. La competizione in base alle preferenze avverrebbe solo per il partito vincente, mentre le forze sconfitte entrerebbero alla Camera — in larga misura — con i deputati prescelti.
Insomma, chi perdesse nelle urne potrebbe contare sui «nominati» a Montecitorio. E al momento non ci sono dubbi su chi sia il favorito alle prossime elezioni. Se saranno tra un anno o addirittura nel 2018, non è possibile prevederlo, né la deadline della legislatura sta dentro il patto tra Renzi e Berlusconi, questo è certo: il Cavaliere è troppo debole politicamente per imporre un accordo sul tema al premier. Semmai l’accelerazione impressa ieri nell’incontro a palazzo Chigi tra i leader del Pd e di Forza Italia è frutto di un’intesa che il Quirinale apprezza. È difficile che la riforma venga esaminata dal Senato prima dell’estate, mentre è più probabile che in autunno l’Italicum faccia la spola tra i due rami del Parlamento incrociando la legge di Stabilità, per essere definitivamente approvata all’alba del prossimo anno.
C’è un motivo se il Colle guarda con favore a questa soluzione. Nel caso il timing venisse rispettato, e le Camere nel frattempo avessero esaminato in prima lettura la modifica del bicameralismo, il capo dello Stato potrebbe a quel punto decidere di porre termine al proprio mandato presidenziale. Politicamente però il varo della legge elettorale fornirebbe a Renzi l’arma che al momento è scarica. Resta da capire come mai Berlusconi abbia accettato di caricare quell’arma che farebbe del premier il dominus incontrastato del Parlamento, più di quanto non lo sia già oggi. Non c’è dubbio che l’offerta di compromesso sul meccanismo delle preferenze sia parte dello «scambio», ma il patto ha alimentato i sospetti verso il Cavaliere da parte degli (ex) alleati di centrodestra, cogliendo impreparata la Lega e spingendo Fratelli d’Italia a etichettare Berlusconi come «un nuovo iscritto al Pd».
In effetti la mossa sembra avere il sapore della resa. Anche in Forza Italia — nei giorni scorsi — l’opzione di accelerare sulla legge elettorale veniva considerata «una follia» da parte di Fitto: «Così daremmo a Renzi la possibilità di scegliere il momento a lui più propizio per portarci al voto». Già, però a sua volta il Cavaliere — grazie al «lodo Boschi» — potrebbe andare allo show down nel partito, facendo piazza pulita dei «rivoltosi» e garantendosi un gruppo parlamentare più piccolo ma più fidelizzato. Ed è evidente che la mossa sa di Opa ostile anche verso le altre formazioni di centrodestra. Perciò, per verificare la bontà dell’«appello alla federazione» lanciato ieri dall’ex premier, bisognerà vedere se accetterà di abbassare le soglie minime di ingresso per i partiti più piccoli. La legge elettorale era il core business del patto tra Renzi e Berlusconi, fin dai tempi del Nazareno. Quanto alla riforma del Senato, Berlusconi ha promesso per la prossima settimana ai suoi parlamentari un altro «dibattito»: la nuova liturgia di Forza Italia ricorda tanto quella del vecchio Pd.

Corriere 4.7.14
Ma l’ex premier affronta i malumori interni: decido entro martedì
di Paola Di Caro


ROMA — Sfogatoio doveva essere e sfogatoio è stato. Con un finale a sorpresa. Perché lo stesso Silvio Berlusconi che in mattinata — dice un fedelissimo — con Renzi aveva siglato «ogni tipo di patto, dalle riforme alla legge elettorale, dal criterio di elezione del capo dello Stato alle garanzie su giustizia e aziende», alla fine delle oltre tre ore di dibattito accesissimo fra i suoi parlamentari ha aggiornato la riunione a martedì prossimo per poter «riflettere e decidere quale linea tenere». Un’apertura che fa felici i tanti senatori che avevano espresso il loro malumore e dissenso — da Minzolini a Caliendo alla Bonfrisco a Malan, dalla Mussolini a Di Staso —, ma anche chi fra i deputati aveva contestato il merito della riforma e soprattutto il metodo dell’abbraccio soffocante e pericoloso con Renzi, come il capogruppo Brunetta e Daniele Capezzone, che si dice «lieto» che si possa «lavorare a impegni riformatori senza subire diktat». Ma l’apertura, al contrario, innervosisce chi all’accordo ha lavorato per mesi, come Denis Verdini, che ha lasciato la riunione arrabbiato e che avrebbe voluto da Berlusconi un comunicato chiaro in cui si confermava l’impegno sulle riforme. Non è arrivato, ma lo stesso Verdini in serata ha rassicurato Renzi a nome di Berlusconi che «il patto regge». Anche il capogruppo al Senato Paolo Romani — attaccato nella riunione da Brunetta («Al Senato deciderai tu, ma alla Camera no, decido io!») —, a sera assicurava che «il presidente Berlusconi rimane convinto che l’accordo sulle riforme costituzionali vada mantenuto», anche se servono ancora «ulteriori approfondimenti». E dalla Gelmini («FI discute, si confronta e si schiera unita come sempre per le riforme!») alla Bernini, dalla Santanché alla Bergamini è un coro: non si può rompere e non si romperà. Ma per dirla con un ex ministro si è assistito a «un suicidio collettivo», in cui la linea politica sulla quale Berlusconi ha sempre detto di essersi attestato e che è stata amplificata due giorni fa dal figlio Pier Silvio, è tornata in discussione. Perché il Cavaliere, che pure — raccontano — si era complimentato con il figlio («Mi hai fatto un grande assist con le tue parole» di sostegno a Renzi e alle riforme), nella riunione ha mantenuto una certa ambiguità. Ha ascoltato i tanti interventi contrari di chi pretende l’elettività dei senatori (secondo Brunetta sono stati «18 a 2», ma a favore hanno parlato Verdini, Romani, Gasparri e Ravetto), e ha dato atto ai contestatori di avere «molte ragioni». Dopo aver bacchettato i suoi per le quote dovute al partito e non ancora pagate, ha anche ammesso che sul presidenzialismo da Renzi non ha ottenuto praticamente nulla, perché «lui dice che bisognerebbe riscrivere tutta la Costituzione...». Ma ha spiegato che le riforme vanno fatte perché lo si deve al Paese, perché «su queste materie bisogna accettare compromessi», perché Renzi ha fatto aperture importanti «sulla giustizia» e perché in fondo il premier «è leale, io mi fido». Troppo poco per trascinare verso il sì i tanti scontenti, tanto che Gasparri è stato quasi brutale: «Io non la penso come te presidente su Renzi e tantomeno come tuo figlio, ma se ci vai a prendere il caffè a Palazzo Chigi è perché il patto c’è: allora, votiamola questa riforma, ma avvertiamo che, se si tocca qualcosa dell’Italicum che è la nostra àncora di salvezza, al prossimo passaggio parlamentare voteremo contro le riforme». Ipotesi che convince tanti, ma non Brunetta e gli almeno 20 senatori pronti a dare battaglia, convinti che ci siano già «almeno 25 colleghi del Pd pronti ad unirsi a noi e a incontrare Berlusconi». E a sera Brunetta sventola la bandiera dei ribelli: «È stata una bellissima riunione: Berlusconi sa che tutti vogliamo andare avanti sulle riforme, ma non esistono solo le condizioni di Renzi, non è che lui decide e noi ci adeguiamo, questo è un patto leonino. La maggioranza dei senatori azzurri vuole l’elezione diretta dei senatori, non possiamo far finta di niente. Ci si può fermare e trovare l’intesa. Avremo giorni per riflettere...».

La Stampa 4.7.14
Psicodramma in Forza Italia E Verdini finisce accerchiato
Rivolta del partito contro l’accordo. Brunetta: sospendere tutto, finché non decidiamo
di Amedeo La Mattina


Una riunione così non si era mai vista. Berlusconi che dice di non avere mai chiuso un accordo con Renzi su un Senato non eletto dal popolo («mi sono concentrato di più sulla legge elettorale»). Verdini che a quel punto perde le staffe, se ne va sbattendo la porta della sala della Regina, poi ritorna e racconta che invece quell’accordo c’è, eccome. Il vulcano esplode quando Brunetta chiede di prendere tempo, cambiare i patti su un punto: «Il Senato deve essere elettivo, non di secondo grado con sindaci e consiglieri regionali. Chiediamo alla Finocchiaro (la presidente della commissione Affari costituzionale del Senato ndr) di sospendere le votazioni in attesa di una nostra decisione. Renzi ha cambiato sei volte idea sulla legge elettorale e una ventina sulla riforma costituzionale: avremo diritto anche noi di avere un po’ più di tempo...». E questo dovrebbe essere proposto dopo che in mattinata, a Palazzo Chigi, il Cavaliere aveva detto a Renzi «Matteo stai tranquillo, voteremo le riforme». Romani, l’altro capogruppo che dovrebbe portare la «buona novella» alla Finocchiaro, risponde «non se ne parla, questo è un suicidio collettivo». Minzolini che replica «il suicidio collettivo è quello che ci proponi tu e Denis (Verdini ndr): alla fine Renzi incassa quello che vuole e ci porta lo stesso a votare e saremo asfaltati, ma lo capite o no?». «Ma siamo impazziti - sbotta furente Verdini - siamo al secondo tempo della partita e andiamo a dire all’altra squadra che si ricomincia tutto daccapo?». 
Verdini ha il volto rosso fuoco, parla in maniera talmente agitata che la Santanché si preoccupa: «Oddio, se continua così gli viene un infarto». Ma Capezzone non ha pietà: «Non possiamo accettare che Renzi ci dica “facciamo in fretta, veloci”, e noi pieghiamo la testa come cagnolini». In tutto questo Berlusconi è cupo in volto. A chi gli fa notare che l’uscita dai mondiali dell’Italia è una sconfitta per Renzi, lui risponde che il vero sconfitto è lui visto che le quotazioni di Balotelli sono precipitate. E poi non c’è solo la riforma costituzionale da valutare: c’è la legge elettorale che costringe i piccoli partiti ad allearsi con F.I. E c’è anche la possibilità di una buona riforma della giustizia: Renzi ha promesso che si farà insieme.
Uno scontro così aperto e plateale di fronte a un attonito Cavaliere non si era mai verificato in un’assemblea di parlamentari azzurri. Uno scontro drammatico sulla linea politica da tenere rispetto alle riforme e al governo. Una cosa del genere si era vista solo nel Pdl quando Berlusconi decise di abbandonare le larghe intese con Letta e ne venne fuori la scissione di Alfano. Non siamo alla rottura dolorosa del 2013, anche perché ai «ribelli» non passa per l’anticamera del cervello di abbandonare il partito. Però la battaglia cruenta c’è stata, sono volati gli stracci, il Cavaliere non è riuscito a convincere un bel pezzo dei suoi della bontà delle sue intese con l’amico Renzi (gli interventi contro sono stati una ventina).
Per la prima volta nei capannelli dei tanti «resistenti» (non certo davanti al vecchio capo che non ruggisce più) si sono sentite parole irriverenti: «Questa è una resa incondizionata a Renzi. Berlusconi ci vuole immolare sull’altare degli interessi della sua azienda». Sono stati passate ai raggi X le dichiarazioni di Piersilvio Berlusconi: un vero endorsement politico. «Cosa c’è dietro tutto questo?». Le risposte che gli oppositori si sono dati è sulla bocca di tutti: il Cavaliere teme per le sue aziende, teme per se stesso e per suo figlio (i processi Ruby e Mediatrade). 
C’era molto non detto all’assemblea di ieri a Montecitorio. Paure, timori, necessità di ridurre il danno. «Noi non dobbiamo temere niente, una grande forza politica non teme nulla», spiega Brunetta che sottolinea una mezza vittoria. Ieri infatti non è stato deciso nulla: la riunione è stata aggiornata a martedì prossimo. «Decidere insieme nell’unità - insiste Brunetta - ma una cosa è sicura: non ci possono essere fughe in avanti». È Berlusconi che decide di rinviare tutto perchè rimane «colpito» dalla raffica di interventi contro (anche quelli dei senatori Bonfrisco, D’Anna, Caliendo) che si susseguono dopo il suo intervento nel quale spiega le intese chiuse in mattinata a Palazzo Chigi con il premier. E invece no, il giocattolo gli si è rotto in mano e l’asse Verdini-Romani, al quale è stato chiamato a dare mano forte Gasparri, ha tremato.
L’ultima parola spetta al Cavaliere, ma il timore di Verdini è che alla fine Berlusconi dirà «andiamo avanti con le riforme insieme a Renzi, ma non sono io a volerlo: è Denis che insiste tanto...». La stessa cosa fece quando ruppe le larghe intese e buttò la colpa sui falchi, i soliti Verdini, Santanché e Fitto. Già Fitto: in tutta questa baraonda risulta non pervenuto. 

La Stampa 4.7.14
L’ombra sinistra della Commissione Bicamerale
Sembrava fatta, ma alla fine Berlusconi ci ha ripensato
di Marcello Sorgi


Sembrava fatta, ma alla fine Berlusconi ci ha ripensato. Aveva detto di sì, non dice di no, ma la rivolta, forse una mezza rivolta, dei parlamentari di Forza Italia, lo ha convinto a prendere tempo, dopo l’incontro con Renzi in cui si era impegnato a far passare la riforma del Senato e ad appoggiare anche la nuova legge elettorale, l’Italicum. Tutto, ovviamente, continua a spingere in direzione dell’accordo, a cominciare dalle pressioni della casa madre a cui ha dato voce Piersilvio Berlusconi, autore di un’imprevedibile (almeno per i toni) apertura a Renzi.
Ma sulla strada dell’intesa, quando addirittura nei corridoi parlamentari si vociferava di un patto generale, dalle riforme alla giustizia alla tv, s’è messo di traverso l’asse Brunetta-Minzolini. Alleanza più strana di questa era difficile immaginare. Il solforoso capogruppo dei deputati, al fianco del Cavaliere nell’ultima campagna elettorale con le sue sorprendenti proposte economiche, e l’ex-direttore del TG1 interprete della linea dura berlusconiana con i suoi famosi editoriali iperschierati. In realtà i due - convinti che «l’abbraccio mortale» con Renzi, per citare il famoso fuori onda di Toti e Gelmini, non porti da nessuna parte, ed anzi acceleri la crisi del centrodestra e quella della leadership di Berlusconi - marciano divisi per colpire uniti. Brunetta, sia nei vertici ristretti con il Cavaliere, sia nelle assemblee, tiene duro e riesce a far saltare ogni tentativo di mediazione, come quello che da mesi senza successo sta portando avanti il capogruppo al Senato Romani. Sul fronte del quale, e contro il quale, lavora incessantemente Minzolini, che è riuscito a organizzare, non solo un sottogruppo di dissidenti che annovera ormai una trentina di senatori, ma anche un collegamento sotterraneo con gli oppositori interni del Pd, sconfitti in commissione dalle epurazioni di Chiti e Mineo, ma pronti a ricominciare la loro guerriglia al momento delle votazioni in aula.
Non si tratta più soltanto di difendere il Senato elettivo o aumentarne i poteri che stanno per essere drasticamente ridotti in confronto a quelli dei deputati. La partita vera, tutti lo dicono sottovoce, è quella di infliggere a Renzi una prima dura sconfitta parlamentare sul terreno su cui il premier ha scommesso di più, anche a costo di scontare il rischio di nuove elezioni anticipate.
Ma alla fine Berlusconi che farà? Ragionerà e richiamerà all’ordine Brunetta, Minzolini e i dissidenti - dicono le voci che vengono dall’azienda di famiglia. Farà come ha fatto sempre, all’ultima curva farà saltare il tavolo, per non farsi ingabbiare in un accordo che porterebbe alla sua definitiva emarginazione, sostengono, in Forza Italia, gli avversari del patto. L’ombra della Bicamerale di D’Alema torna dunque ad allungarsi sulla legislatura?

Corriere 4.7.14
Grillo vede i suoi e attacca: Italicum incostituzionale
Lunedì vertice Renzi-M5S: io non andrò
di Emanuele Buzzi


MILANO — Le riforme? «Le appoggeremo o non le appoggeremo, dipende da cosa proporranno». Beppe Grillo lascia la porta socchiusa al tavolo del dialogo con il Partito democratico. Il leader trascorre il suo blitz romano — prima della festa per il 4 luglio all’ambasciata americana — tra incontri separati, sia con la delegazione che lunedì vedrà nuovamente i democratici sia con i parlamentari del Movimento.« Ci siamo divisi in otto gruppi, uno contro l’altro», scherza al termine del suo doppio vertice a Camera e Senato. Precisa che lui non andrà da Renzi perché è «un emotivo». Ma oltre alle speranze e alle battute, Grillo mette in chiaro che la trattativa è in salita. «La nostra legge elettorale è costituzionale, quella fatta dai loschi no — attacca —. Noi vogliamo ragionare, ma la loro legge è già finita». Liquida l’incontro tra il premier e Silvio Berlusconi con un «pazzesco» e riserva a Matteo Renzi qualche stilettata: «È un po’ boriosetto. Forse ci crede ma è usato dai poteri forti. Vi ricordate Scajola? Renzi è andato un po’ oltre l’inconsapevolezza. Non so se mi fido». Frasi che fanno il paio con quelle del fuorionda — diffuso da Corriere.it — alla festa per l’Indipendenza americana organizzata a Milano dal consolato statunitense. «Renzi adesso rappresenta 10 milioni» di elettori, « allora adesso ci colloquiamo. Prima era un bambino, veniva lì a dirci il nostro programma e ancora adesso ci ha risposto, se leggi la lettera, con il compitino. Fa il presuntuoso, fa il bambino...».
Dentro al palazzo, parlando con deputati e senatori (assente qualche dissidente), Grillo ha motivato la scelta del dialogo con il Pd. «Dobbiamo resistere e dare un’immagine positiva del Movimento 5 Stelle alla gente che ne è rimasta terrorizzata. Trasmettiamo al meglio la nostra visione del mondo». E ancora: «Se viene fuori l’arroganza di Renzi tanto meglio». Il passo decisivo, avrebbe spiegato il leader ai suoi, è passare dalle proposte agli esempi concreti di come il Movimento «può cambiare il Paese». Sul blog, oltre a un nuovo scontro sulle scuole di formazione politica con Parma, nuovi affondi contro la stampa — «Il giorno della chiusura dei giornali si avvicina» — e una autocritica sulla tv («È stato un errore andarci che non sarà più ripetuto»).
L’attenzione, comunque, è tutta sul vertice con il Pd. «Lunedì sarà un incontro al quale arriveremo più preparati del precedente, vedrete che ci saranno delle sorprese», avrebbe detto il leader secondo il senatore Vito Petrocelli. In serata, a Villa Taverna, Grillo a chi gli domanda se, sulla legge elettorale, sia possibile trovare un accordo con il Pd inserendo le preferenze e un premio di maggioranza più basso, risponde: «Potrebbe esserci un accordo». Luigi Di Maio — che farà parte della delegazione — precisa che il M5S non si presenterà «a scatola chiusa». Al summit la novità sicura sarà la presenza di Paola Carinelli, neo-capogruppo alla Camera. «Meglio un confronto di persona che un botta e risposta via lettera — dice la deputata —. Stiamo studiando come spiegare le nostre soluzioni alle loro domande». E ancora: «La governabilità non deve andare a scapito della rappresentatività, vedremo se riusciremo a trovare la quadra ».
Intanto Renzi argomenta ai suoi: «Noi siamo disponibilissimi a incontrare di nuovo il Movimento Cinque Stelle, ma chiediamo risposte nel merito dei temi che abbiamo posto».

il Fatto 4.7.14
Curzio Maltese. A Strasburgo solo uno show
“Preparatevi, a marzo 2015 si vota”
di Chiara Daina


DA MONTI a Renzi, passando per Letta, sono ben 511 i decreti attuativi che a oggi mancano all’appello. Senza quei testi, buona parte delle norme previste dalle riforme non possono entrare in vigore. L’eredità lasciata a Matteo Renzi dai due predecessori ammonta a 428 decreti attuativi, 177 dei quali sono già scaduti. In poco meno di cinque mesi, il governo dell’ex sindaco di Firenze ha contribuito all’accumulo con 14 regolamenti “scoperti”, ormai scaduti. Come il decreto Lavoro, contenuto nel Dl 34, primo capitolo del Jobs Act, che avrebbe dovuto rendere operativa la verifica online della regolarità contributiva delle imprese. Oppure, il decreto sulle infrastrutture, che resta bloccato insieme alla norma che prevede la concessione dei contributi per l’acquisto delle case popolari (Iacp) da parte degli inquilini, pensato per rispondere all’emergenza abitativa, quindi da attuare in tempi brevi. Nel decreto sulla Pa il governo aveva messo una norma che obbligava i ministeri ad adempiere in tempi brevi. Passaggio sparito all’ultimo dal testo finale. Una vittoria della burocrazia ministeriale.

il Fatto 4.7.14
Quant’è ganzo il twitter premium
di Daniela Ranieri


Dice che i suoi ministri li tiene a briglia su WhatsApp, l’app di messaggistica istantanea amata da adolescenti e fedifraghi. Dice che come Frank Underwood, il perfido congressman di House of Cards, ha sempre il dito su qualche touch screen (#ArrivoArrivo lo twittò in faccia a Napolitano, che s’azzardasse un maschio a cena con noi morirebbe), con la mela di Cupertino accesa a rischiarare le notti di Palazzo Chigi un tempo abitate dal carisma dei due pelati famosi. Un doppio clic dà una bozza di riforma; un hashtag depone governi; un tweet riduce il debito.
Rapido, effimero, saltellante (o context-switching): ogni approccio di Renzi alle istituzioni è tecnologicamente mediato. Non è questione di saper usare il computer (quell’altro, il condannato Noto1, malgrado le pazienti cure di Antonio Palmieri fece solo una mezza uscita, disastrosa, su Facebook; poi s’è messo in casa una nativa digitale, che invece di insegnargli le basi del successo di Obama ha scoperto i gay, molto sensibili su acconciature e giacche Chanel).
No, Renzi pare aver seguito tutti i seminari di Scienze della Comunicazione e averne tratto il succo più utile: se il medium è il messaggio, un medium vuoto è il più adatto a veicolare messaggi vuoti. Così ecco la Rete e i suoi prodigi che servono alle Primavere arabe quanto a scambiarsi la ricetta del soufflé, strumento potenziale di rivoluzione in mano alle masse ma anche puro nonsense pneumatico per dire senza dire, annunciare senza rendicontare, “performare” senza agire.
SEMPRE disponibili alla chat, on line siamo labili nelle nostre decisioni e pure nell’espressione di opinioni e sentimenti. Tutto è cancellabile e revocabile. Un appuntamento preso su WhatsApp viene disdetto e ripreso, sovrascritto dal divenire quotidiano. In eroticis, si sa quanto credito dare alle parole che volano via sms. Ecco, “Riforma della Giustizia entro giugno” è l’equivalente politico del “Ti faccio questo, ti faccio quello” nelle cose di sesso. Ci esprimiamo con le emoticon, quei simboli che hanno fatto evolvere la comunicazione nella direzione dei geroglifici, e a guardare bene Renzi spesso fa pure le faccette, beffarde o perplesse.
A Strasburgo dice di voler rappresentare la generazione Telemaco, sull’onda del successo di un libro di Recalcati; il giorno prima aveva detto la Erasmus, dal nome del progetto-manna che ha dato agli universitari un modo smart per non studiare da quando l’interRail, il folle viaggio sui treni d’Europa quando l’Europa era ancora un continente e non sfida, start-up, scommessa, narrazione, sapeva troppo di Grand Tour in luoghi tragicamente scoperti dal Wi-Fi.
Ma la sua è proprio la generazione WhatsApp, quella dei quarantenni che hanno scoperto la distanza breve tra sedurre e disertare, tra onnipotenza e impotenza. È lo Zeitgeist al silicio. Certo, magari i lodi-vergogna dei governi B. fossero stati scritti sull’acqua corrente di Twitter invece che scolpiti sulla Gazzetta Ufficiale e intestati a gloria imperitura alle supermenti da sotterranei del Cern di Schifani, Alfano, Gasparri.
Ma non è solo una questione di mezzo (qui la Rete, lì la tv), quanto di metodo. Lo stile renziano si rifà alla scrittura iconica del web 2.0 così come la sua propaganda di sé echeggia lo scoppio insonoro e narcisista dei selfie e dei tweet, sparati agli inizi della sua avventura al ritmo con cui un nerd controlla la timeline del MIT.
QUANDO presenta la chimerica riforma della P.A. o la to do list in 12 punti della Giustizia, lo fa con frasi svelte che in realtà sono slide, demo, anteprime in 140 caratteri destinate a ulteriori chiarimenti (“Poi Marianna vi spiega”, “A Pier Carlo la parte noiosa”, “Lascio la parola ad Andrea”). A volte cade nel buco nero della tautologia. Il 13 giugno twittò: “A #palazzochigi al lavoro sul consiglio dei ministri di oggi #buongiorno”, e quanto l’informazione sia utile e pregna lo si comprende immaginando una velina equivalente di De Gasperi o Rumor. Ora, l’intramuscolo quotidiana nel lifestream incessante che cancella il trascorso e obnubila il futuro necessita almeno di un ministero agli Hashtag.

Corriere 4.7.14
Maria Elena Boschi
Stile e foto, fenomenologia di una ministra
di Maria Luisa Agnese


Esce da Palazzo Chigi in pantaloni e camicetta bianchi e clic, la riprendono di profilo mentre cammina a passo sostenuto e subito quella camminata diventa neo leggendario «passo dell’oca» di Maria Elena Boschi. Cammina con i suoi fascicoli riformatori sotto il braccio fra ali di popolo e fotografi e subito qualcuno evoca le foto da voyeurismo anni Cinquanta, quelle da «Gli italiani si voltano» di Mario De Biasi e Ruth Orkin. Maria Elena esibisce un anello all’anulare sinistro e il Giornale maliziosamente si interroga se la single più famosa d’Italia non stia per rinunciare alla solitudine, tanto più che quasi in contemporanea su Novella escono foto di lei alla Festa dell’Unità di Roma con misterioso e sollecito accompagnatore. Ma come, non aveva dichiarato a Paola Jacobbi di Vanity Fair che la sua vita da ministro spesso finisce in serate solitarie davanti a una tazza di latte? Da quando il ministro prodigio è apparsa alla Leopolda con quella scarpa leopardata tacco 12, obiettivi e teleobiettivi non l’hanno più abbandonata, tanto che su Twitter «Le fifre» si è domandato: «Sono 12 ore che non vedo gallery con Maria Elena Boschi, sono preoccupato».
Ma è legittimo interesse per un pubblico personaggio un’attenzione esasperata per una donna alla prova del potere? Un’intrusione così ossessiva non rischia di diventare stalking mediatico e rendere difficile la vita di una ministra che ha il difetto di essere carina, spigliata e di battuta pronta, una Bridget Jones un po’ annacquata, in salsa nazionalcattolica? Come aveva intuito il Cavaliere, che in fatto di immagine la sa lunga, quella ragazza di 33 anni era destinata a sconvolgere l’universo femminile della sinistra, fino ad allora perlopiù abituato a mezzi tacchi e gonne longuette: «Troppo bella per essere comunista» sentenziò allusivo, subito da lei rottamato: «I comunisti non ci sono più».
Preda troppo ghiotta per lasciarsela scappare, Maria Elena scoppiò nell’immaginario dei social network alla maniera di Pippa Middleton, con quella foto di spalle il giorno del giuramento, china alla firma da ministro in tailleur blu squillante e tacco beige. Da quel tailleur spuntava una piccola striscia di pelle candida che presto fu manipolata e con ritocco malandrino divenne su Internet finto perizoma. Poco da meravigliarsi se poi sono arrivati anche gli insulti di fastidioso tono sessista sui siti grillini.
Gatta non poi tanto morta lei procede con gran solarità, con una forma di sottile consapevolezza, «Bisogna superare le inibizioni di alcune donne che, per essere prese sul serio, mortificavano l’estetica» ha detto a Vittorio Zincone che la intervistava per Sette , e nelle foto perlopiù ride, quasi dicesse divertitevi e divertiamoci. Una sola volta si è inalberata e ha tentato di mettere dei paletti, osando parecchio perché si trattava dell’intoccabile satira, e fu quando Virginia Raffaele la ritraeva a Ballarò come ministra gattona e tutto fascino del governo Renzi. Ha tentato di giocare la carta sessista, per poi astutamente ritrarsi, senza affondare.
Renziana doc anche in questo, nell’arte di spingersi in avanti e poi arretrare, di concedersi e ritirarsi, Boschi continua a marciare senza troppi imbarazzi. Ma ci marcia anche un pochino, verrebbe da chiedersi, oppure o no? Di sicuro c’è molto di calcolato in quell’immagine così mixata del meglio e del peggio dello spirito italico. Lo dimostra quel profilo Facebook, Boschi incantati, che intorno alle sue foto ha costruito altarini di piccolo ironico culto in forma di poesie: «Superba in camicetta, e quel bottone malandrino.../Sei gioia e vita insieme, come il sole del mattino».
Quella sottile inafferrabilità della leader ministro, così soave ma perspicace, così acqua e sapone ma ammiccante, intriga i nuovi Umberto Eco contemporanei che istituiscono un parallelo fra le scarpe leopardate del suo debutto e quel giubbotto di pelle alla Fonzie con cui il suo leader Matteo Renzi si presentò ad Amici da Maria De Filippi. E siamo alla fenomenologia del ministro Boschi, immagine femminile e speculare del fenomeno Renzi, strategicamente impostata. Sul Foglio Pietrangelo Buttafuoco ha scritto «Sono happy questi days e la bella Boschi, infatti, in quel festoso Zecchino d’Oro del ceto medio riflessivo qual è stata la vernice renziana, è risultata come una rassicurante Mariele Ventre». Ma d’altra parte, se una bella ragazza che prova a fare il ministro, vuole anche vestirsi a modo suo, ne avrà pure facoltà. È la sua stagione.

Repubblica 4.7.14
I due cavoli
di Sebastiano Messina


RACCONTANO che ieri Berlusconi abbia detto ai suoi parlamentari che la sinistra — non dice più «i comunisti »: evidentemente comincia ad avere problemi di memoria — è stata davvero fortunata, perché a un certo punto ha trovato il suo nuovo leader «sotto un cavolo». E si capisce il suo stupore: sono vent’anni che lui ne cerca uno con le sue selezioni private da talent show, senza mai riuscire a trovare quello con il quid.
Ma raccontano anche un’altra cosa. Che ieri sempre Berlusconi abbia chiesto ai suoi di mettere mano al portafogli, perché ormai la legge gli vieta di pagare tutto lui. E dunque molti sono andati via di pessimo umore, dopo essersi sentiti chiedere anche 40 mila euro. Il loro stupore si capisce un po’ meno. Perché Renzi sarà pure spuntato da sotto un cavolo, ma senza i soldi di Berlusconi col cavolo che oggi loro sarebbero lì.

Corriere 4.7.14
Capitali nascosti all’estero, depenalizzate le società per il rientro
di Francesca Basso


MILANO — La nuova «voluntary disclosure» per l’emersione dei capitali nascosti al fisco (si stima che gli italiani abbiano nascosto all’estero tra 180 e 200 miliardi di euro) è vicina all’approdo in aula alla Camera. Il nuovo testo, che ha recepito una serie di emendamenti, «ha le caratteristiche per poter riportare nel sistema molti capitali e investimenti che attualmente non solo sfuggono al Fisco ma non alimentano la nostra economia», spiega Stefano Simontacchi, docente del Transfer Pricing Research Center dell’Università di Leiden in Olanda e managing partner di Bonelli Erede Pappalardo. Quali sono le novità? «I punti cruciali che mancavano al testo precedente erano due: 1) andava depenalizzato anche il reato della società con cui l’imprenditore aveva creato il fondo nero; 2) si doveva consentire anche il rientro dei gruppi». Adesso sarà possibile, poiché il «ravvedimento speciale» per coloro che non hanno somme all’estero ma che comunque devono regolarizzare violazioni fiscali di altro tipo ora potrà essere presentato da qualsiasi soggetto, e dunque anche da società, e avrà gli stessi effetti della «voluntary disclosure». «Ne potranno beneficiare — spiega Simontacchi — le società estere ma gestite in Italia (le esterovestite), le stabili organizzazioni non dichiarate delle multinazionali, la società con cui l’imprenditore ha alimentato il conto all’estero».

il Fatto 4.7.14
Le prime, terrificanti, riforme della Giustizia
di Bruno Tinti


IL GOVERNO ha dato una prima dimostrazione delle sue capacità di riformare la Giustizia: terrificante.
Art. 8 Dl 92/2014: niente carcerazione preventiva se il giudice ritiene che la pena definitiva non supererà i 3 anni. Nel 90% dei casi è così. Ovviamente, è un’idiozia: e se si tratta di un soggetto pericoloso? Se inquina le prove? Se scappa? Se è uno che perseguita moglie, marito, fidanzata/o, collega di lavoro (si chiama stalking)? Che facciamo? Stiamo a guardare e gli diciamo che non sta bene?
Ma poi: la carcerazione preventiva è quella che si sconta fino alla sentenza definitiva, in genere fino a quella di Cassazione. Sicché capiterà che un imputato sia condannato in primo grado a 3 anni e mezzo. È un soggetto pericoloso, lo hanno arrestato e processato prima possibile, diciamo in 7/8 mesi. 3 anni e mezzo, bene, li sconterà. Invece no: bisogna sottrarre i 7 mesi già passati in prigione. Restano 2 anni e 11 mesi. Scarcerato subito, non può restare in carcerazione preventiva (la sentenza è solo di primo grado): pena inferiore a 3 anni. Fantastico.
Ma c’è di peggio. Art. 656 del codice di procedura: al momento della sentenza definitiva, un condannato (anche per pena inferiore a 3 anni), se detenuto in carcerazione preventiva, comincia scontare la pena che gli resta. Potrà fare istanza per arresti domiciliari o affidamento in prova ma, intanto, resta in galera; e, se pericoloso, l’istanza potrebbe essere respinta.
Ma se invece è a piede libero; e per lo più lo sarà perché la nuova legge vieta la carcerazione preventiva per pene inferiori a 3 anni; allora attenderà in totale libertà che il giudice si pronunci sulla sua istanza di arresti domiciliari. Intanto potrà commettere altri reati ai quali si applicheranno le fantastiche nuove regole.
Ma di che ci preoccupiamo, bisogna smetterla con la barbara soluzione della galera, occorrono misure alternative alla detenzione; appunto gli arresti domiciliari. E come no, basta un domicilio dove scontarli. Sicché chi ha un lavoro, una casa, una famiglia; insomma chi è una persona normale con una vita normale, ragionevolmente un po’ meno pericoloso di chi non ha casa e vive di espedienti; lui finirà agli arresti domiciliari; e quello senza fissa dimora no, perché un domicilio dove scontarli non ce l’ha. Allora, prigione? Macché, pena inferiore a 3 anni, non si può.
n VA BENE, però c’è il braccialetto elettronico! Beh, veramente c’era. Adesso non c’è più: sono finiti. La convenzione stipulata con Telecom prevedeva la fornitura di 2.000 braccialetti. Ad aprile Telecom ha scritto al Ministero degli Interni: occhio, ne sono stati utilizzati X; se il trend è questo, a luglio saranno finiti. Una voce nel deserto. Così qualche giorno fa il Capo della Polizia ha scritto al Ministro della Giustizia: i braccialetti sono finiti, ce ne saranno altri non prima del 2015. O li mandate agli arresti domiciliari o li mettete in libertà. Ma è terribile! E poi, perché fino al 2015, non basta ordinare a Telecom altri X mila braccialetti? Eh no, ci va la gara europea.
Riassumendo. Non ci sono carceri: questa è la ragione di tutte queste leggi demenziali. Monti/Severino, Letta/Cancellieri e Renzi/Orlando hanno risolto il problema a modo loro: i delinquenti non possono essere arrestati; e, se sono già dentro, bisogna metterli fuori. La legalizzazione dell’illegalità. Di costruire qualche carcere in più non se ne parla?

il Fatto 4.7.14
Più ghigliottina per tutti, Parlamento sotto schiaffo
A Palazzo Madama passa un emendamento che dà alla camera solo 2 mesi di tempo per approvare le norme ritenute “fondamentali” per il governo
di Gianluca Roselli


Sempre più poteri al governo e sempre meno al Parlamento. Che sarà obbligato a votare entro due mesi le leggi che l’esecutivo ritiene prioritarie per l’attuazione del programma. Questo il succo di una legge che, infatti, è stata ribattezzata “ghigliottina” e che ha preso corpo ieri in commissione Affari costituzionali del Senato. All’interno della riforma costituzionale in discussione a Palazzo Madama è stato approvato un emendamento dei relatori Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, con i voti della maggioranza più Lega e Forza Italia, che mette su una corsia preferenziale quelle leggi che l’esecutivo considera “prioritarie per l’attuazione del programma di governo”.
In pratica funziona così. Il governo indica una serie di leggi “fondamentali” per il suo programma. Una volta che una di queste leggi viene licenziata in Consiglio dei ministri, la Camera ha 60 giorni per approvarla, con tutte le modifiche e gli emendamenti proposti dai partiti. Se però, passati due mesi, la norma non ha ancora visto la luce, a quel punto dovrà essere approvata votando direttamente in aula gli articoli nella versione originale proposta da Palazzo Chigi. Così facendo si mette una bella spada di Damocle sui deputati che saranno costretti a bruciare le tappe. Altrimenti le leggi passano esattamente come le vuole il governo, ovvero Matteo Renzi.
“Si tratta di una fiducia non fiducia”, spiega una fonte di Montecitorio, “perché in questo modo l’esecutivo potrà spingere l’acceleratore su alcune norme senza rischiare di dover passare per le forche caudine della fiducia parlamentare”. L’emendamento Finocchiaro-Calderoli, in realtà risponde alla richiesta della Corte costituzionale di porre un freno all’uso dei decreti legge (che entrano subito in vigore, ma poi devono essere convertiti in legge dal Parlamento entro 60 giorni). Così ecco la “ghigliottina”, da cui però sono escluse le riforme elettorali, le leggi delega, quella di Bilancio e le ratifiche dei trattati internazionali. La parola, d’altronde, è fortemente evocativa. Come fa notare Giorgia Meloni: “In questo modo Renzi torna alla Rivoluzione francese per tagliare la testa all’opposizione in Parlamento e impedirle di parlare. Ora ci chiediamo quali saranno le prossime mosse. Forse, come Napoleone, si autoincoronerà imperatore”.
L’IDEA DI DARE una corsia preferenziale alle leggi ritenute importanti dal governo, però, non è nuova. La prima versione la troviamo all’interno di una proposta per modificare i regolamenti parlamentari firmata da Fabrizio Cicchitto a nome del Pdl nel luglio 2008. Divenuta lettera morta, la stessa proposta ha poi cambiato nome in maniera camaleontica. E così eccola rispuntare come “emendamento Zanda-Quagliariello” nella precedente legislatura e, infine, come uno “Zanda-Finocchiaro-Minniti” presentato il 10 aprile 2013, proprio in questa legislatura. I dubbi sollevati allora furono proprio di costituzionalità , ostacolo evitato ieri con l’emendamento ghigliottina inserito all’interno della Riforma costituzionale.
Ma anche un’altra norma ieri ha suscitato un vespaio di polemiche. Sempre a Palazzo Madama, infatti, si è deciso di alzare da 50 mila a 250 mila la soglia delle firme necessarie per presentare una legge di iniziativa popolare. In questo modo si ritaglia la facoltà di presentare leggi popolari solo a grandi organizzazioni politiche o sindacali. Perché raccogliere 250 mila firme non è affatto facile.
“I PARTITI hanno messo a segno un vero e proprio golpe”, protesta il Movimento 5 Stelle, con Riccardo Fraccaro, che annuncia battaglia. “Alzare il numero delle firme, o inserire la ghigliottina in Costituzione, significa ferire a morte la democrazia. Una maggioranza di nominati, inquisiti e condannati fondata sull’inciucio sta scardinando la Costituzione per riscriverla a uso e consumo del sistema partitocratico”. “I partiti tolgono ancora potere ai cittadini”, sono le parole che Beppe Grillo fa rimbalzare su Twitter. E anche in questo caso si fanno sentire quelli di Fratelli d’Italia. “Si vede che la partecipazione popolare dà fastidio. E il tutto arriva per decisione di un presidente del consiglio eletto da primarie di partito non regolamentare per legge”, osserva Fabio Rampelli. Nell’emendamento l’aumento delle firme secondo la maggioranza è bilanciato con l’obbligo per la Camera di “garantire tempi certi per l’esame di queste leggi”. Mentre finora le proposte di iniziativa popolare venivano quasi sempre lasciate morire in Parlamento. A meno che qualche partito non le facesse sue riproponendole in altro modo.

Repubblica 4.7.14
IMU
Bufera sulle esenzioni a cliniche e scuole
[...private e cattoliche, ma, curiosamente, nel titolo del quotidiano dell’orrido papista Scalfari questa precisazione è saltata...]
di V. Co


ROMA. «Una vergogna», per Giovanni Paglia di Sel. «Un bene perché sana una disparità», per il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi. Anzi «un provvedimento importante e un piccolo segnale», lo definisce il ministro Stefania Giannini. Perché ora «le scuole con una retta inferiore ai 6.800 euro sono esentate». Da cosa? Dall’Imu e dalla Tasi, i balzelli sugli immobili. Le reazioni al decreto del ministero dell’Economia che di fatto esclude dal pagamento delle tasse la quasi totalità delle scuole paritarie e delle cliniche private sono diverse. C’è chi vi legge un ulteriore, grandioso sconto, alle strutture cattoliche. Chi invece un’occasione per «sanare una disparità », come il presidente della Fism Toscana (Federazione italiana scuole materne), Leonardo Alessi. «C’era il rischio concreto che chiudessero a breve migliaia di istituti, costretti a pagare senza motivo decine di migliaia di euro di Imu». E in effetti in Toscana e a Firenze l’anno scorso le iscrizioni sono crollate del 20% e addirittura il prestigioso istituto dei padri Scolopi ha chiuso la materna.
Il governo difende la sua scelta, nel giorno in cui Equitalia riapre la rateizzazione per le cartelle, come previsto dal decreto Irpef (riguarda debiti fiscali per 20 miliardi, domanda da presentare entro il 31 luglio). Nel caso dell’Imu-Chiesa però «non si tratta affatto di uno sconto, al contrario di un inasprimento », spiega il sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta. «Prima di Monti le scuole non pagavano, ora pagano in proporzione alla media della retta chiesta agli utenti e secondo parametri definiti dal ministero dell’Istruzione. Per quanto riguarda la sanità, le cliniche pagheranno per l’uso delle sale e delle stanze utilizzate in forma privata». In realtà il criterio per capire se una scuola verserà o meno Imu e Tasi è tale per cui quasi tutti saranno esentasse. Si deve infatti confrontare il Cm con il Cms, così li chiama il decreto. Cioè il corrispettivo medio incassato dalla scuola privata e il costo medio per studente sostenuto dallo Stato (al lordo di alcune voci come le spese per l’edilizia o il trasporto pubblico). Ebbene questo secondo parametro è assai elevato e va dai 5.739 euro annui per la primaria ai 6.914 euro per la secondaria. Se il Cm è inferiore o uguale al Cms, zero Imu e Tasi. Tana libera tutti, visto che le rette sotto i 7 mila euro sono la maggioranza se non la totalità (in media si va dai 2 ai 4 mila euro). E chi è poco sopra si adeguerà per non avere obblighi fiscali, è ovvio. Per le cliniche, basterà la convenzione con il servizio sanitario nazionale, a prescindere dalle tariffe. «Convenzione che non si nega a nessuno. Almeno abbiamo capito cosa si intende per no profit quando c’è di mezzo il Vaticano», prosegue Paglia, Sel. «Scuola paritaria e pubblica fanno lo stesso servizio pubblico e quindi devono avere lo stesso trattamento», insiste il sottosegretario Toccafondi (ciellino).

Repubblica 4.7.14
Fassina: “È stato un blitz del Tesoro dobbiamo rivedere quel decreto”
“Non è una guerra di religione: un governo che vuole cambiare verso deve essere per l’istruzione pubblica”
di Valentina Conte


ROMA. «Mi chiedo se in un contesto come l’attuale, di tagli alla scuola pubblica e di insegnanti esodati, era il caso di esentare dall’Imu e dalla Tasi scuole con rette di 7 mila euro all’anno. Francamente non capisco».
Onorevole Fassina, se l’aspettava che finisse così, la vicenda Imu-Chiesa?
«No che non me l’aspettavo. E non era questo l’obiettivo del legislatore che ha delegato il governo a fare il decreto. Lo scopo non era mica quello di abbassare l’Imu alle scuole private. Ma di risistemare la tassazione sugli immobili del non profit, a seconda dell’uso commerciale o meno che se ne fa».
Come si è arrivati a esentare praticamente tutti, secondo lei?
«Con una scelta politica, è chiarissimo. Che non riflette però l’ordine di priorità di un governo che vuole e deve valorizzare la scuola pubblica. In pratica si è usata una strada tecnica, quella del decreto ministeriale, per raggiungere un obiettivo politico. Sarebbe stato utile discuterne, però. Piuttosto che presentare una decisione bella e fatta».
Chiederà al governo di rivedere il decreto?
«Considerati gli effetti pratici, credo che dovremmo valutarne i contenuti e discutere di come cambiare il provvedimento».
La Chiesa ha vinto. Esentasse. O no? «Il problema non è la guerra di religione tra scuola pubblica e scuola privata, tra cattolici e laici. La questione è di priorità. In un contesto così la priorità di un governo che vuole “cambiare verso” deve essere la scuola pubblica, concentrando qui tutte le risorse disponibili per nuovi investimenti. Invece capita esattamente il contrario».
A cosa si riferisce?
«Il nuovo piano di riforma prevede risparmi ulteriori per un miliardo e mezzo su una scuola, quella italiana, oramai veramente allo stremo dopo i tagli della Gelmini. Qui non riusciamo neanche a mandare in pensione 4 mila docenti della “quota 96”, bloccati dal brutale intervento della Fornero, per far assumere altrettanti giovani. E poi si cancella l’Imu a strutture che fanno pagare 7 mila euro l’anno. Mi chiedo: è veramente questa la priorità del governo Renzi, in un periodo di estrema ristrettezza di risorse?».
Il Forum del Terzo Settore ha segnalato poi un’altra bizzarria del decreto. In pratica per calcolare la porzione dell’immobile adibita ad uso commerciale, si devono considerare tre elementi: i metri quadri, il tempo di utilizzo, i frequentatori. Ma le tre percentuali si sommano e l’imposta esplode. Un po’ insensato, non cre- de?
«A maggior ragione questo dimostra che il decreto va in tutt’altra direzione rispetto agli obiettivi iniziali del governo Monti. Si doveva riorganizzare l’imposta e ora l’aggraviamo in modo significativo al terzo settore. Se ne deve riparlare».
Il governo Monti intervenne dopo la chiusura della procedura di infrazione europea. La Commissione Ue nel dicembre 2012 disse che l’esenzione dall’Ici per gli immobili della Chiesa configurava un aiuto di Stato, ma che era impossibile calcolare il pregresso per gli anni 2006-2011. Lei crede che ora l’Europa possa riaprire quella procedura?
«Non sono un esperto, ma non credo. Non mi pare che ci sia incompatibilità con le norme comunitarie. Il punto qui è solo politico».
Questo decreto attuativo ha impiegato due anni per vedere la luce. Lei era viceministro all’Economia durante il governo Letta. Perché non l’avete fatto voi?
«In quei mesi la partita Imu-Tasi rimase aperta fino a dicembre. Complicato fare il decreto senza sapere come sarebbe stata la tassazione».

il Fatto 4.7.14
Auto blu, caccia al decreto Resta solo la slide di Renzi
Palazzo Chigi l’aveva promesso ad aprile: “i sottosegretari andranno a piedi”. Del testo però non c’è traccia. Il tesoro costretto a chiedere spiegazioni al ministro madia
di Carlo Di Foggia


Nell'era Renzi, con l'annuncio il più è fatto. La distanza tra la slide e il fare è invece una questione di priorità. Quella delle auto blu in dotazione ai ministeri non sembra esserlo molto. Come tempi d'attesa non c'è male: 76 giorni e ancora nulla. Eppure l'annuncio aveva rispettato tutti i passaggi codificati dal nuovo corso renziano: la slide (“massimo 5 vetture a ministero”); l'annuncio in conferenza stampa in orario tg; e il tweet a effetto finale. “Direttori e sottosegretari dovranno andare a piedi o in taxi, autobus, metro, moto o bicicletta”, spiegava il premier. Era il 18 aprile. Per questo si può solo immaginare il senso di frustrazione provato dal commissario alla spending review, Carlo Cottarelli , costretto a chiamare il dipartimento della Funzione pubblica per chiedere conto del ritardo e sentirsi rispondere che “ci sono stati dei contrattempi”.
C'era la riforma della Pa da portare a casa, decine di articoli finiti in un decreto omnibus e cassati dai tecnici del Quirinale che hanno costretto gli uffici legislativi alle dipendenze del ministro Marianna Madia a riscrivere i testi e spacchettare il tutto in due provvedimenti. E quindi? E quindi “il fascicolo è finito sotto gli altri”.
L'EPISODIO si è svolto mercoledì scorso, a raccontarlo è un autorevole fonte del Tesoro - dove Cottarelli ha ancora il suo ufficio - per altro l'unico ministero che ha ridotto le auto blu: da 24 a 12 a disposizione dei vertici, costretti a usarle solo su prenotazione. Un'operazione - spiegano nei corridoi di via XX settembre - “avvenuta motu proprio”, cioè in automatico, senza una norma che li obbligasse a farlo. Perché, per quante riforme tu possa annunciare, e impegni tu possa prendere, la trafila è sempre la stessa: servono i decreti attuativi, altrimenti le norme contenute nei testi usciti dal consiglio dei ministri rimangono semplici dichiarazioni d'intenti. Quella sulle auto blu dei ministeri è stata inserita nel “decreto Irpef” - quello dei famosi 80 euro in busta paga - del 24 aprile scorso. Quel testo stabilisce che “con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri su proposta del ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, è indicato il numero massimo, non superiore a cinque, per le auto di servizio a uso esclusivo, nonché per quelle ad uso non esclusivo, di cui può disporre ciascuna amministrazione centrale dello Stato”.
Ai vari ministeri, però, quel decreto non è mai arrivato, e così le 1.599 auto blu (costo: 400 milioni l’anno) che compongono il parco macchine in uso a ministri, viceministri, sottosegretari, capi di gabinetto e di dipartimento, sono ancora tutte lì.
COME SPESSO succede con gli annunci renziani, i risultati ottenuti sono spesso opera dei predecessori. Nel caso specifico, a oggi l'unico taglio effettuato - per altro molto blando - è quello voluto a settembre del 2011 dall'allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti: via le auto “di utilizzo esclusivo, con autista” - le cosiddette “blu blu” - a direttori generali, capi degli uffici legislativi, delle segreterie e degli uffici stampa. Ai piani più alti, hanno invece conservato quelle “di utilizzo non esclusivo”, ma sempre con autista. Le altre 5.000 auto blu sparse per le amministrazioni periferiche sono ancora tutte in servizio, e non vengono toccate dalla norma annunciata da Renzi. Norma che non riguarderà le 53.743 vetture che compongono l’intero parco macchine in dotazione alla pubblica amministrazione (49.820 appartengono alle amministrazioni locali) e che costano poco più di un miliardo l’anno alle casse dello Stato.
Qualcosa però, potrebbe muoversi nei prossimi giorni. “Adesso che il decreto della Pa è stato licenziato - spiegano dal Mef - i funzionari metteranno mano al decreto attuativo. Che peraltro varrà per tutti i ministeri, senza bisogno di ulteriori interventi”. Bastava così poco.

il Fatto 4.7.14
Autosalone Italia, aste fantasma
Nuovi renzismi: Serracchiani offre jeep da rottamare, il sindaco di Schio vende le BMW che non ha
di Emiliano Liuzzi


Benvenuti all’autosalone Italia, lo sfasciacarrozze pubblico che promette di tagliare i privilegi. Vendono tutti, in saldo e rigorosamente all'asta 2.0. Poco importa se il mercato dell'auto usata è in crisi, il problema non è vendere, ma annunciarlo. Le casse di Comuni, Province, Regioni e Governo resteranno vuote, ma vuoi mettere la propaganda? Meglio ancora se personalizzata: “Vendiamo l’auto di Luis Durnwalder, all’asta”. Il vecchio leader dell’Svp, presidente della Provincia autonoma di Bolzano, si faceva rimborsare anche l’aspirina e gli stuzzicadenti, aveva un’indennità di 25.600 euro al mese, ma vuoi mettere il segnale che offre la giunta? Piazzare all’asta la Mercedes 500 sl, roba da 130 mila euro, con la quale “Durni” ha scorrazzato in lungo e largo quando era plenipotenziario. Un modo per lavarsi la coscienza, far credere di aver cambiato verso in maniera molto simbolica e poco concreta. Perché come dimostra la cronaca, l'auto di Durnwalder non se l’è comprata nessuno.
Si chiama sfasciacarrozze, si traduce nel fantastico mondo del renzismo, dove tutto si annuncia e poco si fa. Matteo, come lo chiamano giornalisti, fruttivendoli, compagni di lotta, di governo e d’opposizione, traccia la strada, gli altri seguono. Ultima, in ordine di apparizione, sulla propaganda del settore autosaloni, è Deborah Serracchiani. Che è andata oltre : ha promesso di vendere le auto blu, ha messo all’asta 30 vetture da rottamare che a vario titolo sono state proprietà della guardia forestale, camioncini e Fiat Panda della Regione. Un prezzo di base d'asta tra i cento e i 2.200 euro. Le offerte si potranno fare il 22 luglio, giorno in cui notoriamente tutti, invece di pensare alle vacanze, si affrettano a comprare un’auto usata.
Ma la propaganda funziona. Regione o Comune che sia. Lo ha capito il nuovo sindaco di Cisterna di Latina, 35 mila abitanti: nel primo discorso il primo cittadino appena eletto (Eleonora Della Penna, avvocato, già veltroniana, oggi centrodestra) ha messo all'asta l'auto blu e annunciato che si pagherà il telefonino. Annuncio simile a quello fatto dal sindaco di Schio: “All’asta, all’asta”. Peccato che il Comune non abbia un grande parco auto: una Bmw immatricolata a inizio anni Novanta, 400 mila chilometri.
Sempre in tema di Bmw e Veneto, il consiglio regionale, in piena bufera Mose, ha messo all’asta una vecchia 530d con 250 mila chilometri nel motore: invenduta.
Potremmo andare avanti con una carrellata infinita, ma concludiamo con lui, lo sfasciacarrozze e già rottamatore Renzi Matteo da Firenze a palazzo Chigi: una volta diventato presidente del Consiglio più che l'auto ha pensato all’aereo blu dove si è fatto fotografare anche in stile Obama. Era la sua battaglia più importante quella di mettere all’asta le auto. In tutto 151 vetture, tra Bmw, Jaguar e Maserati, offerte in diverse tranche (la prima partita il 26 marzo, la seconda il 28 aprile, e così via fino al 16 maggio) tramite il negozio virtuale di Ebay. Il 17 aprile arriva il comunicato di Palazzo Chigi. “Assegnate le prime 52 auto. Guadagno complessivo: 371.400 euro. Prezzo medio: tra i 7 mila e gli 8 mila euro”.
Poi più nulla. Silenzio. Acqua passata. Renzi è già oltre.

il Fatto 4.7.14
Norme sepolte: da Mario Monti a oggi sono 511
Da Monti a Renzi, passando per Letta, sono ben 511 i decreti attuativi che a oggi mancano all’appello


DA MONTI a Renzi, passando per Letta, sono ben 511 i decreti attuativi che a oggi mancano all’appello. Senza quei testi, buona parte delle norme previste dalle riforme non possono entrare in vigore. L’eredità lasciata a Matteo Renzi dai due predecessori ammonta a 428 decreti attuativi, 177 dei quali sono già scaduti. In poco meno di cinque mesi, il governo dell’ex sindaco di Firenze ha contribuito all’accumulo con 14 regolamenti “scoperti”, ormai scaduti. Come il decreto Lavoro, contenuto nel Dl 34, primo capitolo del Jobs Act, che avrebbe dovuto rendere operativa la verifica online della regolarità contributiva delle imprese. Oppure, il decreto sulle infrastrutture, che resta bloccato insieme alla norma che prevede la concessione dei contributi per l’acquisto delle case popolari (Iacp) da parte degli inquilini, pensato per rispondere all’emergenza abitativa, quindi da attuare in tempi brevi. Nel decreto sulla Pa il governo aveva messo una norma che obbligava i ministeri ad adempiere in tempi brevi. Passaggio sparito all’ultimo dal testo finale. Una vittoria della burocrazia ministeriale.

il Fatto 4.7.14
Taranto e Ilva: mortalità infantile + 21 per cento

SOLTANTO pochi giorni fa il commissario dell’Ilva Edo Ronchi aveva tranquillizzato sulla qualità dell’aria in città. Peccato che proprio ieri l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato una ricerca choc: il tasso di mortalità infantile è superiore del 21% alla media regionale pugliese. La ricerca certifica che a Taranto e anche nella Terra dei Fuochi campana si muore di più che nel resto delle rispettive regioni, ci si ammala e si viene ricoverati più spesso a causa dei tumori. Lo certifica l’aggiornamento dello studio epidemiologico Sentieri dell’Iss. Per la Terra dei Fuochi i dati parlano di un eccesso di mortalità rispetto al resto della regione del 10% per gli uomini e del 13% per le donne nei comuni in provincia di Napoli, mentre per quelli in provincia di Caserta è del 4 e del 6%, con eccesso di ricoveri per una serie di tumori.

La Stampa 4.7.14
Allarme Istituto Superiore di Sanità: mortalità in aumento nella Terra dei Fuochi e a Taranto
Lo studio dell’Istituto superiore della sanità: in Campania un tasso superiore
del 13% sulla media nazionale. Nella città dell’Ilva i decessi infantili su del 21%

qui

il Fatto 4.7.14
Fnsi contro Ordine, Far West giornalisti
Scambio di insulti tra Siddi e Iacopino
La stampa romana lancia il referendum e l’Unità chiede l’ultimo aiuto
di Salvatore Cannavò


Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, smentisce al Fatto di aver definito “comici e imbecilli” i dirigenti del sindacato giornalisti, la Fnsi, ma rincara la dose: “Secondo me è peggio: la violenza che hanno fatto alla categoria è così plateale che non possono non rendersene conto”. Franco Siddi, segretario della Fnsi, sempre al Fatto, replica furibondo: “Iacopino fa politica politicante con una venatura corporativa e illusionista”.
SEMBRA UNO SCONTRO da vecchi tempi ma è lo specchio di una crisi di una categoria allo stremo. Come dimostra il caso dell’Unità che ancora ieri ha inviato l’ultimo messaggio in bottiglia : “Se non succedono fatti nuovi a luglio è chiusura”.
L’oggetto di una contesa così acuta è il contratto di categoria siglato qualche giorno fa sul quale si muove un terzo attore, intenzionato a dare battaglia negli organismi competenti: l’Associazione Stampa Romana diretta da Paolo Butturini. Il contratto è stato accusato per più ragioni. Innanzitutto per l’accordo sul “lavoro autonomo” che regola l’attività di precari e free-lance introducendo un “equo compenso” in 20 euro lordi ad articolo, 6 nel caso di agenzie. “È solo un compenso minimo” dice Siddi, “ci sono colleghi che guadagnano anche 5 euro ad articolo; i collaboratori della Gazzetta del Mezzogiorno ieri mi hanno abbracciato per questo risultato”. Per i coordinamenti di precari - “attivisti e gruppettari”, li definisce Siddi - si tratta, invece, di un salario da fame sancito nel contratto. Per questo l’8 luglio manifesteranno proprio davanti alla sede della Fnsi. I punti contestati sono anche altri: l’apprendistato professionalizzante per giovani tra i 18 e 29 anni che percepiranno una retribuzione ultra-ridotta per circa sei anni; le retribuzioni di ingresso per cui giornalisti professionisti possono essere pagati fino al 35% in meno. E poi il nodo dei lavoratori prossimi alla pensione che si vedranno corrispondere la “ex fissa” in rate fino a 12 anni. Accordi siglati con un’intesa a Palazzo Chigi che, invece, prevede fondi agli editori per 120 milioni in tre anni.
SIDDI PUNTA al pragmatismo: “Abbiamo difeso un contratto che gli editori volevano disdettare, garantendo diritti senza svendere nulla. Iacopino semina solo illusioni, punta al discredito del sindacato e strumentalizza i precari”. Il presidente dell’Ordine nega di voler puntare alla segreteria - “non sono iscritto a questo sindacato da venti anni” - ma non nega del tutto l’idea di una centralità dell’Ordine dei giornalisti nel regolare la vita di una categoria che al 60% non ha un contratto da lavoro dipendente. Siddi definisce questa impostazione “nostalgie da stato fascista che regola tutto con leggi delle corporazioni”. E se quello lo attacca chiedendo “quanti nella Fnsi sono in distacco sindacale da decine di anni?”, risponde che dell’Ordine “forse dovrebbe occuparsi il ministero della Giustizia”. Botte da orbi, insomma. “In realtà” spiega al Fatto Butturini, che sta lavorando alla riuscita della prima assemblea di opposizione, domani mattina a Roma (ore 10, via della Pigna 13/a), “il sindacato sta scontando la subordinazione agli editori e l’incapacità di parlare con giornalisti. La crisi esiste ma si poteva affrontare con uno scambio equo tra flessibilità e lavoro stabile”. E se ne esce, aggiunge, rinnovando radicalmente il sindacato, rappresentando davvero tutti i comparti, ripensando le strutture”. Butturini chiederà il referendum “per tutti i giornalisti” e in questo senso si è espressa Stampa Romana. Siddi dice che “il referendum si farà” ma avrà solo un valore politico perché il contratto è ormai firmato. Lo scontro è appena cominciato e durerà. Sempre che il sindacato sopravviva.

Repubblica 4.7.14
Ferrulli, assolti gli agenti: non fu omicidio
Milano, l’operaio morì dopo essere stato ammanettato in strada
L’accusa aveva chiesto 7 anni per “percosse e violenza ingiustificata”
Ma la Corte d’assise ha stabilito che i quattro poliziotti sono estranei a quella morte causata da infarto. “Il fatto non sussiste”
di Sandro De Riccardis



MILANO. Assolti. Perché «il fatto non sussiste». A tre anni da quella notte alla periferia di Milano, dove Michele Ferrulli, manovale di 51 anni, morì mentre i poliziotti lo ammanettavano, la Corte d’assise stabilisce che quei quattro agenti non hanno ucciso, non hanno picchiato un uomo fino a provocargli la morte. Quel 30 giugno 2011, invece, hanno agito correttamente, usando la forza necessaria per fermare la sua resistenza.
Per i quattro poliziotti del commissariato Mecenate e dell’ufficio Volanti, la procura aveva chiesto sette anni di carcere per omicidio preterintenzionale. Una lunga indagine, partita dalla tenacia della figlia della vittima, Domenica, 29 anni, che era riuscita a recuperare, in un campo rom, un telefonino col video e le voci degli ultimi minuti di vita del padre. Poi il dibattimento, durato quasi due anni, con le perizie sul cellulare, le testimonianze dei due amici romeni che erano con Michele a bere birra e ascoltare musica ad alto volume in via Varsavia, a pochi metri dall’Ortomercato. Nei fotogrammi si vedono i tre che scherzano e urlano in strada, l’arrivo delle volanti, Ferrulli che si muove verso gli agenti, uno di loro che agita una mano — per l’accusa è uno schiaffo, per la difesa un gesto inoffensivo — poi la vittima che scompare dietro un furgone, e quando ritorna nell’obiettivo del telefonino è a terra. I poliziotti lo circondano, tentano di ammanettarlo, l’uomo urla, chiede aiuto, muore.
Per la perizia della procura, Ferrulli aveva bevuto molto, era sofferente di ipertensione, e quando le fasi dell’arresto si fecero più concitate, venne colpito da una “tempesta emotiva” che ne provocò l’arresto cardiaco e la morte. Per il pm Gaetano Ruta, titolare dell’indagine, i quattro poliziotti avrebbero “percosso” Ferrulli con “violenza gratuita e non giustificabile”, tanto da avere come conseguenza non voluta il decesso. Ma l’accusa di omicidio preterintenzionale non ha superato il vaglio della Corte, presieduta dal giudice Guido Piffer, e della giuria popolare.
Alla lettura della sentenza, Domenica Ferrulli è scoppiata in lacrime, abbracciata e consolata da Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, morto a Varese nel giugno del 2008 in ospedale dopo essere stato portato nella locale caserma dei carabinieri, anche lei in lotta perché si faccia luce sulla morte del fratello. «È un momento difficile, ma attendiamo le motivazioni per capire — ha spiegato l’avvocato Fabio Anselmo, difensore di parte civile e legale anche nei casi Cucchi, Aldrovandi e Uva — La nostra tesi era in linea con quella della Procura. Resta comunque il profondo rispetto per i giudici». Soddisfatti i difensori dei quattro agenti. «I nostri assistiti non sono sorpresi perché sanno di aver agito correttamente », ha commentato l’avvocato Paolo Siniscalchi, che nella sua arringa aveva detto che quella sera «Ferrulli era una minaccia ed ebbe una reazione rabbiosa nei confronti degli agenti».

Repubblica 4.7.14
“È l’ultima manganellata, significa che in Italia c’è licenza di uccidere”
di S. D. R.


MILANO. «La sentenza è stata come un’altra manganellata. Significa che in Italia tutto è permesso: c’è licenza di uccidere». È in lacrime Domenica, la figlia 29enne di Michele Ferrulli, dopo la sentenza che ha assolto i poliziotti.
Cosa ha pensato in quel momento?
«È stato inaspettato, come un’altra manganellata. Dopo tre anni di processi e perizie favorevoli, con le versioni degli imputati continuamente cambiate, i video che mostrano papà picchiato, che supplica aiuto. Era molto eloquente ».
Perché questa decisione?
«Non lo capirò mai. È una sentenza atroce, che lascia sola non solo me, ma l’Italia intera, perché tutti abbiamo perso».
Come giudica il processo?
«Ero fiduciosa che sarebbero stati giudicati i fatti. Mi è stato detto che la legge non è uguale per tutti, ma questo processo mi faceva sperare, pensavo che qualcosa poteva cambiare. Non è stato così».
Cosa farete adesso?
«Non ci fermeremo. Oggi hanno ucciso me, e mio padre due volte».
Lei ha trovato il video da cui sono partite le indagini.
«Non è bastato né il video, né la voce di mio padre. Sentire “il fatto non sussiste” è stato atroce».
Cosa pensi dei poliziotti?
«Che ora c’è licenza di uccidere. Tutto è concesso ».
I loro avvocati hanno definito Michele “un violento”.
«L’unica violenza che ho visto è stata su mio padre, sul suo corpo inerme» .

Repubblica 4.7.14
L’incubo senza fine di Ezzat e gli altri bimbi rapiti dopo gli sbarchi
Minori sequestrati in Sicilia, i familiari (a Milano) ricattati
Ecco l’ultimo orrore del traffico di esseri umani dall’Africa
di Francesco Viviano


POZZALLO. «Per liberare tuo fratello devi darmi 1.000 euro altrimenti lo ammazzo o vendo il suo cuore, i reni e tutto quanto». Il “fratello” è Ezzat B., 14enne egiziano: uno degli oltre 6mila “minori non accompagnati” sopravvissuti alle traversate sui barconi e sbarcati qui a Pozzallo, ad Augusta e Porto Empedocle.
Ma l’odissea di Ezzat è proseguita anche dopo, quando è stato smistato in un centro di accoglienza per minori di Augusta. Lì ad attenderlo c’erano altri “trafficanti di esseri umani” che, pistola puntata sullo stomaco, lo hanno rapito, infilandolo in un furgone e poi in treno. Fino alla sua nuova “prigione”: un casolare a Priverno, in provincia di Latina, dove ha trovato altri bambini come lui. Sbarcati e rapiti.
Fortunatamente Ezzat e i suoi compagni di prigionia sono stati poi liberati con un blitz dalla Polizia che, un mese fa, ha arrestato anche i loro sequestratori, due egiziani e un marocchino in collegamento con i trafficanti che segnalano l’arrivo in Sicilia di nuove piccole “prede”. Ma quanti altri minori non accompagnati spariscono appena arrivati in Sicilia? Nessuno ha una risposta precisa: si sa solo quanti ne arrivano, ma non quanti ne sopravvivono. Spesso gli scomparsi risultano ancora “presenti” nei centri di accoglienza tra la Sicilia e il resto d’Italia, perché così i gestori incassano ancora le loro rette dalle prefetture. Ma è un business disumano che è stato scoperto per caso quando Nasr, il fratello di Ezzat, residente da anni a Milano dove fa il muratore in nero, ha ricevuto una telefonata dai rapitori che gli hanno chiesto in tono minaccioso di pagare “mille euro, in contanti e subito” per liberarlo. “Altrimenti lo ammazziamo”. Nasr non voleva crederci, ha chiesto di parlare con il fratellino che sapeva doveva arrivare in Italia con uno dei barconi partiti dalla Libia. «Sono prigioniero, ti prego liberami », l’ha implorato il piccolo. Così Nasr ha deciso di assecondare la richiesta dei rapitori. E, il giorno dopo si è presentato all’appuntamento con il carceriere marocchino: alle 10 del mattino alla stazione Centrale di Milano. Avvenuta la consegna dei mille euro per il riscatto, sembrava tutto finito. Ma l’indomani invece di liberare il piccolo, come da accordo, il rapitore chiama Nasr e gli chiede altri 2,000 euro. A quel punto, disperato, il fratello maggiore di Ezzat si rivolge alla polizia di Milano e il questore Savina allerta i suoi uomini per liberare quei ragazzini.
Gli investigatori risalgono all’utenza del carceriere e in 24 ore, con i colleghi di Latina, localizzano la prigione e irrompono in quel casolare nelle campagne di Priverno. Liberano Ezzat e un altro piccolo prigioniero, Ebyd M., arrestano i rapitori, che da anni risiedono tra Gaeta e Priverno. Così Ezzat può raccontare il suo incubo: «Sono partito dal mio villaggio in Egitto ad aprile, arrivando a Skandari dove sono rimasto per circa 15 giorni in attesa di essere imbarcato sul barcone che ci avrebbe portato in Italia. Con me c’erano altre 120 persone: abbiamo pagato dai 2.000 ai 5.000 mila dollari a testa. Poi con una grande nave che a metà strada è stata raggiunta da altre imbarcazioni più piccole sulle quali siamo saliti proseguendo il viaggio fino a quando delle navi della Marina Militare ci hanno soccorsi». E poi? «Accompagnati dai poliziotti siamo stati ospitati in una scuola siciliana dove ci hanno tenuto per tre giorni lasciandoci liberi di girare per il paese. Mentre ero in giro con altri ragazzi sonostato avvicinato da due arabi che mi hanno offerto di farmi fuggire verso nord. Ma volevano soldi e io non avevo più un dollaro... Mi hanno minacciato con una pistola e ci hanno portato a forza in stazione. Abbiamo viaggiato per tutta la notte e quando siamo arrivati in un’altra stazione ci hanno infilati in un furgone e portati in quella casa abbandonata dove ci hanno tenuti per giorni, senza cibo e con poca acqua ».

La Stampa 4.7.14
Blitz anti-ambulanti  con lo sfollagente in spiaggia
In Versilia scoppia la polemica

qui

Corriere 4.7.14
Con il manganello contro gli ambulanti in spiaggia
di Marco Gasperetti


PIETRASANTA (Lucca) — Alcuni bagnanti gridano a quegli strani «agenti» di non stare in spiaggia con i bastoni. «I bambini si spaventano», dicono ad alcuni militari della Capitaneria di porto, in maglietta bianca e pantaloncini blu, che a Marina di Pietrasanta, accanto a ombrelloni e secchielli, hanno appena fatto scattare un blitz contro i venditori abusivi. «Mica ho il bastone», risponde un militare. Ma una bagnante, che sta filmando la scena con un telefonino, gli grida che «sì, il bastone ce l’aveva prima» ricevendo come risposta «allora faccia un esposto in Procura». Poi il militare torna indietro e chiede alla signora un documento, lei rifiuta e lui replica «io sono un pubblico ufficiale». Alla fine, su invito di un collega, armato di bastone, se ne va mentre la donna continua a filmare.
Da ieri quel video sta diventando virale sulla rete e sta scatenando una raffica di polemiche. Sono le sequenze di un controllo antiabusivi avvenuto la mattina di mercoledì sulla spiaggia libera di Marina di Pietrasanta, in Versilia, un tratto di arenile popolare non lontano dagli stabilimenti balneari e dal Twiga, uno dei luoghi preferiti da Flavio Briatore, che proprio a inizio estate si era scatenato con un’esternazione anti abusivi ripresa dalle cronache locali, accusando la Versilia d’essere piena di venditori ambulanti senza regole.
Il problema è che stavolta, secondo alcune testimonianze e anche qualche sequenza dei video caricati su Internet, l’operazione condotta dagli uomini della Capitaneria e coordinata dalla questura, sarebbe stata esagerata e addirittura un ufficiale avrebbe tentato di sequestrare il video filmato in spiaggia, cosa poi non avvenuta.
«Sono controlli che abbiamo intensificato in accordo con la questura anche dopo le dichiarazioni di Briatore — conferma il sindaco di Pietrasanta Domenico Lombardi (Pd) — ce ne saranno altri e saranno estesi a tutta la Versilia. So che ci sono stati alcuni scontri verbali con esponenti di Rifondazione comunista, ma io confermo la piena fiducia nelle autorità perché la vendita illegale in spiaggia non può essere consentita. Se poi ci sono stati delle esagerazioni chiederemo che siano punite, ma credo che le cose siano avvenute nel pieno rispetto della legge. Comunque ne discuteremo oggi durante una riunione al commissariato di Viareggio».
Durante l’operazione, gli uomini della Capitaneria hanno sequestrato 2.500 pezzi contraffatti, per un valore di oltre 35mila euro, hanno denunciato una persona e multate altre tre per un totale di 15 mila euro. L’operazione ha incassato il plauso della maggioranza dei proprietari di stabilimenti balneari che da anni denunciano d’essere accerchiati dall’illegalità. E allo stesso tempo la condanna di molte famiglie che erano in spiaggia e hanno visto «i militari correre con i bastoni al vento» accanto ai castelli di sabbia dei bambini.
Il comandante della Capitaneria di Porto di Viareggio, Marco Iacono, annuncia un’indagine interna per capire se ci sono stati da parte dei suoi uomini comportamenti scorretti. «Ma già da ora escudo che i bastoni siano stati usati, solo mostrati — spiega —. I nostri uomini non sono armati e a volte la situazione sulle spiagge della Versilia è molto pesante. Due giorni fa un nostro sottufficiale è stato minacciato da un extracomunitario che era stato multato. Gli ha urlato che sarebbe andato sotto casa sua e gliela avrebbe fatta pagare. La mattina seguente il collega ha trovato il parabrezza della sua auto frantumato».

Il Sole 4.7.14
Orlandi «rilancia» sul Pos
«Serve una scelta politica, strumento per ora solo di moral suasion»
Lotta all'evasione. Prima uscita pubblica del neodirettore dell'Agenzia delle Entrate - «Sì all'autoriciclaggio»
di Andrea Marini e Marco Mobili


ROMA La nuova norma sui Pos per ora è solo una «moral suasion». A margine dell'incontro, tenuto al Cnel, per il «Premio Lef tesi di laurea 2012-2013» (riconosciuto dall'associazione per la legalità e l'equità fiscale che fa riferimento anche all'ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco), il nuovo direttore dell'agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, nella sua prima uscita pubblica, non ha rinunciato a intervenire su alcuni temi caldi di politica fiscale e contrasto all'evasione. «Credo ci voglia una scelta politica aggiuntiva rispetto a uno strumento che per ora è solo di moral suasion», ha risposto a una domanda sull'efficacia contro l'evasione del nuovo obbligo in vigore dal 1° luglio del Pos per i pagamenti sopra i 30 euro per professionisti, artigiani e commercianti.
Il neodirettore ha voluto dire la sua anche su altri argomenti caldi: «L'introduzione del reato di autoriciclaggio (il riciclaggio di denaro illecito compiuto dalla stessa persona che ha ottenuto tale denaro con mezzi illegali, ndr) nel provvedimento sul rientro dei capitali», ha aggiunto la Orlandi, «fa svoltare questo Paese. È un mezzo di contrasto all'evasione fortissimo e innovativo».
L'intervento del neodirettore sull'obbligo del Pos non ha mancato, però, di suscitare polemiche tra politici e operatori. Questi ultimi, come il responsabile fiscale della Confartigianato, Andrea Trevisani, precisano che «introdurre nuovi adempimenti pare in controtendenza rispetto ai principi della delega fiscale. Le informazioni di cui oggi dispone l'Amministrazione finanziaria, a cominciare dalla banca dati delle movimentazioni finanziare, rappresentano uno straordinario bagaglio di conoscenze che permette un'efficace contrasto all'evasione». Per i professionisti, Marina Calderone, presidente dei consulenti del lavoro, parla di un «aumento dei costi per gli studi, soprattutto nel caso di categorie che non hanno un contatto diretto con il consumatore finale. Chi ha rapporti con le imprese ha esigenze diverse rispetto ai pagamenti con le carte di debito». Gli fa eco Vilma Iaria, presidente dell' Associazione dottori commercialisti: «Noi rilasciamo fattura e riceviamo pagamenti con assegni. Il Pos obbligatorio rappresenta solo un contributo ulteriore alle banche. Siamo disposti a collaborare per recuperare l'evasione fiscale. Ma più le regole sono complicate, più quest'ultima aumenta». Dalla politica l'ex ministro e presidente dei deputati del Ncd, Nunzia De Girolamo, attacca: «Se il direttore dell'agenzia delle Entrate pensa che la priorità, per il rilancio dell'economia italiana, sia accelerare sull'obbligo del Pos per partite Iva, Pmi e professionisti, allora va fuori strada».
Dalla Orlandi non è mancata anche una risposta sui blitz anti-evasione come quelli di Cortina: «È stata montata una polemica. Credo invece che ci voglia un lavoro sereno e di continuità. È quello che stiamo facendo. Nei prossimi giorni il governo presenterà in Parlamento il rapporto sull'evasione fiscale e da lì si vedrà qual è la linea politica. Quello che possiamo assicurare come Agenzia - ha concluso - è il massimo impegno. Legando le tasse alle cittadinanza e alla legalità si può trasmettere il messaggio che "le tasse sono una cosa bella", come disse l'ex ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa». Anche il ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, ha sottolineato come sia necessario «compiere un passo in avanti verso la cultura della legalità fiscale», attraverso «l'apprendimento e l'insegnamento». Mentre l'ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, ha criticato anch'egli la norma sui Pos: «È riferita a una platea troppo estesa di operatori, non è stata preceduta da una trattativa con le banche per evitare costi eccessivi e infine non prevede penalità».

La Stampa 4.7.14
Spending review
Nel “laboratorio” Roma la sforbiciata neutralizzata dalle pressioni dei partiti
Dai rifiuti alla cultura, il piano Marino affonda tra i veti
di Paolo Baroni


Roma, lo sappiamo, in fatto di conti fa un po’ acqua da tutte le parti. Con le sue 44 farmacie la capitale, unico caso in Italia, riesce a perdere in media la bellezza di 10-15 milioni di euro l’anno, coi trasporti urbani gestiti dall’Atac quest’anno siamo arrivati a quota -219. Poi c’è il caso di Assicurazioni di Roma (AdiR), unica compagnia assicurativa in Italia controllata da un Comune, costituita nel 1971 per gestire «al meglio» le polizze delle migliaia di mezzi pubblici comunali e finita per praticare a suoi soci fondatori (oltre al Comune, l’Atac e l’Ama) tariffe che sono in media il 20% più alte del mercato.
Pressata dalla necessità di mettere assieme un piano di rientro da 550 milioni di euro in tre anni, per queste e per altre ragioni, la capitale in queste settimane è un po’ diventata il «laboratorio» della spending review. La palestra dove si sperimenta la cura che Cottarelli ha in mente per tutte le altre amministrazioni pubbliche. All’ombra del Campidoglio ridurre i costi, tagliare sprechi e recuperare efficienza, tanto più alla luce dei casi Farmacap e AdiR e delle pessime condizioni di Atac e Ama, è diventato un obbligo assoluto. Il piano dettato dal decreto «Salva Roma» non ammette cedimenti: e per questo la giunta guidata ad Ignazio Marino ha messo a punto un programma molto ambizioso quanto obbligato. «Vogliamo diventare un esempio virtuoso per tutti gli enti locali italiani» spiegava ancora ieri il sindaco Marino.
Che ha messo in conto di liquidare una trentina di società, con risparmi attesi per circa 90 milioni, e di dare il via ad una spending review «a 360 gradi» che va dagli affitti passivi alle utenze telefoniche, dalle spese per l’elettricità alle utenze idriche sino ai costi per l’acquisto di carburante, pc e software.
Lo scoglio più grosso, però è rappresentato dalle partecipate. Ai primi di aprile i piani prevedevano tra l’altro di cedere tutte le controllate dell’Ama, buona parte se non tutte le farmacie comunali, di riportare all’interno dell’Atac sia la manutenzione (Ogr srl) sia gli immobili (Roma patrimonio). E ancora di liquidare Trambus Open e Bravobus, di passare all’Agenzia della mobilità la realizzazione delle linee C e B1 fino ad ora assegnate alla società misto pubblico-privata Roma Metropolitane e quindi di procedere ad una serie di altri accorparmenti: Zetema fusa con Azienda Palaexpo per creare un unico polo culturale, il Centro ingrosso fiori fuso con il Centro agro alimentare. Ed infine le funzioni di Risorse per Roma assegnate ad altre aziende.
Poi la questione è approdata in consiglio comunale, nelle varie commissioni, sono entranti in campo i partiti coi loro mille interessi, ed il piano ha cominciato a perdere pezzi. Farmacap? Nessuna privatizzazione: andrà sul mercato il 20% appena, al massimo il 40%. Il Pd è d’accordo, Sel vorrebbe addirittura che restasse tutta pubblica ed in più occasioni ha minacciato di disertare i lavori del consiglio per protesta contro le «privatizzazioni». Non parliamo poi delle opposizioni, di Alemanno e Marchini, entrambi sulle barricate assieme ai grillini. ll sindaco Marino non è certo contento, ma poi non può che rimettersi alla volontà del consiglio perché comunque l’insieme del piano ha ottenuto un primo ok dal governo che di qui a un mese deve esprimere il suo parere e contribuire a sua volta al ripiano dei conti riconoscendo a Roma i costi legati alla funzione di capitale (Marino in questo modo si aspetta 110 milioni).
Nel frattempo, però, Roma Metropolitane passa a Risorse per Roma, che così si salva. Pure Zetema, dietro pressione del Pd, sembra non si tocchi più. Cedere AdiR? Idem. Il caso più eclatante, però, è quello di «Roma Multiservizi» una delle nove società partecipate dall’Ama, la disastrata azienda rifiuti, che secondo i piani doveva liquidare tutte le sue quote, anche le più piccole. La «Multiservizi» (51% Ama, 49% Manutencoop e la Veneta servizi) ha circa 3900 dipendenti ed un fatturato di 80-90 milioni di euro per il 60% assicurato dagli appalti di Roma Capitale. Si occupa delle pulizie e della manutenzione di scuole ed aree verdi. Il piano originale prevedeva l’uscita dell’Ama e l’assegnazione dei lavori tramite la Consip al Consorzio nazionale servizi che a sua volta doveva assorbire i dipendenti della Multiservizi, anche se non tutti. E proprio sulla questione occupazionale, anche se alla fine i posti non garantiti sembra fossero appena 250, quelli degli impiegati e dei dirigenti, è scoppiato un putiferio. I dipendenti hanno occupato il Campidoglio riuscendo a portare dalla loro parte tutto il consiglio comunale. Risultato: nessuna liquidazione e appalto prorogato di nuovo, «ma a prezzi allineati a quelli della Consip» assicurano in Campidoglio.
Fra un anno la quota Ama sarà messa in vendita attraverso una gara internazionale. Ma ci sarà qualcuno che se la compra se poi deve farsi carico di tutti i 3900 dipendenti attuali?

Corriere 4.7.14
Castelli, conventi e un’isola veneta
Nessuno compra i gioielli dello Stato
Incassati solo 610 mila euro, frena il piano voluto dal governo
di Giovanna Cavalli


ROMA — Non è andata proprio deserta, ma certo manco tanto affollata. La prima asta online per la vendita di cinque beni immobiliari di pregio lanciata dall’Agenzia del Demanio finora si è rivelata un piccolo flop. Soltanto uno dei lotti è stato aggiudicato: si tratta dell’ex ospedale militare di Trieste, venduto per 610 mila euro. Il vincitore, Maiko Mario Martin, immobiliarista, non ha vissuto il brivido dell’attesa: era l’unico concorrente.
Nemmeno il fascino di un’isoletta con vista su Venezia, Poveglia (due offerte in tutto, troppo basse), o quello del castello di Gradisca, vicino Gorizia (zero proposte) hanno convinto gli investitori a osare. Neppure per casa Nappi, palazzina di fronte al santuario della Madonna di Loreto, Ancona, è accaduto il miracolo: non si è fatto avanti nessuno. Per l’ex convento San Domenico Maggiore di Monteoliveto, Taranto, c’erano due pretendenti, ma hanno tirato troppo sul prezzo, 300 mila, non un euro di più, niente da fare.
Quattro beni su cinque dunque sono rimasti in collo al Demanio. Un avvio non esaltante del programma di dismissioni per rimpolpare le finanze statali, avviato dal governo Monti e confermato da quello di Matteo Renzi: entro il 2014, in totale, saranno messi all’incanto altri 40 complessi immobiliari di pregio, valutati dai 400 mila euro in su ciascuno — la prossima asta sarà lanciata entro luglio — più 483 immobili di minor valore e tipologia varia, come cantine, palazzine, garage.
Ci è rimasto male persino il Wall Street Journal . Il quotidiano americano, che ai magri affari demaniali italiani ha dedicato un lungo articolo, si stupisce per lo scarso successo dei nostri «pezzi di Storia» che hanno tanto fascino ma poco mercato. Certo, non è che i beni, indicati dal Mes (ministero per l’Economia e lo sviluppo) siano proprio irresistibili come il Colosseo, però almeno l’isolotto di Poveglia, di fronte alla bocca del porto di Malamocco, nella laguna sud della Serenissima, usata come lazzaretto dal 1814 e come presidio ospedaliero durante la Seconda Guerra mondiale, avrebbe in effetti quel certo non so che. Eppure l’offerta massima si è fermata a 513 mila euro, che l’Agenzia del Demanio ha valutato insufficiente e rispedito al mittente. Ovvero a Luigi Brugnaro, presidente di Assolavoro (agenzie interinali) che però era pronto a spendere altri 20 milioni per i lavori di ristrutturazione (l’idea era di farci un centro per i disordini alimentari).
Questo dei costosissimi restauri, spiegano all’Agenzia del Demanio, è uno dei motivi fondamentali dello scarso successo delle aste. «Il mercato immobiliare è fermo, i nostri sono pezzi impegnativi, richiedono massicci interventi di ripristino o di riconversione e in giro c’è scarsa liquidità». Ma se il proprietario si lamenta della parsimonia dei potenziali compratori, questi, ovvio, la pensano al contrario: che lo Stato gonfi i prezzi, incurante della crisi. «Questi burocrati devono capire che le loro valutazioni sono vecchie e non hanno più senso» si lamenta con il WSJ Antonio Albanese, l’imprenditore immobiliare che avrebbe voluto rilevare l’ex convento tarantino. «Il mercato è cambiato, dovrebbero abbassare le loro pretese».
In realtà il meccanismo dell’asta online non prevede un prezzo base di partenza, ma un sistema di offerta libera, che in teoria potrebbe anche essere di un solo euro. Per evitare perditempo, l’unica accortezza è una cauzione di 20 mila euro da versare in anticipo per poter partecipare. La proposta più alta viene poi valutata in base alla congruità economica e giudicata sufficiente o no. «Non abbiamo avuto la sensazione di un processo trasparente» confida al WSJ Davide Dalmiglio di Jones Lang Lasalle. Le stime dei singoli beni non sono rivelate. L’isola di Poveglia, secondo gli esperti, varrebbe tra i 5 e i 10 milioni. La modalità telematica, per quanto moderna, non è tanto piaciuta. Chi investe in acquisizioni così particolari preferirebbe, pare, un contatto più diretto.
A sminuire l’appeal dei nostri beni demaniali è anche l’atavica avversione dei privati per la burocrazia pubblica, considerata, non a torto, fonte di lentezze e intralci. Oltre alla presenza, quasi ovunque, di vincoli paesaggistici e ambientali. Emissari degli Emirati arabi hanno fatto toccata e fuga.
Il nuovo proprietario del complesso militare triestino non ha ancora deciso che cosa fare del suo acquisto: «Forse appartamenti, forse una casa di cura. In ogni caso è lo Stato che ci ha fatto un affare».

Repubblica 4.7.14
Non siamo un Land
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini


NEL discorso d’insediamento alla presidenza dell’Unione europea il presidente del consiglio Renzi ha dichiarato che «l’Europa deve cambiare altrimenti non ha futuro » e che «L’Italia è qui non per chiedere ma per dare ». Al discorso di Renzi è seguito l’intervento durissimo del capogruppo del Partito popolare, il tedesco Weber, il quale ha sostenuto che «i debiti uccidono il futuro e chiedere tempo per fare le riforme significa fare nuovi debiti». Eppure qualche giorno prima la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva detto sì ad una maggiore flessibilità nell’applicazione del patto di Stabilità: se i Paesi in recessione si fossero impegnati in programmi di riforme “strutturali” avrebbero potuto deviare temporaneamente dalla politica di consolidamento fiscale per realizzare investimenti sul piano nazionale. In tal modo si sarebbero allungati i tempi per il rientro nei parametri senza violare le regole stabilite in sede europea.
Le aperture della cancelliera tedesca erano apparse, però, del tutto insufficienti di fronte alla gravità della situazione: è il momento di cambiare non solo i tempi ma l’impostazione della politica economica europea che deve avere come priorità la lotta alla disoccupazione e non la riduzione del debito. E per creare occupazione servono investimenti e quindi notevoli risorse finanziarie. Per questo è necessario riformare lo statuto della Bce, lanciare gli eurobond e mettere in comune i debiti dell’eurozona. Nel frattempo i soldi versati nel fondo salvastati (Esm) andrebbero utilizzati immediatamente per finanziare un piano d’investimenti continentale. I fondi dell’Esm oggi sono gestiti in modo totalmente inefficace. L’Esm ha una forza di fuoco potenziale di 700 miliardi di euro, raccolti in gran parte emettendo bond sui mercati. La sua base è il capitale versato direttamente dai governi dell’area euro. La Germania che è il primo azionista con una quota del 27,1%, ha già pagato al fondo europeo 17,3 miliardi e alla fine dovrà versarne 21,7. L’Italia, che è il terzo azionista con il 17,9% (il secondo è la Francia), ha versato 11,4 miliardi e nel 2014 saranno 14,3. I soldi dell’Esm vengono investiti prevalentemente in titoli di Stato tedeschi che hanno il rating più alto. Ciò contribuisce a ridurre i tassi sui Bund e su tutto il sistema finanziario in Germania e ad allargare lo spread e lo svantaggio competitivo delle imprese in Italia. Di fatto i Paesi deboli del Sud Europa stanno sussidiando la ricca Germania.
In conclusione, occorrono proposte coraggiose che siano condivise dal numero maggiore possibile di Paesi dell’euro, valutando soluzioni alternative nel caso in cui tali proposte venissero respinte. Non siamo entrati in Europa per diventare una provincia dell’impero tedesco.

La Stampa 4.7.14
Europa, fronte comune contro xenofobia e antisemitismo
di Frank-Walter Steinmeier

Ministro degli Esteri tedesco

Le elezioni europee hanno dimostrato che i cittadini dell’Europa sono interessati al progetto europeo. La campagna elettorale in cui per la prima volta si sono presentati i primi candidati delle maggiori famiglie partitiche ha contribuito a mobilitare i cittadini europei. L’evidente aumento dell’affluenza alle urne in alcuni Stati membri, in Germania quasi del cinque per cento, è un’inversione di tendenza. Nell’insieme dell’Ue la partecipazione alle elezioni si è stabilizzata dopo decenni di calo continuo.
Le famiglie dei partiti democratici dispongono di chiare maggioranze anche nel nuovo Parlamento. Questo nuovo Parlamento è capace di agire e di decidere. Le esperienze dell’ultima legislatura dimostrano che con tutta la competizione politica i democratici europei- socialdemocratici, conservatori, liberali e verdi vogliono e possono muovere e plasmare politicamente l’Europa in seno al Parlamento insieme al Consiglio e alla Commissione.
Ma ci sono anche sviluppi critici che non ci devono sfuggire. La massiccia presenza di deputati dell’estrema destra mi preoccupa profondamente. Quasi il dieci per cento dei mandati provenienti da più di dieci Paesi in tutta l’Ue riguarda partiti che sono apertamente ostili alla libera circolazione e ai diritti delle minoranze.
I partiti populisti contrari al percorso dell’integrazione hanno ottenuto così tanti seggi come mai prima. In alcuni Paesi le forze estremiste sono potute entrare al Parlamento europeo come uno dei partiti maggiori o addirittura come primo partito. Le conseguenze shock causate da questi risultati elettorali sono percettibili in tutta l’Europa dal 25 maggio.
Partiti apertamente di estrema destra dispongono di seggi e voti nel nuovo Parlamento. Che la Npd ha ottenuto un biglietto per Strasburgo e Bruxelles è qualcosa di cui vergognarsi. Dopo il venir meno della soglia del tre per cento statuito dalla Corte Costituzionale federale entrano al Parlamento europeo partitini tedeschi senza programma politico serio. Ad ogni modo, il lavoro pratico nel Parlamento contro l’opposizione di estremisti e populisti non viene certamente facilitato dalla presenza di gruppi minuscoli.
Le ragioni del successo elettorale dei partiti xenofobi sono molteplici e si distinguono da un paese all’altro. Sicuramente hanno avuto un ruolo gli effetti della profonda crisi finanziaria ed economica che hanno colpito duramente e in modo particolare il Sud dell’Europa. In quei Paesi l’Europa viene percepita da molti, soprattutto dai giovani, non più come promessa di una vita migliore bensì piuttosto come minaccia. La disoccupazione drasticamente aumentata, soprattutto il livello insopportabile della disoccupazione giovanile, come ad esempio in Spagna o in Grecia, suscita in alcuni dubbi sulle attuali condizioni politiche e li induce a votare per partiti euroscettici ed anche estremisti. I processi di riforma hanno comportato dure conseguenze alle quali la gente reagisce anche nelle urne.
Ora che abbiamo superato la fase più dura della crisi economica ed ovunque ci sono fragili segnali di crescita e ripresa dobbiamo essere all’altezza delle legittime aspettative della gente e lavorare sodo per stimolare una nuova crescita, creare posti di lavoro e dare alla gente delle prospettive. È bene che su questo vi sia un’ampia intesa in Europa. Il presidente designato della Commissione europea Jean-Claude Juncker riceve un mandato forte dai Paesi membri e dal Parlamento europeo per il sostegno alla crescita e la creazione di posti di lavoro.
Se avremo successo verrà a mancare il terreno fertile ai partiti estremisti. Ma questo non basta. Dobbiamo tener fronte anche ai populisti ed estremisti al Parlamento europeo e fargli capire di non andare oltre a certi limiti.
Gli insulti xenofobi, razzisti ed antisemiti vanno respinti con determinazione al Parlamento europeo – in aula, nelle commissioni e in pubblico.
Sono del parere che una nuova commissione da istituire al Parlamento europeo contro il razzismo e l’antisemitismo sia la giusta risposta all’estremismo di sinistra e di destra. Sarebbe il luogo adatto per affrontare non solo sporadicamente bensì regolarmente la sfida rappresentata dalla xenofobia, dall’antisemitismo e dall’estremismo al nostro sistema di valori europeo e dare risposte chiare.
Sono anche in favore dell’introduzione di una soglia minima in tutta l’Europa per poter essere eletto al Parlamento europeo. Infatti, non riesco a capire in che modo l’ingresso di partitini, per lo più movimenti incentrati su un solo tema, dovrebbe aumentare la rappresentatività dello spettro politico di un Paese. In molti Paesi esiste una soglia minima nazionale per entrare al Parlamento europeo. Sarebbe un passo importante se si riuscisse a stabilire regole comuni per l’Unione europea.
In questo modo possiamo rafforzare la democrazia europea e la legittimità del Parlamento europeo. La lotta alla xenofobia e al razzismo è un compito importante della politica europea nei prossimi anni. Si tratta della difesa dei nostri valori fondamentali europei: rispetto della dignità dell’Uomo, libertà, uguaglianza, democrazia e protezione delle minoranze.

Il Sole 4.7.14
Germania. Dal Bundestag sì al salario minimo
Dal 1° gennaio 2015 lo stipendio base per ogni ora di lavoro sarà di 8,5 euro
Vittoria dei socialdemocratici di Gabriel che ne avevano fatto una bandiera durante la campagna elettorale
di Roberta Miraglia


La Germania ha per la prima volta un salario minimo. Il Bundestag, dopo due mesi di infuocata discussione, ha approvato ieri la legge che fissa in 8,50 euro all'ora la paga minima a partire dal 1° gennaio 2015. La riforma interessa quasi 3,7 milioni di lavoratori, soprattutto nei Länder dell'Est; stabilisce eccezioni in alcuni settori vulnerabili per un periodo transitorio di due anni; esclude i lavoratori coperti da contratti collettivi; i minori di 18 anni, gli apprendisti e i disoccupati di lungo termine per i primi sei mesi dal rientro sul mercato del lavoro. Istituisce una commissione imprenditori-sindacati a cui spetterà, in futuro, stabilire il livello del salario.
La larghissima maggioranza ottenuta alla Camera bassa del Parlamento, 535 sì e 5 soli voti contrari, non oscura il dato di fondo della svolta di politica economica più controversa nell'intero Patto di grande coalizione: si tratta di un'importante vittoria dei socialdemocratici che ne hanno prima fatto il cavallo di battaglia in campagna elettorale e poi la condizione per aderire alla maggioranza dominata dai cristianodemocratici di Angela Merkel costretti all'alleanza rosso-nera. Il partito del cancelliere e le associazioni imprenditoriali, oltre che autorevoli think tank, hanno invece osteggiato il tetto minimo per legge preferendo la strada dell'autonomia delle parti sociali. E in molti hanno lanciato l'allarme sul rischio che centinaia di migliaia di posti di lavoro vengano cancellati, in particolare nelle piccole aziende delle regioni meno ricche.
Ma l'Spd di Sigmar Gabriel non ha avuto tentennamenti e ora si gode il successo, forte di sondaggi secondo i quali nove tedeschi su dieci sono favorevoli: «È una giornata storica per la Germania» ha commentato il vicecancelliere mentre il ministro del Lavoro, Andrea Nahles, nel discorso al Bundestag ha parlato di «grande gioia» e sottolineato con enfasi che il paese volta pagina, archiviando il lato oscuro della piena occupazione tedesca. «Lavoro duro, a buon mercato e non protetto. Questa è stata la realtà per milioni di persone in Germania. Ma è finita» ha detto Nahles, ricordando che ci sono voluti «dieci anni di discussioni e di liti» per compiere finalmente questo passo. Il decennio di Merkel, appunto, seguito alla sconfitta dell'Spd di Gerhard Schröder, il cancelliere artefice delle riforme del lavoro - l'Agenda 2010 - che spaccando all'epoca partito e sindacato hanno introdotto flessibilità e ridato slancio al paese in crisi dopo la riunificazione, afflitto da tassi di disoccupazione a due cifre.
Le leggi Hartz, dal nome del capo della commissione istituita da Schröder, hanno avuto il merito di contenere il costo del lavoro e contribuito a dare al paese una competitività invidiata in tutto il mondo. Ma al tempo stesso hanno creato una fascia sempre più ampia di occupati sotto pagati che ricorrono ai sussidi pubblici per vivere. Il nodo del salario minimo è diventato urgente in seguito al calo della copertura degli accordi collettivi scesa dal 70% della forza lavoro del 1998 al 59% attuale. Pur di condurre quindi la legge in porto - manca soltanto il via libera, scontato, del Senato - l'Spd ha accettato più eccezioni di quante ne avrebbe volute, suscitando le critiche furiose di alcuni sindacati. Ma l'uno-due messo a segno insieme all'approvazione della legge che permette il pensionamento anticipato è un risultato pieno. Che ha costretto Merkel, ieri sera, a parlare di «dolorosi compromessi».

Il Sole 4.7.14
Gli effetti
L'impatto più forte su giovani e Länder dell'Est
di R. Mi.


I giovani, i lavoratori dell'ex Germania Est, gli occupati nel settore dei servizi, i non qualificati. Sono le categorie che più beneficeranno della legge sul salario minimo perché stanno lì i posti di lavoro pagati meno di 8,50 euro lordi l'ora, spesso non più di cinque.
Secondo uno studio dell'istituto di ricerche economiche berlinese Diw tocca il 50% la quota di under 25 che percepiscono meno di 8 euro e mezzo; nei Länder dell'Est la quota supera il 30%, mentre a Ovest del 15. E se nel settore privato il 22% dei dipendenti potrebbe godere di aumenti salariali, nel pubblico solo l'8% non raggiunge il minimo. Gli impieghi poco qualificati vedono la quota salire al 35 per cento.
Quanto agli effetti, le posizioni sono molto distanti e vanno comunque misurati alle luce delle eccezioni introdotte. Un'idea dei compromessi accettati dalla Spd la danno proprio le stime sui lavoratori interessati a un aumento degli stipendi: 3,7 milioni per il governo tedesco, quasi sei milioni secondo Diw e Deutsche Bank in report che teneva conto della prima bozza.
Per l'associazione delle medie imprese le eccezioni sono ancora insufficienti e se non verrà aggiustata la riforma si trasformerà in un «killer per legge» di posti di lavoro, come ha detto il suo leader Mario Ohoven. Paura condivisa da alcuni analisti: Deutsche Bank ha pronosticato tra 450mila e un milione di posti di lavoro in meno. E, inoltre, una spirale di aumenti del costo. L'1,3% nel 2015 secondo Commerzbank.
Anche se non ci sarà un'emorragia di posti sarà comunque più difficile trovare lavoro per i non qualificati nelle regioni meno ricche. Lo sostiene Marcel Fratzscher, presidente di Diw. L'istituto pronostica un altro effetto della legge, prendendo come modello l'esperienza britannica: le aziende vedranno una riduzione della redditività e inevitabilmente aumenteranno i prezzi. Crescita dei salari, dei consumi e inflazione costituiranno dunque effetti collaterali per molti versi auspicati dai partner europei nello spinoso dibattito sugli aggiustamenti macroeconomici dell'Eurozona.
Ma a Berlino preoccupa la competitività e anche chi prevede nel breve termine uno stimolo all'economia, come Carsten Brzeski, capo economista a Ing, nel lungo teme problemi per la competitività internazionale del paese.

La Stampa 4.7.14
Guerriglia per il corpo di Mohammed
«Questo bambino è stato ucciso dai coloni, che agiscono come gangster»
Israele trattiene la salma del ragazzo ucciso
E il suo quartiere diventa un campo di battaglia. Oggi i funerali
di Maurizio Molinari


Bandiere di Fatah, barricate annerite, stazioni del treno devastate, immagini del giovane Mohammed Abu-Khdeir ovunque e grida di «Allahu Akbar» per sfidare gli agenti. È Shuafat Road il teatro di una protesta palestinese che punta a strappare a Israele il controllo di un lembo di territorio di Gerusalemme. Il casus belli è la morte violenta di Mohammed, 17 anni, avvenuta giovedì in un bosco fuori città: la polizia israeliana ancora non ha un movente ma per i feddayn di Shuafat, il quartiere dove vive la famiglia Abu-Khadeir i colpevoli sono ben noti.
«Questo bambino è stato ucciso dai coloni, che agiscono come gangster» dice il gran mufti di Gerusalemme, Sheik Mohammed Hussein, interpretando il sentimento collettivo per rendere omaggio a Hassan Abu-Khdeir, padre della vittima, sulla Al-Maari Street dove gli anziani del quartiere hanno creato un mini-accampamento di solidarietà. Tutti vogliono identificarsi con Hassan. C’è chi lo abbraccia, chi lo bacia, chi lo tira per la giacca e chi lo prende per mano. Con occhi stanchi e voce fioca, Hassan ha un momento per tutti. Alle tv si dice «devastato», confessa di «non aver dormito da quando ho saputo della morte di mio figlio» e grida l’«indignazione» per «non poter ancora avere la sua salma».
È questo il motivo per cui, per il secondo giorno consecutivo, la Shuafat Road è terreno di battaglia. Il quartiere palestinese a ridosso dell’omonimo campo profughi - l’unico dentro il perimetro urbano di Gerusalemme - aspettava la salma ieri mattina dall’obitorio di Abu Kabit ma fino al calar della sera non era arrivato. Fonti della famiglia parlano di una «trattativa con Israele» perché «ci hanno offerto la salma a condizione di fare il funerale alle 2 del mattino» mentre «Haaretz» scrive che i genitori volevano le esequie nella moschea di Al Aqsa, sulla Spianata delle Moschee, ma mai nessuno ha avuto tale permesso.
L’impressione diffusa fra gli abitanti di Shuafat è che il braccio di ferro sul rilascio della salma nasca dal tentativo delle autorità israeliane di limitare l’impatto di un funerale destinato a trasformarsi in protesta di massa. Viene interpretato così anche il fermo al posto di blocco di Hebron di Sabr Al-Alul, il medico palestinese incaricato di partecipare all’autopsia ma - a causa di un ritardo di due ore - giunto a cose fatte. «Muhammed è stato assassinato dai coloni e ora Israele ci nega la salma per proteggerli» gridano i parenti della vittima.
È la miccia che rilancia i feddayn all’assalto della polizia. Si tratta di qualche centinaio di giovani, fra i 20 e 30 anni. Hanno i volti coperti dalle kefiah o passamontagna con i colori palestinesi. C’è chi sventola bandiere nere o bianche, con il nome di Allah e le insegne di Fatah. Ma ci sono anche le strisce verdi di Hamas, attorno alla testa di chi osa di più. Le retrovie della protesta sono nel dedalo di vicoli che si diramano dalla E-Sahel Street. È qui che grandi sassi vengono frantumati per meglio bersagliare gli agenti come è qui che i feddayn si ritirano quando la polizia si fa strada con i lacrimogeni. Le forze di sicurezza israeliane sembrano voler evitare l’affondo, si limitano a controllare a distanza i manifestanti, chiudendo Shuafat Road ai due estremi, per evitare il contagio della protesta verso altri quartieri arabi.
È una tattica che lascia il controllo di Shuafat Road ai feddayn, il cui intento è trasformarla in angolo di Gerusalemme «liberata dall’occupazione», come ripetono in un inglese stentato. A segnare i confini sono i cassonetti della spazzatura bruciati: i manifestanti li usano per sfidare la polizia come per delimitare l’area controllata, da Aluf Yakutiel Adam a Ben Jabil, con al centro la moschea di Al-Maari. Ciò che più attesta la conquista del territorio è la demolizione delle stazioni del treno leggero, creato dalla municipalità israeliana per sancire un’unione della città che Shuafat rigetta. Da qui panchine divelte, segnali bruciati, vetri infranti e strutture demolite coperte di scritte «Morte a Israele» e «Morte agli ebrei». In attesa del funerale di Mohammad che si terrà oggi dopo la preghiera del venerdì, aprendo la strada ad una resa dei conti sul controllo di Shuafat Road.

La Stampa 4.7.14
“Comincia la Terza Intifada, siamo con le spalle al muro”
Mustafa Barghouti: è Netanyahu a volere la violenza
intervista di Giordano Stabile


Una Terza Intifada? «Sta già scoppiando». Mustafa Barghouti parla da Ramallah. Traspare la tensione che lo circonda. Già ministro, secondo alle presidenziali palestinesi del 2005, fondatore del partito Iniziativa Nazionale, ora sprofonda nel pessimismo. «Ogni nuova vittima è una pietra sulla tomba del processo di pace, sulla soluzione due popoli, due Stati. Ma chi è il responsabile è fin troppo chiaro. Il governo israeliano. Che quella soluzione non l’ha mai voluta, l’ha annegata in un mare di nuovi insediamenti illegali».
Lei ha detto che il responsabile della tragica morte dei tre ragazzi israeliani è Netanyahu. Non è troppo?
«Chi li ha mandati a vivere in insediamenti illegali, in un territorio occupato? Chi li ha esposti al pericolo? Io sono contro la violenza. L’ho sempre condannata. Credo che la Terza Intifada sarà un grande movimento di resistenza non violenta, come in Sudafrica».
Al momento siamo nella spirale vendetta contro vendetta.
«I palestinesi non ci guadagneranno niente. La violenza favorisce solo i disegni di Netanyahu. In cinque anni sono stati uccisi 2 mila palestinesi. Lo sapeva? Ma io sono contro l’occhio per occhio».
Hamas non la pensa così.
«Anche Hamas ha detto chiaramente che reagirà con la forza solo se verrà attaccata dall’esercito israeliano. Se la Striscia verrà invasa».
Ma ci sono grosse differenze fra il suo partito, l’Anp di Abu Mazen e Hamas. Come fate a governare insieme?
«Prima di tutto il nuovo governo di unità nazionale è formato da personalità non politiche. Di proposito. I palestinesi non possono più permettersi di restare divisi. Sotto la pressione degli insediamenti i Territori si stanno trasformando in tanti piccoli Bantustan».
Crede ancora alla soluzione due popoli, due Stati?
«Non dipende da noi palestinesi. Se gli israeliani la vogliono, siamo pronti. Ma stanno andando nella direzione opposta».
Devono fermare gli insediamenti. E poi?
«Abolire tutte le leggi liberticide. Le leggi segregazioniste. Smantellare i 743 checkpoint che tagliano a fette i Territori palestinesi».
Se no?
«Se non vogliono i due Stati punteremo a un solo Stato, democratico, dove arabi ed ebrei possano vivere insieme».
Quello che gli israeliani non accetteranno mai. Che deve fare l’Occidente?
«Premere su Netanyahu. Servono sanzioni, estendere il boicottaggio».
Si riferisce alle sanzioni contro le aziende che operano nelle colonie in Cisgiordania?
«Non solo su quelle. Su tutto Israele. Le colonie sono il terminale di una politica illegale».

Corriere 4.7.14
Israele muove le sue truppe verso Gaza
Scontri a Gerusalemme, spostati a oggi i funerali del ragazzo arabo ucciso
di D. F.


GERUSALEMME —Il padre di Mohammed non vuole celebrare il funerale di notte. Gli israeliani non vogliono che il corteo parta dalla moschea Al Aqsa. Il padre di Mohammed pretende dagli investigatori l’annuncio che suo figlio «è stato ammazzato dai coloni». Yitzhak Aaronovitch, ministro per la Sicurezza interna, ripete che l’indagine è aperta, le motivazioni dell’omicidio potrebbero essere non politiche.
L’attesa senza risposte non aiuta a calmare i ragazzi palestinesi di Shuafat che da due giorni, da quando il corpo di Mohammed Abu Khudair è stato trovato carbonizzato nella foresta attorno a Gerusalemme, battagliano con le forze israeliane. Gli scontri sono ripresi al tramonto, alla fine del digiuno quotidiano per il mese di Ramadan, e si sono estesi ad altri quartieri della città. Alla fine i negoziati all’obitorio tra la famiglia e la polizia hanno portato alla decisione di organizzare la sepoltura oggi, dopo la preghiera in moschea del venerdì.
Il governo di Benjamin Netanyahu promette di trovare al più presto i responsabili dell’assassinio, è quello che gli chiedono anche gli europei e gli americani. E prova a contenere le dimostrazioni di odio anti arabo: i soldati di un’unità formata da religiosi ortodossi sono stati puniti con dieci giorni di carcere per aver pubblicato le loro foto sulla pagina Facebook «Israele chiede vendetta», creata dopo il ritrovamento lunedì pomeriggio dei cadaveri dei tre ragazzi rapiti e subito uccisi il 12 giugno. «Non basta essere disgustati da questo razzismo, bisogna dire basta, altrimenti la maggioranza diventa complice», dice Reuven Rivlin, che a fine luglio assumerà l’incarico di ottavo presidente israeliano.
L’esercito ha continuato le operazioni in Cisgiordania per catturare i due palestinesi sospettati degli omicidi. Fanno parte di un clan molto potente di Hebron e vicino ad Hamas: i leader del movimento fondamentalista ripetono di non essere coinvolti e sembrano voler ridurre le tensioni per tornare alla tregua stabilita dopo otto giorni di guerra nel novembre 2012. La strategia dei capi politici potrebbe essere capovolta dalle azioni dei loro militanti. I lanci di razzi da Gaza non si fermano, ieri mattina sono stati centrati due palazzi, uno ospita un centro estivo per bambini.
L’aviazione israeliana ha risposto colpendo obiettivi nella Striscia, dieci civili sono rimasti feriti. I generali hanno spostato rinforzi (per ora limitati) verso il fronte sud. «Non sono i preparativi a un’operazione militare — spiega un portavoce — vogliamo mandare un messaggio ad Hamas: deve fermare il bombardamento, nelle prossime ventiquattro ore vedremo se ha capito».

Corriere 4.7.14
La rivoluzione di Rachel
di Davide Frattini


La preghiera in aramaico non nomina la morte anche se è dedicata a un morto. Il kaddish intonato da Rachel Frenkel al funerale del figlio Naftali ha simboleggiato la forza di questa madre che per diciotto giorni ha sperato di poterlo riabbracciare, senza piangere fino al momento del funerale. E ha rappresentato un momento quasi rivoluzionario — fa notare il quotidiano Haaretz — per le donne della comunità ortodossa israeliana: non che per loro sia proibito recitarlo, ma il permesso è accordato raramente. Non era mai successo in pubblico, davanti alle telecamere e con il rabbino capo David Lau seduto in prima fila.

l’Unità 4.7.14
Raid di Israele, venti di guerra a Gaza
Israele mobilita l’esercito dopo l’uccisione dei tre ragazzi. Colpiti 15 obiettivi di Hamas
A Gerusalemme Est esplode la rabbia dei palestinesi per l’assassinio del 16enne palestinese
Israele trattiene la salma del ragazzo.
E il suo quartiere a diventa un campo di battaglia. oltre 200 feriti negli scontri


Raid aerei, lanci di razzi, truppe ammassate ai confini, il richiamo dei riservisti. Venti di guerra a Gaza, mentre a Gerusalemme Est esplode la rabbia dei palestinesi. Tensione altissima in Medio Oriente, dove continuano i raid dell’aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza: l’altra notte sono stati colpiti 15 obiettivi di Hamas. Il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi ebrei in Cisgiordania ha dato il via ad un’escalation dalle conseguenze imprevedibili che potrebbe portare anche ad un vero e proprio conflitto tra Israele e Hamas. In realtà il governo israeliano appare diviso e, sebbene Netanyahu abbia promesso il pugno duro contro i responsabili, ancora non è chiaro fin dove possa spingersi la reazione dello Stato ebraico. Israele ha mobilitato truppe di fanteria nel sud del Paese al confine con Striscia, forse in vista di un'operazione più ampia. Il bilancio dei raid aerei di mercoledì notte è di 15 feriti, di cui uno grave, secondo fonti di Gaza. I raid sono scattati dopo alcuni colpi d’arma da fuoco sparati dal territorio palestinese sullo Stato ebraico.
BRACCIO DI FERRO
Le forze armate israeliane parlano di «raid aerei di precisione» che hanno colpito obiettivi strategici come lanciarazzi nascosti, magazzini di armi e siti di «attività terroristiche». Immediata la replica di Hamas: 15 razzi sono partiti verso la cittadina di confine di Sderot, due dei quali hanno colpito edifici, provocando un danno al sistema generale di erogazione dell’energia elettrica in questa città del sud di Israele. Non si registrano feriti. «La quiete sarà accolta con la quiete»: così una fonte militare si è espressa sulla situazione in corso ai confini con la Striscia di Gaza dopo le notizie di una mobilitazione di forze di fanteria dell’esercito. «Se Hamas - ha aggiunto la fonte, citata da Haaretz - si muoverà per fermare il lancio di razzi nel sud, Israele non andrà verso un’escalation della situazione. Ma al tempo stesso Israele, se necessario, sa come muoversi». «Diverse decine» di ufficiali saranno di stanza nelle città intorno all’enclave palestinese, nel sud di Israele», spiega un portavoce di Tsahal, il colonnello Peter Lerner.
Continua intanto la caccia delle forze di sicurezza israeliane agli autori dell’assassinio dei tre studenti ebrei ritrovati morti lunedì vicino a Hebron. Ieri mattina sono stati arrestati 13 palestinesi in diverse località della Cisgiordania. Nel corso dell’operazione sono anche stati chiusi due centri legati ad Hamas, il movimento islamista che Israele ritiene responsabile dell'assassinio dei tre adolescenti.
La tensione è alta anche a Gerusalemme, dove sono proseguiti anche ieri mattina all’alba gli scontri nella parte araba della città, soprattutto nei quartieri di Shufat, dove martedì sera è stato rapito il sedicenne Mohammad Abu Khdeir, il cui cadavere è stato ritrovato poche ore dopo a ovest della città. I palestinesi accusano estremisti israeliani dell’assassinio, condannato senza appello anche dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. L’altro ieri i disordini si erano estesi a diversi quartieri di Gerusalemme est, tra cui Silwan, Issawiya, Ras al-Amud e Anata. La tensione è tornata a riaccendersi nel pomeriggio di ieri: le autorità israeliane non hanno ancora riconsegnato alla famiglia il corpo per i funerali, riaccendendo la protesta palestinese. La polizia ha inoltre negato la Spianata delle Moschee per la processione funebre mentre si è detta d’accordo ad aprire l’accesso di Shufat, il quartiere dove viveva Mohammad. A ieri, il bilancio complessivo degli scontri successivi alla notizia della morte dell’adolescente palestinese, è di 232 feriti, 187 feriti dei quali proiettili di gomma, come ha spiegato la Mezzaluna Rossa. Altri scontri sono avvenuti a Qalandya, in Cisgiordania, e nelle città meridionali di Beit Fajjar e Betlemme, dove i manifestanti hanno lanciato pietre e molotov.
La protesta cresce anche sui social network. Su Twitter l’hashtag #mohammadabukhdair raccoglie foto e ricordi del ragazzino ucciso. L’omicidio del sedicenne è stato condannato in maniera unanime. «Non c’è nessuna differenza tra il sangue arabo e quello ebreo. Un omicidio è un omicidio», ha commentato Yishai Fraenkel, lo zio di uno dei tre ragazzi israeliani rapiti e uccisi in Cisgiordania. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (ABu Mazen) ha chiamato in causa i coloni e ha chiesto a Israele «la punizione più ferma degli assassini se vuole veramente la pace». Il premier israeliano ha condannato lo «spregevole omicidio» e ha rivolto un appello a non «farsi giustizia da soli». Condanna anche dall’Onu e dalla Ue.

il Fatto 4.7.14
Medio Oriente di sangue
Israele, i fortini dei coloni e la caccia al palestinese
La guerra di Israel, leader oltranzista: “quello che dice l’ONU non ci interessa, i territori sono la nostra casa I soldati dovranno ammazzarci per portarci via”
di Roberta Zunini


Israel vuole essere chiamato solo con il suo nome, che dice tutto. Ha uno sguardo di ghiaccio e parole di fuoco: “Che il governo e l'esercito israeliani facessero ciò che vogliono, noi dalla Giudea e dalla Samaria (Territori occupati palestinesi, secondo l'Onu, ndr) non ci muoviamo. I soldati d'Israele dovranno passare sul nostro cadavere prima di portarci via dalla nostra terra. La Bibbia ha scritto che appartiene a noi. Punto. E di quello che ha stabilito l'Onu, attraverso le sue risoluzioni, non ci importa nulla. Se ci considerano illegali, peggio per la comunità internazionale”.
Mentre la polizia di Gerusalemme rifiuta di acconsentire che il corteo funebre del diciassettenne palestinese Mohammed Abu Kndeir – ucciso e bruciato per una probabile ritorsione dei coloni, dopo essere stato rapito nel campo profughi di Shufat a Gerusalemme Est – parta dalla Spianata delle Moschee, per timore di scontri tra palestinesi ed ebrei oltranzisti, e lo rimanda a tarda ora altrove, risentiamo e rivediamo Israel via Skype, dopo averlo incontrato esattamente un anno fa nella colonia di Efrat dove aveva portato una giovane ebrea americana, appena trasferitasi nella colonia di Ma'ale Adumim, a fare training di tiro alla sagoma di cartone di un terrorista (guarda caso dalle sembianze arabe) nella base di “Caliber 3”. L'accademia privata di controterrorismo e sicurezza” fondata dall'ex colonnello di unità d'assalto dell'esercito israeliano, Sharon Gat, che ci aveva detto: “I palestinesi hanno tanti paesi arabi dove andare. Ma si ostinano a rimanere qui, sulla nostra terra. Quella che il diritto internazionale considera Territori occupati, la cosiddetta Cisgiordania o West Bank, ma che per noi è la nostra terra”.
QUELLA PROMESSA, ma non è fatta di latte e miele, perché dalla Guerra dei sei giorni, nel 1967, nei Territori la vita è miserabile ogni giorno di più, soprattutto per i palestinesi e in definitiva, anche per i coloni, pure per i più oltranzisti, come Israel, costretti a deambulare armati fino ai denti ogni secondo della propria esistenza - come un vero e proprio esercito - e a vedere le proprie mogli con i mitra a tracolla, mentre spingono i passeggini nei viali alberati e pieni di fiori delle colonie, grazie all'acqua sottratta alle vene palestinesi. “Hebron è il male assoluto”, ha scritto e ribadito più volte il giornalista israeliano del quotidiano progressista di Tel Aviv, Haaretz, Gideon Levy. La colonia ebraica a Hebron è dentro la città vecchia, annidata nei piani alti da cui i coloni tirano acqua di scarico e vetriolo sui vicoli dove i palestinesi hanno i loro negozi.
NEMMENO DI NOTTE si può riposare: i coloni, protetti dall'esercito israeliano che chiude gli occhi, soprattutto nell'area C – sotto il pieno controllo delle forze di sicurezza israeliane e che coinvolge il 65% di tutto il territorio occupato – approfittando del buio escono dai loro recinti di muri e filo spinato per andare a bruciare i raccolti dei palestinesi. Il giornale ebraico più popolare, Yedioth Aronoth, ha riportato un sondaggio da cui emerge che “il numero di coloni in Cisgiordania è in notevole aumento”. Secondo i dati forniti da Canale 7 , l'aumento è dell'ordine di 4,3%: “L'aumento continua in tutta la Cisgiordania, all'interno e all'esterno dei grandi blocchi di colonie. Alcune vere e proprie città-fortezza, abitate da migliaia di persone (fino a 60 mila) con accessi sorvegliati da check point. Nel dicembre scorso, il numero dei coloni è arrivato a 375 mila a fronte di 2 milioni e 700 mila palestinesi ufficialmente residenti nei Territori. Con un tasso annuale di crescita dell'1,9% rispetto all'annata precedente”. La ragione di questo aumento della presenza dei coloni è di natura ideologica, secondo il consiglio “Yochaa”.

Repubblica 4.7.14
“Vendicati, uccidi l’arabo” Sul web i selfie dell’odio
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. VENDETTA. E’ la parola più in voga in questi giorni in Israele alimentata da quell’odio carsico che impasta la vita di tutti i giorni e che emerge solo per esplodere, deflagrare nelle sue mille articolazioni, dalla caccia all’arabo nei quartieri occidentali alle sassaiole contro i soldati in quelli orientali. Sale l’allarme per le istigazioni all’odio comparse sul web, il tam tam della vendetta corre su Internet, si manifesta su Twitter, Facebook e dilaga su YouTube, i social network sono diventati propagatori di minacce, avversione, ostilità e disprezzo con decine di pagine dedicate solo alla vendetta per la morte dei tre seminaristi ebrei rapiti e assassinati. La pagina Facebook “Il popolo di Israele chiede vendetta” in meno di 24 ore ha collezionato tremila followers e 34 mila “mi piace”. Ragazzi, adolescenti ma anche soldati e studenti universitari che hanno postato su #Israel-DemandsRavenge i loro “selfies dell’odio”, che promettono vendetta e augurano una morte vicina a tutti gli arabi. I social media hanno reso l’espressione di amore e odio altrettanto facile. Si può partecipare a un linciaggio premendo un tasto. La violenza su Facebook sembra un’astrazione ma non lo è, anche se basta trovare l’#Retaliation ed il gioco è fatto.
In uno scatto due ragazze israeliane si abbracciano e posano per un selfie. I capelli sono perfetti, il trucco impeccabile, sorridono baciate dal sole. Sono perfette anche le mani, con lo smalto sulle unghie. Il cartello che mostrano dice: “Odiare gli arabi non è razzismo, è un valore”. In un altro un soldato in divisa si copre il volto con cartello che recita “Lo Stato di Israele chiede vendetta”, un altro scatto mostra dei mitragliatori appoggiati su un tavolo con una scritta su un foglio: I soldati della Brigata Kfir chiedono vendetta, un muscoloso militare imbraccia in una camerata una mitragliatrice pesante sul petto la scritta: Vendetta, 97 (il numero di un’unità speciale di combattimento).
Il numero dei selfie dell’odio con protagonisti militari e soldati è impressionante. Al punto che ieri il portavoce dell’Esercito ha annunciato che verranno presi seri provvedimenti contro i militari che appaiono sui social network urlando slogan razzisti e chiedendo vendetta per l’assassinio dei tre ragazzi israeliani. Sette militari sono già stati individuati e sospesi dal servizio o condannati a brevi pene detentive. Il ministro della Giustizia Tzipi Livni è stata il primo politico a condannare il tono di questi messaggi e ha chiesto un deciso intervento della polizia contro il “terrorismo» interno”, perché «così come è responsabilità dei militari combattere il terrorismo palestinese, i poliziotti devono combattere il «terrorismo interno » degli estremisti ebrei». La Livni non si è voluta pronunciare sull’omicidio del palestinese, dato che l’inchiesta non è conclusa. Ma ha sottolineato che «la situazione è già scioccante» anche senza un omicidio, «basta vedere quanto avviene sui social media, diventati una piattaforma violenta e pericolosa d’incitazione». A lei si è unito il leader dei laburisti Haim Herzog, promotore mercoledì sera di una manifestazione a Gerusalemme contro l’odio. «Israele non permetterà che gli estremisti di governare, né dalla nostra parte né da quella palestinese», ha detto Herzog, «ebrei e arabi dovranno vivere fianco a fianco in questo paese per sempre, e dobbiamo lavorare tutti per frenare qualsiasi tentativo di trascinare tutti noi in un cerchio di sangue».
Ieri sera è voluto intervenire anche il presidente israeliano eletto, Reuven Rivlin, che ha stigmatizzato gli appelli alla vendetta contro gli arabi. Rivlin, che assumerà l’incarico a fine luglio, è andato ieri a trovare le famiglie dei tre adolescenti ebrei uccisi: Eyal Yifrach, Gilad Shaer and Naftali Fraenkel. Ed è in quest’occasione che ha esortato tutti a prendere posizione contro le esortazioni all’odio: «Non basta esserne disgustati bisogna dire basta».
Mentre i gruppi di Facebook che chiedono vendetta e incitano all’odio contro gli arabi si moltiplicano, qualcuno in Israele finge sorpresa. Ma perché dare la colpa ai ragazzi e ai soldati? Israele da martedì è inondato di richieste di vendetta da parte di politici di alto livello e di esperti dei media, e da atti reali di squadre di vigilantes ebrei che si fanno “giustizia”: il linciaggio degli arabi e l’assalto alle imprese o negozi di proprietà araba per le strade di Gerusalemme. Il mondo dei religiosi sembra ignorare questa deriva, c’è un assordante silenzio di rabbini, ulema e muftì, perché da entrambe le parti si trovi perdono e dialogo. No, nel cuore di ognuno che vive in Terrasanta sembra esserci solo la legge del Vecchio Testamento, quella del taglione. Rabbi Noam Perel, capo del movimento giovanile Bnei Akiva, ha chiesto al governo israeliano di trasformare l’Esercito israeliano in una “forza di vendicatori” sulla sua pagina Facebook, «che non si fermerà fino a quando non avrà 300 prepuzi dei Filistei ». Un macabro eufemismo per dire che ci vogliono 100 arabi morti per ogni israeliano ucciso.

Repubblica 4.7.14
Quei selfie che invocano vendetta
di Gad Lerner


AM ISRAEL doresh nekama, IL popolo d’Israele chiede vendetta” è il nome di un gruppo Facebook che, prima di essere rimosso (ma altri ne sono nati nel frattempo), in due giorni aveva oltrepassato le 35 mila adesioni (quelle che leggiadramente chiamiamo “mi piace”). I promotori di questa fatwa blasfema sollecitavano adesioni dichiarandosi per nome e immortalandosi col selfie. Molti gli hanno dato retta. Anche una mamma che si mostra tenendo in braccio la sua bambina. Anche due ragazze che precisano: «Odiare gli arabi non è razzismo, è un valore».
La vendetta è una pulsione umana difficilmente controllabile. Può esprimersi selvaggiamente. Di solito le comunità d’appartenenza tendono a circoscriverla nella sua imbarazzante dimensione privata, intima. Anche a protezione di chi la manifesta. Il sequestro e l’omicidio di Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel, così come di Mohammad Abu Khdeir, nel calcolato intento di scatenare feroci pulsioni di vendetta hanno trovato il supporto di Internet come luogo di condivisione dell’odio. Così il secolare conflitto araboisraeliano è riuscito a compiere un ulteriore, inedito salto di qualità, grazie alla manipolazione degli stati d’animo collettivi.
La parola d’ordine della vendetta propagata nella dinamica virtuale della rete ottiene l’effetto di imprigionare ogni strategia politica e militare. La piega nell’imperativo di corrispondere alla furia che pretende di essere saziata. Se il governo israeliano sta esitando più di altre volte nel pianificare una reazione dopo il colpo subito, è anche perché subisce il condizionamento della sete di vendetta organizzata in rete. Vendetta è categoria che soverchia e prevale. Calpesta ogni piano razionale di dissuasione bellica e perfino il calcolo spietato della rappresaglia. Internet peggiora la guerra, la imbarbarisce.
Ho ricordato che la vendetta cova in seno alle comunità d’appartenenza. Già mi figuro che per il fatto stesso di avere scritto questo articolo qualcuno mi accuserà di essere un ebreo che odia se stesso (e se invece si trattasse di amore?). Verrà additato il tradimento dei “tuoi”. Verrà estratto il bilancino per dimostrare gli squilibri nella sensibilità mostrata: soffri per Mohammad ma dimentichi Eyal, Gilad e Naftali. O viceversa. Perché non scrivi che piovono razzi palestinesi sulle case di Sderot? Come osi impiegare la parola pogrom per le aggressioni estremiste a civili arabi? Sbatti in prima pagina l’inciviltà di un isolato sfogo su Facebook omettendo di precisare che Tzipi Livni, ministro della Giustizia israeliana, ha annunciato un procedimento legale contro i suoi promotori?
Già in passato Israele, come la Palestina, hanno vissuto sommovimenti emozionali di odio collettivo. Dopo la pace di Oslo si creò un clima che portò fino all’omicidio del primo ministro Rabin, e i responsabili dei servizi segreti israeliani dell’epoca hanno fatto pubblica ammenda: avevano escluso che degli ebrei, per quanto fanatici e minacciosi, potessero giungere a tanto. Ora c’è Internet. E fra le centinaia di messaggi in cui si propugna l’uccisione di arabi se ne trovano alcuni in cui si invoca anche la morte anche per i pacifisti israeliani. Ci si incendia l’un l’altro, attraverso la predicazione della vendetta come sentimento condiviso dal popolo. Naturalmente Internet è anche il luogo della diffamazione e della disinformazione. È un sito italiano, Right reporter , a diffondere in rete dopo l’omicidio del sedicenne Mohammad che non si tratterebbe di una vendetta. Sarebbe stato ucciso «in una faida interna tra famiglie palestinesi malavitose e perché sarebbe stato omosessuale».
Se la cattura e l’omicidio di ragazzi innocenti è di per sé una raffinata forma di crudeltà in grado di terrorizzare un popolo intero, il passo ulteriore è proprio questa assoluta negazione dell’altro che ne consegue. Ebbe il coraggio di scriverlo Avraham Burg, ex presidente del parlamento israeliano, nei giorni immediatamente successivi al sequestro dei tre ragazzi. Notava Burg come allignasse nell’opinione pubblica ferita una specie di sollievo di fronte alle oscene manifestazioni di giubilo segnalate fra i palestinesi: «Noi ci assolviamo dicendo che loro distribuiscono dolci per festeggiare il rapimento. La loro felicità ci rassicura. Più felici sono, più ci sentiamo esentati dall’interessarci alla loro sofferenza ». Così gli israeliani possono rimuovere il fatto che «tutta la società palestinese è una società di sequestrati. E lo siamo anche noi quando, prestando servizio militare, entriamo nelle loro case di notte, a sorpresa e con violenza. Questo è un male e un’ingiustizia cui tutti partecipiamo ».
Per il fatto di sostenere la necessità dell’immedesimazione nella sofferenza altrui, Burg viene disprezzato come traditore. Torna alla mente l’insegnamento di Alexander Langer che durante la guerra civile balcanica esaltava la funzione preziosa dei transfughi disposti a rischiare l’isolamento pur di sollecitare l’autocritica nell’ambito della propria comunità; astraendosene senza mai separarsene definitivamente.
Il tempo buio della vendetta postata su Internet «mettendoci la faccia», promette solo una distruzione dell’umanità senza ritorno. È la nostra umanità che distruggiamo, illudendoci di annullare quella nemica .

Repubblica 4.7.14
Aharon Appelfeld, il grande scrittore israeliano che da bimbo fuggì da un campo di sterminio vivendo in un bosco
“Ma i nemici ora si parlino l’unica via è il dialogo”
intervista di di Paolo G. Brera


«IN questa situazione terribile vedo due cose buone, e non è poco». Aharon Appelfeld, il grande scrittore israeliano che da bimbo fuggì da un campo di sterminio vivendo in un bosco, ha imparato sulla sua pelle a scovare e assaporare la parte sana della mela.
Cosa succede in Terra Santa?
«La situazione è incandescente. Un ragazzo arabo è stato ucciso, e non sappiamo da chi. Alcuni arabi dicono siano stati estremisti ebrei, ma la polizia sta ancora investigando. E ci sono scontri a Gerusalemme, ma di piccolo cabotaggio ».
Teme un’altra Intifada?
«Dobbiamo domandarci come calmare la situazione. Non è facile, perché l’intera area sta bruciando: Libano e Siria, Iraq e Kurdistan... ».
Accennava a due aspetti positivi.
«Il comportamento dei genitori dei tre ragazzi uccisi è stato nobile: non hanno chiesto vendetta. L’altro ottimo aspetto è che Abu Mazen abbia condannato le uccisioni. Si può partire da qui per placare gli animi».
Netanyahu invece ha detto: “Scateneremo l’inferno”.
«Non penso che agirà da emotivo ».
Sta bombardando Gaza.
«Il punto è sempre la negazione di Israele. Siamo sotto attacco permanente dalla gente di Gaza. Come possiamo fermare tutto ciò? Ci sono punti di vista differenti, per le persone razionali dobbiamo reagire senza alzare il tiro».
A Gaza la vita è difficilissima.
«Certo, ma almeno Israele si è ritirato: c’erano insediamenti e soldati, ora non più. Nonostante ciò, gli spari continuano».
Le bombe li fermeranno?
«Israele ha vissuto un trauma. Non erano soldati ma ragazzini che rincasavano; Hamas è molto presente nei Territori, è una minaccia costante. Abbiamo vissuto 18 giorni di trauma nazionale, poi sono arrivati i razzi da Gaza... Come dobbiamo rispondere? Non c’è una risposta semplice, per me dovremmo provare a parlare con chiunque voglia il dialogo».
Anche con Hamas?
«Sì, se sono pronti a rinunciare alla distruzione di Israele e se rispettano le regole del Quartetto».
È l’odio che ha ucciso il ragazzino arabo?
«Sono speculazioni. Gli arabi dicono che è stata una vendetta, la polizia sta ancora indagando».
E lei crede alla polizia?
«Perché non dovrei? È importante che Israele sia accettata come una nazione che dice la verità, e in poco tempo la conosceremo».
È ottimista?
«Lo ero dieci anni fa, ma sono invecchiato... È molto difficile fare profezie nella nostra regione».
Cosa dice ai ragazzi ebrei?
«Che devono essere razionali e umani. Devono ascoltare gli altri, soffriamo noi ma anche i palestinesi. Ci vuole equilibrio».
E ai palestinesi?
«Direi le stesse cose: tenta di capire i tuoi cosiddetti nemici».
E andarsene?
«Sarebbe fuggire: occorre restare, tentando di capire l’altro. Sono un umanista, non cambierò me stesso».

Corriere 4.7.14
La bilancia del dolore e la guerra persa dell’odio
di Paolo Di Stefano


«La nostra famiglia la guerra l’ha già persa», scrisse David Grossman dopo la morte di Uri, suo figlio. Non c’è modo di vincere una guerra in nessun caso, ma tanto meno se il prezzo della (presunta) vittoria è il sangue di tuo figlio. Questa semplice verità dovremmo averla imparata dal tempo delle vendette bibliche, quelle dell’Antico testamento, quando vigeva la legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente. Figlio per figlio. La vendetta, giustizia selvaggia, diceva Francesco Bacone. È una bilancia che non può funzionare, perché non regge il suo eccessivo carico: provocare agli altri la stessa sofferenza che ti è stata inflitta. Stabilire un’equivalenza del dolore, significa svilire per prima cosa il proprio dolore, che invece non potrà mai somigliare al dolore subìto da un altro.
Certo, ci vuole una indicibile grandezza d’animo per sopportare un’offesa irreparabile come l’assassinio brutale di un figlio, di tre figli, Eyal, 19 anni, Gilal, 16, Naftali, 16, che sono i nomi dei ragazzi israeliani rapiti e assassinati da Hamas nei giorni scorsi. È un carattere (atroce) della natura umana odiare colui il quale ci ha procurato un’offesa, ma se l’offesa produce altra offesa, sarà una disumana catena senza fine. Quando l’odio diventa un circolo vizioso, un infinito rimbalzo di feroci ritorsioni: è a quel punto, nel momento più incandescente, che si impone uno scatto di immaginazione per uscirne, a vantaggio proprio e dei propri figli; della propria parte e, perché no, anche dell’altra, considerando che il vantaggio dell’altra parte è anche il proprio, in una comunione di destini. L’odio rivela una lacuna dell’immaginazione, è il lato ottuso e provvisorio dell’orgoglio appagato. L’odio è incancellabile? D’accordo, ma è possibile che sia talmente grande da superare l’amore per i propri figli? Ora, mai e poi mai si vorrebbe la conferma che l’assassinio del sedicenne palestinese Mohammed sia il risultato di una rappresaglia israeliana.
Perché i conti non si pareggiano mai, quando si tratta di vite umane: e le guerre, se muoiono i figli, sono già perse per sempre, come la guerra della famiglia Grossman. Tanto più se la rappresaglia sui figli porta a una nuova rappresaglia sui figli, in un eterno, beckettiano, finale di partita sempre posticipato. Andremo ai tempi supplementari? E quanto durano i tempi supplementari se non ci sono regole, se non c’è un arbitro che fischia la fine o se nessuno lo ascolta? E quanti figli dovranno mai morire, dall’una e dall’altra parte, perché si possa mai proclamare un vincitore?
Ci vorrebbe una indicibile grandezza d’animo, specialmente nei governanti: perché non possiamo chiederla ai terroristi, spinti dalla pusillanimità e dalla prevaricazione violenta. La magnanimità era una virtù che i trattati politici consideravano imprescindibile per un buon principe. Magnanimità, che è qualcosa in più della generosità e del perdono cristiano, si accosta spesso al verbo «comprendere». È una virtù antica, l’esatto punto di equilibrio tra la viltà di chi affida la propria «giustizia» al sacrificio dei figli e la superbia di chi pensa comunque di avere ragione senza esserne degno o, peggio, per diritto divino. Un giusto mezzo tra pusillanimità e presunzione; una virtù di cui oggi si è persa ogni traccia e persino il significato profondo. Dobbiamo pretendere dai governanti, dagli uni e dagli altri (ma basterebbe anche una sola parte), un animo tanto capace e pieno di immaginazione da riuscire a vedere, sia pure nel dolore più cupo, il dolore uguale e diverso degli altri.
Erasmo da Rotterdam vide la magnanimità come una declinazione della saggezza e della temperanza, tutte qualità senza le quali il buon governante non può dirsi tale: perciò piacque anche a Norberto Bobbio, molto più della teoria machiavelliana della «golpe» e del «lione». Quanto equilibrio, quanta saggezza, quanta magnanimità ci vogliono per seppellire con i propri figli anche la tentazione della vendetta. Questa è la domanda che bisogna porsi, ostinatamente, in questi giorni feroci. Il primo che riuscirà a trovare in sé tutta la magnanimità e l’immaginazione necessarie a capire l’altro potrà dirsi il vincitore di una guerra già persa.

il Fatto 4.7.14
Il gol dell’Algeria
9 milioni di dollari ai bambini di Gaza
di Tommaso Rodano


La favola della nazionale di calcio algerina non è finita con l’eliminazione dai Mondiali. Ieri le “volpi del deserto” hanno aggiunto un nuovo capitolo alla loro storia, che in Brasile era stata interrotta dalla sconfitta contro la Germania: l’attaccante Islam Slimani ha annunciato che il premio ricevuto dalla squadra per essersi qualificata agli ottavi di finale della Coppa del Mondo, sarà donato per intero al popolo palestinese della Striscia di Gaza. Il bonus che spettava ai giocatori è di 9 milioni di dollari: i soldi saranno impiegati per dare un aiuto concreto ai bambini della regione, che vivono in condizioni di indigenza cronica. Slimani lo ha reso noto tramite il profilo Facebook della nazionale algerina: i piccoli di Gaza, ha scritto l’attaccante, “ne hanno sicuramente più bisogno di noi”. La notizia ha fatto il giro dei social network e dei notiziari internazionali, ed è stata accolta con enfasi e ammirazione soprattutto nel mondo arabo. Una scelta fortemente simbolica, nei giorni in cui la tensione nella regione è tornata a livelli altissimi, dopo che il rapimento e l’uccisione di tre ragazzi ebrei ha scatenato le rappresaglie israeliane. Nella Striscia, controllata da Hamas, vivono sotto l’assedio israeliano più di un milione e mezzo di palestinesi. Moltissimi sono minori. Le condizioni di povertà sono raccontate quotidianamente dalle organizzazioni internazionali: l’embargo rende difficile il reperimento di beni di prima necessità e medicine.
I giocatori algerini, già accolti come eroi al ritorno in patria, si confermano i beniamini del mondo arabo, che già li aveva adottati durante il loro sorprendete exploit ai Mondiali brasiliani. L’Algeria ha raggiunto una storica qualificazione agli ottavi di finale, dove si è arresa alla Germania con una sconfitta di misura (2-1) e solo dopo i tempi regolamentari. Le volpi del deserto sono uscite a testa alta e sono state l’unica squadra africana a superare il turno dei gironi. I calciatori di Camerun e Ghana hanno protestato platealmente per ottenere i premi e hanno deluso sul campo, l’Algeria, ha sopreso tutti con prestazioni al di là di ogni aspettativa e poi ha donato il denaro a una regione in ginocchio.

Repubblica 4.7.14
Il sogno del Califfato che sfida l’Occidente
di Bernardo Valli


PER ricreare il “califfato” non basta una striscia di territorio che va dalla provincia irachena di Diyala alla siriana città d’Aleppo. Il gruppo di militanti integralisti armati che ha annunciato la rinascita di quell’istituzione religiosa e politica rappresenta molto poco per il miliardo e mezzo di musulmani sparsi nel mondo. L’iniziativa non è tuttavia banale. Vuole essere un’aperta sfida all’Occidente, e a quella parte dell’Islam accusata di essere al suo servizio. Questo è chiaro. Può anche avere toccato la sensibilità di non pochi credenti raggiunti dalla dichiarazione lo scorso weekend, proprio mentre iniziava il digiuno diurno del Ramadam.
Un periodo di particolare fervore religioso. Il momento è stato scelto dai promotori con gli stessi principi che regolano la nostra società dei consumi. Hanno puntato su una stagione propizia. Ed è secondo la stessa mentalità, non proprio adeguata alla tradizione musulmana, che hanno accorciato il nome iniziale (Stato islamico in Iraq e nel Levante), adottando il più breve e incisivo Stato islamico. Un cambiamento tutt’altro che insignificante, perché non designando più un paese e una regione, sparisce la limitazione geografica e risalta il carattere universale. Lo Stato islamico ha molte pretese: scavalca idealmente le frontiere, vuole estendere l’influenza a tutta la comunità musulmana, ricalcando il califfato dei secoli scorsi.
Ma come per le preoccupazioni mediatiche sui tempi dell’annuncio, chi ha lanciato l’idea si è rivelata vittima dell’influenza occidentale. Nessun califfato si è definito nella storia Stato islamico. Nell’Impero Ottomano, sua ultima sede, si diceva, è vero, “Sublime Stato”, ma si usava soprattutto “Sublime porta”. Gli integralisti sono stati ispirati piuttosto, sia pure inconsciamente, dallo Stato — nazione di stampo europeo. Il quale ha poco in comune con i valori all’origine del califfato. Il cui carattere universale, religioso anche se nei secoli politico e guerriero per lunghi tratti, non consente di riconoscersi formalmente dei confini. Il califfato non è accostabile al papato. È un’altra cosa. Ma a un cristiano, che abbia soltanto sfogliato i libri di testo riguardanti la propria storia, tutto questo è comprensibile.
Non è comunque “storica” la proclamazione del califfato. Sarebbe azzardato definirla tale. Contraddizioni e improvvisazioni mettono in luce la scarsa credibilità. Sarebbe stato più sensato se i promotori dello Stato islamico avessero annunciato la nascita di un semplice emirato. Il quale implica un’estensione territoriale più modesta, e comporta meno ambizioni religiose. I Taliban, non certo esemplari nella moderazione, pur occupando il novanta per cento dell’Afghanistan, si sono limitati a dichiarare un emirato. Cosi hanno fatto gruppi ispirati da Al Qaeda, nello Yemen e nel Mali. Non si sono montati la testa al punto da lanciare l’idea di un califfato. Avrebbero fatto sorridere. Nel fanatismo non manca del tutto il senso della misura.
Se i guerriglieri con le bandiere nere che spadroneggiano tra la provincia irachena di Diyala e la città siriana di Aleppo, zone a stragrande maggioranza sunnita, non suscitano ironia, ma orrore, è perché hanno fatto precedere la proclamazione del califfato con decapitazioni, crocifissioni e profanazioni di santuari sciiti, sufi e cristiani. E perché li hanno pubblicizzati, mostrando video e fotografie, come se si trattasse di lanciare un prodotto o una moda. Anche la pretesa nascita del califfato rientra nella grande operazione mediatica. È stato un colpo di scena.
Persino il dottor al-Zawahiri, successore di Bin Laden alla testa di Al Qaeda, e grande esperto in terrorismo, si è scandalizzato. Ha capito che l’annuncio del califfato era un episodio, un colpo basso, nella gara tra gruppi jihadisti. Per questo l’ha condannato. Al-Zawahiri li conosce bene quei suoi discepoli smarriti. Un tempo li ispirava Al Qaeda. Concorrente dello Stato islamico, in Siria, è ad esempio Jabath al-Nusra, altro gruppo radicale sunnita. È stato al-Baghdadi, nato Brahim al-Badri nella città irachena di Samarra, a dichiarare il califfato e quindi a promuoversi califfo. Alle origini era il modesto chierico in una moschea sunnita, poi si è diplomato in pedagogia all’Università di Bagdad. La sua esperienza come terrorista è stata lunga, durante l’occupazione americana dell’Iraq. Quando furono tagliate e poi mostrate le teste di alcuni ostaggi occidentali lui era un giovane gregario. In seguito ha fatto carriera e ha fondato un suo movimento, fino a farne lo Stato islamico.
Oggi è abbastanza sfacciato da considerarsi un discendente di Abu Bakr, il primo califfo. E califfo significa successore. Bakr fu appunto il successore di Maometto, alla sua morte, nel Settimo secolo. Come istituzione il califfato è rimasto al centro dell’Islam. Ha condotto alla rottura tra sunniti e sciiti, rivali nella lotta di successione al Profeta, e adesso ancora a confronto sul piano comunitario e religioso, in Iraq e in Siria. A fasi alterne, nei secoli, il califfato ha rappresentato una forza militare o ha esercitato un’autorità religiosa, o un’istituzione simbolica. O le due insieme. La sua ultima dimora è stato l’Impero ottomano, dissoltosi in seguito alla Grande guerra. Nel 1924 la Turchia repubblicana l’ha abolito. La sua rinascita è rimasta un’aspirazione avvolta nel mito. Alcuni movimenti (ad esempio il Partito della Libertà, Hizbal Tahrir, che conta un milione di aderenti nel mondo musulmano, e la stessa Al Qaeda) ne hanno proposto con più o meno insistenza la ricostituzione. Al-Baghdadi è andato oltre le intenzioni: l’ha proclamato.
Il suo è il primo avventuroso ma concreto tentativo di realizzarlo sul serio. Molti musulmani hanno aderito al nazionalismo, opposto all’idea di califfato, altri sono repubblicani o democratici. Ma i gruppi radicali hanno guadagnato terreno. Li hanno favoriti i rais (come l’egiziano Mubarak o il tunisino ben Ali) che giustificavano l’autoritarismo e la corruzione con la necessità di opporsi al fanatismo religioso. Il conflitto israelo-palestinese, gli interventi americani nei paesi musulmani, il fallimento economico di molti paesi arabi hanno fatto il resto. Le “primavere” (con l’eccezione tunisina) sono svanite e con loro, almeno per adesso, i progetti democratici. Il califfato di al-Baghdadi sembra un’allucinazione.

l’Unità 4.7.14
Fratelli serpenti
L’eterna lotta tra sunniti e sciiti


Sunniti e sciiti, sciiti e sunniti. È la grande divisione nel mondo dell’Islam che ha portato, nei secoli, ad una vera e propria guerra che si sta riaffacciando, ovunque, con una ferocia senza pari. È una guerra che, probabilmente, non finirà mai. Anche se una delle Sure del Corano spiega con passione e amore che «i credenti sono tutti fratelli». È una storia, quella dei sunniti e degli sciiti, fascinosa e difficilissima da spiegare e raccontare, ma cupa e terribile, fatta di morti, di stragi, di attentati, di singoli omicidi. Una storia fatta di mille simboli diversi, avvolta nel mito e che, ancora oggi, pesa e si riverbera, tra mille contraddizioni, su tutti coloro che pregano in direzione della Mecca, ma anche sull’inconsapevole e attonito mondo occidentale. Un mondo che stenta, troppo spesso, a capire e a rendersi conto del senso di tante cose: le «primavere arabe», il prima e il dopo di tante rivolte, delle stragi e degli attentati e del grido, da una parte e dall’altra, di «Allah akbar» (Dio è grande), mentre infuriano i combattimenti tra «fratelli» e la gente muore per le strade sotto le bombe. D’altra parte è noto come religione e potere temporale, in tutti i grandi paesi islamici, abbiano sempre creato una miscela esplosiva e indissolubile e uno scontro continuo, tra le urgenze della modernità, le tradizioni e quello «che sta scritto» nei testi sacri, nel Corano, nella Sunna e nei «libri» degli sciiti. I sunniti sono il 90% dei credenti musulmani. Il resto sono sciiti che però hanno propaggini fino in India e in Cina. Loro, per la prima volta nella storia, hanno comunque conquistato, sotto la spinta dello ayatollah Khomeini, un grande paese come l’Iran, trasformandolo in una teocrazia «dura e pura», determinata e poco permeabile alle idee degli altri.
Ora, basta guardarsi intorno per vedersi scivolare via tra le dita ogni previsione, ogni certezza e ogni sintesi sul futuro di tanti grandi paesi anche eredi di millenarie e straordinarie civiltà. Il panorama è davvero sconvolgente. La Siria si sta riempiendo di morti e di profughi, in Iraq gli attentati non si fermano e gli uomini di Al Qaeda sono ovunque, insieme a quelli dell’Isil (che vogliono lo stato islamico dell’Iraq e del Levante e un nuovo califfato) che combattono contro il governo dello sciita Al Maliki, ormai isolato e prossimo al crollo. Attentati, rivolte e bombe anche in Afghanistan, in Libano, in Egitto (centinaia di «Fratelli musulmani» o sostenitori di Morsi, sono stati condannati a morte) o in Pakistan, Sudan e Bahrein. Ovunque, purtroppo, nel mondo dell’Islam, continuano ad emergere contraddizioni e contrasti brutali e violenti che formano un groviglio difficilissimo da districare e dal quale emerge, sempre di più, un integralismo assassino sia degli sciiti come dei sunniti. Le tragedie di ogni giorno lo testimoniano: c’è chi lotta per l’indipendenza, chi vuole la gihad eterna e chi il ritorno alla sharia, l’antica e «purissima» legge islamica. Insomma, cento e mille diversità.
Bin Laden (anche dopo la sua morte al Queda continua a distillare violenza ovunque) era sunnita con fortissime ascendenze waabbite come i suoi compagni che fecero a pezzi le Torri Gemelle negli Stati Uniti. Veniva dall’Arabia Saudita, uno degli alleati più importanti dell’America nella regione. In Siria, Bashar al Assad capeggia la comunità Alawita che è solo il 12% della popolazione, ma ha strettissimi legami con i fratelli sciiti iraniani che lo aiutano e lo sostengono. D’altra parte l’Iran degli ayatollah («il segno di Dio») è davvero il cuore pulsante dell’Islam sciita. Sostengono Assad anche gli Hezbollah (Il partito di Dio) libanesi che appartengono alla minoranza sciita del paese. Ovviamente sono contro il potere siriano anche i turchi sunniti che, nel paese del Bosforo sono la maggioranza. E i ribelli anti Assad che lottano per abbatterlo, ricevono armi e soldi dall’Arabia Saudita, totalmente sunnita e custode dei luoghi santi dell’Islam.
E in Iraq? In Iraq, appunto, continuano le stragi, gli attentati e la guerra e i sunniti dell’Isil stanno per raggiungere Baghdad. Nella capitale è un continuo esplodere di bombe nei quartieri abitati dagli sciiti. E gli sciiti rispondono nello stesso modo. Quando Saddam, un sunnita, era al potere gli sciiti erano perseguitati e ora sta avvenendo il contrario con Al Maliki.
In Afghanistan i talibani (gli studenti coranici delle madrase) continuano ad occupare vaste zone fuori dalla capitale e la pace è ancora un sogno.
Il nodo, allora, è la differenza tra gli sciiti e i sunniti nel concepire la religione? In parte sì. A tutto questo si aggiungono i problemi legati ai diversi poteri, alle riserve di petrolio, alle economie più povere e più ricche, alle tradizioni, alle diversità etniche, alle strutture dei governi, al mancato sviluppo della democrazia dal basso, ai legami diretti e indiretti con le grandi potenze occidentali.
Comunque, la grande divisione tra sunniti e sciiti nacque nel 632 alla morte del profeta Muhammad. Chi poteva e doveva prendere il suo posto per dirigere la «umma» (la comunità dei credenti) che si andava formando? Il cugino del Profeta Alì ibn Abu Talib che era anche marito dell’unica figlia di Maometto, Fatima, presentò la propria candidatura. Lui era stato uno dei primi compagni del profeta, un giusto, un coraggioso, «l’amico di Dio», come lo chiamava qualcuno. Fatima gli fu subito accanto e si batté con lui. Nasceva così il mito della «abl al bayt», e cioè l’entrata in scena della famiglia di Muhammad perseguitata e non riconosciuta nei propri diritti, un mito che gli sciiti renderanno grande. E nascono allora anche i due termini «sciiti» e «sunniti». Il primo vuol dire semplicemente «fazione» o «partito»: cioè il partito di Alì. Sunniti, invece, viene da «sunna» che vuol dire la «via tracciata», il «percorso battuto e sicuro». E cioè la tradizione che si lega a tutto quello che ha fatto o detto Muhammad, a proposito della vita e della fede. Per i sunniti, attraverso gli «hadith» (che sono migliaia e raccolti in grandi volumi) tutto è chiaro e i credenti devono solo seguire «quello che è stato scritto» e che è stato ampiamente studiato, verificato, trascritto e canonizzato. Il primo califfo o vicario (khalifa) dell’Islam diventa comunque Abu Bakr, padre dell’ultima moglie di Muhammad, Aisha. Dopo di lui toccherà a Umar e a Uthman. Poi ad Alì. Questi saranno i celebri «califfi ben guidati», secondo i sunniti e i «maledetti » (escluso Alì) secondo gli sciiti. Alì si trova contro anche la vedova di Muhammad, Aisha, ma soprattutto deve combattere contro Muawiva, governatore della Siria, sostenitore di Uthman che è stato assassinato proprio come sarà ucciso Alì. Tre dei quattro «califfi ben guidati» morirono, infatti, di pugnale o di veleno. Ma la situazione non ha ancora raggiunto l’acme della drammaticità. Tanti fatti gravissimi arriveranno più tardi. Comunque, alla morte di Alì, gli sciiti suoi compagni ritengono naturale che il ruolo di guida della loro comunità passi al suo figlio maggiore, Abu Muhammad Hasan, in base alla legittimità della successione al potere da parte della famiglia del Profeta. Ma anche Hasan muore avvelenato su istigazione del solito Muawya (dicono che fosse sunnita) che vuol nominare califfo il figlio Yazid. A questo punto tocca al giovane figlio di Alì e Fatima Abu Abdullah Hoseyn, fratello di Hasan. È lui che diverrà, poi, il protagonista principale della storia religiosa sciita.
È a lui che si rivolgono gli abitanti di Kufa per liberarsi del figlio di Muawiya e Hoseyn accetta di accorrere in aiuto della città. Parte con una settantina di seguaci, ma nella piana di Karbala, in Iraq, il 10 del mese di Muharram del 680 (giorno che poi sarà chiamato dell’ashura) viene attaccato e muore con il figlioletto in braccio. Tutti i suoi verranno sterminati o morranno di sete. Ad Hoseyn verrà tagliata la testa che i soldati invieranno al governatore di Kufa su un vassoio d’argento. È un momento cruciale per la comunità sciita. Il martirio di Hoseyn, terzo imam per gli sciiti, diventa una leggenda, un mito in gloria della religione. È - dicono - un martire, uno “shahid” che ha combattuto pur sapendo di andare a morire e lo ha fatto in nome della fede. È stato tradito come è stata tradita la famiglia del Profeta e gli sciiti sono i giusti che patiscono ogni malvagità. Anche loro, comunque si dividono in diversi gruppi e gruppuscoli, ma la figura dell’imam rimane «ferma come la roccia». L’imam, secondo gli sciiti, è immune dal peccato e ha il dono dell’infallibilità ed ha la conoscenza totale della rivelazione e delle relative prescrizioni per i credenti. Il confronto con i sunniti esalta soltanto le grandi differenze. Questi, infatti, non hanno un imam e nemmeno un clero organizzato e stabilizzato: si rifanno solamente alla «sunna del Profeta ».
Sciiti e sunniti sono, ovviamente, musulmani nella pienezza del termine e senza grandi differenze nei riti. Pregano tutti verso la Mecca cinque volte al giorno e osservano i «Cinque pilastri» dell’Islam e cioè la preghiera, la zakat (l’elemosina) il digiuno (ramadan), l’hagg e il pellegrinaggio alla Mecca. Per tutti, ovviamente, il libro sacro è il Corano (114 Sure, 6616 vocaboli e 323.671 lettere). Ma le differenze si accentuano ancora. Sulla scia della morte di Hoseyn, gli sciiti esaltano il martirio come atto di fede. Nessuno può dimenticare che durante la guerra Iran-Iraq tanti giovani sciiti furono mandati in battaglia con una piccola chiave di plastica al collo. Era la chiave che, in caso di morte, avrebbe aperto le porte del paradiso. I cimiteri dove sono sepolti questi poveri ragazzi sono pieni di rose purpuree e hanno spesso fontane che zampillano acqua colorata di rosso a simboleggiare il sangue sparso per la fede. Agli sciiti è anche permesso di occultare la loro scelta religiosa per salvare la vita in caso di bisogno. Inoltre, nel giorno dell’«ashura» centinaia di flagellanti sfilano in processione nelle città sciite e si feriscono in modo orribile con spade e pugnali: si autopuniscono per non essere accorsi a Karbala nei giorni della strage. Sempre per l’«ashura» vengono organizzate, in casa dei religiosi, delle ricostruzioni teatrali del dramma di Hoseyn e del suo bambino. Sono ricostruzioni piene di spiritualità e drammaticità e i presenti piangono a dirotto, gridano e imprecano, come se tutto fosse accaduto appena ieri. La tristezza sciita è proverbiale, nel mondo dell’Islam, e spesso si sente dire a qualcuno, non senza ironia, «sei più triste della lacrima di uno sciita».
Una curiosità: nel mondo sciita, al contrario di quello sunnita, è ammesso il «matrimonio temporaneo », il «mut’a». Un uomo e una donna, insomma, possono mettersi legalmente insieme per un giorno, per qualche mese o per sempre e poi lasciarsi senza alcun problema. Si voleva, con questo, evitare semplicemente la prostituzione.

Corriere 4.7.14
Trentamila soldati sauditi al confine con l’Iraq
di Lorenzo Cremonesi


BAGDAD — Un ulteriore segnale delle gravissime ripercussioni che la crisi irachena sta avendo sugli equilibri del Medio Oriente arriva adesso dal fronte saudita. La televisione Al Arabiya riporta che Riad ha inviato circa 30.000 soldati a rafforzare il controllo dei 900 chilometri di confine desertico con l’Iraq, dopo che 2.500 soldati iracheni hanno abbandonato le loro posizioni. A Bagdad i portavoce smentiscono. Ma l’emittente saudita mostra le immagini di soldati iracheni, che ammettono di avere avuto l’ordine di ritirarsi a causa dell’arrivo delle colonne dei miliziani del nuovo Califfato sunnita. La notizia va dunque verificata. Tuttavia non pare priva di fondamento. Già una decina di giorni fa a Bagdad era giunta eco di scontri tra soldati iracheni e milizie sunnite nella cittadina di Nukhayab, posta a circa 120 chilometri dal valico di confine con l’Arabia Saudita a Judayat Ar’ar. Qui è il cuore del deserto arabico, aspro, difficilissimo da controllare. Vi transitarono anche le truppe americane al tempo dell’invasione del marzo 2003. È possibile che, almeno nella parte più settentrionale del settore confinante con la Giordania e la zona di Al Anbar, i soldati mandati da Bagdad siano già partiti per evitare di rimanere accerchiati. Del resto, il Pentagono da tempo sostiene che l’esercito regolare agli ordini del governo del premier sciita Nouri al Maliki appare oggi forse ancora in grado di difendere Bagdad, ma necessita di aiuti esterni per riconquistare le aree cadute nelle mani della rivolta sunnita e difendere le periferie del Paese. Ma i problemi non arrivano solo dai sunniti. A Karbala, città santa degli sciiti, si conterebbero sino a 145 vittime negli scontri delle ultime 48 ore tra esercito e militanti legati all’imam dissidente Mahmoud al-Sarkhi. E nel nord curdo il presidente locale Massoud Barzani al parlamento di Erbil ha chiesto un referendum per l’indipendenza. Continuano i combattimenti a nord della capitale. Il governo di New Delhi rende noto che una cinquantina di infermiere indiane dell’ospedale di Tikrit sarebbero nelle mani dai miliziani del Califfato.

il Fatto 4.7.14
Murrieta, dove la festa del 4 luglio non è per tutti
Stati Uniti, nella California del sud spuntano blocchi stradali per impedire l’accesso ai bus pieni di migranti illegali destinati ai centri di smistamento
di Angela Vitaliano


New York. Aall’Ethnic Heritage Councile di Seattle, oggi, si terrà la trentesima cerimonia annuale per il riconoscimento della cittadinanza americana a stranieri provenienti da 75 paesi diversi. Il momento più atteso e desiderato da tanti immigrati – e spesso solo fortemente sognato dai “sans papier” – celebrato nel giorno della festa dell’Indipendenza. Un giorno speciale per 425 persone, solo a Seattle, che diventeranno americani al 100%, seppur con gli occhi a mandorla, il colorito olivastro, gli accenti esotici, le religioni diverse; perchè alla fine, questa resta sempre la parte più vera di un paese che non ha etnia, ma raccoglie il meglio e, a volte il peggio, di tutte le altre razze, in quel famoso “melting pot”, la miscela di razze che ne costituisce la ricchezza assoluta. Per questo, il 4 di luglio, in molte città, quella bandiera a stelle e strisce per molti assume un significato ancor più speciale, la realizzazione di un sogno, la conclusione di un cammino iniziato molto tempo prima e pieno di intoppi e difficoltà.
A MURRIETA però, nel sud della California, agli abitanti importa poco del 4 luglio e della “retorica” dell’integrazione e della “ricchezza” derivante dalla multi etnicità. A Murrieta, di immigranti, soprattutto se illegali, sono stanchi e non ne vogliono più vedere, nemmeno di passaggio. Diventata città solo nel 1991, con il 234% di incremento nella popolazione, di cui un 26% formata da ispanici e “latinos”, fra il 2000 e il 2010, Murrieta è il centro con la crescita più veloce di tutto lo stato, tanto che il suo motto è “siamo il futuro della California del sud”. Qui, tuttavia, molti immigrati non arrivano solo nel tentativo di stabilirsi per iniziare una nuova vita, ma anche “di passaggio”, provenienti da città limitrofe in grandi autobus, e destinati ai centri di “smistamento” dove, per lo più, data la loro condizione di illegalità, vengono condannati al rientro immediato in patria. Per alcuni scatta, invece, l’obbligo di ripresentarsi dopo un mese per chiarire ulteriormente la propria posizione: quasi nessuno si fa mai rivedere. Da qualche giorno a Murrieta, i cittadini hanno organizzato delle manifestazioni, con tanto di bandiere americane al vento, per bloccare il passaggio dei bus ed impedire agli immigrati di arrivare al centro di smistamento. “Penso che ci saranno manifestazioni come questa ogni giorno” spiega il sindaco Alan Long, giustificando la deriva “anti immigranti” che si è diffusa: “Ciò che le persone devono capire - prosegue - è che loro stanno manifestando con emozione e passione contro una legge federale che non sta funzionando”. Molti, tuttavia, i gruppi di sostegno agli arrivi dei migranti che stanno condannando, senza riserve, la brutalitàdelle manifestazioni. “Quello che vedo – ha detto Enrique Morones, direttore esecutivo dell’organizzazione no profit di San Diego, Border Angels – è una delle cose peggiori che abbia visto nella mia vita e che rappresenta il peggio dello spirito americano”.
UN PICCO delle proteste è atteso proprio per oggi, 4 luglio. I bus di “migranti”, soprattutto composti da donne e bambini o anche bambini senza genitori, provengono dal Texas, dove la situazione è ai limiti del sostenibile con un flusso migratorio perenne. I rappresentanti delle associazioni a sostegno degli immigrati, condannano aspramente le rivolte dei residenti americani perchè a pagarne le conseguenze sono donne e bambini che hanno già subito esperienze traumatiche per arrivare fin lì e che non meritano un tale trattamento. A Murrieta, però, questi argomenti sembrano aver perso completamente di efficacia. Il problema dell’immigrazione, d’altronde, è divenuto, da tempo, una delle spine nel fianco di Obama che puntava, entro quest’anno, all’approvazione di una riforma che potesse togliere dallo stato di illegalità oltre dieci milioni di persone. Di fronte all’ immobilità di Washington, solo un paio di giorni fa, il presidente ha annunciato la decisione di voler percorrere tutte le strade “legali” per fare, in maniera autonoma, ciò che il Congresso blocca da troppo tempo.

Corriere 4.7.14
A 7 anni schiava, a 13 anni risarcita
La vittoria di Air, per tutte le bambine
Birmana, ha ottenuto 143 mila dollari in tribunale per i danni subiti
di Carlo Baroni


Sfruttamento
La cifra varia. E, probabilmente, per difetto: sono 210 milioni nel mondo i bambini di entrambi i sessi che lavorano e sono a rischio sfruttamento. Soprattutto in Asia ed in Africa, ma non solo. I dati dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) parla di 8 milioni e mezzo di minori ridotti a schiavi nelle miniere o nei bordelli, costretti addirittura a combattere in guerre che li trasformano in «armi letali». O a lavorare in case signorili come piccoli domestici, in cambio di pochissimo cibo e moltissime violenze
Bimbi in «affitto»
Nella sola Bangkok, in Thailandia, si stima che siano 10 milioni i bimbi dati in «affitto» dalle famiglie povere e costretti a mendicare. Nemmeno in Europa il fenomeno è del tutto assente: il 2 per cento dei bambini lavora nei Paesi di antica industrializzazione, mentre nei Paesi ex comunisti e in Russia la percentuale raddoppia
Quella volta che scappò via non era solo per le botte. Non le sentiva neanche più. Da anni la torturavano così crudelmente che la pelle era diventata un intrico di cicatrici. E non era neanche per l’umiliazione di dormire nella cuccia del cane. Un giorno, forse, avrebbe rimesso tutto in pari. Tranne che quei cinque anni rubati senza un perché. Per questo era fuggita: voleva provare a riprenderseli. Air è una bimba birmana di 13 anni. Quando ne aveva sette l’hanno rapita. E poi venduta. Cinque anni di schiavitù. Adesso che è libera, un tribunale le ha riconosciuto un risarcimento di 143 mila dollari. Pochi, abbastanza? Ci sono tabelle per dirci quanto pesa la sofferenza? I suoi genitori, birmani di etnia Karen, erano venuti in Thailandia per cercare un lavoro. L’avevano trovato. Nei campi di canna da zucchero. Quando Air è sparita non potevano neanche fare una denuncia vera. Erano migranti-clandestini, fantasmi , «non gente». Ma in ogni caso per la polizia sarebbe stato un rapimento come tanti. Inutile perderci tempo e risorse. E poi da quella scomparsa ci avrebbero guadagnato tutti. Per i genitori una bocca in meno da sfamare, per gli altri una serva a costo zero.
I rapitori avevano venduta la bimba a una coppia thailandese. Gli serviva una cameriera. Che, fosse stato davvero così, poteva andare anche peggio. Cameriera, invece, voleva dire serva, schiava. Bimba-oggetto. E gli schiavi non hanno diritto neanche a una stanza, un ripostiglio. Doveva dormire nella cuccia del cane. Quando disubbidiva la immergevano nell’acqua bollente. Adesso ha la pelle così deturpata che nessun chirurgo plastico potrà mai far tornare come prima. Ha difficoltà anche a muovere parte del corpo. Non riesce a piegare il braccio sinistro. E le manca anche metà orecchio. I suoi aguzzini gliel’hanno tagliato la volta che è fuggita, il 31 gennaio scorso. A riportarla a casa ci aveva pensato la polizia. Gli agenti a cui si era rivolta spaurita, esausta, ma sicura che l’incubo fosse finito per sempre.
Si erano messi la giacca della divisa, fatti dire da dove era scappata, ficcata su un’auto e lasciata davanti a «casa». Adesso che la storia è venuta alla luce dovranno spiegare il loro comportamento. Ma c’è un muro di omertà, pregiudizio, fastidio da abbattere. La coppia che torturava Air è stata identificata. Ha nomi e cognomi. Lui si chiama Nathee Taengorn, 36 anni. Lei Rattanakorn Piyavoratharm, 34 anni. Sono stati rilasciati su cauzione, nonostante le pesantissime accuse. Qualcuno parla di «pressioni» dall’alto. Il procuratore thailandese non ha ancora aperto contro di loro un procedimento penale. Intanto i due sono fuggiti. Ma gli avvocati della Human Rights and Development Foundation, che hanno preso stanno studiando strategie per aggredire almeno parte dei beni dei due aguzzini per risarcire la vittima. «Non è tanto, non solo per i soldi che aiuteranno Air a crearsi un futuro - spiega Preeda Tongchumnum, assistente del segretario generale della Fondazione per i Diritti Umani - quanto per il precedente. Fungerà da deterrente in futuro per chi si macchierà di colpe simili».
Intanto il Dipartimento di Stato americano ha declassato la Thailandia: è considerata tra i peggiori Paesi per quanto riguarda il traffico degli esseri umani. Nel rapporto di quest’anno gli sforzi di Bangkok sono stati definiti «insufficienti» e grave il coinvolgimento di civili corrotti e di militari conniventi. «Non ci può esse impunità per chi è nel mercato degli esseri umani — ha ricordato il segretario di Stato, John Kerry — sia che si tratti di una giovane ragazza costretta a prostituirsi o ad elemosinare per strada».
Secondo il rapporto di Washington sono più di venti milioni le persone nel mondo che finiscono in schiavitù. Moltissimi sono minori. E in Asia la piaga è più grande che altrove.

La Stampa 4.7.14
La Cina vieta il Ramadan nello Xinjiang
Perché Pechino attacca i musulmani uiguri?
di Ilaria Maria Sala


Niente Ramadan per gli uiguri. Nello Xinjiang cinese, infatti, l’etnia musulmana maggioritaria è sorvegliata speciale, in particolar modo quest’anno, segnato da una serie di sanguinosi attentati, rivendicati da gruppi indipendentisti uiguri. Così, per contrastare il terrorismo, ecco che Pechino se la prende con il mese sacro all’Islam: niente digiuno per i dipendenti pubblici anche se pensionati, e per gli studenti; e pressioni su tutti gli altri affinché non rispettino i dettami del Ramadan. L’annuncio è stato diffuso in modo capillare, appeso nelle scuole e davanti alle moschee, e sui siti web degli uffici governativi e delle organizzazioni legate al Partito Comunista. Un divieto spiegato sostenendo che il digiuno nuocerebbe alla salute in particolare dei giovani «che devono nutrirsi in modo regolare». Alcuni insegnanti sono stati piazzati davanti alle moschee in molte città dello Xinjiang (grande cinque volte l’Italia) per evitare che studenti e minorenni non vi entrino. In tutta la Cina vige il divieto di istruzione religiosa ai minorenni, anche se impartita all’interno delle famiglie, ma questa legge draconiana è fatta rispettare solo nei territori tibetani e uiguri. Così, mentre agli impiegati pubblici uiguri non è consentito portare la barba o i baffi, e alle donne è proibito anche un fazzoletto sulla testa, ecco che i musulmani hui, che non hanno rivendicazioni territoriali da portare avanti, possono scegliere se rasarsi o coprirsi il capo. Durante il Ramadan, digiunano indisturbati fino al tramonto. Per stanare possibili sovversivi, il primo luglio, 93° anniversario della fondazione del Partito Comunista, le celebrazioni nello Xinjiang hanno visto funzionari cinesi aggirarsi con vassoi di leccornie, sorvegliando chi si asteneva dal gustarne. A Qarkilik (Ruoqiang in cinese) le scuole hanno affisso un avviso sul sito web che spiega che «nessun insegnante può prendere parte ad attività religiose, promuovere sentimenti religiosi o sospingere gli studenti a prendere parte in attività religiose», mentre negli uffici pubblici provinciali avvisi spiegano che i luoghi statali non possono essere «tramutati in luoghi di promozione religiosa».

Corriere 4.7.14
Xi Jinping licenzia il generale: «Corrotto»


PECHINO — La campagna anticorruzione lanciata nel 2012 dal presidente cinese Xi Jinping non sembra arrestarsi. L’ultimo a farne le spese è l’ex generale dell’esercito, tra i più noti e potenti, ed ex membro del Politburo, Xu Caihou. Xu, 71 anni, è stato accusato di corruzione ed espulso dal Partito comunista: sarà ora messo sotto processo dalla Corte marziale. Avrebbe ricevuto tangenti per far ottenere promozioni a suoi collaboratori e benefici ad altri suoi conoscenti e amici. Insieme a Xu Caihou sono sotto accusa anche Jiang Jiemin e Wang Yongchun, due importanti imprenditori nel settore dell’energia e del petrolio con incarichi di governo. La Bbc calcola che decine di migliaia di funzionari di Stato siano stati arrestati dall’inizio della campagna di Xi Jinping. Arresti che, secondo molti analisti, farebbero parte di una strategia per silenziare da un lato gli oppositori interni e, dall’altro, per ridurre il potere dei vertici militari.

Repubblica 4.7.14
Post, ibrida o in crisi così si trasforma una democrazia
Quattro autori (Diamanti, Morlino, Petrucciani e Urbinati) riflettono sulla salute di un sistema politico
di Giulio Azzolini


DIECI anni fa Colin Crouch le aveva anteposto un enigmatico prefisso: “post—“. Nel 2006, alle soglie del collasso di Wall Street, Pierre Rosanvallon condensava la sua atmosfera in una parola, “sfiducia”. E cinque anni dopo, con l’Europa in recessione e l’Italia soffocata dallo spread, Carlo Galli segnalava il suo “disagio”, mentre Alfio Mastropaolo si chiedeva se non fosse una “causa persa”. Il dibattito politologico sulla democrazia nel ventunesimo secolo ha finito per aggrovigliarsi sempre di più intorno alla “crisi della democrazia”. Non a torto, considerato l’aumento delle proteste, del non voto e del voto di protesta. Quattro libri usciti da poco in Italia, però, testimoniano una svolta meno pessimista e focalizzata non già sulla nozione di crisi ma piuttosto su quella di trasformazione. Ecco il denominatore comune di volumi peraltro diversi, come quelli di Nadia Urbinati, Ilvo Diamanti, Leonardo Morlino e Stefano Petrucciani. Teoria, sociologia, scienza e filosofia politiche alleate nel tentativo di cogliere con precisione tanto i meccanismi e i processi empirici che incidono sulle performance democratiche quanto i criteri teorici che distinguono la trasformazione della democrazia dalla sua deformazione.
Stefano Petrucciani, che in Democrazia (Einaudi) ricostruisce storie e teorie democratiche da Atene ai giorni nostri, muove dalla percezione di un’impotenza diffusa. «I cittadini si sentono spossessati. E analoga sensazione riguarda anche la base dei partiti rispetto ai leader, i parlamenti rispetto agli esecutivi, i governi stessi rispetto ai loro premier. I centri decisionali si concentrano “in alto”, scivolando via dalle sedi ampie e partecipate e ritirandosi in luoghi riservati a ristretti gruppi oligarchici; per altro verso, le arene democratiche sembrano sempre più inadeguate ad affrontare problemi che superano la capacità di incidenza dei singoli Stati. Il primo compito di un’agenda democratica per il futuro sarà ricostruire un complesso di condizioni favorevoli per la democrazia, riconoscendo che, per com’è organizzata oggi, non riesce più a garantire la mediazione tra opinioni, forze e interessi sociali diversi».
Ma qual è la figura ideale di una democrazia rappresentativa contemporanea? «Una diarchia eretta su due pilastri: opinione pubblica da una parte, procedure e istituzioni dall’altra», risponde Nadia Urbinati, autrice di Democrazia sfigurata ( Egea). «Ho l’impressione che il loro equilibrio sia alterato oggi da tre tendenze: quella epistemica, che mira a depurare la politica dalle rivalità d’opinione, rivendicando il possesso di una verità razionale, tecnica, competente e perciò indiscutibile; la tendenza populista, che spaccia l’opinione della maggioranza per quella del popolo intero, strumentalizzando così le parti che lo compongono davvero; e la tendenza plebiscitaria, che riduce la cittadinanza a audience passiva del capo carismatico».
Perdita di potere (politico e non solo economico) e impoverimento della complessità democratica: due trasformazioni che l’Italia degli ultimi anni ha sperimentato eccome. «Ma un po’ ovunque siamo entrati in una terza fase della democrazia», ammonisce Ilvo Diamanti, autore di Democrazia ibrida ( Laterza- la Repubblica). «La prima era la democrazia dei partiti, capaci di ottenere un consenso di massa intorno alla propria ideologia. La seconda è la fase della “democrazia del pubblico”: i leader prevalgono sui partiti e il rapporto di fiducia personale tra il capo e il pubblico della tv generalista scalza le ideologie. La terza fase è quella che ho chiamato democrazia ibrida. Il marketing politico e la comunicazione non si basano più né sull’ideologia né sulla fiducia. Fanno leva invece sulla sfiducia, sulla diffidenza verso leader, partiti, politici».
Si può fornire, infine, una teoria empirica del mutamento democratico? È l’ambizioso obiettivo di Leonardo Morlino in Democrazia e mutamenti (LUP). «Ho individuato una serie di meccanismi chiave per ciascuno dei processi di mutamento democratico: transizione, instaurazione, consolidamento, crisi. Quando parlo di crisi, però, lo faccio in senso strettamente empi- rico: la crisi è per così dire “interna” alla democrazia, anche perché nessuno in Occidente vede alternative ad essa». Ma è proprio qui che si apre lo spazio per le trasformazioni e le valutazioni della qualità delle democrazie. «Ora non sono più costrette a legittimarsi di fronte al mondo rispetto a regimi autoritari o totalitari, sono chiamate a produrre risultati. Ma la democrazia non è onnipotente. Per uscire dalla recessione, serve il concorso di tutti gli attori sociali, a partire da quelli sovranazionali».
Alla politica spetta, quindi, il compito di governare la trasformazione della democrazia. In quale direzione? I quattro autori assicurano parecchi spunti a riguardo. La democrazia a venire dovrebbe perseguire una dimensione transnazionale, preservare un equilibrio dinamico tra procedure decisionali e opinione pubblica, immaginare un’architettura istituzionale più conforme alle esigenze di rappresentanza e partecipazione, risolvere i problemi di oggi senza scaricarne i costi sulle generazioni di domani. Altrimenti? La democrazia rischierebbe di deformarsi, smarrendo i suoi tratti identitari: libertà e uguaglianza in primis. Ma è un altro il pericolo più verosimile: quello di conservare intatte le forme della democrazia novecentesca, esponendole a un depotenziamento e a uno svuotamento di senso progressivi. A quel punto, per comunicare con la realtà, il prefisso “post—” sarà indispensabile.

Corriere 4.7.14
Shoah a Rodi, i complici italiani

La Rsi consegnò ai nazisti la lista degli ebrei da deportare
di Antonio Carioti


La razzia delle SS nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, con la deportazione ad Auschwitz di oltre mille ebrei, è un punto fermo nella memoria del nostro Paese. Assai meno noto è un episodio altrettanto grave (anzi di più per numero delle vittime) che riguarda anch’esso l’Italia. Da Rodi e da Cos, isole greche del Dodecaneso, nel mar Egeo, da noi occupate e annesse in seguito alla guerra con la Turchia per la Libia del 1911-12, i tedeschi condussero verso lo sterminio settant’anni fa, il 23 luglio 1944, circa 1.750 ebrei. E ora affiorano documenti da cui risulta con chiarezza che a quel crimine contribuirono attivamente le autorità fasciste di Salò.
Le nuove acquisizioni sono frutto del lavoro svolto negli ultimi mesi dall’Archivio di Stato di Rodi, diretto da Irini Toliou, con la collaborazione di Evangelia Xatzaki, di Eleonora Papone e dello storico italiano Marco Clementi, autore di un libro sull’occupazione italiana della Grecia, Camicie nere sull’Acropoli , edito da DeriveApprodi. Attraverso il riordino delle carte appartenute al governatorato italiano negli anni in cui su Rodi sventolava il tricolore, poi incrociate con il fondo dei carabinieri locali, versato di recente, è emerso un carteggio di estremo interesse.
Ci troviamo nella primavera del 1944. Dopo l’armistizio con gli angloamericani firmato dal governo Badoglio nel settembre 1943, i tedeschi hanno assunto il controllo di Rodi. I carabinieri italiani di stanza nell’isola sono stati in buon parte deportati: quelli che hanno accettato di collaborare con gli occupanti sono stati inquadrati nella Guardia nazionale repubblicana (Gnr), un corpo armato della Rsi di Mussolini. Per il momento la numerosa comunità ebraica dell’isola, pur emarginata, non è stata colpita. Ma il 17 aprile la Gnr chiede al municipio di compilare in duplice copia un elenco di tutti gli ebrei in quel momento domiciliati a Rodi, divisi per gruppi famigliari, nell’ambito dell’annuale controllo delle carte di identità. Sembra un passaggio di routine, ma gli sviluppi saranno tragici.
L’11 maggio il municipio risponde e trasmette la lista, che però oggi nel fondo dei carabinieri e della Gnr non si trova. Tuttavia da quell’archivio emerge un appunto di grande importanza, datato 21 luglio 1944, nel quale si legge che una copia dell’elenco degli israeliti «è stata a suo tempo consegnata alla polizia segreta germanica». Due giorni dopo i tedeschi deportano da Rodi tutti gli ebrei e li avviano ad Auschwitz: si tratta di uno degli ultimi grandi convogli verso lo sterminio. E non sarebbe stato possibile realizzare quell’operazione criminale con altrettanto successo senza il diretto coinvolgimento delle autorità italiane dipendenti dal governo di Salò, che fornirono i nomi delle vittime.
C’è di più. Con alcune ricerche ulteriori, il gruppo che opera all’Archivio di Rodi ha riportato alla luce anche una copia della lista. «L’abbiamo rivenuta tra le carte del governatorato — spiega Clementi — in una scatola relativa all’anno 1945. Non c’è da stupirsene, perché gli errori di archiviazione sono abbastanza comuni. Altri studiosi avevano visto l’elenco, ma, non avendo il carteggio precedente, non potevano coglierne tutte le implicazioni. Comunque sull’autenticità non ci sono dubbi. La lista è dattiloscritta su fogli del municipio ed è datata 18 luglio 1944. Comprende 1661 nominativi di persone abitanti a Rodi: mancano gli israeliti di Cos, che erano circa un centinaio. Parla di “ebrei deportati”, al passato, quindi se ne può dedurre che il trasferimento doveva scattare prima, poi è stato ritardato di alcuni giorni, probabilmente a causa del bombardamenti aerei britannici sull’isola».
Liliana Picciotto, studiosa del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) e autrice di vari saggi sulla Shoah in Italia, sottolinea l’importanza della documentazione rinvenuta a Rodi. «È una prova ulteriore di come gli uffici di polizia italiana abbiano collaborato alla Shoah, fornendo ai tedeschi gli elenchi degli ebrei da deportare preparati sulla base dei censimenti compiuti a norma delle leggi razziali fasciste. Abbiamo molte liste di vittime compilate sulla base di testimonianze dei sopravvissuti: questa si distingue perché precede la retata ed è stata redatta dai persecutori. Bisogna dire che in alcuni casi la polizia italiana o i carabinieri avvertivano gli ebrei della minaccia, in modo che potessero cercare di nascondersi. Ma a Rodi non avvenne nulla di simile. Va notato che la Gnr chiede al municipio anche gli indirizzi degli ebrei, che però nella lista non sono riportati. Infatti non venne compiuta una razzia casa per casa: le persone da deportare furono convocate dai tedeschi e si presentarono spontaneamente, senza sospettare la sorte terribile che le attendeva».

Corriere 4.7.14
L’Italia nella Grande Guerra
Gli interventisti e le loro ragioni
risponde Sergio Romano


Sui giornali in questi giorni ricorre spesso l’attentato di Sarajevo, che diede origine alla Grande Guerra, ma non ho trovato traccia delle responsabilità dei nostri Futuristi, Papini compreso. I sostenitori del bellicismo non sono affatto scomparsi, anche se si mascherano sotto mentite spoglie. L’Europa di oggi presenta molte analogie con tale periodo prebellico. Riemergono vari nazionalismi (Nord - Sud, Est- Ovest, Russia -Ucraina e via di seguito). Forse la storia ha insegnato ben poco e dimentichiamo che, solo dopo che le guerre si sono fatte, ci si accorge che se ne poteva benissimo fare a meno.
Piero Campomenosi

Caro Campomenosi,
Quasi tutti i futuristi furono interventisti, molti furono volontari e alcuni (fra cui un grande architetto, Antonio Sant’Elia) morirono al fronte. Ma i «responsabili», come lei ama definirli, furono molto più numerosi. Nella folta pattuglia degli interventisti vi furono socialisti espulsi qualche anno prima dal partito, come Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, e quelli che ne verranno espulsi dopo l’inizio della Grande Guerra come Benito Mussolini. Vi furono sindacalisti rivoluzionari come Edmondo Rossoni e Filippo Corridoni. Vi furono democratici e liberali come Gaetano Salvemini, Giuseppe Antonio Borgese, Giovanni Amendola, Luigi Albertini. Vi furono i nazionalisti dell’Associazione creata da Luigi Federzoni. Vi furono infine molti esponenti dell’Italia «irredenta» da Cesare Battisti a Nazario Sauro E vi fu il più noto poeta italiano: Gabriele D’Annunzio. Piuttosto che considerarli «responsabili» dovremmo chiederci perché tante persone, provenienti da orizzonti culturali alquanto diversi, abbiano ritenuto che l’Italia avesse buone ragioni per intervenire nel conflitto.
Per i futuristi, la guerra, come avevano scritto sul loro manifesto, era «la sola igiene del mondo», il salutare scossone che avrebbe reso l’Italia più giovane e dinamica. Per i nazionalisti era l’occasione che le avrebbe permesso di completare la sua unificazione e divenire infine grande potenza. Per i realisti moderati era il prezzo che l’Italia doveva pagare per sedere al tavolo della pace e impedire che i nuovi equilibri, alla fine del conflitto, venissero decisi dietro le sue spalle. Per i democratici infine era una guerra contro il militarismo degli imperi centrali. Avrebbe stroncato le ambizioni egemoniche della Germania imperiale, avrebbe liberato i popoli dell’Impero asburgico e realizzato il sogno mazziniano di una «Europa delle nazioni». Per i rivoluzionari avrebbe sovvertito l’ordine delle gerarchie sociali e favorito l’ascesa del proletariato. Mai tanti uomini combatterono (e morirono) insieme per fini così diversi. Mai tanti idealisti scoprirono alla fine del conflitto di avere fatto la scelta sbagliata.

Corriere 4.7.14
New York sperimenta la vita tradotta in cifre
di Massimo Gaggi


Hudson Yards, nuovo quartiere di uffici e condomini residenziali (16 torri per un milione e 200 mila metri quadri di spazi disponibili) che sta sorgendo nel West Side di Manhattan, tra il Madison Square Garden e il fiume, sarà il primo esperimento americano di «comunità quantificata»: la New York University si è associata ai costruttori al lavoro nel grande cantiere (il primo grattacielo verrà completato nel 2015) per cercare di misurare e trasformare in cifre i vari aspetti della vita nel nuovo quartiere. Verranno misurati i passi percorsi dentro e fuori gli edifici (il 69% degli americani controlla periodicamente il suo peso, misura i risultati della sua dieta o quantifica i risultati del suo esercizio fisico), la qualità dell’aria nelle torri, ovviamente il consumo di energia, la quantità di spazzatura prodotta, il volume di materiali riciclati. Ma i ricercatori universitari contano di ottenere molti altri tipi di dati sull’attività di chi risiede in Hudson Yard e di chi ci lavora. Gli studiosi di Nyu e gli immobiliaristi sono convinti che la partecipazione volontaria dei residenti, dotati di apposite apps , sarà massiccia perché la gente, dicono, ha accettato la logica della smart community , il principio dell’autoconoscenza attraverso i numeri.
La logica non è nuova: il quantified self movement esiste da anni, ma è la prima volta, almeno negli Stati Uniti, che viene tentato un esperimento sociale così complesso e ambizioso. Un’ambizione alla quale non vengono posti limiti: ai giornalisti, ad esempio, viene promesso di avere accesso a tutti i dati che consentiranno di valutare se l’investimento del municipio e dello Stato di New York nel progetto avrà «pagato»: se, cioè, a fronte dell’impiego dei soldi del contribuente, una zona oggi semiabbandonata del West Side di Manhattan, zeppa di svincoli ferroviari sarà stata recuperata e trasformata in una comunità vitale e capace di produrre reddito per la città. Ma, ormai, si stanno moltiplicando le applicazioni che consentono di misurare, ad esempio, l’attività fisica e anche quella sessuale di chi accetta di farsi monitorare. C’è perfino l’applicazione che misura la velocità con la quale mangi: se non passano più di dieci secondi tra un boccone e l’altro, HapiFork ti manda un segnale d’allarme che è un invito a rallentare.
Dipenderà solo dai residenti: se vorranno potranno affidare tutti questi dati ai sorveglianti di Hudson Yards. Privacy? Grande Fratello? I titolari del progetto ritengono che queste preoccupazioni siano ormai superate in un’era in cui ci stiamo abituando a misurare tutto con i dati. Vero. E, infatti, il problema non è più tanto e solo quello della tutela della riservatezza delle informazioni personali quanto la crescente tendenza a sostituire, in tutti gli ambiti, le parole con i numeri: «Gli statistici battono i poeti dieci a zero», sintetizza il New York Times in un’analisi del fenomeno. Esagera? Non siamo ancora a questo punto, certo, ma sulla direzione di marcia non ci sono troppi dubbi. Intuito, creatività, le elaborazioni basate sugli studi umanistici perdono terreno rispetto agli insegnamenti scientifici. Si afferma il nuovo regno della metrica nel quale anche chi deve compiere scelte complesse, comprese quelle con un rilevante impatto politico e sociale, tende a mettersi alla ricerca di nuovi set di cifre sui quali deve costruire le sue decisioni.

Corriere 4.7.14
Conoscere la musica per essere più liberi
di Giulio Giorello


La musica è «arte da abolire come fonte di liberazione e libertà» e per questo «pericolosa per lo Stato», scriveva nel Seicento l’inglese Thomas Hobbes, teorico dell’assolutismo. Ma se avesse avuto ragione l’ebreo di Amsterdam Baruch Spinoza, nel sostenere che l’unica giustificazione dello Stato è la difesa della libertà dei cittadini, a quell’arte spetterebbe un ruolo centrale nella formazione delle giovani generazioni.
Le pagine riguardanti l’educazione musicale nella scuola primaria e secondaria sono tra le più appassionate del volume che Luigi Berlinguer ha dedicato al rinnovamento della didattica: Ri-creazione , scritto con Carla Guetti (Liguori, pagine XIV-229, e 19,90). Come osserva Giuseppe De Rita nella Prefazione: se «la vita è altrove» rispetto alla scuola, questa «deve avere il coraggio di guardare a qualcosa che non rientri nella sua ordinaria organizzazione».
Alla musica Berlinguer affianca la «cultura della tecnologia», ancora poco presente nelle scuole del nostro Paese. Nel volume si cita la Dichiarazione ministeriale di Riga, approvata all’unanimità dall’Unione Europea nel 2006, che esorta a seguire una strategia che miri a una società a un tempo dell’informazione e della democrazia. E non ci sono solo le tecnologie digitali.
Berlinguer insiste sulla figura del tecnologo come «artigiano» che combina per scopi inediti strumenti emersi sotto altre costellazioni. Ricorre allo splendido La natura della tecnologia di W. Brian Arthur (traduzione di Davide Fassio, Codice edizioni, 2011), che sottolinea come la tecnologia sia un tratto dell’evoluzione culturale analogo al processo per cui l’evoluzione darwiniana consente che organi specializzati in una certa funzione vengano poi impiegati con successo in un’altra. Come le ali degli uccelli, che originariamente costituivano un regolatore dell’equilibrio termico, ma poi dovevano venire utilizzate… per spiccare il volo!
Ci sono vicende affascinanti di innovatori tecnologici non meno «astuti» della natura: come quella di Frank Whittle, che negli anni Trenta per il volo ad alta quota escogitò un congegno che riprendeva la vecchia idea della turbina a gas, ma per produrre un «getto propellente» invece di azionare l’usuale elica.
Ritrovare nella scuola la dimensione storica dell’ingegneria avrebbe un valore esemplare, non solo per le menti dei giovani, ma per le modalità di organizzazione: queste e altre innovazioni, scrivono Berlinguer e Guetti, finirebbero col cambiare i tempi e gli spazi dell’insegnamento. In una scuola ove «non solo si conta, ma anche si canta» facilmente viene meno la funzione centralizzatrice e autoritaria della cattedra, a vantaggio di una struttura non gerarchica che consente una maggior condivisione delle competenze di ciascuno.
Infine, la Ri-creazione berlingueriana insiste sulle spinte dal basso per il cambiamento del sistema: ma difficilmente questa rivoluzione potrà svilupparsi se viene meno «l’intervento fattivo di politica, management, sindacati» per migliorare congiuntamente «cultura e società».
Berlinguer cita Bill Gates: «Baratterei tutta la mia tecnologia per una serata con Socrate». Molto bene, ma per riavere Socrate (o Giordano Bruno o Giambattista Vico o Carlo Cattaneo o chi volete voi) la tecnologia da barattare deve pur esserci!
Questo sposta il discorso all’investimento del settore pubblico e di quello privato nell’istruzione; ma dubito che la maggioranza degli esponenti di politica, management e sindacati nel nostro Paese sia in grado di cogliere il punto. Forse il sospetto sfiora lo stesso Berlinguer, che viene da una tradizione che conosce l’accoppiamento giudizioso di Gramsci tra «ottimismo della volontà» e «pessimismo della ragione».

Repubblica 4.7.14
Abreu: “Non c’è vita senza musica”


ROMA . Le prime parole di José Antonio Abreu sono per un amico che non c’è più, Claudio Abbado: «È stato un padre musicale per tutti noi». Economista, pedagogo, musicista, ex ministro della Cultura in Venezuela e culto in tutta l’America Latina. Abreu inventò, una quarantina d’anni fa, il celebrato “Sistema”: progetto rivoluzionario e apolitico, è stato sostenuto economicamente da tutti i governi venezuelani fin dal ’75. Con la sua straordinaria capillarità, questa rete didattica (gratuita!) ha saputo attestare la forza educativa e socializzante della musica.
Gentiluomo dall’aria nobile e ascetica, il candidato al Nobel per la Pace Abreu rivendica l’efficacia del “Sistema”, ormai radicato in un Paese violento come il suo, afflitto da piaghe di miseria e da lotte per il controllo del mercato della droga. «Abbiamo riunito in nuclei diffusi sull’intero territorio quattrocentomila ragazzi», spiega. «In Venezuela si sono formate 180 orchestre che hanno raccolto giovani spesso provenienti dai barrios più poveri delle città, coinvolgendoli nella musica intesa come strumento di dialogo e armonia ». Abbado fu un appassionato sostenitore del “Sistema”, «fin da quando venne in Venezuela per la prima volta», racconta Abreu. «Dalla nostra organizzazione sono usciti direttori d’orchestra come Gustavo Dudamel e Diego Matheuz, di cui Claudio ha appoggiato l’ascesa. E tra i giovani maestri di talento generati dal “Sistema”, ci sono pure Cristian Vasquez e Dietrich Paredes».
Abreu è giunto a Roma come testimonial d’eccezione del “Sistema delle Orchestre e dei Cori infantili e giovanili”, una Onlus italiana nata sul modello venezuelano. Presieduta da Roberto Grossi, ha preso il via nel 2010 ed è già riuscita a creare 54 nuclei, autofinanziati grazie al volontariato e agli sponsor (Enel Cuore ha pagato l’acquisto di 1.100 strumenti). Abreu, che ne fu subito eletto presidente onorario accanto ad Abbado, si dice «ammirato dal suo veloce sviluppo qualitativo e quantitativo». L’ha dimostrato negli ultimi mesi una Festa della Musica che ha programmato concerti di centinaia di bambini in varie città, tra cui Roma, dove il ciclo si chiude lunedì al Policlinico Gemelli (il lavoro presso le strutture ospedaliere è uno dei punti fermi dell’iniziativa). Abreu è persuaso che il “Sistema Italia” otterrà presto finanziamenti pubblici: «Ho trovato il presidente del Senato sensibile all’argomento. Come sta accadendo in altri Paesi, presto anche da voi se ne capirà l’importanza per la crescita della nazione. Non c’è vita senza musica, come sosteneva Claudio».

l’Unità 4.7.14
Inseguendo Sartre
Viaggio tra le case abitate dagli scrittori che amavano rifugiarsi nelle Cinque Terre
di Marco Ferrari


MI SONO SEDUTO SULLA PANCHINA DOVE SI RIPOSAVA JEAN-PAUL SARTRE (1905-1980). E strano, nei miei soggiorni giovanili parigini ho cercato di incontrarlo, semplicemente vederlo, magari sfiorarlo nelle sue abituali presenze al Café de Flore in Saint-Germain-des-Prés. Solo una volta mi e capitato di vederlo fumare la pipa seduto ad un tavolo d’angolo assieme ad un terzetto di amici senza che potessi realmente guardarlo negli occhi. Ma la mia curiosità da provinciale in vacanza si e infranta sullo sguardo infuriato del caposala. Ebbi solo il tempo di osservare una specie di quaderno che teneva aperto su un piatto e accanto un vassoio tondo con una tazza da caffè, un bicchiere, un’ampolla di latte e una bottiglia di vetro piena d’acqua.
E invece avrei potuto incontrarlo qui, su questa piazza di Trebiano, davanti alla chiesa che porta il nome di San Michele Arcangelo, risalente al XVI secolo, dalle tre navate dall’aria vagamente spagnoleggiante. Tre sono anche le panchine, due all’altezza del parcheggio, tra due platani assai robusti ma spelacchiati, e una in basso, nel prato di terra ed erba che si apre sulla chiesa e la sacrestia. Aveva già rifiutato il Premio Nobel, quando bazzicava da queste parti, magari tenendo sotto braccio un libro di Lacan o Camus. Avrei potuto parlare con lui della sua formula, «L’existence précede l’essence», giocandomi l’unica vera chance di ascoltare dal vivo la sua voce gracchiante e seguire le movenze della sua gestualità, quasi totalmente concentrata sulla mano sinistra poiché nella destra teneva sempre una sigaretta. Invece non lo feci. Forse non sapevo neppure che Sartre aveva a che fare con Trebiano, bellissimo borgo arroccato nell’entroterra di Lerici, con i resti di un castello, una porta d’ingresso al paese, le case a un piano con le persiane di legno, i portoni antichi, i fiori che traboccano dai portavasi e i gatti che si inseguono sotto gli archi. Un borgo aggrappato al cielo, inaspettatamente intatto, a due passi dalla trafficata Romito, cosi diversa e anonima rispetto a questo viluppo antico di dimore risalenti all’anno Mille. Qui stupisce la compattezza della quiete che gravita lungo le stradine del paese che trattiene gli echi della piana, come un maniero che si difende dagli assalti esterni.
Mi sono perso l’unica traccia possibile che mi avrebbe potuto condurre quassù, il libro A conti fatti di Simone de Beauvoir (1908-1986), edito nel 1972. «Mia sorella – scrive Simone – non abita più a Parigi (...). D’estate in Italia, nella sua casa di Trebiano, lavora in un grande studio pieno di sole (...). Finalmente arrivai nella borgata di dove si sale a Trebiano: dal basso il villaggio aveva un aspetto grandioso, col suo castello, la maestosa chiesa barocca, i muraglioni a picco (...). Che ricompensa, ritrovarmi seduta su una terrazza con mia sorella, a guardare la campagna e il mare!».
Anch’io sono riuscito a raggiungere quella terrazza da cui, effettivamente, si gode una visione assai particolare: a destra il Golfo di Lerici che, nelle giornate di chiarore che seguono le tempeste, concede la percezione del dito della Corsica; in mezzo il possente Monte Caprione; a sinistra la piana del fiume Magra e il primo abbozzo della curva della Versilia. Sono qui con una signora gentile, dai modi garbati, con un volto anni sessanta, i capelli a caschetto, gli occhiali spessi, un sorriso sottile, Milena Tacchini. Mi dice che, dopo aver avuto timore di sconvolgere l’ordine dei ricordi, aspettava qualcuno che raccogliesse la sua storia fatta, come per tanti, di dolori e piaceri, ma soprattutto ruotante attorno a Hélene de Beauvoir (1910-2001), la sorella di Simone.
Giro per questa casa che fu di Hélene adorandone quasi la presenza, forse una traccia di Chanel, un mazzo di violette o una pasta d’acquarello. Sul campanello e ancora impresso il nome del marito, Lionel de Ruolet. Sotto il vetro si legge un biglietto da visita con le sue credenziali: Direction pour les Affaires Culturales del Consiglio d’Europa.
Stento a credere che abbia resistito tanto e che abbia idea di durare ancora poiché il povero Lionel se ne e andato per sempre nel 1990. L’edificio ha una divisione interna differente da quando vivevano qui Hélene e Lionel, ma la sua sagoma esterna e ancora integra, giallognola nel suo complesso. Forse un tempo le mura contenevano un carcere oppure un presidio militare. Quando lo ristrutturarono trovarono anche antichi resti umani. E un edificio che dalla centrale via di Mezzo scende con una voltatura a tutto tondo su via San Bernardo per terminare sulla strada esterna del borgo, via Sottocasa, avvolgendo quindi gran parte del fianco di ponente del paese. L’ala sinistra ospita la famiglia di Walter Tacchini, artista affermato, quella di destra il suo atelier di maschere, figure, quadri e tappeti figurati. Se Hélene ha smesso di dipingere davanti alle due vetrate, ora ci lavora Tacchini. L’atelier e quasi identico a prima. C’e persino un tavolo ovale di marmo rossastro che compro l’artista francese.
Hélene l’ha voluto lasciare a quella che chiamava «ma petite famille italienne». Milena ha subito due gravi perdite una dietro l’altra. Ha risposto con fermezza ma anche con fragilità. E solo ora, a distanza di tanti anni, se l’è sentita di parlare di quei lutti, la scomparsa della figlia Vanna nel 2000 e l’addio di Hélene l’anno successivo. La figlia se n’era andata via a soli 36 anni lasciando un diario poetico che soltanto adesso ha visto la luce, intitolato Piccolecose. Hélene ha lasciato la casa e gli oggetti in questo borgo come se partisse per un viaggio di pochi giorni, ma in realtà non e più tornata. E ora sono il primo estraneo che curiosa tra quelle che erano le pareti della sua dimora, la camera da letto, i tappeti, la cucina, lo studio e la famosa terrazza dove attendeva il calar del sole con Simone, la quale, tra una sigaretta e l’altra, lanciava i suoi proclami come: «Dur travail, de mourir, quand on aime si fort la vie».

l’Unità 4.7.14
Pietre che cantano
Visita a Matera tra grotte affrescate e nuove forme della scultura
Una mostra precisa una linea di ricerca critica rigorosa sul filo dell’arte scultorea astratta


L’ANZIANOMATERANOSONOGIÀ DUEVOLTE CHE ALZA GLI OCCHI AL CIELO, ALLA TERZA SALUTA E SE NE VA, NON CAPISCE PERCHÉ L’EVIDENTE RICHIESTA DI SPIEGAZIONICHEHAARCUATOLENOSTRESOPRACCIGLIADAVANTIALLAVISIONEDEISASSINONSIASTATA ESAUDITA DALLA SUA GENEROSA E MINUZIOSA DESCRIZIONEDICHIESEEPALAZZI, ma resti invece catatonica, e un po’ sinistra a dirla tutta, tipica di chi sta cercando di metabolizzare uno spettacolo che sembra finto e che invece è vero, una scena madre che pretende il silenzio e non tollera definizioni.
Matera è, prima che una città, uno spazio che consente movimenti e spostamenti impensabili: vedi dall’alto ciò che ti pare distante, lontano laggiù, e dopo lo puoi attraversare, toccare, e altro che 3D; se percepisci una specie di abisso dietro una porta (che so: la cisterna) subito vi puoi discendere, contemplando mondi che non c’è scenografo sulla terra che non debba, assolutamente, studiare. Il fatto è che questo continuo dérapage più che spaziale è soprattutto temporale, riguarda le epoche e le ere: per quanto siano remote queste sono concordi, con mitezza, nel lasciarti ritornare da loro. Ogni saliscendi qui ha un che di iniziatico, e non per nulla a Carlo Levi i due Sassi, il Caveoso e il Barisano, apparvero come due imbuti rovesciati, quasi in copia dell’immagine dantesca. Simmetricamente, fu facile a Pier Paolo Pasolini vedere in essi l’antica Gerusalemme, habitat perfetto per il suo Gesù.
In effetti Matera, supercongegno civile e geologico, è unica, perché è senza confronti e paragoni questa sua forza di condensazione di tempi differenti, di universi paralleli, che ti connettono senza sforzo e simultaneamente con la storia e la preistoria. Per dire: in quel luogo meraviglioso e semibuio che è la Cripta del Peccato Originale (che nome!) se osservi quel che di intensamente vivido resta di coloratissimi affreschi del IX secolo, con le storie e le immagini della creazione del mondo secondo la fede di un anonimo e splendido «pittore dei fiori» (in una prospettiva karmica Matisse ne sarebbe, con ogni probabilità, l’ennesima reincarnazione) lo fai sedendoti su roccia e terra trapunte di fossili di conchiglie, perché arrivava il mare, qui, milioni di anni fa. E così due Genesi si dicono buongiorno, una umana e biblica davanti agli occhi, una naturale sotto i piedi. Memorabile.
Stiamo parlando di grotte che diventano chiese, e di chiese che ai nostri occhi appaiono stupefacenti perché in realtà sono proprio grotte. Monaci rupestri d’Oriente e Occidente, latini o bizantini, cenobiti o eremiti che fossero, le decorarono e le abitarono, pregando, contemplando, costruendo socialità e ritualità per secoli. Entriamo in almeno due di esse, le chiese di Madonna della Virtù e di san Nicola dei Greci, perché è qui che c’è Scultura Lucana Contemporanea. 1950-2014, curata da Beatrice Buscaroli Fabbri (fino al 18 settembre, catalogo Giuseppe Barile Editore). La mostra è l’ennesima di una lunga e fortunata serie voluta e organizzata dal Circolo «La Scaletta », che a Matera, dal 1959, svolge un’azione formidabile, punto di riferimento della classe dirigente della città. Parlatene con i torrenziali fratelli Raffaello e Michele De Ruggieri, che furono tra i fondatori del circolo, o con l’attuale presidente Ivan Franco Focaccia, e loro vi faranno la storia di un gruppo di intellettuali democratici che da più di cinquant’anni studiano, valorizzano, progettano il destino artistico e civile della città. Ora anche in una prospettiva importante, perché Matera, per il 2019, si candida a Capitale Europea della Cultura.
In principio, nel 1978, fu una mostra di Consagra. Poi, nell’87, cominciò la serie, con Melotti. La curò Giuseppe Appella, che proseguì con mostre straordinarie in queste due chiese scavate nella roccia, precisando una linea di ricerca critica rigorosa, sul filo della scultura astratta. Molte le mostre e le donazioni, che hanno incrementato le 250 opere della collezione del Musma (Museo della scultura contemporanea di Matera) che è nel bellissimo Palazzo Pomarici.
MI LASCIO PLASMARE
L’edizione di quest’anno, la ventisettesima, vede dunque protagonisti, in uno sforzo di visibilità e promozione altrimenti sopraffatte, scultori lucani. 13 gli artisti selezionati, tra questi Antonio Paradiso, Guido Orioli, Domenico Viggiano, Donato Rizzi, Salvatore Sebaste, Margherita Serra. Spicca il recupero di un artista classicamente raffinatissimo come Francesco Pesce. Che siano marmi bianchi o legni e ferri e bronzi, qui la scultura brandisce le sue armi arcaiche: torna alla sua fonte, è come un frutto della pietra stessa, generato lì per lì e trattato come quel monaco del Monte Athos il quale, a chi gli chiedeva cosa ci facesse tutto il tempo in chiesa, rispondeva: «assolutamente nulla, mi lascio plasmare, come un feto nel grembo della madre».

La Stampa 4.7.14
Scoperte 149 prime registrazioni di Bob Dylan
Trovate in un appartamento di New York

qui

La Stampa 4.7.14
Francesca da Rimini surclassa Beatrice nel cuore degli italiani
Così attraverso i secoli l’eroina dell’Inferno di Dante perde la connotazione di peccatrice
Lo racconta a Rimini “Divina Passione”, mostra sulla Commedia
di Michele Brambilla


Chi volesse compiere uno straordinario viaggio nel tempo può andare - da oggi pomeriggio fino al 28 settembre - a Rimini, al Museo della Città, a visitare la mostra «Divina Passione». Sono esposte oltre sessanta rarissime edizioni della Divina Commedia stampate dal XV secolo ai giorni nostri, e appartenenti alla più grande collezione del mondo, quella del torinese Livio Ambrogio.
Non c’è bisogno di essere bibliofili per emozionarsi già all’inizio della mostra, quando ci si imbatte nelle prime parole mai stampate della Commedia: «Nel mezo del camin dinrã vita mi trovai puna selva oscura...». È l’editio princeps, la prima edizione assoluta della Commedia: un volume realizzato l’11 aprile 1472 a Foligno da Johann Numeister, tipografo di Magonza formatosi nell’officina di un altro Johann, il celeberrimo Gutemberg. Sotto l’ultima riga, «lamor chemuovel sole et laltre stelle», si può leggere uno dei primi colophon della storia: «Nel mille quatro cento septe et due nel quarto mese adi cinque et sei questa opera gentile impressa fue. Io maestro Johanni Numeister opera dei alla decta impressione et meco fue. Elfulginato Evangelista mei».
È in assoluto il primo libro stampato in lingua italiana: ne esistono una trentina di copie in tutto il mondo, dieci in Italia.
E perfino più raro (sedici nel mondo, sei in Italia) è il secondo volume che si incontra: la Commedia stampata a Mantova nello stesso 1472 da Georg di Augusta e Paul di Butzbach. C’è poi la prima edizione tascabile, intitolata «Le terze rime» e stampata a Venezia da Aldo Manuzio nell’agosto 1502: una specie di Oscar Mondadori ante litteram. E ancora, «La traducion del Dante de lengua toscana en verso castellano», prima traduzione in spagnolo dell’Inferno, stampata a Burgos il 2 aprile del 1515 e commissionata da Giovanna d’Aragona, figlia del re don Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia. Piccolissima è poi «La Visione. Poema di Dante Alighieri», stampata a Vicenza nel 1613: è una delle appena tre edizioni della Commedia stampate in tutto il Seicento.
Questa straordinaria mostra è l’evento più importante fra quelli che accompagnano «Italian Passion», cioè l’ottava edizione del Convegno internazionale su Francesca da Rimini, che si tiene oggi e domani, sempre al museo della Città, con la collaborazione dell’Università di Los Angeles. Perché Los Angeles? Perché fu proprio là che, sentendo lo storico riminese Ferruccio Farina tenere una conferenza su Dante, agli americani venne l’idea di istituire ogni anno un convegno internazionale su una delle storie d’amore più conosciute nel mondo. Quella appunto dell’episodio narrato nel quinto canto dell’Inferno, la sventurata passione fra Paolo e Francesca. «Francesca da Rimini», dice il sindaco Andrea Gnassi, «è senz’altro il personaggio più amato della Commedia, riconosciuta universalmente come simbolo della bellezza, dell’amore eterno. Francesca, che porta il nome della mia città, è la straordinaria ambasciatrice del Paese più bello del mondo».
E attraverso il mito di Francesca di Rimini, o meglio attraverso la sua raffigurazione nella letteratura e nell’iconografia, si può cogliere com’è cambiato nel corso dei secoli il costume, il senso della morale, l’idea di peccato. Le sessanta Commedie esposte a Rimini - che sono solo una parte della collezione torinese di Livio Ambrogio, composta da più di mille volumi - raccontano infatti una storia nella storia: quella del riscatto dell’amante maledetta che Dante pone all’inferno, con il suo Paolo, nel girone dei lussuriosi.
Imperdonabile fu considerato dai contemporanei il bacio galeotto di Paolo e Francesca. Imperdonabile perché conseguenza di un adulterio - tutti e due erano già sposati - e addirittura incestuoso, perché i due amanti erano anche cognati. Così nelle prime edizioni illustrate della Commedia (in mostra c’è la prima in assoluto, quella del 1487 con il commento di Cristoforo Landino) per gli adulteri ci sono fiamme e sofferenza, senza alcuna indulgenza o pietà.
«È solo alla fine del Settecento, con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, che Francesca comincia a essere guardata con occhi nuovi», dice Ferruccio Farina, coordinatore del Convegno internazionale e curatore di questa mostra insieme con Livio Ambrogio. «Da peccatrice, comincia a essere considerata vittima di un inganno, costretta a sposare il disgustoso Gianciotto dopo che le avevano fatto credere che avrebbe sposato il fratello, Paolo. Qui in mostra abbiamo la prima opera che, dopo secoli, in qualche modo riabilita la mia concittadina, e cioè “Francesca di Arimino” di Francesco Gianni, del 1795».
All’inizio dell’Ottocento Dante, dopo un lungo periodo di oblio, viene riscoperto e riletto con una diversa sensibilità. E così la figura di Francesca: «La colpa è purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti questi versi la compassione pare l’unica Musa», scrive Ugo Foscolo. Nel 1831 Mazzini pone Francesca e il suo anelito di libertà come esempio dei valori di un vero italiano. Francesco De Sanctis scriverà: «Beatrice non ha potuto divenire popolare ed è rimasta materia inesausta di dispute e di arzigogoli. Francesca al contrario acquistò un’immensa popolarità... Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualità buona: sembra che nel suo animo non possa farsi adito ad altro sentimento che l’amore. Amore, Amore, Amore!».
Più che la lussuria c’è il segno dell’amore eterno nella Francesca raffigurata da Gustave Doré, presente in questa mostra con la sua prima tiratura, del 1861. Nella Divina Commedia illustrata a cura degli Alinari (1922-’23) «Francesca, nella piena bellezza del suo corpo nudo, più che soffrire sembra bearsi del dolce abbraccio dell’amato». L’edizione del 1921 illustrata dall’austriaco Franz von Bayros ci mostra poi una Francesca sensuale, erotica. La mostra arriva alle 56 tavole di Renato Guttuso, 1970. Per informazioni www.francescadarimini.it; info@francescadarimini.it; telefono 0541-704421; 331-8346391.

Repubblica 4.7.14
Da “femminiello” a “pangender” le identità sessuali secondo Facebook
Da oggi il social network permette di optare tra 58 identità diverse
Tutte “approvate” dall’Arcigay, inclusa una destinata a suscitare dibattiti
di Maria Novella De Luca


DA AGENDER a bigender, da fluido a neutro, da trans a intersessuale, passando per maschio, femmina, ma anche “femminiello”, da oggi sulle nostre pagine di Facebook autodefinirsi sarà più democratico, ma anche forse assai più complicato. Come già avvenuto negli Stati Uniti, e sotto la stretta supervisione dell’Arcigay, anche nei profili italiani si potrà definire la propria identità di genere in ben 58 modi diversi. Con la particolarità che tra i tanti anglismi per definire le infinite sfumature del proprio essere, tra le categorie di casa nostra spunta l’antico e dialettale termine “femminiello”. Napoletanissima definizione di maschi che amavano ed amano vestirsi da donne, variazione del mondo gay, icone di certi quartieri popolari raccontati da Viviani e Patroni Griffi, cantati oggi da Peppe Barra. “Femminielli” che il due febbraio di ogni anno si incontrano con tamburi e tammorre alla processione della “Madonna Schiavona” al santuario di Montevergine, in un rito secolare e sempre uguale a se stesso. Sacro e profano, la terra e il cielo, la Madonna e la dea Cibele.
Tutto questa contraddizione di antico e moderno adesso sbarca a sorpresa nell’ipermondo di Facebook. Più o meno dalla mezzanotte di oggi, infatti, nell’area in cui si indica il proprio sesso, e dove oggi campeggiano “maschio” o “femmina”, si aprirà anche la voce “personalizzata”. E lì ci si potrà appunto riconoscere in ben 58 definizioni diverse, ed indicare anche se si vuole essere contattati con il pronome maschile o femminile... Ma di certo la scelta che spiazza più di tutte è proprio “femminiello”: non solo per la sua connotazione locale, ma anche perché in bilico tra lingua e dialetto potrebbe diventare tra le maglie della Rete un nuovo insulto omofobico. Un boomerang insomma, invece che una rivoluzione culturale. Un rischio che comunque sia Facebook Italia sia l’Arcigay sembrano aver messo in conto. Spiega Vincenzo Branà, portavoce del movimento: «In ogni Paese la lista delle definizioni è stata personalizzata, e i “femminielli” sono una tradizione italiana. Siamo di fronte ad una parola antica, non ad un termine dispregiativo che potrebbe tradursi in un insulto». Aggiunge Flavio Romani, presidente dell’Arcigay: «L’iniziativa di Facebook ci dà l’occasione di riportare la questione dell’identità di genere tra le scelte individuali. Non solo. Scorrere una lista con termini come transgender vuol dire fare cultura ».
Forse. In realtà l’elenco è così vasto e così pieno di sinonimi che non è facile, se non inseguendo le sfumature, individuare le differenze. Ad esempio tra “femmina trans” o “trans femmina”. Di certo che su un social da miliardi di utenti ci si possa definire “altro” rispetto alle due metà del mondo, è sicuramente un buon esercizio di democrazia. Commenta Laura Bononcini, responsabile relazioni istituzionali di Fb: «Il lancio anche in Italia delle opzioni di genere personalizzate è un passo importante per consentire alle persone che usano Facebook, e non si identificano né con uomo né con una donna, di poter esprimere la propria identità».
Speriamo. Perché la Rete, si sa, è più matrigna che madre. ma Vlamir Luxuria, simbolo del transgender, è ottimista. «”Femminiello” è un epiteto e non un insulto. È un modo dolce per indicare chi si sente effeminato, ma non ricorre alla chirurgia bensì ad un cappello con la veletta... I “femminielli” sono rispettati, basta partecipare alla processione della Madonna Schiavona per rendersene conto». E un “femminiello” dichiarato, Ciro Cascina di Torre Annunziata, noto ed eclettico attore di strada, tra i fondatori dell’Afan (Associazione femminelle antiche napoletane) plaude la lista delle identità di genere. «La parola gay ha cementificato le differenze. Il “femminiello” invece è una persona che ha un corpo maschile e un sentire femminile. Ma non cercateci fuori da Napoli e dai nostri quartieri popolari: noi siamo questa terra, questa lingua, queste contraddizioni ».

Corriere 4.7.14
Noi cavie (ignare) di centinaia di esperimenti su Facebook
di Anna Meldolesi


Un miliardo e trecento milioni di utenti. Un miliardo e trecento milioni di cavie potenziali? Non si placano le polemiche sugli esperimenti condotti da Facebook sui propri utenti: le authority per la privacy drizzano le antenne, i vertici del social network si scusano, ma spuntano anche nuovi casi.
Dal 2007 Facebook ospita il Data Science team, un gruppo di una trentina di scienziati che ha l’opportunità di svolgere ricerche senza precedenti sul comportamento umano. Facebook offre un campione enorme di soggetti sperimentali, gratuitamente disponibili e pronti a condividere informazioni personali, senza i limiti etici della ricerca pubblica, che prevede obblighi di riservatezza e il consenso informato dei partecipanti. Da poco la company ha istituito un comitato interno che autorizza i test, ma secondo uno dei ricercatori (Adam Kramer) fino a poco tempo fa bastava avere un’idea e nel giro di qualche giorno si poteva passare all’azione. Il Wall Street Journal riferisce che gli scienziati di Zuckerberg hanno condotto centinaia di esperimenti più o meno controversi, pubblicati solo in minima parte. Impossibile sapere chi abbia partecipato. I soggetti sono selezionati in modo casuale, nessuno chiede loro il permesso prima di iniziare e nessuno li avverte a posteriori. L’esperimento che ha fatto scoppiare il caso, pubblicato il 17 giugno dalla rivista Pnas , è durato una settimana e ha coinvolto quasi 700.000 utenti. Poiché gli amici di ciascun iscritto producono più contenuti di quelli che una singola persona potrà mai leggere, ci pensa un algoritmo a decidere cosa mettere in evidenza, secondo criteri variabili. In questa occasione si è scelto di mostrare ad alcuni partecipanti contenuti più piacevoli, ad altri una selezione di post più negativi. Lo scopo era appurare se si sarebbero fatti contagiare, scrivendo a loro volta post allegri o tristi. Così è stato, anche se l’effetto si è dimostrato lieve. L’idea che una company abbia cercato di dopare l’umore di un esercito di ignari utenti, comunque, è apparsa a molti inaccettabile. È come se avessero messo una sostanza euforizzante o, peggio, depressiva nell’acqua dei nostri rubinetti. Nessuno può considerare alla pari di un consenso informato l’accettazione delle condizioni di utilizzo del social network, che al tempo dell’esperimento prevedevano la disponibilità dei dati «per migliorare i prodotti». Poi è stata aggiunta la finalità di «ricerca», ma pochi sono consapevoli di cosa significhi davvero. In uno studio sulle elezioni per il Congresso americano del 2010 sono stati coinvolti 60 milioni di utenti e si calcola che gli inviti al voto personalizzati destinati a una parte di loro abbiano portato 340.000 persone in più alle urne. Altri test sono serviti a studiare come comunicano le famiglie, le cause della solitudine, la diffusione dei comportamenti, i post che vengono cestinati dagli autori prima della pubblicazione. Molti iscritti hanno ricevuto un messaggio che li accusava di essere dei robot e sono stati riammessi dopo aver dimostrato di essere utenti reali, anche se Facebook lo sapeva già e stava solo conducendo un test antifrode.
Il confine tra osservazione e condizionamento dei soggetti è labile e gli studi di psicologia non sono sempre privi di rischi per chi partecipa. Dà i brividi immaginare cosa poteva succedere se Facebook fosse esistita quando Philip Zimbardo riuscì a trasformare delle persone qualunque in aguzzini con la manipolazione psicologica raccontata nel film «The experiment». Ma c’è anche un altro rischio più piccolo e subdolo: che dopo tanto clamore queste ricerche non vengano più rese pubbliche. Le manipolazioni a fini di marketing continuerebbero, mentre la scienza pagherebbe il conto.

Repubblica 4.7.14
L’età delle follie
Gli adolescenti sono più propensi a correre rischi sebbene siano anche più vulnerabili rispetto a ansie e angosce
Un paradosso la cui causa sta in una “stramberia” dello sviluppo cerebrale
Il circuito che elabora la paura “cresce” prima di quello che la controlla
di Richard A. Friedman



ADOLESCENZA, nella nostra cultura, è sinonimo di drammi emotivi, comportamenti sregolati e ricerca volontaria del rischio. Generalmente si dà per scontato che l’angoscia adolescenziale abbia radici psicologiche. Ma c’è un lato più oscuro che finora è stato scarsamente esplorato, un’impennata dell’ansia e della paura negli anni dell’adolescenza. Infatti, soprattutto per effetto di una stramberia nello sviluppo cerebrale, gli adolescenti provano più ansia e paura e fanno più fatica a imparare a non avere paura, rispetto ai bambini o agli adulti. Si è scoperto che il circuito cerebrale che elabora la paura — l’amigdala — è precoce e si sviluppa molto prima della corteccia prefrontale, la sede del ragionamento e del controllo esecutivo. Gli adolescenti hanno un cervello con maggiore “capacità” di provare paura e angoscia. Ci si potrebbe domandare perché, allora, siano molto sensibili alle novità e disposti a correre dei rischi. La risposta, almeno in parte, è che il centro di “ricompensa” del cervello, proprio come il circuito della paura, matura prima della corteccia prefrontale. È il centro della ricompensa che stimola gran parte dei comportamenti a rischio dei teenager. Questo paradosso comportamentale contribuisce a spiegare anche perché gli adolescenti siano particolarmente inclini a traumi e infortuni. Le prime tre cause di morte per gli adolescenti sono gli incidenti, gli omicidi e i suicidi.
In quanto psichiatra, ho curato molti adulti con disturbi legati all’ansia e in quasi tutti i casi l’origine del problema era riconducibile agli anni dell’adolescenza. Negli Stati Uniti fino al 20% degli adolescenti è affetto da disturbi diagnosticabili legati all’ansia. La prevalenza di questi disturbi e di comportamenti a rischio evidenzia una certa costanza e questo a mio parere indica che l’aspetto biologico nei loro comportamenti è molto rilevante. Uno studio con risonanze magnetiche cerebrali condotto dai ricercatori del Weill Cornell Medical College e dell’Università di Stanford ha scoperto che quando vengono mostrate agli adolescenti immagini di persone con espressioni spaventate, la reazione dell’amigdala è molto più accentuata che nei bambini e negli adulti. L’amigdala gioca un ruolo fondamentale nella valutazione e nella reazione alla paura: manda e riceve connessioni alla nostra corteccia prefrontale, allertandoci del pericolo ancora prima di avere il tempo di pensarci davvero.
L’apprendimento della paura gioca un ruolo centrale nell’ansia e nei disturbi correlati. Questa forma primitiva di apprendimento ci consente di formare associazioni tra eventi e indizi e contesti specifici che possono rappresentare un indicatore di pericolo. Ma quando gli indizi o le situazioni pericolose diventano sicure, dobbiamo avere la capacità di riesaminarle eliminando l’associazione che avevamo precedentemente stabilito con la paura. Per le persone affette da disturbi legati all’ansia, fare questa cosa (cioè eliminare quell’associazione) rappresenta un problema e provano una paura persistente anche in assenza di pericoli: è appunto il fenomeno noto come “ansia”.
B. J. Casey, professore di psicologia e direttore del Sackler Institute presso il Weill Cornell Medical College, ha studiato l’apprendimento della paura in un gruppo di bambini, adolescenti e adulti, mostrando loro un riquadro colorato e nello stesso tempo esponendoli a un rumore fastidioso. Il riquadro colorato suscitava una reazione di paura simile a quella suscitata dal suono. Non c’erano differenze tra i soggetti dell’esperimento nell’acquisizione del condizionamento alla paura. Ma quando ha addestrato i soggetti a disapprendere l’associazione tra il riquadro colorato e il rumore, il dottor Casey ha scoperto che gli adolescenti incontravano molte più difficoltà.
Se si considera che l’adolescenza è un periodo di esplorazione, in cui i giovani sviluppano un’autonomia più ampia, il fatto di avere maggiore capacità di provare paura e una memoria più persistente per situazioni pericolose conferisce un vantaggio in termini di sopravvivenza.
Questa nuova comprensione delle basi dello sviluppo neurologico dell’angoscia adolescenziale ha implicazioni importanti anche per il modo di curare i disturbi legati all’ansia. Uno dei metodi più usati è la terapia cognitivo- comportamentale, una forma di apprendimento “dell’estinzione” in cui uno stimolo vissuto come spaventoso viene ripetutamente presentato in un contesto non minaccioso. Il paradosso è che gli adolescenti, proprio a causa di questa loro menomazione, possono essere meno reattivi alle cure basate sulla desensibilizzazione. Un recente studio condotto su bambini e adolescenti con disturbi legati all’ansia ha scoperto che solo il 55-60 per cento dei soggetti ha reagito a una terapia cognitivo- comportamentale o a un trattamento con antidepressivi, ma l’81 per cento ha reagito a questi trattamenti combinati insieme. Un altro studio ha fornito un’evidenza preliminare del fatto che gli adolescenti reagiscono a una terapia cognitivo-comportamentale meno efficacemente dei bambini o degli adulti.
Con questo non intendo dire che la terapia cognitiva sia inefficace per gli adolescenti, ma semplicemente che non è necessariamente il trattamento più efficace, se usata da sola. E c’è un altro potenziale motivo di preoccupazione: l’incremento fulmineo dell’uso di psicostimolanti. Secondo l’Ims Health, una società di analisi di mercato nel settore sanitario, le vendite di stimolanti con prescrizione medica sono più che quintuplicate tra il 2002 e il 2012. È noto che gli stimolanti potenziano l’apprendimento, la formazione della memoria e in particolare il condizionamento alla paura. È possibile che l’uso promiscuo che facciamo degli stimolanti possa menomare la capacità degli adolescenti di eliminare la paura appresa, rendendoli adulti più paurosi? La verità è che non ne abbiamo idea. Ma sappiamo questo: gli adolescenti sono più vulnerabili di chiunque altro all’ansia e trovano più difficile imparare a non aver paura dei pericoli passeggeri. I genitori devono capire che l’ansia adolescenziale è qualcosa con cui dover fare i conti, e confortare i loro teenager (e se stessi) ricordandogli che ben presto cresceranno e ne saranno fuori. (New York Times News Service. Traduzione di Fabio Galimberti)