lunedì 7 luglio 2014

l’Unità 7.7.14
Ai lettori
Il Cdr


Il conto alla rovescia per il nostro giornale è già partito: se entro fine luglio non arriverà un’offerta solida e credibile ai due liquidatori, non resterà che la chiusura per fallimento. Sarebbe un passo scellerato, tanto più nell’anno che celebra il novantesimo della testata. Domani presenteremo alla stampa e agli amici dell’Unità le ragioni dei lavoratori (appuntamento ore 12 in redazione, via Ostiense 131L), che continuano a denunciare e a battersi contro una serie infinita di scelte sbagliate e una gestione irresponsabile della società. Il nostro nemico è il tempo, il nostro incubo è il fallimento, ciò su cui possiamo contare è il sostegno dei lettori e di tante donne e uomini che lavorano, con generosità, alle Feste in corso in tante città italiane. Il loro appoggio ci dà coraggio e l’orgoglio di riaffermare che solo grazie all’impegno di giornalisti e poligrafici il giornale è ancora in edicola; lavoratori che da mesi non ricevono lo stipendio. Chi davvero vuole salvare la testata, non deve più limitarsi alle parole: deve spingere perché arrivi un’offerta seria e credibile che salvi l’azienda. Il tempo per studiare una soluzione c’è stato: ora bisogna agire.

Repubblica 7.7.14
Il tempo dell’Unità
di Alessandra Longo


UN MESE di tempo. E’ quanto resta all’ Unità, secondo i liquidatori. Nulla è ancora cambiato da quando Matteo Renzi definì «vincente» il «brand Unità» al punto di decidere di ripristinare le feste di partito con il nome originale. I soci della Nuova Iniziativa Editoriale, messa in liquidazione a giugno, si sono rivelati «un equipaggio diviso e litigioso», scrive il direttore del giornale, Luca Landò: «E così, dopo qualche mese di navigazione, la nave dell’Unità, che aveva iniziato una rotta di rinnovamento, con l’integrazione fra carta e web, è tornata in porto». I liquidatori si danno un mese di tempo. L’equipaggio è da oltre 2 mesi senza stipendio. Per ora cordate non se ne vedono. C’è una proposta di Matteo Fago, socio di maggioranza. Domani, alle 12, il Cdr, terrà una conferenza stampa in redazione. «Se c’è un momento per aiutare questo giornale - scrive Landò - quel momento è arrivato. Questo è il tempo dell’ Unità ».

Corriere 7.7.14
Fronda pd, affondo di Renzi
«No durissimo» sul Senato elettivo
Ultimatum alla minoranza Pd
Un’iniziativa forte per fermare i ribelli
La scelta del leader. In bilico il vertice con l’M5S: risposte scritte o non ci sarà
di Tommaso Labate


ROMA — La linea del Piave l’ha fissata. E, nella domenica che lo accompagna alla settimana cruciale sull’avvio del cantiere delle riforme, Matteo Renzi ha deciso. Tira avanti come un treno verso la giornata di mercoledì, dove in Aula è in programma l’avvio delle votazioni sulla riforma del Senato. E, soprattutto, immagina un percorso che non prevede alcuna deviazione. Nessuna deviazione di rotta sulla riforma dell’attuale seconda Camera dello Stato, che per il presidente del Consiglio doveva e deve trasformarsi in un organismo senza elezione diretta. Nessuna deviazione sul dialogo con il M5S, visto che l’incontro in programma oggi rimane sub judice , subordinato alle «risposte chiare» che il movimento che fa capo a Beppe Grillo deve offrire al testo di dieci punti inviato l’altro giorno dal gotha del Pd.
Ma è verso i ribelli del Pd, adesso, che pare concentrata la controffensiva politica dell’inquilino di Palazzo Chigi. Sembra un fulmine a ciel sereno. Un fulmine che scuote una domenica pomeriggio che pareva contrassegnata esclusivamente dal giro di valzer coi grillini sull’eventuale appuntamento ch’era in programma per oggi, e che invece rischia di saltare. È un’atmosfera, in fondo, identica sulla carta a quella che si registra dentro Forza Italia. Ma, a differenza di Silvio Berlusconi, sul dossier riforme Renzi ha tanto da vincere ma anche molto da perdere. E, soprattutto, sa di non poter sprecare altro tempo. Da qui la scelta di «tirare dritto». Che ha molto a che fare non solo con la fronda pd del Senato, che comunque era e rimane minoritaria. Ma anche con quella che, dopo l’affondo dell’altro giorno firmato da Pier Luigi Bersani, rischia di prendere piede anche fuori dai confini di Palazzo Madama.
Dal cilindro, insomma, Renzi sta per tirare fuori «un’iniziativa forte». Attacca per sperare di non rimanere scoperto dietro, come gli allenatori che giocano con le tre punte. E lo fa perché i segnali che arrivano anche dal Senato, uniti al dibattito acceso che si sta sviluppando all’interno dei confini di Forza Italia, non lo tranquillizzano neanche un po’. A Palazzo Chigi, infatti, dev’essere arrivata l’eco di quello che potrebbe succedere, alla vigilia del voto di mercoledì, a Palazzo Madama. Senatori dell’opposizione (come Loredana De Petris) insieme a colleghi del Pd (l’area che fa riferimento al tandem Vannino Chiti-Corradino Mineo) e anche di Forza Italia (il blocco Minzolini) non accennano a ritirate. Di più, qualcuno potrebbe tentare in extremis di raccogliere le firme su un testo in cui si chiede a Pietro Grasso di rinviare le prime votazioni. Il presidente del Senato, rispetto alle richieste informali, ha resistito. «C’è stata una deliberazione della conferenza dei capigruppo». E stop. Ma basterà a fermare l’eterogeneo fronte del dissenso, che insiste sull’elezione diretta dei senatori? «Stiamo andando a tutta velocità verso una destinazione che nessuno di noi conosce. Ma vi pare normale che l’Aula sia chiamata a esprimersi su un testo che nessuno ha mai visto?», scandiva ieri pomeriggio Mineo. Sembra tutt’altro che una discesa dalle barricate. Anzi, è l’esatto contrario.
Per questo Renzi ha deciso di battere un colpo. Ed è lo stesso motivo che ha spinto il Pd a rimettere in discussione l’incontro con i 5 Stelle di oggi. Sia chiaro, tra i democratici in tanti hanno apprezzato i toni dell’intervista rilasciata ieri al Corriere da Luigi Di Maio. Ma la linea del Nazareno è che «o il M5S formalizza in un documento la risposta ai dieci punti del Pd o l’incontro rischia di essere inutile». Attaccare per non rimanere scoperto dietro. Così nel gioco con la minoranza interna, così nel giro di valzer coi grillini. «Il Movimento 5 Stelle risponda sui dieci punti. Altrimenti è meglio non prendere tempo», mette a verbale Davide Faraone, componente della segreteria democratica e renziano doc. «Prima di risederci al tavolo col M5S serve chiarezza», gli fa eco l’europarlamentare Simona Bonafè.
Nel Movimento di Grillo, in serata, capiscono che la palla è nuovamente nel loro campo. «Siamo sorpresi, valutiamo». Ci sono la notte e la mattinata di oggi per costruire una replica. Il Pd sogna di aprire una breccia tra l’ala dialogante del M5S (Di Maio) e gli oltranzisti. Le ore passano. Mercoledì si avvicina. Tra mille incognite.

Corriere 7.7.14
L’ira del premier
«Ma conta di più Mineo o un consigliere regionale?»
Ai suoi spiega: si scordino la gestione unitaria del partito
di Marco Galluzzo


Il nuovo Senato non sarà elettivo: per Renzi è un argine intoccabile: «Chi è più rappresentativo, Mineo e Minzolini o un consigliere regionale? Se accettassimo le loro riserve finiremmo con lo snaturare le ragioni della riforma del bicameralismo perfetto».
Le riforme le ha promesse all’Unione europea, le ha promesse agli italiani, ci ha vinto le elezioni, sono in qualche modo il suo tratto costitutivo. E allora, «visto che siamo ormai all’ultima curva», visto che per Palazzo Chigi è stato fatto un ottimo lavoro, che ha forse bisogno di miglioramenti ma non di ultimatum, tantomeno strumentali, Renzi lancia un avvertimento.
Al suo Pd, alla minoranza interna, c’è da dire una cosa molto semplice e allo stesso tempo molto dura, «si dimentichino una gestione unitaria del partito», almeno se proseguirà la fronda sulle riforme. Agli alleati, in primo il Nuovo centrodestra di Alfano, si dimentichino di poter dettare un’agenda diversa da quella finora tracciata. Per il presidente del Consiglio, nel momento forse più difficile del percorso delle riforme istituzionali, vale solo un principio: «Chi pone questioni strumentali, oggi, è destinato a fallire, non ci faremo intimidire da chi cerca dei cambiamenti solo per rimettere tutto in discussione».
Il sospetto di Matteo Renzi è proprio questo: alla vigilia del semestre italiano di presidenza della Ue si moltiplicano le voci di dissenso, dentro il suo partito e dentro quello principale degli alleati, il Nuovo centrodestra. Ma sono soprattutto dinamiche strumentali, a suo giudizio, «se si vuole un accordo, si discuta in modo costruttivo dentro la maggioranza per migliorare i testi delle riforme, viceversa ogni tentativo di cambiamento sarà respinto al mittente».
A giudicare dal numero di dichiarazioni, dalle interviste, c’è materia sufficiente per fare scattare un allarme. In una giornata trascorsa a casa, in famiglia, Renzi detta una linea che non ha sfumature e che non accetta ripiegamenti. Il messaggio alla minoranza interna del suo partito, a coloro che minacciano addirittura un referendum, capitanati da Vannino Chiti — che si definiscono quelli di Fort Alamo — o da Bersani, Renzi dice che vale il principio di maggioranza. Se non ci staranno le conseguenze saranno «durissime», ovvero spaccatura del partito con tanto di ricadute sugli incarichi direttivi e sulle dinamiche gerarchiche dei democratici. Uno dei punti che per Renzi costituisce un argine intoccabile riguarda il nuovo Senato. Il governo e la maggioranza sinora lo hanno immaginato non elettivo, con tutte le conseguenze che ne derivano, a questo punto non si può più tornare indietro. E poco contano i distinguo di Forza Italia, la battaglia di senatori forzisti come Augusto Minzolini o di coloro che nello stesso Pd, oltre che nell’Ncd, minacciano di non votare la riforma se su questo punto non ci saranno cambiamenti. Renzi avverte tutti, dentro e fuori il suo partito: i cambiamenti, almeno sul punto della non elettività, non arriveranno. «Nemmeno sulla cosiddetta elettività di secondo livello», e non solo per il principio, che il presidente del Consiglio considera irrinunciabile, ma anche «perchè sarebbe solo un modo per rimettere altri punti cruciali in discussione e questo sarebbe inaccettabile».
Con una sintesi della sue Renzi riassume in questo modo: «Chi è più rappresentativo, Mineo e Minzolini o un consigliere regionale? In realtà dietro il nodo della elettività si nasconde soltanto il tentativo di tenere in piedi un sistema di potere, di lasciare intatta la forza attuale dei senatori, proprio quello che stiamo cercando di superare con la riforma costituzionale». Se accettassimo queste riserve, o questo genere di argomenti, prosegue Renzi con i suoi, «finiremmo con lo snaturare le ragioni della riforma del bicameralismo perfetto».
Insomma mentre Forza Italia si permette di prenderlo in giro, enfatizzando le difficoltà del percorso riformatore, mentre persino l’Udc pone paletti con il tono ultimativo del diktat, Renzi reagisce rimandando ogni obiezione al mittente. Stasera, all’assemblea del gruppo del Pd, al gruppo dei venti che minacciano di votare contro il nuovo Senato, c’è da scommettere che Renzi non le manderà a dire. Sarà diretto e avrà un solo messaggio: «Ognuno si assuma le sue responsabilità, poi tireremo le somme». Dopodomani i testi arriveranno in Aula e sapremo chi avrà avuto ragione.

Repubblica 7.7.14
Senato, settimana decisiva allarme rosso per i dissidenti
Le fronde Pd e Fi mettono a rischio il sì in aula. Renzi: non cedo su nulla
I “ribelli” insistono sull’elettività
Il premier smentisce trattative. Consulto con Alfano: stringiamo i bulloni
di Francesco Bei


ROMA. Se stasera Matteo Renzi andrà all’assemblea dei senatori del Pd - il che visto il clima non è neppure detto - non offrirà alcuna sponda ai “ribelli” contrari al disegno di legge Boschi- Delrio. La linea è questa, ormai è tracciata: «O di qua o di là». Dopo che in giornata si erano diffuse alcune voci su una possibile apertura del premier sulla questione dell’elettività dei nuovi senatori-consiglieri, è stato Renzi stesso, conversando con i suoi ieri sera, a lasciar filtrare l’assoluta indisponibilità a rimettere in discussione il punto più contestato della riforma costituzionale.
«Sarò durissimo sul no all’elettività », promette infatti il segretario. Il quale intravede, dietro la bandiera di un Senato ancora eletto direttamente e non formato dai consiglieri regionali, «l’estremo tentativo di ripartire da capo forzando la situazione ». Il perché è presto detto. «Se i senatori sono scelti dal popolo allo stesso modo dei deputati - osserva Renzi - come impedire loro di votare anche la fiducia al governo e di esaminare il bilancio?». Con la stessa fonte di legittimazione popolare si avrebbero di nuovo due Camere sullo stesso piano. E la fine del bicameralismo perfetto (identiche funzioni tra i due rami del parlamento) andrebbe a farsi benedire. Quanto alle polemiche sulla mancanza di legittimazione dei futuri componenti di palazzo Madama, il premier nelle sue conversazioni private si lascia sfuggire una battuta velenosa: «Chi è più rappresentativo? Corradino Mineo, Augusto Minzolini oppure un consigliere regionale eletto da decine di migliaia di cittadini?».
La citazione dei due senatori non è casuale. Entrambi infatti figurano tra i più fieri oppositori del suo progetto e stanno organizzando un fronte trasversale Pd-Forza Italia per ostacolarlo in tutti i modi. Si parla ovviamente del passaggio in aula, giacché in commissione ormai i «sabotatori » Mineo e Mauro sono stati fatti fuori. Per questo, in vista dell’assemblea di stasera, un renziano come il senatore Giorgio Tonini spara preventivamente contro chi dovesse appellarsi alla libertà di coscienza. «Lo statuto del Pd - sostiene Tonini - dice che la questione di coscienza può essere sollevata alla presidenza del gruppo su questioni etiche e principi fondamentali della Costituzione ma la modalità di elezione del Senato non è una questione di coscienza». Ergo varrebbe la disciplina di gruppo, comprese le sanzioni per chi non si allinea. Ma le minacce al momento non sortiscono effetto. Sarebbero una ventina i senatori dem pronti alla rivolta, che vanno a sommarsi alla trentina di forzisti ribelli e all’altra decina tra Ncd e ex Scelta civica. Numeri importanti dunque, che potrebbero rendere molto complicato il passaggio in aula. Anche per questo ieri Renzi ha stretto i bulloni della maggioranza, chiedendo ad Alfano quanto fosse seria l’intenzione di Ncd di opporsi al Senato non elettivo. Ricevendone in cambio assicurazioni.
Certo, anche Berlusconi ha richiamato i suoi all’ordine. Ma come dice un vecchio navigatore del palazzo come il leghista Roberto Calderoli, relatore della legge, «ormai quelli se ne fregano ». Anzi la fronda dentro Forza Italia si sta allargando. Esasperati per il mancato rispetto della promessa fatta da Berlusconi giovedì scorso («le questioni che ponete sono serie, ci rivedremo martedì per decidere»), i ribelli sono pronti a muovere in blocco contro la linea ufficiale del partito. Raffaele Fitto resta in silenzio, per non dare alibi a chi vorrebbe usarlo come capro espiatorio per schiacciare la rivolta, ma i senatori pugliesi e campani ormai si muovono come una falange. È in corso una raccolta di firme su una richiesta di riunire il gruppo prima che la riforma Boschi vada in aula. Una ventina di senatori sono pronti a dare battaglia. Filtrano i nomi di Milo e D’Anna, Bonfrisco e Tarquinio, Malan e Zuffada. Oltre ovviamente a Minzolini. La Vandea è solo all’inizio, ha bisogno di tempo per organizzarsi e raccordarsi con l’offensiva parallela in corso nel Pd. Ed è proprio il tempo il fattore che gioca contro Renzi. La discussione in commissione infatti procede a rilento. Dopo l’incontro a palazzo Chigi tra Renzi e Berlusconi, che ha ridefinito nei dettagli il patto del Nazareno, si tratta ora di tradurre in norme l’intesa politica. Per il momento l’esame degli articoli 56 e seguenti del disegno di legge è stato sospeso. E dopo che il governo avrà battuto un colpo i relatori Finocchiaro e Calderoli dovranno riformulare i propri emendamenti. Ci vorrà tempo. «Di sicuro mercoledì - ammette Calderoli - non ce la facciamo ad andare in aula». L’obiettivo di Renzi arrivare almeno a un via libera in commissione entro il Consiglio europeo del 16 luglio rischia di saltare.

Repubblica 7.7.14
Guerini, vicesegretario del Pd
“Nessuno può sfilarsi si cambia soltanto se ci sta Forza Italia”
di Giovanna Casadio


ROMA. «Il tavolo delle riforme va tenuto insieme, nessuno lo faccia saltare, i dissidenti dem non si possono sfilare». Lorenzo Guerini, il vice segretario a cui Renzi ha affidato il Pd, ricorda le scelte fatte insieme. Di scuola dc, Guerini più che alla disciplina di partito fa appello al senso di responsabilità.
Guerini, lei è sicuro che nuovo Senato e l’Italicum siano buone riforme? Non ci sono correzioni da fare? Non c’è, ad esempio, un rischio di “deriva autoritaria” nella possibilità di eleggere il capo dello Stato da parte di chi vince alla Camera?
«L’impianto delle riforme è in linea con quello che il Pd ha detto in questi anni e va nell’interesse del paese. Cioè trasformazione del nostro sistema istituzionale per renderlo più efficiente; superamento del bicameralismo perfetto, che è un obiettivo su cui tutti, tranne qualche reduce, sono d’accordo. Sulla legge elettorale abbiamo sempre detto che ci vuole un modello che funzioni, che definisca in modo chiaro chi vince e chi perde, che garantisca la governabilità e impegni le forze politiche a dichiarare prima del voto con quale coalizione vogliono governare. Dentro questo impianto, possono esserci cambiamenti e si possono costruire convergenze più larghe».
Modifiche in arrivo quindi?
«Miglioramenti se ne faranno, ma a patto che ci sia condivisione. Questo è già avvenuto sull’Italicum alla Camera. Anche sulla riforma del Senato ci sono stati cambiamenti in commissione e ce ne potranno essere. Però il limite deve essere chiaro: l’impianto delle riforme non va stravolto, perché quell’impianto è nell’interesse del paese».
Incontrerete i grillini oggi?
«Pur apprezzando l’apertura di Di Maio, non è che si fa un altro streaming per gareggiare sulle battute. Ai 5Stelle abbiamo chiesto che rispondano all del Pd. Attendiamo ancora le risposte. Un incontro ha senso se è proficuo».
Non teme una “sindrome mani vuote”: in definitiva sulle riforme istituzionali finora c’è solo un gran dibattito?
«Un gran parlare a vuoto è quello fatto dalla classe politica negli ultimi trent’anni con commissioni bicamerali e sessioni parlamentari sulle riforme. Oggi c’è l’occasione storica, resa possibile da Renzi e dal Pd, di passare ai fatti. La segreteria democratica di Matteo ha questo orizzonte e il governo ha questo programma. Entro l’estate porteremo a casa il nuovo Senato in prima lettura e incardineremo il dibattito sull’Italicum a Palazzo Madama».
I dissidenti e gli scettici del partito hanno qualche possibilità di essere ascoltati?
«Innanzitutto non si può condizionare la posizione sul Senato alla discussione sull’Italicum. Adesso parliamo del nuovo Senato su cui, ricordo, il Pd ha discusso e votato in modo chiaro e a grande maggioranza sia nelle direzioni dem che nei gruppi parlamentari. Portiamo a compimento la trasformazione del Senato. Sulle soglie si possono fare modifiche. Approfondiremo sul rapporto tra eletti e elettori, sapendo però che l’Italicum prevede collegi plurinominali molto piccoli che garantiscono quella “conoscibilità” richiesta dalla Consulta. Sull’Italicum ragioneremo e ci confronteremo. Discuteremo. Con un paletto: i cambiamenti vanno apportati con l’accordo delle forze della maggioranza e con Forza Italia, ovvero di tutti i contraenti del patto del Nazareno».
Il senatore Giorgio Tonini dice che queste riforme rappresentano un accordo politico e non va invocata la libertà di coscienza. I “ribelli” dem sono a rischio espulsione?
«Non si tratta di minacciare provvedimenti disciplinari, ma di misurare le convinzioni di ciascuno, invitando al senso di responsabilità e alla consapevolezza che siamo a un punto decisivo. Voglio sperare che nessuno si sfili».
Lei è d’accordo o no sull’idea di “primarie per legge” lanciata da Cuperlo come antidoto al Parlamento delle liste bloccate e dei nominati?
«È una delle ipotesi in campo. Io le primarie le ho fatte, altri no...».
Renzi non rischia di diventare un “uomo solo al comando”, insomma quello che Bersani ha chiamato “Grande Nominatore”?
«Bersani forse non pensava a Renzi con quella definizione... Il Pd è un partito che riunisce i suoi organismi democratici e in questi mesi di segreteria renziana con maggiore frequenza rispetto al passato».

dall’articolo di Maria Zegarelli su l’Unità di oggi:

Su un punto Renzi è durissimo: no alla elettività del Senato. «Chi è più rappresentativo - dice con i suoi leggendo i lanci di agenzia e le dichiarazioni dei malpancisti - Mineo e Minzolini o un consigliere regionale? In realtà dietro la battaglia dell’elettività il tentativo è quello di dare forza ai senatori».
Chiti non intende fare passi indietro: «Credo che nel Pd ci sia una vasta area di persone che dicono che in tutto il mondo c'è una unica soglia di sbarramento, non tre come nell'Italicum, che è giusto portare al 40% la soglia di consensi, ed è giusto inserire un collegio nominale o le preferenze». Né accetta diktat: «Non si obbedisce a ordini di partito, ma alla propria coscienza. Qui si va a incidere sulla Costituzione».

La Stampa 7.7.14
Renzi vuole andare in Europa con lo “scalpo” del nuovo Senato
Al netto dei dissidenti, grazie alla Lega, avrebbe la maggioranza
di Fabio Martini


Dal riposo di Pontassieve Matteo Renzi dice di essere «molto tranquillo», fa capire che sulla vicenda del Senato si è creato un allarmismo eccessivo e prevede che l’«asse Rai» Minzolini-Mineo non sarà decisivo. E in ogni caso, il presidente del Consiglio si prepara nelle prossime ore a replicare ai suoi critici su un punto dirimente: il Senato riformato sarà comunque elettivo e che lo sia di primo o secondo livello, poco cambia. Ma Renzi considera la battaglia dell’elettività come un pretesto: oggi come oggi è più rappresentativo Mineo o un consigliere regionale? 
Certo, nel giro delle prossime 48 ore il presidente del Consiglio sarà in grado di stabilire se gli riuscirà di portare a termine senza patemi una mission non dichiarata: presentarsi alla cena dei 28 capi di Stato di governo europei del 16 luglio con lo «scalpo» del Senato, in altre parole con il primo sì, proprio dei senatori, al superamento della Camera «alta» italiana. 
Capirà se tutto questo è possibile dopo due riunioni. Stasera i senatori frondisti del Pd chiariranno nel corso dell’ennesima assemblea di Gruppo, se il loro dissenso si limiterà agli emendamenti o si trasformerà addirittura in voto contrario al testo finale; domani, al termine di una riunione di Forza Italia, si capirà se Berlusconi sarà riuscito a riassorbire la corposa fronda interna e - in caso negativo o parzialmente negativo - si chiarirà quanti sono i senatori forzisti indisponibili a votare il testo del governo. A quel punto, con il manifestarsi di favorevoli e contrari, saranno chiari i rapporti di forza con i quali affrontare le votazioni in aula, a partire dalla fine di questa settimana e all’inizio della prossima.
Ma anche da questo punto di vista, i conti che fanno a palazzo Chigi risultano tranquillizzanti per il governo, almeno per il momento. Anche mettendo nel conto una significativa dissidenza nel Pd (15-17 senatori) ed una ancora più corposa dentro Forza Italia (per esempio metà dei 59 senatori), con l’apporto sicuro dei 15 leghisti, a palazzo Chigi valutano che il testo del governo potrebbe passare con una margine di circa 15 voti di maggioranza. 
Ma al di là della sua conclusione, la vicenda del Senato si sta trasformando in qualcosa di diverso e più ampio: la verifica dei rapporti di forza interni a Pd e Forza Italia. 
Da questo punto di vista, l’esito della assemblea di stasera dei senatori democratici potrebbe indurre Matteo Renzi a rivedere lo schema unitario col quale intendeva formare la segreteria del Pd, scartando cioè l’ipotesi di una gestione comprendente anche le due minoranze, quella bersaniana e quella civatiana, mentre i «giovani turchi», dopo la presidenza a Matteo Orfini, sono oramai fuori da una logica di opposizione.
Certo, Renzi è irritato perchè è convinto della pretestuosità della dissidenza espressa dai senatori del suo partito e nelle settimane scorse non ha mancato di «criminalizzare» i frondisti, ignorandone gli argomenti, ma ora che la vicenda sta arrivando al dunque, c’è una novità che nelle prossime ore potrebbe ulteriormente guastare i rapporti interni. I dissenzienti infatti hanno fatto capire che non si limiteranno a votare emendamenti, assieme ai senatori di altri partiti e in dissenso dal Pd, ma una volta bocciati quei tentativi di modifica, potrebbero esprimersi «contro» il proprio partito in sede finale. 
Una novità potenzialmente destabilizzante. Sostiene Giorgio Tonini, vicepresidente dei senatori Pd, renziano della prima ora: «I nostri colleghi hanno tutto il diritto di esprimere dissenso rispetto ai punti qualificanti della riforma del Senato, ma se invocheranno la questione di coscienza per votare in modo difforme dal proprio partito sui punti qualificanti della riforma sostenuta dal Pd e dal governo, evocando un disegno anti-democratico, è come se dicessero che tutti gli altri sono partecipi di una pulsione autoritaria. Il che, ovviamente, sarebbe insopportabile. Non per invocare soluzioni disciplinari, ma perché non si può invocare la coscienza su un dissenso fisiologico».

l’Unità 7.7.14
Alfredo D’Attorre
«Non è la minoranza Pd a ostacolare il cambiamento»
«Non possiamo accettare che siano Verdini e Berlusconi a dettare la linea»
«Non si andrà allo scontro: il premier capirà, non può esserci una Camera di eletti e un’altra di nominati
Sorprende lo stop alla segreteria unitaria»
intervista di Maria Zegarelli


Il segretario del Pd Matteo Renzi non intende rallentare la corsa del treno delle riforme e non si lascia spaventare dai tanti fronti che si stanno aprendo su Senato e legge elettorale. Ma non vuole neanche prestare il fianco a chi tenta di giocare più partite allo stesso tavolo. Apprezza e non sottovaluta l’apertura del M5S che alla fine ha risposto, attraverso Luigi Di Maio alle dieci domande inviate dal Pd prima di stabilire il secondo incontro-confronto, ma vuole atti concreti.
E se Di Maio assicura di essere consapevole che quella che hanno davanti è un’occasione storica per cambiare le cose, che si rendono conto che la legislatura dura ancora 4 anni e non si può stare in frigo per un tempo così lungo, aggiungendo che stanno lavorando per arrivare al tavolo con proposte concrete, «vogliamo mettere sul tavolo il concetto di stabilità, che è il presupposto per la governabilità. Stiamo mettendo a punto e porteremo una proposta che modifica il Democratellum e sarà una svolta che non potranno rifiutare», dal Pd la risposta è contenuta in poche righe. Asciutte e crude: senza un documento scritto con una risposta ufficiale non si fa alcun incontro. Troppo altalenante la linea, troppe voci che dicono tutto e il contrario di tutto. Quindi una posizione ufficiale, che sia la posizione del M5s, altrimenti inutile discutere. «Quali sono gli 8 punti su 10? Bisogna fare chiarezza prima di risedersi intorno a tavolo», twitta Simona Bonafé.
Anche il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza, giudica positivo il segnale, ma si chiede: «La posizione del M5s quale è? Quella di Luigi Di Maio che sventola la bandiera della pace e delle riforme, o quella di Beppe Grillo che continua con i toni dello sfotto’ sul suo blog, o ancora è quella della responsabile web Debora Billi, che si augura la morte del presidente della Repubblica? Ci facciano sapere quale è la posizione ufficiale perché non vorremmo che fosse soltanto un gioco delle parti».
Dunque, l’incontro annunciato da Di Maio per oggi pomeriggio alle 15 è ancora tutto da definire. Sicuro invece, quello del gruppo dei senatori previsto per stasera alle 20, incerto quello dei gruppi di Camera e Senato con il presidente del Consiglio, che dovrebbe svolgersi domani o al più tardi mercoledì. Calendario in evoluzione, come il confronto interno al partito, che sulle riformenon marcia unito. Tanto che la stessa segreteria Pd resta congelata dopo le tensioni dei giorni scorsi tra minoranza e maggioranza. Su un punto Renzi è durissimo: no alla elettività del Senato. «Chi è più rappresentativo - dice con i suoi leggendo i lanci di agenzia e le dichiarazioni dei malpancisti - Mineo e Minzolini o un consigliere regionale? In realtà dietro la battaglia dell’elettività il tentativo è quello di dare forza ai senatori».
Area riformista, che a differenza di Vannino Chiti è d’accordo sul Senato non elettivo, punta i paletti sull’Italicum ( dalle soglie di sbarramento al rapporto tra eletti e elettori) e su questo è in sintonia con Sinistra dem di Gianni Cuperlo che dice: «Non c'è un fronte dei guastatori che punta al disastro. Togliamo di mezzo questa immagine e si ascoltino le ragioni di ciascuno». Rifare l’Italia, che fa capo a Matteo Orfini e Andrea Orlando, cerca un punto di caduta. «Guai se il cantiere delle riforme si fermasse con convulsioni interne al Pd - dice il coordinatore Francesco Verducci -. Non avremmo capito nulla del significato del voto del 25 maggio. Dobbiamo dimostrare che siamo capaci di sbloccare questo Paese, a partire dalla riforma della politica». Verducci continua ad auspicare la gestione unitaria del partito, purché il dibattito su questo fronte non si trasformi «in paralisi », ma da Area riformista c’è chi fa notare che fino ad oggi è stata proprio l’area che fa capo a Roberto Speranza ad aver garantito senso di responsabilità in ogni passaggio parlamentare. Chiti non intende fare passi indietro: «Credo che nel Pd ci sia una vasta area di persone che dicono che in tutto il mondo c'è una unica soglia di sbarramento, non tre come nell'Italicum, che è giusto portare al 40% la soglia di consensi, ed è giusto inserire un collegio nominale o le preferenze». Né accetta diktat: «Non si obbedisce a ordini di partito, ma alla propria coscienza. Qui si va a incidere sulla Costituzione». Un deputato renziano fa notare: «È curioso che molti di coloro che chiedono le preferenze siano gli stessi che non hanno fatto le primarie. A chi penso? A Gotor, a Cuperlo, a Mineo e allo stesso Chiti...».
Ma l’ipotesi su cui si sta ragionando per cercare di far quadrare il cerchio è quella di bloccare i capolista nei collegi e prevedere le preferenze per gli altri candidati. E forse su questo Berlusconi potrebbe essere d’accordo.

il Fatto 7.7.14
Lo streaming che non vedremo
Renzi ai 5 Stelle “Impegni scritti o niente vertice”
Aspettando certezze
Il presidente del Consiglio: “Le riforme non sono una mano a poker, servono altre premesse
di Emiliano Liuzzi


L’incontro tra Pd e Movimento 5 stelle vacilla, e sicuramente le premesse di dialogo, da ieri, sono tornate a zero: il Pd chiede a Grillo e i suoi una garanzia scritta. “Con Berlusconi”, dice Matteo Renzi, “c’è un impegno condiviso e riguarda anche Ncd e Scelta civica, un percorso iniziato mesi fa. Al Movimento 5 stelle oggi chiediamo una stretta finale, un impegno scritto. Andare allo streaming con lo slogan lo scopriremo solo vivendo, anche no”. Concetto che ha ribadito, nella giornata di ieri, più volte, anche l’europarlamentare Simona Bonafè: “Quali sono gli 8 punti su 10 sui quali il Movimento 5 stelle è d’accordo? Bisogna fare chiarezza prima di risedersi intorno a tavolo”. Tutto torna a una settimana fa, alla vigilia dell’incontro che si trasformò in una sorta di testa a testa tra Renzi e Luigi Di Maio. Un vertice chiuso con un appuntamento a breve termine che, viste le premesse domenicali, oggi molto difficilmente ci sarà. Nonostante Di Maio, attraverso un’intervista al Corriere della sera ha detto: “Stiamo mettendo a punto e porteremo una proposta che modifica il democratellum e sarà una svolta che non potranno rifiutare, non siamo contrari a prescindere neppure sul premio di maggioranza e sull’estensione dei collegi siamo disposti a rinunciarci, a patto che una norma più stringente escluda – eccetto per i reati d’opinione – i condannati dal Parlamento”. Di Maio è andato anche oltre: “Sono d’accordo con la richiesta del Pd di un controllo preventivo della nuova legge elettorale della Consulta”.
PREMESSE – e promesse – di un accordo, insomma, che il Pd però non rifiuta, ma chiede che sia formalizzato in tutte le sue parti. Senza se e senza ma. Che il vertice salti ci sono buone probabilità, ma sarà Renzi oggi a decidere. In particolare vuole sapere da Di Maio, e non solo, quanto le proposte di M5S siano in sintonia con la battaglia che Vannino Chiti sta portando avanti dall’interno del Pd perché, spiegano i renziani, “o si sceglie un interlocutore o se ne sceglie un altro. Non può essere una partita di poker. Noi sulle riforme abbiamo già spiegato tutto”. I parlamentari del Movimento 5 stelle per adesso aspettano. Di Maio è rimasto con una conferma del vertice da parte di Lorenzo Guerini. “Noi andiamo”, dice il vicepresidente della Camera, “per ora abbiamo soltanto indiscrezioni, Deborah Serracchiani che dice che non si farà, Guerini che invece propende per il sì, ma per noi sono i due vicesegretari di quel partito. Voglio credere che abbiano avuto incomprensioni dovute alla distanza”. Ma, a sentire Renzi, il tavolo rischia di rimanere con un solo interlocutore. L’impressione, all’interno del Movimento, è che il patto tra Renzi e Berlusconi sia molto più forte e concreto di quanto non vogliano far credere. Il Pd risponde che le “riforme sono un punto sul quale il governo ha legato il suo programma e non può permettersi di giocarsele come se fosse una mano di poker”.
Alla finestra resta lui, Berlusconi, debole in questa fase anche all’interno del partito, ma divertito nella partita che non lo coinvolge direttamente. E pronto, quando sarà il momento, a rilanciare. Sul Senato, l’Italicum e altre questioni a lui più vicine, nonostante a recitare la parte del Chiti di centrodestra ci sia lo scafatissimo Augusto Minzolini e un altro gruppo di parlamentari apparentemente ostili alla linea di Cesano Boscone.

Repubblica 7.7.14
Quando i Partiti si ribellano ai Capi
di Ilvo Diamanti


È SIGNIFICATIVO il moltiplicarsi, in questa fase, di conflitti - accesi - dentro a quel che resta dei partiti. Dentro al Pd e (perfino) a Forza Italia, in particolare. Dovunque, la fonte dei contrasti è la stessa.
I. leader contro (oltre) i partiti. E viceversa. I partiti, d’altronde, nel corso degli ultimi vent’anni sono cambiati profondamente. Si sono “personalizzati”. Fino a trasformarsi in “partiti personali” (come li ha definiti Mauro Calise), più che personalizzati. Differenti versioni del “partito del Capo” (per echeggiare un recente saggio di Fabio Bordignon, pubblicato da Maggioli). Dove il Capo non emerge dalla selezione e dalla mobilità interna al partito. Ma ne è l’origine e il fine. Fino alla fine. Tanto che, negli ultimi anni, abbiamo assistito all’ascesa e al declino - rapido - di formazioni, nuove ma anche vecchie. In seguito al destino del Capo. L’Idv, scomparsa insieme a Di Pietro. Scelta Civica, insieme a Monti. L’Udc insieme a Casini. Fli insieme a Fini. Mentre Rivoluzione Civile si è dissolta con Ingroia. E Sel è in bilico. Accanto a Vendola. Solo la Lega resiste, anche dopo Bossi, molto ridimensionata. Ma si tratta di un “derivato” dei partiti di massa.
I casi del Pd e di Fi, attraversati da divisioni e polemiche interne, sono, però, esemplari. Perché raffigurano due versioni simmetriche e opposte del Partito del Capo. Fi è un partito aziendale, “costruito” intorno a Fininvest e, soprattutto, a Publitalia - la società di marketing e pubblicità. Impensabile distinguere il Partito dal suo Capo. Proprietario e imprenditore. Ma anche marchio originale e originario. Così, la decadenza politica del Capo, seguita alla fine dell’ultimo goteo Berlusconi, nel novembre 2011, ha segnato il fallimento della “costituzione di un grande partito liberal- conservatore” (come chiosa Piero Ignazi, nel recente saggio sulla parabola del berlusconismo Vent’anni dopo , edito dal Mulino). Ma ha prodotto, al tempo stesso, il rapido declino elettorale, avvenuto alle elezioni politiche del 2013 e proseguito alle recenti europee. Così, sorprende la reazione di alcuni gruppi ed esponenti di Forza Italia. Indisponibili ad accettare i patti negoziati dal loro Capo con Renzi, in tema di riforme istituzionali ed elettorali. Sorprende: perché Fi “dipende” da Berlusconi. Eppure, al tempo stesso, è automatico che gli eletti e i dirigenti - a livello locale e in Parlamento - si ribellino alla prospettiva di venire assimilati dentro al Pdr: il Partito di Renzi. D’altronde, anche se “incorporata” nel Capo, Fi, nel corso del tempo, ha assunto una propria struttura stabile e autonoma, presente e diffusa nelle istituzioni e negli organismi pubblici. Da cui dipende il presente e il futuro professionale, oltre che politico, di moltissime persone. Difficile chiedere loro di suicidarsi senza, almeno, tentare di resistere.
Anche il Pd, peraltro, è “in rivolta” contro il Capo. Come titolava Repubblica sabato scorso. Ma si tratta di una storia molto diversa. Perfino opposta. Perché il Pd è l’erede dei partiti di massa della Prima Repubblica, Pci e Dc. Emerso dall’esperienza dei soggetti politici post-comunisti e post- democristiani. Alleati nell’Ulivo e riuniti, infine, nel Partito Democratico. Un soggetto politico, per que- sto, dotato di radici ideologiche e organizzative profonde. Impiantate sul territorio e nella società. Anche per questo, estraneo a modelli leaderistici. Attraversato, semmai, per tradizione, da correnti e gruppi, a livello nazionale e locale. Così, nella Seconda Repubblica, se il Centrodestra si è identificato in un solo Capo, il Centrosinistra non ne ha avuto nessuno, di in-discutibile. Semmai, molti, in continuo conflitto reciproco. Nel Pd, per questo, ogni leader che emergeva è stato, puntualmente, delegittimato e allontanato - più o meno in fretta. Così è avvenuto a Prodi, D’Alema, Amato, Rutelli, Veltroni. Per ultimo, a Bersani. Anche per questo non è riuscito a reggere la concorrenza di Berlusconi. E ha sofferto quella di Grillo. Che ha “personalizzato” una rete ampia di esperienze di segno diverso. Offrendo rappresentanza alla crescente ondata di delusione (anti) politica.
Il Pd. È cambiato profondamente dopo l’avvento di Renzi. Il quale ha conquistato il più “impersonale” e “multi-personale” dei partiti. Il Pd, appunto. Renzi: lo ha espugnato attraverso un (lungo) rito di massa. Durato oltre un anno. Le (doppie) primarie. Divenuto segretario, Renzi ha “conquistato”, in fretta, la presidenza del Consiglio. Ha affrontato, quindi, la campagna elettorale per le europee. Sempre di corsa. Senza quasi fermarsi. Annunciando, in rapida sequenza, le cose da fare, le riforme da realizzare. Con tale e tanta velocità da rendere difficile, agli elettori e agli stessi attori politici, verificare se e cosa davvero venisse fatto. Così, Matverno Renzi ha realizzato il post-Pd. O meglio: il Pdr. Il Partito di Renzi. Un modello “presidenziale”. Dove lui comunica, direttamente, con i suoi elettori. Che superano i confini del Pd. Alle recenti elezioni, infatti, nei comuni dove si è votato anche per il sindaco, il Pd, alle europee, ha ottenuto14 punti in più che alle comunali. E ha sfondato i confini tradizionali della zona rossa, dove era rimasto quasi imprigionato per oltre 60 anni.
Ma se perfino nel partito personale per definizione, Fi, le logiche di partito sono entrate in contrasto con quelle del leader, ciò appare ineluttabile anche per il Pd. Che mantiene ancora tradizioni ideologiche e legami sociali profondi. Ha gruppi dirigenti e parlamentari eletti “prima” dell’avvento di Renzi. Così il confronto fra il Partito e il Capo diventa inevitabile. Fra Renzi e il Pd. Fra il Pdr e il Pd. Siamo alla resa dei conti. In particolare perché le questioni in gioco - legge elettorale e abolizione del Senato elettivo - mettono in discussione il principio di legittimazione e l’esistenza stessa dell’attuale ceto politico.
Eppure converrebbe a entrambe le parti una soluzione condivisa. Perché il Pd senza il Pdr, senza Renzi, rischia di ritrovarsi marginale. Ma Renzi (e il Pdr), senza “conquistare” e modellare il Pd, rischia di rallentare la propria marcia. E Renzi, a velocità “moderata”, non riesco proprio a immaginarlo. Potrebbe fermarsi presto.
Forse mi sbaglierò, ma nel contrasto tra Fi e Berlusconi, tra il Pd e Renzi, i margini di mediazione sono sottili. Quasi invisibili. Fra il Partito e il Capo: ne resterà soltanto uno

Corriere 7.7.14
Il cuoco miope nella cucina delle riforme
di Michele Ainis


La legge elettorale? A bagnomaria, cucinata a fuoco lento. E il Senato? Al forno,  ma attenti alle ustioni. Intanto, mentre le pietanze cuociono,  c’è già chi accusa un mal di pancia. Colpa degli ingredienti,  anche se nessuno  li ha ancora assaggiati. Oppure colpa delle pance. D’altronde  non ce n’è una uguale all’altra: per saziarle, servirebbero mille menu per i nostri mille parlamentari.Le soglie di sbarramento, per esempio: Bersani le trova troppo basse, Berlusconi troppo alte. O le immunità: sì da Alfano, sì da Forza Italia in coro, no da Grillo e Vendola, Pd non pervenuto. L’elezione diretta del Senato: a favore la minoranza della maggioranza (da Chiti a Minzolini), però stavolta la maggioranza rischia d’andare in minoranza. E le preferenze? Bersani le vuole, Berlusconi le disvuole, Renzi forse le rivuole, Grillo preferisce le spreferenze (un voto per promuovere, un voto per bocciare).
Troppi cuochi, verrebbe da obiettare. E troppa carne al fuoco. Ma per ottenere un piatto commestibile, bisogna anzitutto scegliere un’unica ricetta. È questo il nostro problema culinario: pencoliamo dalla nouvelle cuisine (il doppio turno in salsa francese) ai crauti (un Senato che scimmiotta il Bundesrat tedesco). Senza un’idea precisa, senza un progetto consapevole. Eppure in questi casi gli ingredienti sono solo due: rappresentanza e governabilità. Si tratta perciò di miscelarli per cavarne un buon sapore. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Specie in Italia, dove manca persino la bilancia. Come d’altronde testimonia la nostra stessa storia.
Durante la Prima Repubblica c’era una legge elettorale superproporzionale. Risultato: il massimo di rappresentatività del Parlamento (aperto a tutti, dai radicali ai neofascisti), il minimo di stabilità (i governi duravano in media 10 mesi). Ma anche il massimo di garanzie costituzionali, nella scelta dei custodi così come delle regole; difatti in 45 anni furono appena 6 le revisioni della Carta, peraltro su aspetti marginali. Dopo di che l’avvento del maggioritario battezza la Seconda Repubblica, e qui i pesi s’invertono. Diventa fin troppo facile emendare la Costituzione (10 interventi in vent’anni, senza contare la maxiriforma del 2005, bocciata poi da un referendum). I presidenti delle Camere perdono il loro abito neutrale, perché la maggioranza se li accaparra entrambi. Fino alla tragedia nazionale andata in scena l’anno scorso, durante i 5 voti nulli per eleggere il capo dello Stato. Perché ormai ci eravamo abituati a scelte rapide, sonore, muscolari. Eppure Scalfaro e Pertini vennero eletti al 16º scrutinio, Saragat al 21º, Leone dopo 23 votazioni.
Morale della favola: urge trovare un equilibrio fra rappresentanza e governabilità. Per esempio: il combinato disposto fra l’Italicum e il nuovo Senato permette al vincitore di mettere il cappello sul Quirinale. Non va bene, ma basta diminuire i deputati. E magari aumentare i collegi, per consentire all’elettore di conoscere il faccione dell’eletto. Abbassare le soglie di sbarramento, perché l’8% è una montagna. Innalzare il 37% con cui scatta la tombola elettorale: siccome un italiano su 2 marina ormai le urne, quella maggioranza è fin troppo presunta, e dunque presuntuosa. Ecco, la presunzione. È il nemico più temibile, perché nessuno può cucinare le riforme in solitudine. Mentre i 5 Stelle aprono al Pd, mentre Berlusconi offre collaborazione, sarebbe un delitto se il governo vedesse solo il proprio ombelico. Ma dopotutto, basta regalare al cuoco un paio d’occhiali.

Corriere 7.7.14
Leggi corrotte, non solo gli uomini
Giavazzi e Barbieri: norme scritte per tornaconto privato
di Gian Antonio Stella


I veneziani dei tempi d’oro non ci avrebbero pensato due volte: ogni colpevole sarebbe stato portato dopo la condanna a San Marco, legato mani e piedi a quattro cavalli che con un colpo di frusta sarebbero schizzati via in direzioni opposte. Era implacabile, la Serenissima, sul furto e lo spreco di soldi pubblici. Più ancora era rigida nella difesa del delicato equilibrio della laguna.
Figuratevi dunque la collera che sarebbe esplosa alla scoperta che il Mose, senza avere ancora dato prova se funzionerà o meno, è già costato, a prezzi aggiornati grazie a preziose ricostruzioni storiche, trenta volte più della grandiosa e costosissima deviazione del Piave compiuta mezzo millennio fa dai nostri bisnonni con mezzi tecnici immensamente inferiori a quelli di oggi. Per l’esattezza sono stati sottratti alle tasche dei cittadini 6,2 miliardi di euro: più del triplo di quanto dichiarato inizialmente. Quasi il doppio di quanto costò, in moneta attuale, l’Autostrada del Sole.
È un cazzotto allo stomaco, il saggio Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia , scritto da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, in libreria da domani per Rizzoli. Ma se volete capire «come mai» annaspiamo nella corruzione, nell’inefficienza e nella paralisi delle opere pubbliche (e come sia obbligatorio cambiare tutto), dovete assolutamente leggerlo. Perché la storia scellerata del Mose, intorno alla quale ruota il libro, è un impasto di tutto ciò che ci affligge: la cattiva politica, la cattiva imprenditoria, le cattive regole.
Ci sono infatti, per gli autori, due tipi di corruzione. Il primo, che vede scattare piuttosto spesso le manette, è quello classico: la tangente. Ma è il secondo tipo a essere più pericoloso e ambiguo «perché nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state corrotte, cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non possiede armi. Nel momento in cui la regola corrotta viene applicata nessuno commette alcun reato; i reati semmai sono stati compiuti quando il Parlamento ha approvato le leggi, ma sono più difficili da dimostrare e sanzionare».
«Chi ha pagato chi ed esattamente per cosa?» Mica facile rispondere. Certo è che tutta la vicenda delle paratie mobili trabocca di deroghe decise per scassinare le regole. La scelta iniziale di un concessionario unico per prendere in contropiede Bruxelles, che avrebbe imposto gare d’appalto europee. La nascita di un cartello che si accaparra il monopolio dei lavori e dà soldi a tutti e «tratta con politici e amministrazioni come fosse un’unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l’imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori». Le disinvolte scorciatoie per scansare ogni intralcio normativo in nome dell’urgenza («Le opere per salvare Venezia verranno ultimate entro il 1995», giurava Craxi nel 1986), col risultato che chi oggi chiede se «una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi-benefici», si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che "ormai i lavori sono quasi finiti"».
Erano anni e anni, accusano Barbieri e Giavazzi, che l’andazzo era sotto gli occhi di tutti. Lo dicono le parole dei magistrati Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani, che nella stagione di Mani pulite fecero arrestare l’allora presidente del Veneto Gianfranco Cremonese e la spalla di Gianni De Michelis, Giorgio Casadei, scrivendo nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Carlo Bernini di «un accordo spartitorio tra i partiti che investe il Consorzio Venezia Nuova».
Lo ripete un micidiale rapporto degli ispettori ministeriali contro l’allora Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, rimosso nel 2001 per «un uso improprio dei poteri d’urgenza» e un mucchio di irregolarità, comprese «234 giornate lavorative di assenza su 381», e ciò nonostante rimesso al suo posto anni dopo dal berlusconiano Altero Matteoli. Lo conferma un dossier giudiziario secondo cui «l’80% dell’attività del Magistrato era in realtà istruito, redatto e preparato da personale del Consorzio Venezia Nuova». Lo ribadisce una relazione della Corte dei conti sui collaudi delle opere: «Gli emolumenti ai collaudatori sono integralmente posti a carico del concessionario».
Una schifezza, denunciano Barbieri e Giavazzi: il collaudatore opera per conto e nell’interesse dello Stato e «dovrebbe essere la naturale controparte del concessionario, cioè del Consorzio, ed è un evidente conflitto d’interessi se le parcelle sono saldate da chi deve essere controllato». Parcelle enormi, tra l’altro: 23.868.640 euro nel solo quinquennio 2004-2008. Con tariffe, come rivelò Sergio Rizzo, «maggiorate del 60% per rimborso forfettario delle spese». E distribuite persino a potenti dirigenti ministeriali, che poi avevano voce in capitolo sui finanziamenti al Consorzio.
L’impasto di interessi appiccicosi era tale, ricorda il libro, che a un certo punto Carlo Azeglio Ciampi decise con un decreto di dire basta al concessionario unico. Ma ancora quell’impasto di interessi fece sì che l’anno dopo il decreto fosse svuotato da Lamberto Dini, con due righe che blindavano gli affari del Consorzio: «Restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti».
Per non dire come fu presa per i fondelli Bruxelles, che, furente per le violazioni alla concorrenza sulle gare d’appalto comunitarie, abboccò all’impegno del governo di destra di un cambio di rotta e dell’assegnazione con gare europee del 53% dei lavori «per circa 3.160 milioni di euro». Una bufala: «Il Consorzio ha infatti messo a gara forniture per una cifra inferiore ai 200 milioni di euro, il 5% circa».
Ma quanto è costata agli italiani questa miliardaria poltiglia di interessi, dove le mazzette sono solo la parte più visibile? Il libro risponde che, sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto da Venezia Nuova, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro. «E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa». Un bottino spropositato. Che ci ricorda l’urgenza di cambiare finalmente, prima ancora che gli uomini, le regole. Ne va del destino di Venezia. Dell’Expo. Delle grandi opere. Del Paese stesso: «Il rischio è che l’opinione pubblica, sconcertata dai casi di eclatanti violazioni della legge, scordi che il problema principale è la corruzione delle leggi».

Corriere Economia 7.7.14
La Cgil scende in campo contro il Fiscal compact


A portata di mano la raccolta delle 500mila firme per chiedere quattro referendum La Cgil si mobilità contro il Fiscal compact. E a questo punto dovrebbe essere più semplice raccogliere le 500mila firme necessarie per chiedere i referendum per abrogare parti della legge 243 del 2012 che attua in Italia l’accordo europeo che impone il pareggio di bilancio. La campagna è promossa da un comitato trasversale di professori universitari, economisti, esperti di diverso orientamento politico. Sui quattro quesiti proposti si dovrà pronunciare in autunno prima la Cassazione sulla regolarità delle firme raccolte e poi la Corte costituzionale sull’ammissibilità nel merito. Nel comitato promotore la Cgil è presente con il segretario confederale Danilo Barbi e con Laura Pennacchi , responsabile Forum economia della confederazione, oltre che ex sottosegretario al Tesoro quando era ministro Ciampi. Ma tra i promotori si trovano anche personalità del centrodestra come Mario Baldassarri , pure lui ex sottosegretario all’Economia ma per Alleanza nazionale sotto il governo Berlusconi, grand commis come il consigliere di Stato Paolo De Ioanna , sondaggisti come Nicola Piepoli .
«La Cgil è non Fiscal compact — dice Barbi — . La semplice austerità flessibile non va bene, ci vuole una vera politica espansiva e un nuovo modello di sviluppo». Fuori dalla Cgil ha aderito un altro sindacalista di spicco, Paolo Pirani , segretario confederale della Uil: «Occorre rompere con l’ortodossia deflazionistica dell’austerità e puntare allo sviluppo contrastando l’ingiustizia sociale».

Repubblica 7.7.14
La tentazione di Vendola: emigrare in Canada “Da Sel troppe delusioni”
Il leader amareggiato dalla scissione: “Mollo tutto”
L’idea di seguire il compagno in un Paese che ammira
di Francesco Bei


ROMA. Lo sfogo - ché di sfogo si tratta - risalirebbe a qualche settimana fa, all’indomani delle Europee e delle polemiche laceranti dentro Sinistra ecologia e libertà. Parole dette con il cuore pesante e gli occhi velati di tristezza per lo spettacolo di un partito che implode e vede lo sgocciolio all’esterno di uno, due, tre, quattro, dieci, dodici deputati. Il capogruppo persino! E dunque ecco riaffacciarsi nel leader la tentazione dell’abbandono, la suggestione di una via di fuga da una politica che non riconosce più. «Mi viene da mollare tutto e andarmene in Canada quando avrò concluso il mio mandato da governatore».
I suoi collaboratori, l’onnipresente Paolo Fedeli, assicurano che si tratta di una bufala, magari di una voce messa in giro ad arte dagli avversari. Eppure, mettendo l’orecchio a terra, nella prateria di Sel si sente alzarsi una domanda tra i dirigenti e militanti rimasti fedeli: «Ma Nichi che fa?». A chi invece si chiedesse perché mai il Canada, la risposta è presto detta. Il compagno di vita di Vendola, Eddy Testa, è canadese. Ha studiato alla Concordia University di Montreal e alla Ottawa University. Con il suo paese natale mantiene ovviamente rap- porti, pur abitando insieme a Nichi a Terlizzi da una decina d’anni. Vendola poi ama il Canada. Al Corriere canadese, cinque anni fa, confessò tutta la sua ammirazione: «Il Canada è una realtà che ha un mix straordinariamente avanzato di diritti sociali, individuali e umani. La destra canadese in Italia sarebbe considerata non dico di estrema sinistra, ma quasi». Un Eldorado dunque, verso il quale Vendola già guardava con struggimento nella terribile estate del 2012, quando si scoprì indagato per abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario all’ospedale San Paolo di Bari. Il processo lo vide assolto con formula piena, ma «la botta » era stata forte. E ancora adesso pesa su Vendola l’inchiesta che lo vede imputato di concussione aggravata nell’ambito dell’inchiesta sul disastro ambientale causato dall’Ilva. Nichi vorrebbe essere giudicato subito, liberarsi da un fardello che ne appesantisce la leadership, ma non è tanto semplice. I Riva infatti hanno chiesto lo spostamento del processo da Taranto e la Cassazione non si esprimerà prima di settembre-ottobre. Fino ad allora Vendola resterà sulla griglia.
Intanto la crisi di Sel non ha ancora trovato un punto di arrivo. Il capogruppo in sostituzione di Gennaro Migliore, che ha dato vita a Led, non è ancora stato trovato. Si parla di Arturo Scotto, un pontiere tra vendoliani e dissidenti (almeno quelli rimasti). Di questo e di come far uscire il partito dall’angolo si discuterà il 12 luglio nell’assemblea nazionale. Sperando che quello sul Canada non sia altro che uno sfogo. E finisca come quello di Veltroni sull’Africa.

l’Unità 7.7.14
Lettera a Padoan
Ue, non si gioca con le parole
di Stefano Fassina


Caro Pier Carlo, così non va. La tua intervista al Corriere della Sera è preoccupante. Confermi che, nonostante l'autorevolezza e la determinazione del Governo italiano, i rapporti di forza politici e economici dominanti in Europa, espressi dalla granitica ideologia liberista alla quale parte della sinistra rimane culturalmente subalterna, bloccano la correzione dei difetti sistemici dell'euro-zona.
E rendono impraticabile la virata necessaria per lo sviluppo sostenibile, il lavoro e la riduzione del debito pubblico. Ma non abbiamo più tempo per interventi al margine. La discussione sulla flessibilità nell’applicazione delle regole di finanza pubblica è surreale. Siamo passati dall’«austerità espansiva», un tempo celebrata da Alesina e Giavazzi e tanti altri ora in imbarazzato ripiegamento keynesiano, all'austerità «growth friendly», amica della crescita, suggerita della Commissione uscente, all’«austerità flessibile» indicata dal recente vertice di Bruxelles. Si gioca con le parole per nascondere i dati di realtà e le prospettive di fronte a noi. La realtà è la seguente: dopo quasi 7 anni di cure raccomandate dalla Commissione europea al seguito di alcuni paesi forti, la Germania in primis, e di potenti interessi economici, il Pil dell’Unione monetaria è ancora 3 punti percentuali al di sotto del 2007, vi sono 7 milioni di disoccupati in più e, dato sempre omesso dai racconti ufficiali, il debito pubblico medio è salito dal 65 al 95%.
Le prospettive, data l’avvenuta distruzione di Pil potenziale e l’agenda da te ricordata, sono, come rivelano le misure non convenzionali decise dalla Bce, di stagnazione, elevata disoccupazione, sostanziale deflazione e di ristrutturazione dei debiti pubblici di tanti paesi tra cui l’Italia, curati direttamente o indirettamente dalla Troika. Inevitabilmente, di dis-integrazione della moneta unica. Il selfie proposto a Strasburgo dal Presidente Renzi ci farebbe vedere un volto di disperazione, altro che di noia. In sintesi, lungo la rotta imposta da Berlino e ribadita a Bruxelles e Strasburgo, il Titanic Europa va a sbattere all’iceberg. La flessibilità, richiesta o temuta come rivoluzionaria, è sostanzialmente irrilevante: potrebbe rallentare la velocità di navigazione, ma l’impatto sarebbe solo rinviato. È necessario, invece, affrontare i nodi sistemici dell’euro-zona, insieme alle riforme interne da portare avanti con determinazione. Cosa sarebbe urgente fare? 1. Ampliare la prevista iniezione di liquidità da parte della Bce per portare rapidamente l’inflazione oltre il 2%; 2. Finanziare attraverso euro-project bonds programmi di investimento, innanzitutto in piccole opere; 3. Aumentare le retribuzioni sempre dietro alla produttività nei paesi in avanzo commerciale eccessivo, come la Germania, per sostenere la loro domanda interna; 4. Costruire un’efficace banking union, dopo l’accordo al ribasso della primavera scorsa, per liberare le principali banche europee dalla zavorra rimasta immutata dei crediti inesigibili; 5. Introdurre una soluzione cooperativa nell’euro-zona per gestire i debiti pubblici oramai insostenibili; 6. Arrestare l’opaco negoziato per un’area di "libero" scambio transatlantica (Ttip) e aprire la discussione ai parlamenti nazionali.
È un grave errore tentare di minimizzare i problemi a causa della difficoltà di costruire le condizioni politiche per le soluzioni. I problemi dell’euro-zona e dell’Unione europea vanno riconosciuti e affrontati con le soluzioni possibili sul piano politico. Altrimenti, i problemi esplodono e la politica rimane a guardare e viene, inevitabilmente, spazzata via dalla rabbia. Dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Lungo la rotta mercantilista germano-centrica, le riforme interne da fare con determinazione non evitano all’Italia la rottura del precario equilibrio di oggi. Tuttavia, la rottura può essere caotica oppure possiamo provare a governarla per ridurre i danni e costruire le basi per una ricollocazione della nostra economia. Purtroppo, è ora di un Piano B per l’Italia da mettere sui tavoli di Berlino, Bruxelles e Francoforte per affrontare debito pubblico e regime monetario. Continuare con la favola della primavera in arrivo, grazie alle mitiche riforme strutturali e qualche decimale in più di deficit per un paio di anni, è l’umiliazione finale della politica, oltre che la condanna per il lavoro e la democrazia. Saremo annoverati tra i «gufi». Pazienza. È già successo durante il Governo Monti di andare controcorrente. Il nostro guaio vero sono gli innumerevoli struzzi che insistono a tenere la testa sotto la sabbia.
Un abbraccio
Ps: lasciamo stare la privatizzazione di ulteriori quote di aziende pubbliche. ENI, Enel, Finmeccanica, Poste, Fs sono tra le poche grandi aziende di qualità rimaste in Italia. Privatizzarle indebolirebbe le nostre potenzialità industriali, priverebbe il bilancio dello Stato di dividendi preziosi e, soprattutto, non avrebbe alcun effetto sostanziale sulla dinamica del nostro debito.

l’Unità 7.7.14
Migranti, la strada buona dell’Italia
Coloro che sfidano la morte e arrivano da noi non sono clandestini ma persone che hanno bisogno di protezione
di Livia Turco


CON L'OPERAZIONE MARE NOSTRUM E LA PREDISPOSIZIONE DEL PIANO DI ACCOGLIENZA CHE STA FACENDO il governo, l'Italia finalmente sta gestendo il dramma degli arrivi e dei morti in mare con la consapevolezza che non siamo di fronte ad una emergenza ma ad un fenomeno di lungo periodo, strutturale e chiama per nome coloro che sfidando la morte arrivano da noi: non sono clandestini ma persone che fuggono dalle guerre, dai conflitti, dalle carestie e dunque bisognosi di protezione internazionale.
Questo flusso è destinato a durare e l'Italia al pari degli altri Paesi europei, deve essere attrezzata a gestire politiche di accoglienza e di integrazione. Come è stato scritto da più parti, deve fare i compiti a casa per avere l'autorevolezza di imporre una svolta europea. Che è ormai improcrastinabile per l'Europa stessa e non solo per l'Italia. Il ritardo che dobbiamo recuperare è il frutto di quelle dissennate politiche del centrodestra basate sul facile slogan: no all'immigrazione, sono tutti clandestini. Tali politiche e tale retorica, che ha coinvolto il sentimento profondo degli italiani, hanno paralizzato il nostro Paese dentro la spirale: spiazzati dagli eventi e costretti a rincorrere l'emergenza, costretti a stanziare risorse ingenti per l'accoglienza. Facendo un grave danno al nostro Paese che si sentiva in balia di presunte invasioni e si è trovato ,anche a causa di quella retorica sbagliata a gestire da solo i problemi.
Aver confuso immigrazione economica e richiedenti asilo ha creato danni enormi. Ora finalmente ci si è incamminati sulla buona strada. Bisogna proseguire e gestire tutta la politica dell'immigrazione con un ottica di lungo periodo. Bisogna rispondere ad interrogativi cruciali e molto concreti: come cambierà l'immigrazione nei prossimi anni sul piano internazionale? Quale sarà nei prossimi anni la dinamica dei flussi migratori? Quale rapporto tra l'immigrazione, la crisi economica attuale ed il rilancio della crescita e dello sviluppo in Europa? Come costruire il motto europeo della «Unità nella diversità»? Cosa significa questo per l'Italia? Quale società, quale nazione dobbiamo costruire nel nuovo millennio? Bisogna partire dalla consapevolezza che l'immigrazione non è un segmento della società ma un «fattore», un «agente» del cambiamento. È un «determinante» della crescita, dello sviluppo e della coesione sociale. L'Europa per uscire dalla crisi ha bisogno di investire sul capitale umano, sulla promozione della mobilità delle persone, sulla costruzione di legami, contatti, scambi economici, sociali e culturali con i Paesi del Mediterraneo e dell'Europa Orientale.
La promozione della mobilità delle persone e la valorizzazione del capitale umano dovrebbe essere la cifra peculiare del suo modello di sviluppo. Per questo e non solo per la sua composizione demografica avrà bisogno dell'immigrazione. Pertanto l'innovazione da costruire dal punto di vista del suo modello sociale è come rendere praticabile la mobilità delle persone. Bisogna inventare politiche di welfare che garantiscano la portabilità dei diritti, a partire da quelli pensionistici, proteggano dalla caduta nella povertà. Bisogna facilitare la libera circolazione dei lavoratori immigrati lungoresidenti nello spazio europeo. Definire quote di ingresso a livello europeo, promuovere parternariati per la mobilità delle persone. Bisogna definire politiche di ingresso per lavoro mirate e differenziate, come l'ingresso per ricerca di lavoro, sponsor collettivi includendo anche le università' per incentivare l'ingresso di studenti stranieri.
Politiche attive del lavoro che puntino alla qualificazione e valorizzazione anche dei lavori svolti dai migranti, come il lavoro di cura. Vi è poi il tema cruciale «quale convivenza, quale nazione, quale società europea vogliamo essere ». Credo sia necessario che su questo si apra finalmente un dibattito pubblico.
Non basta accontentarsi della situazione di fatto in cui ci troviamo che vede prevalere un modello di integrazione basato sullo stare gli uni accanto agli altri senza distrurbarsi ma senza fare la fatica del conoscersi e riconoscersi. Bisogna definire un orizzonte comune e condiviso di valori, avere obbiettivi comuni di crescita e sviluppo del nostro Paese, bisogna costruire relazioni positive tra italiani ed immigrati.
Insomma, bisogna costruire il motto europeo dell'unità nella diversità. Torna allora cruciale la questione della partecipazione politica dei migranti. Per sollecitare e rendere concreto l 'esercizio della responsabilità verso il Paese che li ospita. Cittadinanza per i figli dei migranti nati in Italia, diritto di voto e partecipazione politica: sono battaglie che il Pd deve rilanciare e condurre con determinazione.

l’Unità 7.7.14
I tagli alla scuola e gli alunni con disabilità
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Chi paga più caro di tutti le difficoltà della scuola sono gli alunni con disabilità: per la riduzione delle ore di sostegno, per la mancanza di continuità degli insegnanti di sostegno e per la difficoltà ad ottenere dalle Asl le visite neuropsichiatriche e gli interventi di logopedia. LORENZO PICUNIO
La legge che ha reso possibile la formulazione di programmi individualizzati per gli allievi con problemi e difficoltà speciali di apprendimento (dalla dislessia alla discalculia fino ai disturbi dell’attenzione) è stata approvata in Italia solo nel 2010. Forte si è fatta da allora la pressione sulle strutture sanitarie per la certificazioni di tali disabilità. Dando luogo a due problemi. Il numero delle strutture abilitate a certificare prima di tutto la disabilità perché la scuola non accetta le certificazioni emesse da professionisti privati se le liste d’attesa si sono allungate al punto da rendere non esigibile, per molti studenti, il diritto stabilito dalla legge. L’orientamento culturale, medico e neurologico, in secondo luogo, dei servizi molto poco attenti, in genere, alle componenti emozionali capaci di determinare dei problemi di apprendimento solo «apparenti». Sta nella debolezza delle competenze relazionali e psicoterapeutiche di tanti neuropsicologi e neuropsichiatri infantili, infatti, la ragione per cui restano non curati i tanti disturbi dell’apprendimento su cui sarebbe possibile e importante intervenire. Terapeuticamente. Liberando il bambino da una difficoltà che ha origine esterna a lui e che viene spesso invece aggravata se la si considera come il prodotto di un suo cattivo funzionamento.

l’Unità 7.7.14
Spara alla ex e al figlio di 2 anni
di Felice Diotallevi


Perugia. Avevano indossato il costume ed erano appena saliti in macchina per trascorrere qualche ora in piscina quando sono stati raggiunti da quattro colpi di pistola. Ilaria, una ragazza di 24 anni di origini partenopee, e suo figlio di 2 sono stati colpiti alla testa, mentre l'amica di lei, stesso nome, Ilaria, di 34 anni, è stata colpita al volto. A sparare Riccardo Bazzurri, un 32enne carrozziere incensurato, l'ex della 24enne e padre del bimbo, che poi si è sparato alla testa. La tragedia è avvenuta quando erano circa le 10 in via del Mandorlo, a Ponte Valleceppi, periferia nord di Perugia.
La madre del piccolo sta lottando tra la vita e la morte. La donna ha subito «gravi danni di natura cerebrale» ed è stata subito operata. I medici hanno effettuato una sorta di toilettatura per l’estrazione di frammenti ossei, conseguenza del gravissimo trauma provocato dal proiettile, entrato dalla parte destra del cranio. Tecnicamente l’intervento chirurgico è riuscito, hanno fatto sapere dall'ospedale Santa Maria della Misericordia, «ma non è assolutamente possibile fare previsioni sul decorso clinico».
Ancora peggiori, se possibile, le condizioni del figlio. Trasportato in elicottero al Meyer di Firenze il piccolo è stato intubato ma non operato. Secondo quanto si è appreso le lesioni subite non darebbero speranza alcuna.
Ilaria, l'amica alla guida della Citroen Picasso nera, se la caverà è stata sottoposta a intervento chirurgico per l’estrazione di un proiettile che le ha procurato una «frattura pluriframmentaria scomposta alla mascella». Il proiettile è uscito dal collo senza apportare danni di natura cerebrale. Anche l'uomo è in gravissime condizioni. Anche per lui i medici non sanno dire se riuscirà a sopravvivere.
Dalle indagini condotte dai carabinieri, coordinati dal sostituto procuratore Manuela Comodi, è emerso che Bazzurri, incensurato, ha sparato i quattro colpi con una Beretta semiautomatica calibro nove regolarmente detenuta. Tra lui e la ex compagna, dalla quale si era separato a settembre, c' è stata una discussione. Per una telefonata alla quale la donna non avrebbe risposto ma tra i due c'erano stati in passato degli screzi legati anche al mantenimento del figlio e per il fatto che l'artigiano non accettava la separazione.
Nessuna denuncia comunque, anche perché la ex compagna lo considerava «un padre esemplare». Dopo la mancata risposta alla telefonata - è emerso dalle indagini - l'uomo è riuscito a sapere che l'ex compagna sarebbe andata in piscina con l'amica e l'ha probabilmente seguita fino a casa di quest' ultima. Ha parcheggiato la sua Punto poco distante dalla casa dell'appuntamento e quando l'altra donna è scesa ha trovato la ex coppia che stava discutendo. Bambino, madre e amica sono saliti sulla Citroen di quest'ultima e a quel punto - è emerso dagli accertamenti - sono partiti i colpi di pistola. Subito dopo l'uomo si è poi puntato la pistola alla testa e ha nuovamente fatto fuoco. Non è ancora chiaro se madre e figlio siano stati raggiunti, alla testa, dallo stesso proiettile o da due diversi ma per il pm «sicuramente l'uomo ha sparato per uccidere» tutte e tre le persone all'interno dell'automobile.
Quando sono arrivati i carabinieri allertati dai vicini scesi in strada per dare i primi soccorsi, lo hanno trovato in terra in una pozza di sangue, con accanto l'arma che aveva il caricatore pieno. Un coltello, una fionda ma anche un cannocchiale sono stati invece recuperati nella sua auto. Accanto ai giochi del bambino che il padre portava con sé.

Repubblica 7.7.14
Nel paese sotto shock “Un padre modello sopraffatto dalla rabbia”
di Michele Bocci


PERUGIA. La rabbia, la paura e il risentimento hanno roso da dentro il padre premuroso Riccardo Bazzurri e lo hanno spinto a commettere un gesto inaudito, che lascia sbigottiti conoscenti e amici e getta nella disperazione i suoi parenti e quelli della ex compagna. L’uomo di 32 anni che ieri mattina ha puntato la pistola contro il figlio è lo stesso che chiamava il piccolo «la luce dei miei occhi».
Nella testa di Riccardo Bazzurri c’è stato un cortocircuito che ha travolto la sua vita, quella della persona a cui teneva di più e quella della donna che forse amava ancora e alla quale non ha perdonato di non volere più tornare con lui.
Ponte Valleceppi, Ponte Felcino, Villa Pitignano: sono le zone periferiche di Perugia che fanno da sfondo a questa tragedia. Una lunga serie di paesini attaccati uno all’altro e circondati dal verde e dalla luce della campagna umbra. È qui che un uomo, l’ennesimo, ha deciso di distruggere la vita dei propri affetti, prima di affondare la propria, perché non accettava il no di una donna. «Si erano lasciati a settembre - racconta una zia di Ilaria Abbate, che ieri ha passato la giornata in ospedale - lui era innamoratissimo del bambino, trascorreva con lui tre o quattro giorni alla settimana. Era un padre premuroso. Con Ilaria discutevano, ma non in modo particolarmente violento». I carabinieri di Perugia confermano che non c’erano denunce da parte della giovane vittima, gli scontri non avevano mai superato il limite. Discussioni, però, ce n’erano state. Lui, raccontano nei paesi dove lo conoscevano, era un tipo geloso, discuteva con Ilaria del mantenimento del bambino, voleva tornare insieme a lei e forse si era allarmato quando ha visto che la ex si stava rifacendo una nuova vita senza di lui. Quando ha capito che non era più possibile ricostruire quella storia, iniziata un paio d’anni prima della nascita del bambino, ecco che tutto è finito in tragedia.
«Adesso Riccardo lavora in una grande carrozzeria - raccontano alla gelateria la Leccornia di Villa Pitignano, il paese di Bazzurri - ma prima aveva fatto il barista in centro a Perugia. Gli piace fare i cocktail e gli aperitivi. Suo padre, che è imbianchino, gli aveva proposto di andare con lui, ma ha preferito fare la sua strada». Così ha trovato un impiego alla carrozzeria Fepa. Quasi tutti quelli che entrano per un cono lo conoscono, almeno di vista. Sono tutti sotto shock, le sole parole sono di pietà per il bambino. «Da quando era nato il piccolo, Riccardo non passava più da queste parti come una volta, ma si capiva che gli voleva un gran bene», racconta un cliente della gelateria.
Ilaria viene descritta come una ragazza molto in gamba. Originaria di Napoli, è rimasta a Perugia con un fratello ma senza i genitori, che un paio di anni fa sono partiti per andare a lavorare alle Canarie e oggi arriveranno al capezzale della figlia. Abita in un paese che si chiama Casa del Diavolo. Lavora insieme all’amica Ilaria, l’altra vittima di ieri mattina, in un’azienda di servizi.
Gli spari di Ponte Valleceppi sono stati premeditati, sottolineano i carabinieri. Ieri mattina Riccardo Bazzurri ha provato a telefonare alla ex, ma lei non ha risposto. Così, saputo che sarebbe andata in piscina con il bimbo, è arrivato sotto casa dell’amica ad aspettarla. C’è stata un’altra discussione, come ha raccontato in ospedale Ilaria Toni. Sembrava tutto finito quando i tre sono entrati in macchina, ma lui ha estratto una Beretta semiautomatica calibro nove (ha un permesso di usarla solo per motivi sportivi) e ha fatto fuoco. Nella sua Punto, parcheggiata poco distante, i carabinieri hanno trovato una fionda, un coltello e un binocolo, forse usato per controllare la ex da lontano. Accanto c’erano i giochi del suo bambino, «la luce dei miei occhi», che ora è ricoverato in fin di vita con il cranio trapassato da un proiettile.

La Stampa 7.7.14
“Svuotacarceri, a rischio la difesa sociale”
L’allarme dell’Anm: se non si distingue tra pena e custodia cautelare, stalker tutti a casa con le vittime
Il decreto Prevede la scarcerazione di quei detenuti con pene inferiori ai tre anni, ma senza distinguere tra chi sta scontando una condanna e chi invece è dentro per la custodia cautelare in carcere
di Grazia Longo


La speranza è che domani la commissione giustizia alla Camera accolga le richieste di modifica al decreto legge, entrato in vigore lo scorso 28 giugno, sulla riforma della giustizia. Altrimenti niente carcere, ma solo arresti domiciliari, per chi dovrà scontare pene inferiori a tre anni.
Ve lo immaginate un marito accusato di stalking, costretto in casa con la moglie, sua vittima prediletta? Il rischio è quanto mai probabile se non si provvede a distinguere la fase della custodia cautelare da quella che scatta al momento di una condanna. E riguarda in generale reati che hanno come protagonisti persone ritenute socialmente pericolose. Come, appunto, quelli indagati per stalking ma anche per maltrattamenti in famiglia e per rapina aggravata.
Persone che, se non dovessero avere un luogo dove poter essere poste ai domiciliari, dovranno essere rimesse in libertà, sia nei giudizi celebrati in seguito di arresti in flagranza (per direttissima) sia di primo e secondo grado. Basta e avanza per mettere in allarme avvocati e magistrati. «La difesa sociale è a rischio» afferma il presidente dell’Anm (associazione nazionale magistrati), Rodolfo Sabelli. E il segretario generale Maurizio Carbone insiste: «Martedì ribadiremo chiaramente la necessità di non confondere l’esigenza dell’applicazione della misura cautelare, indispensabile quando si temono la reiterazione del reato, l’inquinamento delle prove e il pericolo di fuga, con la possibile pena. La prima non è e non deve assolutamente essere confusa con la condanna definitiva».
Poiché siamo ancora in fase di conversione di legge - entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto - esiste un margine di manovra. «I due piani non vanno sovrapposti, altrimenti si corre il rischio concreto di una scorciatoia legislativa che alla riforme strutturali preferisce norme emergenziali, per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri, che espongono il fianco a delle criticità».
Carbone è, comunque, ottimista sull’attenzione al problema da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il quale infatti, nei giorni scorsi, aveva precisato che si tratta «di un intervento con cui il Governo ha corretto una norma già approvata da Camera e Senato che, invece, stabiliva il divieto di qualunque misura cautelare detentiva, sia carcere che arresti in casa, nel caso della previsione di una pena non superiore a tre anni». E ancora: «Un intervento che va nella direzione di garantire una maggior sicurezza dei cittadini e consentirà comunque al Parlamento di intervenire sulla materia con eventuali correzioni».
Se lo augurano anche gli avvocati, in particolare quelli che assistono le vittime di stalking. Come Francesca Zanasi, legale da tempo sensibile al problema, affrontato anche in diversi libri (l’ultimo dall’eloquente titolo «L’odioso reato di stalking»). «Il decreto va rivisto - afferma - perché occorre applicare la legge in maniera più rigorosa possibile. Chi picchia una donna, ne abusa sessualmente, ne condiziona le relazioni sociali, deve essere assolutamente fermato. E spesso la custodia cautelare è l’unico rimedio utile per far finire il tormento». L’avvocato non ha dubbi: «Non possiamo invitare le donne a denunciare gli stalker e poi non proteggerle concretamente».

La Stampa 7.7.14
“Se tolgono la possibilità di arrestarli, per noi vittime è inutile denunciare”
di Gra. Lon.


Roma È talmente terrorizzata da chiedere il ricorso a un nome di fantasia. «Evitare il cognome non basta, meglio che mi chiami Annalisa, il mio incubo non è ancora finito». E dunque, Annalisa è un’operaia trentenne bella e socievole. Troppo per l’ex fidanzato che «non sopportava neppure che io parlassi con i suoi amici. Era geloso come un pazzo. Scenate a volontà e anche qualche schiaffo. E così alla fine l’ho lasciato».
Ma invece della libertà, per Annalisa si sono aperte le porte dell’inferno. «Mi mandava email zeppe di parolacce e di minacce. Mi scriveva che avrebbe fatto male anche alla mia famiglia, ai miei genitori. E poi, il telefono di casa che squillava anche trenta volte a notte. Alla fine l’ho dovuto staccare, tanto era impossibile quella situazione». Inevitabile la denuncia, che però non spaventa più di tanto lo stalker. Che non lesina neppure appostamenti sotto casa e davanti al posto di lavoro di Annalisa. «Se per caso mi vedeva passeggiare con qualche collega era una sceneggiata pazzesca. Paura e vergogna erano le sensazioni che stavano dentro di me di continuo». Poi una sera, l’ex fidanzato, si intrufola in casa sua, l’aspetta e quando lei arriva cerca di abusare di lei.
«È stato terribile, avevo tanta paura, mi ha fatto male - ricorda Annalisa - Anche da un punto di vista psicologico. Io gridavo e lui pure, alla fine i vicini hanno chiamato il 113. Per qualche giorno l’hanno messo in galera. E così s’è placato. Non so se è stato per quello, forse sono stata anche fortunata: ogni volta che sento di donne morte ammazzate mi dico che io avrei potuto essere una di loro. Gli stalker sono pericolosi e imprevedibili, proprio per questo spero che la legge sia dalla parte di noi vittime. Se tolgono anche la possibilità dell’arresto per noi donne è finita».

Corriere 7.7.14
Il Papa incontra le vittime della pedofilia
di M.A.C.


ROMA — Questa mattina Papa Francesco incontrerà 6 vittime degli abusi sessuali del clero. E’ la prima volta, per lui. Il piccolo gruppo parteciperà alla Messa di Santa Marta e poi ci sarà un incontro personale con ciascuno di loro. Si siederanno insieme e parleranno. Le sei vittime provengono dall’Europa: dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda e dalla Germania. Non ci saranno vittime dagli Stati Uniti (che pure è uno dei Paesi in cui in passato il fenomeno è stato molto grave), perché probabilmente il Papa le potrà vedere nel viaggio già programmato nel settembre 2015.
Il Vaticano ha fatto tutto il possibile per proteggere la riservatezza dell’evento e l’identità delle persone, almeno fino a questa mattina. Nessuna copertura mediatica è stata prevista, anche se, naturalmente la Radio Vaticana dovrebbe fornire il testo dell’omelia di Bergoglio.
Si tratta insomma di un atto privato del Papa, che è stato lo stesso Pontefice ad annunciare sul volo di rientro dalla Terra Santa. Dopo, le persone saranno libere di incontrare o meno la stampa e di fare interviste sulla loro esperienza del passato e sul loro visita a Santa Marta. «Un sacerdote che fa questo tradisce il corpo del Signore - aveva detto il Papa rientrando a Roma - perché il sacerdote deve portare questo bambino o questa bambina alla santità e invece abusa di loro». E aveva chiuso con un paragone capace di suscitare impressione: «È come fare una messa nera». «In questo problema non ci saranno figli di papà», aveva assicurato Francesco, spiegando come la giustizia avrebbe fatto il suo corso senza sconti per nessuno e senza «privilegi» per i vescovi . Una linea già applicata nei giorni scorsi con la condanna allo stato laicale dell’arcivescovo polacco mons. Jozef Wesolowski, ex nunzio a Santo Domingo, processato canonicamente per abusi su minori e - una volta che la sua espulsione dal clero sarà ratificata da sentenza definitiva -sottoposto anche da un processo penale in Vaticano, con in più un provvedimento cautelare per limitarne la libertà di movimento.
Le sei persone saranno accompagnate alla Messa dal cardinale di Boston Sean Patrick O’Malley, strenuo combattente del fenomeno della pedofilia nella sua diocesi e Presidente della Commissione per la tutela dei minori voluta da papa Bergoglio. O’Malley era già a Roma in questi giorni come componente del C9, il Consiglio dei cardinali che coadiuva il Papa nella riforma della Curia. La nuova Commissione ha cominciato ad occuparsi di strategie e programmi per indirizzare l’azione della Chiesa contro la pedofilia, anche per quanto riguarda l’obbligo della «responsabilità» (accountability ) dei superiori. E’ attualmente composta da quattro uomini e quattro donne tra laici e religiosi, si è riunita per la prima volta all’inizio dello scorso maggio, e ne fa già parte una vittima di abusi, l’irlandese Marie Collins, e altre ne potrebbero entrare.

Corriere 7.7.14
«Donazioni gratuite e no ai cataloghi»
Le linee sulla fecondazione eterologa
Il ministro Lorenzin: disciplineremo anche l’adozione degli embrioni
di Margherita De Bac


ROMA — «Per partire con la fecondazione eterologa bisogna aspettare le linee guida e alcuni passaggi in Parlamento. I Centri devono aspettare». Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin frena gli entusiasmi. La recente sentenza della Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il divieto italiano delle tecniche con l’impiego di gameti esterni alla coppia, non avrà un’immediata applicazione. La donazione sarà gratuita, limite al numero di donazioni per evitare la nascita di bambini in un certo senso «fratelli». No ai cataloghi per scegliere le caratteristiche genetiche del genitore biologico. Sì al diritto dei bambini di conoscere le loro origini. «Ci sono ancora molte questioni organizzative e di tutela della salute da chiarire — dice Lorenzin —. La legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita era pensata per la fecondazione omologa, dunque con cellule della coppia. Questa è una nuova attività».
Come state procedendo?
«Domani si riunisce un gruppo di lavoro di circa 20 esperti da me nominati per affrontare una serie di problemi e garantire qualità e sicurezza ai cittadini. Le loro osservazioni mi serviranno a valutare le possibili e eventuali misure anche normative. Ho stabilito per questa fase istruttoria la scadenza del 28 luglio. Tempi rapidi».
È un modo di fare melina?
«No. C’è una sentenza della Consulta da rispettare e noi dobbiamo eseguire assicurando però il massimo delle garanzie ai pazienti: cercheremo di assimilare il meglio dagli altri Paesi che hanno iniziato prima di noi. Al centro dell’attenzione genitori e bambini».
Che ne pensa dell’eterologa?
«Non ne voglio pensare nulla perché sono il ministro della Salute e non posso essere influenzata da nessun tipo di ideologia. Le mie opinioni personali restano fuori».
Il suo partito, l’Ncd, chiede un intervento del Parlamento. E lei?
«Io non posso fare tutto da sola. Ci sono questioni importanti che le sole linee guida, di carattere tecnico, non possono risolvere. Parlo dell’identità biologica del bambino. Dal Parlamento bisognerà passare per recepire le direttive europee».
Come avverrà la selezione dei donatori?
«Saranno più stringenti i test infettivi, ad esempio per Aids e epatite. Verranno introdotti test genetici obbligatori che per l’omologa non erano previsti. Resta fermo il principio dell’anonimato».
Ci sarà un numero massimo di donazioni?
«Un limite è necessario per evitare che nascano troppi bambini da uno stesso genitore biologico. Tra i 5 e i 10 è un’ipotesi. Inoltre una donna che decide di dare in dono i suoi ovociti non può subire troppe stimolazioni e dobbiamo preoccuparci che non venga sfruttata. Indicheremo quante raccolte di gameti possono essere fatte da una stessa persona e con quale intervallo fra l’una e l’altra. Pensiamo a un codice unico nazionale, previsto già da una legge, che permette di contare le diverse donazioni. Sarà regolamentata anche la cosiddetta egg sharing cioè la possibilità che donne sottoposte a cure antisterilità mettano a disposizione gli ovociti in sovrannumero. All’estero sono previste delle agevolazioni sul piano dei costi per queste volontarie».
La coppia potrà scegliere il donatore?
«Assolutamente no. Niente cataloghi con le caratteristiche estetiche di chi da i gameti. Chiederemo solo garanzie di tipo sanitario e sarà previsto un consenso informato dettagliato e rigoroso. Un’altra questione aperta. Il limite d’età della donna che si sottopone all’eterologa. A mio parere dovrebbe essere uguale a quella prevista per l’omologa (circa 52 anni, ndr )».
E la delicata questione dei rimborsi?
«La legge parla chiaro. La donazione di gameti in Italia è libera, volontaria e totalmente gratuita come in Francia. Niente indennità forfettarie come in Gran Bretagna e in Spagna. Solo lo stesso rimborso spese riconosciuto ai donatori di midollo che è equiparato a quello di sangue».
Sarà possibile la doppia eterologa, cioè la possibilità di creare embrioni con ambedue i gameti non appartenenti alla coppia?
«Sì sarà prevista, con accorgimenti particolari. In un secondo momento dovremo disciplinare la questione dell’adozione degli embrioni».
Il bambino avrà diritto a risalire alle proprie origini cioè ai genitori biologici?
«È un punto fondamentale che andrà approfondito e sarà incluso nel consenso informato. Legislazioni straniere tendono sempre più a garantire il diritto a conoscere la propria identità e il diritto all’anonimato dei donatori è caduto in diversi Paesi in seguito a contenziosi legali».
Caso Pertini, l’ospedale romano dove è avvenuto uno scambio di embrioni. Una donna partorirà due gemelli appartenenti ad altri genitori. La giurisdizione è carente? Che fare?
«È un caso spinosissimo di cui dovrebbe occuparsi il Parlamento soprattutto ora che i figli della provetta sono tanti e saranno sempre di più con l’avvento dell’eterologa. Ci sono sentenze in contraddizione. Sarebbe bene prevedere in caso di scambio a chi appartengano i bambini».

il Fatto 7.7.14
È partita trivella selvaggia
Sotto le acque dell’Adriatico si nasconderebbero giacimenti di gas e oro nero
Così, si dice, anche in tante altre regioni, dalla Puglia alla Sicilia
Allora via alle perforazioni. Ma benefici e danni non sono chiari
di Thomas Mackinson


Un’esca che galleggia lenta nell’Alto Adriatico rischia di provocare una marea nera lungo tutte le coste italiane, dal Veneto alla Sicilia. A lanciarla è stato l’ex premier Romano Prodi che, in una lettera al Messaggero, ha chiesto al governo di darsi una mossa per cogliere un’occasione d’oro. In questo caso l’oro è nero, come petrolio.
Proprio lungo la linea di confine delle acque territoriali della Croazia, sotto 12mila km quadrati di mare, si nasconderebbero enormi giacimenti di gas e oro nero. Basterebbe prenderli – assicura il professore – per migliorare la bilancia dei pagamenti, aumentare le entrate fiscali, ridurre la bolletta energetica e la dipendenza da Russia, Libia, Algeria. Problema: rientra tra i tesori che l’Italia non sfrutta, scrive Prodi, per il principio di precauzione che tutto blocca. Nel caso del Golfo di Venezia, le attività di esplorazione e coltivazione di idrocarburi sono bloccate dal 1991 per il rischio di subsidenza delle coste e lo rimarranno finché Regione Veneto e Consiglio dei Ministri – supportati dagli enti di tutela ambientale – avranno accertato l’assenza di rischi in via definitiva. Ma in Italia, si sa, nulla è più definitivo del provvisorio.
La gara con la Croazia
Ecco servita, allora, l’altra ragione per trivellare in quell’area: se non lo facciamo noi, comunque lo fa la Croazia. Il nostro dirimpettaio, quel tesoro, non intende farselo sfuggire. E corre tanto che a gennaio ha concluso la fase di prospezione dei fondali, entro fine anno assegnerà le concessioni di sfruttamento delle 19 piattaforme che dal 2019 inizieranno a pompare, secondo le stime, fino a 3 miliardi di barili.
La mossa, ragiona Prodi, mette due volte in difficoltà l'Italia: se non fa nulla rischia di condividere tutti i rischi dell'impresa croata (già evidenziati dal ritrovamento di carcasse di delfini e tartarughe lungo le coste italiane) e di lasciare tutti i vantaggi al governo di Zagabria; se si muove in ritardo rischia poi l'effetto “granita”, per cui chi succhia per primo dallo stesso giacimento mette in pancia la parte più nobile e ricca di idrocarburi. L’idea di uscire dall’angolo deferendo il vicino a un arbitrato internazionale non sfiora il governo. E non solo per le scarse possibilità di successo.
Il fatto è che la contesa a largo di Chioggia, con le sue contraddizioni, potrebbe segnare il match point di una partita ultraventennale che vede contrapporsi, anno dopo anno, gli evocatori della nuova Dallas italiana e le associazioni di ambientalisti, pescatori e cittadini non arresi all’imperio del petrolio. Una tempesta perfetta in un bicchier d’acqua, vista l’estensione dell’area marina, che consentirebbe però ai primi di schiacciare le resistenze dei secondi sotto il peso di mirabolanti vantaggi economici. Prodi ricorda, ad esempio, che se l’Italia accelerasse su progetti e giacimenti già individuati “potrebbe produrre 22 milioni di tonnellate entro il 2020, con investimenti per 15 miliardi di euro e dare lavoro a decine di imprese”. Messaggio diretto anche a Palazzo Chigi: “Come i governi precedenti non sa dove trovare i soldi per fare fronte ai suoi molteplici impegni...”.
E che fa il Governo? Al richiamo della sirena risponde subito Federica Guidi, ministro del Petrolio in pectore. “Non solo in Adriatico ma in diverse zone del Paese, spesso localizzate nelle regioni più svantaggiate del Mezzogiorno, abbiamo importanti giacimenti. Non capisco perché dovremmo precluderci la possibilità di utilizzarli, pur mettendo al primo posto la tutela dell’ambiente e della salute”, ha detto all’ultimo G7. Il governo ha dunque intenzione di dar seguito agli strampalati obiettivi della “Strategia energetica nazionale” che un dimissionario governo Monti ha lasciato in eredità, con l'indicazione di raddoppiare la produzione di idrocarburi nazionali entro il 2020, tornando ai livelli degli anni Novanta, e di portare il loro contributo al fabbisogno energetico dal 7 al 14 per cento.
La leva individuata nella Sen per “liberare” questo potenziale imprigionato nella roccia è la stessa chiesta a gran voce dai petrolieri: accelerare e semplificare le procedure di rilascio dei titoli minerari. La risposta è un “nuovo modello di conferimento dei permessi che preveda un titolo abilitativo unico per esplorazione e produzione, con anche un termine ultimo per gli enti interessati dalle procedure di valutazione”, fanno sapere dal Mise. Una volta passato il termine, la decisione spetta solo al Consiglio dei Ministri (come previsto dal DL 83/2012). In pratica si ridimensiona, fino a estrometterli del tutto dai processi di valutazione, proprio quegli enti, territori e associazioni che negli ultimi 20 anni hanno dato battaglia contro la devastazione ambientale e accresciuto la sensibilità pubblica in tutto il Paese.
Lo sblocco delle piattaforme
“L’effetto sarebbe devastante”, spiega Giorgio Zampetti di Legambiente. In una manciata d’anni, dalla dorsale adriatica alle coste dell’Abruzzo, fino al tratto di mare tra Sicilia e Malta, si assisterebbe a un’epopea delle trivelle in mare che non ha precedenti. Alle 105 piattaforme e ai 366 pozzi attivi oggi nell’offshore italiano si aggiungerebbero quelli derivanti dallo sblocco di 44 istanze per permesso di ricerca e 9 istanze di coltivazione depositate dalle compagnie. Per non dire dell'effetto-calamita che una regolazione del settore ancor più favorevole ai produttori avrebbe sulla presentazione di ulteriori richieste.
Senza scomodare gli scenari dei rischi e dei costi ambientali che tutto questo comporta tocca chiedersi: a che pro? Alessandro Giannì, direttore della campagne di Greenpeace, non ha dubbi. “Questa campagna per le perforazioni si basa su presupposti falsi. I nostri fondali marini non sono poi così ricchi di giacimenti, come si vuol far credere. Le riserve certe ammontano a soli 10,3 milioni di tonnellate di petrolio che, ai consumi attuali, sarebbero sufficienti a coprire il fabbisogno nazionale per qualche mese. Alla luce di questo vorrei che qualcuno ci spiegasse che senso ha questa corsa al raddoppio delle produzioni che espone le nostre coste, soprattutto quando i consumi nazionali di idrocarburi sono in costante calo”.
Obiezione cui ministero (e petrolieri) rispondono all’unisono: “Lo Stato avrà sempre valori delle riserve sottostimati se agli operatori non viene concessa la possibilità di condurre operazioni di accertamento e quantificazione delle potenzialità del sottosuolo”, replica Franco Terlizzese, capo della direzione per le risorse minerarie ed energetiche del Mise.
“Anziché ragionare su come aumentare la produzione d'idrocarburi – insiste Zampetti – potremmo mettere in campo adeguate politiche di riduzione di combustibili fossili, a partire da settori arretrati come l’autotrasporto cui in 10 anni abbiamo regalato qualcosa come 4 miliardi tra buoni carburante, sgravi fiscali e bonus pedaggi autostradali. Basterebbe usare diversamente quei soldi per incentivare il trasporto merci su rotaia e ridurre senza sforzi la nostra bolletta petrolifera”. Ma su questi temi la “svolta buona” sembra lontana. Far consumare carburante in Italia - attraverso tasse, accise e Iva - resta il modo più comodo per ripagare buona parte della spesa corrente dello Stato. Il petrolio, a suo modo, è welfare. Rendere altrettanto profittevole l'oro blu richiederebbe ai decisori pubblici ben altro impegno.

il Fatto 7.7.14
Incognita sicurezza
La gran balla della produzione “eco-sostenibile”
Le esplorazioni sono spacciate per innocue
di S. Feltri e T. Mackinson


A ben vedere qualcosa s'è mosso, anche nella parte italiana dell'alto Adriatico e sono le carcasse di delfini e tartarughe marine, a centinaia, trasportati un anno fa dalle correnti sulle spiagge italiane, dal Veneto alle Marche. Per i biologi cetacei e caretta sono stati uccisi dalle onde d'urto utilizzate per setacciare i fondali a caccia dei giacimenti di gas e petrolio che fan gola al governo dalmata (e ora pure a quello italiano). La prova autoptica - se ce ne fosse bisogno - che il mito dell'esplorazione “pulita” è un falso, così come quello delle trivelle che non provocano danni all'ambiente. Un pozzo esplorativo “tipo”, per dire, scarica tra le 30 e le 120 tonnellate di sostanze tossiche nell'arco della sua (breve) vita, spiegano gli esperti che lavorano per Onu, Fao e Oms. Soprattutto fanghi sintetici utilizzati nelle ordinarie attività di trivellazione e produzione. E tuttavia la Strategia energetica nazionale, che punta al raddoppio della produzione di gas e petrolio entro il 2020, sembra non tenerne conto ed evoca una fantomatica “produzione sostenibile di idrocarburi”.
I rischi dell’offshore
Sono 105 le piattaforme di produzione disseminate lungo i 7.500 km di coste italiane. Da 67 pozzi di coltivazione estraggono 4,9 milioni di tonnellate di olio e 6 Msm3 di gas. Presto potrebbero essere molte di più. Ad oggi si contano 20 permessi di ricerca nei fondali cui si aggiungono 44 istanze di permesso di ricerca (6 in fase decisoria) e 6 di prospezione in aree marine ancora libere da attività mineraria. Il governo punta sbloccarle per rilanciare l'offshore italiano, un'espressione che subito evoca i grandi disastri ambientali che hanno impressionato il mondo (British Petroleum, 2010 e Pi-per Halfa del '88). Per stare in casa nostra, l'incidente alla piattaforma Paguro (Agip) nel '65 che costò la vita a tre persone. Proprio un anno fa, l'affondamento della Perro Negro 6 (Saipem, Eni) durante le operazioni di posizionamento della piattaforma tra Angola e Congo. La sicurezza di questi giganti del mare è dunque un altro mito da sfatare. “Non è vero che gli incidenti sono rarissimi, sono invece numerosi”, spiegava il dirigente di ricerca dell'Ispra, Silvio Greco, a commento della tragedia messicana. “Negli ultimi vent'anni se conta uno all'anno. Può succedere anche da noi, solo che i nostri mari hanno un ricambio minimo, sono bacini chiusi, e l'impatto anche minore potrebbe essere devastante”.
Il gigante malfermo
Altri due esempi, recenti e nostrani , sul “trivellare senza rischi”. La Scarabeo 9 è l'unità di perforazione Saipem di ultima generazione che ha inaugurato l'attività estrattiva al largo di Cuba (in predicato di scavare il pozzo Vela 1 nel Canale di Sicilia, al largo di Licata). Ebbene durante il suo trasferimento da Yantai (Cina) a Singapore ha imbarcato acqua, “cosa che ha causato forzatamente lavori di riparazione e un'approfondita ispezione per assicurare la sua capacità di stare in mare”, racconta un rapporto sulla sicurezza citato da Greenpeace Italia (“I vizi di Eni”, 2013). Un'altra piattaforma, la Scarabeo 8, nel 2012 si è inclinata di 7 gradi perforando il campo “Salina” nel mare di Barents, in Norvegia. Senza conseguenze, ma ottenendo un ordine dell'autorità di controllo norvegesi di assicurare “la gestione dei processi in conformità con la salute, la sicurezza e l'ambiente”. Parole come pietre. Del resto, c'è chi ha apertamente messo in dubbio gli standard di sicurezza della flotta italiana. E dice di aver subito per questo pesanti rappresaglie, fino al licenziamento.
Denunce zittite
Due ex dirigenti Saipem, Gianni Franzoni e Giulio Melegari, hanno trovato sponda nel M5S e in particolare nel senatore Vito Petrocelli che ha portato la loro vicenda in Parlamento. Denunciano di essere stati allontanati dopo le loro denunce sulle procedure di sicurezza dentro Saipem (trasmesse anche all'ex ad Eni, Paolo Scaroni, una delle ragioni del licenziamento). Nelle rispettive cause di lavoro hanno presentato documenti a sostegno della tesi secondo cui “Saipem avrebbe eseguito operazioni navali, di perforazione petrolifera e lavori industriali in acque profonde, senza il personale idoneo, in violazione delle certificazioni emesse o addirittura senza i certificati necessari come richiesto dalla legge italiana e dalle normative internazionali”, come si legge nell'interrogazione del M5S. Tra i dettagli che sottolineano i due dirigenti: i mezzi Saipem battono bandiera delle Bahamas, dove si applica un codice marittimo che rende difficile perseguire i tecnici che fanno certificazioni di sicurezza disinvolte. “Le denunce non hanno avuto alcun impatto sul loro licenziamento”, replica l’azienda. “Le loro segnalazioni sono sempre state prese in seria considerazione e verificate con audit che hanno avuto esito negativo”. Ma Franzoni e Melegari non si arrendono, e il M5S continua a sostenerli. Ora il nuovo ad di Eni Claudio De-scalzi pare intenzionato a mettere sul mercato una quota di Saipem, per fare cassa.

Repubblica 7.7.14
La fede criminale
di Roberto Saviano


GLI affiliati alle ‘ndrine rinchiusi nel carcere di Larino hanno deciso di non partecipare più alla messa. Da settimane attuano una sorta di sciopero religioso.
DOPO la scomunica pronunciata da Papa Francesco per i detenuti è inutile - hanno detto al cappellano don Marco - andare a messa - È inutile quando si è stati esclusi dai sacramenti. L’anatema di Bergoglio è giunto potente e inaspettato nelle carceri che ospitano gli uomini di ‘ndrangheta. Gran parte del mondo ha interpretato la scomunica come una mossa teologica, un’operazione morale fatta più per principio che per reale contrasto alle organizzazioni criminali. Un gesto morale considerato importante per dare una nuova direzione alla Chiesa ma che difficilmente avrebbe potuto incidere nei comportamenti dei padrini, degli affiliati, dalla manovalanza mafiosa. Quale danno avrebbe mai recato ad un boss una condanna metafisica che non ha manette, non ha sequestri di beni, non ha ergastoli ma che semplicemente esclude spiritualmente dalla comunità cristiana e dai suoi sacramenti?
Da queste domande era nata la diffidenza di molti che temevano che la presa di posizione del Papa contro i clan fosse inutile. Un gesto bello, nobile, ma innocuo. Ma non è così e la “protesta” dei duecento detenuti affiliati lo dimostra. Intanto è una prima volta, un unico nella storia criminale e non è affatto quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura: ossia una semplice conseguenza della scomunica. Quando si tratta di organizzazioni mafiose ogni azione, ogni parola, ogni gesto non può esser letto nel suo significato più semplice e elementare. Dev’essere inserito nella complessa grammatica simbolica che è la comunicazione dei clan. Questo sciopero della messa non parla ai preti, non parla alla direttrice del carcere, non parla nemmeno al Papa. Questo sciopero non dice: «Il Papa ci ha tolto la patente di cristiani, non possiamo più battere le strade della messa e della comunione ». Perché questo è falso. Papa Francesco nel suo viaggio in Calabria ha fatto un gesto comunicativamente geniale, è andato a trovare i detenuti nel carcere di Castrovillari e ha detto loro «anche io sbaglio, anche io ho bisogno di perdono»: è in questa frase la vera forza della sua dichiarazione di scomunica. Non è contro l’uomo che in carcere appartiene all’organizzazione ma contro l’organizzazione. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Quella degli affiliati non è quindi una sorta di protesta contro una Chiesa che ha abbandonato in contraddizione con il vangelo («ero carcerato e siete venuti a trovarmi») il conforto ai detenuti. È un manifesto. È una dichiarazione di obbedienza alla ‘ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa. Questo sciopero è un gesto che deve arrivare all’organizzazione stessa. La scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di pentimento che Francesco gli ha indicato.
Sottolineano: siamo scomunicati perché ‘ndranghetisti, e nessuna occasione simbolica è lasciata sfuggire dagli uomini dei clan per ribadire soprattutto dalle segrete di un carcere la loro fedeltà. Si sciopera contro la messa in questo caso per dichiararsi ancora uomini d’onore e non lasciare alcun sospetto di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Quando ci si affilia la “santina” di San Michele Arcangelo viene fatta bruciare tra le mani unite e aperte a forma coppa e le parole pronunciate sono definitive: «In nome di nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue».
La scomunica di Papa Francesco sta diventando un meccanismo in grado di alzare come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal resto della società civile. Bisogna insistere e agire, isolare quelle parti di chiesa saldate alla cultura mafiosa che ancora resistono, come dimostra quel che è accaduto sempre ieri a Oppido Mamertina, in Calabria, dove la processione ha reso l’omaggio alla casa di don Giuseppe Mazzagatti. Un “inchino” dovuto per non alterare un vecchio boss che ancora tiene (rispetto alle giovani generazioni) al vecchio rito e che - come in molti hanno lasciato trapelare - da decenni finanzia feste patronali e iniziative religiose nel suo territorio.
Nell’Italia della crisi i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono un orpello di facciata. Alla scomunica religiosa deve seguire una scomunica civile assoluta, che permetta l’esclusione del meccanismo mafioso dalle dinamiche quotidiane, economiche, sociali. Un’esclusione vera, radicale, definitiva.

l’Unità 7.7.14
Palestinese arso vivo
Presi in sei: «Nazionalisti»
di Umberto De Giovannangeli


Il movente è «nazionalistico». I primi fermi effettuati. Almeno sei persone sono state arrestate, sospettate dalla polizia israeliana di aver ucciso bruciandolo vivo Mohammed Abu Khdeir, il ragazzo palestinese rapito a Gerusalemme est mercoledì scorso. Lo dice il quotidiano Haaretz ipotizzando che dietro l’omicidio ci sia un movente «nazionalistico», come si era pensato fin da subito. Il ragazzo palestinese, il cui corpo carbonizzato è stato trovato mercoledì a Gerusalemme,  sarebbe stato dunque picchiato e bruciato vivo da estremisti ebrei in risposta al rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani studenti di un seminario rabbinico in un insediamento di coloni vicino a Hebron.
Sempre ieri, scrive Ynet, il tribunale di Gerusalemme ha rilasciato su cauzione Tariq Abu Kdheir, il cugino di Mohammed che in un video viene pestato da agenti israeliani. Il giovane, cittadino statunitense, era stato arrestato giovedì scorso con l’accusa di aver lanciato pietre e bottiglie molotov contro gli agenti. Secondo il padre, citato dal sito palestinese Electronic Intifada, Tariq è rimasto nelle mani della polizia israeliana per cinque ore prima di essere portato all’ospedale. Il ragazzo, sempre stando ai racconti del genitore, era andato a fare visita allo zio a Shuafat, in un momento in cui la zona era tranquilla, quando due poliziotti israeliani lo hanno fermato, prendendolo violentemente a calci e a pugni. Oltre al video sono state pubblicate più di una fotografia in cui si vede un ragazzo con delle gravi tumefazioni sul volto. La famiglia di Tariq vive a Tampa in Florida e si trova in vacanza in Palestina dall’inizio di giugno. Gli Stati Uniti hanno espresso «profonda preoccupazione » per il trattamento subito dal ragazzo, palestinese con passaporto americano. Lo afferma la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, che condanna «fermamente l’uso eccessivo della forza». Gli Usa, ha detto, chiedono «un’indagine trasparente e credibile».
«UN OMICIDIO È UN OMICIDIO»
«Non ho pace nel mio cuore. Anche se catturassero chi dicono che ha ucciso mio figlio, lo interrogheranno e poi lo rilasceranno », invece «devono trattarli come trattano noi. Devono demolire le loro case e radunarli, come fanno con i nostri figli». Sono le parole della madre di Mohammed. La donna, Suha, ha accolto con favore la notizia degli arresti dei presunti assassini del giovane, ma ha spiegato di avere poca fiducia nel fatto che le autorità israeliane li puniranno.
In mattinata era stato il presidente israeliano Shimon Peres ad affrontate l’orribile vicenda dell’uccisione del ragazzo palestinese durante un incontro con la stampa estera a Sderot, la città più bersagliata dai razzi di Hamas: «Andremo in fondo a questa tragedia - aveva detto Peres -, fino alla fine e i colpevoli saranno puniti dalla giustizia». «Un omicidio è un omicidio, non c’è differenza fra sangue e sangue, e chi lo commette è un assassino che deve essere punito con tutta la forza della legge, che sia arabo o israeliano» aveva aggiunto il presidente israeliano dopo aver parlato con il ministro della Sicurezza Interna da cui dipendono le indagini della polizia sull’omicidio del ragazzo di 17 anni. «Non lasceremo nulla di intentato per arrivare alla verità su questo orrendo delitto - spiegava Peres - siamo uno Stato di diritto e la legge deve essere rispettata da tutti. Non ci saranno coperture o omissioni, l’indagine della polizia accetterà la verità e i killer saranno puniti perché siamo uno Stato di diritto». «Israele non fa differenza tra il terrorismo palestinese e il terrorismo ebraico », gli fa eco in serata il premier Benjamin Netanyahu.
ALTA TENSIONE
«L’esperienza prova che in queste occasioni bisogna agire in modo responsabile e non impetuosamente». Così Netanyahu al governo nella seduta domenicale a Gerusalemme, riferendosi alla situazione di tensione con Gaza dopo il rapimento e l’omicidio dei tre adolescenti israeliani. «Faremo tutto il necessario per ristabilire la quiete e la sicurezza nel sud» del Paese – continua Netanyahu-chiedo ai leader arabi di mostrare responsabilità e di pronunciarsi contro i disordini, per ripristinare la tranquillità». E ha concluso: «Non c’è posto per l’incitamento contro l’esistenza dello Stato di Israele. Chiunque non rispetterà la legge sarà punito severamente ». Sul piano militare, l’esercito israeliano ha condotto ieri 10 attacchi aerei sulla Striscia di Gaza. Tsahal fa sapere che i raid hanno avuto come obiettivi luoghi utilizzati dai militanti, tra cui alcuni per la costruzione di lanciarazzi e armi, dopo che in tutto 29razzi sono stati lanciati dalla Striscia contro Israele durante il fine settimana. Due razzi destinati a colpire Beersheba, nella parte meridionale d’Israele, sono stati intercettati dal sistema di difesa Iron Dome

Repubblica 7.7.14
Giovani e ultraortodossi arrestati i killer di Mohammed
Confessa uno dei sei catturati. Avevano già tentato di rapire un bambino
Netanyahu: “Lo Stato ebraico condanna i nostri estremisti e quelli palestinesi”
di Fabio Scuto


GERUSALEMME . Sono sotto la custodia dello Shin Bet, il servizio segreto interno, i sei giovani israeliani arrestati per il rapimento e l’assassinio di Mohammed Abu Khdeir, il ragazzino palestinese rapito all’alba di mercoledì scorso e ritrovato poco dopo arso vivo in un parco della parte ovest della Città Santa. Dopo giorni - in cui i quartieri arabi sono teatro di una guerriglia di giorno e di notte - gli investigatori hanno finalmente imboccato la strada dell’estremismo nazionalista inquadrando l’assassinio del giovane nella possibile vendetta per l’uccisione dei tre seminaristi ebrei a Hebron. Polizia e sicurezza interna hanno effettuato all’alba di ieri una trentina di fermi, ma l’attenzione era dedicata a questi sei.
Un “gag order” (la censura) impedisce di pubblicare i loro nomi, ma qualcosa è trapelato. Sono tutti giovani, alcuni sono minorenni, vengono da Beit Shemesh, da Gerusalemme e da Adam, un piccolo insediamento alle porte della Città Santa. Stando alle tv israeliane uno di loro, descritto dalla polizia come un estremista, durante l’interrogatorio avrebbe ceduto e confessato il rapimento e il delitto, implicando gli altri cinque. I sei non farebbero parte di un gruppo estremista formale, come era stato ipotizzato in precedenza, sarebbero piuttosto giovani radicali che hanno deciso di farsi vendetta da soli per rappresaglia per la tragica morte di Eyal, Naftali e Gilad, i tre ragazzi rapiti alle porte di Hebron lo scorso 12 giugno.
Sono ancora senza nome, ma due dei loro volti sono stati “catturati” dalle telecamere di sorveglianza che ci sono lungo la Shuafat Road: si vedono pochi attimi prima che costringano il ragazzino arabo a salire in macchina. Le telecamere erano state subito consegnate alla polizia dal padre della vittima che adesso reagisce: «Ho dato il filmato cinque giorni fa, solo adesso hanno capito che erano estremisti ebrei?». La polizia adesso dà anche seguito a un’altra denuncia. Nello stesso quartiere palestinese il giorno precedente il rapimento di Mohammed, non appena era stata diffusa la notizia del ritrovamento dei corpi dei tre seminaristi ebrei, qualcuno aveva cercato di rapire per strada un ragazzino di nove anni, Mousa Zalun, e solo le grida della madre e l’intervento di alcuni passanti avevano fatto fallire l’azione. Anche di quel tentativo ci sono filmati delle telecamere di sorveglianza ed è grazie a essi che si sarebbe arrivati al “commando” che ha rapito Mohammed, perché l’auto usata era la stessa.
La fidanzata di uno dei sospetti ha detto ieri sera al sito web di notizie Walla che il suo ragazzo è uno studente universitario e lavora nell’impresa di suo padre. «Si tratta di una famiglia di ultraortodossi, ma lui è un ortodosso moderno». Non l’ha mai sentito parlare di vendetta: «Io non credo che abbia fatto qualcosa di simile. Non avrebbe rischiato la sua vita per qualcosa così, lo conosco». Il vicino di un altro degli arrestati ha raccontato in tv che i parenti sono sconvolti e egli stesso non riusciva a credere che il ragazzo fosse coinvolto nell’omicidio.
Ieri sera il premier Benjamin Netanyahu, nel tentativo di far calare la tensione, ha detto che «Israele non fa differenza tra il terrorismo palestinese e il terrorismo ebraico», facendo capire che i colpevoli saranno trattati con la stessa severità. Questo nella speranza che la situazione interna migliori, che la protesta nei quartieri arabi della Città Santa - e anche in altre città come Nazaret e Haifa - vada man mano scemando. Le stesse prerogative sono difficilmente applicabili nel Sud di Israele, dove da Gaza continuano a piovere missili (180 negli ultimi sette giorni) e i caccia israeliani - ma ieri sera anche l’artiglieria - tornano a colpire le basi mobili dei lanciatori. Hamas si dice d’accordo (con Israele) per una tregua, ma sono i gruppi minori - la Jihad Islamica e i Comitati popolari - a essere contrari a un intesa.

Corriere 7.7.14
Tifo, fanatismo, razzismo
Quelle tracce che portano all’estrema destra ultrà
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Il custode dello stadio aveva passato gli ultimi vent’anni a raccogliere magliette autografate, trofei, palloni, coccarde, sciarpe con il sudore del tifo. I ricordi e il museo non ufficiale sono stati inceneriti una notte da due ultrà, l’8 febbraio del 2013: non potevano tollerare che la loro squadra avesse acquistato due giocatori ceceni, musulmani, e avevano deciso di distruggere gli uffici del club. Poche sere prima il settore della curva occupato da La Familia, il gruppo più violento e razzista, aveva esposto lo striscione «Beitar puro per sempre». Jan Talesnikov, il viceallenatore della squadra di Gerusalemme, aveva commentato: «Danno fuoco agli edifici, prima o poi bruceranno la gente».
Adesso quelle parole sembrano una profezia atroce. I sei sospettati di essere coinvolti nell’omicidio di Mohammed Abu Khudair si sono dati appuntamento a una manifestazione organizzata da La Familia, prima di trasformare gli slogan urlati per le strade («Morte agli arabi») in un raid che è finito con il corpo del giovane palestinese lasciato carbonizzato tra gli alberi della foresta attorno alla città.
In questi anni il razzismo dei tifosi estremisti ha estraniato quelli che nella squadra nata dal movimento conservatore creato da Zeev Jabotinsky avevano fuso passione sportiva e ideologia politica. Ehud Olmert, l’ex premier e sindaco di Gerusalemme condannato per corruzione, aveva il suo palco speciale allo stadio Teddy Kollek e provava a non perdere una partita delle maglie giallo-nere che ha cominciato ad amare da bambino. Fino all’anno scorso, quando ha annunciato che non avrebbe più assistito: «Queste squadracce devono essere rimosse dal nostro campo o diventeremo loro complici».
Gli sputi ai calciatori ceceni, i richiami alla purezza della razza, le minacce contro gli avversari arabo-israeliani del Bnei Sakhnin sono stati condannati anche da Rueven Rivlin, neoeletto presidente dello Stato e in passato tra i manager delle squadra. Il quotidiano Yedioth Ahronoth , il più venduto nel Paese, aveva paragonato gli hooligan ai «fondamentalisti palestinesi di Hamas».
Il Beitar è stato fondato nel 1936 e da allora nessun giocatore arabo ha mai indossato i suoi colori: i presidenti sono cambiati ma sono sempre rimasti in ostaggio degli oltranzisti. Nel 2004 un nigeriano musulmano è stato costretto ad andarsene per gli attacchi durante le partite e gli allenamenti. Un anno fa i militanti de La Familia hanno assaltato un centro commerciale vicino allo stadio e dato la caccia ai lavoratori arabi per picchiarli. «In passato gli israeliani hanno sempre reagito bollando gli ultrà come estremisti, un modo per superare l’imbarazzo, per considerarli ai margini — aveva spiegato Moshe Zimmermann, storico dell’università ebraica di Gerusalemme e specialista di sport, al New York Times —. La realtà è che tutto il Paese sta diventando più etnocentrico».
Il quotidiano liberal Haaretz aveva lanciato un appello perché il governo (come altri politici della destra anche il premier Benjamin Netanyahu è un tifoso del Beitar) intervenisse contro le frange più violente: «Questi facinorosi, anche se rappresentano una minoranza delle persone che vanno allo stadio, sono ormai terroristi che hanno adottato le caratteristiche dei gruppi fascisti e neonazisti. Il rischio è che restino impuniti perché troppe persone pensano che siano solo un problema della squadra o del calcio. Invece affrontarli è un test per tutta la nazione».

La Stampa 7.7.14
Svolta nell’inchiesta sulla morte del ragazzo di 17 anni rapito e bruciato vivo
La madre del ragazzo: gli faranno solo delle domande, ma li lasceranno liberi.
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 7.7.14
Amos Oz li paragona ai neonazisti
Quei nazionalisti nutriti dall’odio sfuggiti al controllo di Netanyahu
Dai sabotaggi all’omicidio: il gruppo clandestino ha fatto il “salto”
di M. Mo.


Amos Oz li paragona ai neonazisti, l’ex leader degli insediamenti Dany Dayan li definisce «un disastro morale», i grandi rabbini di Israele li hanno messi all’indice e il Dipartimento di Stato Usa li ha inseriti nel rapporto annuale sul terrorismo, ma il governo Netanyahu non è riuscito a debellare gli estremisti ebrei di «Price Tag» e l’omicidio del giovane Mohammed Abu Khdeir dimostra che sono diventati una minaccia per la sicurezza interna.
La definizione di «Price Tag» risale al 2005, quando alcuni gruppi contrari al ritiro dalla Striscia di Gaza ordinato dal premier Ariel Sharon scelsero di «far pagare agli arabi» la demolizione di insediamenti illegali come quello di Amona. In quello stesso anno due soldati - residenti a Sharfam e Shiloh - fecero fuoco su gruppi di palestinesi uccidendone 8 e ferendone altri 20. «Ogni volta che un insediamento viene evacuato risponderemo» disse Itay Zar, residente nei caravan illegali di Havat Gilad, per spiegare la politica del «Price Tag» cresciuta di dimensioni fino a far registrare nel 2013 - secondo il rapporto del Dipartimento di Stato sul terrorismo nel mondo - 399 attacchi contro «individui e proprietà arabe» tanto cristiane che musulmane.
Dagli agguati personali allo sradicamento di ulivi, dai sabotaggi di auto alle scritte offensive su moschee e chiese simili a quelle che il Vaticano denunciò come «odiose» alla vigilia della visita di Papa Francesco. Lo «Shin Bet», il servizio di sicurezza interna, stima che gli individui coinvolti siano «fra diverse centinaia e 3000» con la roccaforte nell’insediamento di Yizhar, dove la scuola religiosa Od Yosef Chai è stata individuata come «fonte di propagazione di odio». Il governo Netanyahu si è occupato degli estremisti di «Price Tag» nel giugno del 2013 definendoli «organizzazione proibita», ma le misure adottate non si sono dimostrate efficaci, come il Segretario di Stato Usa John Kerry ha fatto presente al premier israeliano nella telefonata avvenuta dopo la scoperta della morte di Mohammed Abu Khdeir.
La violenza dell’estremismo nazionalista ebraico segnò Israele a metà degli anni Novanta: nel 1994 con la strage di 29 palestinesi nella Tomba dei Patriarchi di Hebron firmata da Baruch Goldstein e poi, l’anno seguente, con l’uccisione del premier Yitzhak Rabin da parte di Yigal Amir. Ma se allora si trattò di singoli - al pari dei due soldati-killer nel 2005 - ora Abu Khdeir è stato ucciso da un gruppo, rivelando l’esistenza di cellule «che si sono formate grazie all’incitamento all’odio accumulato e ora si spingono fino agli assassinii» riassume uno stretto collaboratore del presidente Shimon Peres, chiedendo l’anonimato.
Le organizzazioni clandestine estremiste ebraiche degli anni Ottanta - come i Gush Emunim che attaccarono con bombe due sindaci in Cisgiordania - furono sgominate prima di essere in grado di realizzare i piani più pericolosi, mentre la cellula che ha rapito e ucciso il ragazzo di Shuafat ha beffato la sorveglianza dello «Shin Bet».
Amoz Oz li paragona ai «neonazisti europei» perché «proliferano nell’odio per il prossimo» e Alef Beth Yehoshua aggiunge: «Sono una disgrazia per il popolo ebraico». Resta da vedere quali misure il governo adotterà ora per sradicarli anche perché, secondo indiscrezioni, gli arrestati avrebbero alle spalle non solo l’estremismo di «Price Tag» ma quello degli hooligan del «Beit Har», la squadra di Gerusalemme.[m. mo.]

La Stampa 7.7.14
Gaza, i droni di Israele fanno 5 morti

qui

La Stampa 7.7.14
 Al Baghdadi
Ahmed Rashid: “Non gli interessa la jihad globale vuole il genocidio degli sciiti”
Ahmed Rashid: nessuno come l’Isis ha questo odio settario
intervista di Alberto Simoni


«Ma quale Califfo...»
Signor Rashid, lo dice Al Baghdadi. A Mosul ha chiesto a tutti i musulmani di obbedirgli... 
«Mica uno può alzarsi la mattina e proclamarsi tale. Proprio lui poi...»
Non è abbastanza titolato?
«Per nulla. Non ha credenziali religiose, non ha studi o conoscenze teologiche dell’Islam, che io sappia non è un ulema o persino un mullah». 
Ahmed Rashid, giornalista e analista pachistano nonché l’uomo che ha portato l’Occidente a conoscere il mondo dei taleban, quasi si altera. La storia del califfato, del capo banda dell’Isis che si proclama guida di tutti i musulmani, non la digerisce. E non è il solo vista la levata di scudi fra studiosi islamici e ulema. 
Lei ha scritto di recente che l’Isis le ricorda i taleban. Quindi Al Baghdadi è come il mullah Omar?
«No. Il mullah Omar è una guida spirituale islamica. I taleban erano interpreti di una fede molto conservatrice intrisa di leggi tribali, quelle delle zone pashtun a cavallo fra Pakistan e Afghanistan dove sono di fatto nati. La loro è un’interpretazione rigorosa ma anche errata dell’islam ma il mullah Omar è pur sempre un religioso. Al Baghdadi non ha nulla a che fare con questa storia».
Ma allora cosa accomuna Isis e taleban?
«Due cose: la prima è che come i taleban anche Isis ha come obiettivo quello di conquistare un territorio, quello fra Iraq e Siria, così come gli studenti delle scuole coraniche si muovevano fra Pakistan e Afghanistan. La conquista del nord Iraq è avvenuta rapidamente, con una sorta di blitzkrieg, in modo simile si mossero negli Anni ’90 i taleban. Isis però è militarmente più forte dei taleban».
E la seconda ragione?
«L’Isis non ha come obiettivo quello di lanciare una jihad globale. E fino a quando non approdò Bin Laden in Afghanistan, nemmeno i taleban avevano disegni di egemonia globale. Fu quell’evento a dare una svolta».
Scusi, ma cinque giorni fa Al Baghdadi ha diffuso un audio nel quale diceva che avrebbe conquistato Roma e minacciava un nuovo 11 settembre. Non sono proclami da jihad globale?
«Solo propaganda, è un modo per Al Baghdadi di consolidare il suo potere nella regione, in Libano, in Iraq e in Giordania. Lo scopo di Al Baghdadi, il vero pericolo è un altro».
Quale?
«Lo dice lui stesso: una campagna anti-sciiti. Quello cui punta Al Baghdadi è un genocidio. Vuole una popolazione “pura”, sunnita al 100 per cento. Guardi a quello che avviene nelle zone controllate da Isis, la distruzione e l’uccisione di massa di chiunque non rientri nel canone o sotto la voce sunnita. 
Anche i taleban e la stessa Al Qaeda sono anti-sciiti.
«Sì, ma nessuno si è mai comportato così brutalmente e ferocemente come l’Isis nello sterminare i non sunniti, siano civili o soldati, curdi o cristiani. Lo abbiamo visto nelle immagini di questi giorni. Per Isis gli sciiti sono la forma peggiore di degenerazione dell’Islam. Ecco spiegata la furia sunnita e la minaccia esplicita di colpire Najaf e Karbala, luoghi sacri per l’Islam sciita. Dovesse Al Baghdadi riuscire nel tentativo di far esplodere bombe in quei luoghi di culto allora il mondo islamico sarebbe scosso da una guerra settaria di dimensioni inimmaginabili. Sarebbe una catastrofe e la rappresaglia al pari di una guerra mondiale». 

Corriere 7.7.14
Le minacce a Roma del califfo Ibrahim
Una recita a effetto con scarso seguito
di Roberto Tottoli


Il califfo Ibrahim, al secolo Abu Bakr al-Baghdadi, si è fatto sentire e vedere. Nei giorni scorsi è stato diffuso un primo discorso di una ventina di minuti. Un discorso rivolto a tutti i musulmani per l’inizio di Ramadan, con la fugace menzione di Roma. È stata poi la volta di un video che lo ritrae sul pulpito mentre recita la tradizionale predica del venerdì. Dopo la proclamazione del califfato e le prime tiepide reazioni, era necessario farsi sentire e vedere, come molti hanno sottolineato. Ma era necessario, oltre a questo, offrire qualche indicazione ai musulmani, per sostanziare la pretesa che tutti ne accettino l’autorità. In una parola, legittimare la figura del nuovo califfo che sta agitando la comunità islamica.
Il primo messaggio è comparso qualche giorno dopo la proclamazione del califfato,
a inizio Ramadan. Tra citazioni coraniche, Abu Bakr ha ricordato i musulmani perseguitati nel mondo, il loro dovere di difendere la fede e di emigrare verso il nuovo califfato. Ha inneggiato al jihad , chiedendo a tutti di schierarsi al suo fianco. Aggiungendo che se così faranno conquisteranno Roma e il mondo diverrà loro, una frase che ha fatto il giro del mondo. Roma è citata improvvisamente e in modo strano, quasi echeggiando quelle tradizioni del primo Islam in cui si vagheggiava la sua conquista dopo quella di Gerusalemme. Ma qui le parole di Abu Bakr sono diverse e non si cerca la citazione dotta, anzi, sembra quasi che si sia voluto aggiungere un altro nome ad effetto in un discorso controllato e poco originale. In sostanza, solo ben interpretato.
Stesso impatto e impressione si ha dal video. Vestito con il nero degli abbasidi che regnarono da Bagdad nell’Impero musulmano medievale, il califfo ha rivolto
la sua predica ai credenti nella moschea di Mosul. Tutto appare studiato nei dettagli. Un’abile regia che lo mostra durante l’appello del muezzin mentre si pulisce
i denti con un bastoncino usato secondo l’usanza di Maometto. Con voce sicura e in un buon arabo, Abu Bakr inizia accennando all’importanza del mese di Ramadan e quindi del jihad , infarcendo anche in questa occasione il discorso di citazioni coraniche e di un solo accenno al Profeta Maometto, come di prammatica. Pio e umile ci appare davanti alle file di devoti quando ne chiede il sostegno in questo difficile compito. I minuti finali ce lo mostrano salmodiare con indubbia abilità altri passi coranici e invocazioni di ogni tipo. Tutto ben fatto, ma soprattutto con poche novità e pochi rischi. E quell’orologio che spunta sotto la manica destra, che ha raccolto svariate ironie in rete, pare l’unica nota stonata in un filmato che vuole rassicurare ed evitare discorsi troppo complessi.
I giorni successivi all’annuncio del califfato sono stati segnati dal silenzio. Poche le reazioni al primo e solo qualcuna in più al secondo messaggio. Non solo non vi è stata la corsa al riconoscimento che l’Isis agognava, ma le poche reazioni che vi sono state, sono state negative. Al-Qaradawi ha condannato senza mezzi termini, mentre le frammentate organizzazioni dell’Islam politico hanno taciuto oppure hanno diffidato chi ha provato a sollecitarne una risposta o a millantare una possibile adesione, dalla Tunisia ai Paesi del Golfo. Per non dire poi di quei leader salafiti che qua e là hanno rigettato la nomina e hanno avanzato vari dubbi sui contenuti. Anche le pretese genealogiche di Abu Bakr di discendere dal Profeta sono state respinte al mittente. Mostrare il califfo in carne e ossa per ora non sta smuovendo neppure i jihadisti. Anzi, qualcuno ha ipotizzato che tutto sia una recita, ispirata dal vero creatore del califfato: il portavoce Abu Mohammed al-Adnani. Tutto ciò in attesa di al-Qaeda e di un suo pronunciamento.
Questi particolari non tolgono nulla all’importanza dell’evento. Nessuna altra formazione jihadista si era spinta così avanti. Bisogna risalire a un proclama del Mullah Omar del 1996 per trovare qualcosa di simile. Ma qui siamo ben oltre. I messaggi, con i loro contenuti generici e i toni concilianti vogliono rassicurare i sunniti iracheni, i siriani e i potenziali volontari da tutto il mondo: uno stato islamico ora c’è e ha un califfo che regna. E poco importa se le necessità politiche che guidano le prime mosse raccolgono per ora soprattutto silenzi. Sono silenzi di attesa, di un mondo sunnita forse stanco, ma anche di jihadisti divisi da rivalità. Jihadisti che sono tentati da una realtà che sta nascendo sul campo di battaglia, per la prima volta, ma anche frenati dai timori che sia un successo effimero.
E se il giudizio politico pare sospeso, anche quello religioso va di pari passo. Una voce potente e passi coranici ben recitati non nascondono i sospetti che un’abile regia rifugga per ora contenuti problematici. E
per questa ragione i musulmani nel mondo attendono di vedere cosa vi è oltre la retorica elementare di un califfato che per la maggioranza non ha alcun significato e che per i jihadisti rimane un punto interrogativo. Nonostante queste prime clamorose apparizioni.

l’Unità 7.7.14
Politici pedofili Un dossier sparito inquieta Londra
di Virginia Lori


Un giro di pedofilia a  Westminster. Un altro scandalo travolge il mondo politico britannico. Secondo quanto anticipato da alcuni siti on line e dalla stampa domenicale di Sua Maestà, più di dieci fra politici ancora attivi ed ex figurano in una lista messa a punto dalla polizia che sta indagando su un giro di pedofilia tra i parlamentari britannici. Nell’elenco figurerebbero deputati e lord dei tre principali partiti, ex ministri e funzionari di Westminster. Alcuni deputati coinvolti, come Cyril Smith e sir Peter Morrison, ormai sono morti.Ma altri sono ancora in piena attività in parlamento. L’esistenza della lista è stata rivelata da Peter Mckelvie. Era stato lui a denunciare per primo il presunto scandalo, che sarebbe già stato oggetto di un dossier negli anni ’80, andato perduto insieme a 114 file riguardanti i personaggi coinvolti. Secondo McKelvie , «ci sono prove sufficienti per aprire un’indagine su almeno 20 parlamentari per fatti che riguardano gli ultimi 30-40 anni. Alcuni di loro sono morti ma altri sono vivi e, in alcuni casi, ancora attivi in Parlamento. La lista c’è». È stato il premier David Cameron ad ordinare l’apertura di una inchiesta interna sul dossier scomparso dopo essere stato affidato al ministero dell’interno. L’allora responsabile era Leon Brittan, era stato lui a ricevere le carte dal deputato conservatore Goeffrey Dickens. Lo scorso anno un’inchiesta interna del ministero dell’interno di Londra ha rintracciato la risposta di Brittan a Dickens. Il ministro spiegava che le accuse «erano state prese in considerazione » e gli «elementi credibili e potenzialmente verosimili» erano stati passati al procuratore per ulteriori indagini. Tutto il resto era stato «trattenuto o distrutto». Di fatto mancherebbero numerosi documenti, verosimilmente fatti sparire per evitare uno scandalo, come ieri sosteneva sul quotidiano The Guardian. Lo stesso Brittan non sarebbe esente da macchie. Secondo l’Independent on Sunday, l’ex ministro tory sarebbe sotto inchiesta della polizia dopo la denuncia di una donna che lo accusa per una violenza sessuale avvenuta nel 1967 quando ancora non era diventato parlamentare. All’epoca la donna aveva 19 anni e la violenza sarebbe stata consumata nell’appartamento di Brittan nel centro di Londra dopo un appuntamento al buio. L’ex ministro degli Interni (dal 1983 al 1985) non ha voluto rilasciare dichiarazioni, ma sarebbe stato ascoltato dalla polizia in presenza dei suoi legali. Cameron vuole stabilire cosa sia successo al dossier, che era stato consegnato all’allora ministro dell’interno. I Labouristi all’allora ministro dell' Interno. I Laburisti chiedono di fare piena luce.

Repubblica 7.7.14
America il sorpasso dell’immigrato d’Oriente
Sono gli asiatici, e non più gli ispanici, la componente maggiormente in crescita dell’immigrazione in America
di Federico Rampini


NEW YORK. MURRIETA , cittadina della California a 90 km da San Diego, è la capitale di un’emergenza- immigrazione: il boom degli immigrati bambini, in costante aumento dai paesi più poveri dell’America centrale. Lincoln, cittadina del Nebraska, è la capitale di una non-emergenza: l’aumento costante, ordinato, per nulla inquietante, della popolazione asiatica. A Lincoln i media locali dedicano un ritratto lusinghiero all’ufficiale Tu Tran della polizia locale. Vietnamita, e punto di riferimento di una comunità etnica tra le meglio integrate nella popolazione del Nebraska. Mentre le ultime ondate di arrivi dal Sud catalizzano l’attenzione e il dibattito politico, il Census Bureau federale che realizza i censimenti demografici rivela una realtà molto diversa: sono gli asiatici la componente più in crescita dell’immigrazione negli Stati Uniti. La loro rivoluzione silenziosa sta cambiando tutto: dalla geografia urbana alle gerarchie socio- economiche. Senza provocare resistenze, o quasi. A Murrieta in California non passa giorno senza una manifestazione di protesta. Da una parte ci sono cittadini indignati che si oppongono all’arrivo dei torpedoni noleggiati dalla Border Patrol. Trasportano minorenni entrati clandestinamente dalla frontiera col Messico. Secondo quei manifestanti, troppi bambini e ragazzi dopo un breve colloquio coi magistrati riescono a rimanere negli Stati Uniti sfruttando leggi permissive sul diritto di asilo. Dall’altra parte dei torpedoni manifestano cittadini altrettanto indignati, contrari alle deportazioni dei ragazzini che non superano l’esame coll’Immigration Office e il giudice. Barack Obama ha dovuto occuparsene anche nel bel mezzo del ponte del 4 luglio, Independence Day. Le leggi sulla regolarizzazione dei clandestini sono prese in ostaggio dal Congresso, nell’estenuante ostruzionismo dei repubblicani maggioritari alla Camera.
Ma la realtà dei flussi migratori è ben diversa dalle apparenze. Uno studio appena pubblicato dal Census Bureau ridimensiona lo “tsunami dal Centroamerica”. Per il secondo anno consecutivo, rivela l’istituto, gli arrivi di asiatici sono stati superiori a quelli degli ispanici. In 12 mesi sono entrati negli Stati Uniti 338.000 asiatici, con un aumento del 68% rispetto alla recessione del 2008 2009, quando la drammatica crisi del mercato del lavoro aveva frenato anche gli arrivi dall’estero. Negli stessi 12 mesi gli ispanici in arrivo sono stati un numero inferiore, 244.000, e per di più in forte calo (meno 60%) rispetto al picco massimo degli ingressi che avvenne nel 2005-2006. Se l’autorevole studioso di geostrategia Samuel Huffington pochi anni prima di morire lanciava l’allarme per una “ispanizzazione strisciante” della società americana, ed altri evocavano scenari apocalittici di una “Mexifornia” (il Messico che ingoia la California), il corso della storia sta deviando in un’altra direzione. È l’America dagli occhi a mandorla, il futuro che prevale. Anche perché tra i due flussi migratori c’è una differenza qualitativa cruciale. La spiega il demografo William Frey della Brookings Institution di Washington su Usa Today: «I mestieri che vengono svolti dagli immigrati ispanici sono per lo più le attività manuali meno remunerate, dalla ristorazione all’edilizia. Attività che hanno ricevuto i colpi più duri durante la recessione». Inoltre, checché ne dica la destra che accusa Obama di lassismo, la sorveglianza della Border Patrol (polizia di frontiera) lungo il confine con il Messico è andata intensificandosi. Negli arrivi dall’Asia, sottolinea Frey, è più consistente invece la quota degli immigrati legali, quelli che hanno un visto regolare. E in ogni caso i due flussi migratori si dirigono verso destinazioni diverse. Gli ispanici finiscono in maggioranza nelle fasce sociali più basse. Gli asiatici-americani hanno un reddito medio superiore agli stessi bianchi, spesso fin dalla prima generazione. Un terzo delle imprese tecnologiche della Silicon Valley sono possedute e dirette da imprenditori e top manager di origine asiatica: cinesi, indiani, coreani.
Il cambiamento del “panorama” etnico e demografico accelera, per effetto dell’invecchiamento del ceppo bianco di origine europea. Le generazioni dei baby-boomer (nati fra il 1945 e il 1965), le più numerose della storia, si avviano gradualmente verso l’età pensionabile. I loro figli sono generazioni “sottili”, tant’è che l’età mediana della popolazione Usa è salita di 2,3 anni nell’ultimo decennio. A compensare questa transizione demografica ci sono gli arrivi degli stranieri.
Gli ispanici restano tuttora la prima componente dopo i bianchi cosiddetti “caucasici” (di provenienza storica dall’Europa): 54 milioni nell’ultimo censimento. Gli asiatici per adesso non sono neppure la metà, hanno appena raggiunto la soglia dei 20 milioni. Ma crescono del 2,9% all’anno, e nei trend di lungo periodo sono destinati ad agganciare e superare altre minoranze. Gli ispanici tendono a crescere soprattutto per effetto delle nascite locali (i figli di chi è già immigrato); mentre per gli asiatici la componente più dinamica della crescita viene ancora dall’immigrazione. Viste le qualifiche professionali di cui sono spesso portatori, e il dislivello d’istruzione in loro favore (nelle classifiche Ocse-Pisa i licei di Seul, Shanghai e Singapore stravincono la gara con quelli americani), per gli asiatici è più facile ottenere l’ambito visto H1-B che le aziende hitech procurano agli ingegneri informatici, e poi la Green Card. Il 74% degli adulti asiatici sono nati all’estero, questo conferma che si tratta di una popolazione recente, giovane, dove i flussi di arrivo prevalgono di gran lunga sulle nascite locali.
Per lo stesso motivo, i cinesi, vietnamiti, indiani e filippini, in media sono un po’ meno giovani dei messicani, ecuadoregni, salvadoregni, guatemaltechi. L’asiatico medio ha 36 anni contro i 28 del latinoamericano. Questo perché nella prima categoria ci sono tanti che arrivano in cerca di lavoro al termine dei loro studi.
In numeri assoluti la California ha la più vasta popolazione ispanica con 15 milioni, seguita dagli asiatici che sono già più di 6 milioni e soprattutto aumentano di circa 150.000 ogni anno. Le Hawaii hanno una maggioranza asiatica. Perfino all’interno delle singole città il mix etnico imprime dei segni paesaggistici e culturali. Little Italy a Manhattan è ormai un’enclave assediata da Chinatown che l’abbraccia e la sommerge; avanza la selva delle insegne al neon con caratteri in mandarino e cantonese. A San Francisco la Chinatown storica continua ad attirare i turisti, ma sta stretta alle ondate dei nuovi immigrati asiatici, che si dirigono verso il vasto quartiere del Sunset o cittadine-satellite come Fremont. Dove meno te l’aspetti accadono metamorfosi come quella del Nebraska, lo Stato che dà il titolo al film di Alexander Payne premiato a Cannes nel 2013: una metafora dell’America profonda, la provincia bianca, tradizionalista e ottusa. Non certo una terra dalle tradizioni cosmopoliti paragonabili a quelle delle metropoli portuali sulle due coste. Eppure il Nebraska sta cambiando fisionomia, a furia di ondate fresche di asiatici. Cominciarono i vietnamiti fin dal 1975 (fuga da Saigon con il ritiro dell’esercito americani; seguita dalla crisi dei boat people; oggi ce ne sono 1,7 milioni su tutto il territorio degli Stati Uniti). Poi nel Nebraska sono arrivati i birmani e perfino gli immigrati del Bhutan. I residenti del Nebraska con origini asiatiche sono aumentati del 70%. E l’ufficiale di polizia Tran ha il suo daffare come interprete e uomo di relazioni pubbliche con la comunità dei 7.000 connazionali.

Repubblica 7.7.14
Quel primo incontro con la “minaccia cinese” alla gara di ortografia
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON. L‘INCONTRO con la “minaccia cinese” ebbe per me il volto sottile e l’espressione terrorizzata di Christie, che era un nome anglo posticcio usato allora da tanti asiatici per sentirsi meno estranei e che lottava contro la mia bambina nella finale regionale per il trofeo dell’ape maledetta.
Nell’America dei primi Anni ‘80, quando i cinesi erano ancora storie di colore per settimanali, magazine televisivi e film noir confinati nelle loro Chinatown e nei ristoranti con i dolcetti della fortuna (inventati da un coreano di Brooklyn) e gli involtini fritti, incontrare una ragazzina cinese e vederla competere nel disumano concorso per chi azzecca l’ortografia delle parole, lo Spelling Bee, era una rarità, soprattutto nel circuito delle scuole cattoliche di Washington. Christie era pallidissima, perché la storia che i cinesi siano tutti “gialli” è come la favola degli italiani che sono tutti grandi “lover” e inciampò su una parola, Diphtheria , la difterite, che la mia bambina, terrea, invece centrò. L’invasione cinese, per un giorno, era stata fermata sul “bagnasciuga” dell’ortografia. Ora che i miei nipoti, i figli di quella bambina, giocano a calcio, a basketball, a baseball, nei sobborghi un tempo slavati e rossicci di pelo come la gente di Dublino, o bruni come i nipoti dell’Italia meridionale, senza neppure notare quei nasi piccoli e quegli occhi sottili, i figli di Christie non devono più neppure fingere di chiamarsi Tom, Frank, Jane o Deborah. Se ancora le Chinatown esistono, e, come a New York divorano gli ultimi resti odorosi di origano e salsicce delle ormai dissolte Little Italy, è soltanto perché un po’ di folklore è sempre buon business per turisti, quando tra gennaio e febbraio cade il Capodanno cinese ed esplodono fuochi artificiali e vendite di paccottiglia attorno alla processione del Drago.
Ma in poco più di una generazione, coloro che nell’800, quando erano schiavi incatenati alle rotaie delle ferrovie in costruzione ed erano sprezzantemente chiamati Chinamen , la ragazzina che vince la tortura della “ape ortografica”, il presidente di aziende, il banchiere, il chirurgo, lo studente con la borsa di studio o il cattedratico sono la normalità come i giocatori africani, turchi o arabi nelle nazionali di calcio svizzere, tedesche o francesi. Si stentano a ricordare i tempi della segretezza, della paura, delle trame fra governi, delle rancorose polemiche politiche fra repubblicani e democratici americani che si accusavano reciprocamente di avere «perduto la Cina», come fosse stata mai loro, e di avere permesso che l’Impero di Mezzo scivolasse nelle grinfie del Grande Maligno in rosso.
Si andava, in un’epoca che oggi è narrata come viaggi di esploratori ed erano appena gli Anni ‘70, al ristorante Yenching Palace su un’avenue di Washington, a mangiare la migliore anatra alla pechinese con la salsa di prugne da questa parte dell’Oceano Pacifico, nella speranza non di squisitezze orientali, ma di intravedere la massiccia sagoma del “Doktor” Henry Kissinger nella penombra di un séparé, intento a divorare catinelle di cibo e a parlottare con uomini inconfondibilmente cinesi. Era un segreto da collegiali il fatto che lo Yenching Palace fosse gestito dal governo di Pechino e usato come un’estensione ufficiosa del lugubre palazzone sulla Connecticut avenue che era, senza esserlo, l’ambasciata della “Cina Rossa” prima che avesse un’ambasciata. Il gestore del ristorante, il migliore (altro indizio dell’orgoglio e della supervisione governativi), non smentì né confermò mai la sua affiliazione con il governo cinese.
Facevano un po’ paura e un po’ ridere, i cinesi, allora prevalentemente di Taiwan, che sbarcavano negli Stati Uniti e restavano ferocemente aggrappati alla propria tradizione, e ai principi confuciani della famiglia, costringendo figli e figli a fare quello che generazioni di emigranti in America prima di loro avevano fatto: a studiare, avendo capito che l’autostrada verso l’integrazione e poi il successo passa per i banchi e per le aule. Era facile ridere dell’approssimativo inglese del primo rappresentante permanente della Repubblica Popolare Cinese alle Nazioni Unite, quando finalmente, nel 1971, fu riconosciuta. Il bravo diplomatico, nell’ansia di garantire l’impegno del proprio governo alla coesistenza, gridò ai giornalisti «Peace! Peace! Peace!» sbagliando clamorosamente la pronuncia. Parve invitare le Nazioni Unite a una corsa sfrenata verso le toilette.
Ma ora che l’ultima risata sembra destinata a essere la loro, insieme con quella di milioni di asiatici che hanno creato dozzine di Little Saigon, Little Bangkok, Little Seoul, Little Manila non più nel cuore oppresso delle città, ma nei sobborghi più respirabili, l’ultimo passo, quello verso il potere politico, è inevitabile. Da negoziatore per la Superpotenza americana, Herr Doktor Kissinger divenne lobbista per la nuova Superpotenza cinese. Il Nobel per la Fisica, Steven Chu, è stato il primo ministro di origine cinese nel Dipartimento dell’Energia dal 2009 allo scorso anno. Altri seguiranno.
Il Palazzo dei misteri e dei complotti ha chiuso le sue cucine cinque anni or sono, quando il gestore o padrone se ne è andato portandosi via per sempre i segreti della sua salsa di prugne e le registrazioni dei colloqui di Kissinger, raccolte con “cimici” nascoste sotto il tavolo e scoperte dal nuovo proprietario, un indiano, che ha ristrutturato il locale. E se un’ombra di nervosismo mi è rimasta per la “minaccia cinese” da quegli anni, la riservo ai molti giovanotti venuti dall’Asia che ogni fine settimana, per 30 dollari a partita, arbitrano i campionati dove giocano i figli della bambina che si misurò con Christie. E saranno anche tutti futuri Nobel della Fisica e della Matematica, ma del fuori gioco di rientro ancora non hanno capito niente.

il Fatto 7.7.14
Grecia
I tagli uccidono la sanità: “Chi non paga è spacciato”
Nel Paese di Ippocrate le cure pubbliche sono state cancellate dalla crisi
di Roberta Zunini


Atene. Non piangeva di dolore, Panayotis, per la perdita fisica del fratello, l'unico familiare che ancora aveva, ucciso dalla tubercolosi. Quando, tre mesi fa, mi ha comunicato al telefono questa insostenibile notizia, il mio amico Panos piangeva perché non aveva avuto la possibilità di dire per l'ultima volta al suo unico fratello quanto gli volesse bene. Il giorno della morte del quarantacinquenne Theo, all'ospedale di Nikea, il più grande di Atene - nonché uno dei tre più grandi dell'area balcanica - quello che serve la periferia dove vive la cosiddetta “working class”, anzi ex classe lavoratrice (dato che non ha più lavoro a causa della disoccupazione) non si poteva entrare in sala rianimazione. “Non c'erano mascherine, né guanti, né camici, quel mattino. Ho dovuto seguire la linea del suo encefalogramma dal vetro, non ho potuto tenergli la mano, né dirgli ti amo e arrivederci da qualche parte. Perché io e Theo ci rivedremo e sarà sicuramente in una dimensione, in un mondo migliore”.
HA RAGIONE Panos, se mai ci sarà un aldilà non potrà che essere migliore perché l'inferno è già qui, sul suolo dove è nata la civiltà e anche la medicina, grazie a Ippocrate. E' l'inferno dei malati, dei loro familiari, dei cittadini greci poveri e disoccupati. E le fiamme di questo inferno -come testimonia la ricerca della rivista scientifica Lancet,
- sono diventate ancora più alte e roventi da quando l'olio, di ricino dell'austerity, imposto dalla Trojka, ha cercato di spegnerle, innescando un paradosso vile e mortale. La morte della dignità del cittadino. Peggio, la morte del cittadino più debole, qual è il disoccupato. Come lo era Theo, che è andato dal dottore quando già stava malissimo perché sapeva che tanto in ospedale non l'avrebbero curato. Avrebbe potuto pagare, questo sì, ma i soldi non li aveva, a meno di non vendere l'unica casa. Secondo una legge, nata ben prima dell'austerity, ma che il governo pro Trojka del premier conservatore Samaras e del suo vice, il socialista Evangelos Venizelos, si è guardato bene dall'abrogare (ingigantendone l'iniquità a causa di una crisi economica senza precedenti) dopo un anno dal licenziamento, si perde il diritto a usufruire del servizio sanitario pubblico. Perché il servizio mutualistico pubblico è agganciato alla busta paga da cui viene trattenuta la tassa destinata a finanziare la sanità pubblica. Niente salario, niente ospedale. La trojka (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Unione Europea) hanno fatto il resto, imponendo il licenziamento orizzontale di centinaia di “civil servants”, i lavoratori del servizio pubblico, tra i quali ci sono medici e infermieri.
Yiorgos Vihas è un cardiologo da premio Nobel per la pace, ma lui dice di fare semplicemente il proprio dovere, cioè “curare, non omettere di prendersi cura di chi è malato, fisicamente e psicologicamente. E' il nostro primo dovere, a cui noi medici promettiamo di tenere fede attraverso il giuramento di Ippocrate”. Da tre anni, Vihas, che tanti anni fa ha imparato l'italiano “per nutrire la sua anima”, vive così: il mattino lo trascorre visitando nel centro pubblico per malati cronici di Agyos Dimitrios, il pomeriggio invece lo passa presso la clinica sociale metropolitana di Ellinikò (metropolitan social clinic of Elliniko, per chi volesse cercare ulteriori informazioni sul sito in lingua greca e inglese) da lui fondata, e la sera ad aggiornare l'elenco dei pazienti rifiutati dagli ospedali, dopo aver chiamato al telefono i direttori dei nosocomi per convincerli ad accettarli. “Non faccio tutto io, da quando è nata la clinica si sono aggiunti altri 100 medici e 200 tra infermieri e personale. Siamo tutti volontari, non accettiamo soldi ma solo donazioni di strumenti, macchinari sanitari e medicine. Ora copriamo tutte le specializzazioni e abbiamo 7 ambulatori, oltre a una stanza dove teniamo le medicine che portiamo e ci portano i cittadini di buona volontà”. Quando gli chiedo perché mai il direttore di un ospedale dovrebbe violare la legge, mi risponde che anche loro - molti sono suoi conoscenti dato che il dottor Vihas ha lavorato per anni negli ospedali pubblici della capitale greca – gli fanno questa domanda.
“A quel punto io rispondo ricordandogli l'Antigone di Sofocle, uno dei nostri padri. Antigone volle seppellire il cadavere del fratello Polinice contro la volontà del nuovo re di Tebe, Creonte, e noi vogliamo curare i malati nonostante i politici che ci hanno governato e governano, abbiano fatto questa legge ingiusta e disumana”.
CERTO, L'ANTIGONE. Il capolavoro di Sofocle riflette sull'eterno conflitto tra autorità e potere, tra le leggi umane e quelle superiori, divine, e sulle terribili conseguenze scatenate dalle violazioni di queste ultime da parte dell'uomo. Una di queste conseguenze ricade sui figli dei disoccupati, grandi e piccoli. “Negli ospedali fino all'anno scorso c'era scarsità di vaccini per i bambini. Ora invece c'è disponibilità perché anche i bambini dei disoccupati da più di un anno, come i loro genitori, non hanno più diritto a essere curati in ospedale e pertanto nemmeno vaccinati”, conclude il dottor Vihas. Se dunque oggi, purtroppo, i vaccini languono nei frigoriferi dei reparti pediatrici, negli ospedali manca di tutto. Stavros Sevastopoulos è un giovane gastroenterologo che lavora presso vari ospedali. “Tranne Nikea, che è già messo, male, negli altri non si vede più l'ombra di un endoscopio per l'esame del colon, pertanto non possiamo più diagnosticare il cancro di quella zona dell'organismo, uno dei più comuni, che costringe peraltro i malati non diagnosticati, e quindi senza cure, a lunghi periodi di assenza dal lavoro.
QUESTE PERSONE, già sofferenti, vengono in seguito licenziate per assenteismo. Soprattutto chi lavora nel privato. E' un circolo vizioso: se sei malato e non ti curano in modo appropriato perché non ci sono i mezzi a causa dei tagli, ti assenti dal lavoro perché non riesci fisicamente ad andarci e quindi ti licenziano, ma, a quel punto, anche se i medici scoprono la tua malattia, è troppo tardi e comunque, essendo stato licenziato, non potrebbero curarti”, spiega il gastroenterologo. Vihas, nei prossimi giorni invece tornerà alla corte europea dei diritti dell'uomo a cui si è già rivolto mentre attende di sapere cosa ha deciso il tribunale di Atene, che non è più l'Aeropago, descritto nell'Orestea di Eschilo, dove si perseguiva una giustizia uguale per tutti. “Ho portato ai giudici una lista di 100 casi di pazienti morti per non aver ottenuto le cure necessarie. Ho denunciato lo Stato greco, il mandante di questa infamia”.

il Fatto 7.7.14
La chiamano austerity ma è una tagliola mortale
Da quando è scoppiata la recessione la mortalità ha raggiunto i livelli del 1949
di Chiara Daina


Dopo quattro anni di austerity, la Grecia è costretta a fare i conti con la vita. Chi l’avrebbe mai detto che la mortalità potesse salire ai livelli del secondo dopoguerra? Nel 2012 si sono registrati 116.670 morti, la cifra più alta dal 1949, circa 20 mila in più rispetto al periodo pre-crisi (esplosa nel 2008), di cui un terzo causato dal divieto di accesso alle cure. La stima si legge nell’articolo uscito su Lancet, rivista scientifica di riferimento per la comunità internazionale, a firma di Nikolaos Vlachadis, medico della Scuola nazionale di sanità pubblica di Atene. I numeri sono da bollettino di guerra: su 11 milioni di abitanti, oltre 800 mila hanno perso l’assistenza sanitaria gratuita perché rimasti senza un lavoro, unica garanzia per godere del diritto alla sanità. Secondo l’Istituto di statistica ellenico, dal 2008 è diminuita la speranza di vita in quasi tutte le fasce di età: sotto i cinque anni, tra i nove e i 35, e over 55.
LA MORTALITÀ INFANTILE, la più impressionante, è schizzata addirittura del 43 per cento in due anni, tra il 2008 e il 2010. Al culmine della crisi economica, quando il Governo di Antonis Samaras inizia la serie di tagli drastici alla spesa pubblica, cinque madri ogni centomila muoiono al momento del parto (cinque volte di più rispetto al 2003). Per non parlare del tasso di nascite, precipitato del 15,2 per cento. Non stupisce, visto che la disoccupazione quasi si è triplicata, passando in un batter d’occhio dal 13 al 27 per cento. E con i giovani più di tutti appesi al filo della precarietà, non poteva che alzarsi l’età delle donne che ha il primo figlio: a 40 anni (più 11,7 per cento) ma soprattutto oltre i 45 (più 36 per cento).
A causa di manovre lacrime e sangue il contesto sanitario greco è da Apocalisse. In poco tempo, lo Stato ha falcidiato il budget per la salute al sei per cento del Pil, da cinque anni con il segno negativo (da meno 0,8 nel 2009 a meno 3 nel 2013), tanto che oggi è la più bassa di tutta l’Unione europea. Solo per citare una mossa da brividi: il colpo di forbice del 25 per cento, tra il 2009 e il 2011, al fondo per gli ospedali pubblici. L’ordine arriva dall’alto: la Troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Unione europea) chiede di ridurre la spesa farmaceutica da 4,37 miliardi nel 2010 a 2,88 nel 2012 fino ai due miliardi quest’anno. L’effetto è stato catastrofico. Il ticket per le visite ambulatoriali è cresciuto da 3 a 5 euro. Ce n’è uno anche per i ricoveri ospedalieri: 25 euro a notte. Si paga per avere alcuni farmaci, che prima erano mutuabili. Addirittura da quest’anno ha un prezzo anche la prescrizione medica (un euro l’una). Un’operazione per togliere un tumore all’intestino invece costa 12 mila euro.
INTANTO MALATTIE che si credevano debellate sono ritornate a seminare stragi. Come la malaria, assente da quarant’anni: molti ospedali non hanno i soldi per comprare gli spray contro la zanzara infettante. Tra chi fa uso di droghe l’incidenza del virus HIV è cresciuta di dieci volte dal 2010 al 2012, quella di tubercolosi invece è raddoppiata. E poi la ricomparsa della sifilide.
I casi di depressione sono triplicati e i suicidi sono cresciuti del 45 per cento dal 2007. Anche il diabete fa paura: “La gente povera- spiega Nikitas Kanakis, medico greco di Doctors of the world - si nutre soprattutto di pane e pasta, alimenti a basso costo, che però provocano l’aumento di glicemia nel sangue”. Doctors of the world, organizzazione internazionale non-profit, in Grecia soccorre oltre mezzo milione di cittadini che non hanno i mezzi per curarsi. “Nel 2013 abbiamo fatto 9 mila vaccini a sei mila bambini, il triplo rispetto all’anno precedente - sottolinea il medico -. Oggi il 60 per cento dei nostri pazienti sono greci, fino al 2010 erano solo l’8 per cento”.
Il Governo Samaras tace e se può fa finta di niente. “Abbiamo chiesto un incontro al ministro della Salute Adonis Georgiadis - continua Kanakis - ma non ci ha mai risposto. Noi non possiamo sostituire il sistema sanitario nazionale e contare solo sulle donazioni”. Un passo in avanti è stato fatto il primo luglio quando il Governo greco ha annunciato che coprirà dal 75 al 90 i costi delle cure per chi ha perso il lavoro.
Il bilancio resta impietoso e l’austerity forzata si è trasformata nella peggiore trappola della sopravvivenza per i greci.

La Stampa 7.7.14
Vacanze in Crimea e solo film russi Le mosse di Putin per restare grandi
Mosca lancia l’offensiva patriottica contro l’Occidente e limita importazioni e “influenza”
di Mark Franchetti


Sono passati solo tre mesi da quando il Cremlino si è impadronito della Crimea, ma sta già mettendo sotto pressione gli enti statali russi perché mandino i loro dipendenti a passare le vacanze estive nella penisola contestata. 
Il ritorno all’epoca sovietica è parte di una più ampia campagna avviata dal presidente russo Vladimir Putin per incoraggiare il suo popolo a scegliere tutte cose «Made in Russia». 
Rostourism, l’agenzia turistica federale, ha inviato lettere alle maggiori società statali russe «suggerendo» loro di acquistare pacchetti turistici per la Crimea per decine di migliaia di lavoratori. 
È un ritorno alla «putyovka» dell’era comunista, la festa per i dipendenti sponsorizzata dallo Stato che era uscita gradualmente di scena dopo il crollo dell’Unione Sovietica, oltre vent’anni fa. Come ulteriore aggiunta alla pressione esercitata sugli enti statali per incoraggiare i dipendenti ad andare in vacanza solo in Russia, il Fronte Popolare, un movimento politico che sostiene Putin, si è scagliato contro la «mancanza di patriottismo» di diverse società statali che hanno sovvenzionato vacanze all’estero per i figli dei loro dipendenti. «Che razza di cittadini stiamo facendo di questi bambini a cui è stata negata la possibilità di vedere il loro Paese e socializzare con i coetanei provenienti da altre regioni?», ha detto Olga Timofeyeva. 
Dietro le pressioni del Cremlino per promuovere la Crimea c’è anche un tentativo di salvare la penisola del Mar Nero da una stagione disastrosa. Probabilmente pochi tra gli ucraini - che erano soliti andarci in vacanza in gran numero - quest’anno ci torneranno, in segno di protesta contro l’invasione russa. Ed è probabile che i russi non viaggeranno in treno attraverso l’Ucraina per evitare i combattimenti nella parte orientale del Paese. 
Colto di sorpresa dalle sanzioni nuovamente inflitte alla Russia e desideroso di sfruttare al massimo il fervore patriottico che attraversa il Paese dopo la riannessione della Crimea, Putin ha ordinato al Cremlino di limitare le importazioni e l’influenza occidentali. 
Il Ministero della Cultura sta valutando l’imposizione di una severa regolamentazione sull’importazione di film stranieri e l’incremento dei finanziamenti in favore dell’industria cinematografica nazionale. Oggi in Russia il film di maggior successo ai botteghini – e che ha ricevuto un finanziamento statale - è «Stalingrado», una pellicola epico-patriottica sulla battaglia per la città durante la seconda guerra mondiale, uscita lo scorso anno. Significativamente «Leviathan», satira sociale sulla Russia, che il mese scorso ha vinto uno dei premi più ambiti al Festival di Cannes ed è stato venduto a più di 50 Paesi, non verrà proiettato in patria. 
Il film violerebbe una legge approvata di recente che vieta le imprecazioni fortemente voluta da Vladimir Medinsky, il ministro della Cultura russo, noto per le sue opinioni ultrapatriottiche e ultraconservatrici. 
Il ministro ha confessato di non amare «Leviathan». «I russi non bevono così tanto», pare abbia detto. In sintonia con la nuova tendenza una tv a partecipazione statale ha lanciato un canale per bambini che metterà in onda solo cartoni animati realizzati in Russia. 
La nuova normativa viene presa in considerazione anche per imporre pesanti multe contro l’uso pubblico di parole straniere, allo scopo di tutelare la lingua russa dalle «contaminazioni». Chi usa parole come «killeri» e «gadzhet» potrebbe dover pagare fino a mille euro di multa.
Il tutto avviene in un momento in cui il sentimento anti-occidentale è all’apice in seguito alle ricadute della vicenda della Crimea e alla crisi in corso in Ucraina orientale. Secondo gli ultimi sondaggi, il numero di russi con un «atteggiamento molto negativo» verso gli Stati Uniti è quasi triplicato da marzo, raggiungendo il 31 per cento. Solo il 15% ha un atteggiamento «generalmente buono» verso l’America, in calo dal 46% dello scorso anno. 
Il trend negativo e la spinta a promuovere i prodotti «made in Russia» sono in netto contrasto con la passione sfrenata per tutte le cose occidentali che aveva preso il Paese durante gli ultimi giorni del regime comunista. 
Durante il comunismo i posti di lavoro statali che garantivano il raro privilegio di viaggiare in Occidente erano estremamente ambiti - soprattutto perché permettevano alla gente di tornare a casa con beni come jeans, elettrodomestici e film occidentali. «Alla fine degli Anni 80 e nei primissimi Anni 90 a Mosca eri veramente “cool” se indossavi jeans americani», ha detto un ex trafficante del mercato nero. «E se avevi un lettore video vhs portato dall’Occidente, eri una superstar. Nei primi Anni 90 rimorchiavo le ragazze fingendo di lavorare per una società occidentale. Quei giorni ormai sono lontani».

La Stampa 7.7.14
Quando Hitler cercava gli avi in Grecia
Tornano ad Atene i reperti con cui Berlino voleva provare le radici germaniche dei greci
di Tonia Mastrobuoni


Oggi una trentina di casse con 8523 reperti archeologici trafugati dai nazisti torneranno al legittimo proprietario: la Grecia. Sarà il ministro della cultura Kostas Tasoulas ad accogliere 375 chili di statue, vasi, gioielli, armi e altri materiali risalenti a 7200 anni fa e provenienti dal museo di Unteruhldingen.
Nel 1941, nel folle intento di dimostrare che i greci discendessero dai germani, una spedizione di archeologi tedeschi guidata da Hans Reinerth scavò per sei massacranti giorni nelle colline attorno a Salonicco e portò i reperti di nascosto in Germania. A distanza di 73 anni si chiude un’odissea incredibile che si è trascinata con molte ombre anche durante la Germania repubblicana.
Chi ha letto Mein Kampf, il manifesto socialdarwinista di Hitler, sa che nell’aberrazione del concetto di «ariano», un termine sanscrito con cui i popoli indoeuropei si autodefinivano, i nordeuropei ne sarebbero i discendenti più puri e biologicamente superiori, una «razza padrona» che ha bisogno di «spazio vitale» per evolversi.
Scopo di molte missioni archeologiche delle camicie brune in Francia, Danimarca, Norvegia, Repubblica Ceca o nei Balcani fu quello di indagare le origini delle popolazioni indoeuropee, ma anche di dimostrare l’esistenza di una primordiale «Grande Germania». È noto anche che Heinrich Himmler avesse creato una «Ss-Ahnenerbe» («Ss-eredità-degli-antenati») spedendo ad esempio lo zoologo Ernst Schäfer fin nell’Himalaya per trovare tracce delle origini della presunta «razza ariana».
In questo delirio collettivo, Reinerth partì per la Grecia nel 1941 e riuscì a trovare migliaia di reperti archeologici nella regione di Salonicco e in particolare a Velestino, nessuno dei quali ovviamente utile a dimostrare la tesi della presenza dei germani in loco, nel cinquemila avanti Cristo. Ma in anni in cui non era ancora stato scoperto il metodo del carbonio per datare con affidabile precisione i ritrovamenti, Reinerth mise in moto la fantasia. Spostando qualche pietra di là e di qua, ricostruì il presunto basamento di una casa rettangolare, tipica delle popolazioni nordiche. E stilò rapporti entusiastici sulla sua trionfale scoperta. I materiali, scrisse, sono tracce di «edifici paleogreci, di fattura nordica».
Tornato in Germania con il suo tesoro, Reinerth andò incontro a una terribile delusione. Forse il Führer si aspettava che l’archeologo gli riportasse statue, colossi, un palazzo intero, insomma testimonianze inequivocabili della grandeur paleotedesca e non frammenti di vasi in terracotta. Non gli srotolò tappeti rossi. Lo ignorò, persino.
La guerra, intanto, infuriava e costrinse lo zelante archeologo a spedire i materiali a partire dal 1943 nelle città più disparate per proteggerlo dai bombardamenti. Quelli che tenne per sé li incartò con copie dell’organo nazista «Völkischer Beobachter» e li nascose in cinque grandi scatole di legno. Nel 1945 il partito nazista espulse Reinhert perché scoprì che aveva laureato ebrei sino al 1945. Dopo la guerra, l’archeologo fu comunque imprigionato dai francesi per tre anni e processato.
Successivamente, nel 1953, riconquistò la sua cattedra e più tardi diresse il museo di Unteruhldingen cui lasciò nel 1990 una parte dei reperti di Salonicco. Nei decenni fino alla sua morte aveva cercato ripetutamente di dimostrare la veridicità della sua tesi e di proteggere i materiali, ma era stato trattato da paria dalla comunità scientifica. Molti altri archeologi in prima fila dell’operazione «Ss-Ahnenerbe» furono invece totalmente riabilitati: Herbert Jahnkuhn insegnò a Gottinga e riprese addirittura scavi iniziati durante gli anni di Hitler come quelli dei villaggi dei vichinghi a Haithabu. Anche a un pezzo grosso delle Ss e comandante di lager Gustav Riek fu riassegnata una cattedra universitaria.

Corriere 7.7.14
Quando Heidegger sul palco pensò: non sono un cretino
di Emanuele Trevi


Perché si prendono certi impegni inutili e assurdi, che finiscono puntualmente per trasformarsi in figure di merda.
Lo volete sapere perché Martin Heidegger, un individuo così mite e distinto, diventò nazista — lui che non sarebbe stato capace di far male a una mosca? Pur esprimendo un discutibile amore per il suolo natio, non c’è, in effetti, un’oncia di vero nazismo nel pensiero del povero Martin. E allora? Allora lui era nazista perché i nazisti lo chiamavano al telefono. Come va, Herr Professor? Appiamo pizogno ti lei! Zuo penziero è fontamentale per Cermania! Ma davvero?, si chiedeva lui, grande esperto di tutte le forme dello stupore umano. Non avranno sbagliato numero? No, era proprio lui che cercavano: l’autore di Essere e tempo. Lo facevano sentire importante. Considerato. Lo invitavano alle loro parate, alle inaugurazioni. Lo passavano a prendere in macchina. La moglie, quella che preparava le torte, era contenta. Gli faceva bene, al Professor, vedere qualcuno. A volte i nazisti lo mettevano su un palco tutto addobbato di svastiche e aquile, a discorrere di cose per loro incomprensibili. E mentre quei criminali sonnecchiavano, aspettando educatamente che lui arrivasse alla fine, prendeva corpo la più grande figura di merda della storia della filosofia.
Ma lui, poveretto, non ci arrivava. Come poteva? Rientrava forse nei suoi doveri di profondo pensatore quello di far caso a quei lugubri addobbi, a quella gentaglia che lo applaudiva, prima di riportarlo a casa? Il suo unico pensiero sarà stato: allora funziona. Allora non sono cretino.

l’Unità 7.7.14
Se camminare è rivoluzionario
Nel Lazio attraverso luoghi e santuari dove si è svolta la vita di S. Francesco
di Jolanda Bufalini


LA ROCCA DI SAN FELICE DI CANTALICE È A METÀ STRADA FRA POGGIO BUSTONE e La Foresta, due luoghi del cammino di Francesco, il percorso è lungo un sentiero in mezzo al bosco, indicato dalla segnaletica in legno, prima largo, poi, finalmente, si trasforma in una stretta cengia odorosa e fiorita di ginestre, alla fine della quale, alle pendici del Terminillo, appare improvviso il paese arroccato. Le fontane e i fontanili sprizzano un'acqua buonissima. L'acqua del Terminillo che disseta mezza Roma.
Il genius loci di Poggio Bustone ha dato i natali a Lucio Battisti, che fa concorrenza, in fama, al Poverello. All'inizio del paese, prima del santuario, ne «i giardini di marzo» una statua celebra il musicista. Poco più in alto, verso il santuario, il bar tabacchi affacciato sulla piana di Rieti, alla domenica pomeriggio esprime l'ospitalità dei luoghi trasformandosi in piazza-salotto, ci si siede, chi vuole consuma ma non è obbligatorio, il wifi è free. Molti giocano a carte.
Si entra a Poggio, si passa sotto un archetto medievale, al bivio si può scegliere: a sinistra verso La Foresta, a destra verso Greccio. Quella che percorriamo è chiamata «la valle Santa», luoghi, santuari, dove si è svolta una parte importante della vita e della predicazione di Francesco, cacciato da Assisi. A Greccio (che oggi è un luogo salvaguardato dall'Unesco) fu il primo presepe, la prima rappresentazione della natività. Fontecolombo è il monte dove fu stilata la severa Regola dell'Ordine: povertà, castità, umiltà. A guardarlo sulla cartina questo percorso circolare, che inizia dal palazzo papale di Rieti, ogni tappa una ventina di chilometri, sembra una costellazione celeste, come quella delle Pleiadi. Promette lunghe passeggiate e meditazione, cibi genuini (come è capitato a noi alla «Pannocchia», sotto Cantelice) e la scoperta di costruzioni medievali, di chiostri e di affreschi.
Quella del camminare è una rivoluzione lenta, come lento è il piede che la conduce. Ma è anche una rivoluzione inarrestabile, non c'è crisi che la possa fermare. Ed una rivoluzione della conoscenza e dell'autocoscienza, perché la lentezza invita a guardare dove metti i piedi e quali erbe, quali ciottoli, quali pietre antiche calpesti, e i piedi entrano in contatto con il cuore e con il cervello, mettono distanza tra te e lo stress, creando attorno al corpo un piccolo alone di libertà. C' è ormai una letteratura vastissima dell'esperienza del cammino. Da Wu Ming II alla collana Contromano di Laterza (per esempio: Simona Baldazzi, Il Mugello è una trapunta di terra), scoperte laiche di una saggezza che, non per caso, è propria delle religioni positive e delle filosofie, da Aristotele alle pratiche buddiste. Fra i libri quello di un amministratore e politico romano che ha abbracciato la filosofia buddista, Adriano Labucci, Camminare, una rivoluzione, uscito da Donzelli qualche anno fa. Ho trovato, persino, uno scritto inedito di Arturo Carlo Jemolo, scritto ai primordi della civiltà dell'automobile, nel quale lo storico, senza negare la comodità delle quattro ruote, rivendica che la vera conoscenza, delle cose e delle persone, non si può avere senza entrare nei vicoli e nei sentieri. Persino papa Francesco, appena eletto, scelse la parola «camminare» e scese dalla papamobile, per significare il senso del suo apostolato.
Un movimento di viandanti e pellegrini, viaggiatori low cost che portano vita in terre ricche di arte e natura ma che, senza linfa nuova, rischiano la desertificazione. Le istituzioni in Italia maneggiano con difficoltà il fenomeno, incerte fra il gigantismo della via Francigena, il flusso autostradale dei pellegrini in pullman e tentativi di valorizzazione delle energie del territorio. La Regione Lazio sta provando questa strada, Nicola Zingaretti ha scoperto l'incanto di Greccio ancora prima di essere eletto. Il progetto Abc (arte, bellezza, cultura) curato da Giovanna Pugliese ha trovato un interlocutore appassionato nel comune di Rieti e nei 9 comuni della Valle Santa in cui si trova memoria del passaggio di Francesco, fra querceti e specule, chiese romaniche e santuari. Il sindaco di sinistra, Simone Pietrangeli, ha scelto alcuni assessori fuori dai partiti, fra questi c'è Diego Di Paolo (delega a culture e turismo), che per primo ebbe l'idea di tracciare il «cammino di Francesco» nel 2003. Dopo molte vicissitudini, questa sera, prende il via una serie di iniziative, durante il mese di luglio, per rilanciare il «cammino». Si inizia con una «lezione» di Massimo Cacciari, al teatro Vespasiano di Rieti (ore 19), autore di Doppio ritratto, Adelphi 2013, di Gesù e del Poverello. Si continua con concerti e teatro, fino a Pierpaolo di Giorgio Barberio Corsetti, una partita di calcio e spettacolo dedicato a Pasolini, che si terrà a metà settembre.
Spiega Diego Di Paolo che il gigantismo può essere un nemico di progetti come questo, quello che gli piacerebbe sono «piccoli finanziamenti finalizzati e verificati nella loro efficacia», il primo per la segnaletica dei sentieri, il secondo per l'ospitalità low cost: «Nel cammino di Santiago, prima che diventasse l'industria attuale, c'erano gli alberghes (ostelli) pubblici dove pernottare costa dai 3 ai 5 euro, e gli alberghes privati, al costo di 6-12 euro». Nell'idea di Diego Di Paolo, le scuole rurali dismesse e disperse nei centri francescani del reatino, potrebbero diventare la rete degli «alberghes». Ecco la rivoluzione lenta che si fa con i piedi: «Già oggi - spiega l'assessore - arrivano fra i 7 e i 10.000 pellegrini o viandanti, che significa, per l'economia locale, 30.000 pernottamenti, 60.000 pasti. Raddoppiare questa cifra è possibile e compatibile con l'ambiente». E significa lavoro, «quando oggi la gran parte dei ragazzi che ha lavoro, fa il pendolare con Roma». Persino il problema dei problemi dell'Italia odierna, il dissesto del territorio, avrebbe almeno una parziale soluzione. Infatti chi vive in un territorio e non, semplicemente, lo usa come dormitorio per allontanarsi la mattina presto, verso un ufficio o verso la cassa di un supermercato o la postazione di un call center, lo mantiene, spontaneamente, con la sola presenza, percorrendo strade e sentieri, sui costoni montani.

l’Unità 7.7.14
Quello che ha lasciato Riccardo Lombardi
di Bruno Ugolini


CHE COSA RESTA DI RICCARDO LOMBARDI, IL DIRIGENTE PRIMA DEL PARTITO D'AZIONE, POI DEL PARTITO SOCIALISTA? UNO STUDIOSO che, insieme a Bruno Trentin e Vittorio Foa, immaginava un nuovo assetto sociale basato sulla partecipazione dal basso, cominciando dai luoghi di lavoro? Proprio di una possibile eredità lombardiana ha discusso a lungo un convegno organizzato a Roma presso la fondazione Basso. Gli atti di tale incontro, nato da un'idea di Antonio Bevere, (dieci relazioni e sette interventi a una tavola rotonda), sono stati raccolti in un quaderno della Fondazione Brodolini curato da Enzo Bartocci. Ed é proprio nella presentazione dell'iniziativa che Tommaso Nencioni si chiede, che cosa ne è stato del tema «della necessità dell’intervento dello Stato in economia, ora che la ventata liberista dell’ultimo trentennio ha mostrato empiricamente la corda?». Oppure del tentativo di rinnovare la cultura politica del socialismo, «dopo un ventennio di perdita totale della bussola per la sinistra italiana e continentale?».
Un'eredità ancora utile oggi, dunque, offerta da un uomo contrassegnato, come sottolinea Andrea Ricciardi, da «antidogmatismo ideologico e radicalismo programmatico». C'è in tutta la proposta di Lombardi, come sottolinea Michele Prospero, l'intento di coniugare azione di governo a spinta dal basso. Spesso entrando in contrasto sia con le prudenze del Partito comunista, sia con le posizioni di altri esponenti socialisti. Così quando insiste sul «ruolo del controllo operaio, dei contropoteri, dei consigli, dell'autogestione». C'è anche, nella ricca documentazione esposta nelle relazioni, un’interessante lettera rivolta nel 1946 alla Confederazione Generale Italiana del Lavoro.
Lombardi «invitava la Cgil a prendersi responsabilità politiche in una delicata fase di passaggio». Inoltre il sindacato era chiamato a occuparsi di tutto il popolo lavoratore e dei disoccupati, non soltanto di chi era già inserito nel processo produttivo. Parole che suonano oggi di grande attualità. Una parte importante del convegno è stata dedicata a quella che è stata una delle battaglie centrali condotte da Riccardo Lombardi, ovvero la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Una vicenda analizzata a fondo da Guglielmo Ragozzino che accosta la capacità, anche politica, di Lombardi con certe prudenze di oggi, con tre partiti, difronte alla Merkel e allo spread, «indecisi a tutto».
Cinquanta anni fa Lombardi riuscì a far passare una richiesta decisiva per la formazione del governo tra Dc e Psi e poi a «comporre tutti gli interessi contrapposti di partiti e poteri economici». Venne così a capo di ogni difficoltà, «tirando un filo della matassa dietro l’altro, senza perdere la calma, con un’ammirevole capacità». Eppure gli ostacoli in campo non furono certo pochi. È Antonio Bevere a ricostruire le vicende del Piano Solo guidato dal generale De Lorenzo e mirato a far saltare i propositi lombardiani. Già il presidente della Repubblica, Segni, aveva segnalato al presidente del Consiglio Aldo Moro come il progetto per la programmazione economica del ministro del Bilancio Antonio Giolitti rappresentasse il «primo passo per uscire decisamente dal sistema economico attuale». Avrebbe provocato «un mutamento radicale dell’attuale sistema economico, costituendo lo Stato imprenditore, commerciante ecc. che, poco a poco, sottrarrà ai privati tutte le sfere dal programma lasciate ancora...». Fatto sta che il Piano Solo, commenta Bevere, ha avuto un effetto «educativo» per tutti coloro «che sono stati poi ammessi alla stanza dei bottoni: nessuno ha più osato mettere in discussione concretamente la superiore legge del profitto...».
Un riformista-rivoluzionario, secondo la definizione di Paolo Franchi, un uomo che, ricorda Enzo Bartocci, «affacciato sul futuro, ce ne svelava gli arcani». Può essere utile al nostro futuro? C'è una lettera, ripresa da Nerio Nesi in cui Lombardi dichiara, rievocando le sue origini azioniste, che «la critica dei partiti di sinistra non era diretta alla pretesa puerile di sostituirli, ma alla fiducia, che si riteneva fondata, di una nuova situazione ove tutto il movimento operaio sarebbe stato indotto a completamente rinnovarsi partendo dalla cancellazione, si può dire per decesso spontaneo, del grande scisma...». Non siamo forse ora a questo punto? E comunque Lombardi concludeva invitando ad evitare «sia il pianto greco sulle nostre illusioni giovanili sia il disimpegno nelle lotte di oggi, che, per il bene e per il male, sono profondamente legate a quelle di ieri. C’è ancora tanto da fare».

il Fatto 7.7.14
Zevi, come cambiano i nostri monumenti
di Furio Colombo


Il libro è inaspettato. Infatti sorprende il punto di partenza: esame e critica di ciò che è stato costruito come forma di monumento, in memoria della Shoah. Il punto di arrivo di Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre di inciampo (Donzelli editore) è molto più importante del proposito dichiarato. E c’è da domandarsi se la stessa autrice, Adachiara Zevi, architetto e storica dell’Arte, si sia resa conto, nel mettersi al lavoro, che stava cambiando un capitolo nella storia del costruire per celebrare. C’è un limite (la rassegna delle opere dedicate, nel mondo, a lasciare un segno di orrore e dolore per la immensa tragedia della Shoah) che viene valicato per dare luogo a un discorso del tutto nuovo che ruota intorno alla domanda: “Che cosa è un monumento oggi, dopo ciò che l’umanità ha vissuto?”.
ZEVI SI RENDE CONTO che l’idea di monumento, più grande della realtà, più bello dell’immagine originale, dove il vissuto viene celebrato moltiplicandone tutto, non serve più, perché è stata la vita a moltiplicare, in modo grandioso, spaventoso e inimmaginabile, ciò che l’umanità non poteva neppure concepire. Che cosa fa uno scultore, un architetto, un artista, un comitato incaricato della evocazione di un evento, quando si accorge che l’immensità dei fatti ha superato di gran lunga l’immaginazione, e che la natura dei fatti impedisce che si possa pensare al monumento come celebrazione? Adachiara Zevi, (che aveva già contribuito alla riflessione sulla architettura e sull’arte, con testi come Arte Usa del Novecento, Peripezie del dopoguerra nell'arte italiana, L’Italia nei Wall Drawings di Sol Le Witt) risponde in due modi. Uno è la rassegna accurata e ricca di notazioni critiche di ciò che è stato fatto nel mondo lungo un nuovo percorso ovvero il monumento come atto civile. L’altra è la elaborazione di reperti nuovi, coraggiosi, in una teoria del gesto materiale di testimonianza che è ormai altrove perché, in questa situazione storica, morale, culturale, tutto è cambiato e niente può esprimersi in forme tradizionali.
Balza in primo piano il valore delle “pietre di inciampo” che esistono nei pressi di tutti i luoghi che hanno visto accadere fatti della Shoah e che sono il contrario del monumento: un oggetto troppo piccolo, non per narrare una realtà troppo grande ma per notificarla. Il percorso di Adachiara Zevi, però, porta più lontano. Porta a constatare la fine del monumento “upper class” e “borghese” come celebrazione, la dislocazione dei gruppi scultorei, generati da un desiderio di glorificazione funeraria che non ha più alcun contesto culturale che li possa accogliere. Ciò che è accaduto e continua ad accadere fa si che le vittime segnino la storia, tolgano spazio a presunti eroi e generali. La pietra di inciampo significa ben di più perché non parla a nome delle vittime. Chiede silenzio perché le vittime parlino. Il mutamento è grande, e questo è il testo che lo racconta, come atto primo e rivoluzionario di una nuova cultura.

il Fatto 7.7.14
Lecce, città inzuppata nel latte
di Tomaso Montanari


IL SEGRETO DEGLI ARCHITETTI
Lecce è un biscotto. Tutto traforato, decorato, stampigliato.
E infatti Lecce è stata inzuppata nel latte, tanto tempo fa. Davvero, sul serio: gli scultori e gli architetti del Seicento avevano capito che per farla durare, la pietra morbida che tagliavano e scolpivano (il leccisu), bisognava impregnarla di latte. Così sarebbe diventata impermeabile, e col tempo si sarebbe indurita. Lo scrive un poeta, nel 1635: le pietre a Lecce sono così numerose che nessuno ci fa caso. E sono tenere, come un legno giovane – dice ancora: ma dopo che vengono tagliate «in loro passa virtute che le pregia e che l'indura: mirabili a vederle». Poi, col passare dei decenni e dei secoli, quella pietra prende il color del miele, biondo e solenne. Ecco: Lecce è una città di latte e di miele, come quelle di cui si parla nei Salmi.
E nel latte e nel miele vivono migliaia di figurine, animate e misteriose. Putti grassocci e goffi che si abbracciano per non cadere nel vuoto, circondati da cherubini e serafini affogati tra i festoni di verzura. E ancora aquile, draghi, leoni, unicorni, scimmie e pirati turchi: tutti a reggere le mensole su cui posano santi timidi, o quelle su cui si agitano altri santi più estroversi, quasi esibizionisti. E ovunque frutta: festoni, cesti, trionfi, monti di frutta di ogni tipo. Ci sono terrazze rette da sette o otto cavalli alati, e scritte di pietra srotolate da legioni di angioletti sbarazzini. Interi alberi di pietra, abitati da uccelli del paradiso, crescono sulle facciate delle chiese: e uno pensa che sia di zucchero filato, questa città meravigliosa e struggente. E poi ancora: dalle pareti sbucano donne che pregano a mani giunte, ma anche loro sono di pietra, e pensi che tra poco saranno reinghiottite in questo mare giallo e dolce. Infine, mentre il sole gira, capisci che questo traforo di pietra, questo magnifico scialle, serve solo a catturare la luce, ad ingannare le vampe d'estate: a dipingere tutta Lecce con un chiaroscuro che cambia lentamente, ma inesorabilmente. Come se un pittore divino fosse perennemente incerto sulle luci del suo immenso quadro.
Sant'Oronzo, che era una persona seria, contempla tutto questo dalla vetta di una solida colonna romana: e guarda con benevola perplessità quel gran biscotto scolpito, tuffato nel latte e ormai color di miele. E non smette mai di proteggerla, la sua Lecce: per farcela ritrovare ogni volta più commoventemente bella di prima. Per invitarci a tornare, per offrirci ancora il suo latte e il suo miele.

il Fatto 7.7.14
Wu Ming: “I pifferai ci incantano ancora”
La Rivoluzione francese è l’ambientazione del nuovo romanzo del collettivo bolognese
Nel libro, il tema del leader e del sonnambulismo di chi lo segue
Dopo gli anni di B. ora tocca a Renzi?
di Salvatore Cannavò


Centocinquanta presentazioni in quello che hanno battezzato RévolutiontouR. Sale strapiene. I Wu Ming sono tornati. “Ogni due o tre anni qualche trombone ci dichiara morti ma siamo ancora qui, resistiamo da quasi venti anni. Abbiamo cominciato nel 1995”. Wu Ming 1 lo incontriamo a Roma, nel quartiere San Lorenzo, prima di due presentazioni consecutive, una al centro Casetta Rossa della Garbatella e l’altra a Strike. Quando ha presentato il volume, la prima volta, al centro Communia, ad ascoltarli c’erano più di duecento persone. Per la presentazione di un libro non è uno spettacolo frequente. Il loro ultimo lavoro, L’Armata dei sonnambuli, dedicato allo scrittore bolognese Stefano Tassinari, morto due anni fa e riferimento degli scrittori “impegnati” di quella città, è ambientato nel cuore della Rivoluzione francese. Raccontato con il linguaggio del popolo, basato sul protagonismo delle donne, la forza della rivoluzione e della controrivoluzione, suscita un coinvolgimento che oltrepassa la letteratura e sconfina nella politica.
“C’era molta attesa su questo lavoro. Si sapeva che avremmo scritto del Terrore rivoluzionario. Mentre lavoravamo al libro, si è tornato a parlare di Rivoluzione francese, la ghigliottina è entrata di nuovo nel linguaggio politico. Anche Berlusconi si è messo a citare Robespierre e Marat. Abbiamo intercettato un flusso di immaginario collettivo e la partecipazione alle presentazioni, oltre che le vendite del libro (vedi scheda sopra), lo dimostrano.
Chi sono i sonnambuli?
Nel libro, l’Armata dei Sonnambuli è una banda armata fascista ante litteram. Le elucubrazioni del suo capo echeggiano, con un anacronismo voluto, la retorica della destra radicale del ‘900. C’è Evola, c’è Codreanu. C’è Gentile. Ma più in generale, nei sonnambulizzati ognuno può vedere tante cose del nostro presente. Le masse irretite, l’opinione pubblica addomesticata, il controllo delle menti...
Vi riferite anche ai “grillini”? Voi avete condotto una
battaglia netta contro il grillismo.
Sonnambuli sono quelli che vanno dietro al pifferaio di turno, lasciandosi suggestionare dal “carisma”. C’è gente che segue Grillo qualunque musica esca dal suo piffero. Ma di pifferai in giro ce ne sono tanti, e quindi anche di sonnambuli.
C’entra anche Renzi?
Renzi è senz’altro un pifferaio. Occupa una precisa casella nell’ordine simbolico, la casella del “Ci vuole quello lì”. Prima per molti era occupata da Berlusconi, poi da Grillo, adesso spopola Renzi. “Quello lì” è il capo senza il quale il Paese sembra incapace di parlare di sé stesso. C’era anche nel “popolo comunista” un culto del capo, una visione acritica e fideistica di figure come Togliatti e Berlinguer. Se uno guarda a come si è ridotta la base residua del vecchio Pci, a quello che ne è rimasto, e guarda indietro, si accorge che c’era già molto sonnambulismo, ad esempio nel pensare che ‘il segretario ha sempre ragione’. Oggi il segretario è Renzi, che eredita anche quel sonnambulismo.
Renzi però non è l'espressione di quel vecchio Pci.
Renzi è un cocktail, un miscuglio eterogeneo di molte cose, c’è molta “gioventù democristiana” ma anche molto divismo, molta della celebrity culture che permea le generazioni più recenti. Ma si afferma, almeno per ora, in un Paese che ha sempre avuto il culto del capo, un culto trasversale per capi diversissimi tra loro (Mussolini, Togliatti, Berlusconi), comunque sempre per “quello lì”, mister “ci vuole lui”, il personaggio senza il quale il discorso pubblico sembrava non potesse articolarsi.
Il capo oggi viene definito leader.
Sì, ma il triste ritornello del “ci vuole un leader”, “manca un leader”, “Tizio non è un vero leader”, ha fatto breccia a sinistra proprio perché il vecchio “popolo comunista” aveva già quell'impostazione. Non è solo un portato della “politica-spettacolo televisiva”, della “americanizzazione delle campagne elettorali” e quant’altro. La questione è più complessa, e andrebbe storicizzata.
Qual è l'antidoto al sonnambulismo?
La partecipazione che si realizza delegando il meno possibile. Responsabilizzazione, autogoverno. Se si guarda al movimento No Tav ci si accorge che non ha leader riconoscibili, non ha culto del capo. I media mainstream hanno provato a isolare Perino, a descriverlo come un capo per poterlo sbranare, ma hanno fallito perché il movimento NoTav non funziona così e non ha mai offerto all’altare sacrificale il leader da fare a pezzi. Errore che invece fecero, a inizio millennio, le varie correnti del movimento impropriamente chiamato “no-global”.
Eppure i No Tav votano Grillo.
È un segnale che hanno dato sul terreno elettorale, mantenendo intatta la loro autonomia sul territorio. In Valle è il movimento No Tav a battere il tempo, e i partiti (M5S compreso) devono adeguarsi: pro o contro. Ed è facile verificare che da quelle parti il M5S ha avuto i voti ma quanto a radicamento è davvero poca cosa.
Tornando al libro, come opera e da chi è contrastata l'Armata dei sonnambuli?
Si forma dopo Termidoro, nel momento della “svolta a destra” della Rivoluzione. Sguazza nel caos delle vendette contro i giacobini, ma con un disegno tutto suo che lascio scoprire ai lettori.
Il libro propone quindi l’attualità della rivoluzione?
Tutti i nostri libri, da Q. in avanti, parlano di rivoluzione , della sua possibilità, di come si sopravvive alla rivoluzione e alla controrivoluzione.
C’è però chi vi accusa di fare propaganda, di redigere dei pamphlet.
Basta leggere un nostro libro per smontare queste stupidaggini, dette da chi non si è mai minimamente informato sul nostro conto. Di romanzi “a tesi” non ne abbiamo scritti mai, come non abbiamo mai fatto sconti ai rivoluzionari. Ci piacciono troppo la complessità e la molteplicità. Noi scriviamo liberamente. La politicità dei nostri romanzi non sta nello scrivere un romanzo “a chiave” in cui c’è un rapporto diretto tra la trama del romanzo e ciò che accade nel presente. Cerchiamo di prendere la rivoluzione da tutti i lati possibili, farne vedere anche lo scabroso o il velleitario senza farne mai una facile apologia.
Con questo libro fate un uso accurato delle fonti storiche e in particolare del linguaggio. Come nasce questa scelta?
La citazione diretta dei documenti serve anche a compensare la fiction estrema di cui il romanzo si nutre. È stato un modo per ancorare il romanzo a un certo rigore (anche se verso la fine le fonti sono mischiate con la finzione, in un gioco quasi alla Borges). Per quanto riguarda il linguaggio è stata un'operazione ambiziosa. Bisognava costruire una lingua che restituisse lo sguardo popolare sugli eventi. Ci serviva la lingua del “popolo basso” con tutti i suoi stati d’animo, in grado di raccontare situazioni tragiche e scene comiche. Per quanto all’inizio possa sembrare bizzarra, abbiamo cercato di costruire una coerenza di impianto.
Voi utilizzate molti frasi e idiomi assolutamente non
convenzionali, parole come “soquanti”, “negoddio”...
La prima viene dall’emiliano, la seconda dal dizionario di Michel Biard Parlez-vous Sans Culottes? Abbiamo preso veri modi di dire dell’epoca, adattandoli all’italiano, poi abbiamo “riportato tutto a casa”, al nostro dizionario sentimentale, quindi con molti prestiti e ricalchi dai dialetti emiliani (bolognese e ferrarese), cercando di “scaldare” la lingua.
I Wu Ming hanno sempre scritto romanzi storici. È finita questa fase?
Continueremo a lavorare sulla storia ma il filone cominciato con Q. finisce con L’Armata de sonnambuli. Le nostre narrazioni avranno sempre a che fare con la storia ma vogliamo azzardare altre cose. Adesso stiamo scrivendo un libro per bambini, e l’anno prossimo usciamo con un libro di storie vere della Prima guerra mondiale. Singolarmente, io sto lavorando a un libro sui No Tav, anzi, sulla Val di Susa.
I dati di vendita che pubblicate regolarmente dimostrano la vostra vitalità. A che punto siete oggi, come collettivo?
Certamente non siamo più solo scrittori, ad esempio siamo diventati anche una rock band, Wu Ming Contingent (due di noi più di due amici musicisti) e le collaborazioni con artisti di altre discipline sono importanti quanto i romanzi. Intorno a noi c’è una nube quantica di narrazioni portate avanti non solo con gli strumenti della letteratura. Musica, teatro, illusionismo, arti grafiche... L’obiettivo è raccontare storie con ogni mezzo necessario. Il nostro blog, Giap, non è più solo “il blog di Wu Ming” ma una comunità di lettori, in grado di fare inchiesta con una comunicazione in rete che sfrutta le potenzialità dei social network, in primis Twitter. Quello che facciamo è diventato molto più grande e complesso. Il romanzo non è più il centro di tutto, ma è vero che quando esce un nostro nuovo romanzo diventa una specie di “pietra miliare”, nel senso che ti dice a quale chilometro siamo arrivati.
L’Armata, dicevamo prima, è un romanzo sulla Rivoluzione. Vista come e da dove?
Dal basso, e da punti di vista inattesi, spiazzanti, come quello dei magnetisti, quello dei folli, o quello di un attore di teatro italiano. Una delle cose a cui tenevamo di più era raccontare il protagonismo delle donne nella rivoluzione francese. Le donne erano in prima fila, molto spesso erano le più radicali e i club rivoluzionari femministi (anche qui ante litteram) hanno posto una minaccia seria e furono sciolti nell’autunno del 1793.
Quindi è anche un romanzo “femminista”?
Sicuramente la questione di genere, dei generi, è centrale.
Qual è stata l’intuizione originaria che ha generato il romanzo?
Raccontare le gesta di un super-eroe, Scaramouche in guerra contro i reazionari. Poi è venuto il resto, specialmente quando abbiamo scoperto gli scritti sul magnetismo.
Robespierre è per voi un personaggio positivo?
È stato diffamato in tutti i modi, presentato come un pazzo assettato di sangue. Il Terrore è stato raccontato come uno “sbroccare” suo e di pochi suoi accoliti. In realtà cercò di mediare e incanalare nella politica le istanze radicali che venivano dal basso, il Terrore era chiesto dal popolo di Parigi. Oggi lo chiameremmo un “pompiere”, comunque il popolo di Parigi gli volle bene, e cercò di difenderlo.
E Marat?
Era il più benvoluto di tutti. Per questi uomini, la definizione di pazzi o sanguinari è stato sempre un modo per spoliticizzarli, per toglierli dal contesto in cui agirono. Fecero certamente errori, ma bisogna ricordare che in quei giorni era tutto ex novo, certe esperienze si facevano per la prima volta nella storia dell’umanità. Nessuno di loro era preparato. Le rivoluzioni falliscono ancora oggi, figuriamoci allora.
È ancora attuale la Rivoluzione francese?
Sì, e sta anche tornando centrale. Un anno di svolta è il 2011. Le primavere arabe hanno riattivato un discorso, quello dello spodestamento dei tiranni, che fatalmente ti fa ritornare là.
Vale anche per società occidentali e democratiche, dove non c'è il tiranno?
Non c’è il tiranno, ma c’è parecchia tirannide. E ci sono molte armate di sonnambuli in azione.