martedì 8 luglio 2014

l’Unità 8.7.14
Al lettori
il Cdr


Oggi abbiamo invitato i colleghi della stampa e gli amici del giornale in redazione (ore 12) per raccontare tutte le volte che non siamo stati ascoltati. Tutte le volte che i giornalisti de l’Unità hanno denunciato la malagestione del giornale, l’assenza di un progetto serio, la mancanza di trasparenza e di solidità aziendale, hanno avuto come risposta solo un’alzata di spalle. Fino all’ultimo, scandaloso episodio di un’azionista di FI nella nostra società: ultimo atto di una progressiva parabola discendente, che ha portato il giornale sull’orlo del baratro. Oggi se ne sono accorti tutti, perché i fatti sono testardi e alla fine si prendono le loro ragioni.
Proprio noi, che avevamo ragione dall’inizio, rischiamo di pagare caro questo sistematico disegno di dismissione. Noi, con voi lettori che ci seguite dimostrando affetto e solidarietà verso una testata che non ha eguali in Italia quanto a storia radicata nel mondo della sinistra, nella militanza politica. Il rischio è che il giornale fallisca se entro luglio non arriva un’offerta credibile per rilevare l’attività. I due liquidatori hanno dato al Cdr un quadro allarmante della situazione.
Da mesi si rincorrono dichiarazioni pubbliche di impegno e attenzione alle vicende che coinvolgono il giornale fondato da Antonio Gramsci. È arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Chi volesse aspettare il fallimento, per agire magari un minuto dopo, sappia fin da ora che a quel punto non si salverebbe l’Unità ma solo una scatola vuota. Sarebbe una sconfitta per tutti.

L’Huffington Post 8.7.14
L'Unità, il video-appello dei giornalisti a Matteo Renzi per scongiurare la chiusura del quotidiano

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Unità on line 8.7.14
L’Unità, parla la redazione
Ecco il video-appello

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La Stampa 8.7.14
“Lavorano di più e guadagnano meno”
L’Ocse bacchetta l’Italia sugli immigrati
Il rapporto sull’integrazione: sfruttamento e discriminazioni, serve una scossa Allarme giovani: «Uno su tre non studia e non cerca un posto». Donne a rischio
Insieme con la Spagna, il nostro è il paese Ocse con la più alta crescita annuale della popolazione immigrata regolare fin dall’inizio degli anni 2000
di Giuseppe Bottero

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l’Unità 8.7.14
Dissidenti in pressing, rischia il rinvio l’esame in Aula
In una lettera bipartisan a Grasso la richiesta di una settimana in più per esaminare il testo
18 del Pd, forse 27 di Fi e due Ncd: i numeri della fronda mettono in forse l’approvazione
di Claudia Fusani


La convocazione è per stamani alle otto e mezza. All’ordine del giorno votazioni a oltranza sugli emendamenti che restano - e che sono i più spinosi - per chiudere la discussione in Commissione sul disegno di legge costituzionale Boschi che mette la parola fine al bicameralismo perfetto, riduce il Senato alla camera delle regioni e riscrive le competenze del Titolo V della Carta. Ma i mal di pancia restano e la lista dei dissidenti, di una parte dell’altra, se non cresce certo non diminuisce. Berlusconi rinuncia ad incontrare i suoi - salvo cambi di passo ritenuti improbabili dai fedelissimi - e considera chiusa la faccenda con l’appello di giovedì sera con cui ha messo nero su bianco la linea: «Il patto del Nazareno non si tocca, votate convintamente la riforma costituzionale». Convocare nuovamente oggi le truppe vorrebbe dire riaprire un confronto che se giovedì scorso non è finito male oggi finirebbe malissimo. Con l’ex Cavaliere ammutinato e sconfessato. Avanti tutta, quindi. Almeno in casa Forza Italia dove la confusione è tanta e molto poco sotto controllo. «Renzi spacca il Paese» urlava ancora ieri sera il capogruppo alla Camera Renato Brunetta.
Ma i dissidenti non si danno per vinti. Sono di tutti i colori, rossi (18 del Pd), azzurri (tra i 24 e i 27), un paio di Ncd, anche l’extraparlamentare Verde Alfonso Pecoraro Scanio. E mettono in forse il magic number di palazzo Madama (214), i famosi 2/3 necessari per approvare la riforma costituzionale senza dover passare - alla fine delle quattro letture - dal referendum confermativo. Il patto d’acciaio Renzi-Berlusconi lascia ai dissidenti pochi margini di manovra. Manon demordono e puntano a un nuovo rinvio. Ieri al Senato è stata scritta una lettera, prima firmataria Loredana De Petris (Sel), a seguire firme bipartisan con cui si chiede al presidente Piero Grasso un nuovo rinvio tecnico. Una settimana in più di tempo per esaminare il testo delle riforme che, da calendario, dovrebbero approdare in aula domani pomeriggio. Il regolamento, si osserva negli uffici di presidenza del Senato, sarebbe dalla loro parte: se il testo va in aula mercoledì pomeriggio, o anche giovedì mattina, appena licenziato dalla Commissione non ci sono le 24 ore necessarie per poter emendare il testo.
L’iniziativa della lettera dei dissidenti bipartisan è stata annunciata ieri in una conferenza stampa le cui presenze plasticamente raccontano quando sia trasversale il dissenso alla riforma Boschi: la senatrice De Petris, Corradino Mineo del Pd, il senatore di FI Augusto Minzolini, l’ex M5S Francesco Campanella. Qualcuno già immagina palazzo Madama come «la Saigon di Renzi, con i khmer rossi che sbucano fuori da tutte le parti».
«Se si tratta di rinviare un giorno per dare a tutti il tempo di leggere bene il testo, non c’è problema, ma un rinvio alla prossima settimana sarebbe solo di tipo politico, quindi ingiustificabile» si osserva in modo assolutamente bipartisan in casa Pd come tra le truppe smarrite di Forza Italia.
La lettera con la richiesta sarà in ogni caso consegnata al presidente Grasso. E a quel punto valuterà la conferenza dei capigruppo cosa fare. In serata le voci di un rinvio alla prossima settimana - si parla di lunedì - hanno preso quota nonostante gli appelli a fare presto da parte Pd. In effetti i relatori Finocchiaro (Pd) e Roberto Calderoli (Lega) hanno depositato un nuovo emendamento (il numero 11.0.1000) che riscrive l’articolo 75 della Costituzione sui referendum popolari. Il termine per i sub emendamenti scade oggi alle 13.
Stamani l’appuntamento è alle 8 e 30. Restano da votare alcuni dei passaggi più stretti della riforme. Ma, al netto di un improbabile filibustering, i 15 voti della Commissione presieduta da Anna Finocchiaro (relatrice con Roberto Calderoli) sono blindati.
Sarà votato in mattinata il nodo sull’elezione dei senatori. La proposta dei relatori parla di una elezione di secondo grado, cioè indiretta, uno dei paletti imprescindibili alzati da Renzi: ogni volta che le Regioni saranno chiamate a rinnovare il proprio consiglio regionale, parte di quei consiglieri, in proporzione con gli abitanti, diventeranno senatori.
Un altro passaggio delicato sarà quello relativo alle indennità e, ancora di più, la definizione della platea che dovrà eleggere il Presidente della Repubblica. Con una sola Camera eletta con un sistema fortemente maggioritario e un Senato di cento persone espressione degli equilibri politici locali (ci sono anche 21 sindaci), lo sbilanciamento verso una sola parte politica è troppo forte per eleggere il Capo dello Stato. La soluzione, già avanzata nei giorni scorsi, sarebbe quella di allargare la platea dei votanti ai 73 europarlamentari.

Repubblica 8.7.14
Quei sessanta voti in bilico che fanno tremare Palazzo Madama
di Giovanna Casadio


ROMA. Il pallottoliere segna una sessantina di dissidenti, tra i 50 e i 60, per l’esattezza. Ma a Palazzo Chigi i conti sono al ribasso. Renzi è convinto che la dinastia “Minzmin”, la fronda cioè capitanata dal forzista Augusto Minzolini e dal democratico Corradino Mineo, non rovinerà il cammino rapido delle riforme e che il requiem del bicameralismo con il nuovo Senato di non eletti, arriverà all’approdo con una maggioranza ampia di 236 senatori. Forse troppo ottimista. Le incognite infatti sono molte. Al netto di dissensi e incertezze comunque, il governo dovrebbe contare su 175 o 183 fedelissimi.
Seppure i “ribelli” del Pd e di Forza Italia sulla riforma del Senato si squagliassero cammin facendo come neve al sole, si può stare certi che cercheranno una rivincita sull’Italicum. E a quel punto il dissenso può diventare maggioranza. Un documento di Francesco Russo a favore del Senato come lo vuole Renzi ma chepone l’alt all’Italicum, è stato sottoscritto da una ventina di senatori dem. Ma sono soprattutto i 29 di “Area riformista”, la corrente guidata da Roberto Speranza e che a Palazzo Madama può contare tra gli altri su Miguel Gotor, Maurizio Migliavacca, Valeria Fedeli, Federico Fornaro, Carlo Pegorer, a chiedere la modifica della nuova legge elettorale. L’allarme lo ha lanciato Pier Luigi Bersani, l’ex segretario per il quale non si può scherzare con il fuoco e l’Italicum «va corretto», punto e basta. Lo ripetono in tanti nel Pd e trovano sponda negli alfaniani. Nel governo è il ministro Maurizio Martina ad avanzare dubbi e ad incalzare: «L’Italicum francamente è da migliorare».
Gotor nella riunione di corrente elenca minuziosamente i cambiamenti che la riforma del Senato non può ignorare, a cominciare dai Grandi elettori a cui è affidato il compito di scegliere il capo dello Stato. «A meno che non si voglia un presidenzialismo strisciante, una svolta autoritaria pericolosa... «, si scalda.Nell’assemblea dei senatori ieri sera viene appunto presentato il documento firmato dal drappello che si autodefinisce dei “facilitatori”. Russo illustra le ragioni del Senato di non eletti, che sarebbe «un errore incomprensibile frenare». Insomma sul Senato elettivo anche il capogruppo Luigi Zanda si sente più tranquillo. I “dissidenti” dem che porteranno il loro emendamento fino al voto dell’aula sono 19: Vannino Chiti, Felice Casson, Walter Tocci, Paolo Corsini i trainer. Tuttavia fanno asse con i forzisti che appoggiano Minzolini e i malpancisti al seguito di Fitto. Lucio Malan che sponsorizza la via mediana di «aggiustamenti per consentire un voto compatto in Forza Italia », confida nell’incontro promesso da Berlusconi con i senatori. Riuscirà a metterli in riga, l’ex Cavaliere? I senatori berlusconiani attendono il leader a Palazzo Madama e immaginano un “serriamo le file” tramite mozione degli affetti: «Io mi sono impegnato con Renzi, non lasciatemi ora solo», dovrebbe essere l’appello di Berlusconi. La tela della maggioranza si sgrana anche nel Nuovo centrodestra.
A dire “no” al Ddl Boschi sono in due: Roberto Fomigoni e Antonio Azzollini si sono uniti alla fronda pro-Senato elettivo. Formigoni l’ha anche twittato, spingendosi ad appoggiare il capogruppo forzista alla Camera, Renato Brunetta con cui non c’è mai stato buon sangue. Ora invece apprezza: «Il lodo Brunetta per elezione dei senatori è una buona idea, come la proposta originaria #ncd di una lista separata contestuale alle regionali ». E ci sono le incertezze leghiste. Roberto Calderoli, uno dei due relatori delle riforme, aveva già fatto sapere che se lo smottamento contro la Camera delle autonomie composta da senatori non eletti fosse diventato una frana, allora i malumori della Lega sarebbe stato difficile tenerli a bada. In realtà la partita del Carroccio si gioca tutta sul Titolo V e le competenze alle Regioni.
Ma una cosa più di tutte i renziani hanno in odio in queste ore. È il collegamento che dissidenti e malpancisti in casa democratica creano tra riforme istituzionali e nuova legge elettorale. L’ha detto il vice segretario Lorenzo Guerini, l’uomo a cui Renzi ha affidato il partito: «È sbagliato collegare riforme istituzionali e Italicum». Potrebbe saltare tutto se Berlusconi ad esempio si irrigidisse pretendendo una blindatura subito dell’Italicum per votare il nuovo Senato. Il “patto del Nazareno” è sottoposto a continue scosse. Renzi e i suoi conoscono quanto accidentato sia il terreno.
Per questo anche il documento dei “facilitatori” si rivela una mina. Afferma Russo: «Il dibattito sul nuovo Senato ha chiarito a tutti la necessità di mettere mano e cambiare profondamente la legge elettorale così come approvata dalla Camera...». Quindi l’elenco dei tre punti da modificare: le soglie, la parità di genere e, prima di tutto, lo stop alle liste bloccate e a un Parlamento di nominati attraverso le preferenze o i collegi uninominali.

Repubblica 8.7.14
Corsini (Pd)
“Non vogliamo accettare il modello Putin-Medvedev”
di G. C.


ROMA. «Non c’è nessuna cospirazione, è tutto alla luce del sole ma non arretriamo sul Senato elettivo. Queste riforme unite a una legge elettorale iper maggioritaria, si ispirano al modello Putin-Medvedev». Paolo Corsini, senatore dem dissidente, ex sindaco di Brescia, storico, chiede più tempo per l’approdo in aula del Ddl Boschi e soprattutto cambiamenti radicali.
Corsini, vi mettete di traverso?
«Nessuna volontà di filibustering o boicottaggio. Ma ci dev’essere il tempo di vedere il testo conclusivo che esce dalla commissione Affari costituzionali. E l’elezione diretta del Senato è ben vista dalla maggioranza degli italiani come mostrano i sondaggi. Non costerebbe nulla scegliere questa soluzione: quando si votano i consiglieri regionali i cittadini elencano chi vogliono designare come senatori».
Voi dissidenti del Pd non arretrate?
«Assolutamente no. Non sarà sufficiente l’editto dell’Inquisitore Giorgio Tonini...».
Siete dei conservatori? È l’accusa che vi è stata mossa dal segretario-premier.
«Ma chi è davvero conservatore, chi vuole abolire l’immunità come noi o chi invece la vuole estendere anche ai nuovi senatori? Camera delle autonomie significa che il Senato si occupa di garanzie, di diritti civili: questo noi chiediamo. E chi è più conservatore di chi vuole conservare la pletora dei 630 deputati?».
Davvero lei pensa possa esserci una maggioranza anti Renzi e per il Senato elettivo?
«Non lo so, ma rivendico il diritto di ciascuno di esprimere la propria posizione in presenza di una legge costituzionale».
Alla fine lei voterebbe contro la riforma del Senato?
«Vediamo l’esito del dibattito in aula. Non si è mai visto in un paese liberal democratico un governo entrare così pesantemente nel merito di una legge costituzionale». ( g. c.)

Il Sole 8.4.14
Nelle ore in cui il Pd si divide, più forte l'appoggio di Napolitano a Renzi
Sempre più evidente il nesso fra riforma del Senato e nuova legge elettorale
di Stefano Folli


Come era prevedibile, il dialogo fra Renzi e i Cinque Stelle sulle riforme e in particolare sulla legge elettorale si è arenato dopo pochi metri. Non c'era vera logica in questo giro di valzer, se non un interesse politico. Quello di Renzi, desideroso di avviare un'"operazione simpatia" verso l'elettorato che ancora appoggia il movimento populista. E quello di Grillo che anela a entrare nel gioco politico: ma ovviamente l'operazione non è semplice e i Cinque Stelle hanno ancora parecchio da imparare al tavolo delle manovre.
In sostanza la vicenda si chiude con un certo successo del presidente del Consiglio, più abile in questo genere di ping-pong. Ma Grillo, pur muovendosi in mezzo alle solite contraddizioni, è in grado di creare più di un disturbo quando l'Italicum tornerà in Parlamento, al Senato, e lì catalizzerà quei malumori trasversali che già si erano manifestati virulenti a Montecitorio.
È del tutto evidente, infatti, che almeno su un punto il capo del M5S ha visto giusto: il vero nodo della discordia è e resta la riforma elettorale, persino più della discussione su come cambiare il Senato. Per la semplice ragione che il modello elettorale immaginato è una legge di "sistema" capace di modellare l'assetto di potere "renziano" per molti anni a venire. Peraltro tutto si tiene. Senza il "sì" alla trasformazione del Senato, con l'abolizione del bicameralismo, la legge elettorale non riuscirebbe a vedere mai la luce. Se mai i dissidenti trasversali (Pd, Forza Italia, eccetera) dovessero riuscire ad affossare la riforma di Palazzo Madama, a maggior ragione avrebbero la forza e la determinazione per impedire l'Italicum. Al contrario, l'approvazione entro pochi giorni della riforma costituzionale - il cui iter sarà in ogni caso ancora lungo - renderebbe più plausibile la legge elettorale, peraltro già votata alla Camera.
L'argomento è ostico e di sicuro pochi si appassionano a questo nesso tra riforme così lontane dal vivere quotidiano degli italiani. Eppure ci stiamo avvicinando a uno degli snodi cruciali della legislatura. Non a caso ieri il capo dello Stato è intervenuto per offrire ancora una volta il suo sostegno al progetto riformatore: è urgente, sono parole di Napolitano, superare il bicameralismo per accelerare il processo legislativo e ritrovare efficienza. Come dire che il presidente della Repubblica manifesta il suo autorevole appoggio a Renzi proprio nelle ore in cui si sta decidendo il braccio di ferro all'interno dei partiti, in particolare nel Pd.
Gli oppositori sono ancora abbastanza numerosi per impedire che la legge costituzionale sia approvata con la maggioranza dei due terzi, il che renderebbe inevitabile il referendum confermativo. Tempi più diluiti e per il premier una vittoria solo a metà. Questo, come si è detto, avrebbe conseguenze sul cammino del cosiddetto Italicum, l'obiettivo a cui Renzi davvero non può rinunciare. In altri termini, le carte sono in tavola. Purchè non si dimentichi che le vere riforme a cui l'Europa ci sollecita non riguardano i meccanismi parlamentari. Esse riguardano il terreno dell'economia, il debito pubblico, il mercato del lavoro. Uno scenario che ci è stato rammentato a chiare lettere anche nelle ultime ore, nel caso in cui il governo Renzi fosse troppo concentrato sul Senato e sulla legge elettorale: la flessibilità si ottiene solo dopo aver fatto le riforme. Quelle economiche

Il Sole 8.7.14
Berlusconi: il patto con il Pd non si tocca
Forza Italia. L'ex Cavaliere vuole ulteriormente ridurre la fronda che non dovrebbe superare i 10 senatori
di Barbara Fiammeri


ROMA L'input impartito da Arcore, dove ieri è rimasto assieme ai figli e ai suoi legali, è che l'accordo con Matteo Renzi «non è in discussione». Di distinguo e fronde Silvio Berlusconi non vuol più sentir parlare. In questo momento il Cavaliere ha ben altro a cui pensare. Oggi è attesa la sentenza sul processo Mediatrade, nel quale suo figlio Pier Silvio e Fedele Confalonieri sono stati condannati in primo grado a più di tre anni di reclusione. Senza contare che, a partire dal 18 luglio, è atteso anche il verdetto della Corte d'appello di Milano sul caso Ruby, per il quale l'ex premier ha già subito una condanna a sette anni. Questa mattina il Cavaliere rientrerà a Roma. Della possibile nuova riunione dei gruppi parlamentari di Fi, inizialmente prevista per oggi, nella sua agenda però non c'è traccia. Quello che aveva da dire ai deputati e senatori azzurri lo ha già espresso nei giorni scorsi chiaramente e non intende offrire un nuovo palcoscenico alle divisioni interne: «Finché ci sono, la linea la detto io», ha ripetuto anche in queste ore.
Il «no» del Pd al secondo round con il M5s è per Berlusconi la conferma che non ci sono tatticismi da parte di Renzi. A maggior ragione dopo il richiamo di Giorgio Napolitano a evitare «ulteriori spostamenti». E l'ex premier non è intenzionato a caricarsi addosso la responsabilità di aver sabotato le riforme. Meno che mai adesso. Berlusconi vuole rimanere al tavolo apparecchiato il 18 gennaio scorso al Nazareno che comprende anche l'Italicum. Il timore che Renzi punti a uno scioglimento anticipato delle Camere in primavera, come sostiene il leader della fronda forzista Augusto Minzolini, non è certo sufficiente per rimangiarsi la parola. Anche perché si può sempre trovare una clausola di «salvaguardia»: legare l'applicazione dell'Italicum alla riforma costituzionale.
Dei 59 senatori Fi, al momento sarebbero non più di una decina quelli pronti a votare «no» al nuovo Senato. Un numero non decisivo per far passare la riforma ma che Berlusconi vuole ulteriormente ridurre: «Solo se siamo uniti avremo la forza di far rispettare a Renzi l'intesa sulla legge elettorale», è il mantra impartito da Arcore. Il Cavaliere è sempre più diffidente. Si va convincendo che dietro la ribellione contro l'accordo con Renzi, ci sia il tentativo di mettere in discussione la sua leadership. Un sospetto strettamente legato all'angoscia sull'esito delle sue vicende processuali e agli effetti che potrebbero derivarne. L'affido ai servizi sociali è stato possibile perché l'ex premier ha potuto usufruire dell'indulto. Ma se dovesse subire una nuova condanna definitiva, lo sconto di pena verrebbe annullato.

La Stampa 8.7.14
Così è nato il fronte del no
di Marcello Sorgi


La rottura tra Renzi e Grillo, consumata ieri tra insulti e sceneggiate del M5S, non solo era nell’aria, ma attesa da giorni. 
Renzi aveva compreso benissimo che il leader del Movimento 5 Stelle, uscito sconfitto dalla sfida elettorale contro il presidente del Consiglio, non mirava affatto a impostare un dialogo, per il quale non c’erano le premesse; piuttosto a dimostrare che Renzi e Berlusconi hanno un patto di ferro e le riforme istituzionali ed elettorali che vorrebbero far nascere sarebbero figlie loro, a dispetto di qualsiasi spirito costituente che richiederebbe il coinvolgimento di tutte le forze politiche e un compromesso sulle regole.
Malgrado ciò, il premier si era sottoposto al rito dello streaming, proprio per non dare pretesti al suo avversario e verificare di persona se davvero all’interno di M5s esistesse una frangia dialogante, diversa dalle minoranze espulse via via in questo primo anno e mezzo di legislatura, e in grado di influire sul leader, per spingerlo a un’effettiva collaborazione. Ciò che è accaduto dimostra che un siffatto spazio non esiste, e i membri della delegazione grillina che anche ieri avevano insistito per un secondo incontro con il Pd stavano semplicemente recitando il copione che un consumato uomo di spettacolo come il loro capo aveva appena finito di scrivere.
Con un nuovo obiettivo che, a rottura avvenuta, emerge chiaramente: Grillo adesso punta a mettersi alla guida del variegato “fronte del No” che nei prossimi giorni a Palazzo Madama proverà, o a bloccare la riforma del Senato, o almeno a impedire di approvarla con la maggioranza dei due terzi, richiesta dall’articolo 138 della Costituzione per evitare che il testo approvato debba essere sottoposto a un referendum popolare.
Si tratterebbe, per Renzi, o di una piena sconfitta, nel caso della mancata approvazione, o di una mezza batosta, che si faticherebbe a definire vittoria dimezzata, dal momento che una riforma varata con una stretta maggioranza alla prima delle quattro votazioni richieste, e con un corposo schieramento trasversale contrario che avrebbe il tempo per riorganizzarsi per i prossimi tre passaggi parlamentari, partirebbe evidentemente azzoppata.
Cosa poi possa unire, grillini, dissidenti del Pd e di Forza Italia, è impensabile, al di là della voglia comune di dare una bastonata a Renzi, che tuttavia già da sola basta. È noto che all’interno del Pd bersaniano, il partito della «non vittoria» del 23 febbraio 2013, la voglia di corteggiare il M5s si era manifestata fin dal giorno delle elezioni, con il tentativo abortito dell’ex segretario di mettere su un governo con l’appoggio più o meno esterno di Grillo. La delusione per quel fallimento si era ribaltata sulle elezioni presidenziali in cui il Pd fece fuori uno dopo l’altro i due suoi candidati più forti, Marini e Prodi, e sulla sorprendente campagna d’autunno grazie alla quale Renzi è approdato, prima alla guida del partito, e poi a quella del governo. Ma a cento giorni dal trasferimento dell’ex sindaco a Palazzo Chigi, il problema della sinistra interna Democrat non è più solo il rapporto con Berlusconi o quello con Grillo: è la sua stessa sopravvivenza in un Pd che, a detta dei politologi, si va trasformando in PdR, partito di Renzi. Pur di non morire renziani, gli ex, post o neo-comunisti, sono pronti a far saltare le riforme: e da questo punto di vista, lo dimostra la riscossa personale di Bersani, temono più la legge elettorale senza preferenze, che metterebbe le liste dei candidati in mano a Renzi, che non la battaglia del Senato, che ha un primo, un secondo, un terzo e un quarto tempo. 
A uno schieramento che ha il cuore rivolto al passato, al vecchio modo familiare di essere della sinistra, a capisaldi come quelli che non si toccano i sindacati, né i giudici né le regole della giustizia (uno dei leader dei dissidenti è l’ex magistrato Casson), che si deve sempre discutere per decidere tutti insieme, non a maggioranza, e così via, si è affiancato negli ultimi giorni, con chiari propositi di alleanza, quello degli azzurri anti-patto del Nazareno capitanati da Minzolini e Brunetta: falange assai variegata anche questa, che pensa alle prospettive del centrodestra e ragiona già in termini post-berlusconiani. Ma non perché non amino più il loro presidente, o non gli riconoscano, malgrado tutte le difficoltà giudiziarie, politiche e aziendali che lo affliggono, le qualità per guidare il suo partito e lo schieramento di cui è ancora leader, seppure contestato. 
Semplicemente, non riescono ad accettare che il Cavaliere si sia rassegnato, non voglia più combattere e cerchi un appeacement, una sorta di accomodamento, per sé e i suoi amici e congiunti. Loro, che non sono affini o parenti, devono pur pensare al domani.
L’anima tradizionale del vecchio Pci, quella movimentista di Forza Italia e quella cabarettista dei 5 Stelle: dove potrà arrivare questa inedita alleanza non è facile immaginarlo. Spiace constatare che risulta composta dal passato recente, dal presente e dal futuro prossimo della politica italiana, senza averne, in alcun caso, le qualità dimostrate in altre occasioni. Anche per questo, Renzi farebbe bene a non sottovalutarla.

Corriere 8.7.14
M5S vuole rompere il patto tra dem e FI ma rischia di spaccarsi
di Massimo Franco


Lo scarto di Beppe Grillo contro il Pd per l’annullamento dell’incontro di ieri non deve sorprendere. Dimostra che il Movimento 5 Stelle non è passato «dalla protesta alla proposta», come suggeriva il suo capo nei giorni scorsi. Persegue piuttosto il suo progetto di destabilizzazione con altri mezzi, in apparenza più suadenti e disponibili. Ma proprio per questo non bisogna meravigliarsi nemmeno se nei prossimi giorni Grillo tornerà alla carica con una miscela di insulti e di aperture. Sta tentando una «strategia del cuneo» per inserirsi in tutte le possibili crepe dell’asse istituzionale tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Non è riuscito a farlo saltare col muro contro muro, e prova con un altro metodo.
Per questo, dopo avere tuonato contro gli «sbruffoni della democrazia» ed evocato una «dittatura a norma di legge» instaurata dal premier, Grillo si è affrettato a dire che il dialogo rimane aperto; e a negare contraddizioni col vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, più possibilista. La verità è che la richiesta di proposte scritte arrivata da Renzi ha spiazzato un M5S che già si preparava a offrire una riforma elettorale «in cento giorni»: quasi una competizione sulla velocità col presidente del Consiglio. L’altolà di Palazzo Chigi, invece, ha fatto riemergere le pulsioni di Grillo.
Ma si sono rivelate un boomerang. Scoprono infatti il nervosismo di un capo che sa quanto il suo movimento sia percorso da malumori sia sui suoi metodi, sia sulla politica verso il governo; e che dopo le europee vuole smentire l’immagine di un voto al M5S inutile, perché si autoesclude da ogni gioco. Per questo, seppure strumentale e tardiva, la «strategia del cuneo» è destinata a durare; e lo schiaffo ricevuto dal Pd tende a essere ridimensionato. La preoccupazione di Grillo è di «esserci»: soprattutto se la legislatura durerà.
«Le porte per una discussione sulla legge elettorale per il M5S sono sempre aperte, né mai le ha chiuse nonostante continue provocazioni», ha dichiarato dopo parole di guerra totale. Al punto che Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd, ha rimarcato lo «stato confusionale» del M5S. Grillo ritenterà l’aggancio, ma dopo quanto è accaduto, la manovra risulta meno credibile. Lo stesso capo dello Stato, Giorgio Napolitano,invita a non perdersi in mediazioni inconcludenti. D’altronde, in apparenza Grillo si offre come sponda a Renzi e Berlusconi. In realtà, i suoi veri interlocutori sono gli avversari del premier e di Berlusconi.
Vengono offerti un’alleanza e voti di ricambio a quanti vogliono affossare il patto Renzi-Berlusconi ma temono di ritrovarsi isolati. Non solo. La proposta di Grillo va letta anche nella prospettiva delle votazioni per il Quirinale, se e quando ci saranno: prevedibilmente il prossimo anno. Anche lì, il tentativo è di incunearsi in qualsiasi accordo abbozzato dalla maggioranza delle riforme istituzionali; e sparigliare, offrendo le sue truppe parlamentari per candidature alternative. Ma è un gioco d’azzardo, che sopravvaluta la compattezza del M5S. Alla fine, Grillo potrebbe rendersi conto che il suo cuneo non ha funzionato; e, partito per spaccare, ritrovarsi spaccato.

Corriere 8.7.14
Ma ora i frondisti si concentrano sull’Italicum
Bersani avverte: servono correzioni
Critiche anche dal ministro Martina
Legge elettorale, spunta un documento
di T. Lab.


ROMA — «Signori, facciamo i seri. Le differenze tra il Senato che vogliono gli amici come Chiti e il Senato che prevede il testo del governo sono differenze quasi tecniche. Se uno lo riconosce, bene. Ma se vengono a dire che la differenza tra i due disegni è la stessa che passa tra una democrazia compiuta da un lato e dall’altro la dittatura, il Pcus, Stalin, Mao, Lin Biao... Ecco, questo non è vero, non ci siamo».
Alle 19.50, poco prima di infilarsi nell’assemblea dei senatori del Pd, il senatore Giorgio Tonini si prepara per il dibattito con la fronda che si oppone al governo. «Sia chiaro, a persone come Chiti e Mineo io parlo in amicizia. Se dici che il tuo partito propone una riforma che sa di dittatura, è ovvio che da quel partito finisci fuori. E non certo perché ti cacciano. Ricordo per esempio che Cesare Salvi non aderì al Pd perché diceva che il Pd non sarebbe stato nel socialismo europeo. Oggi il Pd è il primo partito del socialismo europeo. Salvi, invece, non c’è...».
Corradino Mineo, prima di entrare nella riunione, lancia un telegramma. «Non facciamo una bella figura se trasformiamo questo scontro in una battaglia personalistica. Non mi si può dire “ah, Mineo, tu sei stato nominato e non eletto”. Anche perché lo sto dicendo io che basta col Parlamento dei nominati. E per sempre».
L’assemblea comincia dopo le 20. Anna Finocchiaro annuncia un mezzo colpo di scena. «Giovedì la relazione va in Aula. E i primi voti saranno da martedì prossimo». Tutto slitta , insomma. «Oggi eviterei di contarci», scandisce il capogruppo Luigi Zanda. L’atmosfera sembra serena. Ma basta che nel menù della riunione entri il tema dell’Italicum ed ecco che, da Palazzo Madama, si sente una puzza di bruciato che arriva anche a Palazzo Chigi.
Il super-lettiano Francesco Russo la mette così: «Se la riforma del Senato fosse stata quella prevista dal primo testo Boschi, allora avrei votato no. Ma ora il testo è profondamente cambiato. Ora — qui la parte più “calda” del suo intervento — siamo più forti per cambiare l’Italicum su parità di genere, soglie di preferenza e scelta ai cittadini». Quest’ultima, probabilmente, è una formula eufemistica dietro la quale si nasconde la parola «preferenze». «È una forzatura mettere insieme legge elettorale e riforma costituzionale», prova a parare il colpo il renziano Andrea Marcucci. Ma poi ecco che, in soccorso di Russo, arriva lo storico Miguel Gotor. «La riforma è migliorata ma resta il tema dell’elezione del capo dello Stato. Non è possibile che, se un partito vince il premio di maggioranza alla Camera, possano bastargli solo 26 senatori per eleggersi l’inquilino del Colle da solo». E poi, ecco l’affondo del senatore bersaniano, «l’Italicum dovrà cambiare. Non possiamo andare avanti con un Parlamento di nominati. Dobbiamo evitare a tutti i costi una deriva oligarchica».. Non sono soltanto parole. Nella riunione, infatti, piomba un documento bersanian-lettiano in cui si chiede, esplicitamente, di rimettere mano alla riforma elettorale. Magari reintroducendo le preferenze, magari anche solo per una quota di eletti.
La trappola dell’Italicum, evidentemente, è scattata. In un solo giorno, oltre agli interventi nell’assemblea del Pd, dalla legge dell’accordo Renzi-Berlusconi si smarca un ministro del governo (Maurizio Martina, che boccia la legge durante un’intervista con l’Huffington Post ). E torna a parlare anche Pier Luigi Bersani: «Facciamo pure in fretta, ma sulle riforme non si può scherzare, vanno corrette». E ancora, sempre dalla voce dell’ex segretario del Pd, che non si pente «affatto» di avere accettato a suo tempo il dialogo con Grillo: «Se la riforma del Senato rimane così insieme all’Italicum si creerebbe una situazione insostenibile.».
Poco prima, la renzianissima senatrice Rosa Maria De Giorgi s’era lasciata scappare quanto segue: «Dentro Forza Italia si vedono cose strane. Ma sarà vero che Berlusconi vuole il rinvio del voto? Se è così, quelli della fronda del Pd daranno una mano alle strane mosse dei berlusconiani...». Ce ne sarà un’altra, di assemblea, prima che la riforma arrivi in Aula. Si discuterà dei problemi relativi all’elezione del capo dello Stato. E dell’Italicum, ovviamente. E si voterà, la prossima volta.

il Fatto 8.7.14
Oggi il semestre Ue entra nel vivo: non servirà a niente
Finora ci sono un logo, un astronauta che ci fa da ambasciatore e un programma (vago) di 80 pagine. Spese previste: 70 milioni
Padoan presiede l’Ecofin: “ora si parlerà di crescita” La replica di Bruxelles: “prima le riforme, poi si vede”
di Marco Palombi


Avete presente gli straordinari risultati raggiunti dalla Grecia da gennaio al 30 giugno, mentre era presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea? Se non vi viene in mente niente è perché non ci sono e questo dovrebbe dire parecchio su quel che è lecito attendersi da questo semestre, che arriva peraltro in una fase in cui l’Unione s’avvita nell’assestamento post-elettorale: la nuova Commissione Ue, cioè il governo europeo, va ancora definita e entrerà in funzione solo a novembre, mentre quella vecchia tramonta stancamente; la grande coalizione Ppe-Pse che domina l’Europarlamento funziona tanto bene nella spartizione delle poltrone (vedi qui in basso) quanto è divisa sulle ricette politiche.
È IN QUESTO contesto che, dopo il debutto di Matteo Renzi al Parlamento di Strasburgo, oggi l’Italia prende possesso del tanto atteso semestre europeo presiedendo l’Ecofin, la riunione dei ministri economici dei paesi dell’Unione. “A Bruxelles il dibattito su come spingere la crescita in Europa sta finalmente iniziando”, ha twittato ieri Pier Carlo Padoan. L’entusiasmo del nostro ministro del Tesoro per l’inizio del dibattito è senz’altro commovente, anche se non si sa quando la discussione finirà e in che senso. Il commissario Ue agli Affari economici , Siim Kallas, per dire, non ha cambiato verso per niente: “Prima le riforme e poi la flessibilità - ha scandito ieri al termine dell’ Eurogruppo - Il Patto è un pilastro della fiducia: aprire la discussione sulle regole può deteriorare la fiducia”.
Finito? Macché. Passa il ministro tedesco Schauble: “Vogliamo fare di più per gli investimenti e per la crescita, ma non deve essere un pretesto, una scappatoia per non fare quello che serve”.
D’altronde cos’è questo benedetto semestre europeo? Quali superpoteri garantisce all’Italia? I seguenti: organizzare le riunioni del Consiglio (in cui siedono i governi dei 28 paesi dell’Unione), anche a livello ministeriale come nel caso dell’Ecofin, e nel presiederle. E questo cosa comporta? Renzi può individuare delle priorità e proporle all’ordine del giorno delle riunioni. Non la bomba atomica, ma quasi.
IN REALTÀ se il semestre di Renzi sarà un successo lo si vedrà a Roma e non certo a Bruxelles: l’orizzonte di questo esecutivo è irrimediabilmente nazionale, il tempo delle piacevolezze diplomatiche di Monti e Letta è finito. L’ex sindaco di Firenze potrà però trovare valido aiuto nel coinvolgere gli italiani in una struttura ereditata dal suo predecessore: quella di comunicazione, insediata a palazzo Chigi, un budget da due milioni di euro e una decina di giornalisti addetti coordinati da Federico Garimberti, cronista politico (in aspettativa) dell’Ansa, agenzia per cui ha lavorato anche da Bruxelles.
Il compito più difficile di questo staff sarà probabilmente chiarire che la presidenza del Consiglio dell’Ue è altra cosa da quella del Consiglio europeo (che riunisce i capi di Stato e di governo) e pure dal Consiglio d’Europa, che è un’organizzazione internazionale che promuove i diritti umani.
CHIARITO QUESTO, gli italiani potranno cominciare ad appassionarsi al semestre europeo: ad oggi abbiamo già portato a casa un logo (una rondine stilizzata con il becco verde rivolto verso l’alto, la testa rossa e le ali e la coda dell’azzurro europeo), un ambasciatore (l’astronauta Luca Parmitano) e un agile programma di 80 pagine pieno di vaghi indirizzi politici. Titolo: “Europa. Un nuovo inizio”.
Non di sola comunicazione vive però una presidenza del Consiglio dell’Ue. La logistica è coordinata alla Farnesina dal ministro plenipotenziario (un diplomatico) Gabriele Altana, che gestisce la task force in cui si riuniscono pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, e quello delegato agli Affari europei Sandro Gozi, più un numero imprecisato di funzionari di palazzo Chigi, ministero degli Esterni e Interni. Referente a Bruxelles è Stefano Sannino, nuovo ambasciatore presso l’Unione europea.
Il budget per organizzare il tutto è di 68 milioni di euro, un po’ meno dei cento previsti da Letta, ma più dei 55 milioni spesi dalla Grecia nei sei mesi appena trascorsi. L’evento clou sarà il Forum Asem (cioè il vertice eurasiatico ) che si terrà a Milano - come quasi tutti i vertici informali - per promuovere Expo 2015 presso il pubblico asiatico. E speriamo che il semestre europeo di Telemaco serva almeno a questo. Per il resto, come al solito, servirà la politica (cioè il permesso della Germania).

Il Sole 8.7.14
Ma Berlino non cambierà rotta sul rigore
di Riccardo Sorrentino


La Germania rallenta. Non è del tutto una sorpresa, dopo la corsa un po' troppo rapida del primo trimestre, che lasciava intravvedere fattori del tutto temporanei (come il mite inverno, che ha sospinto le costruzioni). Stupisce però l'energia della frenata della produzione industriale di maggio e quella di aprile che a una prima lettura sembrava un mese di espansione mentre ora segna l'inizio della contrazione. L'economia tedesca non è dunque di fronte a un singolo mese "alterato"; e in Italia non può che scattare una domanda: cambierà qualcosa nella politica di Berlino?
Oggi, con i dati sull'export, si conosceranno tutti i contorni del rallentamento. Oltre alla produzione industriale, ad aprile e a maggio sono infatti calate anche le vendite al dettaglio e quindi, si può dedurne, i consumi. Se anche l'attività all'estero fosse indebolita o semplicemente in affanno, la ripresa tedesca apparirebbe meno brillante di quanto si sia finora pensato.
Nessun economista è preoccupato. Le previsioni di crescita per la seconda metà dell'anno restano molto positive, anche se il Pil della primavera potrebbe deludere (la Barclays ha appena rivisto le sue stime allo 0,1% dallo 0,4%). Questo è un bene anche per le tante imprese italiane che esportano in Germania. Resta il fatto che il +0,8% registrato nel Pil del primo trimestre è lontanissimo e - questo sì... - appare un dato alterato da fattori transitori.
È tenue anche la possibilità che - di fronte a un'attività meno brillante del previsto - il governo di Berlino possa sentirsi più "vicino" ai partner e mostrarsi meno rigido sulle politiche economiche. Non tanto perché i dati non giustificano un allarme sull'economia tedesca, quanto per il fatto che a dividere i tedeschi dagli "altri" - e dagli italiani soprattutto - è la diagnosi, e di conseguenza la cura, dei mali dell'economia. Per i tedeschi, ma anche per la Bce, per gli economisti della Banca dei regolamenti internazionali e molti altri, le difficoltà di molti paesi europei, Italia compresa, non trovano la loro causa in una carenza di domanda da curare con gli strumenti classici (anzi... keynesiani) e non controversi della spesa pubblica - possibilmente per investimenti - della politica monetaria espansiva e della redistribuzione.
Sono difficoltà, anche della domanda, causate da bilanci pubblici e privati saturi di debiti, se non si curano i quali ogni altro rimedio, pur necessario, diventa poco efficace, e ha costi elevati. Solo la Germania e la Francia - che zoppica ancora - possono con sicurezza affermare di non aver subito una recessione da bilanci (balance-sheet recession). Per Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia, Cipro il dibattito è invece aperto, anche se nessuno sembra aver voglia di parlarne davvero. Eppure se la discussione anche politica non verrà posta sui binari giusti si trasformerà nel più sterile dialogo tra sordi. O, peggio, in un gioco di potere che non fa bene all'efficienza economica, nome tecnico che indica crescita e lavoro.

il Fatto 8.7.14
Le risposte dei lettori
Tra appelli e referendum per salvare la democrazia
Dopo la denuncia del ”Fatto” sulla deriva autoritaria dieto le “riforme” di Renzi e Berlusconi, centinaia di lettere con le iniziative da adottare


L’appello per chiedere ai lettori come opporci alla svolta autoritaria di Renzi, Berlusconi&C è stato pubblicato sul giornale di domenica, ma sono già migliaia i messaggi arrivati. “Il modo migliore è resuscitare l’alleanza che vinse i referendum sulla riforma costituzionale di Berlusconi e sull’acqua pubblica”, scrive qualcuno. Chi invece propone che il “Fatto” segua “la sua linea politico-editoriale supportata dai lettori, e cerchi così di spezzare l’asse Renzi-Berlusconi”. Tra le diverse posizione anche quella di una manifestazione in piazza: “I grandi media, tranne il Fatto, sono complici. In questi momenti l’unica cosa che può fermare la svolta è una risposta popolare. Forte e urgente. Suggerisco, pertanto, una manifestazione in autunno”. O chi fa notare come “oggi a differenza di due o tre anni fa diventa arduo coinvolgere e far capire certe cose alle persone. La crisi e le retoriche parolaie hanno addormentato e rabbonito le coscienze civili”. Noi, come “Fatto”, andremo avanti con l’iniziativa, attraverso il giornale cartaceo e il sito Internet. Continuate a scrivere e a proporre la vostra idea, le pubblicheremo e, soprattutto, seguiremo le indicazioni che verranno fornite. Gli spunti interessanti sono già molti.

Seguono due pagine di lettere dei lettori che non importa riprendere

il Fatto 8.7.14
Il contributo
Verso il nuovo Medioevo
“Vogliono gestire il dissenso senza disturbi”
di Gianandrea Piccioli

Ex redattore e dirigente di Garzanti, Sansoni e Rizzoli.

Sì, siamo alle porte co’ sassi, per usare un gergo familiare al nostro frenetico e fatuo presidente del Consiglio. Siamo coinvolti in un mutamento geopolitico globale ed epocale che sta sconvolgendo ogni punto di riferimento, almeno per i più anziani, come me. Come scrisse Zweig alla fine della Prima guerra mondiale “Noi tutti, da un giorno all’altro, saremo obbligati a cambiar modo di pensare per colpa di questo sterminato oggi, di cui percepiamo solo adesso la forza e solo nella paura, saremo obbligati ad approdare a una nuova forma di vita (…)”. In pochi anni il panorama politico, sociale, economico, culturale si è sconvolto: 85 miliardari detengono da soli la ricchezza di tre miliardi e mezzo di persone, nuove egemonie si stanno delineando, in una spartizione feudale del mondo, son tornati i servi della gleba, i mari son pieni dei corpi di chi cerca scampo dagli orrori del sangue e della fame (prodotti quasi sempre da noi) e le oligarchie economiche annullano le forme democratiche nate dai disastri del Novecento. Renzi, da bravo politico, è furbo e cattivo e, più o meno consapevolmente, con l’appoggio dell’ineffabile Capo dello Stato, sta facendo quanto gli chiede la grande finanza globale, soprattutto americana: il traghettamento da una democrazia parlamentare a una presidenziale, con forte connotazione autoritaria: l’unica forma di governo ritenuta adatta a gestire la situazione attuale e i prossimi prevedibili sconvolgimenti. Un governo pronto a obbedir tacendo ai diktat delle grandi agenzie internazionali e in grado di gestire senza remore la piazza e il dissenso. Tutto il resto son chiacchiere: il mantra delle riforme, il mito della crescita, lo sviluppo, i giovani… Nulla di quanto si è letto in questi mesi riguarda la vera soluzione dei problemi urgenti, ma tutto è fumo negli occhi per far passare l’unica cosa che interessa: il cambiamento del nostro assetto costituzionale e democratico in vista del nuovo Medioevo. Ben venga l’allarme del Fatto. Come reagire? Non c’è più un partito che possa arginare l’esondazione antidemocratica: il Pd è complice, i 5Stelle sono sostanzialmente inaffidabili, il polo di destra è allo sbando (unica nota confortante), la lista Tsipras, per cui ho votato, è agli inizi e sembra soffrire i postumi di un parto prematuro e delle “malattie infantili ” della sinistra. La velocità degli eventi non rende nemmeno più praticabile la strategia della gloriosa vecchia talpa. Perché scrivo, allora? Un po’ per dare conforto a me stesso trovandomi in una compagnia che nutre le mie medesime angosce. Un po’ per esortare tutti a mantener alta la guardia, a dismettere, una volta tanto, le rivalità interne, le gelosie ideologiche, le ambizioni personali; a sentirsi partecipi di uno spirito nuovamente resistenziale, perché di questo si tratta. Non sto dicendo che Renzi e le sue girls siano una sorta di nuovo fascismo contro il quale si debba andarsene armati in montagna, per carità. Ma che si debbano usare tutti i mezzi democratici a disposizione, da quel che resta dell’informazione ai referendum abrogativi, dalla denuncia continua alla proposta documentata di soluzioni alternative. Ma soprattutto alla creazione di reti con Libertà e Giustizia, Lista Tsipras, il mondo cattolico democratico (che si sta risvegliando dopo il lungo inverno postconciliare), le schegge meno parrocchiali della sinistra radicale, il mondo della scuola non ancora completamente spianato, quel che resta del sindacato non asservito. Occorre che l’area della consapevolezza e del dissenso si estenda il più possibile per mettere sabbia negli ingranaggi, rallentare la deriva, avere la possibilità di organizzare un’alternativa democratica. Il Fatto, pur giovane, ha ormai una tradizione nella capacità di controinformare e mobilitare. Il Manifesto, che nella nuova gestione si è buttato alle spalle i velleitarismi del passato, è un quotidiano di grande caratura intellettuale e offre ogni giorno analisi e inchieste che andrebbero divulgate. Sono giornali diversissimi per storia, stile e visione, ma in tempi come questi sarebbe anche auspicabile non dico una collaborazione ma almeno la consapevolezza che si condividono le stesse preoccupazioni. Non è più tempo (se mai lo è stato) per i distinguo. Occorre ripensare la Resistenza storica, non solo italiana ma europea, per quello che è stata: modo d’essere e categoria interpretativa, esigenza morale e stile di vita. Ne saremo capaci?

l’Unità 8.7.14
Vendola: «Emigrato in Canada? Fa troppo freddo...»
Il leader di Sel smentisce le indiscrezioni: «Non faccio la valigia»
Ma la scissione è una ferita aperta
di A. C.


Che fa? Se ne va davvero in Canada? I telefoni degli esponenti di Sel ieri sono stati roventi. Per tutta la giornata. Telefonate di iscritti e militanti che chiedono ragguagli. Il quesito riguarda Nichi Vendola che, secondo indiscrezioni di stampa, sarebbe pronto ad emigrare in Canada nel 2015, alla fine del suo mandato alla guida della Puglia.
Che Vendola ami il Canada non è un mistero: lì è nato il suo compagno Ed e spesso la coppia ci passa le vacanze. Ma da qui ad emigrare il passo è molto lungo. Anche perché in politica 10 mesi sono lunghissimi, ed è questo il tempo che Vendola ha ancora davanti come governatore. Lui smentisce, con una certa nettezza: «Ho letto un racconto ame sconosciuto sul mio stato d’animo, di un leader depresso pronto a partire. Non è così », spiega da Bari. «Il vostro presidente di Regione non è depresso, non ha fatto la valigia e non vuole andare a vivere in un altro posto che non sia questo. E poi in Canada fa troppo freddo...».
In Transatlantico la truppa di Sel è un po’ smarrita. Ma chi lo conosce bene assicura che «ogni tanto Nichi ha di questi pensieri, magari avrebbe pure voglia di staccare dalla politica e dedicarsi alla scrittura e agli studi. Ne parla spesso, poi non lo fa mai...». Quale sarebbe la ragione? «Non intende lasciare alla deriva la barca di Sel. Prima deve condurla in un porto sicuro, poi si vedrà», spiega un deputato. Certo, la ferita provocata dalla scissione di Gennaro Migliore non è ancora sanata. Né Sel ha ancora trovato un equilibrio tra chi spinge verso Tsipras e chi vuole restare comunque ancorato a una sinistra di governo: una faglia che, pur sottotraccia, vive anche nella truppa “depurata” dai 12 transfughi che sono andati via nelle ultime settimane. Tra molti deputati rimasti, infatti, un eccesso connubio con i partner della lista Tsipras viene visto come fumo negli occhi.
Oggi il gruppo della Camera si riunirà per scegliere il nuovo capogruppo. In pole position c’è Arturo Scotto, 36 anni, campano, eletto per la prima volta in Parlamento nel 2006 con i Ds e poi uscito con Mussi al congresso di Firenze nel 2007. Lui è uno dei pontieri che nelle scorse settimane aveva lavorato per far rientrare lo strappo con Migliore e gli altri. Il 12 luglio poi c’è la riunione dell’assemblea nazionale di Sel, la prima dopo lo strappo. E il 19 la riunione a Roma dei comitati della lista Tsipras. Appuntamenti molto delicati per Sel che ha in cantiere una conferenza programmatica per l’autunno in cui vorrebbe rilanciare il proprio profilo di opposizione al governo Renzi ma da una prospettiva di «sinistra di governo». «Vendola in Canada? Una bufala incredibile, non c’è nulla di vero, anzi sarà più protagonista di prima», assicura Nicola Fratoianni, il coordinatore di Sel. Del resto, in questi giorni, per il governatore sono arrivate buone notizie dalla Corte dei Conti sul governo della Puglia. I bilanci regionali sono stati valutati positivamente dai magistrati contabili: «Sono stati rispettati gli equilibri di bilancio, il patto di stabilità interno ed i limiti legali d’indebitamento ». Voti buoni anche sulla spesa pubblica, la capacità di riscossione fiscale e sul delicato capitolo della Sanità, dove «sono stati conseguiti significativi miglioramenti delle performance dell’intero sistema... si è passati da una situazione di disavanzo di 332 milioni di euro ad un saldo attivo di 3,9 milioni. Una boccata d’ossigeno per il governatore. E anche, dicono i suoi, «una certificazione delle sue capacità di governo».

La Stampa 8.7.14
Vendola: “Ferito dalla frattura in Sel
Ma non farò le valigie per il Canada”
Il governatore della Puglia: «Fuga imminente? Tutte invenzioni. Nella mia carriera di sconfitte politiche ne ho avute parecchie ma non ho mai lasciato»
di Gianluca Nicoletti

qui

il Fatto 8.7.14
risponde Furio Colombo
Marchionne e Renzi, due fratelli


CARO FURIO COLOMBO alcuni giorni fa il d.a. Chrysler (che ha possiede, nel nostro Paese, alcune filiali chiamate Fiat) ha detto ai suoi dipendenti italiani che un’ora di sciopero è un gesto contro la patria. Poco dopo (5 luglio) il premier italiano ha detto che chi gli fa opposizione boicotta l’Italia. C’è un legame pericoloso fra i due proclami...
Renato

È IL MANIFESTARSI sempre più aperto e sempre più privo di cautele che sta diventando il nuovo “mode” politico italiano e che “il Fatto Quotidiano” ha definito, propriamente, “democrazia autoritaria” (6 luglio). Nel caso di Marchionne la democrazia viene colpita abolendo il sindacato, cercando la trattativa diretta (che, data la sproporzione immensa di potere fra il capo azienda e ciascun lavoratore, è come un discorso alla piazza), e sradicando ogni resistenza operaia attraverso la creazione, altrove, di un’altra fabbrica e l’abbandono di ciò che rimane in Italia. Nel caso di Renzi il passaggio avviene in tre gradi. Nel primo si dice: discutiamo con tutti ma poi si fa come diciamo noi (“noi” è lui, l’unico vero e giusto, circondato da lodi senza fine di partecipanti, sostenitori e clienti). Nel secondo chi dissente è un “gufo” (un gufo è stupido oltre che di malaugurio). Nel terzo l’oppositore non è uno che ha un’altra idea, ma qualcuno che deliberatamente reca danno al Paese attraverso il sinistro espediente del sabotaggio. A questo punto giova ricordare che i due, Marchionne e Renzi, sono in contatto: si lodano e si complimentano a vicenda. Il primo ha potuto portarsi via la Fiat, privandone definitivamente l’Italia, senza alcun ostacolo burocratico, fiscale o politico. Solo questo giornale ha detto la verità (“La Chrysler ha comprato la Fiat” e quasi tutta la produzione, adesso, si fa in America) ma a poco a poco quasi tutti i grandi giornali (che avevano proclamato “La Fiat ha comprato la Chrysler”) stanno finalmente dicendo la verità, benché sottotono, solo in pagine economiche, e senza chiarire. Marchionne, d’altra parte, che ha potuto condurre indisturbato la più grande delocalizzazione della storia industriale, ricambia (e come potrebbe esimersi?) con continue lodi per Renzi. Renzi, fingendo di non notare che l’Italia ha perduto la Fiat, può vantarsi: anche le imprese americane mi sostengono. Resta una domanda: chi, tra queste persone e i loro oppositori, ha sabotato la ex potenza industriale Italia?

Il Sole 8.7.14
Art. 18, confronto nella maggioranza
Cinquanta senatori centristi lo vogliono abolire
Il Pd: cancellarlo solo nel periodo di prova
di Giorgio Pogliotti


ROMA Maggioranza divisa al Senato, dove si sta esaminando il Jobs act, sul tema delle tutele in caso di licenziamento per il contratto a tempo indeterminato. Questa mattina alle 8 è stato convocato un vertice con il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, per cercare di trovare una posizione comune, prima che l'XI Commissione alle 11.30 inizi a votare i circa 450 emendamenti al Ddl con le deleghe al governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, politiche attive, riordino dei rapporti di lavoro e sostegno alla maternità.
L'articolo al centro del braccio di ferro è il numero 4. Il nodo da sciogliere riguarda l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una cinquantina di senatori della maggioranza - da Svp a Ncd, Udc, Popolari per l'Italia e Scelta civica - vuole cancellare per i contratti a tempo indeterminato, in caso di licenziamento, la tutela reale dell'articolo 18, prevedendo che la reintegra resti in vigore solo per i licenziamenti discriminatori. Mentre il Pd è disponibile a congelare l'applicazione dell'articolo 18 solo per un periodo di prova iniziale, nella convinzione che ciò possa favorire nuove assunzioni. Poletti sembra intenzionato a confermare il proposito di attenersi al contenuto della delega: «Quello che il governo voleva dire lo ha scritto nella delega», ha ripetuto in più occasioni. Ma basterà questo per ricompattare i partiti della maggioranza?
«Chiediamo che venga confermato l'impegno già preso nel preambolo del Dl Poletti», converito nella legge 78/2014, afferma il presidente della commissione Lavoro, Maurizio Sacconi (Ncd), relatore del Ddl che «nelle more dell'adozione di un testo unico semplificato sulla disciplina dei rapporti di lavoro» prevede la «sperimentazione del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente», salvando l'attuale articolazione delle tipologie di rapporti di lavoro. «Tocca al governo assumersi la responsabilità – aggiunge Sacconi–. Sarebbe paradossale dire di "no" a quanto è stato sottoscritto solo pochi mesi fa dal governo e dalla maggioranza. L'ambizione delle deleghe è quella di riformare tutto il sistema della flexsecurity, il mercato del lavoro è considerato un tema emblematico da tutti gli organismi internazionali. Sarebbe un'occasione persa se non si intervenisse per superare in modo definitivo l'articolo 18, prevedendo il pagamento di un'indennità risarcitoria, proporzionale all'anzianità di servizio». Per Sacconi, insieme al tema del recesso, occorre intervenire anche per «dare più flessibilità alle mansioni dei lavoratori», regolate sempre dallo Statuto dei lavoratori.
Diversa la posizione del Pd: «Intendiamo attenerci a quanto stabilisce la delega» afferma la capogruppo Pd in commissione lavoro, Annamaria Parente, che prevede l'introduzione, eventualmente in via sperimentale, di una nuova tipologia contrattuale per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti. «È fuori contesto richiamarsi alla premessa del Dl Poletti – aggiunge Parente –. L'articolo 18 non è all'ordine del giorno e non va abolito nell'attuale contesto, considerando che la perdita del posto di lavoro rappresenta un dramma sociale e i servizi per l'impiego sono inefficienti». Per Parente, inoltre, «vanno razionalizzati gli incentivi alle assunzioni» e «destinati tutti alla stabilizzazione dei giovani, al termine dei 3 anni del periodo di prova».
In questo quadro la sfida per la maggioranza è rispettare la tabella di marcia che prevede l'esame dell'aula del Senato tra il 15 e il 17 luglio del testo che, nei piani del governo, va approvato definitivamente entro l'anno.

Repubblica 8.7.14
Il Papa: “Chiedo perdono per i preti pedofili hanno profanato Dio”
Francesco incontra a Santa Marta sei vittime di abusi sessuali “Le omissioni pesano sul mio cuore e su quello della Chiesa”
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO .
Nel suo incipit la Chiesa era intransigente verso gli stupratores puerorum, gli stupratori dei bambini. Poi qualcosa è cambiato, soprattutto a causa dei peccati di omissione di alcuni vescovi che al posto di punire spostavano i colpevoli di diocesi in diocesi facendo finta di non vedere che, in questo modo, moltiplicavano crimini e sofferenze. Il morbo, non estirpato, si diffondeva. Lo ha riconosciuto ieri anche papa Francesco in una delle omelie più gravi del suo pontificato: «I capi della Chiesa non hanno risposto in maniera adeguata alle denunce di abuso presentate da familiari e da coloro che sono stati vittime di abuso». Gli abusi, e in particolare i suicidi di chi non ha retto alla pena, «pesano sul mio cuore, sulla mia coscienza, e su quella di tutta la Chiesa». Per questo, «chiedo perdono anche per i peccati di omissione». E ancora: gli abusi sono «atti esecrabili che hanno lasciato cicatrici per tutta la vita». I sacerdoti coinvolti sono colpevoli di aver «profanato la stessa immagine di Dio».
Convitto di Santa Marta, ieri mattina. Per la prima volta sei vittime di abusi sessuali commessi da preti (tre uomini e tre donne provenienti da Germania, Irlanda e Regno Unito) entrano nella casa del Papa, partecipano alla messa e poi dialogano con lui. «Ciascuno di loro - ha detto padre Federico Lombardi - ha avuto un incontro personale con Francesco di circa mezz’ora». Anche Benedetto XVI incontrò le vittime durante i viaggi apostolici negli Stati Uniti, in Australia, Malta, Regno Unito e Germania. Il suo gesto ruppe una inconcepibile ipocrisia. Bergoglio, tuttavia, fa qualcosa di più: invita le vittime direttamente a casa sua. Li fa entrare dove, fino a qualche anno fa, i loro nomi creavano soltanto imbarazzo e irritazione. Erano come appestati, le vittime. Mentre ora il paradigma è ribaltato. Già di ritorno dal viaggio in Terra Santa Francesco aveva detto ai giornalisti che il crimine di pedofilia è paragonabile a una «messa nera». E di culto sacrilego ha parlato ancora ieri, insieme confidando alle vittime il suo stato d’animo: «Da tempo sento nel cuore un profondo dolore, una sofferenza, tanto tempo nascosto, dissimulato in una complicità che non trova spiegazione ». La pedofilia è «come un culto sacrilego perché questi bambini e bambine erano stati affidati al carisma sacerdotale per condurli a Dio ed essi li hanno sacrificati all’idolo della loro concupiscenza ».
È forse questa la riforma più importante che Bergoglio sta portando nella Chiesa. Non soltanto il rinnovamento della struttura vaticana. Ma anche, soprattutto, quella del clero. Ratzinger nella via crucis del 2005 al Colosseo picchiò duro contro la «sporcizia» presente nella Chiesa e aprì la via di questa riforma. Ma c’è voluto l’arrivo di un religioso al timone della Chiesa per dare quell’esempio che oggi i vescovi diocesani non possono più disattendere. Un religioso come religioso è il cardinale Sean O’Malley arcivescovo di Boston. Fu lui fra i primi a rompere, dopo l’éra del cardinale Bernard Law, il tabù di una diocesi macchiata da crimini orrendi commessi dai suoi preti. Dal nord America un vento nuovo entrò nella Chiesa. Non a caso è al cappuccino O’Malley che il gesuita Francesco ha affidato la Commissione per la Tutela dei Minori creata lo scorso dicembre. Una Commissione che ha aperto le porte alle vittime, ora di casa fra le sacre mura.

l’Unità 8.7.14
«Non c’è posto per chi abusa dei minori, vi chiedo scusa»
Papa Francesco riceve sei vittime di violenza da parte di preti pedofili, per la prima volta
in vaticano «Piango assieme a voi»
Il Pontefice invoca il perdono per le «omissioni» sulle denunce
di Roberto Monteforte


Nella Chiesa «non c’è posto per coloro che commettono abusi sui minori». Lo ha affermato ieri mattina Papa Francesco nella omelia pronunciata ieri mattina nella cappella della Casa di Santa Marta. Non è stata una messa come le altre. Il pontefice l’ha dedicata ad una ristretta delegazione di uomini e donne, sei adulti provenienti da Germania, Gran Bretagna e Irlanda che nell’infanzia hanno subito violenza sessuale da parte di preti pedofili. A loro e a tutte le vittime di abuso il pontefice ha rivolto un’accorata richiesta di perdono anche per «le omissioni» della Chiesa che ha finito per coprire questi «tradimenti» e lasciare sole le vittime.
Il Papa dopo la messa ha voluto incontrare a lungo e in modo riservato ciascuna delle vittime la cui identità si è voluto rimanesse riservata. Così per oltre tre ore dalle 9 alle 12,20 in una sala della residenza di Santa Marta, vi è stato un intenso e commovente faccia a faccia. Papa Francesco ha ascoltato le loro storie, ha accolto il loro dolore ed espresso il suo di dolore per il male arrecato a loro e alle loro famiglie.
«Vi chiedo perdono e piango con voi anche per quei suoi figli che hanno tradito la loro missione e abusato di innocenti » aveva detto nella sua omelia con voce rotta dall’emozione. Le sue sono state parole di dolore, commozione, perdono, ma anche il segno di impegni concreti per sradicare dalla Chiesa quelli che è tornato ad indicare come «atti sacrileghi», molto più che «atti deprecabili ». Lo spiega: «È come un culto sacrilego, perché questi bambini e bambine erano stati affidati al carisma sacerdotale, per condurli a Dio e sono stati sacrificati all’idolo della loro concupiscenza». Lo sottolinea: sono atti che hanno lasciato «cicatrici per tutta la vita», «ferite » che hanno determinato «una fonte di profonda e spesso implacabile pena emotiva e spirituale, e anche di disperazione». È un dramma che oltre alle vittime ha coinvolto anche le loro famiglie. Lo sottolinea il pontefice. «Alcuni hanno anche sofferto la terribile tragedia del suicidio di una persona cara». «La morte di questi amati figli di Dio - afferma - pesa sul cuore e sulla mia coscienza, e di quella di tutta la Chiesa». Papa Francesco guarda negli occhi questi uomini e donne, ne sottolinea il coraggio della speranza malgrado «la profonda oscurità» in cui, loro malgrado, sono caduti. Perché, c’è chi per questo «tradimento » e questo «abbandono» subito da parte degli uomini di Chiesa ha perso la fede. Invece la loro presenza a Santa Marta, per Bergoglio, rappresenta «un miracolo della speranza» che consente una riconciliazione da lui profondamente sentita. «Davanti a Dio e al suo popolo - scandisce - sono profondamente addolorato per i peccati e i gravi crimini di abuso sessuale commessi da membri del clero nei vostri confronti e umilmente chiedo perdono».
Ma vi è forse un torto maggiore che le vittime di abuso hanno subito. È stato quello di «omissione» di quei capi della Chiesa che hanno girato loro le spalle, che «non hanno risposto in maniera adeguata - riconosce - alle denunce di abuso presentate da familiari e da coloro che sono stati vittime di abuso». Anche per «questa sofferenza ulteriore a quanti erano stati abusati che ha messo in pericolo altri minori» chiede perdono il pontefice. È un preciso cambio di passo quello che Papa Francesco chiede alla Chiesa. Non sono più consentite sottovalutazioni, debolezze o coperture verso la pedofilia.
Ne è un segno ulteriore il riconoscimento e la gratitudine di Bergoglio verso il coraggio mostrato dalle sei vittime e da altri nel loro impegno a far emergere la verità. Definisce «un servizio di amore» l’aver «fatto luce su una terribile oscurità nella vita della Chiesa». E poi ci sono anche gli impegni concreti presi dal Papa argentino. Li ricorda nella sua omelia. «Non c’è posto nel ministero della Chiesa - assicura - per coloro che commettono abusi sessuali; e mi impegno a non tollerare il danno recato ad un minore da parte di chiunque, indipendentemente dal suo stato clericale». «Tutti i vescovi - ha continuato - devono esercitare il loro servizio di pastori con somma cura per salvaguardare la protezione dei minori». E ha aggiunto «renderanno conto di questa responsabilità ».
Il Papa gesuita lo fa capire: se indica i percorsi, verifica anche la loro concreta applicazione. Nelle sue linee contro la pedofilia vi è l’impegno «a vigilare sulla preparazione al sacerdozio» e poi vi è l’attività della Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori presieduta dal cardinale O’Malley che ha organizzato l’incontro di ieri e già il giorno prima era al lavoro per mettere a punto la propria azione.
Ieri Bergoglio ha mostrato come per la Chiesa sia centrale l’ascolto e l’attenzione verso le vittime. Ha chiesto l’«ausilio » di tutti per battere la pedofilia a difesa di tutti i minori, «a qualsiasi religione appartengano». Chiede aiuto per definire «le migliori politiche e procedimenti nella Chiesa universale per la protezione dei minori e per la formazione di personale ». Quindi Francesco ha chiesto di pregare perché riesca nella sua azione. «Perché gli occhi del mio cuore vedano sempre con chiarezza la strada dell’amore misericordioso e Dio mi conceda il coraggio di seguire questa strada per il bene dei bambini e non permettere che alcun lupo entri nel gregge».

La Stampa 8.7.14
“Ma deve dimostrare con i fatti di voler andare fino in fondo”
Il centro anti-abusi Usa: “Queste parole non bastano”
di Paolo Mastrolilli


«L’incontro di ieri servirà ad alcuni adulti vittime degli abusi per sentirsi meglio, ma solo due fatti dimostreranno un autentico cambiamento nella linea della Santa Sede, per proteggere i bambini di oggi dalle molestie: primo, la collaborazione con le autorità giudiziarie civili, per consentire e aiutare i processi contro gli accusati; secondo, la riduzione allo stato laicale non solo dei colpevoli, ma anche di chi li ha coperti».
Sentiamo David Clohessy, direttore del Survivor’s Network of those Abused by Priests (Snap), perché la sua voce è stata sempre la più intransigente nel giudicare gli atti della Chiesa sulla questione della pedofilia, e un mutamento di posizione da parte sua significherebbe che siamo arrivati al punto di svolta.
Perché resta così prudente sulle iniziative prese da papa Francesco?
«Le parole sono utili, ma fino ad un certo punto. Possono fare bene agli adulti, che peraltro hanno già gli strumenti per curarsi dagli effetti delle molestie, ma non proteggono i bambini ancora esposti al rischio di abusi. Per raggiungere questo obiettivo, che è il più importante, servono i fatti».
Oltre a scusarsi, il Pontefice ha detto che non tollererà alcuna molestia, dai laici o dai religiosi, e ha avvertito i vescovi che sono responsabili di quanto avviene nelle loro diocesi. Non è un progresso?
«Sono parole. Francesco ha il potere di realizzare i fatti, come sta dimostrando nella gestione del governo della Chiesa e delle finanze. Sul tema della pedofilia, però, finora non ha concluso quasi nulla di concreto».
Jozef Wesolowski, ex nunzio nella Repubblica dominicana, è stato condannato e ridotto allo stato laicale: questo non è un fatto?
«Sì, perciò ho detto che non ha concluso “quasi” nulla. È ancora troppo poco, però. Wesolowski, infatti, gira sempre libero in Vaticano».
Forse perché sta aspettando l’appello?
«Certo, ma anche perché non ha ancora subito un processo penale. Se venisse giudicato dalla magistratura laica del paese dove aveva commesso i suoi reati, forse sarebbe già in prigione per evitare che colpisca ancora. Questo è un punto discriminante. La cartina di tornasole per la serietà della Santa Sede nel combattere e prevenire la pedofilia sarà la sua disponibilità a consentire che le autorità civili dei paesi dove sono avvenuti i crimini processino penalmente gli accusati».
Il fatto che Wesolowski sia stato «spretato», intanto, gli toglie le immunità che aveva come diplomatico.
«La riduzione allo stato laicale dei colpevoli di abusi è un atto positivo, ma chiaramente dovuto. Il vero segnale che la Chiesa è determinata a prevenire le molestie future, invece, ci sarebbe se fossero “spretati” anche i complici dei pedofili che li hanno coperti. Robert Finn, vescovo di Kansas City-Saint Joseph, è stato condannato per aver nascosto le azioni dei colpevoli di abusi, eppure è ancora al suo posto. Quando il Papa lo rimuoverà, dimostrerà con i fatti che i suoi richiami alle responsabilità dei capi della Chiesa non sono solo parole. Solo a quel punto, infatti, i vescovi capiranno che dovranno essere attivi nella prevenzione, e nella collaborazione con le autorità civili».

Repubblica 8.7.14
“Quelle molestie in vacanza con i salesiani, quarant’anni fa”
intervista di Vera Schiavazzi


TORINO. «Avevo 14 anni. Ricordo ancora i calzoni di velluto alla zuava e le camicie a scacchi indossate dai sacerdoti in quella casa salesiana di Fiéry, sopra Champoluc, in Val d’Aosta, le tisane che ci davano la sera. Ma soprattutto le mani di quei due sacerdoti che, uno alla volta, venivano nella mia stanzetta per parlarmi, prima di abbracciarmi e spingermi verso il letto tentando di infilarle nel mio pigiama e toccarmi nelle mie parti intime. Cosa provavo? Disagio, vergogna. E terrore».
Enrico Simone oggi ha 53 anni, da quasi 11 vive a Londra dove un programma terapeutico che durerà per il resto della sua vita lo ha aiutato a liberarsi dalla dipendenza da stupefacenti. Racconta, seduto nella hall di un grande albergo del centro di Torino, la sua storia di vittima di abusi che diventa poi un cattivo ragazzo e, solo molto tempo dopo, un uomo consapevole. Enrico è sposato, lavora e continua a frequentare come paziente la comunità di Charter Harley Street. Sono passati 40 anni da quando i due sacerdoti, oggi entrambi scomparsi, avrebbero abusato di lui nella casa di vacanze estiva collegata a Valdocco, centrale salesiana di Torino, e al liceo Valsalice ambedue frequentati da Enrico, oltre che dal padre, famoso docente universitario di letteratura francese, e dai fratelli. Enrico era uno di quei rampolli di quella Torino bene che amava affidare i suoi figli ai metodi educativi di don Bosco.
Perché parlare ora? Si aspetta un risarcimento?
«Nulla di tutto questo. Ho deciso di parlare perché, d’accordo con la mia comunità abbiamo deciso che fosse il momento giusto. Ho imparato che se non parlo dei miei demoni li lascio crescere dentro di me. Quei fatti hanno segnato profondamente la mia vita. Come molti bambini vittime di abusi, che negli stessi anni ho subito anche in casa da parte di un assistente di mio padre, ho creduto che fosse anche colpa mia. Così, ho rinunciato a essere come gli altri, ho smesso di studiare e preso la strada sbagliata: l’eroina, il più potente narcotico al mondo, fu per me la scelta più ovvia per non soffrire più. Non cerco giustificazioni, oggi una strada l’ho trovata e ho imparato che non tutte le vittime di abusi sessuali finiscono come me. Tanti dimenticano o fingono di aver dimenticato. Ma non si può perdonare ».
I suoi genitori non l’ascoltarono?
«Mio padre non seppe mai: è morto quando avevo 16 anni, totalmente innamorato dei metodi salesiani con i quali si era formato in collegio. Raccontai tutto a mia madre, anni dopo, ma non mi credette. Non voglio accusarli. Pensavano che quelle scuole, quelle colonie estive fossero il meglio per noi. Io dentro di me speravo solo che l’estate finisse, combattuto tra la vergogna e il pensiero che avrei dovuto dire la verità».
Oggi cerca vendetta?
«No. Ho scritto al preside del liceo Valsalice, mi ha risposto il Superiore dei Salesiani del Piemonte, dovrei incontrarlo nei prossimi mesi. Gli ho detto che quei preti avranno trovato sprangata la porta del Paradiso e mi ha risposto di si. Si è detto addolorato, è stato gentile, non dubito della sua buona fede e non può sapere quello che accadeva 40 anni fa in una sperduta casa di vacanze in montagna. Ma ho deciso di parlare perché spero di poter aiutare qualcun altro».
In che modo?
«Spero che altri spezzino quel muro di omertà. Uno resta zitto per paura delle conseguenze. Ma tra i miei amici ho sentito parecchie storie simili alla mia».
Si sente un militante anti-pedofilia?
«No. Però una cosa voglio proporla, e spero che i Salesiani la accettino: una procedura di whistleblowing, che consenta a ragazzini che subiscono abusi di denunciarli senza doversi esporre».

il Fatto 8.7.14
Dall’Irlanda agli Usa, una sfilza di scandali


I CASI DI PEDOFILIA con protagonisti preti cattolici hanno una lunga storia e una serie di precedenti che non conoscono confini. Lo scandalo che fece più clamore, forse perché il primo che ricevette una forte eco da parte dei media, accadde in Irlanda. Nel 1994 Brendan Smyth, sacerdote cattolico con alle spalle oltre 40 anni di attività pastorale, fu accusato di abusi su 91 minori. I casi irlandesi vennero raccontati in un documentario della Bbc molto discusso in tutto il mondo: Sex crimes and the Vatican. L’opera trasmessa in Italia, malgrado le polemiche, durante la trasmissione Anno Zero di Michele Santoro, denuncerebbe i casi di ben 100 bambini abusati da 26 sacerdoti irlandesi, che sarebbero stati insabbiati dal Vaticano e dall’allora cardinale Ratzinger, capo della Congregazione della Dottrina della Fede. Negli Stati Uniti le statistiche sono impressionanti: dal 1950 al 2002 4.392 sacerdoti sono stati accusati di relazioni sessuali con “minorenni”. Due diocesi (Faibanks e Milwaukee), sono state costrette a dichiarare bancarotta a causa dei risarcimenti riconosciuti alle vittime. Nel 2002 la Conferenza episcopale americana ha nominato una commissione per indagare sul fenomeno degli abusi sui minori perpetrati da preti. Il governatore repubblicano e cattolico Frank Keating, messo alla direzione decide di dimettersi poco dopo paragonando l’operato della Chiesa riguardo questi casi simile a quello della mafia. In Belgio sarebbero invece 475 i casi di abusi sessuali compiuti su bambini da membri del clero e 19 i tentativi di suicidio da parte delle vittime. In Brasile vennero sequestrati addirittura dei diari compilati da alcuni preti pedofili sulle tecniche di adescamento utilizzate e a Barretos venne aperto in segreto dai sacerdoti italiani della Congregazione di Gesù Sacerdote (padri venturini) un centro di cura per preti pedofili. In Francia René Bissey, un sacerdote pedofilo colpevole di pedofilia tra il 1989 e il 1996 fu condannato a 18 anni di carcere, e contestualmente il suo vescovo, monsignor Pierre Pican, a tre mesi di carcere per aver rifiutato di denunciare alla magistratura il sacerdote della sua diocesi. In Italia fece particolarmente clamore il caso di don Pierangelo Bertagna che confessò 38 abusi a partire dal 1988.

il Fatto 8.7.14
Il genocidio del Rwanda e i silenzi della Chiesa
di Maurizio Chierici


L’INCHINO della Madonna alla casa del boss è l’arroganza dialettale di chi si aggrappa alla religione con l’ambizione di rafforzare il potere mafioso. Ma i meccanismi non cambiano nelle società sofisticate: potere sinonimo di fede; fede sinonimo di potere, trascurata la pietà. Non importa se dio ha un altro nome. Musulmano imbottito di esplosivo salta in aria fra i ragazzi della scuolabus. O Israele che bombarda col fosforo bianco i palestinesi di Gaza. Il saggio di Vania Lucia Gaito (Il genocidio del Rwanda - il ruolo della Chiesa, editore l’Asino d’oro) attribuisce valore simbolico alle responsabilità che 20 anni fa hanno impietrito il piccolo paese africano. Quasi un milione di morti, altrettanti profughi.
“Le strade erano vuote…“. Analisi di una psicologa che va in Africa per capire e raccogliere le memorie mostruose “che maturano dentro“. Viaggi fra i dubbi, solo una certezza sull’olocausto non scatenato dalla ferocia delle etnie rivali ma programmato dalle cancellerie coloniali con l’appoggio della chiesa di Roma. Che da principio sceglie di affidarsi alla minoranza Tutsi, alti, pelle chiara; Hutu, minuti, neri quasi blu. Tutsi comandati a controllare gli Hutu contadini-pastori, ma appena aspirano all’indipendenza, chiese e signori della colonia rovesciano il disprezzo etnico e passano con la maggioranza Hutu. Cominciano i “piccoli massacri“ che l’orrore 1994 sembra concludere. Nessuno è sicuro che non se ne stia preparando un altro, racconta alla Gaito Michela Fusaschi, antropologa dell’Università di Roma Tre: da 20 anni va e viene dal Rwanda dove la divisione resta profonda.
n NON SOLO fra la gente, anche nella Chiesa. Nel 2004 la professoressa bussa alla porta dei Salesiani di Kigali. L’accompagna un amico. “Lei può entrare, lui no: è un Tutsi, persone cattive… “. Gaito ricostruisce l’impunità di suore e preti coinvolti da testimoni nel genocidio. E di sacerdoti che ordinano l’assassinio di altri sacerdoti, etnia “nemica“. La storia di don Athanase Se-romba passa da Firenze. Duemila Tutsi in fuga si rifugiano nella sua chiesa. Don Athanase chiude le porte e chiama le squadre della morte: bombe e mitraglie, donne e bambini. Li seppellisce con due buldozer.
In Italia cambia nome: don Anastasio Sumba Bura. Diventa vice parroco a San Martino Montughi, ma African Right e Carla Da Ponte, procuratore internazionale per i crimini nel Rwanda, pretendono l’estradizione. La diocesi lo nasconde; Berlusconi, capo del governo, rifiuta. Alla fine viene giudicato in Tanzania: prigione a vita. Un altro prete ce l’ha fatta: Emmanuel Uwayezu, oggi vice parroco nella chiesa di Ponzano , Empoli. Avrebbe favorito l’assassinio di 80 studenti nella scuola della quale era direttore. I racconti non cambiano: disprezzo e ferocia. L’accusa riguarda anche il dopo: Uwayezu invita i gendarmi ad addestrare gli allievi Hutu per dare la caccia a chi si è salvato.
Il tribunale non riesce a riascoltare i testimoni e tutto si è fermato. Avevano denunciato Emmanuel esuli nel Congo. Sono tornati a casa ma 20 anni dopo il Rwanda ha ancora paura. I missionari sono cambiati, sta cambiando il Vaticano di Francesco: possono sopportare il dubbio?

il Fatto 8.7.14
Nicola Gratteri, Procuratore di Reggio Calabria
“Le ’ndrine sfidano il Papa: o si media o sarà scontro”
Ma dove sono gli 800 uomini annunciati dal ministro?
intervista di Beatrice Borromeo


La ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa. Adesso le strade sono due: si va allo scontro o si cerca la mediazione. Può succedere di tutto”. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, aveva già lanciato l’allarme in un’intervista rilasciata qualche mese fa al Fatto: “La linea dura di Papa Francesco può metterlo in serio pericolo”. Così, la decisione dei detenuti di non andare più a messa nel carcere di Larino, oltre alla processione religiosa che s’inchina davanti alla casa del boss, non si possono più leggere come isolati gesti di protesta. “È la loro risposta alla scomunica del Papa. Ma non implica necessariamente l’inizio di una guerra. Chiesa e ‘ndrangheta si stanno annusando: il braccio di ferro deve ancora cominciare”.
Gratteri, pensa che i mafiosi, messi alle strette, possano ricorrere alla violenza per risolvere questo conflitto?
Potrebbe succedere, sì. La situazione per adesso è molto fluida. Ci sono diversi fattori in gioco. Bisogna innanzitutto capire se preti e vescovi applicheranno davvero questi diktat con l’intransigenza richiesta da Francesco.
Si aspettava che Bergoglio scomunicasse i boss?
Diciamo che il discorso di Cassano Ionio lo aspettavamo in molti da un secolo e mezzo. Questa scomunica è storica, mette in discussione il silenzio-assenso e gli accordi più o meno taciti su cui si basano i rapporti di certe parti della Chiesa coi mafiosi. Quello di Francesco è un taglio netto: “Ora basta, scegliete”.
Ma i padrini lamentano l’esclusione
Eh già, formalmente fanno le vittime: “Siccome abbiamo sbagliato, ci cacciate”. Ma è una menzogna. Il Papa si riferisce solo ai criminali che non si pentono, che scelgono di continuare a essere mafiosi. E questo, alla ‘ndrangheta, non piace.
Perché la criminalità organizzata è così legata alla Chiesa?
Perché i mafiosi si nutrono di consenso popolare, e la vicinanza con preti e vescovi implica maggior potere e, soprattutto, legittimazione. Brigantini, vescovo calabrese, è arrivato a dire che i detenuti sono persone serie, che riconosce una certa coerenza nel loro modus operandi e vivendi. Ma lo sa, il vescovo, che tra loro ci sono anche assassini che ammazzano i bambini o che stuprano le mogli degli altri detenuti? Ho difficoltà a capire dove stia la serietà di questa gente.
Un vescovo come Brigantini, nell’era di Papa Francesco, potrebbe avere dei problemi?
Non so come si comporterà Bergoglio quando si accorgerà di certi comportamenti, ma di sicuro il futuro di questa battaglia dipende anche da questo: quanto controllo ha il Papa su preti e vescovi? Non sappiamo ancora se lo seguiranno: anche perché interrompere la connivenza, dopo secoli di ammiccamenti reciproci, non è semplice. E il coraggio non si vende alla Standa.
Cosa accadrebbe se Bergoglio riuscisse nell’impresa?
Una rivoluzione. A quel punto la reazione della mafia sarebbe imprevedibile. Potrebbero abbassare la testa e fermarsi, oppure andare allo scontro. La terza possibilità è che tentino di recuperare il dialogo mediando con i preti compiacenti.
La trattativa Stato-Mafia però è stata estorta con le bombe.
Credo che all’inizio la ‘ndrangheta tenterà la via più tradizionale, che è quella dei soldi. I mafiosi sono molto generosi coi prelati. E grandi donazioni comprano appoggi importanti tra chi amministra la Chiesa.
Il problema è che anche le mafie, storicamente, traggono consistenti vantaggi economici dal loro rapporto con il Vaticano.
Per questo lo strappo netto ancora non c’è stato. La decisione però va presa. La ‘ndrangheta sta aspettando: vuole vedere l’effetto che avrà questa protesta. La verità è che ancora non sappiamo, da tutte e due le parti, qual è la tenuta. Passerà qualche mese e poi sarà il silenzio o la resa dei conti.
Il ministro Alfano ha promesso che manderà 800 uomini in Calabria.
Li ha visti lei? Da quel che mi risulta non sono arrivati. Noi qui abbiamo bisogno di investigatori, di gente in grado di scrivere informative. Da dove li vuole prendere, questi uomini? Da Milano, da Napoli, da Palermo? Se il ministro pensa di mandare ragazzi freschi di scuola, ben vengano, ma non bastano certamente. La ‘ndrangheta la combattono l’intelligenza e soprattutto l’esperienza. Mi pare l’ennesima presa in giro ai calabresi.

il Fatto 8.7.14
Carceri, stalker a piede libero
Per i magistrati il decreto non risolve il sovraffollamento: “E’ solo una scappatoia”
di Chiara Daina


È solo una scappatoia per risolvere il problema del sovraffolamento”. Così Maurizio Carbone, pubblico ministero a Taranto e segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, giudica l’ultimo decreto svuota carceri (n. 92) entrato in vigore il 28 giugno. In buona sostanza, il provvedimento prevede per chi ha una pena detentiva non superiore a tre anni l’esonero dalla misura della custodia cautelare in galera. Risultato: centinaia di detenuti potrebbero tornare a piede libero.
“ANCHE CHI È PLURIRECIDIVO e ha commesso reati gravi – sottolinea il pm –, come stalking, maltrattamento in famiglia, furto in abitazione, rapina aggravata. In questo modo, si compromette la sicurezza sociale”. Con il conseguente rischio di inquinamento delle prove e fuga all’estero da parte dell’imputato. Non solo. I magistrati sollevano altre due criticità contenute nel decreto legge. La prima riguarda “la sovrapposizione di due fasi del processo con finalità distinte
– spiega Carbone -, la misura preventiva e la condanna finale. Quindi l’istituto della custodia cautelare anticipa la pena definitiva”. Un effetto che potrebbe avere strascichi nella lotta alla corruzione. “In questo caso
– continua Carbone - se all’esito dei tre gradi di giudizio l’accusato prende una pena inferiore ai tre anni, ricorrendo a patteggiamento o rito abbreviato per esempio, non c’è pericolo che subisca limitazioni alla libertà personale in via precauzionale”.
La seconda questione riguarda la difficile interpretazione del testo. “Sembra che il giudice debba tenere conto anche del presofferto (il periodo in custodia cautelare o in detenzione domiciliare, ndr): se una persona con una condanna di quattro anni per rapina ha già trascorso un anno e mezzo di custodia preventiva dovrà scontare solo due anni anni e mezzo di carcere?”. La domanda resta aperta per i magistrati, che oggi, in occasione dell’Audizione alla Camera sul decreto , presenteranno un parere scritto con tutte queste perplessità.
I DETENUTI rinchiusi nelle galere italiane sono 65.831 a fronte di una capienza di 47.045 posti. In meno di un anno sono stati confezionati due decreti ad hoc per mettere una pezza al sovraffollamento, per cui nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia. “Anche questo decreto - tira le somme Carbone - è una soluzione emergenziale, che scarica sui magistrati l’onere di gestire la situazione”. Al contrario, l’Associazione nazionale magistrati propone una riforma strutturale, che tenga conto del rafforzamento delle misure alternative e dell’edilizia penitenziaria.
Intanto, si inizia a respirare un clima di tensione per i possibili risvolti del decreto. Il Corriere della sera racconta di un fatto di cronaca avvenuto a Milano: un uomo accusato di “violenza fisica e psicologica in modo continuativo e abituale” contro moglie e figlia è stato condannato a due anni e otto mesi di carcere, ma alla luce dell’articolo 8 del dl 92/2014 non può subire restrizioni alla libertà in via preventiva, e non avendo un’altra casa potrebbe tornare a picchiare moglie e figlia. Sul Secolo XIX, invece, si legge di un avvocato di Genova che dalla notte alla mattina si è ritrovato in studio un detenuto per violenza sessuale, uno dei 70 scarcerati grazie al nuovo decreto.

il Fatto 8.7.14
Processo penale: chiacchiere inutili
Per ridurre i tempi bisogna cancellare l’appello, depenalizzare e incrementare
il patteggiamento
Il resto? Soltanto parole
di Bruno Tinti


Dopo le riforme del processo civile (articolo del 6 luglio), ci sono quelle del processo penale. Renzi, o chi per lui, non lo sa ma una riforma della giustizia penale non può che essere “di sistema”. Accelerare il processo penale (punto 9) significa modificare sia il codice penale che quello di procedura penale. Perché solo così si può ridurre lo spaventoso numero di processi che ogni anno arrivano alle Procure e da qui ai Tribunali, alle Corti d’Appello e in Cassazione. Sono tre milioni. In Gran Bretagna, che ha lo stesso numero di giudici con una popolazione più o meno uguale a quella italiana, ne arrivano 300.000. Questo significa che ogni pm italiano (circa 1.800) ogni anno riceve 1.600 processi. Dovrebbe farne 4 e mezzo al giorno, compresi i sabati e le domeniche e senza mai andare in ferie. Naturalmente non è così. I processi fanno la fila: finito uno se ne fa un altro. Senza ridurne il numero, c’è poco da accelerare.
ECCO PERCHÉ guide senza patente o in stato di ebbrezza (attenzione, non omicidi colposi commessi da chi guida senza patente o ubriaco), devono essere puniti con una multa (molto alta) e con il sequestro dell’auto; se ne può occupare la stessa polizia che li accerta. E, più in generale, devono essere gestiti in questo modo tutti i reati che vengono trattati con il decreto penale (una procedura che prevede la pena della multa ma che può essere trasformata – e di fatto succede sempre – in un normale processo con Tribunale, Appello, Cassazione e – naturalmente – prescrizione). Non si può adoperare lo stesso tipo di processo che si utilizza per un omicidio (3 gradi di giudizio, notifiche, depositi, termini a difesa…) per reati come questi. Sia chiaro, da sola questa riforma è insufficiente a diminuire significativamente i processi; ma ce ne sono altre, sempre di “sistema”.
Bisogna abolire l’appello. Esaminare due volte lo stesso processo non è garanzia di giustizia: si moltiplicano solo le possibilità di errore. I giudici dell’appello non sono diversi dai giudici di primo grado; non sono più preparati, più anziani, più lavoratori; scegliere un Tribunale, una Corte d’Appello, una Procura, per un giudice, dipende spesso da motivazioni private: restare nella città dove vive la sua famiglia, andare nella città di origine, cambiare lavoro perché quello fatto fino ad allora non interessa più… Non c’è ragione per cui una sentenza di primo grado sia più “giusta” di una di appello. Nessuno può sapere quale giudice ha sbagliato e quale aveva ragione. Insomma è una lotteria: è andata male in primo grado? Riproviamoci. È una cosa senza senso. Per gli errori di diritto, resta la Cassazione, questa sì composta da giudici che ci sono arrivati per concorso o dopo molte valutazioni di professionalità: si può presumere che siano più preparati degli altri. D’altra parte, un sistema così è adottato in Gran Bretagna e negli Usa. Non sarà perfetto ma consentirebbe di recuperare circa 1500 giudici. Più giudici, meno processi per giudice, maggiore rapidità di trattazione. Già; ma che diranno gli avvocati? Significa, più o meno, una diminuzione di reddito pari a un terzo.
E POI BISOGNA incrementare il patteggiamento: un imputato che è sotterrato dalle prove può ottenere un congruo sconto di pena se rinuncia al processo e accetta la condanna che gli propone il pm. Niente Tribunale, niente Appello, niente Cassazione. Se invece si ostina e pretende il processo, tanti auguri: se lo trovano colpevole sarà condannato a una pena molto più grave (molto; altrimenti non funziona). Questo sì che farebbe diminuire il numero dei processi e quindi la loro durata. Il fatto è che il patteggiamento esiste già nel nostro codice ma lo chiedono in pochissimi. Perché? Per la prescrizione . Con l’80 per cento dei processi che finiscono in prescrizione, perché si dovrebbe patteggiare? Un po’ più di soldi per l’avvocato e l’assoluzione è garantita. E anche qui l’opposizione dell’avvocatura è certa.
Ma Renzi vuole riformarla la prescrizione. C’è un solo modo per farlo: abolirla quando lo Stato comincia a occuparsi del reato. Funziona così in qualsiasi altro Paese normale. Solo che Renzi dialoga con quelli che la prescrizione l’hanno accorciata; davvero pensa di poter fare una cosa come questa?
E poi i nuovi reati, il fiore all’occhiello: falso in bilancio e auto riciclaggio (punto 8), questa è serietà! Chiacchiere. L’intero sistema penitenziario è costruito perché in prigione non ci vada nessuno. Pene fino a 4 anni non si scontano: arresti domiciliari e affidamento in prova al servizio sociale; e ogni anno, per via della legge Gozzini e successive riforme Severino/Cancellieri, sono – in realtà – 7 mesi e mezzo. Per mandare in prigione un amministratore delegato o un evasore fiscale (i soggetti tipici che commettono auto riciclaggio) per un anno bisognerebbe condannarli a 6 anni: al netto degli sconti, ne farebbero 1 e 2 mesi. Solo che il falso in bilancio sarà punito con una pena massima di 5 anni (se va bene) e la frode fiscale arriva fino a 6; per l’autoriciclaggio si parla di un massimo di 7. Pene di 6 anni dunque sono una chimera. Così, finché pene fino a 4 anni non saranno prigione ma visite alle case di riposo per anziani, si possono introdurre tutti i reati immaginabili: come ho detto, sono chiacchiere.

Il Sole 8.7.14
Cassazione penale. Le Sezioni unite bloccano il dilatarsi dei termini di fase
Carcerazione preventiva con limiti di tempo rigidi
Il tetto del doppio del termine non è comunque superabile
di Giovanni Negri


MILANO Nel caso di sospensione dei termini di fase della custodia cautelare il limite del doppio del termine di fase non può essere ulteriormente superato. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza n. 29956 depositata ieri. Con la pronuncia si evita che, sia pure nel caso di procedimenti per reati assai gravi come quelli previsti dall'articolo 407 comma 2 lettera a), del Codice di procedura penale (tra cui, l'associazione mafiosa e la strage), si proceda a un'ulteriore proroga dei termini di durata massima della carcerazione preventiva sulla base del comma 3 bis dell'articolo 303 comma 1 lettera b).
La scelta più garantista effettuata dalle Sezioni unite parte da una ricostruzione della genesi della disposizione inserita tra la fine del 200 e l'inizio del 2001 nel Codice di procedura penale all'articolo 303 con l'obiettivo di evitare il fenomeno delle "scarcerazioni facili" che aveva sollevato un particolare allarme nell'opinione pubblica. Per questo veniva elaborato un meccanismo di recupero della custodia cautelare, possibile ma non utilizzata pienamente in una fase, nella fase successiva.
Le Sezioni unite puntualizzano, quanto all'intervento, che non ci trova in presenza di una stratificazione normativa, quanto piuttosto di una modifica complessiva che risponde a un disegno lineare costituito da una flessibilità dei termini di fase, da un aumento recuperabile fino a 6 mesi dei termini di fase per i delitti di maggiore allarme sociale e da un'espressa previsione che l'aumento per le sospensioni non può essere cumulato, nel caso si arrivi al doppio del termine di fase, con l'ulteriore aumento previsto dal n. 3 bis del medesimo articolo 303.
L'insuperabilità assoluta, e non relativa, del limite del doppio del termine di fase è verificata dalla sentenza sulla base della forma stessa della disposizione per concludere che «la frase (dell'articolo 304 comma 6, ndr) ci dice che nel calcolo per verificare l'eventuale superamento del doppio non si deve tenere conto di quell'aumento. È come se l'aumento di 6 mesi non esistesse; il giudice deve calcolare il doppio del termine di fase come se il n. 3 bis non fosse mai esistito».
In questo senso, milita, ed è argomento decisivo, anche un'interpretazione costituzionalmente orientata alla luce cioè di quanto stabilito dalla Consulta. Quest'ultima infatti ha avuto modo di chiarire (sentenza n. 299 del 2005) come anche i termini di fase devono, come quelli complessivi, essere ispirati ai principi di proprozionalità e adeguatezza. Inoltre, a volere allargare un po' lo sguardo, la stessa Convenzione europea dei diritti dell'uomo, pur in assenza di una disciplina sui termini di custodia cautelare, è attenta a sottolienare come la persona sottoposta a detenzione preventiva deve essere giudicata in un «tempo congruo» oppure deve essere liberata. Il sacrificio della libertà personale non può così essere protratto oltre i confini della ragionevolezza.

Repubblica 8.7.14
I Pos non decollano, interviene il governo
di Giovanni Cedrone


UNA settimana dopo l’introduzione dell’obbligo del Pos per commercianti, artigiani e liberi professionisti, cosa è cambiato nella vita quotidiana degli italiani? Lo abbiamo chiesto ai lettori di Repubblica. it. L’Italia sembra adeguarsi con molta difficoltà a una normativa che potrebbe fornire al fisco una nuova arma anti-evasione, ma che viene percepita da molti commercianti come “un odioso balzello” e “un regalo alle banche”. In pochi sembrano aver provveduto a dotarsi di Pos, la macchinetta che ci consente di pagare con bancomat e carta di credito, poiché il decreto entrato in vigore il 30 giugno non prevede nessuna sanzione per chi non si mette in regola. Proprio per superare le obiezioni sul costo della misura, ieri il ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, ha deciso di convocare per il 16 luglio le banche: l’obiettivo è ridurre le commissioni per i pagamento con il Pos, ed eventualmente in un secondo momento prevedere una sanzione per chi non accetta di essere pagato elettronicamente per importi superiori a 30 euro.
Dalle centinaia di segnalazioni dei lettori emergono chiaramente due fronti opposti, quasi equivalenti: esercenti e liberi professionisti da una parte, utenti consumatori dall’altra. L’avvento del Pos sembrava destinato a mandare in soffitta quella frase buttata lì a fine lavoro: “ricevuta o sconto?”. Per ora, i comportamenti virtuosi che la nuova norma doveva favorire stentano ad imporsi. “Pos fuori servizio” si legge sulle casse di alcuni esercizi commerciali, o addirittura “non si accettano pagamenti con carte di credito”, era la scritta che campeggiava all’ospedale Fatebenefratelli di Roma. Pagare con moneta elettronica resta complicato in Italia, come sanno i protagonisti del #NoCash-Trip 2014, un tour per il Belpaese senza contanti, raccontato in un liveblogging su Repubblica. it. Si scopre che a Roma non è possibile pagare i biglietti della metro con il bancomat, mentre a Bari c’è invece una app per parcheggi e bus. Che ci sono eroici edicolanti che accettano il bancomat per i giornali, e baristi per la colazione. Napoli sembra la più arretrata del Meridione.

Repubblica 8.7.14
All’estero
“Da Chicago a Hong Kong carte sempre ben accolte”
Gli italiani all’estero toccano con mano i ritardi del nostro paese nel pagamento elettronico


GLI italiani all’estero: sono quelli che più degli altri si accorgono dei fortissimi ritardi del nostro Paese. All’estero il pagamento elettronico è già realtà (in molti casi da parecchi anni) e i lettori segnalano le evidenti differenze con l’Italia. Anna Bruno-Enn, per esempio, informa che in Austria «esiste la possibilità di pagare Contactless, senza la necessità di digitare il codice segreto, importi fino a 25 euro». Nella lontana Hong Kong, invece, per le piccole spese si usa la carta magnetica del trasporto pubblico, racconta Sergio Boscarol. Ettore Lazzarini ricorda che a Parigi «anche i biglietti del metrò si possono pagare con la carta elettronica». Già nel 1982, racconta Remo Tinozzi, a New York chi pagava in contanti veniva guardato con sospetto; perfino in megalopoli come Rio de Janeiro l’uso della moneta elettronica era prevalente già una decina di anni fa. Martina Latini racconta che in Irlanda, dove vive, «è molto comune usare bancomat o equivalenti» e solo da noi è costretta alla faticosa e perenne ricerca di sportelli Atm. Lucio Barbarotta da Chicago spiega perché il sistema americano è così efficiente e l’evasione è ai minimi termini: «Le tasse negli Stati Uniti sono basse e chi evade rischia il carcere».

Corriere 8.7.14
Rifiuti, lite tra Vespa e Marino. E Fuksas fotografa i cassonetti
di Paolo Conti


La foto mostra tre cassonetti per la raccolta differenziata strapieni. Accanto, un immenso cumulo di immondizia indifferenziata. Lo scatto porta la firma dell’architetto e urbanista Massimiliano Fuksas: «Via Ostiense 50. Vespa ha torto? Senza commento». Ostiense, patria di Ferzan Ozpetek che abita di fronte alla nuova discarica. È solo uno dei tanti frutti mediatici dell’inedito duello sul degrado di Roma tra Bruno Vespa e il sindaco di Roma Ignazio Marino. Il tweet di Vespa («A San Pietroburgo, 5 milioni di abitanti, non ho visto un solo rifiuto sulla strada. Mi sono vergognato di abitare a Roma») ha fatto il giro dei social network. La replica del sindaco Marino, dal palco della Festa dell’Unità, è stato un invito a rimanersene in Russia: «Ma se qualcuno si sente di stare così bene in un’altra città, perché non ci resta?». Scarsissimi applausi, lo testimonia con chiarezza il video girato alla Festa.
E qui comincia un bel confronto. Con Marino che sostiene, nel giro di pochi giorni, la stessa tesi: «Da cinquant’anni nulla è stato fatto per togliere a un monopolista privato la gestione dei rifiuti che era basata su una grande buca dove veniva buttato di tutto, dal materasso al frigorifero». Giorni fa aveva affermato che in «quarant’anni nulla è stato fatto» in materia di rifiuti. Provocando forte irritazione nel Pd (del vicepresidente del Parlamento europeo David Sassoli, proprio alla Festa dell’Unità) visto che in Campidoglio hanno lavorato a lungo sindaci come Walter Veltroni e Francesco Rutelli, titolari di quel «modello Roma» che incise molto su una città allora in pieno rilancio.
Marino sollecita uno speciale di «Porta a Porta»: «Io sono sorpreso che un osservatore attento come Bruno Vespa in questi cinquant’anni non si sia accorto di cosa stava accadendo. Sarebbe interessante se ci dedicasse una sua trasmissione di approfondimento». Un invito a nozze per Vespa: «Ce ne siamo occupati ben due volte perché la gestione dei rifiuti a Roma è uno scandalo nazionale. La prima volta il 10 aprile 2013 in campagna elettorale per l’elezione del sindaco di Roma. Facemmo una inchiesta su Malagrotta, ne parlammo con Alemanno e Marchini, non con Marino che aveva declinato l’invito a confrontarsi con i suoi competitori. La seconda volta il 13 gennaio 2014 con due servizi. Anche in questo caso il sindaco si rese indisponibile all’intervista e ci mandò una nota che io lessi in studio».
Ma Roma, in questi giorni, è sommersa dai rifiuti. Ieri Pietralata sembrava un remake di «Blade Runner» in salsa capitolina. In serata Marino ha invitato a «volare a livelli diversi» rispetto alla polemica «di un turista in terra straniera che parla dell’Italia». Però le foto, la rabbia di migliaia di romani, le proteste sui social network, le lettere di protesta che raggiungono i giornali impongono un volo diverso, e urgente, al Campidoglio. Il tweet di Vespa è un dettaglio, davvero solo mediatico. Il dramma collettivo sono quei cumuli che ammorbano Roma.

Corriere 8.7.14
Linee guida sulla fondazione eterologa, adottare criteri di qualità e sicurezza
di Luigi Ripamonti


Il ministro della Salute vuole ritardare l’introduzione della fecondazione eterologa in Italia? Questa è l’intenzione che è stata attribuita a Beatrice Lorenzin dopo un’intervista pubblicata ieri sul Corriere della Sera .
Un’interpretazione corroborata, in alcuni casi, come quello dell’Associazione Luca Coscioni, da analisi tecniche e giuridiche approfondite. La decisione del ministro di aspettare linee-guida e passaggi in Parlamento per partire con la fecondazione eterologa può prestare il fianco alla critica di voler normare qualcosa per cui le norme già esistono.
Il rischio sarebbe quello di avviarsi su un percorso scandito da una successione di sentenze che potrebbero poi smontare pezzo per pezzo ciò che in fase di attuazione è stato modificato, o forzato, a partire dalle leggi esistenti. Un percorso già visto proprio con la legge 40. Detto questo, non si può non concedere che quello del ministro possa essere invece un legittimo esercizio di prudenza. Non è un mistero, per esempio, che recenti casi di cronaca, come quello dello scambio di embrioni all’ospedale Pertini di Roma, abbiamo minato la fiducia dei cittadini nei confronti delle procedure di fecondazione assistita. E i medesimi casi di cronaca hanno presentato problematiche inedite, che possono e devono essere risolte in base alle norme vigenti, ma che sono anche cariche di aspetti giudicati da diversi osservatori meritevoli di una discussione ad hoc per il futuro.
Casi e problematiche, questi, che rendono anche cogente la responsabilità , e quindi il diritto-dovere, delle istituzioni di stabilire in modo inequivocabile criteri di qualità e sicurezza che devono essere garantiti dai centri autorizzati alla fecondazione assistita, a maggior ragione ora che anche quella eterologa è possibile. Una discussione volta a evitare incertezze su questi aspetti sembra dunque giustificata. Anche per non far correre a chi vorrà accedere alla fecondazione eterologa in Italia, i rischi che sono stati invece costretti ad affrontare coloro che, per praticarla, si sono dovuti recare in alcuni Paesi dove pretendere sicurezza e qualità sarebbe stato certamente più difficile.

Repubblica 8.7.14
Fecondazione assistita. Liste d’attesa nell’eterologa Sos donatori
Al congresso europeo di embriologia, ricerche e quesiti sulle nuove famiglie (mamma single o coppie lesbiche) mentre in Italia si profilano diversi problemi
di Elvira Naselli


MONACO. TANTE famiglie diverse, con i bambini nati da tecniche di procreazione assistita. Al trentesimo congresso dell’Eshre, la società europea di riproduzione umana ed embriologia, appena conclusosi a Monaco, gli scienziati discutono di infertilità e di figli nati con la Pma (procreazione medicalmente assistita, più di cinque milioni dal lontano ’78) e molte sessioni sono dedicate alle nuove famiglie. Ci sono quelle che nascono da una donazione di spermatozoi a donna single o a coppia lesbica, quelle che invece hanno bisogno di una donazione di ovociti per sterilità femminile. Tante anche le implicazioni legali, a cominciare dalla possibilità che il bambino, una volta cresciuto, possa richiedere alla clinica nome e cognome del donatore, prassi prevista in Svezia dal 1984.
Tutte questioni delicate che dovranno essere affrontate anche da noi, e rapidamente. Dopo la sentenza che ha abolito il divieto di ricorrere a gameti estranei alla coppia, la cosiddetta fecondazione eterologa, e la sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale, non ci sono più ostacoli e le coppie - non meno di duemila nel 2012 secondo l’Osservatorio del turismo procreativo - hanno subito contattato i centri di Pma per accedere alla donazione di spermatozoi ed ovociti. Il punto è che, per poter procedere, gli esperti aspettano delle linee guida di carattere scientifico, messe a punto dalle associazioni e in dirittura d’arrivo (oggi prevista una riunione con il ministro Lorenzin). Come sempre, si daranno delle indicazioni di carattere medico, ma i problemi da risolvere sono anche altri: dove trovare gli ovociti e gli spermatozoi, che cosa si prevederà sull’anonimato o meno dei donatori, se e quanto bisognerà ricompensarli (Lorenzin è contraria), quanti gameti dallo stesso donatore (in Spagna un massimo di 6), se tenere conto della compatibilità fisica dei caratteri somatici tra donatore e ricevente, a quali criteri clinici devono rispondere le coppie (perché solo di coppie - ed eterosessuali - si parlerà) per accedere alla tecnica e quale il limite d’età della donna.
Intanto, ai centri arrivano richieste di inform a zioni e di inserimento in lista d’attesa ma anche offerte di donazione. A Tecnobios procreazione di Bologna - che vanta grande esperienza nella congelazione di ovociti - sono già circa 130 le pazienti in lista d’attesa per l’eterologa. Molte strutture - però - non hanno ovociti né spermatozoi congelati oppure hanno gli ovociti congelati (ma non donati) e che dunque richiedono una nuova procedura di analisi, un ulteriore contatto con la donna per l’autorizzazione alla donazione, la firma di un consenso informato particolare. Oppure bisogna tentare la strada dei donatori puri, giovani, in salute e senza problemi di fertilità. Già, ma compensandoli, come fanno in quasi tutti i paesi, o gratis come era previsto da noi prima del divieto? E infine, prevedere la rimborsabilità della Pma e con quali limiti? Tanti problemi, che probabilmente allungheranno i tempi, anche perché nessun centro vuole essere il primo a cominciare.
«La Toscana ha quasi ultimato una delibera ad hoc - racconta la ginecologa Claudia Livi, responsabile del centro convenzionato Demetra di Firenze e noi abbiamo già decine di coppie in lista. Una delibera regionale tutelerebbe tutti e sarebbe importante. Purtroppo noi abbiamo pochi ovociti, potremmo ricorrere all’egg sharing (ovociti donati da quelli congelati da altre donne per trattamenti di Pma), anche se la metà di queste donne ha più di 38 anni». Problema non da poco: gli ovociti crioconservati sono di donne mediamente anziane, sopra i 35 anni, e con problemi di fertilità. Ma non solo. «Oltre a richiamarle tutte per chiedere il loro consenso alla donazione - ragiona Paolo Emanuele Levi Setti, direttore dell’Humanitas Fertility Center di Milano - bisogna anche prevedere un colloquio con uno psicologo perché quella donna potrebbe non aver avuto mai un figlio con i suoi ovociti e avere difficoltà psicologiche a donarli. Dieci anni fa abbiamo avuto risultati estremamente brillanti con gli ovociti donati, ma allora l’età media delle pazienti era di 32 anni, oggi di 39, e si usavano gli ovociti freschi e non congelati. Questa modalità è replicabile ma pone problemi organizzativi. L’altra strada - poiché è difficile quella dei donatori puri in tempi rapidi - è acquisire i gameti dalla banca europea dei tessuti: basta che la banca che richiede e quella che offre rispondano alla stessa normativa Ue». Oppure - suggerisce Antonino Guglielmino, responsabile dei trattamenti Pma del centro Hera di Catania - si possono utilizzare «gli ovociti che una sorella o un’amica dona per una donna che deve sottoporsi a Pma. In ogni caso dobbiamo accettare l’idea che la donazione di gameti è un gesto altruistico e normale e predisporre le campagne previste anche dalla direttiva europea».

Repubblica 8.7.16
Pillola e fertilità una riduzione “reversibile”? “Servono studi”
di E. Nas.


MONACO. LA PILLOLA contraccettiva riduce in modo significativo la riserva ovarica di chi la utilizza, ovvero la capacità delle ovaie di produrre follicoli in grado di portare alla fecondazione. Detta così è una notizia che fa fare un salto sulla sedia ai 160 milioni di donne che utilizzano un contraccettivo orale nel mondo. Secondo uno studio presentato all’Eshre da Kathrine Birch Petersen della Fertility Clinic dell’ospedale universitario Rigshospitalet di Copenhagen, l’utilizzo di un contraccettivo orale estro progestinico riduce non solo il volume delle ovaie dal 29 al 53 per cento, ma anche il livello di ormone antimülleriano (AMH) nel sangue e la conta dei follicoli antrali attraverso l’ecografia vaginale, rispettivamente del 28 e del 31 per cento. Questi due ultimi elementi si considerano predittivi dell’invecchiamento delle ovaie e del raggiungimento della menopausa. Lo studio è stato condotto su 500 donne tra i 20 e i 45 anni che si sottoponevano a counseling sulla fertilità nell’ospedale di Copenhagen dal 2011 al 2013. Queste donne sono state monitorate per tre mesi, ma non anche alla sospensione della pillola per verificare la reversibilità di quanto individuato. E i ricercatori sono così cauti che si guardano bene dallo scoraggiare il suo utilizzo. «Nelle giovanissime - ha spiegato Petersen - il volume ovarico era ridotto del 50 per cento ma le donne vanno seguite alla sospensione della pillola per almeno 6-12 mesi. Questi effetti si hanno solo sui contraccettivi orali estroprogestinici, non sulla spirale o su pillole con composizione diversa. Non crediamo che l’effetto sia permanente ma bisogna indagare in questa direzione».
In realtà i risultati di questo studio si spiegano con la normale fisiologia del nostro corpo. «L’assunzione della pillola - spiega Anna Maria Fulghesu, responsabile del reparto di Patologia ostetrica all’università di Cagliari - riduce la quantità di ormoni che stimolano le ovaie, e quindi naturalmente si ha un numero minore di follicoli stimolati e contabili con l’ecografia. Inoltre solo i follicoli superiori a 3-4 millimetri sono visibili e contabili e qualche decina gli ovociti al mese in grado di rispondere alla stimolazione dell’ormone Fsh. Tra questi ne va avanti solo uno, il follicolo dominante. Quindi quello che si riesce a vedere con l’ecografia non è il patrimonio follicolare totale ma quello sensibile all’Fsh quel mese. Viene considerato un marker di riserva soltanto nelle donne sopra i 35 anni che si sottopongono a procreazione assistita».
Discorso simile per l’ormone antimülleriano. «È un ormone secreto dai follicoli antrali - precisa Andrea Borini, presidente Sifes, società italiana di fertilità e sterilità - e dunque, poiché quando si prende la pillola c’è una minore stimolazione dei follicoli e se ne producono meno, è ovvio che il livello di ormone sarà più basso. La stessa conta dei follicoli antrali non è uguale in tutti i laboratori per motivi tecnici. La pillola contraccettiva non porta a menopausa precoce ma neanche alla salvaguardia dei follicoli». Insomma, la pillola, come conclude Fulghesu, che lavora in una regione che ha la percentuale più alta di utilizzatrici, non aumenta né diminuisce né altera la lunghezza della vita ginecologica di una donna.

La Stampa 8.7.14
Fine vita, l’esempio della Francia
Due gravi casi giudiziari sono giunti alla sentenza negli stessi giorni in Francia, riaccendendo un dibattito che in quel Paese ha però già da tempo portato il Parlamento a legiferare
di Vladimiro Zagrebelsky


Due casi diversi, che impediscono di sottrarsi alla discussione del cruciale problema del come si muore in società come le nostre, in cui grandi, ma non infinite, sono le possibilità tecniche della medicina. Anche l’Italia nel 2009 aveva vissuto una situazione molto simile al primo caso francese. L’eventualità dell’arresto dell’alimentazione e idratazione artificiale di una donna da anni in stato di coma irreversibile, aveva suscitato violente contrapposizioni politiche in Parlamento e persino spinto il governo a proporre un decreto legge che imponesse la continuazione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali. Si deve al presidente della Repubblica di aver impedito un simile provvedimento, in un caso che poneva problemi medici ed etici, da tenere al riparo dalle speculazioni politiche. Allora veniva proclamata la necessità di una legge e i giudici erano accusati di prendere il posto del legislatore. Tuttavia i giudici che ricevevano i ricorsi non potevano sottrarsi al dovere di deciderli. E una legge specifica ancora non è stata fatta. Hanno vinto l’imbarazzo e la tentazione di allontanare da sé la responsabilità di affrontare un problema difficile. La non volontà di assumere il peso di una decisione non è stata nemmeno scossa dalla recente dichiarazione di un anziano medico, che ha reso pubblico di avere lui stesso nel corso della sua lunga attività, accelerato la morte di pazienti in stato terminale e in grave sofferenza. Ciò che sembrava dover imporre la ripresa del dibattito si è invece risolto nelle poche righe di una notiziola data da alcuni giornali. Poi il silenzio, come se il girar la testa dall’altra parte eliminasse il problema. Probabilmente si teme il riaccendersi di uno scontro politico, benché molte cose siano cambiate da allora nell’incrocio tra gli interessi partitici, le posizioni politiche, i convincimenti etici, gli orientamenti sociali. E auspicabilmente anche nel necessario dialogo tra laici e cattolici.
Ma nel frattempo, ogni giorno negli ospedali, i medici e le famiglie di malati devono da soli e senza regole, decidere come muoia una persona ormai incapace di esprimersi. In quelle decisioni, alle emozioni che le accompagnano e all’intrinseca difficoltà, si aggiunge l’evanescenza di regole che identifichino e distinguano le responsabilità, evitino l’interferenza di interessi diversi da quello del paziente, assicurino che alla decisione assunta non faccia poi seguito lo strazio della controversia giudiziaria.
In Francia il Consiglio di Stato ha giudicato legale, cioè secondo la legge, la decisione medica di fermare l’alimentazione e l’idratazione artificiali di un malato in stato vegetativo dal 2008. La vicenda ha poi assunto un rilievo speciale perché il medico che ha la responsabilità del trattamento del paziente è cattolico praticante e ha anche rivestito incarichi politici, quale membro del partito democristiano francese. Di lui la dirigente del partito ha detto «É cattolico, medico, contro l’eutanasia e contro l’accanimento terapeutico. Fa tutto per difendere la vita e il giuramento di Ippocrate». 
Il Consiglio di Stato dopo aver raccolto l’opinione di esperti riconosciuti, ha concluso che per le condizioni irreversibili in cui il paziente si trova, la continuazione dei trattamenti sarebbe frutto di una ostinazione irragionevole. Accanto a questo dato di fatto, è stato considerato che la persona stessa, prima dell’incidente, aveva chiaramente e ripetutamente espresso la volontà di non essere tenuta artificialmente in vita nel caso si fosse venuta a trovare priva di autonomia. Ma il Consiglio di Stato ha espressamente affermato che la volontà manifestata dal paziente in precedenza deve essere accertata, senza che si possa presumere che egli abbia voluto rifiutare ogni trattamento. Ed anche l’opinione dei famigliari - in quel caso però divisi e contrapposti - era da tenere in conto. Non un solo elemento, ma molti sono dunque rilevanti; ogni decisione deve essere legata al caso concreto ed è impossibile adottare una regola astratta. Fondamentale è risultata la natura della legge in vigore in Francia, che definisce le procedure e identifica una pluralità di soggetti che intervengono nella decisione del caso. Tra pochi mesi sulla sentenza del Consiglio di Stato francese si esprimerà la Corte europea dei diritti umani, cui alcuni famigliari del paziente si sono rivolti e la sentenza della Corte darà indicazioni per tutti i Paesi d’Europa. Intanto un nuovo incarico di studio per meglio definire le condizioni di accertamento della volontà del paziente è stato affidato in Francia a due deputati di diverso partito politico, per sottolineare che non si tratta di questione che ammetta una regolamentazione di parte. L’opinione pubblica, senza divisioni di orientamento politico o di età, si è dimostrata largamente favorevole a soluzioni che assicurino una morte che faccia salva la dignità della persona. 
Espressione dell’opinione pubblica, una Corte di assise francese (collegio di nove componenti: tre giudici professionali e sei giurati), negli stessi giorni ha rifiutato di assimilare a «delitto», «omicidio», «avvelenamento», come era scritto nel capo di imputazione formato secondo la legge, il comportamento di un medico ospedaliero che, da solo e senza parlarne con i colleghi e i famigliari dei pazienti, contro ogni regola legale, aveva iniettato un farmaco che aveva accelerato la fine di diversi ricoverati sofferenti e prossimi alla morte. Quest’ultimo caso è particolarmente significativo, perché nessuna legge potrebbe ammetterlo. Ma dimostra, con l’assoluzione decisa dai giurati, quale sia la sensibilità diffusa sulla difficile questione.
Anche in Italia è venuto il tempo per affrontare la questione. Occorre aver fede che su un simile tema, che ci coinvolge tutti, non si scontrino fazioni, ma si cerchi la più equilibrata e ragionevole delle soluzioni. Senza pretendere di descrivere e diversamente regolare ogni possibile situazione, ma regolando come si debba procedere per accertare i dati di fatto e adottare la più umana delle soluzioni. Dando una base di certezza a chi deve scegliere la condotta da tenere, una legge può stabilire procedure collegiali che non lascino solo il medico e che impongano di lasciar traccia degli accertamenti svolti e delle conclusioni raggiunte. Una legge rispettosa della varietà dei casi, che riconosca la realtà che si deve affrontare negli ospedali, può sollevare ogni persona che interviene da preoccupazioni diverse da quella che solo importa: l’interesse di quella specifica persona, nello specifico stato in cui è caduta.

l’Unità 8.7.14
La spinta delle lobby Usa
Così decollano gli F35
di Michele di Salvo


Abbiamo un aereo che funziona, prodotto da un consorzio europeo, con ampie ricadute occupazionali e industriali e di fatturato sull'Italia, e «chiudiamo il programma» per affidare il monopolio della nostra difesa aerea ad un progetto americano, di un’azienda americana, che costa di più, non garantisce le stesse ricadute economiche, industriali ed occupazionali, ed in più senza che i nostri militari abbiano in mano le chiavi di accesso del nostro armamento strategico. Come è stato possibile?
Uno squarcio su questa lunga e ricchissima vicenda ci viene oggi dagli Stati Uniti, perchè qualcosa in questo complesso meccanismo si è incrinato. L’esercito americano ha deciso di lasciare a terra tutta la flotta dei suoi Joint Strike Fighter-F35 per ispezionare i motori dopo l’incendio scoppiato a bordo di un velivolo in Florida. L’Aeronautica e la Marina hanno ordinato di fermare tutti i voli dopo l’incendio (l’ennesimo) del 23 giugno alla base aerea Eglin. «Sono stati richiesti ulteriori controlli ai motori degli F-35 e la ripresa dei voli sarà decisa sulla base dell’esito dei controlli e dell’analisi delle informazioni raccolte», ha detto il portavoce del Pentagono, ammiraglio John Kirby.
I fatti non stanno però esattamente in questo modo. Di fronte a numerosi rapporti di volo particolarmente allarmati, e dopo l’ennesimo aumento dei costi da parte del costruttore, il Pentagono - che aveva già sospeso ulteriori acquisti e bloccato in attesa di chiarimenti gli ordini correnti già da un anno - ha richiesto a Pierre Sprey, progettista dell’F16 (il più diffuso e maneggevole caccia Usa) - di esaminare i rapporti dei piloti e confrontarli con le specifiche tecniche richieste e con la realtà degli aerei acquistati. Il rapporto finale è atteso per fine settembre, ma a quanto risulta anche dalle dichiarazioni precedenti, questo aereo «non dovrebbe affatto essere messo in condizione di volare » perché «insicuro per i piloti e inutile per gli scopi richiesti» oltre che «decisamente inferiore ai suoi omologhi di altri costruttori». Tutto questo senza entrare nel merito dei costi e di contratti di appalto.
L’indicazione che l’F35 sia l’unica scelta su cui puntare è di un paio di anni fa. Un’affermazione che nessuno pare mettere in discussione, considerandola come vera, ed accreditata anche dai militari nelle audizioni parlamentari. Tutto nasce da alcune «improvvise e inspiegate» variazioni nei costi dei bilanci delle aeronautiche europee. In Germania ad esempio alla fine di aprile, il Bundesrechnungshof (la Corte dei conti tedesca) afferma che i costi del programma Eurofighter sono in qualche modo fuori controllo e che alla fine la Germania spenderà 60 miliardi di euro per l’aereo, contro i 30 inizialmente previsti.
COSTI LIEVITATI
Conclusioni simili a quelle dei controllori tedeschi sono contenute Management of the Typhoon Project del National Audit Office britannico del marzo 2011 che aveva denunciato l’impennata dei costi del programma, soprattutto per quanto riguarda le spese di gestione e mantenimento.
Con i soldi inizialmente stanziati si sono potuti comprare molti meno aerei del previsto. I britannici circa 160 Typhoon contro i 232 iniziali, i tedeschi 140 invece che 180 a dei prezzi unitari sostanzialmente comparabili: 87milioni di euro gli inglesi, 84 i tedeschi. La metà del costo di un singolo F35.
Numeri che fanno impressione soprattutto perché si sono formati in modo opaco. A un certo punto dalle previsioni di costo del programma italiano, ancora in fase di sviluppo, sparì il Defensive Aids Sub System (Dass), il sottosistema elettronico di difesa, una componente essenziale dell’aereo (per chiarire, sarebbe come acquistare un’auto senza impianto elettrico e considerarlo da parte del costruttore un optional).
Sulla base dei numeri ufficiali, da mesi soprattutto i militari continuano a sostenere l’altrimenti insostenibile bugia che il Typhoon fa meno e costa di più dell’F-35. Stando ai dati del nostro Ministero della Difesa un caccia italiano verrebbe infatti a costare quasi 218 milioni di euro, quasi un quarto di miliardo.
Che il Typhoon sia in grado già oggi, ma ancor più nei prossimi anni, di svolgere l’intera gamma delle operazioni aria-suolo lo dimostra l’impiego massiccio che ne ha fatto la Raf, l’aeronautica britannica, in Libia, e l’intenzione della stessa Raf di non ordinare per ora F-35 (è stata annunciato un possibile acquisto di 48 velivoli della versione F-35B a decollo corto e atterraggio verticale), tanto che sta già convertendo alcuni reparti dotati del cacciabombardiere Tornado sul nuovo Typhoon. Non risulterebbe fondato inoltre che per dare ai Typhoon la capacità di attacco al suolo sarebbero serviti ulteriori finanziamenti. Tutti i contratti di sviluppo sono già stati finanziati, compresi quelli per il completamento della tranche 3 del velivolo. Finanziati anche dall’Italia, tanto che il primo Typhoon tranche 3 di produzione Alenia è uscito il 4 marzo dalla linea di montaggio di Caselle e sarà consegnato la prossima estate all’Aeronautica Militare. E anche le prove di volo che si stanno svolgendo per certificare l’impiego del missile Storm Shadow (un missile capace di 400 chili di esplosivo trasportato a 500 chilometri di distanza) a bordo del Typhoon si sono svolte a Decimomannu, in Sardegna, con aerei italiani del reparto Sperimentale di Volo di Pratica di Mare. Appare quindi quantomeno singolare che gli stessi vertici della Marina e dell’Aeronautica italiani smentiscano gli esiti di test condotti in proprio. Secondo il Washington Post, Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon hanno speso nel 2011 oltre 34 milioni di dollari in attività di lobbying nei soli Stati Uniti e solo nella politica federale, con un incremento del 10% rispetto al 2010. La sola Lockheed Martin ha incrementato la propria spesa in un solo anno del 19%. General Dynamics (produttore di carri armati Abrams e dei jet Gulfstream) ha speso 11,3 milioni dollari in lobbying con un incremento del 4,6 per cento. Raytheon (il più grande produttore di missili al mondo) ha speso 7,1 milioni dollari, con un aumento del 2,9 per cento. Northrop Grumman (che produce il drone Global Hawk) ha speso 12,8milioni dollari nel 2011.
LE FORBICI DI OBAMA
Secondo Michael Herson, presidente di American Defense International, una società di lobbying del settore, le aziende della difesa hanno concentrato la loro attività di lobbying sulla protezione dei contratti e programmi esistenti dai tagli immediati. Un aiuto a comprendere cosa sia successo ce lo offre un'analisi compiuta da Sheila Krumholz, a capo di OpenSecrets.org, un’organizzazione che pubblica e rende noti i contributi delle aziende private alle lobby, e quelli di queste ultime ai singoli partiti e politici. In più Open Secrets «fa i nomi», ed indica anche con due categorie, non solo chi sono i lobbisti, ma anche chi sono i politici pagati dalle lobby, con quali cifre, e i «Revolving Door profile» - ovvero politici, congressisti, senatori, ma anche dipendenti degli enti pubblici, che passano indistintamente e ciclicamente come in una porta girevole dal settore pubblico (spesso acquirente) al privato (normalmente fornitore). Secondo i report il Carlyle Group (che ha nel suo board Bush padre e figlio, e tra gli azionisti la famiglia Bin Laden) conta ben 85 lobbisti e 44 «revolvers» (il 52%).
La Lockheed Martin opera di concerto con altre tre strutture: Bae Systems North America, Carlyle Group e United Defense. Ha sempre avuto dal 1990 una media di spesa di 5 milioni di dollari per spese di lobbying a Washington, tranne tra il 1999 e il 2000 in cui si è avuta un’impennata a 16 milioni l’anno. Livelli tornati «normali» sino al 2008, quando l’amministrazione Obama ha deciso un taglio complessivo della spesa militare di circa 1000 miliardi di dollari in 10 anni. I volumi delle spese di lobbying sono quindi risaliti a 19 milioni l’anno. L’unico programma sino ad oggi sostenuto destinato all’esportazione e al mantenimento dei contratti in essere è proprio l’F35, che assicura lauti fatturati di produzione e manutenzione proprio a Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon, nonchè a Bae Systems North America, Carlyle Group e United Defense.
Dal 2008 in tutta Europa la Nato mette in discussione il programma Eurofighter.
Lo fanno per primi i generali americani a capo delle strutture, prima di andare in pensione e rientrare nel settore privato come consulenti con stipendi a sette cifre. Lo fanno i governi delle regioni in cui sono presenti le basi di assemblaggio dell’aereo europeo, cui vengono assicurati sulla carta contratti che bilancino le perdite occupazionali dovute all’abbandono del progetto europeo, anche se i nuovi contratti hanno numeri equivalenti «solo sulla carta». Lo fanno alcuni smembri dello Stato Maggiore che cominciano a parlare improvvisamente di «un solo aereo militare possibile», senza alcuna altra alternativa, mentre nei bilanci di previsione della manutenzione delle varie aeronautiche i costi per l’aereo europeo cominciano ad apparire esponenziali, senza alcun riscontro contabile e senza alcuna motivazione. Ciò che sino a ieri costava 80 milioni, risulta in previsione per l’anno successivo a 212 milioni, tanto da far apparire un affare l’F35, anche se costa 160milioni di dollari. In ballo tuttavia non c’è solo un appalto - anche se parliamo del più grande appalto militare della storia, stimato in circa 1.600 miliardi di dollari in 40 anni -ma c’è l’intero impianto della sicurezza Nato. Un sistema nel quale gli Stati Uniti, indipendentemente dal numero di aerei acquistati o effettivamente in volo, avranno in mano l’intera infrastruttura di attacco e difesa aerea dell’Occidente, senza alternative. Per l’industria bellica americana c’è in ballo la possibile distruzione di qualsiasi alternativa a se stessa in un settore così strategico per l’innovazione tecnologica nel suo complesso che, una volta smantellato, sarà inimmaginabile ricostruire. Chiunque fosse tra i fornitori del programma Eurofighter è stato «importato» con promesse di lavoro e fatturato nel nuovo progetto, o è stato acquisito essendo in ballo anche le forniture tecniche nel settore dell’aviazione civile. La partita degli F35 è dunque la madre di tutte le partite di geopolitica e controllo strategico in Occidente, teoricamente tra alleati, dalla seconda guerra mondiale, destinata a tracciare i rapporti di forza militari ed industriali del prossimo secolo.
La prima puntata è uscita il 7 luglio

La Stampa 8.7.14
Mitrokhin, armi del Kgb nascoste in tutta Europa
A Cambridge resi pubblici i dossier dell’archivio
A Roma tre depositi
di Vittorio Sabadin


L’Unione Sovietica aveva nascosto intorno alle principali città europee depositi di armi e di radio a lunga gittata che dovevano servire a contrastare, favorendo una insurrezione popolare, colpi di stato di destra. Intorno a Roma, indicati in una mappa con i nomi in codice «Kollo», «Fosso» e «Bor» c’erano tre di questi nascondigli, che potevano essere aperti solo da personale addestrato perché erano protetti da trappole esplosive.
Il materiale portato in Europa dall’ex archivista del Kgb Vasilij Mitrokhin non finisce mai di stupire. Maneggiati per molti anni solo dai servizi segreti occidentali, che hanno scoperto decine di spie al soldo dei sovietici, i dossier sono da ieri in buona parte disponibili al pubblico, dopo che il Churchill Archives Centre dell’Università di Cambridge ha deciso di declassificarne 19 su 33.
Mentre la Nato disseminava l’Italia di depositi di armi con l’operazione Gladio, tesa a contrastare una rivoluzione o un’invasione comunista, i sovietici facevano lo stesso con l’obiettivo opposto. Mosca aveva piazzato fucili, pistole e bombe a mano – rivelano i documenti di Cambridge – persino nella neutrale Svizzera, con un deposito nascosto vicino a una cappella alla periferia di Berna. C’erano spie in ogni paese, compresi quelli del blocco sovietico. Tra i maggiori sorvegliati, anche un prete polacco, Karol Wojtyla, il futuro Giovanni Paolo II, sospettato di pensieri anticomunisti.
I dossier resi noti entrano nel dettaglio delle vite delle spie più leggendarie, il cui mito, che ha ispirato film e romanzi, crolla miseramente davanti alla realtà. Guy Burgess, ad esempio, era perennemente ubriaco e dimenticava i dossier più scottanti sul pavimento dei pub. Donald Mclean era incapace di mantenere un segreto abbastanza a lungo. L’unica spia britannica degna dell’elogio dei sovietici è stata l’insospettabile «nonnina» Melita Norwood, che ha passato a Mosca per anni segreti atomici senza essere mai sospettata. È morta nel 2005, nella sua casa, a 93 anni.
Mitrokhin ha offerto nel 1991 la sua documentazione prima all’ambasciata degli Stati Uniti di Riga, in Lettonia, dove non è stato creduto, e poi all’ambasciata inglese, dove è stato subito invitato a fermarsi per un tè. Parte del contenuto dei dossier è stata resa nota in un famoso libro dallo storico Christopher Andrew. Le informazioni sull’Italia sono state consegnate dai servizi inglesi al Sismi tra il 1995 e il 1999, diventando oggetto di una commissione parlamentare. Quasi tutti i depositi di armi italiani sono stati scoperti, dopo qualche iniziale difficoltà di localizzazione dovuta ad un errore nel trasformare le yard in metri.
L’autenticità dei documenti è ancora messa in dubbio da alcuni storici, che giudicano incredibile l’intera vicenda. Mitrokhin ha affermato di averli copiati uno per uno, nascondendoli in cartoni del latte sepolti sotto terra nella sua dacia in campagna. Ha viaggiato più volte indisturbato dalla Russia alla Gran Bretagna, portando con sé i dossier, senza che nessuno avesse il minimo sospetto. Sembra impossibile. Ma molte delle informazioni che ha fornito si sono rivelate esatte, da quelle sui depositi di armi alla capillare presenza di spie nelle società occidentali. Mitrokhin è morto nel 2004, ma i suoi parenti vivono sotto falso nome in Gran Bretagna e, si dice, custodiscono altri archivi. Le sorprese non sono finite.

Repubblica 8.7.14
Israele e l’orrore dei ragazzi assassini
di Gad Lerner


A ISRAELE, per fortuna, non basta consolarsi additando la barbarie praticata dal nemico per trovare giustificazione alla barbarie perpetrata dai suoi figli. La ricerca di alibi morali, o magari di attenuanti, cede il posto a un profondo turbamento interiore.
OGGI Israele deve guardarli in faccia, questi suoi figli che per vendetta hanno afferrato un coetaneo palestinese di 16 anni, Mohammad Abu Khdeir, e lo hanno bruciato vivo in un bosco di Gerusalemme. Li guarda in faccia e li riconosce perché gli sono ben noti, familiari. Magari finora se ne vergognava un po’, ma liquidava la loro esuberanza come teppismo generazionale proletario.
Sono i ragazzi di stadio della curva scalmanata del Beitar, organizzati come ultràs in un raggruppamento dal nome sefardita, “La Familia”, scelto in contrapposizione linguistica all’élite tradizionalmente ashkenazita dello Stato. Anche il premier Netanyahu tifa per il Beitar, il che naturalmente non significa nulla, se non che il sabato sugli spalti udiva spesso lo slogan “morte agli arabi” rivolto contro i calciatori arabo-israeliani; così come udiva le irrisioni blasfemedella fede musulmana.
Di fronte al baratro della perdizione e del disonore, Netanyahu agisce da politico responsabile di uno Stato di diritto. Parla di «atto ripugnante», telefona le sue condoglianze al padre di Mohammad, assicura che «nella società israeliana non c’è spazio per gli assassini, ebrei o arabi». Lo avevano preceduto, con parole nobilissime, i genitori in lutto per la morte di Eyal, Gilad e Naftali. Loro certamente si sono immedesimati nella sofferenza di una famiglia che non possono sentire nemica. Ma per poter sperare che l’orrore degli adolescenti ammazzati a casaccio rimanga un episodio circoscritto, sarà inevitabile un’autocoscienza collettiva delle società che tanto odio hanno generato. E qui viene il difficile.
Estrema e degenere, ma è la filiazione di una storia importante la vendetta che si è consumata all’alba di mercoledì 2 luglio in un bosco di Gerusalemme. Ha rilevato i codici di un fascismo-razzismo che pensavamo rinchiuso negli stadi di calcio, proprio come, vent’anni fa, le belve della guerra etnica dell’ex Jugoslavia si forgiarono nelle tifoserie organizzate. Naturalmente il fascismorazzismo in Israele ha altri luoghi d’aggregazione. La componente ultràs ne rappresenta solo un orpello simbolico, tipico del linguaggio giovanile universale. Non a caso, però, il suo retroterra culturale porta lo stesso nome della squadra di calcio giallo-nera di Gerusalemme. Beitar è il movimento del cosiddetto “sionismo revisionista” fondato nel 1923 da Zeev Jabotinsky, in contrapposizione al sionismo ufficiale accusato di sinistrismo filo-socialista e di eccessiva moderazione. Dal Beitar nascerà il Likud, cioè l’attuale destra israeliana, oggi affiancata (e insidiata) da nuovi movimenti messianici e etnicisti.
In forma laica o religiosa, l’ideologia postulata da costoro snatura il significato biblico di terra promessa. Per la precisione, idolatrano la terra e ne rivendicano la proprietà. L’esatto contrario di quanto è scritto nel Levitico 25-23: “…Mia è la terra, perché voi siete forestieri e residenti provvisori presso di Me”. Un Dio che si è fatto annunciare da patriarchi ebrei senza fissa dimora, eternamente stranieri anche nella terra promessa, viene strumentalizzato come fonte del diritto in base a cui negare legittimità alla residenza dei palestinesi.
Questo naturalmente non basta a spiegare la predicazione dell’odio trasformatasi in azione violenta già prima che il delitto di Hebron sollecitasse pulsioni di vendetta. L’organizzazione “Price Tag” votata a seminare il terrore fra i palestinesi con centinaia di agguati ai civili e alle loro proprietà è attiva da qualche anno, senza che le forze di sicurezza israeliane agissero efficacemente per smantellarla. A legittimarla non è stato solo il fanatismo religioso, ma anche l’affermarsi di una diversa forma di razzismo: l’islamofobia. L’idea, cioè, che gli arabi, ormai quasi tutti musulmani, per loro stessa natura siano inaffidabili e irriducibili. Solo la forza può tenerli a bada, non intendono altro linguaggio. Poco importa chiedersi le ragioni del loro agire, tanto meno intenerirsi per la loro sofferenza. Bisogna solo combatterli. Allontanarli a meno che accettino di sottomettersi.
Va rilevato come questi argomenti riavvicinino la componente ebraica che li propugna alle destre europee che nel frattempo, dopo la Shoah, hanno per lo più ripudiato il loro tradizionale antisemitismo. Anzi, di Israele ammirano proprio l’inflessibilità con cui esercita il suo diritto alla sicurezza e disconosce l’interlocutore palestinese.
“Beitar puro per sempre”, avevano scritto su uno striscione gli ultràs di “La Familia” l’anno scorso, quando la loro squadra voleva ingaggiare due calciatori musulmani. La ebbero vinta, in un paese in cui la stessa nozione di purezza razziale dovrebbe far correre tuttora brividi lungo la schiena. Si tratta di quel medesimo gusto per la violazione di un tabù che spinge molti politici della destra israeliana a accusare di nazismo gli avversari. Ma che ha suscitato enorme scalpore quando è stato lo scrittore Amos Oz a paragonare ai “neonazisti europei” gli estremisti che aggrediscono gli arabi o imbrattano di scritte odiose chiese e moschee.
C’è chi sostiene amaramente che la ricomparsa di Hitler nel dibattito pubblico, sia pure come estrema provocazione, rappresenti una sua vittoria postuma. Anche quando (succede spesso) sono gli oltranzisti ebrei a definire nazisti Hamas o gli Hezbollah. Temo invece che si tratti di qualcosa di più semplice e feroce al tempo stesso, nascosto chissà dove nella natura umana: l’odio inebriante che può sospingere un ragazzo a cospargere di benzina un suo coetaneo e dargli fuoco, pensando di trarre sollievo dall’annientamento di un corpo indifeso eletto a simbolo del nemico.
Il grande storico del fascismo e del pensiero reazionario Zeev Sternhell, vincitore del premio Israele, ha denunciato un cambiamento verificatosi addirittura nella “psicologia della nazione”. La stessa idea di pace si è deformata fino a concepirla possibile solo quando gli arabi accettino il proprio status di inferiorità. I ragazzi ebrei assassini dello stadio di Gerusalemme ne sono una terribile espressione.

La Stampa 8.7.14
Così la “gang di Gerusalemme” ha colto di sorpresa i servizi segreti
Gli aggressori di Mohammed vengono da colonie vicine alla città. Tre hanno confessato
di Maurizio Molinari


GERUSALEMME Tre dei sei estremisti ebrei arrestati per l’omicidio del giovane palestinese Muhammed Abu Khdeir collaborano con le indagini. I loro nomi restano coperti dal segreto istruttorio ma la ricostruzione minuziosa delle fasi del delitto, come dei rapporti fra loro, consente allo "Shin Bet", il servizio di sicurezza interna di avere un’idea più chiara di quanto avvenuto. Sono le indiscrezioni che trapelano dalla polizia a consentire di mettere assieme i tasselli. Anzitutto i sei estremisti fanno parte di un "gruppo molto unito" che include "due fratelli" e "legami fra i componenti". In secondo luogo i "luoghi di provenienza" sono la città di Gerusalemme, il centro di Beit Shemesh nelle vicinanze e l’insediamento di Adam in Cisgiordania, ad appena 15 km dalla città. Da qui l’ipotesi che lo "Shin Bet" sia stato colto di sorpresa da una "gang di Gerusalemme" che includerebbe, secondo quanto riporta "Haaretz", almeno un ultraortodosso alzando il velo su una realtà finora poco considerata: la confluenza fra estremismo nazionalista e elementi delle sette religiose più intolleranti. A tale proposito Beit Shemesh è ricca di indizi e tracce perché è qui che, nell’ultimo anno, alcune sette ultraortodosse sono state protagoniste di episodi di intolleranza verso i laici e le donne che hanno fatto scalpore. "Dobbiamo ammettere che non avevamo previsto la degenerazione assassina dei gruppi nazionalisti più estremi" afferma un alto responsabile della sicurezza, chiedendo l’anonimato, con un mea culpa che investe polizia, intelligence e "Shin Bet". Il paragone più ricorrente è con il precedente degli anni Ottanta: allora un gruppo clandestino di estremisti venne debellata prima di poter mettere a segno il piano di far esplodere la moschea di Omar nelle Città Vecchia mentre in questa occasione il sistema di sicurezza ha fallito nela prevenzione. Se i tre "pentiti" collaborano è perché nelle accuse contro di loro c’è "organizzazione terroristica" ovvero la stessa adoperata nei confronti di Hamas e Jihad islamica, crando le premesse per "pene severissime" come il premier Benjamin Netanyahu ha assicurato al padre del ragazzo assassinato in una lunga telefonata personale di condoglianze.
Per almeno una settimana i 6 arrestati non avranno diritto di assistenza legale e l’intento della polizia è di ricostruire la dinamica interna della "gang di Gerusalemme" che include membri di tre aree urbane contigue: la città, le zone limitrofe entro la linea verde del 1967 e gli insediamenti in Cisgiordania. Adam è uno di questi: 6000 residenti popolano la cima di una collina con aiuole, alberi verdi, supermercati, scuole e campi sportivi che ricordano i sobborghi delle città americane. Il "segretario generale" di Adam, con le mansioni di sindaco, è Beber Vanunu che nel 1984 lo fondò. "L’idea che uno di noi abbia commesso questo orribile delitto è infondata - assicura - ho controllato la lista di tutti i residenti con il ministero degli Interni e non manca nessuno all’appello, deve trattarsi di un errore". Ma il presidente Shimon Peres e il successore Reuven Rivlin prendono la minaccia della "gang" molto sul serio: in un articolo a quattro mani su "Yedioth" citano Bialik, il poeta del risorgimento ebraico, per trasmettere il messaggio "niente vendette" tentando di estirpare il seme dell’odio che ha contaminato i "figli perduti d’Israele" uccidendo il giovane Muhammed.

il Fatto 8.7.14
Ultrà israeliani tra curve e raid contro i palestinesi
Il 16enne Mohammed è stato arso vivo da alcuni supporter del Beitar
di Roberta Zunini


Dopo le riforme del processo civile (articolo del 6 luglio), ci sono quelle del processo penale. Renzi, o chi per lui, non lo sa ma una riforma della giustizia penale non può che essere “di sistema”. Accelerare il processo penale (punto 9) significa modificare sia il codice penale che quello di procedura penale. Perché solo così si può ridurre lo spaventoso numero di processi che ogni anno arrivano alle Procure e da qui ai Tribunali, alle Corti d’Appello e in Cassazione. Sono tre milioni. In Gran Bretagna, che ha lo stesso numero di giudici con una popolazione più o meno uguale a quella italiana, ne arrivano 300.000. Questo significa che ogni pm italiano (circa 1.800) ogni anno riceve 1.600 processi. Dovrebbe farne 4 e mezzo al giorno, compresi i sabati e le domeniche e senza mai andare in ferie. Naturalmente non è così. I processi fanno la fila: finito uno se ne fa un altro. Senza ridurne il numero, c’è poco da accelerare. ECCO PERCHÉ guide senza patente o in stato di ebbrezza (attenzione, non omicidi colposi commessi da chi guida senza patente o ubriaco), devono essere puniti con una multa (molto alta) e con il sequestro dell’auto; se ne può occupare la stessa polizia che li accerta. E, più in generale, devono essere gestiti in questo modo tutti i reati che vengono trattati con il decreto penale (una procedura che prevede la pena della multa ma che può essere trasformata – e di fatto succede sempre – in un normale processo con Tribunale, Appello, Cassazione e – naturalmente – prescrizione). Non si può adoperare lo stesso tipo di processo che si utilizza per un omicidio (3 gradi di giudizio, notifiche, depositi, termini a difesa…) per reati come questi. Sia chiaro, da sola questa riforma è insufficiente a diminuire significativamente i processi; ma ce ne sono altre, sempre di “sistema”. Bisogna abolire l’appello. Esaminare due volte lo stesso processo non è garanzia di giustizia: si moltiplicano solo le possibilità di errore. I giudici dell’appello non sono diversi dai giudici di primo grado; non sono più preparati, più anziani, più lavoratori; scegliere un Tribunale, una Corte d’Appello, una Procura, per un giudice, dipende spesso da motivazioni private: restare nella città dove vive la sua famiglia, andare nella città di origine, cambiare lavoro perché quello fatto fino ad allora non interessa più… Non c’è ragione per cui una sentenza di primo grado sia più “giusta” di una di appello. Nessuno può sapere quale giudice ha sbagliato e quale aveva ragione. Insomma è una lotteria: è andata male in primo grado? Riproviamoci. È una cosa senza senso. Per gli errori di diritto, resta la Cassazione, questa sì composta da giudici che ci sono arrivati per concorso o dopo molte valutazioni di professionalità: si può presumere che siano più preparati degli altri. D’altra parte, un sistema così è adottato in Gran Bretagna e negli Usa. Non sarà perfetto ma consentirebbe di recuperare circa 1500 giudici. Più giudici, meno processi per giudice, maggiore rapidità di trattazione. Già; ma che diranno gli avvocati? Significa, più o meno, una diminuzione di reddito pari a un terzo. E POI BISOGNA incrementare il patteggiamento: un imputato che è sotterrato dalle prove può ottenere un congruo sconto di pena se rinuncia al processo e accetta la condanna che gli propone il pm. Niente Tribunale, niente Appello, niente Cassazione. Se invece si ostina e pretende il processo, tanti auguri: se lo trovano colpevole sarà condannato a una pena molto più grave (molto; altrimenti non funziona). Questo sì che farebbe diminuire il numero dei processi e quindi la loro durata. Il fatto è che il patteggiamento esiste già nel nostro codice ma lo chiedono in pochissimi. Perché? Per la prescrizione . Con l’80 per cento dei processi che finiscono in prescrizione, perché si dovrebbe patteggiare? Un po’ più di soldi per l’avvocato e l’assoluzione è garantita. E anche qui l’opposizione dell’avvocatura è certa. Ma Renzi vuole riformarla la prescrizione. C’è un solo modo per farlo: abolirla quando lo Stato comincia a occuparsi del reato. Funziona così in qualsiasi altro Paese normale. Solo che Renzi dialoga con quelli che la prescrizione l’hanno accorciata; davvero pensa di poter fare una cosa come questa? E poi i nuovi reati, il fiore all’occhiello: falso in bilancio e auto riciclaggio (punto 8), questa è serietà! Chiacchiere. L’intero sistema penitenziario è costruito perché in prigione non ci vada nessuno. Pene fino a 4 anni non si scontano: arresti domiciliari e affidamento in prova al servizio sociale; e ogni anno, per via della legge Gozzini e successive riforme Severino/Cancellieri, sono – in realtà – 7 mesi e mezzo. Per mandare in prigione un amministratore delegato o un evasore fiscale (i soggetti tipici che commettono auto riciclaggio) per un anno bisognerebbe condannarli a 6 anni: al netto degli sconti, ne farebbero 1 e 2 mesi. Solo che il falso in bilancio sarà punito con una pena massima di 5 anni (se va bene) e la frode fiscale arriva fino a 6; per l’autoriciclaggio si parla di un massimo di 7. Pene di 6 anni dunque sono una chimera. Così, finché pene fino a 4 anni non saranno prigione ma visite alle case di riposo per anziani, si possono introdurre tutti i reati immaginabili: come ho detto, sono chiacchiere.

l’Unità 8.7.14
Netanyahu chiama il padre: «Shock per il ragazzo ucciso»
Raid su Gaza: 9 morti, Hamas promette vendetta

Strappo nel governo israeliano, Lieberman scioglie l’alleanza con il Likud: troppo morbido
di Umberto De Giovannangeli


Un gesto «umano» in una realtà in cui l’umanità sembra essere stata cancellata da crimini orrendi che hanno avuto come vittime innocenti degli adolescenti. Israeliani e palestinesi. «L’uccisione di vostro figlio è ripugnante e non può essere approvata da alcun essere umano». Con queste parole il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è rivolto al padre di Mohammed Abu Khdeir, il sedicenne palestinese rapito e bruciato vivo da presunti estremisti ebrei. Netanyahu ha telefonato alla famiglia del giovane per esprimere tutta la sua indignazione per un omicidio «ripugnante». La telefonata è avvenuta all’indomani dell’arresto di sei estremisti ebrei accusati dell'efferato delitto. Secondo alcuni media israeliani, tre di loro avrebbero confessato il crimine, ricostruendo, passo dopo passo, la dinamica dell’omicidio. La loro identità per ora non viene rivelata perchè l'intento della polizia è quello di arrivare a sgominare la rete di complicità che li ha protetti. «Abbiamo agito immediatamente per catturare gli assassini. Li condurremo a processo e saranno giudicati sulla base della più ampia estensione della nostra legge», ha assicurato il primo ministro israeliano. Secondo alcuni media israeliani, gli assassini del giovane Mohammed, avrebbero tentato, non riuscendoci, di rapire il giorno prima un bambino palestinese di nove anni.
GIUSTIZIA NON VENDETTA
Secondo fonti della polizia e dell’intelligence, i sospettati sono maschi giovani, alcuni minorenni, residenti nella città israeliana di Beit Shemesh, vicino a Gerusalemme, e nella colonia ebraica di Adam, nel territorio occupato della Cisgiordania. A Netanyahu, Hussein Abu Khdeir, il padre dell’adolescente bruciato vivo, ha chiesto adesso di distruggere le case degli assassini del figlio, come Israele ha fatto con le abitazioni dei sospettati del crimine contro i tre giovani seminaristi ebrei. Il fermo dei sei sospetti è stato prorogato ieri da un tribunale di Petah Tikva, centro di Israele, di otto giorni per cinque di loro e di cinque giorni per il sesto, secondo i loro avvocati. I sei giovani israeliani sono sospettati di appartenere aduna «organizzazione terrorista » o a una organizzazione illegale, di rapimento, omicidio di minore, cospirazione, detenzione illegale di armi, e di crimine per «motivi nazionalisti», secondo il sito di informazioni israeliano Ynet. Nello Stato di Israele, «non c'è differenza tra sangue e sangue». Così si legge in un editoriale apparso sulla prima pagina del quotidiano Yediot Ahronot, il più diffuso in Israele, firmato insieme dal presidente uscente, il Nobel per la Pace Shimon Peres, e da Reuven Rivlin, che gli succederà a fine mese. «La scelta è nelle nostre mani: arrenderci alla visione distruttiva del mondo di razzisti ed estremisti, o combatterlo senza condizioni; arrenderci ai musulmani selvaggi e feroci o ai terroristi ebrei, o mettere fine a questo con tutti i mezzi possibili», si legge nel testo.
D’altro canto, Israele ha fretta di chiudere una vicenda che si è rivelata quanto mai imbarazzante, e che appare foriera di ulteriori conseguenze: non solo nel braccio di ferro coni palestinesi, e in particolare con i radicali di Hamas, ma anche sul piano degli equilibri politici interni, messi inoltre a dura prova dalla tempesta di razzi che continuano nel frattempo ad arrivare sul territorio dello Stato ebraico dalla Striscia di Gaza. Il governo appare più che mai diviso tra falchi e colombe: prova ne sia che, dopo venti mesi, ha annunciato la fine dell’alleanza tra il Likuddel premiere il proprio Yisrael Beiteinu (Israele Nostra Casa, ndr) il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, uno degli esponenti più intransigenti della destra. Sia lui sia la sua formazione rimarranno nell’esecutivo: ma la lista comune Likud Beiteinu, varata nell'ottobre 2012 in vista delle elezioni del gennaio successivo, non esiste più. Decisive sono state le divergenze sulla risposta da dare agli attacchi da Gaza, che per i duri alla Lieberman non sono state sufficienti.
Intanto, sul fronte sud i droni di Israele hanno ucciso nove miliziani a Gaza e Hamas ha risposto lanciando razzi Grad su Beersheba, la più grande città del Negev. Il blitz aereo israeliano è avvenuto nel corso dell’altra notte, i droni hanno usato bombe anti-bunker e bersagliato basi sotterranee nel sud di Gaza, vicino a Rafah. Sette miliziani di Hamas sono morti nel crollo dei tunnel dove proteggevano lanciarazzi e mortai. In un attacco separato sono stati uccisi due miliziani della Jihad Islamica. Hamas parla di «escalation» e minaccia: «ve la faremo pagare ». Si tratta del bilancio più pesante di vittime per Hamas dall’operazione «Pillar of Defense» del novembre 2012.

La Stampa 8.7.14
Nethanyahu: “E’ arrivata l’ora  di togliersi i guanti con Hamas”
Il premier israeliano ordina di aumentare gli attacchi nella Striscia di Gaza. Il ministro della Difesa Yaalon avverte la popolazione nelle città del Sud: “E’ un’operazione che non durerà pochi giorni”
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 8.7.14
Israele, bombe su Gaza
Netanyahu apre i rifugi di sicurezza e richiama i riservisti
Dalla Striscia continua la pioggia di razzi sul Negev
La risposta di Hamas “Porteremo l’inferno”
di Ma. Mo.


Escalation militare a Gaza. Droni e israeliani hanno colpito a Rafah, nell’estremo Sud della Striscia, i tunnel dove Hamas celava mortai e lanciatori di razzi usati per colpire Israele. Il blitz su 14 obiettivi è avvenuto nella notte fra domenica e lunedì, facendo crollare un tunnel adoperato come bunker da Hamas, che ha così perso sette miliziani dell’ala militare.
Si tratta del bilancio di perdite più pesate per l’organizzazione fondamentalista da quando, nel novembre 2012, Israele terminò l’operazione «Pillar of Defense». A dispetto della nuova tattica militare israeliana contro i «lanciatori di razzi nascosti», come li definisce il portavoce dell’esercito Peter Lerner, sono continuati. Ad aver sorpreso Hamas sono i droni israeliani armati con bombe anti-bunker e guidati dai satelliti che «vedono» il calore sotterraneo. Anche la Jihad islamica subisce vittime: due miliziani vengono uccisi in un attacco mirato. La reazione di Hamas si capisce dal numero di razzi lanciati verso Israele: gli attacchi si intensificano con il passare delle ore, a partire dal pomeriggio di ieri, fino ad arrivare a 60 l’ora - uno al minuto - a notte inoltrata.
Mushier al-Masri, alto funzionario di Hamas, promette di «portare l’inferno nelle città d’Israele» suggerendo agli abitanti di Beersheva di «andarsene prima che sia troppo tardi». Beersheva si trova a 40 km da Gaza, i razzi che la investono sono «Grad» con una gittata di 50 km che minaccia potenzialmente Gerusalemme e Tel Aviv. E dopo il tramonto le ondate di attacchi investono tutte le città del Sud e del Centro, da Ashkelot a Nes Ziona fino a Beit Shemesh, a ben 80 km da Gaza. Hamas mantiene la promessa di «colpire nuove città» confermando di disporre di razzi con raggio più lungo di quelli finora adoperati contro Sderot, la città del Negev più colpita.
La reazione del premier Benjamin Netanyahu arriva con una riunione d’emergenza del governo durata tre ore con queste decisioni: apertura dei rifugi pubblici nel Sud, aumento delle batterie anti-missile «Iron Dome» attorno alle città. E richiamo «a ondate» di 1500 ufficiali riservisti ai confini di Gaza, dove vi sono già un imprecisato numero di brigate corazzate e impegno ad «aumentare la pressione militare su Hamas fino a quando non tornerà la quiete».
L’intento di Netanyahu è obbligare Hamas a ripristinare la tregua siglata alla fine del 2012 ma Mushier al-Masri ribatte: «Sono stati loro a violarla in ogni modo, ora quell’accordo non c’è più». Israele crede nella possibilità che Egitto e Giordania possano spingere Hamas al cessate il fuoco, ma fonti palestinesi a Gaza ritengono che «oramai l’escalation fa comodo anche a Hamas, perché l’accordo di unità nazionale con Abu Mazen è lettera morta e lo scontro aperto con Israele può servire a spingere l’Egitto a riaprire i tunnel». Ma non è tutto, perché c’è anche un fronte di politica interna israeliana che condiziona Netanyahu: il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, rompe il patto fra il suo partito «Israel-Beitenu» e il Likud del premier con un gesto di sfida accompagnato dal rimprovero di «non fare abbastanza per punire Hamas e proteggere i nostri cittadini». Sebbene Lieberman resti nel governo, il suo è un passo che apre la sfida per la leadership della destra. Spingendo Netanyahu a rivedere la linea della prudenza finora dimostrata a Gaza. Tanto più che l’amministrazione Obama, con la portavoce Jan Psaki, lo sostiene: «Attacchi di razzi inaccettabili, Israele ha il diritto di difendersi».[m. mo.]

l’Unità 8.7.14
Israele-Palestina, l’escalation di brutalità non ha futuro
La violenza non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra violenza
di Luigi Bonanate


Tre ragazzi israeliani uccisi, un altro palestinese bruciato vivo, nove militanti di Hamas uccisi dai droni, 800 palestinesi arrestati a partire dal 12 giugno, quando furono rapiti i tre ragazzi israeliani. Dopo una forsennata caccia all’uomo, vana perché non si sono trovati i colpevoli dell’assassinio dei tre ragazzi, una frangia estremistica israeliana ha proceduto direttamente alla vendetta dando fuoco a un ragazzo rapito di fronte a casa sua e che - neppure lui - aveva nulla a che fare con gli eventi.
Poi, Netanyahu ha parlato con il padre della vittima palestinese e si è scusato, riconoscendo che il terrorismo e la violenza sono sempre la stessa cosa, chiunque vi ricorra; Abu Mazen ha chiesto un’inchiesta Onu sulla vicenda, e Lieberman, capo di uno dei partiti di ultra-destra israeliani, parte dell’attuale coalizione al potere, ha dichiarato che pur senza far cadere il governo il suo partito esce dall’alleanza politica con il Likud di Netanyahu.
L’unica dimensione nella quale una parte di Israele e una della Palestina si incontrano, anzi, si apparentano, è la facilità con cui ricorrono alla violenza e commettono azioni orrende e assolutamente ingiustificabili. Nessuno può permettersi di giudicare e condannare se non ha le mani nette, e purtroppo nessuno si trova in questa condizione, il che significa che la violenza o la accettiamo in toto o la respingiamo altrettanto totalmente. Questa considerazione vale per tutti e non soltanto per scusare gli atti degli amici o condannare quella degli avversari.
Dobbiamo lasciare la politica ai politici, mentre noi dobbiamo cercare di capire, formarci un’opinione, contribuire a formarne una collettiva e a prendere posizioni pubbliche: tutte cose a cui abbiamo purtroppo ormai perduto l’abitudine. Il primo impegno in ogni tentativo di ricostruzione delle dimensioni di questo problema riguarda il potere della violenza: sappiamo per certo che la violenza (politica) non ha mai generato pace ma soltanto ed esclusivamente altra (semmai maggiore, in una escalation che può essere senza fine) violenza. Ciò significa che la violenza deve, prima o poi, venire abbandonata: se non lo si fa, è perché si teme quella dell’altro, in un perverso (ma ingenuo) gioco di sfiducia reciproca.
La storia - 66 anni sono ormai passati da quando tutto ciò è incominciato - ci dice che, andando avanti così, nulla mai cambierà. Abbiamo avuto alternanze di riduzione della violenza e di recrudescenze, un numero imprecisato di guerre e due intifade: non sono servite a nulla. Esiste qualche modo di sbloccare questa situazione che, lasciata alle attuali dimensioni, non ne ha alcuno? Le guerre si muovono normalmente su una base di presunta reciprocità, altrimenti non inizierebbero mai, sapendosi prima chi ne sarebbe il vincitore. Tra Israele e la Palestina c’è invece una fondamentale differenza: il primo è uno Stato solido, ricco, riconosciuto dalla comunità internazionale, salvo che da alcune pochissime frange estreme (Hamas, l’Iran); il secondo, la Palestina, è povero e statualmente pressoché inesistente (piccolo com’è, è persino territorialmente diviso). In una situazione del genere non c’è che una via: che il più fortunato (lasciamo stare da dove questa fortuna gli sia giunta) aiuti il più debole. Per pura e semplice riconoscenza per la fortuna avuta. Israele sa che in una qualsiasi nuova spirale di violenza, uscirebbe sempre vittorioso. Non gli resterebbe allora che una via: spazzar via l’Autorità Nazionale Palestinese (annessi e connessi), e attirarsi contro l’esecrazione planetaria. Gli converrà mai? Ovviamente no, così come non conviene a nessun israeliano né a nessun palestinese pensare che i propri rispettivi figli e discendenti continueranno a vivere nella paura e nel terrore. Non ha alcun senso, perché non c’è argomento che superi quello di un progetto di pacificazione e la conseguente domanda, tanto semplice quanto insuperabile: ma la vita non è meglio della morte?
Filosofi e teologi ricorrono talvolta, per spiegare congiunture particolarmente complesse e difficili, alla formula della «eterogenesi dei fini», che si verificherebbe quando, intendendo con una qualche azione perseguire un certo fine, in realtà si finisce per realizzarne uno diverso. Da certe intenzioni discendono conseguenze che non vi corrispondono. Che sia questo il caso del conflitto israelo- palestinese, in questa sua sorta di inspiegabile inestinguibilità? Ma sia ben chiaro: non è ad azioni casuali, caotiche, sporadiche, che possiamo affidare il futuro del conflitto israelo-palestinese. Tutti - Hamas compreso e come pure i partiti ultra-ortodossi israeliani - diano una prova di saper lavorare con la ragionevolezza e non con la brutalità. Che questo bruttissimo episodio segni finalmente un trionfo dell’eterogenesi dei fini: da un male potrebbe discendere un bene.

Corriere 8.7.14
Il terrorismo islamista, le sue armi, il suoi denaro
risponde Sergio Romano


Una miriade di sigle che non nomino per brevità, tutte sotto il denominatore comune di Al Qaeda, dall’Africa sub sahariana, alla Nigeria e
alla Somalia, dalla Siria e dall’Iraq per arrivare fino al Pakistan, strutturate come veri e propri eserciti, stanno combattendo una guerra in nome dell’integralismo islamico. Le mie domande  sono: ma chi li finanzia? Dove trovano le risorse per mantenere tutta questa vasta organizzazione? Se gli Stati che combattono il terrorismo islamico non riusciranno al più presto a bloccare i finanziamenti e chi li  eroga, la guerra non sarà  mai finita.
Antonio Merlo

Caro Merlo,
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 molti Paesi adottarono leggi che consentivano ai governi di meglio vigilare sui circuiti finanziari. È probabile che quelle leggi abbiano fortemente ridotto i trasferimenti di denaro indirizzati a gruppi terroristici. Ma vi sono almeno tre Paesi del Medio Oriente — Arabia Saudita, Iran e Qatar — che non hanno mai smesso di aiutare i movimenti ideologici e religiosi con cui hanno una maggiore affinità politica e spirituale. Questi movimenti non sono necessariamente terroristici, ma i finanziamenti sono segreti e possono lungo la strada cadere in mano a fazioni e correnti radicali. È accaduto particolarmente in Siria dove i gruppi che combattono contro il regime di Bashar Al Assad sono stati aiutati con armi e denaro da molti donatori, fra cui qualche potenza occidentale. È probabile che alcuni di questi Paesi, dopo avere compreso che i destinatari non erano affidabili, abbiano smesso di foraggiarli. Ma quando giungono in un territorio dove non esistono due fronti, distinti e compatti, le armi e il denaro sono difficilmente «tracciabili».
Esiste poi l’autofinanziamento. Se un movimento armato dispone di una base territoriale, può sfruttarne le risorse minacciando le imprese di colpire i loro impianti o sequestrando i loro dipendenti. Né le imprese né i governi stranieri ammetteranno mai di avere pagato un riscatto, ma le prime hanno interesse a continuare le loro operazioni e i governi non possono abbandonare i loro connazionali alla mercé di bande che non esitano a distruggere e a uccidere.
Vi sono state infine circostanze, caro Merlo, in cui le potenze occidentali hanno involontariamente contribuito a riempire gli arsenali delle milizie islamiste. Una buona parte delle armi usate per abbattere il regime del colonnello Gheddafi sono finite nelle mani dei guerriglieri di Al Qaeda nel Maghreb islamico, l’organizzazione che opera da qualche anno nel Sahara e nel Sahel .

Repubblica 8.7.14
Storia di Ravi piccolo schiavo picchiato perché studia
La violenza sui bambini e l’India di oggi
di Prajwal Parajuly


QUANDO avevo sei anni, vidi mio zio prendere a schiaffi, calci e pugni un ragazzino che viveva in casa sua. Niente di strano per l’India dell’epoca (eravamo all’inizio degli anni 90), e niente di strano nemmeno per l’India di oggi. I genitori sono abituati a picchiare i propri figli, convinti che sia il modo migliore per imporre loro la disciplina. A Gangtok, la mia città natale, avevo un amico che una settimana sì e una no veniva a scuola con dei lividi da bastone tatuati sulle braccia. Quella, però, era la prima volta che vedevo mio zio picchiare un bambino. Di quale crimine si era macchiato quel servetto di otto anni? Aveva lasciato che lo distraessi dalle faccende di casa.
Avevo preso da parte Ravi, così si chiamava, in un momento in cui non aveva nulla da fare, per insegnargli le lettere dell’alfabeto inglese. Ravi non aveva mai messo piede in un’aula scolastica, ma imparava in fretta. Aveva un modo curioso di tenere la matita: all’inizio la impugnava quasi sulla punta, forse perché non ne aveva mai usata una prima. Faceva confusione con la B (la faccia era rivolta a destra o a sinistra?) e lo divertiva la I: non riusciva a credere che dopo forme complicate come la B e la E potesse venire una lettera così semplice. «Una sola stanghetta?», rideva riempiendo il quaderno con decine di I.
Stavo per chiedere al mio alunno di disegnare il manico di un ombrello, ma prima che ci potessimo dilettare con la J, arrivò mio zio come una furia, con una faccia rubizza che non prometteva nulla di buono.
Rimasi di sasso, perché pensavo che mio zio ne sarebbe stato fiero. All’epoca in India si cercava in tutti i modi di promuovere l’alfabetizzazione. Sulla televisione pubblica passavano spesso messaggi pubblicitari che rampognavano quei genitori che negavano alle bambine la stessa istruzione garantita ai figli maschi. Non stavo dunque facendo un favore a mio zio?
All’epoca dei fatti, Ravi stava con i miei zii da circa un anno. Era stata mia madre a procurarglielo, prendendolo da una famiglia povera che viveva nel suo villaggio d’origine, in Nepal. Mia madre era maestra nello scovare domestici. Da quando, giovane sposa, si era trasferita dal Nepal in India, tornava regolarmente al villaggio natio per selezionare collaboratori domestici destinati alle case borghesi di amici e parenti. Un ragazzo in meno che muore di fame, pensava. La maggior parte delle famiglie di Gangtok dava lavoro a domestici indigeni che provenivano dal confine con il Buthan, ma i miei genitori preferivano i nepalesi perché parlavano la nostra lingua.
A volte accompagnavo mia madre in questi viaggi. Di solito la caccia iniziava con una visita a sorpresa a un lontano parente povero, che ci accompagnava, a mo’ di intermediario, in tutte le case dei potenziali domestici. Si discutevano i termini e le condizioni del reddito che il servetto avrebbe portato alla sua famiglia: sì, i genitori avrebbero ricevuto del danaro ogni mese; sì, il ragazzino avrebbe vissuto con la famiglia del suo datore di lavoro e avrebbe ricevuto un’istruzione, se si fosse comportato bene; sì, probabilmente gli sarebbe stato concesso di tornare a casa per le feste principali; e sì, certamente, avrebbe mangiato lo stesso cibo nostro. E a quel punto avveniva la consegna del servetto, a volte accompagnata da lacrime.
Ravi avrebbe dovuto essere il nostro domestico, in sostituzione della donna che aveva vissuto con noi da prima che nascessi, ma che ci aveva lasciato per il marito ubriacone. Il giorno in cui arrivò, dopo avergli mostrato dove doveva dormire, le parti della casa a cui non aveva accesso, i piatti e gli utensili che inquanto servitore non poteva toccare, mia madre capì che c’era un problema: quel ragazzo malnutrito aveva i pidocchi. I miei genitori non potevano rischiare che i loro figli, che andavano a scuola, venissero contaminati, quindi Ravi venne temporaneamente trasferito da mio zio, che non aveva figli. Lì, prima di essere rimandato a casa nostra, sarebbe stato rasato e spidocchiato.
Ma non tornò mai da noi. La nostra vecchia domestica decise che ne aveva abbastanza delle botte del marito ubriacone e si ritrasferì da noi, mentre Ravi restò da mio zio.
Se la passava bene, ci raccontavano gli zii. Stava imparando a fare il tè, era in grado di lavare i piatti senza la supervisione di nessucosa no e aveva abbastanza energia per spazzare da cima a fondo la loro casa di quattro piani, due volte al giorno. Ma per ora non avevano nessuna intenzione di mandarlo a scuola. Era una perdita di tempo, diceva mio zio, mentre mia madre guardava altrove, sentendosi in colpa. Poteva sempre imparare le cose a casa.
Ecco perché trovai così strana la reazione di mio zio di fronte alla piccola rivoluzione letteraria che avevo provocato. Quando ci scoprì, la conversazione andò più o meno così: «Non hai del lavoro da sbrigare?», chiese assestando un pugno in faccia al mio studente.
«Ho finito», rispose umilmente Ravi.
«Allora va’ a lavare la macchina», tuonò mio zio mollandogli al volo un sonoro schiaffone e qualche calcio.
Poi la sua rabbia si riversò su di me.
«Che ci facevi con lui?» «Gli stavo insegnando l’alfabeto».
«Lo stavi distraendo».
«Mica stava lavorando».
«E tu che ne sai? Ha un sacco di cose da fare. E non ti mettere a discutere con me».
«Dovresti trattarlo come un essere umano », dissi io scoppiando in lacrime.
«Se è un essere umano, perché non mangi nel suo stesso piatto?», chiese mio zio.
«Non è un animale», dissi.
«Se è un essere umano, perché non dormi nel suo stesso letto?».
«Sei cattivo».
«Se è un essere umano, perché non indossi i suoi stessi vestiti?».
«Io…», risposi, prima di svignarmela con la coda fra le gambe.
«Allora, se è un essere umano mangia nel suo stesso piatto e dormi nel suo stesso letto!», urlò mio zio.
Naturalmente, non avevo nessuna intenzione di toccare il piatto di un servo. Era una disgustosa, così mi era stato detto. Né avevo alcuna intenzione di dormire nel suo letto: probabilmente era infestato da pulci e cimici. Questo era quello che mia era stato insegnato.
Anche se avevo solo sei anni, sapevo di essere superiore a Ravi e a migliaia di altri come lui. Non si mangia dallo stesso piatto di un servo, anche se il piatto è stato sciacquato e strofinato decine di volte, perché si prendono le malattie. Si rischia di essere contagiati dalla loro subalternità.
Io ero un padrone e Ravi era un servo. E c’erano cose che i padroni non facevano.
Tre settimane dopo Ravi scappò via. Rubò qualche centinaio di rupie dal portafogli di mia zia, delle scarpe di mio zio, due piatti e una tazza.
«Quando tieni un servo in casa, i furti te li devi aspettare», disse mio zio facendo spallucce mentre prendeva nota del danno subito. «Se la caverà, ne sono sicuro; spero solo che non si faccia ammazzare».
Nessuno denunciò alla polizia l’assenza del ragazzo.
Ravi aveva lasciato alcuni indumenti (vestiti di seconda mano che gli avevo passato io, anche se lui era più grande di me) e il suo quaderno, riempito fino all’ultima pagina. Le prime nove lettere dell’alfabeto erano ripetute centinaia di volte. La B era ancora scritta al contrario. E vidi che Ravi aveva fatto quello che facevo io quando ero in ansia: tratteggiare i cerchietti delle B, quelli che io chiamavo i «palloncini», con una serie di colori. Tutti quelli di Ravi erano anche colorati all’interno, di un grigio scialbo.
The New York Times (Traduzione di Fabio Galimberti)
Prajwal Parajuly è nato nel 1984 È indianonepalese Nel 2012 ha pubblicato la raccolta di racconti The Gurkha’s Daughter. L’anno successivo è uscito Land Where I Flee

La Stampa 8.7.14
Il figlio folle, l’unico problema che Einstein non seppe risolvere
Un romanzo di Laurent Seksik ricostruisce il dramma di Eduard: una vita in clinica, abbandonato dal padre
di Mario Baudino

qui

La Stampa 8.7.14
Trasparenza a doppio taglio
Da ideale democratico fin dai tempi delle poleis greche a possibile minaccia nell’era della ipercomunicazione
J’accuse del filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han
di Massimiliano Panarari


Tra i miti assoluti dei tempi nostri ce n’è uno che continua a furoreggiare. Una chimera che mai quanto oggi mostra la sua natura di «arma a doppio taglio». Si tratta della mitologia della trasparenza, invocata come la facoltà dell’opinione pubblica di esercitare una sorta di controllo rispetto agli illeciti e alla corruzione che accompagnano il potere (e nel nostro Paese, tra Expo 2015, Mose e scandalo Carige, giusto per citare la cronaca più recente, purtroppo non c’è che l’imbarazzo della scelta). Pretesa (con sacrosante motivazioni) dal basso, o anche stabilita dall’alto, come nel caso della glasnost (giustappunto, «trasparenza»), il programma di riforme moralizzatrici di Mikhail Gorbaciov nella seconda metà degli Anni Ottanta.
Ma siamo proprio sicuri che sia davvero, e fino in fondo, così? E che tale bisogno – quando non «ossessione» – di accumulare notizie non finisca col produrre effetti indesiderati (regalando, per giunta, a certi poteri nuove, e ancor più irresistibili, occasioni di sorveglianza), anziché raggiungere l’auspicato (e meritorio) obiettivo?
Un tema complicato e scivoloso, che ha molto a che fare, una volta di più, con la condizione postmoderna, ma rimanda a origini sul serio millenarie, dal momento che la scena originaria coincide con l’agorà delle città greche dove si fecero i primi esperimenti democratici della storia occidentale (al netto delle ben note limitazioni sociali del periodo, naturalmente). La democrazia della polis dell’età classica si fondava infatti sulle idee di rendicontazione, verificabilità degli atti di governo, «certezza del diritto» (come si sarebbe detto in seguito), e dunque, in definitiva, sulla nozione di trasparenza del comportamento dei reggitori della città.
Arriva adesso in libreria un volumetto (concettualmente molto denso) che scaglia un durissimo j’accuse contro quello che considera un falso ideale e una minaccia tremenda (e, ciò che è peggio, nella piena inconsapevolezza) alla sfera delle libertà individuali. In La società della trasparenza (Nottetempo, pp. 94, € 11) il teorico culturale tedesco-coreano Byung-Chul Han (eclettico professore di Filosofia alla Universität der Künste di Berlino, con un passato di studi di metallurgia – proprio così… – e teologia, ormai assurto a star della scena intellettuale) ricostruisce la genealogia culturale di quella che si è configurata alla stregua di un’autentica ideologia totalizzante (anzi, «totalitaria»). Tanto da porre una seria ipoteca sulla possibilità di tutelare effettivamente la privacy, conquista preziosissima della civiltà e della cultura politica liberali.
Nel Settecento il principio della trasparenza (rischiarata dai Lumi della ragione) si fa strada con forza, combattendo aspramente contro gli arcana imperii e quella «società dell’intimità» che caratterizzava le corti dell’Antico Regime. Sempre e rigorosamente, però, sul piano della vita pubblica e della politica. È Jean-Jacques Rousseau, mettendoci (alla lettera) del suo con le Confessioni, a lanciare il «pathos dello svelamento» del cuore degli individui, in nome della verità, con il conseguente cambio di paradigma e la prefigurazione di una comunità tirannica (e qui lo studioso che non è un liberale, ma un curioso impasto di hegelismo e decostruttivismo, si ritrova in sintonia con Karl Popper). Partendo da lì, la contemporaneità, senza aver più bisogno di occhiuti Grandi Fratelli, si inventa la sorveglianza perfetta sotto forma del «panottico digitale», diversissimo dalla «prigione ideale» di Jeremy Bentham.
Ai nostri giorni, la disciplina del Panopticon postmoderno non viene più assicurata dalla solitudine del singolo che sa di essere osservato da un potere invisibile, bensì dall’ipercomunicazione e dai suoi eccessi, a cui tutti quanti (più o meno) partecipiamo entusiasticamente e senza sosta. A tal punto da avere dato vita a quella che l’autore chiama la «porno-società», ovvero una società dello spettacolo in tutti i sensi, dove l’oscenità deriva dall’esposizione ed esibizione incessante di ogni cosa. E dove risulta «addomesticato» e ammansito anche il sentimento amoroso (altro che amour fou…), ridotto a genere di consumo o poco più (come descriveva alla perfezione il «motto» del sito d’appuntamenti per single Meetic: «Si può essere innamorati, senza innamorarsi!»). E invece la discrezione e un po’ di «segreti» e di riserbo servono tanto alla sessualità (aspetto di cui il filosofo si era occupato in un testo precedente, Eros in agonia, sempre Nottetempo), quanto, a ben guardare, alla stessa democrazia. Perché, a dispetto dei vari Wikileaks, l’ideologia della trasparenza - afferma lo studioso tedesco-coreano - ha assunto da tempo una spiccata matrice neoliberista. Essa non prevede colori e orientamenti politici; e così i partiti che la eleggono a propria bandiera, dai pirati tedeschi ai 5 Stelle italiani, diventano altrettante manifestazioni di una post-politica che conduce alla depoliticizzazione di fatto.
L’agorà digitale, quindi, non sarebbe propriamente una casa di vetro quanto, piuttosto, il perfezionamento tecnologico della logica della «società della prestazione», in cui lo sfruttamento esterno lascia il posto all’autosfruttamento (ovviamente a beneficio di qualcun altro, poiché Byung-Chul Han, da neohegeliano radical, si rifà alla dialettica servo-padrone, che risolve in maniera assai differente da quella del pensatore per antonomasia dell’idealismo). Insomma, un incubo, ben lontano da quel caos tutto sommato creativo e intriso di opportunità di emancipazione che Gianni Vattimo vedeva all’opera grazie ai media (Rete compresa) nel suo vecchio libro La società trasparente (uscito da Garzanti per la prima volta nel 1989).
E se provassimo allora a prendere la questione per un altro verso, domandandoci se, più che di trasparenza, non si tratti, in realtà, di un problema di fiducia? Esattamente come quella persa dai cittadini, senza la quale le democrazie rischiano grosso.

l’Unità 8.7.14
Velio, con il pennello in mano dipinge sulle pareti di Casa Basaglia
«Le nuvole di Picasso» è un volume che nasce dalle domande fatte dei più piccoli
di Delia Vaccarello


VELIO, IL MATTO-PITTORE RIMASTO LEGATO PER ANNI ALLO STESSO LETTO, COMINCIA A DIPINGERE DAVVERO i quadri astratti che aveva fino ad allora abbozzato solo sulla tela della sua mente quando Franco Basaglia distrugge manicomio e camicie di forza. E un bel giorno varca la soglia di casa Basaglia alloggiata all’ultimo piano del palazzo della Provincia di Gorizia per uno strano gioco della sorte. Franco che decostruisce l’istituzione ha deciso che è meglio vivere in questi saloni piuttosto che dentro il manicomio che si è impegnato a picconare. Velio arriva con il pennello in mano per trasformare le pareti in grandi lavagne dedicate alla fantasia e alla libertà dei bambini, Alberta ed Enrico. Casa Basaglia non può non avere quelle pareti, perché è una casa porosa, frequentata dai matti, dai giornalisti, dagli intellettuali: «In quell’ultimo luminoso piano del palazzo della Provincia, le porte non si chiudevano, le parole ci raggiungevano sempre, da una stanza all’altra, insieme all’odore del fumo di sigaretta».
Ciascuno a modo proprio respira l’idea di fondo del lavoro di Franca e Franco: «l’idea era che tutti, proprio tutti – maschi, femmine, matti, malati, bambini, bambini malati – dovevano avere una possibilità per poter vivere la loro vita. La malattia c’è, non la si nega, ma il fatto che ci sia non deve impedire alla persona in questione di poter vivere e agli altri intorno di poter stare con lei». L’idea attraversa il cielo del tempo e arriva a noi tra le pagine de Le nuvole di Picasso che danno il titolo al libro scritto da Alberta Basaglia con la giornalista Giulietta Raccanelli (ed. Feltrinelli). L’Idea ridà la vita a Velio, Maria, Desolina, Carletto. Viaggia. Interpretata da Alberta diventa il gancio con il quale - giovane studentessa - redige una tesi di laurea sui bambini dimenticati, quei tanti finiti in manicomio solo perché «indocili», «disobbedienti», «oziosi», «irritabili», «cattivi», «permalosi », «tendenti al furto», «insofferenti alla disciplina». O quelle tante che si beccano la diagnosi di matte solo perché dedite alla bestemmia o alla masturbazione. L’Idea diventa la chiave per maneggiare le «differenze» sfuggendo alla tentazione di segregare chi ne è portatore ora in manicomio, ora «soltanto» grazie a un reticolo feroce di pregiudizi per rispondere all’ansia «che costringe a incasellare tutti e tutto in regole e categorie precise che pretendono di dare un ordine tranquillizzante al mondo». L’Idea prende il pennello inmano proprio come Velio e permette ad Alberta e a Giulietta di tracciare un grande affresco che da casa Basaglia a Gorizia arriva fino ai centri anti-violenza, al lavoro con i ragazzi israeliani e palestinesi, alla nascita della fondazione Franca e Franco Basaglia. La sentiamo nelle parole di Franco durante le interviste citate nel libro: «Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare».
La intravediamo nelle frasi scritte di notte da Franca sulla sua lettera 22 che sentiamo ticchettare dentro i saloni della casa dalle «pareti lavagna». Con una prosa lineare, efficace, densa di immagini grazie alla penna della Raccanelli e all’intesa scattata tra le due autrici - una prosa rivolta al lettore di ogni età, quasi che il primo interlocutore immaginato fosse lo sguardo del «lettore bambino » - Alberta Basaglia ci dona un frammento di storia altrimenti perduta mostrando «da dentro» cosa succede a grandi e piccoli in pari misura quando la cultura cambia la vita. L’età, infatti, non faceva nessuna differenza: «noi bambini non ne siamo mai stati tagliati fuori, perché non esistevano cose da grandi e cose da piccoli. Eravamo tutti solo persone». Alberta Basaglia ci rivela anche il suo segreto che non consiste tanto nello sguardo «sghembo» di lei bambina resistente a diventare «grunde», affinato da subito a causa del Coloboma agli occhi. «Ero quella che vedeva, ma senza occhiali e senza vedere. Un controsenso», scrive e racconta «la sottile aggressività» di chi non è disposto a capire «come può succedere una cosa simile. Come può una ragazzina (o donna, a seconda dei momenti) arrangiarsi a prescindere e trovare un modo suo, personale, per convivere con un accidente del genere». Il segreto è nel limite. «Visto i genitori che mi erano capitati, questa faccenda dell’accettazione del limite era cresciuta con me. Mi sembrava l’uovo di Colombo, mami dovevo rassegnare: in generale, non sarebbe stata comprensibile a molti».

Corriere 8.7.14
il «Capitale» di Piketty
Libro meno letto se la citazione si ferma al primo Capitolo...
di Marco Del Corona


I libri sono una cosa seria, ma sanno invitare al gioco. L’estate a sua volta invita al gioco. Le classifiche sono, addirittura, un gioco. E poiché anche la matematica è un gioco, il Wall Street Journal ha pensato mettere a punto un (finto) modello matematico per stabilire qual è, già ora, il libro meno letto della stagione.
La formula che il quotidiano suggerisce poggia sui popular highlights di Amazon, ovvero i passaggi di un volume segnalati dai lettori che si riforniscono nella libreria online più assortita e controversa del mondo. Ribattezzato «indice di Hawking» partendo dal presupposto che La breve storia del tempo di Stephen Hawking sia «il libro meno letto di tutti i tempi», il meccanismo si basa sul fatto che se le citazioni sul sito Amazon sono distribuite su tutto il libro, significa che questo è stato effettivamente letto fino in fondo; se invece i passaggi riportati si concentrano nelle prime pagine, vuol dire che ci si fa belli attingendo all’inizio senza andare oltre.
Secondo questi parametri «neanche lontanamente scientifici» e dichiaratamente ludici, il Wall Street Journal ha stabilito che se Il cardellino di Donna Tartt (tradotto da Rizzoli) è il libro più letto, il meno letto è Capital in the Twenty-First Century (Il capitale nel XXI secolo), il saggio elogiato, contestato, citato, evocato, demolito dell’economista Thomas Piketty. «Sono quasi 700 pagine — scrive il giornale — e l’ultima delle cinque citazioni più popolari appare a pagina 26». Bocciato, stando al criterio della rilevazione, Piketty (che il 10 settembre uscirà per Bompiani), e con un fremito di piacere da parte dell’ultraliberista Wall Street Journal che non ha in simpatia le teorie del neo- o post- o para-marxista Piketty. Il gioco funziona e dimostra caso mai, con buona pace dello stesso Piketty, quello che pare un tic del capitalismo reale: se ci si inventa un gioco, è per vincere. O almeno per far perdere i propri avversari.

Corriere 8.7.14
Quant’era esausta e rissosa l’Italia di Vittorio Veneto
I drammi della Grande guerra sfatano i miti nazionalisti
di Paolo Mieli


La Grande guerra «costò» all’Europa 15 milioni di morti su un totale di 120 milioni di maschi adulti mobilitati. I feriti furono più di 34 milioni (tra cui 8 milioni di mutilati e invalidi) e 11 milioni i prigionieri, decine di migliaia dei quali morti nei campi di prigionia. Tra i prigionieri, nota Marco Mondini nell’avvincente La Guerra italiana. Partire, raccontare, tornare , che sta per essere pubblicato dal Mulino, 600 mila circa furono italiani, la metà dei quali caddero nelle mani del nemico dopo la disfatta di Caporetto: una cifra altissima, se confrontata con quella corrispettiva dei francesi (520 mila), dei britannici (180 mila) e persino dei tedeschi (800 mila, ma su un numero di richiamati alle armi che era il doppio del nostro). L’Italia per di più considerò gran parte dei propri prigionieri alla stregua di disertori o quantomeno gente che si era arresa senza combattere e, di conseguenza, li aiutò ben poco. Nel 1917, sempre all’epoca di Caporetto, fu dichiarato da fonti ufficiali che i disertori italiani ammontavano a ben 55 mila, senza far cenno alla circostanza che, di questi, 30 mila erano poi rientrati spontaneamente nei ranghi.
Unica fra le grandi potenze in lizza, l’Italia affrontò la guerra non all’improvviso, ma, scrive Mondini, «dopo quasi un anno di tentennamenti e trattative». Se gli altri europei «scivolarono» nel conflitto inconsapevolmente, i governanti italiani ci entrarono in piena coscienza, «il che non vuol dire che avessero pienamente compreso ciò che stava succedendo; i lunghi mesi di neutralità servirono poco per preparare il Paese e l’esercito, ma in compenso alimentarono uno scontro sull’opzione dell’intervento, la cui violenza non trova eguali nell’Europa del 1914». Nelle grandi città italiane, l’annuncio delle ostilità non fu una sorpresa. Quando il governo chiese ai propri prefetti di informarlo su quale sarebbe stata la reazione della popolazione di fronte all’intervento (ormai deciso) dell’Italia, si sentì rispondere che, dopo mesi di tentennamenti, annunci, smentite e voci, l’idea della guerra era «entrata nella pubblica coscienza»: pochi la volevano, ma tutti vivevano come se quella che già veniva chiamata «la Grande guerra» fosse inevitabile. Che la «si fosse a lungo temuta come il peggior incubo o attesa ansiosamente come una grande occasione», la guerra fu accolta, per usare le parole del giornalista Ugo Ojetti, «come la liberazione da una lunga febbre che non voleva finire».
Mondini definisce la Prima guerra mondiale per quel che riguarda l’Italia «un paradosso» contraddistinto da «bizzarre antinomie». Il nostro intervento nel conflitto europeo fu presentato come l’ultima campagna del Risorgimento, che avrebbe consentito finalmente a tutti gli italiani di far parte di un unico Stato nazionale. Ma «il governo che condusse il Paese in guerra aveva poco in comune con le idealità del nazionalismo romantico e democratico di Mazzini o con l’ispirata strategia politica di Cavour… Per combattere contro i propri ex alleati, il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, e il suo ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, pretesero la cessione del territorio di Bolzano, popolato da 250 mila austro-tedeschi, ma lasciarono al suo destino la città di Fiume, abitata da una popolazione di lingua e di cultura italiana».
Non dimentichiamo poi che il tradimento del patto — che ci legava dal 1882 all’Impero austroungarico e a quello tedesco — non fu indolore. Nemmeno ai tempi dell’iniziale dichiarazione di neutralità, dopo la quale l’addetto militare a Berlino, generale Luigi Calderari, si dimise «indignato della slealtà dimostrata dal proprio governo», mentre gli ambasciatori a Berlino e Vienna, Riccardo Bollati e Giuseppe Avarna, contrari ad abbandonare quelli che per 32 anni erano stati i nostri alleati, si opposero così veementemente ad un intervento a fianco dell’Intesa da essere ritenuti inaffidabili, e poi tenuti all’oscuro delle successive trattative avviate dal governo. E ancora. La guerra avrebbe dovuto essere la «prova del fuoco» per il carattere degli italiani, il momento in cui avrebbero dimostrato al mondo di essere una nazione coesa, forte e degna di sedere tra le grandi potenze. E invece «l’Italia entrò in guerra lacerata da profonde rivalità sociali e politiche contro il volere della maggioranza parlamentare e di gran parte della popolazione». Divisioni ideologiche più che radicali, che sopravvissero alla vittoria. Talché, afferma Mondini, si può dire che «l’ultimo colpo di cannone della guerra non fu sparato il 4 novembre 1918 contro gli austriaci, bensì il giorno di Natale del 1920, quando la Regia Marina bombardò la città di Fiume occupata dai legionari dannunziani, in un bizzarro (ma sanguinoso) strascico fratricida del conflitto».
Non è tutto. La guerra che esplose nell’agosto del 1914 ci colse impreparati. Il giorno dell’attentato di Sarajevo, l’esercito italiano contava poco meno di 300 mila uomini sotto le armi, tra ufficiali, sottufficiali e militari di truppa, più 40 mila nella Regia Marina. Il 24 maggio 1915, quando i primi reparti italiani varcarono il confine italo-austriaco, la forza dell’esercito operante, vale a dire il complesso delle unità combattenti effettivamente impegnate al fronte, toccava i 900 mila uomini. Quando la mobilitazione generale venne effettivamente compiuta, con molti giorni di ritardo rispetto alle previsioni, il Regno d’Italia schierava lungo tutto il confine, dal passo dello Stelvio al mare, circa un milione e centomila uomini, più altri 500 mila circa impegnati nei servizi e nei presìdi all’interno della penisola. L’esercito italiano, che il 24 maggio 1915 varcò la frontiera dell’Austria-Ungheria, era dipinto come la parte migliore del Paese, una comunità salda e disciplinata di cittadini in armi, guerrieri superbi devoti al re e ai propri comandanti. Peccato, fa notare Mondini, «che non avesse mai vinto una battaglia sul suolo europeo e che a Adua, nel 1896, fosse andato incontro alla peggiore sconfitta subita da un’armata bianca in Africa, uno scacco eclatante che, insieme alla disfatta di Custoza nel 1866, avrebbe lasciato agli italiani la perpetua fama di pessimi soldati». Il catastrofico andamento delle battaglie combattute dall’Unità d’Italia in avanti, culminate nel doppio tracollo per terra e per mare a Lissa e Custoza nel 1866, aveva per di più avuto «un’eco mediatica enorme», e il disastro di immagine era stato a malapena arginato dai successi personali di Giuseppe Garibaldi, «l’unico eroe combattente popolare e di successo di tutto il Risorgimento, ma anche una figura irregolare e politicamente marginale».
Gli stessi generali, rimarca Mondini, «non avevano fiducia nelle proprie truppe». Luigi Cadorna, capo di stato maggiore e comandante sul campo, era convinto «che la sua armata fosse formata perlopiù da contadini ottusi e operai traviati dalla predicazione socialista, che potevano essere tenuti in riga solo attraverso una disciplina ferrea corroborata da continue punizioni esemplari». Eppure, mette in rilievo l’autore, «quei fanti, alpini, bersaglieri, ritenuti inaffidabili e indisciplinati, si dissanguarono per tre anni in testardi assalti frontali sul peggiore dei fronti europei, tra le alte cime delle Dolomiti e il brullo e roccioso altipiano del Carso, sopportando perdite spaventose senza alcun segno di cedimento». Quando, nell’autunno del 1917, quegli uomini ripiegarono sotto i colpi di una brillante offensiva congiunta austro-tedesca, Cadorna seppe offrire come una spiegazione dell’accaduto la «vigliaccheria» di alcuni reparti e la «fantastica illazione» che altri, sobillati dalla propaganda sovversiva, avessero inscenato uno «sciopero militare». Eppure quegli stessi soldati, alcune settimane dopo il supposto «sciopero militare», seppero dare, sul Piave e sul Monte Grappa, prova di grande determinazione e coraggio. Proprio loro che per quasi due terzi (400 mila su 650 mila) avevano dovuto contare un numero di caduti nelle undici offensive dell’Isonzo davvero impressionante: «Un tasso di mortalità che non aveva nulla da invidiare ai peggiori settori del fronte occidentale».
Non è vero inoltre che da noi (checché ne abbia detto l’agiografia nazionalista postbellica) si sia avuta una mobilitazione giovanile pari a quella degli altri Paesi europei. E se ci fu, ad essa non corrispose poi un marcato impegno nei combattimenti. Il King’s College di Londra perse il 15 per cento dei propri studenti al fronte e oltre la metà degli studenti universitari berlinesi arruolatisi nel 1914 morì nel primo anno di guerra. Da noi la mortalità fra gli studenti fu pari al 6 per cento, «largamente inferiore a quella media del resto dei combattenti e lontanissima dalle vere e proprie stragi registrate nei ranghi degli studenti francesi, britannici o tedeschi». Certo, questo «risparmio di vite tra gli studenti» fu possibile perché molti universitari furono assorbiti nelle armi e nelle specialità più qualificate (e quindi meno esposte al fuoco nemico) dell’artiglieria, del genio e della sanità. E molti furono impiegati in posizioni ancora più sicure, nei comandi di retrovia e negli uffici. Pressoché tutti, o almeno quelli che sopravvissero ai primi mesi di combattimenti, prestarono servizio in qualità di ufficiali di complemento. Tra i 132 caduti dell’Università di Pisa (su 1.500 arruolati) cento erano ufficiali di fanteria e solo cinque morirono indossando la divisa da soldato o graduato di truppa. E «se in un grande ateneo come Padova, dalle cui aule erano usciti ufficiali di tutte le armi, i morti oscillavano mediamente attorno al dieci per cento degli arruolati, le scuole di specializzazione per ingegneri e i politecnici vantavano normalmente tassi di sopravvivenza molto maggiori (al Politecnico di Torino cadde meno di uno studente arruolato su venti)». Altro che giovani ardimentosi come negli altri grandi Paesi europei, di loro si cominciò presto a parlare come di «imboscati».
La fama di imboscati degli addetti all’artiglieria e al genio era così elevata «che i più spavaldi in cerca di gloria tentavano in ogni modo di farsi destinare alla fanteria o alle specialità più pericolose: Paolo Caccia Dominioni, studente al terzo anno di Ingegneria a Milano, nel timore che lo si accusasse di essere un vigliacco, chiese (senza successo) di essere assegnato all’artiglieria di montagna». Qualcuno si accorse che si trattava di una sorta di una strana psicosi a scatole cinesi. Scrisse Silvio D’Amico: «Pei richiamati sotto le armi sono imboscati i borghesi, gli artiglieri che sparano dicono imboscati a quelli che sono ai Comandi… in compenso le pattuglie di fanti che la notte escono oltre i reticolati in ricognizione dicono imboscati ai compagni rimasti in trincea». Il fatto è, osserva l’autore, che «fra coloro che vestivano l’uniforme, alcuni rischiavano la vita quotidianamente, altri solo talvolta, e una folta schiera di privilegiati praticamente mai».
Nell’estate del 1915 alcuni ufficiali guidarono i loro soldati a un qualche massacro (restò celebre l’assalto del colonnello Mario Riveri a forte Basson, dove furono persi 1.100 uomini su 2.800). Molti graduati furono uccisi in imprese come quella di forte Basson e dovettero essere rimpiazzati da ragazzi appena arruolati: gli ufficiali di complemento. Che sarebbero stati oggetto nel 1930 di una forte polemica tra Adolfo Omodeo, che li teneva in buona considerazione («quello di cui c’era bisogno nel nostro esercito», scrisse di loro), e Gioacchino Volpe, che li considerava invece «fatti contro voglia, snidati dagli uffici, ragazzi usciti appena dalla casa paterna, fabbricati in un mese».
È falso che l’uniforme, indossata da questi ragazzi che venivano dalla società civile ed erano stati trasformati in ufficiali di complemento, incutesse soggezione e rispetto. A differenza di quanto succedeva in Germania o in Francia, rileva l’autore, l’uniforme da noi non era affatto un segno di distinzione e chi sceglieva di divenire ufficiale di complemento era attratto normalmente dalla ferma più breve, dal servizio meno faticoso e dalle condizioni di vita migliori, non da una (inesistente) promozione sociale. Gli ufficiali di carriera «trattavano sprezzantemente gli allievi e con indifferenza i subalterni di prima nomina, ritenendo che “non valessero e non sapessero nulla del mestiere”, venendo ricambiati con aperta disistima dai “civili”, i quali non vedevano l’ora di riporre l’uniforme nell’armadio, non manifestavano nessun attaccamento al reggimento (solo un terzo di loro rispondeva ai periodici richiami per aggiornamento) e si guardavano bene dal fare domanda per raffermarsi». Come avrebbe ricordato il generale Emilio De Bono «noi ufficiali permanenti non li prendevamo sul serio e loro ufficiali di complemento se ne infischiavano». Per lui erano stati nient’altro che «ragazzini impacciati». «La vera piaga dell’esercito», secondo il colonnello Angelo Gatti, collaboratore allo stato maggiore di Cadorna, «figli di calzolai, di portinai, gente refrattaria ad ogni spirito di rifacimento morale»
La Prima guerra mondiale, secondo Mondini, è stata sempre ricordata in modo insoddisfacente (eccezion fatta per gli storici dotati di scrupolo). Fino agli anni Sessanta è stata raccontata, dai più, come «una sublime prova di concordia e di unità nazionale, durante la quale il popolo in armi era stato guidato alla vittoria da uomini politici integerrimi, generali autorevoli (sia pure con qualche scelta discutibile) e da una borghesia entusiasta che aveva affollato i ranghi degli ufficiali di complemento». Successivamente si è ecceduto in senso opposto. Dagli anni Settanta in poi, «con l’avvento di una nuova generazione di studiosi legati alla contestazione e ai movimenti di sinistra, i generali sono divenuti carnefici con velleità dittatoriali e i soldati vittime inermi, ansiose solo di sfuggire al combattimento, facendosi passare per pazzi o passando al nemico». Facendosi passare per pazzi? L’impazzimento non fu simulazione. O quantomeno non lo fu in moltissimi casi.
In uno straordinario libro appena pubblicato da Donzelli, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931) , Annacarla Valeriano ha ben ricostruito quel che provocò, a seguito di quell’immane conflitto, «l’orrore dei combattimenti e l’angoscia delle perdite». A partire da quel che annotò, nel suo diario di trincea, lo psichiatra veneto Marco Levi Bianchini, futuro direttore del manicomio della città abruzzese: «Tutti abbiamo la febbre nelle vene e l’angoscia nel cuore: solo lo spirito rimane freddo in mezzo agli ordigni che insidiano ed annientano». Parole dalle quali, secondo Valeriano, emergeva soprattutto «la pervasività della violenza a cui i fanti erano esposti e che avrebbe costituito una delle caratteristiche più peculiari del conflitto: una “brutalizzazione” dello scontro che non colpì soltanto coloro che combatterono in prima linea, ma si estese anche alle popolazioni civili, provocando ferite nel corpo e nell’anima… Le conseguenze psichiche della violenza si manifestarono sotto forme diverse: i nuovi stimoli derivanti dalla “guerra di luci e di scoppi terribili” furono infatti smaltiti dalla psiche dei soldati attraverso una serie di reazioni che continuarono a dispiegare per lungo tempo i loro effetti».
Nel 1923, in occasione del Congresso internazionale di medicina militare, il tenente colonnello medico Placido Consiglio tenne una relazione sulle psicosi e le nevrosi dei militari, in cui affermava che «l’effervescenza della lotta, la paura della morte, l’orgasmo terrificante dello scempio umano e l’azione logoratrice e depressiva della vita nelle trincee» avevano provocato un ottundimento del senso della vita e del pericolo in coloro che erano stati nelle zone di combattimento. In particolare, i contadini. Già nel 1930, Arrigo Serpieri fece rilevare in La guerra e le classi rurali italiane (Laterza), che tra il 1915 e il 1918, su 5.758.277 uomini arruolati, 2.618.234 (46 per cento del totale) erano lavoratori agricoli e la maggior parte prestavano servizio in fanteria, in un reparto cioè destinato a subire il 95 per cento delle perdite. In un altro importante libro, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare (Fratelli Treves Editori), lo psicologo e medico Agostino Gemelli notava nel 1917 come il protrarsi dei bombardamenti fosse in grado di determinare «una tale scossa in tutto il sistema nervoso, una tale inibizione di qualsiasi energia, una tale paralisi di tutta la vita psichica che il soldato è reso incapace di compiere anche il minimo sforzo, subisce qualsiasi cosa, non desidera altro che la fine di tale angoscia, e, rintanato in un cantuccio, nasconde il volto e attende la fine».
Assai particolare fu il caso dei contadini. «Nella retorica militarista, cui si aggiunsero poi le voci della classe psichiatrica», scrive Annacarla Valeriano, «l’atteggiamento di passività dei contadini soldati assunse sfumature ben diverse: la rassegnazione di questi uomini venne celebrata come virtù in grado di apportare un contributo decisivo alla causa nazionale». Nel già citato libro del 1917, Gemelli, tratteggiando la figura di un soldato ignaro delle ragioni per cui combatteva, individuava, nota ancora Valeriano, «nella spersonalizzazione della vita di trincea la caratteristica principale delle classi rurali», che fino a poco tempo prima avevano vissuto (parole di Gemelli) «la vita grama del loro lavoro dell’officina o dei campi», senza alcuna ambizione, ma che in guerra avevano dimostrato il loro adattamento cessando di essere individui e diventando parte di un tutto.
Complicato sarebbe stato, infine, il rapporto tra la Grande guerra e la letteratura. Ma soprattutto quello con il cinema. Nota Mondini che, anche quando nel 1931 il regime decise di soccorrere l’agonizzante cinema nazionale, finanziando le case di produzione, «il 1915-18 continuò a brillare per la sua assenza dallo schermo». Grazie al sostegno pubblico, alla realizzazione di grandiose infrastrutture come Cinecittà (inaugurata nel 1937) e infine anche a misure protezionistiche, il numero di film italiani distribuiti nelle sale crebbe vertiginosamente (18 nel 1932, 83 nel 1940). Ma di questi «solo una manciata» furono dedicati al conflitto del 15-18. Milizia territoriale di Mario Bonnard, Le scarpe al sole di Marco Elter (tutti e due del 1935), Cavalleria di Goffredo Alessandrini e Tredici uomini e un cannone di Giovacchino Forzano (entrambi del 1936) e infine Piccolo Alpino di Oreste Biancoli (1940) «furono tra i pochi tentativi del cinema fascistizzato di raccontare l’evento di fondazione della nuova Italia guerriera, a fronte di decine di produzioni storiche riservate ai grandi condottieri del passato (da Scipione a Giovanni dalle Bande Nere) e alle guerre di Mussolini». Questo a causa della «difficile gestione di un “mito di fondazione” che era stato tutto tranne che consensuale… i ricordi dell’intervento deciso contro la maggioranza del Paese, per non parlare del clima di violenza delle “radiose giornate”, sconsigliavano di indulgere su un capitolo di storia patria tutto sommato delicato».
Si dovette aspettare il 1959 con La Grande guerra di Mario Monicelli (scritto da Luciano Vincenzoni) perché si voltasse pagina nel modo di ricordare il 1915-18. Quel film, afferma Mondini, «finì per rappresentare uno spartiacque per l’immagine pubblica della guerra, tra chi l’aveva raccontata, pur con tutti i suoi orrori e le sue sofferenze, come la grande prova nonché la grande avventura e chi, figlio di una nuova generazione di intellettuali, metteva ora in scena un olocausto vissuto senza entusiasmo e a cui non era più vergognoso cercare di sopravvivere in ogni modo». Toccò dunque al cinema restituirci un’immagine veritiera di quel che era stata per noi l’unica guerra a cui abbiamo partecipato per uscirne da vincitori.

Repubblica 8.7.14
Facebook e gli altri
Il mercato delle emozioni
L’obiettivo è modificare i comportamenti di chi naviga, a vantaggio dei fatturati
E se qualcuno decide di utilizzare questi metodi anche in politica?
di Fabio Chiusi


L’ONDATA di indignazione levatasi contro Facebook per l’esperimento con cui avrebbe “manipolato le emozioni” - alterando per una settimana le bacheche e i news feed all’insaputa degli utenti per verificare se si possano influenzare gli umori attraverso un social network - di 700mila suoi iscritti rivela, più di ogni altra cosa, la scarsa dimestichezza del pubblico con i meccanismi utilizzati quotidianamente nel marketing e sì, anche dai colossi web. Perché quello recentemente pubblicato sulla rivista Pnas , la pietra dello scandalo, non è l’unico condotto da Facebook. E quella di Mark Zuckerberg non è certo l’unica azienda ad avvalersi della manipolazione emotiva, se ciò serve a migliorare l’esperienza d’uso degli iscritti.
«A Facebook conduciamo oltre mille esperimenti ogni giorno», scriveva il 3 aprile 2014 il data scientist Eytan Bakshy, con l’obiettivo di «ottimizzare risultati specifici», o per «informare decisioni sul design della piattaforma nel lungo periodo». Test che potevano, fino a pochi mesi fa, essere condotti in assenza di limiti o quasi, dice Andrew Ledvina, un ex collega, al Wall Street Journal: «Non c’è un processo di revisione. Chiunque in quel team può fare un test. Stanno continuamente cercando di modificare il comportamento delle persone». Google, nel 2012 e per bocca del responsabile del settore antispam Matt Cutts, ha ammesso di farne fino a 20 mila all’anno sui risultati di ricerca. Famoso l’esempio di Merissa Mayer che, prima di passare a Yahoo, nel 2009, fece testare 41 sfumature di blu per le pagine web di Google: cercava di capire a quale tonalità fosse associato un maggiore numero di click da parte degli utenti.
Sempre Google, scrive Business Insider , «testa milioni di inserzioni pubblicitarie ogni giorno », mutandone la composizione del messaggio, il posizionamento sulla pagina e le immagini associate. «Lo stesso fanno Amazon e dozzine di altre compagnie», tutto a nostra insaputa con l’obiettivo di migliorare i propri prodotti. Studi sui propri utenti e i loro dati sono condotti da Yahoo, Microsoft e Twitter. E, nota lo psicologo Tal Yarkoni, «tipicamente queste manipolazioni non vengono effettuate per studiare il “contagio emotivo”», come nel discusso caso di Facebook, «ma con il fine esplicito di aumentare il fatturato ». Per esempio, Taco Bell paga BuzzFeed per scrivere pubblicità in formato virale sulle proprie visitatissime pagine. Parte di quel denaro finisce anche nelle tasche di Facebook, ricorda Vox, per assicurarsi che quei contenuti finiscano sotto ai nostri occhi.
In altre parole, «visto che il punto stesso della pubblicità è creare una relazione emotiva tra noi e il prodotto, non è per nulla scorretto dire che Taco Bell paga Facebook per manipolare le nostre emozioni alterando il News Feed». Che poi è lo stesso che cerca di fare McDonald’s quando adotta come slogan «I’m lovin’it », o quando la Coca Cola lancia una vera e propria «campagna per la felicità». Il punto è che funziona: da un’analisi del britannico Institute of Practicioners in Advertising su 1400 campagne pubblicitarie di successo è emerso che quelle con contenuti puramente emotivi restituiscono tassi di soddisfazione doppi rispetto a quelli puramente “razionali”.
Cosa cambia dunque nel mercato delle emozioni digitali? I metodi, prima di tutto. Che possono avvalersi di campioni osservabili in tempo reale e con possibilità di intervento inedite finora. Non a caso Adam Kramer, tra gli autori dell’esperimento che ha fatto discutere il mondo, ha sostenuto di essere entrato a Facebook perché «costituisce il più ampio studio sul campo della storia». Per comprendere le emozioni online, spiega a Repubblica Luigi Curini, docente di scienza politica e autore del libro Social Media e Sentiment Analysis. L’evoluzione dei fenomeni sociali attraverso la Rete , si può fare ricorso a «dizionari ontologici che hanno già predefinito tutta una serie di parole connotate “positivamente” o “negativamente”». «Questa - prosegue - è una pratica assai comune, che ha l’indubbio vantaggio di essere completamente automatizzata. Il problema è che non si colgono i doppi sensi, l’humour, i giochi di parole».
Un’alternativa è codificare manualmente un sottoinsieme di post che parlano del tema che interessa ai ricercatori in senso positivo o negativo, e lasciare sia l’algoritmo a connotare i rimanenti nell’universo di riferimento, per estensione. Di “rivoluzionario”, suggerisce Curini, «c’è che sei in grado di controllare l’impatto del tuo esperimento in tempi ben più rapidi» rispetto per esempio alla proiezione ripetuta di una pubblicità durante la finale dei mondiali. «Insomma, il Sacro Graal dei pubblicitari». Con il risultato che spesso «siccome devi “inseguire” la Rete per essere davvero efficace, allora alla fine è la Rete che ti detterà il contenuto, e non viceversa». Di norma si utilizzano i cosiddetti «test A/B», in cui c’è un gruppo di controllo con le condizioni di partenza e uno sperimentale in cui viene introdotta la variabile che si vuole studiare. «Per esempio», spiega il social media strategist di BlogMeter, Vincenzo Cosenza, «se uso il colore giallo o quello rosso per il pulsante “compra” otterrò un numero maggiore di click? Si erogano entrambe le soluzioni a gruppi diversi di persone e si misurano i risultati. Quella più efficace verrà poi implementata stabilmente».
Il punto è che non tutte le applicazioni sono così innocue. Lo studio di Facebook sulle emozioni ha fatto discutere per le implicazioni etiche, sollevando giustamente la questione del rapporto tra il «consenso informato» richiesto dalla scienza - ma non dal marketing - per sperimentazioni su esseri umani e termini di utilizzo del social network, lunghi, tortuosi e poco trasparenti. Ma c’è molto altro. Grazie a Edward Snowden, infatti, sappiamo per certo che quei dati sono di estremo interesse per l’intelligence, che nel caso delle agenzie di sicurezza britanniche significa creare contenuti ad arte per distruggere la reputazione dei bersagli. Ed è la Difesa Usa a usare lo studio delle emozioni sui social per cercare di prevedere rivolte sociali, come avvenuto in Egitto nel 2011 o in Turchia nel 2013. Poi c’è la politica.
Già nel 2010 un semplice badge per dire agli amici su Facebook “ho votato” ha scosso dall’indolenza 340 mila individui che altrimenti non si sarebbero recati alle urne. Oggi è una prassi adottata per tutte le tornate elettorali, la più recente quella in India, dove è stato cliccato da 4,1 milioni di persone.
Ma lo scenario più inquietante è quello descritto da The New Republic : se Zuckerberg preferisse un candidato, potrebbe far comparire sul News Feed l’invito a votare solo per gli iscritti che sa - proprio per l’analisi emotiva - essere favorevoli al suo stesso candidato, e non per chi invece supporta l’avversario. Ipotizziamo che il risultato sia sufficiente da capovolgere l’esito elettorale: «la legge dovrebbe impedire un comportamento simile? ». Bella domanda. Al momento, ricorda Cosenza, «solo pochissimi studiano le emozioni in rete». Per il futuro, tuttavia, meglio attrezzarsi.

Repubblica 8.7.14
Felici di essere usati come topi nel grande reality della rete
di Elena Stancanelli


FACEBOOK sta alla vita come un peluche sta al tuo cane. Si somigliano, ma non sono la stessa cosa. Per esempio uno dei due è vivo. Il peluche non ti lecca, non ti salta addosso, non pretende che gli accarezzi la pancia; tutte cose che qualcuno può considerare un vantaggio. In effetti non ha bisogno di essere portato fuori, e se lo abbracci dentro il letto non spela. Ma la vera differenza tra un peluche e il tuo cane è che se torni a casa e trovi il tuo peluche sventrato, tipica rappresaglia tra fratelli come sa chi ha fratelli, ti arrabbi moltissimo. Ma non vai dalla polizia, non ti spaventi, non pensi che nella tua stanza è entrato un assassino, cosa che ti accadrebbe se tornando a casa, trovassi invece il tuo cane sventrato. La mia sensazione è che l’esperimento condotto dagli scagnozzi di Zuckerberg, manipolatorio immorale e anche un po’ schifoso, sia di fatto lo sventramento di un peluche. Fa arrabbiare, crea disagio ma non è proprio una cosa per cui correre al commissariato e denunciare il complotto internazionale. A meno che uno non sia Jonathan Franzen o qualcun altro dei neo-luddisti che ritengono la rete il luogo del male e quindi non vedono l’ora di scandalizzarsi per qualche nefandezza del web. Per loro stessa ammissione, gli scagnozzi di Zuckerberg agivano su quelle che chiamano «emozioni on-line».
Una particolare e nuovissima branca nella categoria “emozioni”, caratterizzata, tanto per cominciare, dalla virtualità. Anche se la categoria della virtualità a pensarci bene sarebbe applicabile a tutte le emozioni. Allora diciamo: le emozioni on-line sono più virtuali delle emozioni reali perché vivono nell’acquario della rete, in cattività, senza nessun contatto col mondo fuori. Nascono e muoiono in quel circuito paranoico che va dalla tastiera al web (dove possono però entrare in collisione con emozioni della stessa categoria) e di nuovo alla tastiera. Non interessano il corpo, tranne, come dicevamo la punta dei polpastrelli, e solo di striscio il cervello. L’unica spiegazione per la loro disperante inessenzialità è infatti che le emozioni online siano prodotte da una zona morta del cervello, forse una parte di quella enorme percentuale inespressa che incautamente rimpiangevamo di non utilizzare. Grotteschi simulacri, fantasmi delle già fantasmatiche emozioni reali, le emozioni on-line sono soprattutto scariche senza controllo, sfoghi, espulsioni di disorganico, all’indirizzo di quella categoria morale che Zuckerberg definisce “amici”.
Ovvio che questo non riguarda tutti gli utenti di Facebook, non tutti là dentro sventolano emozioni on-line. Ci sono quelli che lo usano per avere rassegne stampa mirate, o un fantastico megafono per idee destinate a cambiare il mondo, a trovare il rimedio per il cancro o per la carie. C’è gente che lo usa così, credo. Io non ne conosco, ma ci saranno. E se ci saranno, possono comunque stare tranquilli. Non è a loro che si rivolgono gli scagnozzi di Zuckerberg. Ma a tutti gli altri, quello che dentro Facebook si disinibiscono, si sentono liberi. Dicono cose che nella vita vera non direbbero mai, pubblicano selfie dal bagno degli alberghi, video di animali che si accoppiano con goffezza. Dragano la rete alla ricerca di immagini spiritose, vignette sulla suocera, la moglie, la lunghezza del proprio membro e poi li pubblicano sulla loro “bacheca”, aspettando che gli “amici” si uniscano alla festa con un commento spiritoso, o un semplice “like”.
Ecco: questo è, per la maggior parte del tempo Facebook. Un luogo dove gli utenti, anche solo per noia, saranno, credo, felici di essere manipolati, usati come topi per esperimenti, partecipanti di un gigantesco reality che ha per scopo vendere creme depilatorie o pillole contro la cellulite (almeno a me è questo che proponeva di continuo Zuckerberg quando avevo un account su Facebook). E se non proprio felici, di certo assai poco scandalizzati.

Il Sole 8.7.14
I dati Ads su diffusione e vendite a Maggio
Le copie digitali del Sole superano quelle cartacee
Andrea Biondi


Eppure a maggio qualcosa si è mosso. Una risalita che non ribalta l'avvicendarsi di mesi critici che, uno dopo l'altro, hanno spinto in basso vendite e diffusioni dei quotidiani italiani. I dati Ads relativi al mese di maggio permettono però quantomeno di parlare di una boccata d'ossigeno, seppur in un panorama che resta asfittico. Nel computo totale dei 64 quotidiani monitorati da Ads infatti, la diffusione complessiva (che considera i dati delle copie cartacee e di quelle digitali) ha sfiorato i 4,4 milioni in media al giorno. Le vendite si sono attestate a quota 4,13 milioni.
E così, rispetto ad aprile la crescita è stata del 3,7% nelle diffusioni e del 3,8% nelle vendite. La Pasqua, quest'anno ad aprile, ha senz'altro pesato sul dato del mese. Ma anche rispetto a marzo le diffusioni e le vendite rilevate a maggio hanno fatto segnare una risalita del 2%, per la quale vanno senz'altro ringraziate anche le elezioni europee.
Salti di gioia non sono tuttavia ammessi. Anche perché basta fare il paragone con vendite e diffusioni dei quotidiani a maggio di un anno fa e il confronto restituisce un -6% nelle vendite e -5% nelle diffusioni. La vera impennata in questi dodici mesi c'è stata invece nella più importante novità arrivata nel mondo dei quotidiani e legata alle copie digitali. Il cui peso sul totale delle diffusioni è balzato dal 6 al 12% in un anno. Ora le copie digitali in totale sono salite a 507.813; un anno fa erano 298.335. Insomma, numeri con margini di miglioramento, ma il «2.0» sta aiutando gli editori che hanno capito di aver trovato alleati di tutto rispetto in quei tablet e smartphone che hanno fatto breccia nei desiderata degli italiani (secondo gli ultimi dati assemblati da NetConsulting ci sono 6,1 milioni di tablet e 27 milioni di smartphone nel nostro Paese).
Certo, i numeri dovranno crescere per vedere qualche significativo impatto sui conti economici, anche perché per regolamento Ads, frutto di un accordo fra gli stessi editori, le copie digitali possono essere certificate con sconti fino al 70% rispetto al prezzo medio di copertina (50% se al prodotto digitale è abbinata la copia cartacea).
Sul versante delle copie digitali anche nel mese di maggio Il Sole 24 Ore si conferma il primo quotidiano in Italia con 184.088 copie «2.0» (abbonamenti compresi), cresciute dell'1,8% rispetto ad aprile e del 141,1% rispetto a maggio 2013. E in questo mese per la prima volta le copie digitali hanno superato le vendite cartacee (184.088 contro 180.999), sancendo un cambio di paradigma "storico". Il Corriere della Sera è sul secondo gradino del podio con 89.626 copie di media ogni giorno, ma in calo del 2,5 per cento. Il terzo player in classifica, la Repubblica, è rimasta stabile a quota 69.980 (+0,1%). Alle spalle dei tre battistrada c'è molta distanza rispetto agli altri quotidiani visto che La Stampa si ferma a quota 17.887 e la Gazzetta dello Sport a 16.460.
Andando a prendere in esame il dato complessivo di vendite e diffusioni cartacee e digitali, il quotidiano di via Solferino rimane il primo in Italia con 450.887 copie (+4% rispetto ad aprile). Repubblica è alle spalle del Corriere della Sera con 371.545 copie (-0,5% rispetto ad aprile) seguito a meno di 2.500 copie di distanza dal Sole 24 Ore (369.090 copie; +0,9%). Il terzetto di testa ha tuttavia avuto sorti differenti in questi dodici mesi. Il quotidiano del Gruppo 24 Ore ha infatti visto le sue copie salire del 22,6% nelle diffusioni e del 13,9% nelle vendite complessive (carta più digitale) rispetto a maggio 2013. In flessione invece sia il Corriere della Sera (-3,8% la diffusione e -4% le vendite) sia la Repubblica (-6,7% le diffusioni e -6,8% le vendite).
All'interno della top ten dei quotidiani italiani, a maggio la Gazzetta dello Sport (+5,8% la diffusione rispetto ad aprile) ha scalzato La Stampa (+2,7%) dalla quarta posizione per diffusione. Per entrambe le testate il confronto con l'anno precedente è però negativo (-1,6% La Stampa e -5% la Gazzetta dello Sport). Il Messaggero con 140.680 copie ha guadagnato qualcosina rispetto ad aprile in termini di diffusione complessiva cartacea più digitale (+0,7%) ma è in negativo nel confronto annuo (-3,3%). Maggio è stato invece particolarmente negativo per Avvenire (-4,2% su aprile). Il quotidiano della Cei è così stato scavalcato in classifica da Qn Il Resto del Carlino (126.614 copie) che ha guadagnato il 4,6% rispetto ad aprile (perdendo però il 2,1% su base annua). A maggio bene anche il Corriere dello Sport (+6,8%) e Il Giornale (+5,2%), anche se nel confronto con l'anno precedente si trovano entrambi in negativo: rispettivamente -9,5% e -14,3 per cento.

Repubblica 8.7.14
Repubblica prima in edicola e nelle copie digitali singole


ROMA. Primo quotidiano per vendita in edicola anche nel mese di maggio: La Repubblica mantiene il suo primato nella vendita di copie cartacee raggiungendo quota 260.770 contro le 254.284 del Corriere della Sera. Una leadership che si conferma anche nella vendita digitale di copie singole, dove il quotidiano diretto da Ezio Mauro ha toccato le 63.823 copie medie contro le 59.543 del “Corriere”. Il primato coinvolge anche i settimanali femminili: “D la Repubblica delle Donne” si conferma per il terzo mese consecutivo in testa al settore con 271.589 (61.443 nel digitale) copie medie vendute contro le 270.140 (60.212)di “Io donna”. Lo certificano gli ultimi dati dell’indagine Ads (Accertamento diffusione stampa) che assegnano il terzo posto nella graduatoria dei quotidiani a diffusione nazionale a La Stampa (170.212) seguita da il Messaggero ( 118.239). Fra i settimanali il Venerdì , abbinato alla Repubblica, ha realizzato a maggio vendite medie per 351.822 copie, cui vanno ad aggiungersi le 60.136 della versione digitale. Restando all’interno del gruppo editoriale, la diffusione totale (cartaceo più digitale) del settimanale L’Espresso ha toccato la quota media delle vendite di maggio a 204.780 copie.