mercoledì 9 luglio 2014

l’Unità 9.7.14
Ai lettori
Il Cdr


Quella di ieri è stata per noi, lavoratori de l’Unità, la giornata dell’orgoglio. Il giorno in cui ci siamo ritrovati nella sede del nostro e vostro giornale, in tanti, con il sostegno di donne e uomini che hanno fatto la storia della nostra comunità, forti delle centinaia di messaggi di sostegno venuti dal mondo della politica, del lavoro, della cultura. Non siamo soli in questa battaglia di libertà. Sappiamo che il tempo ci è nemico. Siamo consapevoli che le parole, pur importanti, di solidarietà non salvano da sole il giornale. C’è bisogno di atti concreti che giungano, subito, ai liquidatori. Abbiamo ancora venti giorni di tempo. Non devono andare sprecati. Noi non lo permetteremo.

l’Unità 9.7.14
Salviamo l’Unità
L’appello dei lavoratori per tenere in vita la testata
Un incontro pubblico in redazione con gli altri media, un videomessaggio per Renzi
«A fine luglio rischiamo di chiudere».
di Daniela Amenta


Siamo più o meno allo stesso punto di 14annifa,ancheallora era luglio quando l’Unità cessò le pubblicazioni. Oggi rischiamo il fallimento e la chiusura della testata. Da metà giugno la nostra società, la Nie, a è stata messa in liquidazione. Il quadro è drammatico, la cassa vuota. Questo giornale esce grazie all’impegno, alla perseveranza e alla schiena dritta di noi lavoratori che senza stipendio da tre mesi siamo qui ogni giorno a tenere fede a un impegno, a non vanificare un progetto ». Così il Cdr dell’Unità che ieri in un incontro pubblico nella redazione di via Ostiense a Roma ha raccontato quanto sta accadendo al nostro quotidiano.
Solo lo scorso febbraio - sembra un secolo - noi giornalisti e poligrafici abbiamo organizzato la festa per i 90 anni del giornale fondato da Antonio Gramsci. È stata un’iniziativa forte e bella: ripercorrere con i lettori una storia che viene da lontano e che vorrebbe andare lontano. E invece entro fine luglio se non arriveranno «offerte solide, credibili» l’Unità rischia di morire. Rischia di dissolversi un’idea concreta di informazione, la nostra casa, la «piccola patria » dietro la quale noi tutti, qui dentro, abbiamo scelto di stare. Un giornale che è orgoglio di appartenenza. «Questa è l’ultima puntata di una serie di scelte scellerate, dalla decisione di non distribuire più il giornale in Sardegna, Sicilia e Calabria, alla chiusura la scorsa estate delle redazioni locali di Firenze e Bologna. Da anni - ha continuato il Cdr - non c’è un investimento per rafforzare questo giornale. Abbiamo accettato stati di crisi, cassaintegrazioni, solidarietà, espulsioni. I nostri collaboratori continuano a lavorare accanto a noi e molti di loro non prendono quanto dovuto da oltre un anno. Abbiamo fatto molto di più che la nostra parte per tenere in vita e dare impulso a una testata generalista che per sua vocazione parla a tutta la sinistra e al mondo del lavoro. Una testata che non è solo storia, ma anche innovazione, impegno nel digitale, tra i primi quotidiani d’Italia a dialogare con i lettori attraverso i social network, ad avere una grandissima comunità on line. E nonostante questo, l’azienda ha solo gestito il debito fino ad arrivare a oggi, a un passo dal baratro».
C’è amarezza in redazione. Rabbia e dolore. Ma non siamo soli. Arrivano i vecchi colleghi di sempre, arrivano i giornalisti delle tv e della carta stampata, c’è Radio Radicale che trasmette in streaming la nostra conferenza. Bianca Di Giovanni del Cdr ringrazia la Cgil, lo Spi Cgil, la Fiom e la Fillea per l’appoggio e il sostegno. Arrivano i messaggi della politica: dal Pd Verini, Fassina, Speranza, Nicodemo, Zampa, il ministro Andrea Orlando. In serata la nota del Tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi: «Siamo rimasti toccati dall'appello dei lavoratori dell’Unità e non rimaniamo indifferenti di fronte alla situazione esistente. Il Pd intende continuare ad impegnarsi con forza al fine di individuare un percorso condiviso da tutti che consenta di superare la fase attuale e di giungere ad una soluzione positiva della vicenda. L’Unità è un patrimonio che non vogliamo vada disperso».
Grazie allora. A tutti quelli che stanno con noi: agli scrittori che sono venuti a trovarci (Sebaste, Ventroni, Nucci, Manzini, De Gennaro), grazie a Staino, grande Sergio, che ogni giorno ribadisce il proprio legame con l’Unità con le sue vignette dolci e amare. E poi le telefonate, i comunicati. Come quello della presidente dell’Arci: «Quando parliamo dell’Unità parliamo di noi». Arriva il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino. «La crisi che 14 anni investì il vostro giornale fu affrontata e risolta grazie alla compattezza della redazione e del sindacato. Auguriamoci anche questa volta la stessa unità di intenti». Prende la parola Paolo Butturini, segretario di Stampa romana: «La vertenza dell’Unità è un caso nazionale e così deve essere affrontata».
«Da mesi si rincorrono dichiarazioni pubbliche di impegno e attenzione alle vicende che coinvolgono il giornale fondato da Antonio Gramsci. È arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Chi volesse aspettare il fallimento, per agire magari un minuto dopo, sappia fin da ora che a quel punto non si salverebbe l’Unità ma solo una scatola vuota. Sarebbe una sconfitta per tutti», continua Umberto De Giovannangeli del Cdr. Che aggiunge «Con un minimo di impegno industriale questa testata potrebbe ripartire, recuperare terreno, riprendersi la voce autorevole che ha sempre avuto. Lo dimostrano i numeri dei nostri speciali realizzati per i 90 anni del giornale. Migliaia di copie vendute nonostante una distribuzione infima. E i ragazzi che ci hanno ringraziato per il modo in cui abbiamo raccontato la nostra storia, la satira, Berlinguer a trent’anni dalla morte». Questo siamo, questo vorremmo continuare a essere con l’Unità in tasca e accanto un imprenditore «intelligentemente serio». E intanto da ieri, sul nostro sito ma anche su altre testate c’è il video-appello di noi lavoratori al premier Matteo Renzi. Il documentario, realizzato da Klaus Davi, ha una versione breve e una più articolata di 16minuti circa. Si parte con l'immagine forte dell'art director Loredana Toppi, incinta all'ottavo mese di gravidanza, che dice: «Matteo ad agosto nasce mia figlia, cosa le aspetta…» e invita i due «Matteo», l'editore Fago e Renzi, a incontrarsi per scongiurare la chiusura del quotidiano.
Significativo l'appello del grafico Umberto Verdat: «La situazione è drammatica, abbiamo un mese di vita. È come un condannato nel braccio della morte, fai qualcosa per noi». Molto toccante la testimonianza di Roberto Corvesi, poligrafico, visibilmente commosso, che dice: «L' Unità noi la consideriamo una famiglia. Matteo credi in noi». E poi Marcella Ciarnelli, Claudia Fusani, Francesco Sangermano, Cesare Buquicchio, Cecilia Ferretti, Natalia Lombardo, Massimo Solani, Roberto Monteforte, Stefania Scateni. L'appello è la prima azione per sensibilizzare i vertici del Partito Democratico ma anche le istituzioni sulla nostra sorte. Chiude il video Luca Landò direttore del giornale che è certo: «L' Unità non è un giornale come gli altri perché dà informazione e passione».
E al termine di una giornata complessa, arriva la notizia dadaista, rilanciata da Dagospia, di un interesse di Daniela Santanché per rilevare il giornale. Replica del Cdr: si tratta di un'ipotesi che non avrà alcun futuro. Da quanto ci dicono i liquidatori, i professori Pace e D’Innella, la sola idea che questa testata possa andare a finire nelle mani di una esponente di Forza Italia è incompatibile con la storia dell’Unità e quindi con la sua valorizzazione.

La Stampa 9.7.14
La Santanché punta all’Unità ma i liquidatori non vogliono
Bocciata la proposta fatta dalla sua concessionaria di pubblicità
di Flavia Amabile

qui
 

Repubblica 9.7.14
Il CdR boccia la proposta Santaché
L’Unità in crisi, videoappello dei giornalisti Il tesoriere del Pd: non siamo indifferenti


ROMA. Un piano editoriale «serio e credibile» per salvare l’Unità, a cui resta solo un mese di vita. Lo chiedono i giornalisti del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. «Bisogna intervenire entro luglio - hanno detto ieri in una conferenza stampa in redazione Bianca De Giovanni e Umberto De Giovannangeli, componenti del cdr - . Renzi ha detto che per lui l’Unità è molto importante. Abbiamo letto delle intenzioni di alcuni imprenditori di intervenire, come il nostro primo azionista Matteo Fago. È ora di passare ai fatti».
Respinta l’ipotesi che sia Daniela Santanché, deputata di Fi, a rilevare la testata. L’offerta ci sarebbe stata ma è ritenuta «incompatibile con la storia del giornale». Sul sito, intanto, alcuni giornalisti inviano video-appelli a Renzi. La situazione, sottolinea De Giovanni, «è allo sfacelo, l’ultimo stipendio è stato pagato ad aprile e molti collaboratori non vengono pagati da oltre un anno». «Ci è stato detto che l’Unità potrebbe avere parità di bilancio vendendo 26mila copie al giorno e noi con gli inserti di questi mesi ne abbiamo vendute il triplo». Dal Pd viene assicurato «l’impegno per giungere a una soluzione positiva». «Siamo stati toccati dall’appello dei lavoratori - dice il tesoriere Francesco Bonifazi - e non restiamo indifferenti: l’Unità è un patrimonio che non va disperso».

Corriere 9.7.14
L’Unità in crisi: no a un salvataggio della Santanchè


ROMA — Un video corale per scongiurare il fallimento. I giornalisti dell’Unità , che rischia di chiudere entro luglio «se non arriverà un’offerta solida», hanno lanciato un appello al premier Matteo Renzi perché salvi in extremis lo storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci. E ci hanno messo la faccia, con un «corto» realizzato da Klaus Davi e pubblicato sul sito online del giornale e sui social network, da cui peraltro sono arrivate molte critiche e ironie. La clip si apre con l’art director Loredana Toppi, incinta all’ottavo mese, e si chiude con il direttore Luca Landò che dice: «L’Unità è un pezzo di storia dell’Italia, non è un giornale come gli altri perché dà informazione e passione». A salvarli potrebbe essere Daniela Santanchè, che avrebbe presentato un’offerta. Il comitato di redazione non l’ha presa bene. «Si tratta di un’ipotesi che non avrà alcun futuro, la sola idea che questa testata possa finire nelle mani di una esponente di Forza Italia è incompatibile con la storia del giornale». L’interessata risponde: «Non parlo. Parleranno i fatti». Aria di crisi anche per Europa , quotidiano del Pd. Temono di chiudere entro settembre.

il Fatto 9.7.14
L’Unità fra un mese fallisce
“Renzi, adesso salvaci tu”
Appello al premier e all’editore Fago: a rischio 57 giornalisti e 15 poligrafici
Tra debiti e perdite il passivo supera i 30 milioni. E spunto la Santaché
di Alessio Schiesari


La crisi aziendale si è trasformata in un conto alla rovescia: “Se entro fine mese non arriva un’offerta seria per rilevare il giornale, i liquidatori rimetteranno il mandato e l’Unità fallirà”. La notizia – già circolata nelle scorse settimane – è stata confermata ieri da Bianca Di Giovanni e dagli altri membri del comitato di redazione del quotidiano. La sede romana ha aperto le porte agli altri giornali, ai simpatizzanti, agli amici. È l’ennesimo tentativo di attirare l’attenzione su una situazione che appare compromessa. In questi mesi ne sono stati fatti tanti: lo sciopero delle firme (durato due mesi), cinque giornate di sciopero vero e proprio, l’hashtag (#iostoconlunita) e, ieri mattina, anche un appello video rivolto “ai due Mattei –, come spiegato in apertura dall’art director Loredana Toppi, – l’editore Fago e il premier Renzi”.
A pochi mesi dal novantesimo compleanno del giornale fondato da Antonio Gramsci, cinquantasette giornalisti e 15 poligrafici rischiano di perdere il posto di lavoro. I conti del giornale sono in rosso profondo: gli ultimi dati ufficiali risalgono al 2012, quando tra perdite e debiti il passivo era di 30 milioni di euro. E il buco, una volta che sarà approvato il bilancio del 2013, dovrebbe aggravarsi. C’è chi prova a tirare fuori numeri confortanti: “A 26 mila copie raggiungiamo la parità di bilancio. Grazie agli inserti, negli ultimi mesi, siamo riusciti ad attestarci a quota 23 mila”. Il debito accumulato però pesa come un macigno sul futuro.
LO SCENARIO attuale ricorda quanto accaduto quattordici anni fa, quando un’altra grande crisi investì l’Unità (anche allora il partito di riferimento, i Ds, erano al governo). “Stessa situazione drammatica e stesso mese, luglio”, spiega Di Giovanni. Allora la crisi, che comportò lo stop alle pubblicazioni per cinque mesi, si risolse a gennaio, quando il quotidiano tornò in edicola con una buona risposta dei lettori. Ma ora “le casse sono quasi vuote”. Gli sforzi fatti per rimettere in piedi il giornale sono stati affossati da una gestione che il cdr definisce “scellerata”: la penuria di investimenti, lo stop alla distribuzione nelle isole e in Calabria e una gestione opaca della crisi (“Abbiamo appreso dei cambi di proprietà dagli altri giornali”). Sul banco degli imputati, più degli attuali proprietari, c’è Renato Soru, dal 2008 azionista quasi unico. L’Unità doveva essere il trampolino da cui spiccare il volo verso la segreteria nazionale, invece un anno dopo perse le elezioni Regionali in Sardegna e la sua carriera politica ad alto livello – e conseguentemente il suo interesse per l’editoria – finì lì.
IL RISCHIO è che, quando e se qualcuno si farà avanti per rilevare i resti del giornale, lo faccia solo per acquisire il brand, e sfrutti l’eventuale fallimento per alleggerire oltremodo la redazione: “Sarebbe uno speculatore, non un salvatore”, attacca il cdr.
Già, il brand. Venti giorni fa, Renzi ha deciso di tornare all’antico: gli appuntamenti estivi del Pd tornano a chiamarsi Feste dell’Unità. “Un paradosso, se prima farà la festa all’Unità”, è il commento dei giornalisti. E proprio il premier, assieme a tutto il Partito democratico, è stato il vero convitato di pietra dell’incontro di ieri mattina. Erano stati invitati in tanti, a partire dal sottosegretario all’editoria Luca Lotti. Non si è presentato nessuno “a causa di un voto in Parlamento”, era la giustificazione un po’ imbarazzata che circolava tra i redattori. In un giorno così importante dal partito sono arrivati solo sms. In tanti hanno ringraziato Renzi per “le belle parole”, un modo per sottolineare che non stanno seguendo impegni concreti. Una speranza si è riaccesa nel pomeriggio, quando è intervenuto il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi: “Non rimaniamo indifferenti. Il Pd intende continuare ad impegnarsi con forza al fine di individuare un percorso condiviso da tutti che consenta di giungere ad una soluzione positiva”. Un impegno un po’ vago, cui però il cdr del giornale prova ad aggrapparsi: “Speriamo queste parole siano il preludio alla ricerca di un imprenditore vicino al Partito democratico”. Tutt’altra reazione è stata riservata alla notizia dell’interessamento all’acquisto della testata di Daniela Santanché. “È vero, un contatto c’è stato”, ammette il cdr, che però in un nota rimanda al mittente l’offerta: “Si tratta di un’ipotesi che non avrà alcun futuro. La sola idea che questa testata possa andare a finire nelle mani di una esponente di Forza Italia è incompatibile con la storia del giornale e quindi con la sua valorizzazione”. Al telefono, un membro del cdr rincara la dose: “Santanché sta solo cercando un modo per farsi pubblicità. Abbiamo risposto in tre righe, perché questa roba di più non merita”.
C’è anche chi punta il dito contro “il partner politico principale”, cioé il Pd. Beppe Sebaste, firma storica del giornale denuncia “i veri affossatori del giornale, quelli che dalla direzione di Furio Colombo in poi hanno fatto stalking politico” al giornale. Cioè gli stessi che, ieri mattina, non si sono fatti vedere.

Formiche.net 9.7.14
L’Unità aspetta editore intelligentemente serio non la Santanché
di Carlo Patrignani

qui

Blitz quotidiano 9.7.14
Daniela Santanchè vuole comprare l’Unità. Ma Cdr stoppa: “Ipotesi senza futuro”
qui segnalazione di Francesco Maiorano

qui

l’Unità 9.7.14
Rapporto Diritti globali
«Dopo la crisi, la crisi» Cgil e associazioni: catastrofe globale».
Consumi e pensioni, la ripresa non si vede
di Massimo Franchi


Di ripresa nemmeno a parlarne. Istat e Inps nello stesso giorno certificano nuovi picchi negativi della crisi e della povertà in Italia. Se la presentazione del bilancio sociale dell’ente pensionistico dà sempre il quadro della spesa sociale del nostro Paese, gli ultimi dati sui consumi confermano un calo ormai decennale: la spesa media mensile per famiglia è scesa del 2,5% calando a 2.359 euro, a fronte di un'inflazione all'1,2%. I livelli di spesa sono inferiori a quelli del 2004 pari a 2.381 euro: si torna così indietro di 10 anni.
Le cose non vanno meglio sul fronte delle pensioni e degli ammortizzatori sociali. L’Inps mette in pagamento ogni mese trattamenti pensionistici pari a oltre 21 milioni di assegni a favore di circa 15,8 milioni di cittadini. Le prestazioni pensionistiche sono oltre 17,3 milioni pari all'83%, quelle assistenziali 3,7 milioni (pari al 17%). Nel 2013, dei 14,3 milioni di pensionati Inps (cifra al netto dei beneficiari di pensioni assistenziali), Il 43% dei pensionati italiani, pari a 6,8 milioni, riceve meno di 1.000 euro lordi, ben 5 milioni hanno percepito una rendita media di 702 euro lordi mensili ed altri 1,2 milioni di soli 294 euro. I beneficiari di trattamenti connessi alla perdita del lavoro e alla disoccupazione nel 2013 sono stati quasi 1,5 milioni e le aziende che hanno chiuso tra il 2012 e il 2013 è stato di oltre 54 mila unità. Nel 2013 le ore autorizzate di cassa integrazione sono state 1.182,3 milioni, pari a +5,6% rispetto al 2012.
Nella relazione del commissario straordinario dell’Inps Vittorio Conti c’è stata un’importante apertura sull’idea di un sistema pensionistico più flessibile: «Tra le precondizioni per un sistema ordinato e sinergico va segnalata la necessità che l'architettura di riferimento del sistema previdenziale pubblico sia più flessibile, con riferimento a tempi e modi di uscita dal mercato del lavoro, ma stabile nel tempo, almeno dal momento in cui il lavoratore è nelle condizioni di poter avviare la pianificazione del proprio futuro». La flessibilità permetterebbe di affrontare il vero nodo: le pensioni dei lavoratori discontinui e giovani. Anche perché sottolinea Conti «nel lungo periodo, la nuova architettura previdenziale libererà ingenti risorse da utilizzare all'interno del sistema di welfare».
La spesa lorda complessiva, comprensiva delle indennità di accompagnamento agli invalidi civili, per il 2013 è stata pari a circa 266 miliardi di euro, con un incremento del 2,1%% (+4,5 miliardi) rispetto a 261,5 miliardi dell'anno precedente (dati di preconsutivo).
Quanto alla solidità dell’Inps, anche il 2013 si è chiuso con un “rosso” pauroso ma come l’anno scorso legato in buona parte all’incorporazione dell’Inpdap, l’ente pensionistico dei lavoratori pubblici. La gestione finanziaria di competenza evidenzia un saldo negativo di 9,9 miliardi di euro. Dalla relazione annuale dell'istituto emerge che il flusso finanziario complessivo annuo nel 2013 è risultato pari a 803,5 miliardi di euro (somma tra entrate pari a 396,8 miliardi e uscite pari a 406,7 miliardi), valore che supera la metà del Pil italiano. La situazione patrimoniale alla fine dell'esercizio 2013 rileva (dato di preconsuntivo) un patrimonio netto di 7,5 miliardi di euro. Tale valore precisa l’Inps nella relazione migliora nettamente se si tiene conto della legge di stabilità 2014, la quale prevede che le anticipazioni di bilancio negli esercizi pregressi al 2012, per il pagamento delle prestazioni ai dipendenti dell'amministrazione pubblica, si intendano effettuate a titolo definitivo. L'effetto di questa disposizione normativa comporta un miglioramento del patrimonio netto dell'Istituto pari a 21,7 miliardi di euro, portando il patrimonio netto a 29,2 miliardi di euro complessivi.
«ARRIVA LA BUSTA ARANCIONE»
Il rapporto annuale dell’Inps è una «fotografia, un'analisi rigorosa» dei conti dell' istituto, uno «strumento importante e una sollecitazione che il Governo non lascerà cadere», ha sottolineato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, intervenendo alla presentazione del rapporto dell'Inps. «Fotografa la realtà del Paese ha detto un quadro che ci porta a riflettere e a valutare le scelte che vanno compiute». Secondo Poletti, dal rapporto emerge un «dato positivo: la rassicurazione che i dati strutturali della previdenza da un lato, dell’Inps dall'altro, vanno nella direzione di un positivo consolidamento».
La novità per tutti gli italiani riguarda la famosa «busta arancione», il progetto che prevede di inviare a casa dei contribuenti il calcolo aggiornato dei contributi versati e dell’assegno pensionistico che si andrebbe a percepire: «Entro fine anno partirà la sperimentazione», ha annunciato Poletti.

La Stampa 9.7.14
I consumi tornano indietro di 10 anni
La spesa media delle famiglie a 2.359 euro
Il 65% taglia sulla qualità del cibo, scende l’acquisto di carne
Operai e coppie con due figli i più colpiti dalla crisi
Bankitalia: a maggio in calo i prestiti bancari, continua il boom delle sofferenze
Per l’elettricità consumi ai livelli del 2003 e tariffe al minimo storico

qui

l’Unità 9.7.14
Renzi: «Farò le riforme non cedo ai signor no»
Il premier è convinto di incassare il risultato:
«Non lascio il Paese a chi sa soltanto disfare i progetti altrui. Il nuovo Senato per l’Italia è una rivoluzione»
di Maria Zegarelli


«Noi le riforme le facciamo, è giusto farle perché l’Italia torni a essere leader. Piaccia o no a chi vuole frenarci, il risultato a casa sulla riforma costituzionale, sulla legge elettorale, sul lavoro, sulla semplificazione della burocrazia, sulla giustizia, noi lo portiamo. Per voi magari è normale, per un politico italiano è una rivoluzione ». Il presidente del Consiglio Matteo Renzi parlando al Digital Venice, a Venezia, mette in fila le riforme che è deciso a portare a termine e la prima dell’elenco è proprio quella sulla quale in queste ore la commissione Affari costituzionali sta arrivando alla stretta finale.
Nessun rallentamento, nessun tentennamento dice il premier pur sapendo che la fronda bipartisan a Palazzo Madama è decisa a dare battaglia. Silvio Berlusconi chiama i suoi dissidenti uno per uno, nel Pd si fanno i conti e le previsioni dicono che neanche ai 14 «ufficiali» si arriverà alla fin fine, quando si tratterà di votare in Aula, ma nessuno è davvero tranquillo. Renzi dice che il governo andrà avanti «perché vogliamo troppo bene al paese per lasciarlo a chi dice solo no e disfa i progetti altrui» e ora che anche dal M5s arrivano segnali concreti di volersi sedere al tavolo, dopo quei dieci sì dei pentastellati che sconfessano Beppe Grillo, dal Nazareno è Lorenzo Guerini a dire che la prossima settimana si farà il secondo incontro. DalM5ssostengono che adesso è Renzi a non avere più alibi, ma da Palazzo Chigi osservano con soddisfazione che «sono scesi dai tetti» e il blocco granitico di qualche tempo fa adesso è diventato una foto piuttosto composita, una porta che si è aperta con il fronte più dialogante che ha costretto il leader genovese a fare ben più di un passo indietro. Nessuno si illude sul percorso, i «sì» a cinquestelle non sono affatto lisci come l’olio, anche da lì arrivano paletti, ma sul punto Guerini non lascia zone d’ombra: «Bene al confronto ma ogni modifica alle riforme va condivisa da tutti i contraenti originari del Patto», vale a dire Pd e Fi. Roberto Giachetti che con ilM5s ha sempre avuto un filo di collegamento avverte: meglio che la delegazione pentastellata arrivi all’incontro previsto per la prossima settimana con una piena legittimazione, della rete s’intende, altrimenti «a nome di chi parlano Di Maio e Toninelli? Avanzano un’ipotesi personale, per quanto autorevole, o cosa? ».
Fare le riforme per Renzi significa non soltanto sboccare il Paese: si tratta del ruolo leader che l’Italia può assumere e non soltanto durante il semestre europeo, ben oltre questo lasso di tempo, che di fatto si riduce a poco meno di quattro mesi al netto della pausa agostana di Bruxelles e dell’ultima seduta Ue prevista a metà dicembre. «L’Italia deve smetterla di piangersi addosso e nei prossimi mille giorni l’Italia deve cambiare faccia e interfaccia», insiste il premier. Poi, nel tardo pomeriggio cinguetta via Twitter: «Al lavoro su terzo settore, ILVA, semplificazione amministrativa, mille giorni #palazzochigi #lavoltabuona».
Ma la linea dura annunciata provoca ironie e malumori nel suo partito. La bersaniana Chiara Geloni, ex direttore di Youdem, twitta dapprima un «Lo so che in un partito la maggioranza decide. Il fatto è che di solito non vince dicendo "alla faccia vostra rosiconi che volevate sabotare"» e poi un lapidario «I numeri ci sono e la riforma passerà alla faccia di chi non è d’accordo". La morte della politica ». Anche Corradino Mineo attacca sentendosi chiamato in causa. «Io sono fuori dalla Commissione Affari Costituzionali dal 6 maggio scorso. Renzi, invece di dare del frenatore a me, dovrebbe dirci chi ha frenato negli ultimi due mesi la riforma del Senato - dice l’ex direttore diRainews24 -.È stato quello che Scalfari chiama il cerchio magico, ma anche la maggioranza del Pd, che ieri sosteneva di aver piegato Maria Elena Boschi e di aver cambiato profondamente il testo arrivato in aula».
Al Nazareno nessuno parla ufficialmente ma sono in molti a ricordare che proprio quelli che oggi chiedono l’elettività del Senato e le preferenze nella legge elettorale, o le primarie obbligatorie per i partiti, sono gli stessi che durante la segreteria di Pier Luigi Bersani sono stati candidati in posti blindati e senza passare per i gazebo. Roberto Speranza, capogruppo alla Camera, di Area riformista, proprio dalle pagine de l’Unità dice che va bene discutere, ma poi alla fine un grande partito deve decidere.

La Stampa 9.7.14
Messaggio di Renzi ai dissidenti: “Non ci fermerete”
Oggi il test sul Senato elettivo, poi il voto in Aula
di Francesca Schianchi


«Noi le riforme le facciamo, è giusto farle perché l’Italia torni a essere leader. Piaccia o no a chi vuole frenarci, il risultato a casa lo portiamo». Mentre a Roma, al Senato, la commissione Affari Costituzionali torna a riunirsi per lavorare alla riforma di Palazzo Madama e cercare di portare il testo in Aula domani, a qualche centinaio di chilometri, da Venezia dov’è impegnato in un convegno su digitale e innovazione, il premier Matteo Renzi garantisce che si va avanti, le riforme si fanno, «l’Italia la cambiamo davvero perché vogliamo troppo bene a questo Paese per lasciarlo in mano a quelli che sanno dire solo no e passano il loro tempo a disfare i progetti altrui». Un messaggio a quelli che considera «frenatori» di tutti i colori: a cominciare dai dissidenti di Pd e Forza Italia contrari al Senato non elettivo (a frenare è «il cerchio magico» di Renzi, risponde il dem Corradino Mineo, mentre il collega Felice Casson avverte che «sui numeri è ancora tutto da vedere»). Un messaggio forse anche al Movimento Cinque Stelle, con cui lunedì è salita la tensione, dopo l’incontro saltato e un durissimo post di Grillo.
Però, alla fine, arrivate le risposte dei pentastellati alle dieci domande del Pd, la trattativa sulla legge elettorale può andare avanti: «Manderemo una lettera, punto per punto, poi faremo un incontro la settimana prossima», dichiara il vicesegretario democratico Lorenzo Guerini, che, però, ricorda come l’appuntamento si muoverà «nell’ambito del patto del Nazareno». Cioè sempre a partire dall’Italicum messo a punto con Forza Italia. Nel M5S aspettano, «ora che abbiamo fatto il compitino - commenta pungente Toninelli - aspettiamo la loro lettera e poi ci sediamo al tavolo». La palla, insistono, ora è nel campo del Pd: «Battano un colpo, non ci sono più alibi», invita il vicepresidente della Camera pentastellato Di Maio, «mi sembra la situazione in cui un ragazzo chiede ad una ragazza di uscire, e lei inventa mille scuse per non vederlo. Lo dicesse chiaramente che non vuole uscirci...», provoca. Aggiungendo una frecciatina, al partito che «doveva essere quello della velocità: sono 20 giorni che dobbiamo incontrarci…».
Intanto, in Senato prosegue il lavoro in Commissione sulla legge che lo riforma, «discutiamo la riduzione dei poteri del Senato: per voi forse è normale, per noi è rivoluzionario», scherza Renzi davanti agli osservatori stranieri a Venezia. La discussione continua oggi, con la presentazione dell’emendamento dei relatori sul Senato non eletto con più proporzionalità nei seggi, come richiesto da Fi, slittato da ieri a oggi per l’assenza del relatore leghista Calderoli a causa di un malore. «L’Italia deve avere il coraggio di cambiare», predica il premier, «l’Italia ha una grande occasione ed è fare l’Italia: bisogna smettere di piangersi addosso e provare in mille giorni a cambiare faccia e interfaccia». Oggi continua la discussione, «siamo al rush finale», esulta convinto il renziano Marcucci.

l’Unità 9.7.14
La strategia dei frondisti: «In aula  la vera battaglia»
Tra i corridoi di Palazzo Madama è una conta continua
La maggioranza per le riforme conta sulla carta 237 voti. Ma potrebbero scendere sotto i duecento
In Forza Italia si parla di 23 dissidenti certi: «E se sono così tanti i no è difficile che Ncd tenga»
di Claudia Fusani


Le buone notizie, anche per le riforme costituzionali, arrivano dalle aule di tribunale. Alle quattro di ieri pomeriggio le agenzie battono la notizia che Pier Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri sono stati assolti (e in parte prescritti) dall’accusa di frode fiscale in un processo gemello a quello dove è stato condannato Berlusconi. E non c’è dubbio che a quel punto il clima cambia un po’ tra Arcore e Roma, tra villa San Martino e l’aula al Senato dove la commissione Affari costituzionali è riunita dalla mattina per approvare il testo base della grande riforma. Il leader di Forza Italia non ha ancora deciso se oggi arriverà a Roma e se incontrerà (alle 13) i parlamentari per un chiarimento finale sull’alleanza con Renzi sul fronte delle riforme. «Ma se lo conosco un po’ - confessa un senatore forzista - questa notizia potrebbe disporlo con un umore migliore nei confronti del partito». E dei suoi mille mal di pancia.
Le votazioni a palazzo Madama proseguono. Cambia il Titolo V che suddivide i poteri tra Stato e Regioni. Entra in Costituzione, sulla spinta di Ncd che Quagliariello rivendica a buon ragione, la regola dei costi standard (va sempre perseguito il prezzo migliore). Si rinvia a stamani il nodo dell’elezione del Senato in attesa di sapere se l’indisposizione del secondo relatore, Roberto Calderoli, gli permetterà di essere oggi a palazzo Madama. L’approdo in aula della riforma Boschi slitterà, «ma solo perché non sono concluse le votazioni e su richiesta del presidente Finocchiaro» come è stato stabilito nella nuova capigruppo richiesta proprio dai dissidenti di una parte e dell’altra. Molti emendamenti in dissenso dal governo vengono ritirati. Insomma, notizie che sembrano distensive mentre dietro le quinte i vertici dei partiti che sostengono la maggioranza per le riforme sono al lavoro per far rientrare i dissidenti. E blindare le votazioni sugli emendamenti quando il testo arriverà in aula (la prossima settimana).
Non se ne fa mostra, ma nei corridoi di palazzo Madama è una conta continua. «Abbiamo ritirato gli emendamenti per non farceli bocciare in Commissione e poterli ripresentare in aula» chiarisce Enrico Buemi che aggiunge: «Non è una Caporetto dei dissidenti, è una ritirata strategica, ci stiamo assestando sul Piave». Bellicoso Buemi, si confronta in Transatlantico con Mineo, fanno battute sulle dinastie Minz-Min (cioè Minzolini-Mineo, copyright Renzi) ed insieme evocano quella di «Manchù con i suoi eunuchi ». La truppa dei dissidenti Pd conta ancora 18 senatori tra cui Chiti, Mineo, Corsini, Mucchetti, Casson. «Io certamente non voterò per la non elettività del Senato» ha ribadito anche ieri. Ospite di Un giorno da pecora l’ex pm ha spiegato così la trasversalità della pattuglia dei dissidenti che da palazzo Chigi troppo facilmente liquidano come «conservatori e basta»: «Io quando gioco non vedo chi c'è all'ala destra, io gli passo la palla e se può segnare la passo anche a Minzolini». È vero che l’assemblea di lunedì sera sembra aver spostato il dissenso dalle riforme costituzionali alle legge elettorale, ma il numero di 18 viene considerato verosimile.
GIANNI LETTA IN CAMPO
Come verosimile lo stesso Minzolini, il Mineo di Forza Italia, considera la previsione di «23 dissidenti tra le fila di Forza Italia». Qualcuno ne ha contati anche 27, i sette pugliesi e i campani che fanno capo a Fitto più altri incerti come Malan, Scilipoti, Falanga, Fasano, Bonfrisco. «Non hanno motivazioni vere per votare contro il testo del governo...» precisa una fonte di Forza Italia. Si tratta di malcontenti individuali, incarichi negati, richieste di soldi (Berlusconi sta battendo cassa con i suoi), mal di pancia ideologici per le tessere dell’Arci gay consegnate a mano a Francesca Pascale e recapitate ad Arcore.
Faccende, in ogni caso, che in genere si trattano riservatamente e faccia a faccia. Onere di cui in queste ore si sta facendo carico personalmente Gianni Letta, sempre in campo quando il gioco si fa duro nel senso di importante come cambiare le regole della Costituzione.
«Ma che succede nel Nuovo centro destra se questi 23 di Forza Italia tengono in aula e votano no?» chiede sorridendo un dissidente azzurro. Il partito di Alfano conta 35 senatori e ha già due contrari certi al ddl Boschi (Naccarato e Azzolini). «In effetti la linea di frattura potrebbe essere più ampia se il dissenso in Forza Italia resta alto» ammette un quadro del Nuovo centro destra. In fondo, la voglia di tornare insieme è un virus che gira tra Fi e Ncd. Come prova anche la cena tra le ragazze, Rossi e Santelli, De Girolamo e Saltamartini.
Nelle prime due votazioni in aula non c’è quorum, nè i 2/3 nè maggioranze assolute. Ma non c’è dubbio che scendere sotto i 200 voti a palazzo Madama sarebbe uno smacco per Renzi. A cosa è servito, allora, il patto del Nazareno rimasto così indigesto a tante parte del vecchio Pd?
Sulla carta la maggioranza per le riforme a palazzo Madama conta 237 voti: 109 del Pd, 59 Fi, 33 Ncd, 15 Lega, 8 Per l’Italia, 7 di Scelta Civica e 6 su 11 di Gal. Un trionfo, addirittura i famosi 2/3 necessari nelle ultime due votazioni (che avvengono solo quando il testo è stabilizzato) per evitare il referendum confermativo. Ma la truppa dei dissidenti non mostra di voler arretrare.

il Fatto 9.7.14
La denuncia di eretici Pd e costituzionalisti
A Roma l’appuntamento organizzato da “Libertà e giustizia”. Tra i presenti anche Pace, Carlassare, Mineo e Casson
di Tommaso Rodano


In Piazza Capranica, di fronte a Montecitorio e a metà strada con Palazzo Madama, si discute di riforme istituzionali. L’incontro è promosso da Libertà e Giustizia e da una galassia di associazioni che contestano nel metodo e nel merito la volontà del governo di Matteo Renzi di mettere mano all’architettura costituzionale. Partecipano alcuni senatori “eretici” del Partito democratico (Felice Casson, Vannino Chiti, Corradino Mineo e Walter Tocci) e poi ci sono i giuristi; studiosi, amanti e sentinelle della Costituzione: Lorenza Carlassare, Gaetano Azza-riti , Alessandro Pace, Massimo Villone. Non portano solo la conoscenza e l’interpretazione del diritto, ma la memoria storica. Per capire quanto profondo possa essere l’impatto del disegno del governo sugli equilibri costituzionali, infatti, si affidano a due citazioni della storia del ‘900 italiano. La prima è nell’introduzione di Domenico Gallo (giudice della Corte di Cassazione e presidente di “Associazione per la Democrazia Costituzionale”), che apre il dibattito ricordando una vecchia frase di Berlusconi, pronunciata nel 2007 durante la presentazione di un libro di Bruno Vespa: “Tra tutti i primi ministri di cui si parla in questo volume – disse allora l’ex premier – c’è un solo uomo di potere: Benito Mussolini. Tutti gli altri potere non ne hanno avuto. Credo che se non cambiamo l’architettura della Repubblica, non avremo mai un premier in grado di decidere, di dare modernità e sviluppo al Paese”. Come Berlusconi pochi anni fa – secondo Gallo – anche Matteo Renzi insegue lo stesso modello: quello di un solo uomo al comando, capace di decidere sciolto dai vincoli, i condizionamenti e gli ostacoli che hanno afflitto i capi politici durante la storia della Repubblica.
ANCHE Lorenza Carlassare si affida alle parole del passato, “ripetute ossessivamente nel corso della storia del nostro Paese”. Ma torna ancora più indietro e cita direttamente Benito Mussolini, nel discorso pronunciato in occasione dell’approvazione della legge truffa: “Una cosa sola va rigidamente affermata – disse allora il Duce, come ricorda Calrassare – : che la massa dei cittadini intende che l’assemblea eletta sia la più capace a costituire un governo, atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nella vita quotidiana si presentano; non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili: la rappresentanza è destinata a un ruolo del tutto secondario”.
La stessa assenza di freni e di contrappesi al potere dell’esecutivo, secondo i professori di diritto costituzionale che prendono la parola, ispira le riforme istituzionali di Matteo Renzi. “Quella che è in gioco – sostiene Carlassare – non è solo la democrazia costituzionale, ma forse la democrazia nel suo complesso”.
Le riforme di Renzi, sostiene Alessandro Pace, produrrebbero una concentrazione di potere senza precedenti nella storia della Repubblica: “Con l’Italicum – spiega Pace – avremmo come risultato un monocameralismo dominato dal Partito democratico o dall’attuale coalizione di partito, completamente privo di contropoteri. Una maggioranza sufficiente per decidere in totale autonomia sia il Presidente della Repubblica che i cinque i giudici costituzionali di nomina parlamentare”.
Per Massimo Villone, ex senatore del Pds e docente di Diritto Costituzionale alla Federico II di Napoli, nella riforma di Matteo Renzi c’è l’idea di un “primo ministro assoluto”: “Un Senato debole, come lo vuole il premier, non è solo sbagliato: è anche pericoloso. Il senatore è sotto ricatto, non ha una voce autonoma rispetto al governo, ma diventa decisivo, nella sua debolezza, nei processi di riforma della Costituzione. Quando un governo ha in mano tutto e ha sotto di sé una maggioranza garantita e inerte in Parlamento, ha accesso ai diritti costituzionali: sono in pericoli i diritti di libertà”.

il Fatto 9.7.14
Riforme, il problema di Matteo si chiama Forza Italia
Se i dissidenti democratici sono considerati sotto controllo dubbi sulla tenuta del gruppo B. Con Grillo trattativa congelata
di Wanda Marra


Un voto dopo l’altro la Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama scivola velocemente verso la conclusione dell’esame della riforma del Senato e del Titolo V. Sfilano volti stanchi e variamente perplessi, da quello della relatrice Anna Finocchiaro a quello di Gaetano Quagliariello (Ncd), passando per Doris Lo Moro (Pd). L’ordine di scuderia, da parte del governo, ma anche da parte di Berlusconi ai suoi (quelli che controlla di Forza Italia, che non si capisce bene quanti siano) è chiudere il prima possibile, smussare tutti gli angoli, e poi arrivare in Aula. Il merito conta fino a un certo punto: il patto del Nazareno è più importante, per entrambi i contraenti. Per Renzi garantisce ancora le riforme, per Berlusconi l’esistenza in vita. Sui lavori pesa anche l’assenza di Roberto Calderoli, ricoverato a Milano per un malore, che l’ha fatto cadere e rompersi una mano. Lui dall’ospedale dice di andare avanti e dunque si vota. Atteso per stamattina.
Rimandato a oggi l’ ultimo nodo: quello che riguarda la proporzionalità dei membri del Senato: saranno i Consigli regionali ad eleggere i futuri senatori. Dopo un vertice Boschi-Finocchiaro-Romani il testo sarebbe pronto, ma si aspetta la firma di Calderoli. La scelta dovrà rispettare il criterio di proporzionalità sia per quanto riguarda il numero di abitanti, sia il risultato elettorale di ciascuna regione. Questo perché FI aveva chiesto di riequilibrare la rappresentanza, visto che il centrosinistra ha in mano la maggior parte delle Regioni. Passato ieri un emendamento per modificare il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica. Prevede che per i primi quattro scrutini occorrano i due terzi degli aventi diritto, e per i secondi quattro, i tre quinti. Questo per evitare che chi vince alla Camera elegga da solo l’inquilino del Colle. Dal nono scrutinio in poi, l'eventuale vincitore avrebbe comunque la possibilità di eleggere da solo il Presidente della repubblica.
E IN AULA? Il governo, Boschi in testa, ostenta sicurezza. E dalle parti del Pd questa è abbastanza condivisa. Per ora. In realtà lunedì sera c’è stato un vero momento di panico, prima del gruppo Dem. Tra dissidenti e bersaniani, la situazione sembrava sfuggire di mano. Tanto che al Colle sarebbero arrivate sollecitazioni da parte di alcuni renziani per intervenire, in maniera preventiva. Se un effetto ce l’ha il giorno dopo il monito del Colle è quello di far innervosire il presidente del Senato, Grasso. Starebbe a lui decidere se rimandare l’approdo in Aula della riforma previsto per oggi, visto che l’esame degli emendamenti non è concluso. Ma lui preferisce evitare: si aspetta che casomai il governo lo chieda. E così la capogruppo di ieri non decide nulla. Ma si arriverà in Aula probabilmente domani, con inizio delle votazioni previsto per martedì.
“Il Senato lo votiamo, sulla legge elettorale l’ipotesi che circola ci convince: si tratterebbe di avere collegi più piccoli, con una parte di liste bloccate, e una lasciata alle preferenze”, spiega il bersaniano Miguel Gotor. Dissenso dem in via di rientro. Renzi scommette sul fatto che - scatenata la debita pressione mediatica - saranno veramente pochi i Democratici in grado di votare contro. Diverso per Forza Italia. Il gruppo degli oltranzisti lo guida Augusto Minzolini, che non a caso diffonde interpretazioni: “Renzi vuole approvare il Senato in via definitiva entro gennaio, fare una legge elettorale e andare al voto in primavera”. I dissidenti di Forza Italia secondo lui sono più di
20. Il gruppo dei senatori con Berlusconi per oggi è in forse? Meglio, così ognuno è libero di far quel che vuole. E insomma, il premier resta appeso a Berlusconi, nel bene e nel male.
L’incontro con i Cinque Stelle nel frattempo? Rimandato alla prossima settimana, come annuncia Lorenzo Guerini. Non è proprio il caso di aprire una trattativa vera sulla legge elettorale, fino a che le riforme non sono saldamente approvate. E dunque, meglio temporeggiare. E cercare una soluzione che possa piacere anche a FI, come quella, appunto, di un sistema misto tra liste bloccate e preferenze. E nel frattempo, cerca di andarsi a prendere i voti da tutte le parti. Beppe Grillo lunedì sera ha messo in difficoltà il premier aprendo su una serie di punti. Ma in realtà la discussione deflagrata nel Movimento e la loro stessa disponibilità a questo punto potrebbe favorire il premier. Di Maio ha spiegato che l’eventuale accordo M5s-Pd sarà comunque sottoposto alla rete; al che Roberto Giachetti ha domandato: "E se la rete lo boccia? Certifichiamo che abbiamo scherzato?". Renzi può giocare sulle difficoltà degli altri partiti, e racimolare un po’ di qua, un po’ di là.
Il gioco è pericoloso. Ma Renzi non molla: “Noi le riforme le facciamo, è giusto farle perchè l’Italia torni a essere leader. Piaccia o no a chi vuole frenarci, il risultato a casa lo portiamo”.

Repubblica 9.7.14
Berlusconi: “Le riforme si votano senza se e senza ma”
di Francesco Bei


ROMA. «Non ci sarà nessun dissenso, a Renzi gliel’ho detto: per i miei garantisco io». Se quella che filtra da Arcore sia una convinzione sincera o un estremo tentativo per indurre i frondisti a riallinearsi lo si capirà soltanto domani. Si perché alla fine, dopo ripensamenti vari e rinvii, l’ex Cavaliere ha deciso di affrontare di petto la questione. Aveva sperato di chiudere la questione riforme con il comunicato di giovedì scorso, invece i fronte del “Minzo” non si è dato per vinto, ha fatto finta di non aver compreso. Per questo servirà un intervento forte di Berlusconi in persona, all’assemblea dei senatori di domani. Chiaro che non ne abbia affatto voglia, ma Romani e Verdini gli hanno fatto capire che la situazione può sfuggire di mano. Così, pur riluttante, il leader azzurro è deciso a usare l’argomento finale, quello che chiuderà ogni discussione: «Siamo un movimento liberale, ma non si può chiedere libertà di coscienza su un disegno di legge costituzionale che abbiamo condiviso. Va votato da tutti voi, mi aspetto il massimo senso di responsabilità ». Della serie, chi non lo vota si mette fuori da solo. Fatto tatticamente non trascurabile: la riunione si terrà quando la commissione affari costituzionali avrà già approvato il disegno di legge Boschi. Il leader forzista, pur mettendo in conto qualche intervento ancora critico, spera quindi in una mozione degli affetti. Un «fidatevi di me» che si traduca nel via libera unanime o quasi. Del resto chi voleva esprimere la propria contrarietà ha potuto farlo eccome. «Mentre Renzi ha espulso i dissidenti dalla prima commissione - ha fatto notare a un amico il capogruppo Paolo Romani noi Minzolini l’abbiamo voluto inserire in quell’organismo anche se non ne faceva parte». Ora però tutti si devono riallineare.
Per ottenere questo risultato Berlusconi ha lavorato sodo al telefono durante tutto il week-end provando a limitare l’area del dissenso. Anche con l’irriducibile Cinzia Bonfrisco, che a Repubblica ha dichiarato di essere personalmente combattuta, Berlusconi è andato in pressing. Ma il vero timore non riguarda Minzolini, Bonfrisco o altri singoli samurai. Il rischio è che il ddl riforme venga impallinato da un vasto plotone composto dai senatori pugliesi e campani (l’area Cosentino) vicini a Raffaele Fitto, che contestano apertamente la linea politica. Così ieri Denis Verdini ha ricevuto Fitto al piazza San Lorenzo in Lucina per cercare di ammorbidirlo con concessioni sulla “governance” nazionale e sulla gestione di Forza Italia sul territorio. A quanto pare inutilmente. Massimo Mucchetti, il ribelle Pd deciso a contrastare con tutte le forze il nuovo Senato renziano, rivela che nel campo forzista la discussione è ancora molto accesa: «Posso dire che soltanto domenica mi hanno chiamato quattro colleghi di Forza Italia. Mi hanno pregato di tenere duro, dicono di essere almeno 25 ma penso possano arrivare a 30».
Berlusconi comunque ormai ha deciso, senza ripensamenti. Come conferma il consigliere politico Giovanni Toti: «Non possiamo fare mica come quei fidanzati che, dopo aver comprato le fedi e pagato la festa, all’altare ci ripensano e lasciano la sposa in asso. Noi manteniamo la parola data». Certo, Toti ammette che «la legge Boschi non è la migliore possibile, noi l’avremmo scritta diversamente, ma è un compromesso. E comunque è molta diversa da come era arrivata al Senato. Grazie a noi è stata migliorata». L’ex Cavaliere non è invece preoccupato, come si dice, dalla possibile intesa fra il Pd e i grillini sulla legge elettorale. «Renzi - ripete ai suoi Berlusconi - è stato chiaro: ogni modifica all’Italicum andrà concordata con noi. Per questo è importante non creare problemi alla riforma del Senato, non possiamo dare alibi a chi nel Pd vorrebbe sostituirci con i cinquestelle». In una giornata per lui positiva, segnata dall’assoluzione-prescrizione per il figlio e l’amico Confalonieri, resta tuttavia nel leader forzista «l’amarezza» per sentirsi un perseguitato dalla magistratura: «Vedrete, per i giudici milanesi non cambierà nulla. Il 18 luglio mi condanneranno di nuovo ». Ma nemmeno una eventuale conferma della condanna Ruby in appello, assicurano i suoi, potrà fargli cambiare idea sull’opportunità di restare seduto al tavolo delle riforme. Anche grazie a questo atteggiamento la frattura con l’Ncd di Alfano si sta in parte rimarginando. Oggi Giovanni Toti, insieme a Gelmini e Romani, sarà in piazza Montecitorio a firmare la petizione per le primarie di coalizione lanciata da Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. E insieme a loro ci saranno anche gli alfaniani Quagliariello e De Girolamo. È la prima iniziativa congiunta dai tempi della scissione. Ma non è tutto. Toti lancerà ufficialmente l’idea di una “Consulta del centrodestra”, una sorta di patto di consultazione permanente fra chi dovrebbe far parte della futura federazione. «Tutti dicono di essere alternativi a Renzi? Benissimo, allora mettiamoci intorno a un tavolo per iniziare a preparare un terreno comune in vista delle prossime politiche, che siano nel 2018 o molto prima come pensiamo noi».

La Stampa 9.7.14
Il gioco tattico e la blindatura dell’accordo tra Pd e FI
di Marcello Sorgi


Malgrado la rottura di lunedì, l’impossibile dialogo Renzi-Grillo riprenderà, giurano gli stati maggiori delle due parti. Come, non si sa, anche se un nuovo appuntamento tra le delegazioni di Pd e M5S è stato annunciato per la prossima settimana. Le dieci risposte dei grillini date fuori tempo massimo alle dieci domande del Pd lasciano intatti due punti di divergenza difficilmente aggirabili: la richiesta di elettività dei parlamentari anche nel nuovo Senato riformato e quella delle preferenze da inserire nella legge elettorale.
Che poi ci sia un gioco tattico perché nessuna delle due parti vuol apparire pregiudizialmente contraria a un accordo, è evidente, anche se Renzi ieri da Venezia ha ribadito che le riforme si faranno e che i «frenatori» saranno battuti. La possibilità o meno di tornare a incontrarsi, dopo che il premier in persona aveva fatto saltare il secondo faccia a faccia in streaming di lunedì, per il Pd riparte così da una premessa. L’intesa può esserci, ma non a partire dalla rottura del patto del Nazareno e dagli accordi stabiliti tra Renzi e Berlusconi. Nell’immediato, insomma, nulla cambia. E la prospettiva più probabile è che i senatori grillini nelle votazioni in aula che cominceranno nei prossimi giorni a Palazzo Madama si ritrovino a votare contro la riforma del Senato nei termini in cui la maggioranza istituzionale Pd-Forza Italia-Lega intende approvarla.
Il terreno in cui invece il dialogo potrebbe effettivamente riaprirsi è quello della riforma elettorale. Ma non a partire dalle preferenze, sulle quali Renzi non ha intenzione di commettere uno sgarro contro Berlusconi, anche se sarebbe un modo di venire incontro a Bersani e alla minoranza interna del suo partito. Piuttosto, sulla regolamentazione del secondo turno elettorale nel caso in cui nessuno raggiunga la soglia attualmente prevista al 37,5 per cento (probabilmente in via di innalzamento, specie dopo i risultati del 25 maggio) e del premio di maggioranza, che Grillo propone di assegnare al partito, e non alla coalizione, che prende più voti. Con l’attuale impostazione difficilmente il M5S entrerebbe in ballottaggio, visto che il centrodestra, sommando i voti di tutte le sue componenti, sarebbe in grado di assicurarsi agevolmente un secondo posto, e di concorrere anche per il primo. Se invece la competizione sarà tra partiti, e non tra liste coalizzate, Grillo avrà più possibilità di partecipare alla gara fino in fondo. Sarà anche per questo che nel centrodestra sono riprese le grandi manovre per cercare di rimettere insieme tutto ciò che è stato fatto a pezzi nell’ultimo anno.

Corriere 9.7.14
Doppio forno, doppio gioco
di Antonio Polito


Per quanto si possa essere impazienti, è la Costituzione stessa che impone una certa lentezza e ponderatezza a chi vuole cambiarla: doppia lettura di entrambe le Camere, almeno tre mesi tra l’una e l’altra, maggioranza dei due terzi per evitare il referendum. E con buone ragioni. Non sempre la fretta è stata buona consigliera in materia costituzionale. Delle tre grandi riforme varate durante la Seconda Repubblica, una è stata sonoramente bocciata da un referendum popolare (la devolution del centrodestra), un’altra è stata un disastro (il federalismo del centrosinistra) e la terza l’abbiamo già ripudiata in nome della flessibilità (il pareggio di bilancio). Sarà dunque bene ascoltare con il rispetto dovuto ciò che il Senato avrà da dire, dalla prossima settimana, sulla sua autoriforma. Tutto è perfettibile, perfino la bozza Boschi-Calderoli-Finocchiaro. Purché sia chiaro che c’è qualcosa di peggio di una riforma imperfetta: lasciare in piedi il bipolarismo perfetto.
Ciò che però i padri costituenti non potevano prevedere è che tra una lettura e l’altra arrivasse al Senato un’altra riforma inestricabilmente intrecciata: la nuova legge elettorale. Non a caso, nelle telefonate personali con le quali l’ex Cavaliere sta chiedendo ai suoi dissidenti di baciare il rospo del nuovo Senato, l’argomento principe è il seguente: se voi mollate Renzi, lui fa la legge elettorale con Grillo, e io sono finito.
I due forni aperti dal premier portano infatti a esiti molto diversi. Nell’accordo con Forza Italia, che premia le coalizioni, Berlusconi concede la prossima vittoria elettorale a Renzi in cambio del monopolio dell’opposizione, visto che le forze minori di centrodestra non potrebbero che conferirgli i loro voti. In un eventuale accordo con i nuovi Cinquestelle scongelati alla Di Maio, il ballottaggio sarebbe invece tra i due maggiori partiti, e questo rischierebbe davvero di escludere Berlusconi da tutti i giochi, compresi quelli sui quali nutre un interesse per così dire personale.
Uno dei due forni andrà dunque spento. Non foss’altro per ragioni europee. L’intesa con Berlusconi, magari corretta su soglie e collegi, porterebbe a un bipolarismo di stampo continentale, tra socialisti e popolari. Quella con Grillo potrebbe partorire invece un sistema anomalo basato sul dualismo tra il centrosinistra e un movimento che a Bruxelles è alleato con Nigel Farage. Per quanto tatticamente conveniente, il doppio gioco non è il modo migliore di fondare la Terza Repubblica.

il Fatto 9.7.14
Democrazia autoritaria
Migliaia di proposte arrivate in redazione
“Informate i cittadini”; “Coinvolgere l’elettorato democratico”; “andiamo a presiedere Palazzo Madama”, dono alcune delle idee giunte al Fatto


Al Fatto quotidiano continuano ad arrivare e-mail dai lettori in risposta all’appello lanciato domenica sulla prima pagina del giornale per chiedere come opporci alla svolta autoritaria del premier Matteo Renzi, Silvio Berlusconi & C. Sono migliaia, e per questo ringraziamo tutti. Molte le idee, le proposte, gli incoraggiamenti ad andare avanti. C’è chi ringrazia. Chi sollecita. Chi si dichiara preoccupato, anche incredulo per il silenzio degli altri organi dei informazione. Chi si appella ai costituzionalisti per sentire la loro voce, e chi ripone grande fiducia nei confronti di parte degli elettori democratici, quegli elettori che nel ventennio berlusconiano si sono opposti duramente alle varie riforme proposte dall’ex Cavaliere. “Vi chiediamo di mettere in atto tutte le iniziative possibili per fare comprendere agli italiani che hanno ancora la capacità di ragionare a quali rischi si sta ora andando incontro”, ci chiede un lettore, mentre una lettrice si dichiara “al vostro fianco”. Aspettiamo ancora le vostre proposte. E grazie, come sempre.

Tutti uniti per protestare davanti al Senato
La Rete per la Costituzione, alla quale partecipano tanti cittadini che furono protagonisti del referendum del 2006 e che è attiva in numerose città italiane, sarà presente di fronte al Senato nel giorno del passaggio della “riforma” costituzionale all’esame dell'aula.
In quella occasione distribuiremo volantini e materiale informativo sulla reale portata delle modifiche che l’attuale maggioranza Partito democratico-Forza Italia intende approvare. Purtroppo l’attuale Parlamento può ignorare la volontà dei cittadini e delle cittadine, ma questo non ci impedirà di far sentire la nostra voce di dissenso.
Rete per la Costituzione

Il “Fatto” come rete di collegamento
Noi non possiamo che resistere, resistere. Resistere, aiutati dal “Fatto”. Il gruppo di cui faccio parte (Carovana per la Costituzione sempre) intende dare battaglia a partire da un presidio davanti al Senato in concomitanza con la votazione del Ddl Boschi. Oltre agli appelli ai senatori e ai cittadini occorre esserci fisicamente.
Il “Fatto” può favorire il collegamento tra tutte le realtà resistenziali sparse nel Paese, dando rilievo alle mobilitazioni e aiutando nelle operazioni di collegamento.
Serve un presidio permanente in modo da essere sempre presenti dimostrando che l’altro 59 per cento dei cittadini italiani questa riforma non la vuole.
Cinzia Niccolai

Combattere questa follia con ogni forza
Premetto che non condivido una H delle cosiddette “riforme istituzionali” di cui si pala da mesi e le reputo le riforme più assurde e pericolose della storia repubblicana. Ma credo che una precisazione vada fatta. Queste riforme, per quanto gravi, non creano una Dittatura, non eliminano la Democrazia. Sono riforme che danneggiano e indeboliscono i sistemi di controllo, riducono gli spazi di rappresentatività e commettono valanghe di altre nefandezze ma non instaurano una Dittatura. Stabilito questo è compito di ognuno di noi combattere questa follia con ogni forza.
Marco Scarponi

Non dormiamo, o il risveglio sarà traumatico
Quello che sta succedendo è gravissimo, ci toglieranno anche quello che resta della nostra democrazia sancita dalla Costituzione.
Non lasciamo che accada, mi rivolgo a tutte le persone che amano la giustizia e la libertà in ogni sua forma: non dormiamo ora perché il risveglio dopo sarà traumatico. La storia lo insegna.
Francesca Garro

Fate i nostri portavoce in tutti i programmi televisivi
Sono allarmata, sconfortata e preoccupata dal silenzio e dalla mancanza di dettagli dei tanti giornali e dei tanti intellettuali che in questo momento dovrebbero fare la differenza su questioni importanti come quelle delle riforme. Sono ancora più preoccupata perché queste riforme e l’accelerazione che è stata data alla loro realizzazione stia avvenendo durante le vacanze estive cioè quando la maggioranza degli italiani è completamente distratta. Allora chiedo a tutti voi Giornalisti Liberi, di farvi nostri portavoce in tutti i programmi televisivi, quei pochi rimasti aperti, e anche nei telegiornali per cercare di svegliare tutti gli italiani che ancora abboccano alle lusinghe di questa classe politica.
Angela

Occupanti abusivi all’attacco della Carta
I parlamentari si sono auto-nominati con il porcellum. La cassazione dice che sono illegittimi, che secondo la Costituzione non sono mai stati eletti in quanto è stato vietato il diritto di voto per ben tre elezioni ai cittadini. Loro occupanti abusivi del parlamento che fanno? Con il silenzio assordante di Napolitano, invece di dimettersi, si mettono in moto per cambiare la Costituzione.
Francesco Degni (un gufo)

Uscire dalla rassegnazione e dal menefreghismo
Se questo governo, non eletto approverà queste vergognose riforme la nostra democrazia, o almeno quello che ne rimane e la nostra Costituzione, subiranno un cambiamento tale che ci porterà sempre di più sulla strada della dittatura. Se passano queste riforme anche il nostro voto, dove già l’astensione è alta, sarà inutile e i referendum abrogativi non avranno possibilità successo. Questo paese dovrebbe uscire dalla rassegnazione e dal menefreghismo, dovrebbe cominciare a lottare e protestare, pur senza violenza, per impedire questi scempi.
Monica Stanghellini

Raccolta di firme e campagna di informazione
Propongo, come fu per l’art. 138, di promuovere una raccolta di firme e una campagna di informazione con i mezzi che riterrete validi. Sarò al vostro fianco.
Angelisa

Coinvolgere gli elettori del Partito democratico
Non sono un elettore del Pd ma ritengo necessario rivolgersi ai componenti (iscritti, attivisti, inseriti in organi elettivi) della base di quel partito che è l’unico organizzato e radicato dal quale possono nascere e diffondersi iniziative per recuperare una democrazia partecipativa.
Nel Pd resiste ancora un buon numero di elettori che si sono formati a suo tempo nei principi della nostra Costituzione, che hanno partecipato alle iniziative per difenderla anche in maniera concreta nelle scelte referendarie.
Sono questi ultimi, insieme ai residui della sinistra e ai sindacati, che si devono mobilitare.
Paolo Chiarelli

Una diffida penale da inviare ai due rami del Parlamento
La via è quella della diffida penale da inoltrare ai Presidenti delle due Camere e ai membri delle commissioni per le elezioni.
Dopo la diffida la denuncia alla Procura della Repubblica di Roma per omissioni di atti d'ufficio. Se la diffida e la denuncia fossero firmate da migliaia di cittadini, non potrebbero essere ignorate. Senza premio di maggioranza le larghe intese più Lega Nord avrebbero alla Camera meno del 66% dei seggi.
Potrebbero votare la controriforma ma non eviterebbero il referendum. Lo stesso al Senato senza i premi di maggioranza regionali.
Livio Giuliani

Continuare a informarci come state facendo
Sono un elettore di Sinistra, pensionato, deluso dalla politica. Incazzato nero con questa strana situazione della classe dirigente.
Vi prego di continuare a informarci come state facendo, il resto della stampa e le televisioni stanno tacendo le trame che questo sig. Matteo & B. stanno elaborando.
Guido Burroni

Mettere in atto tutte le iniziative possibili
Aderisco con mia moglie al vostro appello contro la dittatura, non tanto strisciante, che stanno imponendo Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Vi chiediamo di mettere in atto tutte le iniziative possibili per fare comprendere agli italiani che hanno ancora la capacità di ragionare a quali rischi si sta ora andando incontro.
Giuseppe Dolce e Anita Fagliano

Che il “Fatto” raccolga tutte le adesioni
Sono sull’iniziativa cui accennava Antonio Padellaro d’accordo, procediamo anche questa volta. Che il “Fatto quotidiano” raccolga tutte le adesioni.
Carlo Magaldi

il Fatto 9.7.14
Secondo Calamandrei
Il significato e il valore della legalità
di Maurizio Viroli


Scritto con tutta probabilità nell’estate del 1944, quando Piero Calamandrei fece ritorno nella sua Firenze liberata, il saggio che Laterza ha pubblicato in questi giorni nasce dall’esigenza che l’autore ebbe fortissima di spiegare a chi cercava faticosamente di fare nascere un’Italia libera, il significato e il valore della legalità.
Lo rivela Calamandrei stesso in una pagina, condita di fine arguzia fiorentina, che Silvia Calamandrei ha ritrovato fra le carte del padre e ha saggiamente riproposto nella sua bella “Nota editoriale”, dove chiarisce che il saggio può essere un esempio del metodo della prova a contrario, consistente nell’illustrare i caratteri della legalità e i suoi benefici trattando di un regime che rappresenta in maniera tipica la sua antitesi: “se in mezzo a tanto dolore fosse ancora lecito sorridere verrebbe a proposito la sbrigativa risposta colla quale un giornalista spiritoso si liberò di quel seccatore che insisteva a chiedergli come è fatta una macchina linotipo: ‘Ora te lo spiego subito: l’hai mai vista una macchina da cucire? Certo. Ecco: la linotipo è tutta differente’. Allo stesso modo si potrebbe rispondere a chi volesse farsi un’idea esatta della legalità: ‘L’hai mai visto il fascismo? Ahimè sì. Ecco: la legalità è tutta differente’.
Il regime fascista, spiega Calamandrei, era caratterizzato da una doppiezza o ipocrisia costitutiva. Il potere fascista nasceva infatti dalla combinazione di due ordinamenti giudiziari l’uno dentro l’altro: quello ufficiale, che si esprimeva nelle leggi, e quello ufficioso, che viveva in una pratica politica sistematicamente contraria alle leggi. C’era dunque una burocrazia di Stato e una burocrazia di partito, pagate entrambe dagli stessi contribuenti, e unite al vertice in colui che domina l’una e l’altra.
DAL SAGGIO emergono altri due caratteri distintivi della storia del fascismo, sui quali è bene riflettere. Il primo è l’incoerenza e l’eterogeneità dei suoi obiettivi politici, un vero e proprio “accozzo di idee vaghe e generiche accattate alla rinfusa nei campi più disparati e più contrastanti” che tuttavia non indebolirono, ma rafforzarono, il movimento e il regime. Il secondo è la gravità degli errori commessi dagli antifascisti, primo fra tutti quello di ritenere che la lotta dovesse essere condotta, nella stampa e in parlamento, sul terreno della legalità, alimentata “dalla generosa illusione […] della libertà che si difende da sé, come una forza di natura, senza bisogno di guardie armate”.
Una volta consolidato grazie al suo potente apparato di coercizione e di propaganda, il regime che si proponeva di “attuare la perfetta fusione del cittadino nella patria ed esaltare nell’individuo il sentimento del dovere e della dedizione al bene pubblico” ha rafforzato nell’animo degli italiani il secolare sentimento di diffidenza e di ostilità verso lo Stato. Imponendo il marchio ‘fascista’ su tutte le istituzioni che erano semplicemente italiane (lo “Stato fascista”, la “patria fascista”, la “scuola fascista”, la “guerra fascista”, quando addirittura non si parlava della “guerra di Mussolini”) il fascismo confermò nel popolo la convinzione che “chi non era fascista non aveva più ragione di sentirsi affezionato a istituzioni e a imprese, diventate, da italiane, proprietà esclusiva di quel solo partito o di quel solo personaggio”. Dare vita a regimi caratterizzati da una doppiezza costitutiva che genera e conferma la diffidenza verso le istituzioni, è specialità italiana. Silvio Berlusconi, con il suo stuolo di cortigiani e cortigiane, per citare un esempio dei giorni nostri, ha potuto per anni fare i propri interessi e affermare la sua volontà serbando le apparenze della Repubblica democratica. Matteo Renzi e i suoi sodali, se riusciranno a realizzare il loro progetto di devastazione costituzionale, creeranno un’autocrazia, vale a dire un governo di pochi senza freni e contrappesi degni del nome, sotto le apparenze, anche in questo caso, di un regime democratico. Ancora una volta istituzioni piegate al potere di un uomo, e non uomini che servono le istituzioni: l’esatto contrario dei principi repubblicani. E poi dicono che la storia non serve.

Repubblica 9.7.14
M5S, un capitale in gioco
di Piero Ignazi


DOPO lo scongelamento elettorale di questi ultimi due anni, in cui gli elettori sono transitati in massa da una scelta - per un partito o per il non voto - a un’altra, siamo a un altro passaggio: lo sblocco dell’inibizione grillina alla politica. Il M5S ha raccolto la frustrazione, la rabbia e persino l’angoscia di chi non si sentiva più rappresentato. Un’ampia parte dell’elettorato, da un quarto a un quinto, che sono numeri impressionanti per una democrazia consolidata, ha negato “legittimità” al sistema considerandolo, in gradi crescenti di distacco, come inefficiente, ingiusto, corrotto, cinico e predatorio.
Ma a fianco di questa bolla di insofferenza, tentata dall’antipolitica del “tutti ladri, tutti corrotti”, corre anche una parte di società civile, delusa e certamente arrabbiata, ma desiderosa di mettere le cose sul giusto binario. Un’area che negli passati ha animato i meetup dei 5Stelle proponendo iniziative su temi di interesse locale in merito ai servizi, all’ambiente, alla vivibilità urbana e alla buona amministrazione. Questa componente è rimasta schiacciata dal successo del 2013 e dall’emergere di figure improbabili nei primi mesi postelezioni. Infatti: come sarebbe andato l’incontro tra Pd e M5S se di fronte a Pierluigi Bersani, invece del duo Crimi-Lombardi, ci fosse stata la coppia Di Maio-Di Battista?
Il risultato delle europee ha riattivato la componente più pragmatica e “politica” dei pentastellati: la disponibilità al confronto sulle riforme del gruppo parlamentare del M5S, nonostante lo sgarbo del Pd, poi ricambiato con gli interessi da Grillo, lo dimostra chiaramente. Questo embrionale ingresso nella politica modifica lo scenario, nel breve periodo e in prospettiva. Nell’immediato, il Pd, per portare a compimento le riforme, non è più obbligato a un rapporto (anche troppo opaco) con Forza Italia, e a una coabitazione sempre più esangue con il Ncd di Angelino Alfano. Grazie alla disponibilità dei grillini i cambiamenti istituzionali godono di un consenso a 360 gradi, e quindi di una legittimazione che è sempre mancata ai riformatori, fin dai primi provvedimenti di revisione costituzionale del 2000, con il Titolo V. Inoltre, l’ampliamento del confronto consente miglioramenti prima resi impossibili dalla minaccia della defezione di un giocatore, cioè di Forza Italia. Grazie a questa nuova situazione il Pd può considerare alcune ragionevoli modifiche suggerite dai 5Stelle, come quella sulla immunità e sul “tempo pieno” dei senatori.
Ma è nel medio periodo che lo scongelamento dei parlamentari pentastellati inciderà sulle dinamiche politiche. Alle ultime elezioni il Pd ha certamente beneficiato di un sentimento di rigetto per la polarizzazione politica e l’esasperazione del conflitto innescati da Grillo. Ma nel momento in cui la strategia, pur mantenendo tonalità bellicose, cambia, il M5S passa dal rappresentare un pericoloso nemico antisistema all’incarnare una alternativa “radicale” al Pd. Radicale nel senso che contesta tutte o quasi le proposte dei democratici, e radicale perché esprime pulsioni di cambiamenti palingenetici, ma allo stesso tempo interno al sistema e disposto a dialogare, a contrattare, a far politica.
Questa mutazione, inevitabilmente, sfida il partito di Renzi. Lo obbliga a rispondere nel merito, a indicare strade diverse e migliori, a realizzare puntualmente quanto promesso, a comportamenti corretti e rigorosi. Con un paragone azzardato, il M5S può diventare un attore politico competitivo più di quanto non lo sia mai stato il Pci nei confronti della Dc. Il partito comunista, fino alla fine della sua storia, rappresentava una alternativa “inaccettabile” marchiato com’era dal fattore K, e non incalzava la Dc sullo stesso bacino elettorale. I grillini, invece, anche se così perdono qualcosa sul fianco destro, sono già competitivi con il Pd (come dimostrano i flussi di voto), mentre né Forza Italia né tanto meno il Ncd lo sono.
La discesa in campo e l’accettazione delle regole del gioco da parte pentastellata sono certamente un fatto positivo per il sistema: le tensioni insite nell’auto-ghettizzazione di una forza politica così ampia si stemperano e il rapporto tra i partiti non è più inchiodato su una contrapposizione tra centrosinistra e centrodestra, già in via di esaurimento per la crisi di quest’ultimo (oltre che per l’ipertrofia del Pd). Allo stesso tempo, tutto ciò costituisce una nuova sfida per i democratici.

Repubblica 9.7.14
Il potere dei burocrati
di Nadia Urbinati


NEL suo discorso di inaugurazione del semestre di presidenza italiana della Ue, e in altri interventi successivi, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha tuonato contro l’Europa delle banche e contro l’Europa della burocrazia. Due bersagli contro i quali aveva già speso qualche parola durante la campagna elettorale (con toni che potevano piacere anche agli euroscettici). E che possono essere rubricati sotto un’unica categoria: la tecno-burocrazia. Renzi ha rafforzato la sua requisitoria con l’appello a che la politica torni in Europa «a sentirsi a casa propria » e non sia più trattata come «un impedimento alle decisioni» delle banche e degli uffici di Bruxelles. La polemica di Renzi non è nuova nella storia dell’integrazione europea. È nuovo tuttavia il contesto nel quale si inserisce: la critica alla burocrazia è fatta nel nome non tanto dell’espansione delle funzioni degli organismi della rappresentanza politica, ma del rilancio del ruolo decisionale del governo o di chi ha responsabilità di governo, in Europa e in Italia. «L’Europa non può essere solo la terra di mezzo della burocrazia dove si vive di cavilli, vincoli e parametri». La libertà dai lacci per rendere la decisione più agile ed efficace. Una massima che può raccogliere consensi trasversali e non solo tra i democratici.
Certo, la burocrazia ha avuto una funzione stabilizzatrice nella costruzione dell’Unione, contribuendo a migliorare la vita di milioni di persone, introducendo criteri di monitoraggio capaci di estendere i diritti e di civilizzare, se così si può dire, il rapporto tra amministrazione e cittadini. Per esempio, le normative sulle pari opportunità o di anti-discriminazione alle quali sono legati i finanziamenti europei non sono cavilli inutili. Ma questa ossatura di regole da sola non basta. Anzi, è diventata anzi parte del problema perché non ha argomenti per controbattere alla critica di deficit democratico. Spetta agli europeisti la responsabilità di non lasciare che siano gli anti-europeisti a prendere in mano la bandiera della legittimità democratica del governo dell’Unione. Non è di meno Europa che c’è bisogno, ma di un’Europa politica più coraggiosa. Negli argomenti di Renzi vi è dunque l’eco un’esigenza tutt’altro che peregrina e nuova. Ma vi è dell’altro.
La pratica dell’euroburocrazia ha teso a contenere la decisione politica mediante una rete di regole che ha generato una sorta di funzionalismo costituzionale, ovvero un coordinamento di azioni amministrative in vista di obiettivi imparziali e al riparo dagli interessi dei governi degli Stati membri. Questa pratica ha ricevuto nuova linfa dopo quest’ultima grave crisi economica. Pensiamo, per fare un esempio a noi familiare, al governo Monti, improntato com’era alla più radicale estromissione della politica: il suo programma prevedeva che il Parlamento si impegnasse a non interferire. Il governo Monti ha impersonato la filosofia dell’eurocrazia, che è stato il battistrada più autorevole a sostegno dell’attitudine degli esperti a screditare la politica nel nome della governance. Competenza al potere: questa massima è la più radicale nemica della democrazia (dove opinioni e conta dei voti sono i fattori determinanti). Eppure, nonostante le ambizioni salvifiche propagandate in questi anni, il governo dei tecnici e la filosofia eurocratica non hanno partorito soluzioni capaci di risollevare i nostri paesi.
L’attuale crisi economica ha messo in discussione la visione ottimista sulla funzione della tecno- burocrazia. Soprattutto, ha mostrato i rischi populisti che la dominazione esecutivista può incubare senza peraltro riuscire a neutralizzare. È la crisi economica che rilancia la politica e riporta al centro la questione del deficit democratico dell’Unione perché la risposta alle retoriche nazionaliste e anti-europeiste può venire solo dalla ripoliticizzazione delle questioni europee. Ha scritto Jürgen Habermas, su Repubblica qualche tempo fa, che «la prosecuzione dell’attuale politica radicalizza il circolo vizioso: quante più competenze Consiglio e Commissione si arrogano nella politica di consolidamento, tanto più questo governare a porte chiuse spinge i cittadini alla consapevolezza del crescente peso della tecnocrazia ».
Come negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, quando gli allora deboli Stati liberali europei furono travolti da crisi che non riuscirono a risolvere, anche gli attuali Stati democratici subiscono una nuova ondata di spirito scettico verso la democrazia. La tecno-burocrazia e la centralità del momento decisionale sono due fenomeni speculari di questa situazione. Nel primo caso, perché i tecno-burocrati contestano la capacità delle procedure democratiche di dare buoni risultati. Nel secondo caso, perché la riscossa del potere decisionale sconta una malcelata insoddisfazione verso i parlamenti, o perché troppo più attenti a rappresentare i partiti che a garantire maggioranze e stabilità di governo, o semplicemente perché la deliberazione allunga i tempi di decisione. La tensione messa a nudo da Renzi calza perfettamente con questa realtà. Oggi due poteri si contestano il ruolo dirigente in Europa: quello degli esecutivi e dei tecnici. Entrambi, sebbene per ragioni diverse, sono scettici verso le forme collettive di deliberazione, che restano ancora nell’ombra.

Repubblica 9.7.14
Vasco Errani
Il Governatore: “Non ho colpe ma le sentenze si rispettano anche politicamente”
“Non mi pento di nulla, rifarei tutto ma devo lasciare la regione”
di Giovanni Egidio


BOLOGNA. «Dove ho sbagliato? Non lo so, non chiedetemelo oggi. So però che c’è una sentenza di condanna in appello, e so che le sentenze si rispettano, anche politicamente. Quindi, me ne vado. Con enorme amarezza, penso possiate capirlo, ma me ne vado».
Alle 14 e 40 i giudici escono dalla camera di consiglio e leggono il dispositivo che infligge un anno di pena a Vasco Errani per “falso ideologico”. Nemmeno un’ora dopo, alle 15 e 30 esce il comunicato della regione a firma del governatore: “Mi dimetto ma rivendico la mia onestà”.
Lui è a Ravenna e da lì non si muoverà per tutto il giorno. Ma non è una decisione che nasce nel salotto di casa, nulla viene dettato di getto. «Chi mi conosce lo sapeva, e penso che ormai mi conoscano in tanti. Se c’era la condanna ero pronto a lasciare, questo era chiaro e deciso da tempo». Dimissioni irrevocabili, ovviamente, e pronte nel cassetto. «Non farò come Formigoni » aveva detto agli amici già nei mesi scorsi. Per questo non tornerà indietro, nonostante la segreteria nazionale del Pd gli abbia chiesto subito di ripensarci, nonostante Renzi gli abbia telefonato per ribadirgli tutta la stima. No, Errani non ci ripenserà. Figurarsi, nemmeno ha rimpianti per quel “falso ideologico” che macchia la sua carriera alla guida della regione rossa durata quasi 15 anni, nato da una dichiarazione spontanea che il governatore emiliano decise di inviare in procura.
Un autogol clamoroso, secondo i più. Una accusatio manifesta dopo una excusatio non petita, evidentemente, secondo i giudici. Insomma, un errore non da Errani. «Piano, piano. Da un punto di vista strettamente processuale è chiaro che se io non avessi spedito quella lettera per dimostrare la mia estraneità ai fatti, non sarei mai stato coinvolto in questa vicenda processuale. Quindi, se volete, voi chiamatelo pure un errore. Però resta il fatto che io rifarei tutto dalla a alla zeta, e questo vorrei che fosse chiaro. Perché un conto è la strategia, un conto sono io, la mia rispettabilità, il mio senso del dovere. E io, per senso del dovere, ho ritenuto giusto inviare quel testo ai giudici. Loro sostengono che io abbia mentito? Benissimo, rispetto la magistratura come ho sempre fatto e ne traggo le conseguenze. Però ricorro in Cassazione, com’è nel mio diritto. E tengo a precisare che in tutto questo processo non è mai stato dimostrato, dico mai, che una mia decisione o un mio atto abbia influito sull’erogazione di fondi alla cooperativa Terremerse presieduta da mio fratello. Io sono accusato di altro, sono accusato di aver ricostruito in modo mendace la procedura seguita dalla regione. Ma siccome continuo a pensare che non sia vero, mi appellerò». Per il giudice di primo grado, che si espresse nel novembre del 2012, il fatto non sussisteva. Tant’è che Errani Vasco venne assolto con formula piena. Poi la procura guidata da Roberto Alfonso decise di appellarsi, addirittura rilanciando. Un anno aveva chiesto in primo grado, due anni fu invece la richiesta in appello. «Errare è umano, perseverare è diabolico», commentò l’avvocato Gamberini, subentrato nella difesa di Erra- ni dopo che la fatidica lettera in procura era già stata inviata, e cioè i buoi erano già scappati.
Il mondo politico emiliano romagnolo non avrà molto tempo di riflettere sulla condanna al governatore di sempre, perché le dimissioni immediate aprono la via alle elezioni anticipate. Si sarebbe dovuto votare nella primavera del 2015, si voterà con ogni probabilità il prossimo autunno. Da qui ad allora cosa succederà? «Sinceramente non ho avuto modo di guardarci bene, comunque studieremo lo statuto e al solito rispetteremo le regole. L’unica certezza che avevo in questi giorni era che da condannato non potevo restare. E infatti non resterò. Della poltrona non mi interessa nulla, dell’onore delle istituzioni e del mio, invece sì».
Dal primo pomeriggio e fino alla tarda sera di ieri, sono continuati a piovere attestati di stima e telefonate di affetto, sostegno, solidarietà. Errani ha rappresentato a lungo il meglio del buon governo di sinistra, l’eredità del vecchio Pci sposata al riformismo emiliano. Perfino l’uomo del dialogo col nemico, voluto e riconfermato dallo stesso Berlusconi per presiedere la conferenza Stato-Regioni. Il leader indiscusso in Emilia, scelto anche da Bersani per affiancarlo in campagna elettorale alle ultime politiche, quando il Pd arrivò primo ma non vinse. Non è salito sul carro di Renzi dopo le primarie, Renzi però è salito da lui in Emilia per visitare le zone terremotate, riconoscendogli un “lavoro straordinario” nella riorganizzazione del dopo sisma. Ieri Errani è restato tutto il giorno a Ravenna, ma non è detto che ci rimanga a lungo.

Repubblica 9.7.14
Casson: “Si rispetti il senso civico e istituzionale di Vasco”
Renzi: “Innocente fino alla Cassazione” Linea garantista Dem
di Giovanna Casadio


ROMA. Giustizialismo addio. Il tam tam nel Pd parte subito, appena dopo la notizia della sentenza che condanna Vasco Errani per avere favorito il fratello. «Vasco, resta »: è l’appello via tweet, mail e con un sms di Matteo Renzi al “governatore” dell’Emilia Romagna. Che invece si dimette. Ma il premier-segretario impone una linea garantista. Non è solo mozione degli affetti. Con una nota Palazzo Chigi ricorda che «la Costituzione dice che un cittadino è innocente finché la sentenza non passa in giudicato ». Perciò anche al Nazareno, la sede del Pd, spiegano che «in questo caso, come per tutti gli altri», Matteo si atterrà alla Costituzione che prevede il terzo grado di giudizio cioè la Cassazione prima di definire qualcuno colpevole. Ed è il vicesegretario Lorenzo Guerini a diffondere un comunicato - e non è passata un’ora dalla decisione «irrevocabile » di Errani - :«Invitiamo Vasco Errani a riconsiderare le sue dimissioni da presidente della regione Emilia Romagna. Proprio le parole con cui ha motivato la sua decisione dimostrano il suo senso dello Stato e delle istituzioni. Tutto il Pd conferma la stima nei suoi confronti e nel lavoro svolto in questi anni».
Non è solo simpatia e amicizia. Errani, vecchia scuola comunista, è amico personale di Bersani. Ma ha fatto da ufficiale di collegamento tra l’ex segretario pd e Renzi, dopo le primarie del 2012, quando Pierluigi aveva vinto e però della carica di novità di Matteo il Pd non poteva già fare a meno nella campagna elettorale per le politiche 2013. Ma il nuovo profilo dei Dem suscita nel partito qualche perplessità. Tanto che qualcuno parla di “due pesi e due misure”: nei confronti di Giorgio Orsoni a Venezia o di Francantonio Genovese non si è andati troppo per il sottile. Paragoni che i renziani rifiutano. Alessia Morani, responsabile giustizia twitta la propria solidarietà a Errani. Ma l’elenco è lungo e va da Bersani («... una persona perbene, il miglior presidente che l’Emilia Romagna abbia mai avuto» a Chiti, da Fassino a Zanda, Cuperlo, Speranza. Ma, appunto, c’è anche chi come Felice Casson, ex magistrato e senatore dissidente, invita a non forzare Errani: «Il Pd rispetti il senso civico e istituzionale di Vasco». Insomma si vada a votare. Per i Dem è una grana non da poco. I 5Stelle in Emilia sono molto cresciuti. Di commissariamento neppure a parlarne. Stefano Bonaccini, segretario regionale e possibile candidato (come Matteo Richetti, e spunta anche il nome di Graziano Delrio) prevede elezioni a ottobre.

il Fatto 9.7.14
Errani condannato si vuole dimettere ma il Pd lo trattiene
Il governatore Dem dell’Emilia Romagna, ex bersaniano e ora renziano, si dimette dopo la condanna in appello a 1 anno per falso ideologico: “Carte truccate per favorire la coop rossa del fratello”
di Emiliano Liuzzi


Accadde tutto in un milione di euro. È quella la cifra che un giorno di fine estate la giunta regionale dell’Emilia Romagna elargisce sotto la voce di “aiuto alle imprese” e che oggi scuote il partito di Matteo Renzi (e di governo). Già, perché quel milione finì nelle casse della cooperativa Terremerse, presieduta da Giovanni Errani, fratello del più conosciuto Vasco, presidente della stessa Regione centrale per il potere delle coop, e che ieri è stato condannato a un anno per falso ideologico in relazione a quella vicenda. E, come se non bastasse la condanna, ha anche annunciato le dimissioni dalla carica.
IL PRESIDENTE della Regione che fu la più rossa d’Italia – in scadenza del suo terzo mandato e che, tra le altre cariche, è anche portavoce dei presidenti di tutte le Regioni e commissario straordinario per il terremoto – contestualmente alla lettura della sentenza ha lasciato la presidenza. Apriti cielo. Inusuale nel Paese dove neanche chi patteggia (vedi il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e lo scandalo Mo-se) molla la seggiola. Tanto inusuale che il Pd, forse preso in contropiede, gli ha chiesto, a tutti i livelli e nei suoi svariati cerchi magici, di ripensarci. Lo ha chiesto, indirettamente, Matteo Renzi, che ha chiamato Errani e gli ha ricordato come “nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio”. Si sono esposti, in solidarietà e attestati di stima che suonano come siluri ai magistrati, Graziano Del-rio, numero due del governo; Angelo Rughetti, sottosegretario; Stefano Bonaccini, già collaboratore di Errani (era numero uno del Pd in Emilia Romagna) e oggi uno dei più accaniti renziani di lotta e di segreteria; il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda; Gianni Cuperlo, leader di Sinistradem. E ancora: Vannino Chiti, oggi disturbatore di Renzi ma già governatore della Toscana, Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio e quello della Toscana, Enrico Rossi. Al fianco del presidentissimo Errani anche la voce dei sindaci dell’Emilia e della Romagna che furono rosse, quella di Matteo Richetti, oggi influente dirigente del Pd e in passato presidente del Consiglio regionale. E, ovviamente, non per ultimo (è stato il primo a pronunciarsi) Pier Luigi Bersani che, quando era presidente lui della Regione, scelse Errani come vice e che lo volle, in seguito e tempi assolutamente più recenti, anche in quella corsa, poi fallita, alla presidenza del Consiglio dei ministri. Tutti, a gran voce, ripetono che Errani è “una persona perbene”. Cosa che neppure i giudici, probabilmente, mettono in dubbio: gli contestano quel milione di euro di soldi pubblici elargiti al fratello e un chiarimento che, a loro avviso, è falso. Ieri, in appello, è arrivata la condanna. Una condanna che gela il partito di Renzi proprio mentre il cammino verso quelle riforme si fa sempre più difficile, all’interno del Pd stesso, ma anche di quelli guidati dagli alleati Silvio Berlusconi e Angelino Alfano.
Una doccia fredda che ha prodotto uno scossone non nella sentenza, più o meno prevedibile, ma per la reazione di Errani che aveva annunciato le dimissioni in caso di condanna e che così ha fatto. Reazione che potrebbe apparire anche normale, magari non in Italia dove le cariche non si mollano. Soprattutto mentre un agitatissimo Renzi cerca a destra e a manca, ma soprattutto a destra, di salvare il suo disegno per riscrivere la Costituzione.
DIMISSIONI che la legge Severino non prevede: il falso, infatti, non è tra quelle accuse che porterebbe Errani dritto alla decadenza. Che senso ha andarsene? Soprattutto lui che è stato il plenipotenziario tra i presidenti delle Regioni, il primo a essere eletto per tre volte consecutive sollevando un polverone che arrivò a far litigare i costituzionalisti. La legge, infatti, prevede “la non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del presidente della giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto”. Ma secondo altro opinioni – i motivi per cui sia Errani che Roberto Formigoni in Lombardia hanno potuto svolgere il loro mandato tris – l’effettivo divieto di rielezione viene posticipato al 2015.
CONTESTATO, ma richiesto a gran voce, Errani si fa rieleggere. E non solo. Due anni fa si trova in un colpo solo a essere il responsabile della campagna elettorale dell’aspirante presidente del consiglio Bersani, il presidente della giunta dell’Emilia Romagna, il responsabile della conferenza delle Regioni e, per ultimo, commissario straordinario per l’emergenza del terremoto. Con l’uscita di scena di Bersani tramonta anche la stella Errani, fiducioso di terminare il mandato e in attesa, probabilmente di altri incarichi. Almeno fino a ieri, quando viene condannato e si dimette. Renzi fa chiedere che rimanga, lui probabilmente non ritirerà le dimissioni. E a quel punto, dopo una breve reggenza affidata alla sua vice Simonetta Saliera , si andrebbe a elezioni con due candidati probabili: Matteo Richetti o, in alternativa, Stefano Bonaccini. Questo vorrebbe dire per Renzi prendere uno dei feudi del partito che, insieme alla Toscana guidata da Enrico Rossi, ancora non ha perfettamente sotto controllo.

il Fatto 9.7.14
Quel milione alla coop del fratello
Guai anche per la relazione falsa sulla vicenda “Terremerse”
di E. Liu.


Secondo quanto ricostruito in primo grado dal pubblico ministero della Procura di Bologna, Antonella Scandellari, Vasco Errani nell’ottobre 2009 avrebbe istigato due funzionari regionali, Filomena Terzini e Valtiero Mazzotti (anche loro assolti in primo grado e in appello condannati ieri insieme al presidente della Regione Emilia Romagna a un anno e due mesi), a compilare una relazione falsa sulla vicenda Terremerse e su una delibera della Regione che tre anni prima aveva assegnato alla piccola cooperativa guidata dal fratello di Errani, un milione di euro. Soldi che restano agli atti, dunque non negabili, ma giustificati in seguito con una relazione (inviata poi anche ai magistrati della stessa Procura e letta al consiglio regionale) che secondo l’accusa sarebbe stata falsa.
NON SOLO. Secondo la pm e secondo i giudici, una relazione che viene scritta con l’obiettivo di depistare eventuali indagini che si sarebbero potute aprire (e che infatti partirono subito) sulla vicenda che riguardava il fratello Giovanni. La vicenda, quando emerge, non disturba più di tanto gli assetti delle istituzioni. Errani, che si è sempre proclamato innocente, assume l’avvocato Alessandro Gamberini, già avvocato di fiducia di Adriano Sofri nel processo per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, e promette: “In caso di condanna mi dimetterò”.
LE STRADE degli indagati (in tutto cinque) si separano quando il giudice per le indagini preliminari chiede il rinvio a giudizio. Errani fratello e un altro dirigente della cooperativa scelgono la strada del dibattimento ordinario, il presidente della Regione e i suoi due funzionari chiedono il rito abbreviato. Il processo viene celebrato nel 2012: tutti assolti. Ma quando il pubblico ministero legge le motivazioni della sentenza, depositate il 5 gennaio del 2013, fa ricorso. Anche perché la sentenza appare quantomeno contestabile. Nelle 43 pagine il giudice Bruno Giangiacomo non nega che ci sia stato il passaggio del milione di euro, non nega neanche una totale estraneità del presidente della Regione, ma non ci fu da parte di Vasco Errani istigazione a scrivere il falso. Inoltre, anche la parentela tra Vasco e Giovanni, sarebbe rimasta, secondo lo stesso giudice, solo “uno spunto d’indagine”, “al più un indizio”.
Insomma le imprecisioni scritte in quella relazione del 2009 non erano state dolose e non intendevano sviare eventuali indagini.

La Stampa 9.7.14
Chiude l’ultimo pezzo della “ditta”
Renziani pronti alla successione
Richetti e Bonaccini in pole position per le elezioni anticipate
di Roberto Giovannini

qui

Il Sole 9.7.14
L'addio di Errani (con l'onore delle armi) è più politico che giudiziario
di Stefano Folli


Un epilogo personale che dice molto anche sulla storia di un Pd in via di trasformazione
Le dimissioni del presidente dell'Emilia Romagna, Vasco Errani, dopo la condanna in appello a un anno per falso ideologico, rappresentano un evento politico tutt'altro che secondario. Il personaggio ha avuto un ruolo di primo piano nella storia del post-comunismo italiano. Per quindici anni al vertice della regione "rossa" per eccellenza, a lungo presidente della conferenza Stato-Regioni, un rango elevato nel suo partito, amico di Bersani ma rispettato e stimato dai "renziani": il ritratto di Errani è ben descritto da questi particolari e altri se ne potrebbero aggiungere.
La condanna in appello nel processo "Terremerse" è giunta dopo un'assoluzione in primo grado e ha lasciato il segno nel Partito Democratico. Intorno ad Errani si è creato subito un cordone di solidarietà, gli attestati di stima si sono moltiplicati. La segreteria del Pd gli ha chiesto "pro forma" di ritirare le dimissioni, peraltro date di slancio dall'interessato subito dopo aver avuto notizia della sentenza giudiziaria.
E qui naturalmente sono affiorate le polemiche. Come mai, si è domandato qualcuno, questo grande abbraccio a Errani quando invece il sindaco di Venezia, Orsoni, è stato abbandonato al suo destino appena poche settimane fa? Perché il "garantismo" a intermittenza? Ma la questione è mal posta e il parallelo non regge. Essere garantisti, soprattutto nel Pd, non significa essere ciechi o incapaci di distinguere le situazioni sul piano giudiziario e politico. Errani è un pezzo della storia vivente del Pd, così come ha preso forma in anni travagliati. Quale presidente dell'Emilia Romagna ha tutelato grandi e compositi interessi, ma sulla sua onestà personale in tanti sono disposti a giurare, amici e meno amici.
La vicenda di Orsoni è tutt'altra e rinvia alla storia oscura del Mose. Inoltre l'ex sindaco di Venezia tentò di restare in carica dopo il patteggiamento, lanciando obliqui segnali a chi era in grado di intenderli. Errani, viceversa, ha avuto l'intelligenza di lasciare la sua carica senza esitazioni, pur proclamando la propria innocenza. A Bologna, dopo tre lustri di governo, la sua parabola era comunque conclusa e ora il ricorso in Cassazione servirà a restituirgli l'onore (e con esso magari un nuovo incarico) oppure a consegnarlo all'oblìo politico.
In ogni caso fra Errani e Orsoni il paragone non è possibile e chi si sorprende per il diverso trattamento riservato dal Pd ai due amministratori dimostra di non avere il senso delle proporzioni. Piaccia o no, il garantismo è sempre legato alle circostanze, al peso dei personaggi in questione, alle loro storie politiche e umane.
Di fatto però l'uscita di scena di Errani, pur con l'onore delle armi, segna una nuova svolta nel Pd. Il partito dei "quadri" e del potere locale, il partito che per decenni è stato la spina dorsale del Pci, poi Pds, Ds e ora Pd subisce un altro "shock". Dopo la sconfitta elettorale a Livorno e in altre storiche località, la coperta tradizionale diventa sempre più corta. La condanna penale c'entra fino a un certo punto, benché in passato forse non ci sarebbe stata. Ma l'incidente giudiziario, in fondo minore, è sovrastato dal lento smottamento politico. Si capisce che il centrosinistra sta cambiando fisionomia e la nuova fase appartiene ad altri protagonisti. Il "renzismo" va di corsa e magari finirà per deragliare, ma lo farà con un diverso stile e soprattutto altri volti.

il Fatto 9.7.14
Il verso e il vizio
di Antonio Padellaro


Vasco Errani, governatore Pd dell’Emilia Romagna al terzo mandato, viene condannato in appello a un anno con la condizionale per falso ideologico: secondo l’accusa, dopo aver finanziato con fondi pubblici la coop del fratello con un milione di euro per la creazione di una cantina non completata nei termini previsti dal bando, avrebbe indotto due funzionari regionali a certificare la correttezza dell’operazione. Appresa la sentenza, Errani si dichiara innocente, ma rassegna le dimissioni e dice: “Davanti a tutto, l’onore della Regione”. La vicenda potrebbe chiudersi qui, dimostrando una volta tanto che il nesso tra causa ed effetto e tra condanna e dimissioni vale anche per la casta della politica. Non sia mai. Immediatamente il Pd si scioglie in un coro commosso di solidarietà e calde lacrime vengono versate ricordando le virtù eroiche di Errani, neanche fosse Silvio Pellico tradotto nelle segrete dello Spielberg. Non è finita, perché subito dopo Orfini, novello presidente democrat, dà finalmente un senso al suo incarico e “auspica il ritiro delle dimissioni”. Fassino, sindaco di Torino, lo invita virilmente alla resistenza: “Resta al tuo posto”. Taddei, responsabile economico, lancia un hashtag struggente: “Forza Vasco ripensaci”. Infine scende in campo lo stesso Matteo Renzi che, attraverso la segreteria, ridotta a puro organismo ventriloquo, invita il governatore “a riconsiderare il suo gesto” come se il poveretto fosse stato colto da un momento di follia. C’è poco da ridere: nell’era renziana la questione morale viene sostituita da due semplici regolette. Primo: le dimissioni di Errani possono stabilire un pericoloso precedente, e così come i quattro viceministri e sottosegretari indagati sono rimasti intrepidi avvitati alle loro poltrone, Vasco non fare scherzi. Secondo: Errani resista, resista, resista poiché nel nuovo Senato di Renzi-Berlusconi-Napolitano l’immunità serve proprio a salvare la ghirba all’esercito di indagati e condannati provenienti dalle Regioni. Renzi cambia il verso, ma non perde il vizio.

l’Unità 9.7.14
Jobs Act, che senso ha tornare a dividersi sull’Articolo 18?
di Luigi Mariucci


IL DISEGNO DI LEGGE DELEGA SUL MERCATO DEL LAVORO (COSIDDETTO JOBS ACT) PUÒ PRENDERE DUE DIREZIONI DIVERSE. IL PRIMO INDIRIZZO, CHE DEFINIREI «CONCRETISTA», va nel senso di segnare una linea di netta discontinuità con la legislazione dell’ultimo ventennio sulla flessibilità del lavoro che ha prodotto, in termini di tasso di disoccupazione e crescente precarizzazione, i disastrosi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Qui si tratta di mettere mano agli strumenti utili a incentivare una occupazione quanto meno «decente» e a contrastare le crescenti diseguaglianze e frammentazioni del mercato del lavoro. Vanno in questa direzione, ad esempio, gli interventi diretti ad estendere il grado di copertura del sostegno al reddito per quanti cercano lavoro; a costruire un sistema di servizi pubblici dell’impiego degni di questo nome, con una agenzia nazionale capace di raccordarsi con i centri per l’impiego che funzionano e di surrogare quelli che non funzionano, diffusi, ahimé, soprattutto dove più servirebbero; a introdurre una disciplina del salario minimo, che potrebbe realizzarsi estendendo ergaomnesi minimi retributivi dei contratti nazionali di lavoro e prevedendo meccanismi di determinazione dell’ «equo compenso» per i lavoratori parasubordinati o semi-autonomi; ad elaborare un testo unificato delle tipologie contrattuali, sfrondando l’attuale giungla dei contratti atipici e precari e incentivando la stabilizzazione dei rapporti di lavoro.
Il tutto guardando, appunto, ai problemi reali, e restando distanti da ogni forma di feticismo legislativo, nella consapevolezza che qualche buon intervento normativo e soprattutto una forte innovazione sul piano delle politiche attive del lavoro possono aiutare la ripresa dell’occupazione, ma non sono certo risolutivi, in mancanza di robusti interventi anticiclici di politica economica e industriale e di una radicale modifica degli orientamenti dell’Unione europea per cui il governo italiano sta giustamente battendosi.
L’altra linea è quella che non può definirsi che «ideologica», perché stancamente ripetitiva degli stereotipi sulla «flessibilità» (ovvero sulla riduzione delle tutele) del lavoro come strumento di incremento occupazionale. Una linea e una retorica che da tempo ormai immemorabile affliggono la legislazione del lavoro e il dibattito pubblico, senza che si sia verificato alcun risultato apprezzabile, se non –appunto- l’innalzamento contestuale del tasso di disoccupazione e di precarizzazione. Questa linea ripropone ovviamente il tema dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non paghi del fatto che le modifiche già introdotte dalla legge Fornero, su cui si sono spesi mesi e mesi di discussione, non abbia prodotto alcun effetto positivo, e anzi abbia reso forse più complicata la vita alle imprese e ai lavoratori.
Tale indirizzo ha preso da ultimo la forma, nel dibattito in corso al Senato, di un bizzarro emendamento con il quale si vorrebbe dare al governo nientemeno che la delega a modificare una cinquantina di norme del Codice civile, quelle in cui è stabilita la disciplina fondamentale del contratto di lavoro. Il tutto senza definire apprezzabili criteri e principi, e quindi, letteralmente, «in bianco». È la linea che testardamente persegue nell’idea, innumerevoli volte ormai smentita dai fatti, per cui ciò che serve è il lavoro volatile, alla carta, reso totalmente dipendente dalle esigenze immediate dell’impresa. Salvo, subito dopo, discettare allegramente di «partecipazione » e «coinvolgimento» dei lavoratori, ed elaborare in proposito complessi disegni normativi, come se la cooperazione non richiedesse la realizzazione di un pre-requisito essenziale: la ragionevole stabilità e (auspicabilmente) la qualità del lavoro.
Si spera che il Senato voglia resistere a questo tentativo di stravolgere il senso del disegno di legge governativo, poiché è evidente che tra le due prospettive indicate nessun pasticcio compromissorio è possibile. Bisogna scegliere la giusta direzione di marcia.

Il Sole  9.7.14
l dibattito sul Jobs act
Restano le divisioni: le parti al lavoro per trovare un'intesa entro martedì
Contratti, il governo prende tempo
Prosegue il confronto su tutela dei licenziamenti e «protezione crescente»
di Giorgio Pogliotti


ROMA Sul Jobs act restano le divisioni: maggioranza e governo hanno deciso di accantonare il nodo relativo al riordino delle forme contrattuali (articolo 4), e in particolare al contratto a protezione crescente che impatta sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Gli emendamenti all'articolo 4 verranno votati martedì prossimo, il rinvio servirà per cercare di trovare una posizione comune: domani ci potrebbe essere una nuova riunione. Non è servito, dunque, il vertice che si è svolto ieri mattina alle 8 a Palazzo Madama tra i capigruppo della maggioranza in commissione Lavoro, il ministro Giuliano Poletti (Lavoro), accompagnato dal sottosegretario Teresa Bellanova. Il "pallino", a questo punto, lo ha in mano il governo. Da un lato c'è l'area centrista della maggioranza - ovvero Nuovo centro destra, Scelta civica, Popolari per l'Italia, Unione di centro e Sudtiroler Volkspartei - che sostiene l'emendamento presentato da Pietro Ichino che ripropone la premessa del Dl Poletti (legge 78), sull'adozione del testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente, senza alterare l'attuale articolazione delle tipologie contrattuali. In sostanza l'oggetto della delega non è il contratto unico, nè un contratto aggiuntivo, bensì il contratto a tempo indeterminato per il quale si propone che, in caso di licenziamento, la tutela reale dell'articolo 18 sia sostituita dal pagamento di un'indennità di importo proporzionale all'anzianità di servizio. La reintegra resta confermata solo per i licenziamenti discriminatori. Dall'altro c'è il Pd, che sostiene la sperimentazione del contratto di inserimento a protezione crescente, che comporterebbe il congelamento della protezione dell'articolo 18 solo per un periodo di prova, per i neoassunti, che una volta stabilizzati godrebbero delle stesse tutele degli altri lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato. Ha cercato una mediazione Stefano Lepri (Pd), con un emendamento che propone di sperimentare il contratto a tutele crescenti per i giovani e i lavoratori da ricollocare. Ma questo tentativo è stato bocciato dai senatori del Pd e degli altri partiti della maggioranza.
Accantonato l'articolo 4, la commissione Lavoro ha iniziato ad esaminare gli emendamenti agli altri articoli (1, 2, 3 e 5), che contengono le deleghe al governo in materia di ammortizzatori sociali, politiche attive, semplificazione delle procedure, maternità e conciliazione dei tempi di vita e lavoro. La gran parte degli emendamenti, tuttavia, sono stati sottoposti al vaglio della commissione Bilancio, per verificare l'esistenza o meno di problemi di copertura. È stato approvato, invece, l'emendamento presentato da Serenella Fucksia (M5s) che ha esteso la delega al governo in materia di semplificazione delle procedure e adempimenti anche all'igiene e alla sicurezza sul lavoro. Il rinvio del voto sull'articolo 4 potrebbe far slittare alla terza settimana di luglio l'esame del Ddl da parte dell'Aula.

Repubblica 9.7.14
“Margherita, la gestione opaca di Lusi faceva comodo ai vertici del partito”
di M. E. V.


ROMA. Era un «sistema opaco» quello che ha portato alla appropriazione di 25 milioni da parte dell’ex tesoriere della Margherita. Nelle motivazioni della sentenza con la quale, il 2 maggio scorso, Luigi Lusi è stato condannato a otto anni di carcere, i giudici parlano del sistema di gestione dei fondi da parte del partito. Cose non «penalmente rilevanti», scrivono, e poi le considerazioni «di carattere etico e politico non attengono a questo tribunale ». Nondimeno, ai giudici appare necessario sottolineare «l’opacità dei pagamenti e le modalità non ortodosse» per «evidenziare come l’attività di appropriazione - questa sì illecita - attribuita a Lusi, abbia potuto facilmente realizzarsi, rimanendo per lo più occulta, proprio grazie a un sistema che aveva necessità, ad altri fini, di scarsa trasparenza e controlli superficiali». Un contesto che ha permesso a Lusi «di trovarsi la strada spianata».

Repubblica 9.7.14
Vietato allattare in Aula “Noi costrette a scegliere tra i figli e la politica”
La protesta della neodeputata Vanessa Camani E sui diritti delle donne l’Italia fanalino di coda in Europa
di Vera Schiavazzi


PRIMA , i tempi non erano maturi perché nell’austero palazzo di Montecitorio una parlamentare potesse allattare, partecipare ai lavori con un neonato tra le braccia o lasciarlo in un nido. Ma a distanza di anni, il ritardo continua e le parlamentari, vertiginosamente aumentate nell’ultima legislatura in seguito all’onda rosa (più 33 per cento), rischiano se sono anche madri di non avere diritto né ad allattare i figli né a un servizio di nursery che li custodisca sul luogo di lavoro. Così, l’Italia resta il fanalino di coda, mentre a Strasburgo le eurodeputate con i neonati possono sedersi in aula e partecipare al dibattito e alle votazioni con nonchalance, come hanno già fatto l’italiana Licia Ronzulli e la danese Hanne Dahl. A Parigi c’è un nido sia all’Eliseo sia all’Assemblée National, e in Canada e in Svezia l’assistenza è garantita come in tutte le grandi aziende, e l’allattamento al seno favorito. A Roma invece la protesta per l’assenza di servizi stavolta parte da Vanessa Camani (Pd).
Uno “spazio attrezzato” era stato annunciato nel mese di giugno, ma per ora si continua con i sopralluoghi e dei locali non c’è traccia. I diritti delle onorevoli si sbriciolano. E la nursery alla Camera è una chimera annunciata a più riprese. Marina Sereni, vicepresidente a Montecitorio, ha seguito da vicino le richieste, e in qualche caso le proteste, delle colleghe. E si è data da fare per trovare spazi adeguati per consentire alle mamme di stare insieme ai bambini, il tempo di una poppata o di un cambio, senza sentirsi «esiliate». Ma oggi l’ingresso è vietato in Aula ai piccoli. E la preoccupazione è che la Camera possa accogliere male la novità. «Non investiremo risorse permanenti della Camera in servizi per le deputate-madri - chiarisce Sereni - ma ci impegneremo per individuare spazi da attrezzare dove i bambini possano essere accuditi da una persona di fiducia della parlamentare (marito, nonna, babysitter, ndr .) che potrà incontrarli nelle pause dei lavori. Pensiamo soprattutto a chi non vive a Roma, e dunque deve dividersi tra famiglia e impegni parlamentari». Aiuta, nel lavoro dell’ufficio di presidenza, il punto di vista di deputate che, come la grillina Claudia Mannino, sono ancora alle prese con l’allattamento. «Abbiamo esteso il concetto di “missione” alle deputate in maternità - spiega Valeria Valente, presidente del Comitato Pari Opportunità della Camera - per consentire loro di non risultare assenti durante i cinque mesi che la legge italiana prevede per tutte le lavoratrici. Diversi sono i problemi delle dipendenti della Camera, 675 su 1442, di cui il nostro comitato si occupa: a loro serve un asilo o almeno una ludoteca in grado di accogliere i figli almeno durante le vacanze, un progetto più ambizioso. Ma nulla vieta che le deputate possano usufruire dei servizi per le dipendenti, o viceversa. Presenteremo un progetto nel nostro piano di azione triennale, tra pochi giorni».

Repubblica 9.7.14
“Pietro ha tre mesi, non posso lasciarlo con queste regole nessuna tutela”
di Concetto Vecchio


ROMA. «Mi hanno fermato in tanti, per chiedermi: “Allora, cosa pensi di fare: la mamma o la deputata?”. A tutti ho risposto: “Ma scusate, voi avete scelto tra il lavoro e l’essere genitori?”».
Onorevole Camani, quante volte è stata alla Camera dopo che è subentrata ad Alessandra Moretti?
«Una sola volta, il 25 giugno, il giorno della proclamazione, fermandomi anche l’indomani».
E perché rimane a casa?
«Perché i bambini non possono entrare a Montecitorio e io ogni tre ore devo allattare Pietro, che ha tre mesi. Pensavo di portarlo con me, e pure Anna, due anni, ma non c’è una nursery, né uno spazio bambini ».
Come mai non prende una babysitter?
«Ma la baby-sitter non allatta. Quando ho messo piede in Parlamento quelli del Pd sono stata gentilissimi, mettendomi a disposizione la sala Berlinguer, nel palazzo dei gruppi attiguo a Montecitorio. E lì ci siamo piazzati con il passeggino, i pannolini, i biberon, io, mio marito e un’amica: poi sono andata in aula, e loro sono rimasti lì ad attendere il mio ritorno. Ma non è una soluzione».
Non ha pensato a un nido, vicino al Parlamento?
«Ci ho pensato, certo, ma anche in quel caso si porrebbe il problema dell’allattamento. Ho deciso a malincuore che dopo l’estate smetterò di allattare, con Anna l’avevo fatto per un anno, ma è l’unico modo per iniziare almeno a settembre».
Madia è un ministro-mamma. Non è un esempio?
«Ma vive a Roma, io da Padova ci metto tre ore e mezzo in treno».
Quindi non va in Parlamento?
«No, fino a settembre rimarrò a casa, salvo che mi chiamino per i voti di fiducia. Ho la scorta di latte materno in freezer: per avere un’autonomia di un giorno e mezzo. Dall’autunno starò a Roma dal martedì al giovedì, e assumerò una tata».
Nel frattempo lei percepisce l’indennità.
«Vede, io faccio politica dall’età di 19 anni, militante Pds, segretario di sezione, capogruppo Pd ad Abano Terme, ora finalmente mi capita l’occasione della vita: avrei una voglia matta di cominciare».
Cosa prova?
«Dispiacere. Quando Anna era piccolissima ero consigliere comunale e ogni volta che chiedevo, dopo sei ore di aula, di differire la seduta mi sentivo rispondere: “Eh, dimettiti se non ce la fai”. La verità è che per le donne i limiti famigliari vengono ritenuti degli impedimenti all’attività politica».
Non è un Paese per le mamme?
«Non ci sono mai state così tante mamme a Montecitorio. Mai così tante giovani donne. Mi sono informata: quelle nelle mie condizioni sono rimaste tutte a casa. Per regolamento io risulto in missione, anche la burocrazia del Palazzo non contempla la maternità».

il Fatto 9.7.14
Precari contro sindacato: “Svenduti agli editori”
“Assalto” dei freelance nella sede della Fnsi: “altro che equo compenso, il segretario Siddi se ne deve andare”. Lui replica: “resto al mio posto”
di Chiara Daina


Ieri un centinaio di giornalisti precari hanno chiesto le dimissioni immediate del segretario della Federazione nazionale della stampa (Fnsi), Franco Siddi e di tutti i componenti della giunta esecutiva per aver siglato, assieme alla Fieg (gli editori) e Ordine dei giornalisti, una legge sull’equo compenso che prevede 250 euro lordi al mese. Davanti alla sede della Fnsi, in Corso Vittorio Emanuele a Roma, la tensione era scolpita sui volti e la rabbia si leggeva negli occhi. Freelance sottopagati, cassintegrati e disoccupati agitavano cartelli con su scritto: “Nessun giornalista è libero con 20 euro al pezzo!”, oppure “Il giornalismo non è un hobby” e “Il giornalista non è uno schiavo”. Poi una delegazione di manifestanti ha fatto irruzione nel palazzo ed è scoppiato un putiferio. Sono volati spintoni e Ciro Pellegrino, giornalista di Fanpage, promotore della protesta, si è portato a casa un livido sul braccio sinistro. “Non puoi parlare, tu hai un contratto, non sei un precario”: ha rinfacciato il segretario Fnsi al giornalista durante lo scontro. “Ho fatto tre anni di cassa integrazione, un anno da disoccupato e oggi difendo la mia professione” replica Pellegrino. Siddi difende il contratto: “Non sono uno stipendio 250 euro, ma un minimo che l’editore per la prima volta deve riconoscere a chi scrive almeno 12 articoli al mese da 1600 battute. Alcuni giornali oggi per la stessa lunghezza pagano appena 5 euro”. Per chi scrive sul web? “Denari non ce ne sono!” sbotta il segretario, che alla fine assicura: “Io di certo non mi dimetto. Fra quattro mesi scadrà il mandato e allora sarò lieto di cedere la palla a qualcun altro”.
A giochi fatti l’Ordine dei giornalisti tenta di prendere le distanze dall’“iniquo compenso” - così l’hanno ribattezzato i precari- e decide con la maggioranza dei voti (55 favorevoli , 27 astenuti e uno contrario) di ricorrere al Tar. “A dicembre avevamo proposto 60 euro lordi a pezzo ma poi la Fieg e il sindacato hanno fatto accordi sottobanco” si sfoga Pietro Eremita del Consiglio nazionale dell’Ordine. “È un contratto bidone, è un regalo agli editori, il sindacato ha legalizzato lo sfruttamento” gridano in coro i freelance di tutte le età. “Non è solo una lotta di categoria - spiega Valeria Calicchio, 33 anni, un lavoro negli uffici stampa visto che coi giornali non ci campava -, qui c’è in ballo la qualità dell’informazione e la democrazia del nostro Paese”. Mariella Magazu, 38 anni, del Coordinamento giornalisti precari e freelance di Roma mette in guardia da un altro problema: “Se un freelance costa così poco, l’editore sarà invogliato a fare meno contratti, mettendo a rischio chi oggi è assunto con articolo 1 e 2”. In tanti, per sbarcare il lunario, sono costretti a un secondo lavoro: “Non ho sabati, né domeniche libere - confida uno dei precari - lavoro sempre: di giorno faccio il giornalista, di notte sistemo gli scaffali al supermercato”.

il Fatto 9.7.14
Teatro Valle, in scena l’autogol di Marino
di Lorenzo Galeazzi


Come è triste la prudenza” recita lo striscione appeso nella sala settecentesca occupata tre anni fa da un collettivo di artisti e lavoratori dello spettacolo. Ed è quello che deve aver pensato Ignazio Marino quando, dopo mesi di silenzio, ha annunciato che il tempo è scaduto: “Il teatro Valle deve tornare libero”. Nessuna forma di mediazione e, una volta sloggiati gli attivisti, semaforo verde a una gara per assegnare il prestigioso palco nel centro della Capitale.
Eppure da metà giugno negli uffici del Comune di Roma c’è un corposo dossier, commissionato dall’amministrazione a un gruppo di esperti, che suggerisce delle soluzioni molto diverse: qualsiasi ipotesi sulla futura governance deve tener conto “dell’esperienza di gestione informale” degli occupanti e di quanto di buono “ha prodotto in termini di innovazione teatrale, culturale, gestionale e sociale”. Nello studio, che il Fatto ha letto in esclusiva, c’è scritto: “È importante consentire ai valori e all’esperienza che Tvbc (Teatro Valle Bene comune, il soggetto giuridico elaborato dagli occupanti, ndr) ha prodotto, di essere parte del codice genetico della futura soluzione gestionale”.
Sarà anche a causa delle dimissioni di chi aveva commissionato il rapporto, l’ex assessore alla Cultura Flavia Barca (che se n’è andata a fine maggio senza essere stata ancora sostituita), ma per il momento Marino ha deciso di tenere il rapporto in un cassetto. Così, venerdì scorso, annunciando l’indizione di una gara pubblica d’intesa col ministero delle Attività culturali, il primo cittadino ha intimato agli occupanti di “rendere al più presto disponibile la struttura per favorire il processo di rilancio del prezioso spazio culturale”. Parole che non sono piaciute al gruppo che autogestisce la sala: “Marino si assuma la responsabilità politica di sgomberarci con la forza pubblica”.
IL DOSSIER è stato commissionato lo scorso marzo dall’ex titolare della Cultura dopo l’impasse istituzionale generata dal rifiuto del Prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, di riconoscere la Fondazione Teatro Valle Bene comune come soggetto giuridico accreditato alla gestione della struttura. Assieme alla Barca, cinque esperti, Franca Faccioli (docente di Comunicazione pubblica), Mimma Gallina (consulente e organizzatrice teatrale), Christian Iaione (professore di Diritto pubblico), Alessandro Leon (presidente del Centro ricerche Problemi del Lavoro), Marxiano Melotti (docente di Sociologia della cultura) hanno fatto una serie di incontri con le principali istituzioni culturali della città fra cui Teatro di Roma, Filarmonica romana, Agis oltre che gli occupanti. Il risultato sono 97 pagine in cui si delineano soluzioni gestionali per il futuro dello spazio prevedendo un coinvolgimento degli attuali occupanti alla luce dei loro risultati. Quali? Per i “saggi”, il merito principale è di avere portato nuova gente a teatro, bilanciando così “l’illegalità determinata dall’occupazione” e “l’evasione dei diritti d’autore Siae”. Le ipotesi di gestione delineate sono tre: affidamento del palcoscenico al Teatro di Roma con “successivo finanziamento di progetti di valorizzazione triennali a soggetti nonprofit”; affidamento della sala a un “singolo ente nonprofit per un congruo numero di anni, a seguito di un bando di evidenza pubblica”; concessione della struttura a un “consorzio che includa le principali organizzazioni teatrali non riconosciute della città”. Peccato che Marino voglia un bando di gara puro e semplice, neanche rivolto a realtà del terzo settore, che, secondo fonti qualificate del Comune, ha tutte le sembianze di una privatizzazione.

Corriere 9.7.14
I media vaticani nelle mani di un lord
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Una maggiore armonia tra i media vaticani, un sistema di comunicazione sempre più moderno e planetario. Tra le riforme e i volti nuovi del Pontificato di Francesco trapela un nome clamoroso: quello di Lord Christopher Francis Patten,70 anni, rettore dell’università di Oxford (il primo «Chancellor» dell’ateneo fu Roberto Grossatesta, nel 1224) che fu l’ultimo governatore di Hong Kong fino al 1997 prima di diventare commissario europeo e, dal 2011 a due mesi fa, presidente della Bbc. Il Papa ha deciso di affidare a un gruppo di esperti interni ed esterni al Vaticano un progetto di riforma del sistema mediatico della Santa Sede, un comitato che verrebbe presieduto proprio da Lord Patten. La novità potrebbe essere annunciata già oggi. Osservatore Romano, Radio Vaticana, Centro televisivo, sala stampa, pontificio consiglio per la comunicazioni sociali, internet e social media: la galassia comunicativa vaticana è un apparato complesso, fatto di testate e realtà nate in tempi diversi che hanno la necessità, come ogni mass media del mondo, di puntare a un sistema armonico e a un aggiornamento continuo. Del resto si tratta anche di investire con maggiore efficienza le risorse. Una questione annosa, che tra l’altro aveva portato la Santa Sede a nominare nel 2012 un «advisor per la comunicazione», il giornalista Greg Burke, nella Segreteria di Stato. Ma ora si prospetta un intervento più radicale. Si è fatta anche l’ipotesi di un nuovo dicastero che assuma tutto quanto su di sé. Il profilo di Christopher Patten, considerata la sua esperienza, è apparso ideale per guidare un progetto così arduo. Lord Patten, politico conservatore, è un cattolico praticante: fu lui, nel 2012, ad organizzare il viaggio di Benedetto XVI in Gran Bretagna come incaricato speciale del premier britannico. Allora disse alla Radio Vaticana che il suo era il Paese più secolarizzato che un Pontefice avesse visitato: «Mi riferisco ad aspetti come la frequenza della partecipazione alla Messa e la misura in cui — così mi sembra — il desiderio di visibilità insieme all’agnosticismo e all’ateismo intellettuale hanno acquistato ampio spazio nell’agenda pubblica e dei media», considerava. «C’è una frase in un libro molto bello di Julian Barnes sulla morte, Nothing to be Afraid of . Barnes inizia proprio il libro con questa frase, in cui dice al fratello: “Non credo in Dio, ma mi manca!”. Credo che sia proprio questo il senso in cui molta gente, oggi, vive nel nostro Paese».

Il Sole 9.7.14
Le donne e la Chiesa
Le vie del Papa per la questione femminile
di Carlo Marroni


«La Madonna è più importante degli apostoli, la Chiesa è femminile, è sposa, è madre, e il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice... limitata. No, è un'altra cosa!!!». Così esclamava un anno fa papa Francesco durante il viaggio di ritorno dal Brasile, interpellato sul ruolo delle donne nella Chiesa. Un tema ricorrente nell'apostolato del papa argentino, che più volte ha messo la donna al centro dell'attenzione. Qualcosa sta cambiando? Il tema è affrontato e analizzato da Papa Francesco e le donne, un bel libro pubblicato dal Sole 24 Ore in collaborazione con l'Osservatore Romano, in edicola da oggi e per un mese insieme al quotidiano.
Il libro raccoglie tutti i testi in cui il Pontefice ha parlato della "questione femminile" nella Chiesa. Testi efficaci, profondi, sorprendenti, che hanno suscitato attenzione e che sono introdotti da due saggi di Giulia Galeotti e della storica Lucetta Scaraffia, firme di punta del quotidiano della Santa Sede, diretto da Giovanni Maria Vian, che da due anni pubblica un inserto mensile femminile.
«In un contesto di emancipazione femminile realizzato, quale è quello dei Paesi occidentali, l'atteggiamento della Chiesa sembra invece rovesciarsi. Soprattutto in una cultura in cui l'emancipazione delle donne è misurata sul libero accesso agli anticoncezionali e sulla legalizzazione dell'aborto, la Chiesa viene percepita come una nemica dell'emancipazione. A questo conflitto culturale si aggiunge - scrive Lucetta Scaraffia - l'assenza di donne nelle sfere decisionali della Chiesa, benché le religiose siano, almeno per ora, molto più numerose dei religiosi. Inoltre, esse sono in genere relegate in ruoli di sottoposte con compiti subalterni".
Gli ultimi dati disponibili, risalenti al 2012, dicono che le religiose cattoliche nel mondo sono 702.529, i religiosi (esclusi i sacerdoti) 55.314: a livello mondiale i maschi costituiscono il 7% della comunità religiosa cattolica. Le proporzioni cambiano se ai maschi religiosi sommiamo i vescovi (5.133) e i sacerdoti (414.313): in questo caso il peso femminile risulta ridimensionato, ma le donne rappresenta­no comunque il 60% della Chiesa consacrata, quindi un'ampia maggioranza. "Le donne nella Chiesa ci sono - scrive Giulia Galeotti - sono molte e fanno tantissimo (...) Eppure non contano. È incredibile la discrasia tra il reale impegno femminile nella Chiesa a tutti i livelli e il misero spazio che è loro lasciato ai vertici (...) Davvero - si chiede Galeotti a proposito degli uomini di Chiesa - non vedono oppure torna loro più comodo fingere di non vedere?".
Emblematiche appaiono le parole di suor Viviana Ballarin, che in passato ha guidato l'organismo da cui dipendono gli ordini femminili italiani: "È ancora raro che nella Chiesa siano affidati alle donne ruoli a più ampio respiro, di responsabilità, di decisionalità". La causa? Per Ballarin alla fine il nodo è un influsso culturale che "influenza e condiziona anche la Chiesa degli uomini. Ma non la Chiesa di Cristo". Parole coraggiose in un contesto "gerarchico" come quello ecclesiastico, che testimoniano come il dibattito sul tema sia franco e aperto, con prese di posizione decise.
In questo contesto sono provvidenziali le posizioni di Francesco che denuncia con una sincerità e un coraggio nuovi la condizione di subalternità in cui si trovano oggi le donne nella Chiesa. Dal libro emerge anche un'ansia di fondo, il timore che la straordinaria apertura del papa, per quanto forte e autorevole, da sola non sia sufficiente per un cambio strutturale e duraturo, che richiede una riflessione profonda a tutti i livelli. E infatti l'ultimo capitolo del libro si intitola "Un cantiere aperto", "un cantiere - scrive Scaraffia - di cui il Papa indica sempre più nettamente le caratteristiche. Cominciare ad affrontare la situazione dal punto di vista teologico significa muoversi in una direzione ben lontana da quella auspicata da chi pensa semplicemente che la Chiesa si debba adeguare al mondo, introducendo donne a tutti i livelli di potere di decisione".

“La donna per la Chiesa è imprescindibile”
Il rivoluzionario pensiero di Papa Bergoglio sulle donne
Papa Francesco e le donne
Edizioni Il Sole 24 Ore, Dal 9 luglio in edicola a 9,90 euro

«Papa Francesco, rivoluzionario per tanti aspetti, lo è anche per quanto riguarda la questione delle donne nella vita della Chiesa. Bergoglio denuncia con una sincerità e un coraggio veramente nuovi la condizione di subalternità in cui si trovano oggi le donne nella Chiesa, e chiede uno studio teologico approfondito per motivare una loro presenza più autorevole. Un approfondimento necessario non solo per risolvere la questione femminile, ma anche per riformare la Chiesa facendone il luogo dell`accoglienza, della compassione, dell`amore fraterno».
qui

La Stampa 9.7.14
Unhcr: “Dodici morti in un naufragio  al largo della Libia”
Tra le vittime tre siriani, tre eritrei e altri sei africani di nazionalità ancora  da determinare
L’imbarcazione trasportava più di duecento persone

qui

La Stampa 9.7.14
I ministri Ue prendono tempo sugli immigrati
di Francesco Grignetti


Molte parole, qualche vaga promessa, nessuna decisione. Anzi. «L’obiettivo è chiaro: noi lavoriamo - dice il ministro dell’Interno, Angelino Alfano - perchè l’agenzia europea Frontex subentri a Mare nostrum. Speriamo di raggiungere l’obiettivo il più presto possibile». I suoi colleghi europei hanno concesso ad Alfano che Mare nostrum è una splendida iniziativa, ma non è ancora il momento di far subentrare l’Europa. E’ un problema di spesa, ma anche di principio. Alla commissaria uscente Cecilia Malmstrom il compito di preparare una sorta di studio preventivo. «Ci metteremo con Alfano alla scrivania e vedremo quanti elicotteri, navi e uomini occorrono. Ma sia chiaro: Mare nostrum è una missione molto costosa, l’Agenzia Frontex è piccolina. Occorrerà l’impegno di tutti gli Stati membri».
Riunione informale, a porte chiuse, dei ministri Ue dell’Interno, a Milano. La prima a guida italiana. Si parla finalmente della grande marea umana che preme dall’Africa. I 27 vogliono rilanciare sulla cooperazione. Alfano però incalza i partner, richiamandoli ai 40 punti dell’impegno della Mediterranean Task-Force e incassa la promessa che in futuro Frontex si occuperà dell’intero Mediterraneo. Ma i tempi non saranno brevi. Per dirla col diplomatico linguaggio della Malstrom: «Abbiamo avviato una discussione su come far sì che Mare nostrum diventi un’operazione più europea attraverso il contributo degli Stati».
Anche in tema di immigrazione, i tedeschi si dimostrano i mastini d’Europa. Non soltanto il loro ministro dell’Interno Thomas De Maiziere ci ha invitati ad accogliere più rifugiati politici sul nostro territorio, dicendo che «la distribuzione dopo l’accoglienza nell’Unione europea non può rimanere in tre-quattro Stati, soprattutto Germania, Svezia, Austria e Svizzera», ma ha anche infierito: «L’Italia come Paese di prima accoglienza sente la fatica di accogliere tanti rifugiati. Ma i paesi di seconda accoglienza sentono l’ancor più grande fatica dell’integrazione». E ha concluso: «Abbiamo bisogno di una migliore solidarietà con altri Stati e di questo abbiamo parlato». De Maiziere ha comunque concesso ad Alfano che la Germania «se ci sarà un intervento a tempo nel Mediterraneo» è disponibile a partecipare. Da notare la sottolineatura sull’impegno «a tempo».

La Stampa 9.7.14
Gaza, nella notte 160 raid israeliani
Missili su Tel Aviv, suonano le sirene

qui

La Stampa 9.7.14
Attacco a Gaza con jet e droni
Sedici morti nella Striscia, anche civili
Razzi su Tel Aviv intercettati dallo scudo
di Maurizio Molinari

qui

l’Unità 9.7.14
Israele, raid su Gaza. Pronta l’invasione di terra
Netanyahu: «Ora via i guanti»
di Umberto De Giovannangeli


Israele sceglie il pugno di ferro. Il premier Netanyahu mobilita 40mila riservisti e lancia un pesante attacco aereo sulla Striscia di Gaza: almeno 14 le vittime tra i palestinesi. Torna l’incubo escalation: sul tavolo del premier anche l’invasione di terra.
Le bombe su Gaza. Le sirene d’allarme che risuonano a Tel Aviv. È di nuovo guerra in Terra Santa. È l’alba di ieri quando Israele dà avvio all’operazione «Protective Edge» (Bordo di protezione). Dopo le bombe israeliane su Gaza, la tensione esplode. Israele ha risposto ai razzi di Hamas con una pesante offensiva aerea e via mare. L’altra notte sono stati colpiti 50 obiettivi lungo la Striscia, tra questi anche cinque abitazioni civili che, secondo il portavoce militare israeliano appartenevano ad esponenti di spicco dei gruppi armati. Khan Younis, nel nord della Striscia, la più colpita: il bilancio è di almeno 14 morti e 20 feriti, tra loro anche due civili vittime dell’attacco dell’aviazione israeliana a Sajaya. Tra le macerie donne e bambini. Durissima la reazione di Abu Obeida, portavoce del braccio armato di Hamas, Brigate Ezzedinal Qassam,che minaccia: «Nelle prossime ore Hamas lancerà missili verso Tel Aviv e anche oltre». Da questo momento «tutti gli israeliani sono obiettivi legittimi », rilancia il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, «perché il massacro di bambini a Khan Yunis è un crimine di guerra orribile». Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) lancia invece un appello perchè «Israele cessi immediatamente la escalation» e chiede un intervento urgente della diplomazia internazionale.
STRADE DESERTE
 L’esercito israeliano intanto si prepara ad una massiccia operazione militare via terra. Il premier Netanyahu avrebbe già dato istruzioni all’esercito, secondo quanto scrive Haaretz, che cita una fonte ufficiale presente ad una riunione a Tel Aviv. Il Consiglio di difesa del governo israeliano ha autorizzato il richiamo di 40mila riservisti, oltre ai 1.500 già rientrati in servizio. Lo scrive il sito di informazione Walla. Intanto Gaza City si prepara all’ulteriore attacco. La cittàè deserta, gli uffici chiusi, poca gente anche ai mercati generali sempre affollati. L’altro ieri erano piovuti dal cielo volantini in cui l’esercito israeliano avvertiva la popolazione a tenersi a distanza dai terroristi. Il presidente palestinese ha chiesto a Israele di fermare «immediatamente» l’escalation dell’offensiva; ehaanche sollecitato la comunità internazionale a intervenire «immediatamente» per evitare che la regione piombi in una situazione di ulteriore «distruzione e instabilità». Immediata la risposta da Tel Aviv. Israele non interromperà la sua offensiva militare nella Striscia di Gaza fino a quando non cesseranno i lanci di razzi. A sostenerlo è il ministro per la pubblica sicurezza di Israele, Yitzhak Aharonovitch, aggiungendo in un’intervista televisiva che l’operazione «non finirà in un giorno e non finirà in due giorni. Ci vorrà del tempo». Quando gli è stato chiesto se sono in corso tentativi di negoziare un cessate il fuoco con i militanti di Hamas a Gaza, il ministro ha risposto: «Non adesso ». «Non tratteremo più Hamas con i guanti. Hamas ha scelto l’escalation e pagherà un prezzo pesante per averlo fatto », rilancia in serata il premier Netanyahu motivando così le nuove azioni di Tsahal nella Striscia di Gaza.
RIAPRONOI BUNKER
Stavano probabilmente preparando un grave attentato. Due uomini rana palestinesi, partiti da Gaza, sono stati uccisi in Israele presso la località di Ziqim (Ashqelon). Solo poche ore prima l’Iron Dome, il sistema antimissili israeliano, aveva intercettato un razzo diretto verso Tel Aviv e le zone limitrofe (a poco più di 60 km dal nord della Striscia di Gaza). Le sirene di allarme, che segnalano possibili attacchi con razzi, risuonano in tutte le città meridionali di Israele a causa del continuo lancio di razzida Gaza. Le autorità di Tel Aviv (a poco più di 60kmdalla Striscia), su istruzione dell’esercito, hanno cominciato ad aprire i rifugi antibomba in preparazione dei possibili lanci di razzi dall’enclave palestinese. Intanto, i voli in arrivo e in partenza dall’aeroporto internazionale Ben Gurion della capitale sono stati deviati su una rotta più a nord nel timore di missili lanciati da Gaza. Nel sud di Israele, i collegamenti ferroviari sono stati interrotti. Nove persone sono state curate in ospedale per le ferite riportate, mente in tutto il Paese si registrano numerosi casi di attacchi di panico.
E in questo scenario di guerra, il presidente americano Barack Obama si rivolge alle parti in un editoriale pubblicato in ebraico, arabo e inglese dal quotidiano israeliano Haaretz. Per invitare tutti a fermare le vendette, sottolineando come «la pace sia l’unica strada per ottenere una vera sicurezza».

l’Unità 9.7.14
Saeb Erekat, Il capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese
«Il mondo fermi Israele, non ci sono scorciatoie militari»
«Tornare al tavolo delle trattative sulla base del piano della Lega araba»
di U.D.G.


«Non c’è più tempo da perdere. Il mondo fermi la mano d’Israele e faccia pressione perché cessino immediatamente gli attacchi aerei. Una nuova invasione di Gaza sarebbe la tomba di ogni speranza di pace». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli della leadership palestinese: Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). «La sicurezza può essere garantita solo da un negoziato di pace, ha scritto Barack Obama (in un articolo su Haaretz, ndr). Sottoscriviamo questa affermazione del presidente americano. Ma le parole, per quanto importanti, non bastano a porre fine a questa nuova escalation di violenza. Obama agisca su Tel Aviv perché torni al tavolo delle trattative invece di coltivare l’illusione che esista una scorciatoia militare per cancellare nel sangue la questione palestinese».
I venti di guerra tornano a spirare a Gaza. Israele ha mobilitato 40mila riservisti, Hamas ha minacciato di lanciare razzi contro Tel Aviv. Siamo alla vigilia di una nuova prova di forza?
«Se così fosse sarebbe una sciagura dalle conseguenze devastanti. Una sciagura per la popolazione civile di Gaza, che ha già vissuto sulla propria pelle altre operazioni militari d’Israele. Quelle messe in atto da Israele sono punizioni collettive che vanno contro ogni legge internazionale. Mauna nuova guerra a Gaza sarebbe una sciagura anche per quanti, in Palestina come in Israele e nel mondo, continuano a battersi per la ripresa delle trattative e per una pace fondata sulla soluzione “due popoli, due Stati”. Violenza chiama violenza e la vendetta non è sinonimo di giustizia».
Ma da Gaza continuano ad essere lanciati razzi contro le città frontaliere del sud d’Israele, mentre è ancora vivo nello Stato ebraico il dolore per il barbaro assassinio dei tre giovani seminaristi.
«Il presidente Abbas ha usato parole chiare e forti per condannare l’assassinio dei tre giovani israeliani. Chi si è macchiato di questo crimine è un nemico della causa palestinese. Ma quel crimine non giustifica l’offensiva militare scatenata da Israele a Gaza. Questa non è la ricerca di giustizia è applicare una inaccettabile logica di rappresaglia. L’atroce morte del giovane Mohammed, bruciato vivo da estremisti israeliani, avrebbe dovuto far capire a Netanyahu che la vendetta può scatenare il peggio del peggio. Nei raid aerei israeliani di questi ore a Gaza sono morti anche donne e bambini. È questo Netanyahu lo considera un diritto di difesa?». Israele ha accusato Hamas dell’assassinio dei tre adolescenti. «E per punire i responsabili si giustificano i bombardamenti su Gaza? Questa è rappresaglia, non ricerca dei colpevoli di quel crimine».
Israele accusa il presidente Abbas di aver dato il via libera a un governo con «i terroristi di Hamas».
«Il negoziato non è entrato in crisi per la formazione del governo di unità nazionale ma per il rilancio della colonizzazione nei Territori. Il presidente Abbas è il garante del rispetto degli accordi sottoscritti dall’Autorità nazionale palestinese. Non siamo stati noi a venir meno a quelle intese. Il rilancio del processo di pace può avvenire sulla base del piano avanzato dalla Lega Araba. Quel piano significherebbe una svolta storica non solo nei rapporti fra Israeliani e palestinesi ma fra Israele e il mondo arabo. Il coraggio da sfoderare oggi non è quello di dichiarare guerra ma di “osare” la pace».
In un intervento pubblicato ieri dal quotidiano israeliano Haaretz, Barack Obama è tornato a sollecitare una soluzione al conflitto israelo-palestinese, sottolineando come «la pace sia l’unica strada per ottenere una vera sicurezza».
«È un’affermazione importante, ragionevole, male parole da sole non fermano le armi. Troppo tempo si è perso nel trascinare le trattative, e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace. Per questo torniamo a chiedere al presidente Usa di premere su Israele perché cessi immediatamente i raid su Gaza. È questa oggi la condizione minima per riaprire un tavolo negoziale».

Corriere 9.7.14
Il rischio di una guerra a tutto campo
Quello che nessuno vuole e può accadere
di Antonio Ferrari


Mai in Israele, negli ultimi decenni, la guerra — intendo una guerra vera, di cui tutti vedono l’inizio ma non immaginano né la fine né le devastanti conseguenze — era stata così vicina. Non era così vicina nel ’91, al tempo dei missili Scud di Saddam Hussein; non la era nella seconda intifada, quando non si contavano gli attentati-suicidi palestinesi che terrorizzavano Israele; non lo è stata neppure due anni fa, quando Israele aveva richiamato 70.000 riservisti per attaccare la Striscia di Gaza da terra.
Un passo che avrebbe rischiato di annullare l’operazione — smantellamento degli insediamenti ebraici deciso da Ariel Sharon. L’attacco non ci fu e il mondo respirò di sollievo.
Oggi è tutto molto più difficile ed estremamente pericoloso perché un eccesso, una provocazione, una tragica forzatura trascinerebbe tutti nell’abisso di un conflitto incattivito da un odio crescente e da un’incontrollata emotività: senza quel ricorso alla ragione invocato assieme, in Israele, dal presidente uscente Shimon Peres e da quello entrante Reuven Rivlin. Il passo verso il punto di non ritorno è lungo il tempo di un respiro, perché l’offensiva israeliana sulla Striscia, con il bombardamento di un centinaio di siti sensibili, e i missili che sono piovuti su Tel Aviv e su Gerusalemme, lasciano intendere quanto sia possibile lo scenario più terribile: una guerra a tutto campo, senza sapere che ci sia qualcuno in grado di fermarla.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta sicuramente affrontando la prova più difficile. Non essendo un uomo di guerra, come tanti suoi predecessori, è abilissimo nel minacciare, assai incerto nel decidere di assumersi rischi che potrebbero nuocere tremendamente a Israele. Compiacendo l’estrema destra del suo governo, probabilmente si è spinto troppo avanti nel concentrare accuse e propositi di vendetta contro Hamas, senza distinguere i fondamentalisti da altri estremisti concorrenti, ancor più feroci. Anche Abu Mazen, che aveva sperato, con fiducia assai velleitaria, in un governo di unità nazionale con gli storici avversari di Hamas, si ritrova più debole di prima.
La risultante è che tutti sembrano impotenti. Netanyahu sta conoscendo le più velenose insidie del potere: ha richiamato 40.000 riservisti, ma è troppo scaltro per pensare di impiegarli in un’operazione di terra a Gaza che potrebbe risolversi in una tragedia, con un costo insopportabile di vite umane. Anche se sa che l’irreparabile non è affatto escluso.
Eppure nel momento dell’allarme estremo, Israele non si sottrae alla lezione della propria coscienza. Orribile l’assassinio dei tre studenti ebrei, atroce la vendetta nei confronti di un ragazzo palestinese, catturato, obbligato a bere benzina, e poi bruciato vivo per vendetta. Lo Stato ebraico ha vinto guerre, ha compiuto vendette, i suoi militari hanno ucciso. Ma c’è qualcosa che l’israeliano medio non accetta: la violenza feroce e gratuita sui civili. Dopo la strage di Sabra e Shatila, quando i soldati di Tel Aviv voltarono la testa mentre i falangisti cristiani libanesi compivano il massacro, 400.000 israeliani scesero in piazza per gridare vergogna. Oggi la mano tesa tra i familiari di uno dei ragazzi ebrei uccisi e quelli del palestinese bruciato vivo danno forza alla speranza di uscire da questo incubo.

Repubblica 9.7.14
Donne e ragazzi tra le vittime palestinesi
Netanyahu, pugno duro su Gaza razzi di Hamas contro Gerusalemme
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. CENTO raid aerei in un giorno sono solo un “assaggio” dell’Operazione “Protective Edge” lanciata ieri notte dal Gabinetto di guerra israeliano per fermare l’ondata di missili che da giorni martellano il Sud di Israele.
CON le sirene di allarme che suonano lungo tutte le città circostanti la Striscia e migliaia di israeliani in fuga dalle spiagge. Nemmeno Gerusalemme è stata risparmiata dai missili: le sirene hanno suonato anche nella Città Santa. È l’escalation militare che nessuno a parole voleva e che invece avvolge nelle sue spire due milioni di palestinesi che abitano la Striscia e pagano un alto tributo di vittime civili perché i bombardamenti non sono mai chirurgici. Dei 17 morti nella Striscia, nove sono miliziani islamisti, ma almeno sei sono donne e bambini, e i feriti negli ospedali sono già un centinaio.
Hamas, rinfrancato dall’essere tornato sulla scena politica, nelle suoi proclami promette “l’inferno” a Israele. Ma i cieli della Striscia sono pieni di caccia, droni e elicotteri che volano come calabroni in cerca del loro bersaglio: gli artiglieri islamisti che si spostano da una zona all’altra a bordo di furgoni e piccoli camion. I missili però continuano a piovere su Israele. Ieri sera le sirene sono suonate anche a Tel Aviv e l’Iron Dome a “ombrello” della città ha intercettato il missile distruggendolo. Nel pomeriggio le sirene avevano suonato sulle poco distanti spiagge di Rishon Lezyyon provocando la fuga dei bagnanti. A Tel Aviv già nel pomeriggio l’Home Front Command aveva ordinato l’apertura dei rifugi pubblici e il richiamo di 2300 volontari della difesa civile. Emergenza anche all’aeroporto Ben Gurion, che dista solo 15 chilometri: i voli civili in arrivo e in partenza vengono deviati più a Nord.
«Toglietevi i guanti», ha ordinato il premier Benjamin Netanyahu ai generali che da giorni hanno iniziato ad ammassare truppe al confine di Gaza, invadendo i campi agricoli e i frutteti con i loro tank Merkava, i blindati di trasporto truppe, le batterie antimissile Iron Dome e le batterie di artiglieria da campagna. Sulla Statale 6 che porta a Sderot e poi al confine, una corsia è da ieri riservata ai mezzi militari. Perché ieri lunedì sera nelle case di 40mila famiglie israeliane è squillato il telefono: il capo di Stato maggiore Benny Gantz ha chiesto al governo il richiamo di 40mila riservisti in vista di un ampliamento delle operazioni militari, che potrebbero includere nei prossimi giorni anche l’invasione della Striscia. Un’opzione ad alto rischio, vista la conformazione della Striscia, l’alta densità abitativa e le migliaia di trappole esplosive. La maggior parte dei missili sparati ieri da Hamas è caduto in zone agricole, 12 diretti verso centri abitati sono stati intercettati.
Il raid più sanguinoso dei caccia con al Stella di David ha colpito una palazzina a Khan Younis, nel Sud della Striscia: sette i morti, tra cui due adolescenti, e 25 i feriti. L’obiettivo del raid era la casa dei Kaware, il cui capofamiglia è un capo di Hamas. Secondo i testimoni, un drone ha lanciato un missile illuminante in segno di avvertimento prima dell’attacco. Per tentare di dissuadere l’aviazione israeliana dal colpire, amici e vicini di casa di sono radunati davanti alla palazzina, ma poco dopo un caccia F-16 ha lanciato il missile che l’ha polverizzata. Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuri ha denunciato «il crimine orribile» e promesso che «adesso tutti gli israeliani sono diventati obiettivi legittimi». Un paio d’ore più tardi un missile Hellfire ha centrato una Toyota che aveva a bordo tre miliziani che avevano appena attivato una batteria di katiuscia. Intercettati anche due commando marini che si stavano infiltrando via mare ad Ashkelon: i due uccisi dalle forze di sicurezza israeliane erano armati di lanciagranate.
Il presidente palestinese Abu Mazen, che ha chiesto un’immediata cessazione delle ostilità, invoca un intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La Casa Bianca ha ieri sera deprecato il lancio di razzi da Gaza e da New York il segretario Ban Kimoon ha espresso la sua “preoccupazione” per questa escalation, la più grave dal novembre 2012. Allora per la prima volta Hamas sparò dei missili che si schiantarono alla periferia di Gerusalemme. A Tel Aviv i rifugi sono già attivi, quelli nella Città Santa sono pronti per essere aperti.

Il Sole 9.7.14
I limiti e i rischi dell'ennesima escalation
di Ugo Tramballi


La domanda è la stessa di tutte le altre volte: fino a dove si può spingere l'indiscutibile diritto di Israele a garantire la sua sicurezza? Perché come "Piombo fuso" fra il 2008 e l'inizio del 2009, e tutte le precedenti operazioni militari su Gaza, anche "Soglia di protezione" - così è stata chiamata dai militari la missione in corso - porrà Israele e i suoi amici nel mondo di fronte allo stesso dilemma.
Cinque anni fa morirono circa 1.200 palestinesi, due terzi dei quali civili; e 13 militari israeliani, quattro dei quali uccisi da fuoco amico. Almeno fino a ieri pomeriggio si registra la morte di 16 palestinesi: ancora dei civili fra loro. Un diritto fondamentale come la sicurezza non si misura sul calcolo delle vittime. Ma questo calcolo ha il suo peso, anche morale. Soprattutto perché il conflitto al quale stiamo assistendo è politico, religioso e fra due nazionalismi in competizione per lo stesso fazzoletto di terra. Ma soprattutto è una faida nella quale anche una sola vittima mette in moto la catena che porta a una guerra. Come Israele non può sopportare senza reagire la morte di un suo cittadino, così Hamas. E questa priorità supera ormai qualsiasi considerazione politica o strategica.
Il partito islamico non ha mai dimostrato di avere cara la popolazione civile di Gaza: è stato provato che spesso i razzi partono dai centri abitati; che i loro arsenali sono nel sottoscala delle case. Per pesante che ne sia il prezzo, la faida per loro è diventata un fortino imprendibile. Per quanto Israele bombardi o intervenga con la fanteria, la Striscia non potrà essere ridotta in cenere. Né militarmente occupata: è già stato fatto e non è servito a nulla. Cioè, è facile vincere la battaglia, impossibile la guerra.
Cinque anni fa Israele tenne sotto attacco Gaza per 23 giorni. Quando i soldati si ritirarono, la Striscia non aveva più un'economia e migliaia di abitanti non avevano più una casa. Poche settimane più tardi i Qassam ricominciarono sporadicamente a partire. Durante "Piombo fuso" Hosni Mubarak se ne andò in vacanza nella sua villa di Sharm el-Sheikh e Abu Mazen tacque: in Cisgiordania la vita era continuata normalmente.
Oggi le cose sono differenti in Medio Oriente. Il generale egiziano al-Sisi sta spendendo i suoi servizi segreti per mediare un cessate il fuoco. Ma se fallisse del tutto e "Soglia di protezione" mettesse in campo anche i 40mila fanti mobilitati, al-Sisi non potrebbe far finta di niente. Così Abu Mazen. Alle spalle degli israeliani schierati, la Cisgiordania non è più un luogo tranquillo: i segni premonitori di una nuova Intifada ci sono già stati. L'egiziano e il palestinese sono arabi moderati. Quale sarebbe la reazione nel resto del Medio Oriente? Regimi sotto assedio e milizie islamiche troverebbero la scusa perfetta per tornare a mettere gli occhi sul nemico comune.
Ripartendo le colpe fra israeliani e palestinesi per il fallimento del suo negoziato di pace, l'americano John Kerry aveva comunque chiarito che la colpa è stata più dei primi che dei secondi. Un accordo o quanto meno la continuazione della trattativa, avrebbe dimostrato la bontà delle ragioni dei palestinesi moderati: la pace aveva una posibilità. Fallito quel negoziato e tirando su Israele i suoi razzi, in qualche modo Hamas ha già vinto la sua guerra prima che la fanteria israeliana decida di avanzare.

Repubblica 9.7.14
Il discorso
Il dovere della speranza
Un paese ostaggio della disperazione ma io continuo a sognare la pace
di David Grossman


SPERANZA e disperazione. Ci sono stati anni in cui abbiamo oscillato fra le due. Oggi sembra che la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi si trovi in uno stato d’animo nebuloso, piatto, privo di orizzonte. In un torpore ottuso, in un’auto-narcosi.
AL giorno d’oggi, in un Israele avvezzo alle delusioni, la speranza (sempre che qualcuno vi faccia cenno) è immancabilmente insicura, un po’ timida, sulla difensiva. La disperazione invece è disinvolta, risoluta. Pare che parli a nome di una legge della natura o di un assioma che stabilisce che questi due popoli saranno per sempre condannati alla guerra e non avranno mai pace. Agli occhi della disperazione chi ancora spera, o crede, in una possibilità di pace è, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo o un visionario delirante, e, nella peggiore, un traditore che, irretendo gli israeliani con miraggi, ne indebolisce la capacità di resistenza.
In questo senso la destra ha vinto. È riuscita a instillare la sua pessimistica visione del mondo nella maggior parte degli israeliani. E si potrebbe dire che non solo ha sconfitto la sinistra, ma che ha sconfitto Israele. Non tanto perché questo suo modo di vedere le cose spinge lo stato ebraico a una condizione di paralisi su un terreno tanto cruciale per lui, dove servirebbero audacia e flessibilità e creatività, ma perché ha sconfitto quello che un tempo si sarebbe potuto definire «lo spirito israeliano»: quella scintilla, quella capacità di rinascere a dispetto di tutto. Ha annientato il nostro coraggio e la nostra speranza.
Nell’ambito più importante della sua esistenza Israele è quasi del tutto immobile, se non addirittura impotente. Stranamente, però, questa situazione non comporta una sofferenza visibile per i suoi leader e per gran parte dei suoi cittadini che sono bravissimi a compiere una netta separazione tra lo stato di cose esistente e la loro coscienza. Molti israeliani vivono così da molti anni, quarantasette per la precisione, e nemmeno troppo male, laddove di fatto, al centro del loro essere, c’è il vuoto. Un vuoto di azioni e di coscienza in cui si verifica un’efficace sospensione del giudizio morale.
Lo scrittore americano David Foster Wallace racconta di due pesciolini che, mentre nuotano in mare, incontrano un anziano pesce. Salve ragazzi, li saluta l’anziano, come va? Alla grande, rispondono i due. E l’acqua, com’è? Domanda il vecchio. Ottima, gli rispondono. Poi lo salutano e continuano a nuotare. Dopo qualche istante uno dei pesciolini domanda all’altro: dì un po’, ma cosa diavolo è l’acqua?
Ascoltate l’acqua. L’acqua in cui nuotiamo e che beviamo da quarantasette anni. Alla quale siamo talmente abituati da non percepirla. È la vita che scorre qui, ancora indubbiamente piena di vitalità e di creatività ma anche un po’ folle, con un’atmosfera caotica da saldi di fine stagione, da disturbo bipolare in cui mania e depressione si intrecciano, in cui la sensazione di possedere un grande potere si alterna a cadute di profonda debolezza. Una vita che scorre in una democrazia compiaciuta di se stessa, con pretese di liberalità e di umanesimo ma che da decenni si impone su un altro popolo, lo umilia e lo schiaccia. Una vita che scorre nel forte clamore dei media, in gran parte mirato a distrarre l’opinione pubblica e a intorpidire i sensi. Come si può infatti resistere in una situazione simile senza distrazioni, senza un po’ di autonarcosi? Come si possono affrontare, per esempio, le conseguenze della cosiddetta “opera di insediamento” e il pieno significato di questa folle scommessa sul futuro del paese? Ascoltate l’acqua: sotto la melma nella quale sguazziamo ormai da quarantasette anni c’è una corrente profonda e gelida: il terrore di un errore storico, di uno sbaglio madornale, di ciò che, sotto ai nostri occhi, sta assumendo la forma di uno Stato binazionale, o di uno Stato di apartheid, o militare, o rabbinico, o messianico.
Nella disperazione israeliana c’è anche uno strano elemento, una specie di gaiezza per l’imminente catastrofe, o per la delusione. Una sorta di gioia maligna nei confronti di chi ha visto deluse le proprie speranze. Una gioia particolarmente distorta perché, in fin dei conti, ci rallegriamo delle nostre stesse disgrazie. Talvolta sembra che nell’animo degli israeliani frema ancora l’offesa del 1993 quando, con la firma degli accordi di Oslo, osarono credere non solo che il nemico si fosse trasformato in un partner, ma che le cose avrebbero anche potuto andar bene qui, che un giorno saremmo stati bene. È come se avessimo tradito noi stessi - dicono i rappresentanti del partito della disperazione - per essere stati tentati a credere a qualcosa di totalmente contrario alla nostra esperienza, alla nostra tragica storia, a un qualche segno distintivo del nostro destino. E per questo abbiamo pagato e ancora pagheremo, con gli interessi. Ma per lo meno, da ora in poi, nessuno più ci coglierà in fallo, non crederemo più a niente, a nessuna promessa, a nessuna opportunità. E anche se Mahmoud Abbas si batterà con tutte le sue forze per prevenire il terrorismo contro gli israeliani, anche se proclamerà che verrà a Safed, sua città natale, unicamente come turista, anche se dichiarerà che la Shoah è il peggior crimine della storia umana e attaccherà ferocemente gli assassini dei tre ragazzi rapiti, il primo ministro israeliano Netanyahu si affretterà a versargli in testa un secchio d’acqua gelata.
È interessante notare che sebbene Israele abbia seriamente tentato la via della pace con i palestinesi soltanto una volta, nel 1993, è come se avesse deciso di rinunciare per sempre a perseguire questa possibilità dopo quel fallito tentativo. Anche qui entra in gioco la logica distorta della disperazione. La strada della guerra, dell’occupazione, del terrorismo, dell’odio, l’abbiamo provata decine di volte senza stancarci né scoraggiarci. Come mai invece ci affrettiamo a respingere definitivamente quella della pace dopo un solo fallimento?
Israele, naturalmente, ha molte ragioni di preoccuparsi, di stare in ansia. Ma proprio davanti a pericoli e minacce la disperazione e l’inazione non possono essere considerate una linea politica efficace. L’attuale governo israeliano, come i suoi predecessori, si comporta come se fosse prigioniero della disperazione. Non ricordo di aver mai sentito un discorso di seria speranza da parte di Netanyahu, dei suoi ministri e dei suoi consulenti. Nemmeno una parola sul sogno di vivere in pace, sulle possibilità racchiuse in un simile ideale, o sull’opportunità che Israele si inserisca in un intreccio di nuove alleanze e interessi in Medio Oriente. Come ha fatto la speranza a trasformarsi in un termine volgare, colpevolizzante, secondo per pericolosità soltanto a “pace”? Guardateci: il paese più forte della regione - una potenza, in termini locali - che gode dell’appoggio quasi inconcepibile degli Stati Uniti, della simpatia e del sostegno di Germania, Inghilterra e Francia, dentro di sé si considera ancora una vittima impotente. E si comporta come tale: vittima delle proprie paure, reali o immaginarie, delle atrocità sofferte in passato, degli errori di vicini e nemici.
Quale speranza ci può essere in una situazione tanto difficile? Una ce n’è, malgrado tutto. La speranza che, senza ignorare i pericoli e le numerose difficoltà, si rifiuta di vedere solo quelli. La speranza che, se le fiamme del conflitto si affievoliranno, potrebbero ancora emergere, a poco a poco, i tratti sani ed equilibrati dei due popoli sui quali comincerà ad agire il potere terapeutico della quotidianità, della saggezza della vita, del compromesso, di una sensazione di sicurezza esistenziale grazie alla quale poter crescere i figli senza la minaccia della morte, senza l’umiliazione dell’occupazione, senza la paura del terrorismo, e aspirare a un tessuto di vita semplice, familiare, fatto di lavoro e di studio.
Oggi, nei due popoli, agiscono quasi esclusivamente agenti di disperazione e di odio. Potrebbe essere quindi difficile credere che la visione che ho prospettato sia possibile. Ma una realtà di pace comincerà a forgiare agenti di speranza, di vicinanza e di ottimismo, che abbiano un interesse concreto e privo di risvolti ideologici a creare sempre più contatti con i membri dell’altro popolo. Forse, un giorno, fra molti anni, ci saranno un riavvicinamento più profondo e persino rapporti di amicizia tra questi due popoli. Tra questi esseri umani. Non sarebbe la prima volta nella storia.
Io mi aggrappo a questa speranza e la custodisco in me perché voglio continuare a vivere qui. Non posso permettermi il lusso della disperazione. La situazione è troppo grave per esse- re lasciata ai disperati e, accettarla con rassegnazione, sarebbe di fatto un’ammissione di sconfitta. Non una sconfitta sul campo di battaglia ma una sconfitta umana. Nel momento infatti in cui accettiamo che la disperazione ci governi qualcosa di profondo e di vitale in noi esseri umani ci viene negato, ci viene portato via. Chi segue una linea politica che, di fatto, non è che una sottile patina di rivestimento di un sentimento di profonda disperazione, mette in pericolo l’esistenza di Israele. Chi si comporta in questo modo non può sostenere di «essere un popolo libero nella nostra terra». Può forse cantare la Tikvah, la Speranza, il nostro inno nazionale, ma nella sua voce, al posto della parola «speranza», echeggerà «disperazione ». «Una disperazione di duemila anni».
Noi, che da moltissimi anni chiediamo la pace, continueremo a insistere sulla speranza. Una speranza consapevole e che non si dà per vinta. Che sa di essere, per israeliani e palestinesi, l’unica possibilità di sconfiggere la forza di gravità della disperazione. (Traduzione di Alessandra Shomromi)

Corriere 9.7.14
Gli ospiti con la kippah a casa di Mohammed «Proviamo vergogna»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Il necrologio sta adesso appeso vicino al sorriso di Mohammed. Moshe Samhovitch lo ha portato con sé e consegnato al padre. È venuto qui per ripetere di persona le parole che ha voluto pubblicare su Al Quds , il quotidiano palestinese: «Mi inchino davanti alla famiglia, agli abitanti di Shuafat e a tutto il vostro popolo. Provo vergogna per il terribile assassinio commesso da criminali senza cuore».
La visita non è inaspettata e all’inizio neppure benvenuta. Walid, cugino del padre, panettiere diventato in questi giorni di dolore il portavoce dei parenti, ha cercato di convincere i quattrocento israeliani a non presentarsi, a non stringere la mano di Hussein uno alla volta, a non abbracciarlo per sussurrargli frasi di conforto. Invece è successo. Prima un piccolo gruppo, seguito da una lunga fila. Scendono dall’autobus sulla strada che la notte è ancora il campo di battaglia per gli scontri con la polizia. Indossano la kippah di velluto degli ortodossi, quella all’uncinetto dei sionisti religiosi, coppie di giovani laici, anziani pacifisti che ancora sperano anche se hanno visto più guerre di tutti.
Scendono e nessuno li ferma. Quando dalla casa degli Abu Khudair una delle zie esce urlando «cacciateli via», Walid la zittisce «adesso sono nostri ospiti». Il primo contatto è stato teso: il palestinese ripete «i politici israeliani sono venuti senza chiedercelo, vogliono sfruttare l’occasione per farsi pubblicità, siamo contro il vostro governo», l’attivista ebrea lo rassicura «anche noi». Sotto la tenda del lutto si riunisce quella sinistra che si sente in colpa perché teme di non aver alzato abbastanza la voce: a sovrastare i cori da stadio dei tifosi del Beitar Gerusalemme («morte agli arabi»), a contrastare l’incitamento all’odio dei rabbini che insegnano nelle colonie, a smontare la propaganda antinegoziato della destra.
Le donne arrivate dall’altro mondo aprono il piccolo cancello di ferro verde, le foglie della vite fanno ombra alle signore velate che in questa settimana sono uscite solo per il funerale, quando il cadavere carbonizzato di Mohammed è stato restituito alla famiglia dopo l’autopsia: il ragazzino, 16 anni, è stato rapito dall’altra parte della strada, davanti al negozio di elettricista del padre, picchiato e bruciato vivo nella foresta attorno a Gerusalemme. Per l’omicidio — tra esecutori e complici — sono stati arrestati sei estremisti ebrei, tre di loro minorenni, che volevano vendicare la morte di tre ragazzi sequestrati e uccisi in Cisgiordania. «Gli israeliani venivano dalle colonie che ci circondano a fare la spesa, credevamo di poter convivere, adesso resta solo la paura», dice Ansam, 27 anni, cugina di Mohammed. Porta la keffiah bianca e nera che Yasser Arafat non toglieva mai ai tempi della seconda intifada. «Non so come reagire a questa visita, sento emozioni diverse, all’inizio li avrei mandati via, capisco che sono sinceri e vogliono compiere un gesto positivo».
Il padre di Mohammed resta con il sorriso smarrito che gli ha bloccato il volto, Moshe gli siede vicino. Il vecchio anarchico israeliano che ogni venerdì manifesta a fianco dei palestinesi contro il muro di separazione e il palestinese che di politica non si è mai occupato, i primi scontri li ha visti in questa settimana davanti a casa. Shuafat è quartiere borghese, l’ex premier Salam Fayad aveva scelto di abitare da queste parti, andava avanti e indietro dall’ufficio di Ramallah.
Il treno leggero non passa più. Le rotaie sono state mozzate dai manifestanti palestinesi con le seghe circolari, le pietre delle banchine trasformate in armi, le mappe con le fermate sbriciolate, la città dall’altra parte è un luogo senza nomi. Gadi Gvaryahu, portavoce dell’organizzazione antirazzista Tag Meir, è venuto per provare a dimostrare che quel tragitto comune è ancora possibile: «Bruciare un ragazzino è inaccettabile», dice ai parenti e agli uomini di Shuafat appena usciti dalla moschea dopo la preghiera del pomeriggio. «Siamo la generazione sopravvissuta all’Olocausto, dobbiamo urlare: mai più».

Corriere 9.7.14
Il timore che chiedere democrazia possa rovinare gli affari con la Cina
di Guido Santevecchi


Il rapporto trimestrale «Global Equity Insights» della Hsbc pubblicato lunedì si compone di 84 pagine. Di questi studi ne arrivano tanti con le email e spesso si archiviano senza leggerli. Questo ha fatto notizia, al di là dell’intenzione degli analisti della grande banca britannica. La frase era a pagina 23: «Riduciamo il mercato azionario di Hong Kong a underweight sulla base del flusso di notizie che arriva. Occupy Central , campagna per ottenere una più ampia democrazia, potrebbe guastare i rapporti con la Cina e danneggiare l’economia della City».
Per la verità, la gente di Hong Kong si sta battendo per difendere quel che resta della democrazia nella loro città: si è appena tenuto un referendum informale per sollecitare libertà di scelta dei candidati nelle elezioni del 2017 al quale hanno partecipato 800 mila dei sette milioni di cittadini del territorio ad amministrazione speciale. E il primo luglio in centinaia di migliaia hanno marciato per sostenere la libertà di parola, di stampa, un sistema giudiziario indipendente: tutte eredità negoziate tra Londra e Pechino prima della restituzione della colonia alla Cina nel 1997. Tutte forme democratiche negate al resto dei cinesi (che sono quasi un miliardo e 400 milioni) e ora sotto assedio.
La Hsbc, fondata proprio nella colonia come Hong Kong and Shanghai Banking Corporation nel 1865, ora teme che chiedere più democrazia possa rovinare gli affari e di fatto invita a vendere (questo leggono gli esperti quando si definisce un mercato underweight ). La grande banca è stata subissata di proteste sui social network , che a Hong Kong non sono censurati, a differenza del continente cinese. Riportiamo quanto ha twittato con humour britannico mr Gregor Stuart Hunter (@gregorhunter): «L’ironia è che è dura andare underweight a Hong Kong senza vendere Hsbc, la componente più grossa dell’indice azionario». In effetti la gloriosa istituzione di credito nel 2103 ha prodotto a Hong Kong 8,1 miliardi di dollari di profitti pre-tasse, il 36 per cento del suo totale sui vari mercati del mondo. In Cina, Hsbc ha prodotto altri 4,2 miliardi: queste cifre spiegano la sua doppia ansia di vedere Hong Kong tranquilla e mantenere ottimi rapporti con il governo centrale di Pechino.
Le critiche su Twitter hanno però spinto la banca a correggere il rapporto trimestrale. «Riduciamo la valutazione a underweight per il rischio del mercato immobiliare, il rallentamento degli arrivi di turisti dalla Cina, il collegamento del mercato locale con i tassi d’interesse Usa che la Federal Reserve potrebbe alzare l’anno prossimo». La democrazia finisce in fondo al ragionamento: «Notiamo anche preoccupazioni recenti riguardo a Occupy Central ».
Il Financial Times osserva che la banca si sarebbe potuta risparmiare la gaffe . Ma forse, più che una sintesi incauta da parte degli analisti, si è trattato di gioco sporco.
Il mese scorso è venuto fuori che Hsbc e Standard Chartered hanno smesso di fare pubblicità sull’Apple Daily , quotidiano hongkonghese schierato a favore del movimento per la difesa della democrazia e molto critico con Pechino. Le due banche sostengono di aver agito su basi di ritorno commerciale, ma dal giornale dicono che il consiglio è arrivato dalla Cina. E ancora: sulla stampa locale è comparso un avviso a pagamento firmato dalle Camere di Commercio di Canada, India e Italia che si opponevano alla protesta di Occupy Central (che minaccia di bloccare il distretto finanziario della City se Pechino non lo ascolterà). L’offensiva più forte l’hanno lanciata il 27 giugno le Big Four della revisione dei conti: PricewaterhouseCoopers, KPMG, Deloitte e Ernst & Young hanno comprato un bello spazio sui giornali per ammonire che Occupy Central «porta instabilità e caos», perciò multinazionali e investitori potrebbero spostare i loro affari fuori da Hong Kong.
L’intervento del capitalismo occidentale, evidentemente sensibile al richiamo del capitalismo di Stato cinese, non promette niente di buono per gli ottocentomila hongkonghesi che hanno votato nel referendum. Dopo la marcia pacifica e ordinata del primo luglio c’è stata un’ondata di arresti per turbamento dell’ordine pubblico: lo stesso linguaggio usato per condannare i dissidenti in Cina. Tra l’altro, molti giovani manifestanti di Hong Kong dicono di volere un governo davvero eletto a suffragio universale per poter premere per la giustizia sociale e contro la crescente disparità che nell’ex colonia crea la più alta concentrazione di miliardari dell’Asia e una massa di poveri senza prospettive.
A giugno Londra ha ricevuto con tutti gli onori il primo ministro cinese Li Keqiang. Dietro sua richiesta (imposizione) gli è stato organizzato anche un tè con la regina al castello di Windsor. Non risulta che David Cameron abbia sollevato la questione della basic law , le regole democratiche negoziate ai tempi della signora Thatcher per garantire che Hong Kong mantenesse la sua eccezionalità all’interno della Repubblica popolare cinese per cinquant’anni ancora. Gli affari prima di tutto.
Le ultime notizie arrivano da Macao, ex colonia portoghese restituita nel 1999. Anche qui il sistema di selezione del governatore è pilotato da Pechino, ma a maggio c’è stata una marcia per la democrazia e ora tre movimenti vogliono organizzare un referendum come quello di Hong Kong. A Macao ci sono 35 case da gioco che incassano 45 miliardi di dollari l’anno. Chissà se i casinò scenderanno in campo come banche e multinazionali a Hong Kong «per la stabilità».

Corriere 9.7.14
Un canale di 278 km
La Cina lancia la sfida per l’America Latina
«Sarà la più grande opera mai realizzata»
di Guido Santevecchi


PECHINO — Alla Casa de los Pueblos di Managua, il presidente Daniel Ortega e l’uomo d’affari cinese Wang Jing si sono fatti fotografare abbracciati. Nella mano libera stringevano due libri blu con i piani del Canale del Nicaragua, una via d’acqua interoceanica che lancia la sfida a quella storica di Panama. Il megaprogetto sino-sandinista ha preso forma: a Managua è stato annunciato ieri che il tracciato è stato definito tra i sei proposti. Quello scelto, lungo 278 chilometri, partirà dalla foce del fiume Brito sul Pacifico, si dirigerà verso la città di Rivas, attraverserà per 105 chilometri il Lago Nicaragua e poi lungo i fiumi Tule e Punta Gorda arriverà nel Mar dei Caraibi permettendo l’accesso all’Atlantico.
Costo stimato 40 miliardi di dollari, raccolti dai cinesi della HK Nicaragua Canal Development Investment (HKND), basata a Hong Kong. Il proprietario del gruppo, il signor Wang Jing, è un tipo un po’ misterioso: ha 41 anni, dice di essere nato a Pechino, laureato in medicina tradizionale cinese, ma non specifica in quale scuola («per riservatezza»). E ancora: «Sono un cittadino così normale che più normale non si può, vivo con mia madre, un fratello minore e mia figlia». Dal 2010 ha preso il controllo della Xinwei Telecom di Pechino che ha in portafoglio una serie di contratti per costruire reti telefoniche nel mondo, dal Nicaragua all’Ucraina. Giura di non avere rapporti con lo Stato, il partito, l’esercito, e nel suo ufficio pechinese esibisce un grande quadro con Mao alla guida dell’Armata Rossa. Non dice quanti soldi abbia di suo, ma assicura che i 40 miliardi per il Canale del Nicaragua sono pronti. Ufficialmente i fondi sono privati, ma più di un analista intravede lo Stato cinese alle spalle del fiducioso ex medico tradizionale.
«Questa opera sarà la più grande mai realizzata nella storia dell’umanità, e aiuterà il popolo del Nicaragua», ha spiegato agli studenti della facoltà di ingegneria di Managua il signor Wang. Il presidente Ortega è entusiasta, la maggioranza dell’opinione pubblica è con lui. Ma l’avventura ha sollevato dubbi e polemiche.
Qualcuno teme per la sovranità nazionale del Nicaragua; esperti di ambiente temono danni irreparabili all’ecosistema, dovuti al mutamento del corso dei fiumi e all’enorme spostamento di terra. Altri avvertono che il canale non è sostenibile da un punto di vista economico: 40 miliardi di dollari sembrano insufficienti per un’opera del genere. L’opposizione parlamentare accusa il governo sandinista di «fare solo propaganda per generare false speranze su un futuro prospero per la gente del Nicaragua».
Il gruppo di Hong Kong replica: noi daremo lavoro a 50 mila persone direttamente e altre 200 mila troveranno impiego nell’indotto.
L’impresa parte a dicembre. Obiettivo concludere le opere entro il 2019 e aprire al traffico interoceanico nel 2020. La via di navigazione tra i due oceani che taglierà il Nicaragua sarà alternativa a quella di Panama. Tre volte più lungo, questo canale avrà una larghezza tra gli 83 e i 520 metri e una profondità di 27 metri, dicono gli ingegneri cinesi. Molto più spazioso di quello di Panama (che nel frattempo è in fase avanzata di ristrutturazione), potrebbe permettere il passaggio di super portacontainer da 400 mila tonnellate.
Wang Jing non si accontenta, ha presentato un progetto da 10 miliardi di dollari per rifare il porto di Sebastopoli. E qualcuno assicura che anche dietro i lavori in Nicaragua ci sono fondi e interessi russi. Un bell’intreccio di ingegneria geopolitica .

Corriere 9.7.14
Quattro miliardi per i baby clandestini, il dramma che divide l’America
di Paolo Valentino


Barack Obama ha chiesto 4 miliardi di dollari cl Congresso, per far fronte alla crisi dei baby clandestini, l’onda crescente di bambini (oltre 50 mila nei primi 6 mesi dell’anno) che attraversano da soli la frontiera meridionale degli Stati Uniti.
È una somma enorme. E il modo in cui l’Amministrazione dice di volerla usare tradisce il lacerante dilemma politico e morale in cui si trova. Prima la sicurezza: i soldi servono ad avere più guardie al confine, più giudici per accelerare le pratiche di rimpatrio, più sorveglianza aerea, più centri di detenzione (qui chiamano le cose col loro nome). Ma metà dei dollari, così la Casa Bianca, verranno impiegati per migliorare l’assistenza ai bambini, stabilire se hanno diritto allo status di rifugiati o ci siano altre ragioni umanitarie per non rimandarli indietro.
È una crisi dove nessuno è incolpevole. L’Amministrazione porta grandi responsabilità, se non altro perché non è riuscita a darsi una linea coerente, oscillando tra punte di durezza per placare le critiche da destra e troppa flessibilità nel caso dei bambini.
Ma l’ipocrisia repubblicana nell’accusare il presidente di aver provocato la crisi con la sua indecisione, ha del paradossale. Come ha ricordato il New York Times , la legge all’origine dell’ondata dei minori clandestini porta infatti la firma di George W. Bush. Votato anche dai democratici, fu l’ultimo provvedimento dell’Amministrazione repubblicana: protezione speciale ai piccoli illegali che arrivavano alla frontiera non accompagnati, per combattere il traffico di minorenni a scopi sessuali. Quindi procedure più garantiste (assistenza medica, avvocati gratuiti, consiglieri, apparizione preventiva davanti a un giudice) prima di decidere se rimpatriarli o meno. E spesso la decisione è stata di farli restare. Ora non più, mentre i repubblicani chiedono a gran voce la deportazione di massa per i baby clandestini.
La tensione è drammatica. Una piccola città di confine, Murriet, aizzata dagli agitatori della destra, è diventata simbolo di un’opposizione indiscriminata all’immigrazione. I liberal chiamano i bambini «profughi» e vorrebbero che restassero tutti. L’impressione è che, presi tra due fuochi, le creature siano solo degli ostaggi.

Corriere 9.7.14
Se vuole restare unita l’Ucraina deve essere neutrale
risponde Sergio Romano


Russia e Ucraina sono incatenate agli stessi ceppi. Meglio di qualsiasi messa a punto politologica questo adagio mette in luce le ragioni profonde della crisi ucraina. Collegati da un intreccio di rapporti economici, etnico-culturali e emotivi, i due Paesi sono attualmente contrapposti sul piano politico strategico. Come evitare che una contrapposizione che coinvolge direttamente l’Unione Europea si traduca in una divisione insanabile nel cuore dell’Europa?
Paolo Calzini

Caro Calzini,
Approfitto della sua lettera per segnalare un lungo articolo ( International New York Times del 3 luglio) in cui l’autore, Andrew Higgins, racconta un viaggio a Mount Makivka, una località dei Carpazi in cui sorge un monumento dedicato a un evento della Prima guerra mondiale. Qui, tra la fine di aprile e i primi giorni del maggio 1915, una unità ucraina, composta da 800 tiratori scelti, combatté contro l’esercito zarista. Sull’importanza strategica di quella piccola battaglia esistono pareri discordanti, ma per il nazionalismo ucraino Makivka è una pietra miliare sulla lunga strada dell’indipendenza nazionale. L’episodio non sarebbe completo, tuttavia, se non ricordassimo che quei volontari ucraini vestivano le uniformi di due battaglioni inquadrati in due brigate dell’Impero austroungarico. La regione di Leopoli (Lemberg in tedesco, Lviv in ucraino) era stata polacca sino al 1772 ed era diventata austriaca dopo la prima spartizione della Polonia.
Furono 250.000, complessivamente, i coscritti ucraini reclutati in Galizia per fare fronte all’offensiva russa del settembre 1914. Ma furono tre milioni e mezzo quelli che provenivano dall’Ucraina centro-orientale e combatterono nei ranghi dell’esercito zarista. Questa divisione si prolungò nei decenni successivi. Dopo la rivoluzione bolscevica vi furono in questa regione, per un certo periodo, tre entità politiche: quella occidentale di Lvov, quella «bianca» dell’Ucraina centro orientale e quella comunista di Kharkov. Dopo l’invasione tedesca del giugno 1941 assistemmo alla ripetizione di quanto era accaduto durante la Grande Guerra. Mentre la maggior parte degli ucraini combatteva con l’Armata Rossa, nelle province occidentali occupate dai tedeschi si costituiva la Divisione SS Galizia composta da 90.000 volontari ucraini.
Credo che un Paese così diviso, caro Calzini, possa conservare la sua unità soltanto se accetta di essere neutrale e di avere buone relazioni con tutti i suoi vicini. Offrendogli di associarsi all’Unione Europea e di entrare nella Nato, i Paesi occidentali non hanno soltanto suscitato le preoccupazioni della Russia. Hanno risvegliato i demoni separatisti che minacciano da sempre la sua unità.

Repubblica 9.7.14
La festa tragica del Paese umiliato “Perché? Perché?”
L’incredulità, l’umiliazione, le lacrime di un popolo e la rabbia per i tedeschi spietati
Ma poi torna l’orgoglio
di Concita De Gregorio


RIO DE JANEIRO. COSÌ no. Così no. Così è una violenza feroce e crudele che infierisce su un corpo, una squadra, un Paese steso a terra in lacrime, al buio nella pioggia, rannicchiato sotto i colpi. Perché non si fermano? chiede un tifoso olandese alla sua ragazza, il bambino che piange a sua madre, Dilma a sua figlia, perché non la smettono, come possono. Non la smettono. Sono il popolo che non smette. Non la smettono. Due, tre, quattro, cinque gol in sette minuti. Legnate su un corpo inerme, come se non avessero visto non avessero capito che era già tutto finito, di là non c’era più nessuno: giocano da soli, segnano e segnano ancora, come sotto l’effetto di una droga. Non è una vittoria, è una carneficina. Non è una sconfitta, è un’umiliazione senza precedenti nella storia, senza spiegazioni possibili persino, senza titolo e senza parole.
Se n’è andato, il Brasile orfano del suo eroe fragile, dalla sua anima di farfalla, è svanito sotto il primo colpo: via la testa, via le gambe, via il cuore. Via tutto. Ha deciso che non giocava, non ha giocato più. Non ha giocato mai, è tornato a casa dopo il primo gol. A letto, sotto le coperte, al buio. Ha lasciato, la Seleçao, il Paese intero a piangere una vergogna senza nome, una disfatta senza paragoni possibili. Scolorano le parole di Obdulio Varela rese immortali da Osvaldo Soriano: se avessi visto prima il dolore di questo popolo non so se sarei stato capace di vincere. I bambini allo stadio di Belo Horizonte piangono a dirotto inquadrati senza pietà dalle telecamere del mondo intero, un dolore che non basterà la vita a dimenticare, ammutoliscono migliaia e migliaia di persone sulla spiaggia di Copacabana, tornano a casa i tifosi con le facce dipinte, sciamano lungo i viali che non è ancora finito il primo tempo. Troppo, così è troppo, così no. Non pensano alla vecchiaia di Filipao, i tedeschi, un tramonto triste e senza onore, non pensano che questo è il Brasile, accidenti, è pur sempre il Brasile.
Tace Zico, muto davanti a un maxischermo. Tacciono Romario nella sua casa piena di figli, Pelè che ogni minuto sorride insensato nelle pubblicità del break, comprate una macchina, bevete una bibita. Ammutolisce Dilma nel suo soggiorno di Brasilia, che dovrà dare la Coppa a qualcuno che non sarà il Brasile, domenica, ma una disfatta come questa non è solo un gesto sportivo è una Caporetto del paese intero, della sua scommessa, della politica che sfida le economie egemoni nel mondo e come dice Gilberto Gil che è stato ministro con Lula «Dilma ci prova ma non basta». Ora certo non basterà a risparmiarle uno scherno di cui certo non porta colpe ma che le si attacca addosso come una seconda pelle: il Mondiale ha il suo volto, il suo sorriso duro di donna sola e ruvida, la sua salita solitaria. Vince Merkel, contro Dilma. In campo e fuori, nel mondo.
Ma non così. Sei, e poi sette gol, come uno scherzo osceno e cattivo. Perché il Brasile era già debole, era una squadra nervosa e leggera, una squadra fragile. Sapeva di poter perdere, sapeva dall’inizio che sarebbe arrivato il momento, certo, sottotraccia lo ha sempre saputo. L’assenza di Neymar e Thiago Silva, negli ultimi tre giorni, erano stati l’alibi: senza di loro sarà difficile, bisogna cominciare a pensare che la sconfitta è possibile. Dicevano tutti: ora perdere non sarà una tragedia. Sarà comprensibile, sarà giustificato. Vero, ma se avessero perso. Non hanno perso, hanno rinunciato a scendere in campo. Altro che vincere per Neymar, altro che esultare in suo nome. Se ne sono andati. Gli argentini che a migliaia invadono Rio al terzo gol si avvolgono di bandiere verdeoro, una cosa mai vista: sentono il peccato di superbia, sentono che non va bene così, non si può infierire. La hubris, sarà punita, vedrete, nella ripresa. Lo stadio fischia i giocatori, quando escono alla fine del primo tempo. Fischia i suoi eroi fantasma, svaniti al primo minuto sotto il primo colpo, fischia la protervia degli altri. Però poi il gioco vuole che non si smetta, la partita non si può dare vinta né è giusto – per chi vince – fare come se non ci fosse più gioco. Qualcuno dice: fa bene la Germania a giocare ancora, sarebbe ancora più umiliante se smettesse di farlo.
I bimbi piangono, intanto, tutti. Le luci nelle case si spengono, la gente se ne va, i telefoni non funzionano più. Sette a zero è una cosa mai vista, nella storia del Mondiale, nella storia del Brasile. Non può finire così, con una distruzione di massa, non deve. Ed è adesso, alla fine, che la disperazione, la desolazione all’improvviso si trasforma in orgoglio. La tragedia, in uno scatto di reni sorprendente, inatteso. Cominciano tutti a gridare Brasil, Brasil. Sei la nostra patria, sei lo stesso il nostro eroe, Brasil. Segna Oscar. Il paese fa scoppiare i suoi petardi dalle finestre, piange e prega. Si inginocchiano in spiaggia i tifosi, si inginocchiano in campo i giocatori. Thiago Silva entra in campo e abbraccia gli altri, prega David Luiz in ginocchio, si stringono in cerchio attorno a Filipao. Portano scritto Forza Neymar sul cappello. Lo stadio fischia la Germania che esulta. Spiegare l’inspiegabile è impossibile, dice Julio Cesar uscendo dal campo. L’inspiegabile, l’indicibile. Il buco nero nella storia. Forza Neymar, forza Brasile, urlano dalle finestre i tifosi del Paese intero. Nessuno avrebbe meritato questo, neppure la peggiore delle squadre al mondo e tu non eri la peggiore. Semplicemente a giocare questa partita non sei venuta. Il tempo, un giorno, dirà forse perché. Che tipo di punizione sia stata, e per cosa. Perché così inaccettabile, perché tanta violenza chiede David Luiz tra i singhiozzi. Una maledizione indecifrabile. Il capitano, in diretta, piange a dirotto. Guarda la telecamera, gli occhi rossi e gonfi, ripete solo questo: perché?61

l’Unità 9.7.14
Togliatti, l’uomo che mutò le idee di Stalin
di Bruno Gravagnuolo


VENTI AGOSTO 1964. I50 ANNI DELLA MORTE DI TOGLIATTI SI AVVICINANO Fino a qualche anno fa anniversario di polemica rovente. Tutti mobilitati, da una parte e dall’altra. A sostenere lo stalinismo criminale di Togliatti. O a storicizzare e a comprendere, l’apporto di Ercoli alla democrazia italiana. Oggi il clima è cambiato e magari è un bene. Si spera. Ma non ci sarebbe da stupirsi se dai soliti Della Loggia, Belardelli e Battista, tornassero le spompate contumelie di sempre. Dunque, in sintesi ecco i demeriti di Togliatti. Aver lasciato campo libero a Stalin con la svolta «socialfascista» del 28-30. Pur avversandola e reputandola deleteria. Aver sollecitato l’invasione in Ungheria nel 1956, pur aprendo con l’VIII Congresso il fronte delle «vie nazionali» e del policentrismo. Aver ritenuto l’Urss un campo e una fortezza imprescindibili, entro la dicotomia imperialismo/antimperialismo. E senza addivenire almeno ad una sorta di posizione revisionista jugoslava, col corollario del «non allineamento». E infine certe arretratezze in campo pittorico, letterario e musicale (ma come Berlinguer amava Wagner!).
Attenuanti: era un uomo forgiato nel suo tempo di ferro e fuoco, fedele all’Urss. E poi, grazie proprio alla sua prudenza, salvò letteralmente il Pci dalla distruzione barbarica staliniana. Salvando al contempo il lascito di Gramsci, destinato alla dispersione, se solo Stalin avesse dato retta alle sorelle Schucht, che volevano consegnare quelle carte al Komintern. Ma il fatto - qui veniamo ai meriti - é che Togliatti influenzò lo stesso Stalin. Facendogli cambiare idea sull’antifascismo, sui fronti popolari, sulla fine del Kominform e sulla Svolta di Salerno. E sull’idea della «inevitabilità della guerra». Fu un gigante, che puntellò la democrazia italiana e urbanizzò il comunismo, mostrandone un altro volto: democratico e pluralista. Comunque la si pensi è impossibile sottostimarne la grandezza.

l’Unità 9.7.14
Due culture un pensiero
Nel libro di Pietro Greco la «fusione» tra arte e scienza
Dobbiamo incoraggiare la crescita di una capacità intellettuale equivalente al bilinguismo: ascoltare, imparare e contribuire
di Michele Emmer


«I CAMBIAMENTI NELL’EDUCAZIONE NON PRODURRANNO MIRACOLI. LA DIVISIONE DELLA NOSTRA CULTURA CI RENDERANNO PIÙ OTTUSI DI QUELLO CHE POTREMMO ESSERE; NON PORTEREMO ALLA NASCITA DI DONNE E UOMINI CHE CAPIRANNO IL NOSTRO MONDO COME PIERO DELLA FRANCESCA FECE CON IL SUO, O PASCAL, O GOETHE. Con un po’ di fortuna però, possiamo educare una larga parte delle nostre menti migliori, in modo tale che non siano ignari delle esperienze creative sia nell’arte che nelle scienze». Il 6 ottobre 1956 veniva pubblicato sul New Statesman un articolo di Charles Percy Snowche poneva un problema che sarebbe poi stato sviluppato in una conferenza ed un libro tre anni dopo. Il libro era intitolato The Two Cultures (Le due culture) e metteva a confronto la cultura scientifica e quella umanistica. Toccava temi molto sentiti, tanto che il libro scatenò una lunga polemica che spinse Snow qualche anno dopo, nel 1963, a pubblicare una appendice al libro che si conclude con le parole citate all’inizio.
Nella introduzione alla edizione del1993Stefan Collini, professore di letteratura inglese all’università di Cambridge scrive: «Dobbiamo incoraggiare la crescita di una capacità intellettuale equivalente al bilinguismo, una capacità non solo di esercitare la lingua delle nostre rispettive specializzazioni, ma anche di ascoltare, imparare e contribuire eventualmente a più ampi approcci culturali». Insomma stiamo parlando di interdisciplinarità, termine che indica un argomento, una materia, una metodologia o un approccio culturale che abbraccia competenze di più settori scientifici odi più discipline di studio. In particolare dei rapporti tra arte e scienza. Argomento di innumerevoli studi e ricerche che hanno dato luogo a migliaia di pubblicazioni in tutto il mondo nel corso di anni.
Il lavoro di Snow è da quando è stato pubblicato il suo volume il punto di partenza e di riferimento delle Due Culture. Non fa eccezione il libro curato da Pietro Greco Armonicamente: arte e scienza a confronto (Mimesis edizione, 2013). È un argomento arte e scienza in cui il primo problema è di restringere e selezionare i temi da trattare. Tante sono le scienze, tante sono le arti. Il libro è diviso in capitoli, «Scienza e arte», «Scienza e letteratura», «Scienza e musica», a loro volta temi vastissimi. Per ogni tema vi sono quattro interventi più una lunga introduzione del curatore. Che parte da Leonardo Sinisgalli, poeta, scrittore, ingegnere con la passione della matematica, pubblicitario e fondatore della rivista (di arte e scienza e tecnica è il caso di dire) La civiltà delle macchine.
Di matematica ed arte si parla molto nella introduzione. Anche perché nel corso degli anni si sono mostrati molto più aperti i matematici e gli scienziati in genere verso la cultura umanistica che non gli umanisti nei confronti della scienza. Molti matematici hanno parlato dell’estetica nella ricerca matematica, come linea guida della investigazione, si trovano molte citazioni interessanti a proposito. Anche se non si può esagerarne l’importanza, visto che usualmente chi parla di arte e scienza senza essere un matematico non conosce in prima persona i meccanismi della ricerca matematica. Le citazioni diventano la fonte principale per costruire i discorsi sul tema arte e matematica. Parole chiave: intuizione, emozione, creatività. Uno degli argomenti principe è la questione delle avanguardie artistiche e le nuove idee sulla fisica agli inizi del Novecento. Cubismo e relatività, argomento molto citato e molto poco studiato in modo dettagliato; rimando a questo proposito al volume conclusivo sull’argomento di Linda D. Henderson The Fourth Dimension, non Euclidean Goemetry and Modern Art (seconda edizione, 2013). Tra gli argomenti trattati non potevano mancare nei diversi articoli la simmetria, i solidi Paltonici, la sezione aurea per arrivare ai frattali, che qualche anno fa hanno ridato vita alla questione della bellezza nella scienza, nella matematica. Interessante l’articolo di Danila Bertasio sullo «strappo avvenuto tra arte, scienza e tecnologia, quasi tre secoli fa, che ha comportato conseguenze generalmente positive per la scienza e la tecnica, forse negative per l’arte». Il tema su cui gli articoli sono più puntuali e dettagliati è quello della musica. In particolare l’articolo di Silvia Bencivelli «nella nostra inclinazione per la musica c’è qualcosa di innato, su cui poi incidono la cultura, l’educazione e l’esposizione a musiche di un certo tipo. Biologia e cultura si combinerebbero così».
Per concludere ecco una citazione ovviamente, sempre da musica e scienza: «Forse è questa l’armonia del mondo del nostro tempo, profondamente diversa da quella pitagorica: non è l’epifania del numero puro e della proporzione geometrica, ma piuttosto la manifestazione di un universo di infinite possibilità».

l’Unità 9.7.14
Rischia di chiudere il Gramsci siciliano
Niente finanziamenti della Regione che li assegna a tre facoltà teologiche
di Jolanda Bufalini


INDIETRO TUTTA, IN SICILIA LA GIUNTA DI ROSARIO CROCETTA, NATA PER TAGLIARE CON IL PASSATO DEI FINANZIAMENTI A PIOGGIA, QUELLI CHE NELL’ISOLA ALIMENTANO LA CATTIVA POLITICA, SEMBRA RINVERDIRE I FASTI DELLA FAMIGERATA TABELLA H. E nell’indietro tutta rischiano di perire istituzioni culturali vere, punti di riferimento storici come l’Istituto Gramsci siciliano, dove hanno sede alcuni degli archivi più significativi della storia recente dell’isola, dai fondi di Li Causi e Pio La Torre, a quello del giornale L’Ora, alle carte relative ai primi processi per i delitti mafiosi, a quelle che riguardano la storia del separatismo siciliano, come le carte di Finocchiaro Aprile.
Era cominciata bene, nel 2013, quando si era deciso di finirla con la famigerata tabella su cui si accapigliavano i deputati per far avere ai clientes le loro sine cura. Nella tabella H, su un bilancio dell’intera Regione Sicilia di 15 miliardi, andava un chip di 40 milioni. Ma quei 40 milioni portavano voti e assicuravano potere alle lobby, come quella degli istituti dei ciechi. Qualche briciola del banchetto arrivava anche alle istituzioni serie, fra queste il Gramsci.
Il governo Crocetta prima versione, assessore al bilancio un tecnico dello Svimez, Luca Bianchi, decise di voltare pagina. Basta con la tabella H, per accedere al contributo economico della Regione l’assessorato ai Beni culturali, lo scorso anno, ha indetto un avviso pubblico e un bando. E basta con la mangiatoia, il finanziamento viene ridotto da 40 a 19 milioni e vi potranno accedere solo i meritevoli. Nove mesi fa, nell’autunno 2013, l’assessorato forma una commissione che si riunisce due volte, l’11 ottobre e il 6 novembre, che ha l’incarico di valutare le richieste di finanziamento e di assegnare un punteggio. Ne esce fuori una classifica che, naturalmente, suscita una qualche polemica per i criteri adottati. Ma comunque una classifica, discutibile come ogni cosa, ma basata su criteri uguali per tutti. E l’istituto Gramsci Siciliano si colloca nella fascia alta, fra le istituzioni che hanno ottenuto 95 punti. In testa alla classifica, con 100 punti, sono istituzioni ben conosciute agli amanti della cultura siciliana, come il Whitaker di Mozia o il Mandralisca di Cefalù. L’Istituto Gramsci ottiene 96.0000 euro di finanziamento (non sono ancora stati erogati ma questo è un altro paio di maniche), la fondazione Mandralisca 99.000, la Whitaker 200.000 euro. In fondo alla classifica, con 70 punti, c’è il «Centro siciliano Sturzo» di Palermo che ha inaugurato la propria attività qualche mese prima, il 5 aprile, ottiene il diritto a ricevere un piccolo finanziamento di 10.000 euro.
E arriviamo a quest’anno e alla discussione finanziaria in corso a palazzo d’Orleàns. L’avviso pubblico, il bando, i criteri e la classifica sembrano diventati carta straccia. Il Centro siciliano Sturzo di Palermo balza in testa alla classifica con 120.000 euro di finanziamento. Dal 5 aprile dello scorso anno non è pervenuta notizia di altre attività dell centro intitolato al fondatore della Dc.
Il Gramsci palermitano è stato cassato dalla lista dei contributi regionali del 2014, in compenso balza agli occhi l’ascesa di tre facoltà teologiche: facoltà teologica di Sicilia, studio teologico san Paolo, che ha sede a Catania. Nel 2013 aveva ottenuto 85 punti e 27.000 euro di finanziamento. Nel 2014 la legge finanziaria gli promette 142.000 euro. La facoltà teologica di Sicilia, San Giovanni Evangelista, che ha sede a Palermo, passa da 60.000 (nel 2013) a 198.000 euro nel 2014. Il fervere degli studi teologici isolani si giova, nel 2014, di una new entry: l’istituto San Tommaso che ha sede a Messina, che si è distinto per posizioni non particolarmente aperte sulle questioni di bioetica. Si tratta, in ogni caso, di istituti che fanno attività didattica universitaria a pagamento. Alla facoltà catanese, per esempio, per il corso specialistico lo studente laico paga «tasse» per 700 euro più 120 di iscrizione.
L’istituto Gramsci siciliano ha sede ai Cantieri della Zisa, a pochi passi dal palazzo dei Normanni. Un luogo simbolo nella rinascita della città, negli anni della Primavera palermitana: luogo di archeologia industriale dove dovevano trovare collocazione arte contemporanea, cinema e cultura, laboratori, teatro e sale studio. Negli anni del sindaco Cammarata, più interessato ad andare in barca a vela, il progetto è stato abbandonato, la ruggine si è impossessata dei vecchi capannoni, ma il Gramsci, con poche altre realtà, ha resistito e Leoluca Orlando, di nuovo sindaco, si è impegnato a riprendere il progetto e a restituire alla città quello spazio suggestivo. Ora invece, per l’istituto, che anche in questi mesi ha continuato a lavorare, anche se i suoi dipendenti sono senza stipendio da molti mesi, il rischio della chiusura è reale. Al presidente Rosario Crocetta sono arrivate le lettere di molti studiosi e giornalisti.
Protestano i giornalisti degli anni d’oro de L’Ora, come Alberto Stabile, Vincenzo Vasile e tanti altri, oggi impegnati in altre realtà editoriali: «La memoria di quel giornale, può essere oggi consultata e rivisitata all’Istituto Gramsci Siciliano. Quei documenti hanno ispirato una grande mostra, con le pagine storiche del giornale, curata dall’Istituto Gramsci in occasione di un convegno sulla direzione di Nisticò i cui atti sono stati poi raccolti nel volume Era L’Ora, pubblicato sempre a cura del Gramsci siciliano». Protesta anche Giorgio Frasca Polara, storico giornalista de l’Unità, al Gramsci sono conservate le carte del nonno, Finocchiaro Aprile, figura fondamentale del separatismo «di sinistra» siciliano.
Protestano i professori delle scuole superiori di Palermo: «Perché, - scrivono al presidente della Regione - al di là di ogni gergo politichese, è proprio la funzione gramsciana del lavoro intellettuale che non deve essere riconosciuta, presidente Crocetta?». E scrive a Crocetta anche Franco, il figlio di Pio La Torre: «Il Gramsci è stato destinatario della donazione del "Fondo La Torre", tutta la documentazione di Pio, raccolta all'indomani del suo omicidio, oggetto di attenzione e di studio, in questi 32 anni da parte di ricercatori, giornalisti, studenti e cittadini interessati ad approfondire l'opera e l'azione di mio padre».
Ma la preoccupazione per la sorte del Gramsci va anche al di là della sua gloriosa storia e dell’impegno culturale che gli viene riconosciuto da tutti. Perché ci si chiede quale piega stia prendendo la politica del rinnovamento in Sicilia. Se ne è fatto espressione, in un articolo sulle pagine locali di Repubblica, Nino Alongi, che fu uno degli ispiratori del movimento cristiano «una città per l’uomo». Il suo j’accuse è rivolto al governo regionale ma anche al Pd siciliano: «Un partito ombra senza programma né forza contrattuale. ... La nuova dirigenza ha continuato con i soliti comportamenti, mancanza di chiari obiettivi e condanna della corruzione solo quando sono scoperti dalla magistratura».
Per Alongi «la paventata chiusura del Gramsci » è un «segno dolorosissimo» del «devastante ristagno culturale e economico. La decadenza come la barbarie, inizia sempre dalla distruzione dei libri e delle sedi che li contengono».

Corriere 9.7.14
Il «Diario postumo» di Montale troppe profezie per essere autentico
Liriche brutte, buste misteriose, originali nascosti e previsioni sul futuro
di Paolo Di Stefano


Soffermarsi fino a ottenere chiarezza (per quanto possibile) su un’opera in odore di falso che circola indisturbata con il nome di Eugenio Montale, uno dei maggiori poeti del Novecento, non può essere un’operazione oziosa. Le discussioni sul Diario postumo si accesero il 20 luglio 1997 grazie a un lungo articolo di Dante Isella apparso sul «Corriere della Sera» in cui si denunciava senza mezzi termini la natura apocrifa della raccolta. Furono discussioni che, fino all’autunno 1998, coinvolsero tanti, filologi, critici, poeti, editori, amici, testimoni occasionali: in vario modo scettici o certi, avversari e sostenitori convinti o tiepidi dell’autenticità. Protagonista e grande imputata di quell’accusa di falso fu la poetessa Annalisa Cima, giovane amica di Montale dal 1969, che a distanza di cinque anni dalla morte del poeta editò per la Fondazione Schlesinger, nel 1986, una plaquette contenente sei componimenti montaliani inediti: «Queste sei poesie fanno parte di un diario poetico che Eugenio Montale ha regalato, con l’incarico della curatela, ad Annalisa Cima. Il diario poetico data dal 1968 al 1979». Si trattava della prima di undici tappe, che prevedevano, per volontà dichiarata del poeta, l’apertura di altrettante buste contenenti ogni volta sei inediti.
Già in occasione di quella prima uscita Giovanni Raboni, sulla base di alcuni testi anticipati qua e là, disse che erano poesie troppo brutte per essere vere. La serie doveva dunque chiudersi con 66 componimenti in tutto, ma nel 1996 si scopre che nell’ultima busta c’è un bustone autonomo con altre 18 poesie. Dunque il numero complessivo si fissa a 84: sono i testi che quello stesso anno confluiranno nel volume Diario postumo , pubblicato da Mondadori per la cura filologica di Rosanna Bettarini e presentato come «l’ottavo libro di versi» montaliano. A complicare le cose, si aggiungono ventiquattro successive lettere-legato (1972-1980) in cui Montale dichiara di affidare alla sua ispiratrice le poesie in questione perché le pubblichi «quattro o cinque anni dopo la sua morte, inizialmente sei ogni anno, riunendole poi in un solo libro». Anzi, nell’ultima (10 ottobre 1980) il poeta avrebbe designato la Cima erede universale e curatrice scientifica di tutta la sua opera. Quelle lettere furono certificate dal notaio di Lugano John Rossi (al quale, come notaio, non spettava la verifica dell’autenticità degli originali). Nacque da qui un lungo contenzioso tra Cima e Mondadori, che nessuno però volle portare fino in fondo: la poetessa, nonostante le ripetute minacce giudiziarie, rinunciando di fatto all’eredità morale ed economica complessiva; l’editore pubblicando comunque quella raccolta e tenendosi i dubbi.
Se la Cima avesse messo a disposizione degli studiosi le carte originali del cosiddetto Diario postumo , la faccenda si sarebbe conclusa ancor prima di cominciare: il fatto è che la dedicataria e depositaria di quelle poesie, pur promettendo occasionalmente la visione degli autografi (cosa normale per qualsiasi testo letterario che voglia essere studiato per bene), non ha mai dato seguito alla richiesta, a parte quando, nell’ottobre 1997, le mise in mostra (sotto vetro) per un paio di giorni in un grande albergo di Lugano. Oltre a essere «troppo brutte» le poesie, la grafia non convinceva, essendo molto diversa da quella tremolante e incerta del Montale vecchio: Isella citava, a questo proposito, una perizia necessariamente sommaria fatta dall’esperto di scritture antiche e moderne Armando Petrucci sulla base di qualche facsimile edito dalla Cima: ne veniva segnalato «il sospetto di inabili falsificazioni, per di più eseguite con tecniche diverse e forse anche da mani diverse».
Ora, perché si torna a parlare del Diario postumo ? Perché ci sono studiosi che non si rassegnano alla previsione fatta nel 1998 da Raboni, il quale chiedendosi se questa storia avrebbe mai avuto fine, rispondeva: «La mia previsione, o almeno la mia impressione, è che no, non finirà mai; e questo per la semplice, semplicissima ragione che l’unica persona che potrebbe farla finire non ne ha né l’intenzione, né la volontà, né (viene da supporre) l’interesse». Tra gli studiosi che non si rassegnano c’è il filologo classico di Bologna Federico Condello, che ha preso a cuore la faccenda al punto da ricostruire passo per passo la vicenda andando a spulciare gli oltre 500 articoli che riguardano il Diario postumo , interviste comprese (alla Cima e ad altri), oltre ad analizzare tutti i documenti che riguardano quei testi. Un lavoro mostruoso (che uscirà in settembre per la Bononia University Press) sulla trasmissione testuale, da cui emerge che le buste in realtà non sono mai esistite: il che è talmente cruciale da far crollare l’intero castello costruito dalla poetessa. I punti, per ironia della sorte, sono undici.
1. La Cima mostra, descrivendone nei dettagli gli aspetti quantitativi e qualitativi, di conoscere poesia per poesia il contenuto del Diario postumo e la sua organizzazione in largo anticipo sull’apertura (presunta) delle buste.
2. Dai confusi racconti forniti dalla stessa Cima, vengono fuori numerose modalità di trasmissione dei testi che però confliggono tra loro e soprattutto contraddicono elementi biografici accertati: ci sono testi consegnati alla destinataria, quindi restituiti a Montale e da questi consegnati al notaio; ci sono testi consegnati alla Musa e dalla Musa girati subito o in seguito al notaio; ci sono testi letti dall’autore alla Cima e consegnati presto o tardi a lei che li ha poi girati al notaio; altri testi furono letti e non consegnati alla Cima ma solo al notaio; in ultimo altri testi sarebbero stati consegnati dal poeta al notaio senza passaggi intermedi, ma poi ritirati e di nuovo riconsegnati. Varie combinazioni, insomma, che compongono, tra il 1969 e il 1979 (sono gli anni di composizione delle poesie) quelli che la stessa Bettarini ha chiamato, senza verificarli, i «tragitti avventurosi» delle carte. Fatto sta che Montale avrebbe esercitato le sue prerogative autoriali solo se davvero l’insieme magmatico delle poesie, strutturalmente esposte a ogni arbitrio e manomissione nelle fasi precedenti, fosse stato da lui sigillato dentro le buste. Ma è stato così?
3. Sulla base delle varie e contraddittorie testimonianze, è difficile trovare un quadro coerente entro cui situare le buste, che dovrebbero rappresentare l’aspetto più significativo della sensazionale eredità. La Bettarini, curatrice dell’opera, nel pieno della polemica, ammette di non averle mai viste: ritiene sufficiente fidarsi della parola della Cima, la quale qua e là assicura di aver assistito Montale mentre chiudeva gli undici involucri, smentendosi però altrove, con dichiarazioni difformi.
4. Condello ricostruisce dunque la «leggenda delle buste»: e scopre che si tratta di una rivelazione tardiva (fine 1987, e cioè emersa con la seconda tranche di poesie). La loro funzione resta però incerta, viste le molte contraddizioni al riguardo (inizialmente la Cima parla, tra l’altro, di singole buste per ogni poesia), compresa una dichiarazione secondo cui non sarebbe stato Montale, con la collaborazione della Musa, a operare la scelta e i raggruppamenti ultimi, ma la stessa destinataria.
5. Nonostante la prescrizione del poeta nelle lettere-legato, non ci sono norme salde che regolino la presunta apertura delle buste, viste le numerose (e larghe) anticipazioni che vengono distribuite ai giornali: a volte anche di venti mesi, con stupefacente libertà di gestione.
6. Il 4 settembre 1997 la studiosa Maria Corti si dichiara sulla «Repubblica» testimone oculare e auricolare dell’esistenza delle carte: una affermazione che appare ai più risolutiva. È il ricordo di un incontro con Montale dell’autunno 1971, in cui il poeta le avrebbe confessato di avere in corso di lavorazione una raccolta da dare alle stampe postuma e «in ondate successive», un «beffa per i filologi». Esecutore testamentario la Cima. Più in là la filologa aggiunge che nell’autunno del ’73, in casa di Montale, avrebbe assistito a un furtivo passaggio di carte tra il poeta e la sua ispiratrice. Nessuno si chiede come mai quella scena-madre emerga così tardivamente, perché nello stesso giro di giorni se ne ricordi anche la Cima e come mai si parli di un gruppo «notevole» di carte quando in genere il passaggio tra la Cima e il poeta, stando ai plurimi racconti della stessa, si limiti a una, due, al massimo tre poesie. Infine, perché la stessa Corti non sia mai più tornata a citare né a raccontare quelle occasioni tanto definitive. Insomma, anche la memoria della studiosa sembra avere parecchie controindicazioni su cui non si è mai fatta luce. Ferma restando la sua buona fede, si tratta di «un tranello»?, insinua maliziosamente Condello.
7. C’è una cospicua serie di strane «coincidenze» che percorrono la pubblicazione a rate del Diario postumo . Montale, nei legati più tardi, che vengono aperti dopo il 1986, fissa al 1996 (l’anno del suo centenario) la fine della pubblicazione delle singole tranche del Diario e l’inizio di un’altra stagione in cui verranno resi pubblici altri inediti: conversazioni, traduzioni, prose e disegni. Ma per avere così netta la data-spartiacque del 1996, il poeta doveva avere una facoltà profetica insospettabile: cioè conoscere sin dal ‘72 l’anno della sua morte, in modo tale che partendo, come da suo desiderio, dall’86 (cinque anni dopo la sua dipartita) con la prima plaquette , si arrivasse esattamente nel centenario della sua nascita all’esaurimento dell’intero corpus .
8. Non solo. In un testo che appartiene alla busta 7, Montale profetizza la crisi politica dell’aprile-maggio 1992, esattamente l’anno in cui la poesia sarà pubblicata in plaquette . Il 15 maggio quella poesia viene anticipata sulla «Repubblica »(il «Corriere », cui pure viene inviata dalla Cima, evita di pubblicarla perché subodora l’incongruenza cronologica). Il componimento, datato 1970 secondo quanto ne dice Paolo Mauri che lo presenta sul quotidiano romano, è dedicato «All’Onorevole-Direttore», ovvero a Giovanni Spadolini, che appunto nel ’70 era in sella in via Solferino: «Più storico che politico / non riuscirà certo a tenere / la nostra barca a galla, sono / troppe le falle a poppa e a prua». Insomma, la coincidenza vuole che proprio nei giorni di quel turbolento ’92 in cui Spadolini, presidente del Senato, è candidato alla massima carica dello Stato, emerga un’allusione profetica di Montale all’attualità. Per di più, il poeta allude all’«Onorevole» quando ancora Spadolini non è entrato in politica. Incongruenza curiosa, che viene corretta quando la poesia compare nel Diario , dove porterà una data diversa: 1976. Ravvedimento postumo del poeta? O aggiustamento a posteriori a opera della sua curatrice, perché tutti i conti tornino? Quasi tutti, visto che nel ’76 Spadolini è sì senatore, ma non è più direttore.
9. È curioso come la preveggenza di Montale riesca a distribuire, nelle poesie, elogi e stroncature rispettivamente ai sostenitori del Diario (Vico Faggi in primis , amico stretto della Cima, che verrà celebrato dal poeta con un testo ad personam ) e ai suoi denigratori (Giovanni Raboni, che, secondo la Cima, sarebbe l’obiettivo polemico di Montale già in un testo del ’72). Tra le altre inquietanti previsioni indovinate dal Diario ci sono: la data di morte di Sergio Solmi (celebrato con un apposito testo nel decennale della morte, 1991) e la data di morte di Vittorio Sereni (amaramente ricordato in una poesia del ’74, apparsa nel Diario 1993, a un decennio esatto dalla scomparsa). Dunque, nello strutturare in buste l’intera raccolta, Montale avrebbe previsto non solo l’anno della sua morte, ma anche quelli di Solmi e Sereni, oltre al destino di Spadolini e dell’Italia.
10. Escludendo una tale quantità di eventi casuali, la gestione dei testi, con plurimi ritocchi e uscite ad hoc (su cui Condello si sofferma con enorme scrupolo), induce a ritenere che le buste non siano mai esistite.
11. Nonostante le mille dichiarazioni della Cima in contraddizione tra loro, anzi proprio in virtù delle loro incoerenze e nebulosità, non riusciamo a sapere quasi nulla della genesi delle poesie del Diario . Non sappiamo per quali vie vennero consegnate alla destinataria e/o al notaio. Non sappiamo quanti e quali manoscritti siano stati prodotti e poi magari abbandonati nel decennio 1969-79. Né riusciamo a sapere quale fosse l’organizzazione della raccolta. Dulcis in fundo , a rendere ancora più labili le certezze sull’autenticità dell’opera, intervengono gli elementi stilistici di cui parlava un autorevole filologo come Dante Isella. Senza dire della perizia grafologica di Petrucci. Cui ora si aggiunge l’analisi (contenuta nel libro di Condello) di Susanna Matteuzzi, avvocato e consulente grafologico del Tribunale di Bologna. Sia pure ancora in fase di elaborazione, fondandosi necessariamente sugli unici documenti disponibili (cioè i facsimili editi dalla Cima), la perizia giunge a una conclusione non dissimile da quella del Petrucci: «Dubbi e ombre velano l’autenticità delle firme apposte sulle liriche esaminate».
Ci si chiede, in definitiva, come sia possibile, in mancanza di precisi chiarimenti, che il cosiddetto Diario postumo circoli ancora in libreria sotto il nome di Montale e con la sigla della Mondadori. È ora auspicabile che il decisivo saggio di Condello suggerisca agli eredi del poeta, dopo diciassette anni dal famoso saggio di Isella intitolato Dovuto a Montale , un’iniziativa a salvaguardia del buon nome del loro familiare: dopo i diritti (economici), anche i doveri (morali). Sarebbe Dovuto a Montale, Dovuto ai lettori e Dovuto a Isella , il quale, fino a prova contraria, ne è stato uno dei massimi esegeti e difensori.

Repubblica 9.7.14
Un anello al posto del braille così i ciechi potranno leggere
Inventato al Mit di Boston un piccolo apparecchio in grado di trasformare in voce le frasi scritte
di Alberto Flores D’Arcais


NEW YORK. È UNA sorta di grande anello di plastica con una mini telecamera incorporata e un software d’avanguardia. Lo si mette al dito indice, si fa scorrere lungo un testo scritto e il gioco è fatto. Per milioni di ciechi leggere d’ora in poi sarà più facile, grazie al FingerReader, l’ultimo gioiello tecnologico uscito dai laboratori del Massachusetts Institute of Technology di Boston.
Funziona sui libri classici ma anche con i computer, qualsiasi superficie abbia una sequenza di parole verrà analizzata dall’anello (il principio è quello della scansione) che trasformerà le frasi scritte in audio grazie a una voce digitale. Unico problema, quello di scritture troppo piccole, come ad esempio i bugiardini dei medicinali. «Per quelli non abbiamo ancora risolto, ma prima o poi ci arriveremo».
Roy Shilkrot e Jochen Huber sono i due ricercatori che (insieme ad altri) hanno messo a punto il FingerReader e il primo vede per “l’anello dei ciechi” un futuro allargato anche a chi ci vede bene. «È per gente che ha disabilità, abilità e superabilità», ha detto in una recente intervista, in cui da buon scienziato-visionario immagina il FingerReader come un ottimo mezzo per tradurre testi e interi libri da una lingua all’altra.
Il prototipo presentato dal Mit è stato creato usando una stampante 3D e sembra un anello piuttosto comodo (anche se esteticamente non il massimo). Nel momento in cui il FingerReader Reader passa sopra la carta - sia un libro, un giornale o un menù di ristorante, non c’è alcuna differenza - una voce sintetiz- zata legge le parole (il volume si può regolare) rendendo il testo comprensibile. Il team che ha sviluppato questo particolare anello ha creato un software che traccia i movimenti dell’indice, identifica ogni singola parola e processa rapidamente le informazioni per la voce sintetizzata che le leggerà. Nel caso il lettore (cieco o meno che sia) che indossa il FingerReader dovesse saltare parole o righe (è inevitabile che capiti), verrà attivata una vibrazione che segnalerà l’errore fatto.
Di strumenti per fare in modo che anche i ciechi possano leggere ce ne sono già diversi (compreso il tablet con l’alfabeto braille), ma secondo Pattie Maes - la professoressa del Mit che ha fondato e guida il gruppo di ricerca (Fluid Interface) che ha sviluppato il prototipo - il FingerReader «è molto più maneggevole e flessibile» e offre una «soluzione immediata» per chi non ha la vista e vuole leggersi un libro o un giornale.
La National Federation for the Blind, l’associazione dei ciechi americani, ha fatto questa stima: 20,6 milioni di americani adulti (vale a dire quasi il 10 per cento di tutta la popolazione adulta degli States) soffrono di problemi, più o meno gravi, alla vista e non sono in grado di leggere autonomamente un libro anche con l’aiuto (è ovviamente il caso di chi non è cieco totale) di lenti a contatto e occhiali speciali. Tra bambini ed adolescenti - tutti coloro che sono titolati per legge ad avere gratis materiali scolastici in braille o in formati audio - la cifra nel 2012 (ultimo anno riportato) è di 656mila. Con evidenti costi (e conseguenti tagli) che non gli permettono di essere alla pari con gli altri studenti.
Al momento il FingerReader non è ancora sul mercato, ma il suo futuro sembra assicurato e molte società informatiche stanno già studiando il modo per collaborare con il Mit o copiarlo e metterne in vendita di simili. Uno studio di un paio di anni fa, commissionato dal Royal National Insitute of the Blind britannico, sottolineava come solo il sette per cento dei libri pubblicati nel mondo (compresi i moderni eBook) avevano anche un formato in grandi caratteri, in braille o in audio. Col FingerReader si aprono nuove e inaspettate prospettive.

Repubblica 9.7.14
Perché l’Italia è diventata il Paese dell’incultura scientifica
L’amara riflessione di un fisico teorico sulla scuola e sui saperi in Italia
Sui gravi deficit accumulati. E sul fatto che le discipline umanistiche prevalgano sulle altre
di Carlo Rovelli


PENSO che la scuola italiana sia fra le migliori del mondo. Paradossalmente, penso lo sia soprattutto per chi vuole dedicarsi alla scienza, come ho fatto io. Non per caso giovani italiani brillano in tutti i migliori centri di ricerca del mondo. Hanno qualcosa che altri paesi fanno fatica a offrire: non solo fantasia e creatività, ma soprattutto un’ampia, solida e profonda cultura. Sono convinto che studiare Alceo, Kant e Michelangelo offra a uno scienziato strumenti di pensiero più acuminati che non passare ore a calcolare integrali, come fanno i ragazzi delle scuole d’élite di Parigi. Sapere, conoscenza, intelligenza, formano un vasto complesso dove ogni parte si nutre di ogni altra. La nostra intelligenza del mondo si basa su tutto ciò insieme. Questo insieme è la cultura. Non voglio dire che per fare buona scienza sia strettamente necessario avere tradotto versi di Omero dal greco, o leggere Shakespeare, però penso che aiuti molto. Mi sono trovato spesso a lavorare con colleghi di formazione assai diversa.
Uno dei miei collaboratori (e amici) più stretti ha studiato nei college libertari dove si fuma marijuana e poi nelle top università degli Stati Uniti: non sa chi è Virgilio, ma ha una capacità di pensiero critico che io non ho. Un altro viene dal quell’amalgama di civiltà asiatica antica ed educazione inglese che è la scuola indiana, e ha una sottigliezza di pensiero analitico che io non avrò mai. Ma la capacità di guardare lontano e individuare i problemi chiave è venuta alla nostra collaborazione dalla scuola italiana, dall’ampiezza della sua prospettiva storica e culturale.
Questo la nostra scuola sa offrirlo. Al contrario, è la scienza che manca nella scuola, anzi, manca drammaticamente nella società italiana. L’Italia resta pericolosamente un paese di profonda incultura scientifica, sia confrontato con gli altri paesi europei, dove la scienza è rispettata profondamente, come non lo è da noi, sia forse ancor più confrontato con i paesi emergenti, che vedono nella cultura scientifica la chiave del loro sviluppo. L’Italia è un paese di profonda incultura scientifica nella mancanza di scienza seria a scuola; nell’incapacità di avere discussioni dove si ascoltano con attenzione argomenti e contro-argomenti; nella diffusa ignoranza di scienza delle nostre élite, fin nel nostro parlamento, e peggio ancora nella stucchevole prosopopea di chi si fa vanto di non capire nulla di scienza.
In Italia, quando si dice “cultura” si pensa spesso, ahimè, a musei e opere liriche, quando non ai formaggi col miele delle valli. Cose preziose, per carità, ma non è qui la cultura. La cultura è la ricchezza e la complessità del nostro sapere, l’insieme degli strumenti concettuali di cui dispone una comunità per pensare a sé stessa e al mondo. Cultura classica e scientifica sono facce complementari di questo insieme, che si rafforzano l’una con l’altra.
La cultura del nostro paese è ricca, stratificata, e vivace. Se aziende italiane vendono dappertutto nel mondo, disegnatori italiani guidano lo stile del pianeta, se l’Italia è fra le dieci potenze economiche del mondo, è perché, nonostante la nostra caratteriale auto-disistima, siamo un popolo colto e intelligente. Ma l’incultura scientifica del paese è una nostra debolezza severa. I paesi più ricchi come i paesi emergenti sanno che senza cultura scientifica adeguata un paese oggi diventa rapidamente arretrato. Il nostro paese arretra. Un paese lungimirante come la Cina oggi investe nella fondazione di università una fetta considerevole della sua ricchezza; giovani cinesi sono mandati in giro per il mondo, per raccogliere sapere e riportarlo a casa; nel mio piccolo gruppo di ricerca, a Marsiglia, ce ne sono quattro. Lo stesso stanno facendo i paesi arabi più lungimiranti. La stessa Africa sta costruendo centri di cultura e di educazione avanzata. L’Italia le sue università le sta smantellando. La sfida per il futuro passa attraverso la cultura anche scientifica del paese. In America come in Canada come in Inghilterra le università sembrano alberghi di lusso o ville patrizie, e sono rispettate come templi del sapere; in Italia le migliori università sembrano caserme decrepite.
E pensare che la scienza moderna è stata inventata in Italia… L’Italia è innamorata del suo Rinascimento, come quegli uomini che per tutta la vita continuano a raccontare la loro giovinezza, ma si dimentica spesso del frutto forse più straordinario del maturo Rinascimento italiano: uomo di musica e di lettere, profondo conoscitore e amante dell’antichità classica, di Aristotele e Platone, uomo completo del Rinascimento. Sto parlando di Galileo, l’iniziatore della scienza moderna, primo a capire come interrogare la Natura, primo a trovare una legge matematica che descrive il moto dei corpi sulla Terra, primo a guardare nel cielo cose che nessun umano aveva mai prima potuto immaginare. Il sapere scientifico moderno, che ha cambiato il mondo, ci ha permesso di vivere come viviamo, ci ha dato la ricchezza fiammeggiante della conoscenza di oggi, ha visto nascere una parte importante di sé in Italia, raccontato in una limpida lingua italiana da uno fra i migliori scrittori che abbia avuto il nostro paese, sempre lui: Galileo. Mi piacerebbe che l’Italia fosse orgogliosa di Galileo, non solo di Raffaello.
Mi piacerebbe che l’Italia si allontanasse dall’idea che la cultura sia solo arte antica, o culto sterile del proprio passato; che l’Italia desse alla cultura e alla cultura scientifica in particolare la dignità che deve avere nella formazione di una persona.

La Stampa TuttoScienze 9.7.14
Mai visto un cervello così
È nata la Grande Milano delle neuroscienze
di Nicla Panciera


La domanda fondamentale è perché conosciamo ancora così poco del cervello, nonostante l’esercito di neuroscienziati all’opera nel mondo per analizzarne struttura e funzionamento. Il rilancio dato alla ricerca dallo «Human Brain Project» europeo e dalla «Brain Initiative» di Barack Obama indica proprio nelle neuroscienze una priorità assoluta per le nostre società, con una particolare attenzione alle ricadute cliniche della ricerca biomedica.
Ciò che ha finora impedito di andare oltre la mole, pur impressionante, di dati e di conoscenze parziali, raggiungendo così una visione d’insieme, come è accaduto in altre discipline, non sono - come si è spesso speculato - ragioni ontologiche o epistemologiche, «ma la complessità del nostro cervello, che impone un approccio realmente multidisciplinare e di non facile realizzazione». Ne è convinto Carlo Ferrarese, professore di neurologia dell’Università di Milano Bicocca e direttore della Clinica Neurologica del San Gerardo di Monza. E’ lui a dirigere il neonato NeuroMi-Centro di Neuroscienze di Milano che - spiega a «Tuttoscienze» - è stato appena creato per realizzare una sinergia tra le competenze scientifiche e cliniche presenti all’interno della Bicocca e sul territorio della «Grande Milano», in tutte le aree di ricerca coinvolte nello studio del sistema nervoso in ogni età della vita, sia livello individuale sia sociale. «Convergenza, integrazione e collaborazione»: sono le parole-chiave per ottenere nuove conoscenze e non semplici osservazioni sconnesse, che si accumulino con le tante evidenze già raccolte.
Un punto di partenza è l’invecchiamento della popolazione. Impegnative, forse anche inaspettate, saranno le sfide da affrontare. Già oggi le malattie collegate al sistema nervoso costano all’Ue 800 miliardi l’anno. I malati di Alzheimer sono 530mila solo in Italia, con 70mila nuovi casi l’anno che saliranno a 200mila nel 2020. «La diagnosi, però, arriva troppo tardi. Dobbiamo quindi capire cosa accade all’inizio del processo patologico, durante le prime fasi - sottolinea Ferrarese -. L’identificazione di marcatori liquorali, plasmatici e nei tessuti periferici, ma anche cognitivi e funzionali, dei meccanismi neurodegenerativi richiede lo sforzo congiunto di molte competenze diverse». Un contributo fondamentale, intanto, è atteso dalle cosiddette «advanced therapies», che si basano su geni, cellule e tessuti. I progressi delle nanotecnologie e della bioingegneria lasciano ben sperare in un loro non lontano trasferimento alla pratica clinica. «Indurre la differenziazione cellulare per la rigenerazione significa creare in vitro e poi impiantare nuovi tessuti biologici, con finalità terapeutiche in contesti patologici: lo stiamo già facendo con i gliomi, tumori cerebrali a basso grado», spiega Massimo Masserini, responsabile dell’area biotecnologie e nanomedicina di NeuroMi. Ma si lavora anche alla ricostruzione di tessuti mancanti e alla riattivazione di cellule del sistema immunitario, oltre che a modificazioni di cellule con Dna anomalo. «Il trasporto in loco di particelle piccolissime, dell’ordine del miliardesimo di metro, in grado di superare le barriere biologiche, come quella ematoencefalica, e di essere stabili e allo stesso tempo versatili, rispondendo in modo diverso a seconda dell’ambiente, non è più fantascienza - aggiunge -. Le innovazioni tecnologiche, lungi dal limitarsi ad essere strumenti, sono fondamentali alla genesi stessa di idee terapeutiche».
Se grazie alla potenza computazionale diventa possibile gestire la quantità crescente di dati, è nell’interpretazione che emergono le difficoltà. «Ne produciamo troppi. Come si correlano gli uni agli altri? Come un dato si trasforma in informazione e da informazione diventa conoscenza?», si chiede Giancarlo Mauri, responsabile della sezione computazionale di NeuroMi. «Sovrapporre e sistematizzare dati di livelli diversi, molecolare, clinico e comportamentale, di una stessa patologia, come abbiamo fatto nel maxi-progetto europeo “Neuroweb”, relativo alle malattie neurovascolari, è fondamentale per produrre un quadro completo della situazione, ma senza una visione d’insieme diventa difficile estrarre delle caratteristiche significative».
La riflessione sui metodi è quindi essenziale. «La frammentazione va combattuta: solo gruppi coesi ottengono risultati e, non ultimo, finanziamenti. Ma la squadra dev’essere anche eterogenea», conclude Ferrarese. La cooperazione, e non solo la competizione, diventa la strada per il futuro.

Corriere 9.7.14
L’orgoglio che manca all’Europa per la competizione sulle neuroscienze
di Mario Pappagallo


Doveva essere un’impresa paragonabile allo sbarco sulla Luna. Il progetto cervello: l’Human brain project (Hbp). Un’impresa faraonica, da un miliardo e 200 milioni di euro in dieci anni. Un modello computerizzato del cervello umano su cui studiare malattie quali l’Alzheimer e il Parkinson. Oltre 80 i centri di ricerca coinvolti. Un progetto che ha fatto scattare l’orgoglio americano e costretto lo stesso presidente Obama a varare un’impresa analoga. Ma a pochi mesi dall’avvio, l’ambizioso progetto varato dalla Commissione europea già scricchiola. Rischia il boicottaggio da parte di 280 ricercatori, tra cui anche alcuni italiani. La contestazione è arrivata con una lettera alla Commissione firmata dai neuroscienziati dissidenti e leggibile sul sito www.neurofuture.eu . Si denunciano «sostanziali problemi di efficienza e qualità». E soprattutto si paventa un costoso fallimento.
«L’Hbp è stato controverso fin dall’inizio — sostengono gli autori del documento — con molti laboratori che si sono rifiutati di aderire perché giudicavano l’approccio troppo stretto e a rischio fallimento. A giugno sono stati proposti nuovi criteri per i finanziamenti, che sono l’immagine di un ulteriore restringimento degli obiettivi al punto da provocare ulteriori ritiri e le dimissioni di un membro della commissione scientifica interna». E allora i neuroscienziati dissidenti chiedono un nuovo processo di revisione delle domande di finanziamento.
Eppure, nel presentarlo, Hbp è stato paragonato allo sbarco sulla Luna. Che cosa è accaduto? Sicuramente il timore di un investimento talmente forte da togliere risorse ad altri filoni di ricerca nel campo delle neuroscienze, ma anche un certo «livore» da parte degli esclusi.
L’immagine degli scienziati europei esce comunque un po’ «ammaccata», indipendentemente da come finirà la vicenda. È amara la riflessione di Giovanni Frisoni, uno dei coordinatori dei progetti italiani che fanno parte di Hbp: «Quello che mi rattrista è la mancanza di orgoglio verso la ricerca europea, che una volta tanto ha deciso di andare in una direzione precisa con un progetto ambizioso. Non è un caso che per la prima volta noi siamo andati avanti e gli Usa ci hanno seguito» .

Repubblica 9.7.14
La processione
Dopo l’inchino della Madonna davanti alla casa di un boss in Calabria
A Catania nella festa di Sant’Agata, il circolo dei devoti era diretto dai Santapaola, il clan mafioso più potente della città
di Francesco Merlo


CATANIA. NON c’è più l’odore santo del caramello e dello zucchero filato di cinquant’anni fa, adesso la città emana i fumi infernali dell’arrosto di cavallo - “arrusti e mangia” - cibo mafioso che è anche cibo pop, «canni pi cumannari, canni pi futtiri, canni pi mangiari». Ma «soprattutto », mi dice don Salvatore Resca della parrocchia di San Pietro e Paolo, «il fumo e la folla dove sgomitano i mafiosi perché lì c’è il Dio mafioso e non c’è il Dio cristiano».
La festa è quella di Sant’Agata, «la terza festa del mondo - mi spiega il sindaco di Catania Enzo Bianco - dopo Siviglia e Lima: un milione e mezzo di presenze secondo la polizia». Ed è l’unica al mondo che è stata processata per mafia. Racconta il pm Antonino Fanara: «Il principale circolo di devoti era diretto dalla famiglia Santapaola, il nipote e il figlio, e dalla famiglia Mangion... Loro organizzavano tutto: il percorso, la durata, le fermate, i fuochi d’artificio, sceglievano i portatori, sorreggevano la vara. Per ragioni di prestigio, non di danaro ».
CATANIA
COM ’ è finita? «Qualche mese fa sono stati tutti assolti in primo grado perché erano già stati condannati per mafia in un altro processo. Ovviamente ci siamo appellati».
Tutti protetti dal Dio mafioso di cui parla don Resca? Questo prete, che ha insegnato filosofia al liceo statale Cutelli, mi mostra la lettera che Benedetto Santapaola gli spedì dal carcere. Cercava di spiegare la bellezza e la forza della sua fede proprio a lui, al più attivo dei preti antimafia: minacciava? «Non credo. Santapaola e anche sua moglie, che un mese prima di essere uccisa mi venne a trovare, erano davvero convinti che Dio fosse dalla loro parte. Ammettevano solo “cattive compagnie” ma pensavano di essere nel giusto con tutti quei santi di cui si circondavano e quell’Agata portata in processione. Risposi alla lettera, ci fu ancora qualche scambio epistolare. Non credo che abbia capito, per lui un prete antimafia è una contraddizione. Non accetta che il torturatore che strappò le mammelle a Sant’Agata fosse un mafioso, stupidamente feroce proprio come è stato lui».
Durante i giorni della festa di Sant’Agata, don Resca, con un piccolo gruppo di preti catanesi, scappa via: «Lascio la città, e non perché la festa popolare non sia bella, a chi piace il genere. Ma perché non è cristiana, è un falso, una patacca come tutte le altre feste religiose del mondo che sono dappertutto le stesse: in India, in Guatemala, in Tibet e a Catania. Insomma voglio dire che non basterebbe rendere tutto legale, ci vorrebbe una chiesa coraggiosa che distinguesse la religiosità dalla fede e dunque cacciasse da lì non solo i devoti mafiosi, ma i preti che sulla vara e sul fercolo raccolgono soldi e candele, mescolano le messe con le scommesse: sull’ora di rientro della santa, su quale candelora arriverà per prima al Borgo, se quella dei macellai o quella dei fruttivendoli…».
Eppure, gli racconto, nel paese di Trecastagni ho visto, ancora lo scorso anno, i devoti di Sant’Alfio, con quegli strani copricapi lunghi che ricordano le suore, leccare per terra e flagellarsi i fianchi. Rivogliono la vista del figlio cieco, sperano nella guarigione della moglie malata di cancro, sognano un trapianto. «Devoti? Quelli sono disperati» dice. Al loro disgraziatissimo posto anche tanti illuministi direbbero “sia lodato il santissimo crocifisso a dispetto dell’inferno”, per sentirsi rispondere in coro: “Sempre sia lodato”. Ma è fede o superstizione? « Ho letto uno studio, che mi è parso rigoroso, secondo cui nel sud d’Italia si pregano solo i santi per ottenere grazie, favori, miracoli, e surrogare la scienza, la medicina, lo Stato. Al primo posto pregano padre Pio e al tredicesimo Gesù Cristo».
E ora parliamo di Adrano, dove il 24 agosto attaccano un ragazzino ad una corda e lo fanno volare (“il volo dell’angelo”) dal castello normanno sino al vecchio municipio, e ricordo bene che una volta, da cronista, mi accorsi che, per calmarlo, gli davano un eccitante. Lì la scenografia comunale prevale anche sull’irrazionale popolare, «e bisogna essere severi quando Dio è ridotto a kitsch senza neppure la grazia scomposta dei tarantolati ».
Chiedo al pubblico ministero Fanara come si comportò al processo contro il Dio mafioso l’allora vescovo di Catania Luigi Bommarito: «Negò di sapere che quelli erano mafiosi, disse molti “non ricordo”, molti “non so”, raccontò di avere cresimato il figlio di Santapaola che, va precisato, allora non era stato ancora condannato, aggiunse che era suo dovere pregare anche per loro…». Leggo i verbali del processo e mi pare davvero una sceneggiatura di Sciascia. Il pm chiede a chi spetta la scelta del capovara: «Io non so se viene nominato dal municipio ». Il pm insiste: secondo lei viene nominato dal Comune? «Dico: può essere, non sono mai entrato nei dettagli ». Ma i cordoni, la vara non appartengono alla chiesa? «Per modo di dire». È un interrogatorio- duello fulminante e spudorato. E Bommarito - bisognerebbe conoscerlo - ha pure la faccia esagerata di carne e mascelle, sembra quel protagonista dei Beati Paoli che annunzia: «Per entrare devi pronunziare la parola segreta ». Ma qual è la parola segreta? «E quello portò l’indice alle labbra nel segno del silenzio: la parola segreta era il silenzio ». Il vescovo sembra risvegliarsi solo quando parla del cerimoniere della festa, che è il commendatore Luigi Maina, «l’eterno Maina!» esclama cercando la complicità divertita che il pm non gli concede. Il vescovo, nel suo codice muto, indica in Maina il vero vescovo, scarica sul Comune, ed è irridente perché Maina, che oggi ha 84 anni, è il dolce&gabbana di Sant’Agata. «Si occupa di lei da quando è nato» dice il sindaco Bianco, «vive per Sant’Agata, si identifica, nel bene e nel male, con questa festa affascinante ed emozionante». Al sindaco, che è laico e cerca di imporre la legalità, piace moltissimo l’Agata che affascinò Verga e De Roberto, il rito con la coda del diavolo, «la santa femminista e marinara» secondo lo storico Tino Vittorio, perché la vara è “a varca” la barca, il velo è la vela, il cordone è la corda dell’alaggio, il saio bianco è la tunica dei sacerdoti di Iside… Quasi tutte le città siciliane hanno sante patrone: Agata, Rosalia, Lucia, Barbara, Venera...
Dunque per cinque giorni la dirty city esala il fumo nero dell’arrosto di cavallo. Via Plebiscito, la pescheria, piazza Duomo, piazza Università, via Etnea, piazza Stesicoro, piazza Borgo sono come crateri dell’Etna, la geografia urbana di un inferno vivo dove passano le tredici candelore che qui non si inchinano ma “si annacano” e non solo per omaggiare le case di rispetto ma anche per esigere il pagamento annuale dell’obolo che a molti pare pizzo. Pesano dagli ottocento ai milleduecento chili e rappresentano mestieri e quartieri, sono verniciate con oro zecchino. La vara è d’argento, pesa diciotto tonnellate ed è tirata da uomini alti come armadi che maneggiano cordoni di centocinquanta metri, uno di loro è morto calpestato. E poi c’è l’offerta della cera, trecento camion solo in un giorno. Due carrozze settecentesche con gli impiegati comunali travestiti da valletti con parrucca e livrea scortano la santa che vive nella cammaredda chiusa a doppia chiave, quella della curia e quella del municipio, con i suoi 400 smeraldi, le ametiste, i rubini, qualche diamante, la legion d’onore di Bellini. Il rito prevede la messa dell’aurora, il pontificale e, nella casa del buon Mario Ursino, i notabili si riuniscono come in una canzone di De André, «banchieri, pizzicagnoli, notai / coi ventri obesi e le mani sudate / coi cuori a forma di salvadanai…», cucina il padrone di casa, il balcone ha la forma circolare delle corone. Uno di loro ha comprato un disegno che un furbacchione era riuscito ad infilare in una mostra di Modigliani: c’è scritto Agata, la faccia è tonda, il collo è lungo, gli occhi sono senza pupille. È costato centomila euro il falso autentico più buffo del mondo. Ma Catania è la festa delle feste, l’enciclopedia hegeliana di tutte le feste e di tutte le processioni del mondo, il sottosopra dove persino le mamme cedono i figli.
E difatti a Randazzo, il 15 agosto, attaccano alla Vara - un fusto alto trenta metri - dieci bambini vestiti di raso azzurro e di seta rosa con delle corone di cartapesta in testa. E le mamme pagano la Chiesa madre (una vera gara con le buste) per avere il privilegio di vedere appeso il proprio angioletto di quattro o cinque anni che, arricciato dal parrucchiere, ovviamente piange, strepita e si dispera anche se, prima di partire, lo riempiono di caramelle e coprono di «viva l’Addolorata » il pianto che in casa coprono di baci. È impossibile non pensare alle selezioni per X Factor o per le veline, una riffa per comprare un posto non in paradiso e neppure in tv, ma nel blasone di paese.
Ad Enna i diavoli cantano uguali uguali ai muezzin, sono le geremiadi che in dialetto diventano lamintazzi, i gemiti di Cristo in croce ma accompagnati dalla banda del paese, fagotto e trombone e contrabbasso, la stessa di Totò, del maestro Scannagatti arabizzato dai dervisci danzanti alla Battiato.
Meno impressione fanno i famosi diavoli di San Fratello, il paese d’origine di Craxi. Incappucciati di rosso, scorrazzano per la città, urlando insulti e minacce non solo l’uno conto l’altro, grotteschi e irridenti disturbatori come gli scimuniti che fanno i gavettoni a Ferragosto e poi rombano con la marmitta segata. Oggi i diavoli carnevaleschi di San Fratello, che era comunità giudea, non sono più quelli di Sciascia e Scianna, «la parte più oppressa, più misera della popolazione che, mettendosi per quel giorno nel ruolo di un popolo non meno oppresso e perseguitato, si levava a beffeggiare, a insultare, a colpire e ad irridere al sacrificio della croce». Oggi non ci sono più ebrei e il diavolo devoto di quel bellissimo libro non somiglia neppure a Totò Riina ma ai bulletti delle Iene, ai tapiri di Staffelli.

Repubblica 9.7.14
Al via l’undicesima edizione del Festival della Mente a Sarzana
Recalcati, Serra e la Saraceno al Festival della Mente 2014


IL FESTIVAL della Mente torna per l’undicesima edizione a Sarzana dal 29 al 31 agosto; 60 relatori e 39 incontri tra conferenze, spettacoli, workshop. Con la direzione scientifica di Gustavo Pietropolli Charmet l’iniziativa punta a esplorare la nascita e lo sviluppo dei processi creativi: scrittori, artisti, fotografi, designer, scienziati, psicoanalisti, filosofi e storici indagano i cambiamenti, le energie e le speranze della società di oggi. «Il Festival della Mente è un cantiere aperto dove si produce un insolito tipo di cultura» dichiara Pietropolli Charmet. «Non quella che si trasmette nelle aule universitarie. A Sarzana scrittori e ricercatori narrano le cose più belle che hanno capito o scoperto». Tra gli ospiti Mario Calabresi (che aprirà la manifestazione il 29 agosto con una lectio magistralis), Massimo Recalcati, Michele Serra, Chiara Saraceno, Alessandro Barbero, Fabio Geda, Luigi Zoja.

Corriere 9.7.14
Entrare nella mente del creatore, con l’aiuto di scienziati e funamboli
di Alessandro Beretta


È stato presentato alla Triennale di Milano il programma dell’undicesima edizione del Festival della Mente di Sarzana, la prima realizzata sotto la direzione scientifica dello psichiatra e psicologo Gustavo Pietropolli Charmet, succeduto dopo dieci anni all’ideatrice della rassegna Giulia Cogoli. Il festival si svolgerà durante l’ultimo weekend d’agosto, dal 29 al 31, accogliendo nei luoghi storici del comune al confine tra Liguria e Toscana 39 incontri tenuti da 60 relatori dedicati al tema della creatività.
L’idea editoriale non cambia, ma sono diversi i modi disciplinari di avvicinarla: «Charmet ha raccolto un testimone importante — racconta Matteo Melley, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia che promuove il festival —, fornendo elementi di novità nel rispetto della tradizione della manifestazione. Una frase facile da dire, ma che non è immediata da realizzare. Oltretutto, e ne andiamo fieri, riuscendo a mantenere stabile il budget che è lo stesso da diverse edizioni e che permette una continuità progettuale».
Il festival è realizzato con 550 mila euro, parte dei quali rientra con i biglietti di ingresso, e costituisce il picco dell’attività culturale di Sarzana che, puntualizza il sindaco Alessio Cavarra, prosegue ininterrotta da marzo ad ottobre. A raccontare il suo festival, interviene Charmet: «Nel lavoro di preparazione, ho scoperto quanto la manifestazione mi fosse vicina per vocazione. Da anni mi occupo di divulgazione scientifica e il Festival della Mente si è dimostrato lo strumento migliore per farla in maniera radicale». Certo, chiarendosi a chi si rivolge: «Credo ci sia un bisogno diffuso di capire e di entrare nella conoscenza — prosegue il direttore scientifico —, di scoprire il bello e di avere accesso al segreto della creazione. Per accogliere questo bisogno il festival è il dispositivo migliore, perché nutre quel bisogno attraverso la partecipazione del pubblico. A quest’ultimo è data la possibilità di fruire in diretta la cultura, grazie all’eccellenza dei relatori, e di farlo senza mediazioni e artifici. Una cultura a chilometro zero dove tutti escono contenti, pubblico e relatori».
Le principali linee del programma sono impostate da Charmet su una «radicale interdisciplinarità e internazionalità». Centrale è il tema della creatività, con un testimone d’eccellenza in apertura di festival come Philippe Petit, funambolo autodidatta che camminò nel 1974 tra le Torri Gemelle, come raccontato nel documentario Man on the Wire . Un approccio non classico alla realizzazione artistica emergerà anche nell’incontro tra il fotografo Gianni Berengo Gardin e Roberto Koch dell’agenzia Contrasto nell’incontro intitolato Scrivere con la macchina fotografica , nell’appuntamento con il regista Giorgio Diritti e in quello tra lo scrittore americano Peter Cameron e Marco Missiroli.
Senza dimenticare che fare arte non è facile, come racconterà Beppe Severgnini nell’incontro «Creare non vuol dire improvvisare». Altro tema portante è il confronto tra le generazioni: i ponti rotti nella comunicazione tra giovani e adulti sono molti e indagarli è fondamentale per costruire il futuro. Così, tra gli italiani, Francesco M. Cataluccio interverrà su «L’epidemia dell’immaturità: da Peter Pan a Harry Potter» che tocca gli adulti, mentre non mancheranno sguardi inattesi sul rapporto tra novità e tradizione, come quello della scrittrice indiana Anita Nair dedicato alla «Nuova identità della donna indiana».

Barbadillo 8.7.14
La ricerca dell’assoluto e la filosofia di Heiddeger
di Giovanni Balducci

qui