giovedì 10 luglio 2014

l’Unità 10.7.14
Ai lettori
il Cdr


«Siamo rimasti toccati dall’appello dei lavoratori de l’Unità e non rimaniamo indifferenti di fronte alla situazione esistente. Siamo consapevoli del valore storico della testata e abbiamo a cuore quanti, ogni giorno, a dispetto delle difficoltà esistenti, garantiscono con la massima professionalità un importante servizio per l’informazione italiana... ». Apprezziamo queste parole del tesoriere del Partito democratico Francesco Bonifazi, riferite a una redazione che da sola, senza tutele né stipendi, garantisce la presenza in edicola del giornale. Così come da soli i giornalisti de l’Unità hanno difeso la testata fondata da Antonio Gramsci dalle avances della Santanchè.
Continueremo a dirlo con ostinazione: il giornale si deve salvare oggi con un piano industriale ed editoriale solido, che rispetti la storia de l’Unità, la comunità dei suoi lettori, e che salvaguardi l’occupazione. Non è più tempo di parole.

l’Unità 10.7.14
La grande forza di una comunità
di Beppe Sebaste


LA «GUERRA CONTRO L’INTELLIGENZA», DICEVA IL FILOSOFO JACQUES DERRIDA, È QUELLA PERPETRATA DA UN ECONOMICISMO MIOPE CHE CONSIDERA PRODUTTIVI SOLO GLI INVESTIMENTI A BREVE TERMINE. È una politica ispirata dal misconoscimento cieco e dal risentimento verso tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. È la tragedia politica del nostro tempo. Non posso non richiamarla parlando della «crisi» de l’Unità, frutto in realtà di un’erosione che si protrae da anni nonostante l’intatta qualità dei contenuti.
Non solo la chiusura delle sedi regionali e il progressivo restringersi della redazione, ma un impoverimento controproducente, come la distribuzione ridotta e addirittura eliminata in alcune regioni, i tagli alle agenzie di stampa e fotografiche, il quasi continuo stato di crisi e solidarietà, ecc. Un po’ come fare economia nella pubblica istruzione, chiamandola riforma, tagliando le spese di aule, libri, docenti e soprattutto tempo, ovvero dell’insegnamento stesso, tagliando alle radici ogni possibile dedizione.
La resistenza quotidiana dei giornalisti de l’Unità, da mesi anche senza stipendio, ha qualcosa di paragonabile al lavoro degli insegnanti in certe scuole pubbliche. Il caso vuole che mentre trovo in Internet il video della conferenza stampa nella sede de l’Unità, vedo anche un’immagine di Italo Calvino con una sua frase, diffusa dal sito Docenti senza frontiere: «Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per i soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere». Basta cambiare una parola e il discorso funziona.
È questo a rendere universale la minaccia di chiusura de l’Unità, che ci riguarda come altre minacce di estinzione in corso: di parchi, teatri, cultura, della pluralità dei linguaggi e dei concetti di realtà, dei beni comuni a torto considerati improduttivi. La prosperità di un Paese viene viceversa dalla capacità di investimenti a lungo termine. Come dirlo in un’epoca in cui i più beceri populismi si compattano con l’economicismo più miope, e il finanziamento pubblico dell’editoria viene interpretato come spreco e non come sostegno alle espressioni che non coincidono, per natura e vocazione, alle esigenze autoreferenziali del mercato? In un mondo dove si fanno i sondaggi prima di dire le proprie idee, come spiegare che la definizione della realtà non può e non deve coincidere con quella del mercato e della finanza?
Il concetto gramsciano di «unità» è più ampio di una sigla virtuale o di un brand, e il giornale l’Unità è sinonimo di una comunità reale che rimanda a un popolo elettivo (ed elettorale) ancora più vasto, e che da anni si sente, se non orfano di una rappresentanza, quanto meno disamato. La crisi della politica nasce da qui. Come scrivemmo su questo giornale, con le parole di una bellissima poesia di Tiziano Scarpa, «la sinistra italiana non ama il proprio popolo». L’impoverimento e l’erosione de l’Unità iniziarono forse col lungo stalking esercitato dieci anni fa dai Ds (futuro Pd) contro il direttore Furio Colombo, attaccato come se fosse insopportabile che il giornale andasse così bene.
I problemi economici de l’Unità, è stato ribadito alla conferenza stampa, sono un fallimento imprenditoriale, non certo di chi il giornale lo ha fatto e fa tuttora benissimo. Basterebbero le pagine di cultura a evidenziarne l’unicità e la bellezza. È qui che ho letto ieri il bellissimo testo di Diego Fusaro sul fanatismo cieco dell’economia: «l’odierno sistema globale considera il mondo della vita non come un bene di per sé ma come bene di consumo; va cambiato il cambiamento, dice, affinché il pianeta non cambi senza di noi... ». Quando il capitalismo globale guarda una persona, un albero o un giornale, ne vede soltanto il valore economico. Un giornale è un mondo, un incrocio di linguaggi, e sguardi, una moltitudine, non solo un brand. La chiusura de l’Unità sarebbe la sciagurata conferma della folle volontà di adoperare le leggi del mercato come unica legge del mondo, come sostiene chi non crede più alla differenza tra la destra e la sinistra.
C’è bisogno de l’Unità come c’è bisogno di una distinzione tra destra e sinistra. E c’è bisogno de l’Unità proprio come c’è bisogno di situarsi: a sinistra.

l’Unità 10.7.14
Roma, oggi lo sfratto del Teatro Eliseo
È stato la casa dei grandi autori del dopoguerra, da Eduardo a Valli
Bettini: «Uno scempio»
di Ri. Val.


UNO DEI TEATRI STORICI DI ROMA, L’ELISEO, OGGI RISCHIA DI ESSERE SFRATTATO. ACCADE CHE LA SOCIETÀ CHE GESTISCE IL TEATRO sia in crisi e non riesca a pagare l’affitto ai proprietari delle mura che hanno già intimato lo sfratto per morosità. Grande l’allarme dei lavoratori che hanno iniziato un' assemblea permanente e chiedono l'intervento delle istituzioni per fermare lo scempio che si sta consumando ai danni del teatro e di chi ci lavora.
In una nota le segreterie regionali di Slc Cgil e Uilcom Uil e le Rsa scrivono: «Nonostante l'incontro avvenuto lo scorso 4 luglio tra l’Eliseo Teatro e i rappresentanti della società proprietaria dell'immobile, l’Eliseo Immobiliare di Vincenzo Monaci, Stefana Marchini Corsi e Carlo Eleuteri, non è stato possibile il raggiungimento di alcun accordo a causa dell'assenza di Carlo Eleuteri. Risulta quindi evidente la volontà di portare alla chiusura l'attuale attività, nonostante l'offerta formale avanzata dal produttore Francesco Bellomo che, a detta dello stesso, sarebbe l'unica proposta capace di garantire il prosieguo della regolare attività teatrale già programmata e il mantenimento di tutti i posti di lavoro».
Spiega in un articolo il quotidiano online Cinque: «Va detto che la società di gestione nel frattempo aveva avviato delle trattative con due differenti cordate che non hanno ancora dato risultati o speranze tangibili, tanto che si va insinuando il sospetto di una operazione volta a chiudere momentaneamente il teatro approfittando del periodo estivo. Questa soluzione favorirebbe una delle due cordate che ha intenzione di trasformare parte del teatro e più probabilmente il glorioso Piccolo Eliseo in una struttura ricreativa con annessa attività commerciale sfruttando la delibera denominata “Nuovo Cinema Paradiso n 168 del Maggio 1995” che nella sostanza rappresenta una variante nella attuazione del Prg per i cambi di utilizzazione delle sale cinematografiche e dei teatri. Una riconversione autorizzata che sacrificherebbe il glorioso Piccolo Eliseo, già “Ridotto dall’Eliseo”, fiore all’occhiello della cultura teatrale italiana, intitolato a Giuseppe Patroni Griffi». Insomma, dietro lo sfratto esecutivo ci sarebbe di più e dell’altro.
Molte le reazioni politiche. Per Goffredo Bettini della direzione del Pd e parlamentare europeo. «Verrebbe voglia di non crederci: la crisi del Teatro Eliseo, la minaccia di sfratto, idea di trasformare almeno in parte quello che è stato la casa del grande teatro italiano del dopoguerra (Eduardo, la Compagnia dei Giovani, Romolo Valli, Patroni Griffi...) in una sala ricreativa sono così gravi da apparire quasi assurde». «Sono dalla parte - continua Bettini - di chi vuole difendere l'Eliseo. Per farlo servono sforzi, vere iniziative si sostegno e valorizzazione della cultura e dello spettacolo, serve un tessuto vivo che tenga insieme artisti e spettatori che allarghi il numero di quanti oggi fanno e godono di cultura. Serve, infine, uno sforzo coordinato delle amministrazioni locali e del governo. Mi impegno a sostenere le iniziative per la salvaguardia dell'Eliseo».

Corriere 10.7.14
Placido direttore dell’Eliseo per salvare il teatro dallo sfratto
di Emilia Costantini


ROMA — «Sono onorato dalla proposta che mi è stata fatta. Vedremo se sarà fattibile». Michele Placido viene chiamato in causa per il nuovo corso, si spera, del Teatro Eliseo dopo la burrasca sollevata dall’ipotesi che il Piccolo Eliseo, cioè il Ridotto, possa diventare una balera. Proprio oggi, infatti, il glorioso palcoscenico di via Nazionale rischia lo sfratto esecutivo per morosità. E a coinvolgere Placido, nel ruolo di futuro direttore artistico, della stagione 2015-16, è il produttore Francesco Bellomo che guida una delle due cordate che si fronteggiano per la nuova gestione: «Nella nostra compagine — assicura Bellomo — coinvolgiamo docenti universitari, rappresentanti della cultura romana e imprenditori, perché intendiamo proseguire l’ottimo lavoro svolto finora dall’attuale direttore Massimo Monaci». Un lavoro che purtroppo, con l’incombere della crisi, ha sofferto di difficoltà finanziarie, pur continuando a garantire la qualità e l’immagine di una storica ribalta scenica. L’altra cordata è capeggiata dall’imprenditore Giancarlo Cavicchi, che ha avuto successo con le discoteche a Roma, e si ipotizza che il Piccolo Eliseo possa cambiare destinazione d’uso, trasformandosi in un luogo di «attività ricretiva».
«Si tratta di uno degli Stabili privati più importanti a livello nazionale, con una storia straordinaria iniziata ai primi del ‘900. Fa tremare i polsi l’idea di assumerne la direzione — ammette Placido — ma mi sento coinvolto in un progetto di rilancio». Un teatro che Placido ha frequentato spesso: «Sin dai tempi dell’Accademia, quando con i compagni assistevo ai capolavori di Visconti, Patroni Griffi, la Compagnia dei Giovani... sognando un giorno di poter calcare anche io quelle tavole», cosa che è avvenuta in seguito: «All’Eliseo sono in qualche modo di casa, anche di recente come regista di un Pirandello» aggiunge proprio mentre sta girando in Puglia il film, «La scelta», che è tratto da un’opera del drammaturgo siciliano, «L’innesto».
Più volte Placido è stato contattato per dirigere teatri, ma questa sarebbe la prima volta che accetterebbe di farlo: «L’unica gestione che in passato ho accettato per un periodo, è stata quella del Tor Bella Monaca, il primo teatro periferico della Capitale che ha assunto un prestigio. Ma qui sarebbe una direzione vera e propria, una novità assoluta nella mia carriera — conferma —. Avendo una mia compagnia privata, con cui produco e realizzo normalmente spettacoli, francamente non ho mai avvertito il bisogno di stabilirmi in un posto. Stavolta mi diverte l’idea di accogliere la sfida, perché credo di avere l’esperienza necessaria, in palcoscenico e nel cinema, per dare all’Eliseo quello che si merita». E pensa a un progetto complesso: «Non mi interessa fare il direttore-capocomico all’italiana, che mette in scena solo i propri spettacoli — continua — Grazie a Dio io il lavoro ce l’ho! Voglio invece realizzare un teatro di formazione, con una scuola, con una compagnia stabile come si faceva una volta, per scoprire nuovi talenti attoriali e registici. E poi, avendo ormai parecchie conoscenze anche fuori dai confini nazionali, creare un dialogo con le grandi istituzioni culturali europee. Per dare al panorama teatrale romano, in grave crisi, un centro culturale di respiro internazionale».

l’Unità 10.7.14
La teoria degli scudi umani
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


È possibile che nessuno possa o voglia fermare questo proliferare di focolai di guerre?! Israele in primis non può più spadroneggiare, con la copertura e l’approvazione degli Usa di Obama che non riesce a realizzare il cambiamento per cui si era impegnato.
Lino Mazzoni

Una scena classica del western e del cinema d’azione è quella del «cattivo» armato che costringe una persona inerme, generalmente una donna, a fargli da scudo mentre fugge dalla resa dei conti con i «buoni». «Giù le armi o la uccido!», intima il «cattivo» e i «buoni» si fermano. Istantaneamente. Nella finzione cinematografica, i «buoni» non sarebbero più tali, infatti, se, per catturare il «cattivo» non si curassero della vita dell’ostaggio e bene sanno, gli sceneggiatori e il regista, che come un pugno nello stomaco del telespettatore disgustato sarebbe un comportamento diverso dei «buoni» con cui lui si identifica. Così come un pugno nello stomaco sono, per me e per tanti, le parole dei governanti di Israele sulle bombe che hanno ferito e ucciso a Gaza, le donne e i bambini di cui, secondo loro, i palestinesi «cattivi» si sarebbero fatti scudo. La guerra è guerra, si dirà, e Israele si difende ma davvero è difficile credere e far credere che l’obiettivo colpito da Israele con la sua bomba «intelligente» vale davvero le vittime che ha prodotto. Donne e bambini. A meno che lo scopo non fosse quello di far capire ai palestinesi di Hamas che Israele sarebbe pronta anche ad una soluzione «finale». E senza tenere conto però, se l’obiettivo è quello di spaventarli, che l’effetto sarà quello di aumentare l’odio e di rinforzare la volontà di resistere. L’orrore destato da quelle immagini sarà nocivo, d’altra parte, soprattutto per gli israeliani.

l’Unità 10.7.14
A un passo dalla guerra
E il mondo resta a guardare
di Rocco Cangelosi


Il presidente israeliano Peres ha lanciato l’ultimo avvertimento ad Hamas: stop ai razzi o sarà invasione. Abu Mazen: «Fermare il genocidio».
I tentativi di gestire la crisi innescata dal ritrovamento dei tre adolescenti rapiti e barbaramente uccisi, seguita dall’altrettanto barbaro omicidio di un giovane palestinese, sono miseramente falliti di fronte all’escalation della violenza da una parte e dall’altra. A nulla sono valsi i gesti distensivi promossi dal presidente israeliano uscente Shimon Peres, che ha voluto condividere il dolore con la famiglia del palestinese ucciso, nè le prudenti parole di Mahmoud Abbas. Né sembra aver alcuna possibilità di successo il tentativo del governo israeliano di indurre Abbas a rompere l’accordo di governo di unità nazionale raggiunto con Hamas. Svanita questa possibilità, Netanyahu e il nuovo presidente di Israele Rivlin hanno dovuto piegarsi alle pressioni dei falchi e della pubblica opinione che chiede un’azione esemplare nelle striscia di Gaza. Il rischio è che l’azione israeliana ormai imminente non possa essere circoscritta, ma rischi di deflagrare in un conflitto di più ampie proporzioni in una congiuntura politica esplosiva per tutta la regione, in coincidenza con l’offensiva condotta dall’autoproclamato califfato dell'Iraq e del levante (Isil), che richiederebbe nuove alleanze per frenare la furia distruttiva del nuovo leader del terrorismo Al Baghdadi.
È noto infatti il sostegno che l’Iran fornisce ad Hamas da lungo tempo e non è escluso che Teheran faccia pesare diplomaticamente il ruolo di contenimento nei confronti dell’Isil, che è stata chiamata a giocare indirettamente dagli Stati Uniti.
A ciò si aggiunga la drammatica situazione in Siria, dove un nuovo conflitto israelo-palestinese potrebbe innescare nuove violenze e nuovi scontri, aprendo le porte ai jahidisti dell’Isil. Intanto la diplomazia internazionale si rimette in movimento per cercare di arginare il conflitto e stabilire una tregua tra le due parti nella speranza che si riannodi il difficile percorso verso la pace. Ma per il momento gli interventi - sia degli Usa, sia dell’Unione europea - si sono limitati a generiche dichiarazioni di condanna senza un piano organico che riporti al tavolo negoziale le due parti in causa.
Emerge da tutto questo il sostanziale fallimento del tentativo di mediazione condotto dall’amministrazione Obama attraverso il segretario di Stato John Kerry e la marginalità dell’Europa nell’area. Federica Mogherini ha chiesto esplicitamente un ruolo della Ue per la ripresa dei negoziati e incontrando il suo omologo russo Serghei Lavrov ha rappresentato la gravità della situazione che sta vivendo il Medio oriente in queste ore invitando Mosca a contribuire alla ricerca di una tregua. Obama da parte sua ha invitato israeliani e palestinesi a proteggere gli innocenti e a operare in maniera ragionevole non per vendetta, né per rappresaglia. Ma le buone parole non bastano più e sarà necessario uno sforzo collettivo della diplomazia internazionale per costringere le due parti al tavolo del negoziato, ricorrendo anche a misure coercitive per impedire che la spirale della violenza accenda nuovi fuochi in tutta la regione.
L’amministrazione Obama è tuttavia sempre più riluttante ad impegnarsi in azioni concrete in un’area che considera sempre più di minore di importanza strategica per gli interessi economici degli Stati Uniti dopo la rivoluzione dello «shale gas». Dovrebbe essere l’Europa a svolgere un ruolo di primo piano di mediazione e sostegno al processo di pace, ma le divisioni e i distinguo tra i vari Stati membri hanno impedito finora che la Ue potesse assumere una posizione credibile unitaria nell’ambito della politica estera e di sicuerzza comune (la cosiddetta «Pesc»), limitando il suo ruolo a quello di ufficiale pagatore, quando si tratta di erogare aiuti o concessioni commerciali nell’area.

l’Unità 10.7.14
Ultimo avvertimento di Peres: stop ai razzi o sarà invasione
Abu Mazen: «Fermare il genocidio»
di Umberto De Giovannangeli


E alla fine di una giornata di guerra - Gaza in fiamme , razzi su Tel Aviv, 160 raid aerei israeliani, 49 palestinesi uccisi - a lanciare l’ultimatum, ma che è anche l’ultimo disperato appello, è «Shimon la colomba»: «Stop ai razzi o invaderemo la Striscia», avverte in diretta televisiva il capo dello Stato ebraico, premio Nobel per la Pace. A rispondergli, è l’uomo con cui solo qualche settimana fa, Peres si era unito in preghiera in Vaticano: il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen). «Dobbiamo fermare questo massacro, è un genocidio», afferma Abu Mazen alla riunione straordinaria dell’Anp svoltasi a Ramallah, e le sue parole descrivono la gravità della situazione a Gaza, oggetto l’altra notte di incessanti raid aerei da parte dell’aviazione israeliana. Gaza si prepara al peggio. Ma il peggio è già in essere. «Israele non sta difendendo se stesso, ma gli insediamenti, che sono il suo obiettivo principale», rimarca ancora Abu Mazen. «Cercheremo di muoverci in diversi modi per fermare l’aggressione israeliana e lo spargimento di sangue palestinese, inclusi i colloqui con il presidente egiziano al-Sisi e il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon», ha aggiunto il presidente palestinese. Ma le parole, anche le più dure, si perdono nel clamore delle armi.
Ci sono stati ben 160 attacchi che, secondo Tsahal, avrebbero colpito 550 obiettivi, rifugi di militanti di Hamas o luoghi da dove venivano lanciati razzi contro Israele. Tra le vittime, una donna e tre bambini - due fratellini, di 12 e 13 anni a Shejaya; un bimbo di 4 anni a Zeitu - secondo fonti mediche di Gaza, mentre una motocicletta con a bordo due uomini è stata centrata dai raid a Beit Lahiya, non lontano dalla frontiera con Israele, provocando la morte di uno degli uomini a bordo Cinque persone sono rimaste uccise nella loro casa in un attacco aereo israeliano nel campo profughi di al-Maghazi. Secondo fonti palestinesi il bilancio delle vittime cresce di ora in ora, tra i morti anche sette bambini, 300 i feriti. Una situazione che sta diventando sempre più difficile da gestire negli ospedali di Gaza.
La reazione di Hamas è stata immediata: «Israele - ha affermato un portavoce - ha varcato una grave linea rossa, e ne subirà conseguenze» per aver bombardato l’altra notte la casa di Raed al-Attar, uno dei comandanti del braccio armato di Hamas. Al-Attar è stato uno dei rapitori del caporale Ghilad Shalit.
L’altro ieri il capo di Stato maggiore israeliano Benny Gantz aveva chiesto al governo il richiamo di 40mila riservisti, un passaggio che sembra il preludio ad un’invasione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito con la stella di David. E ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha confermato quanto anticipato dal ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon poco prima: «L’operazione sarà estesa e proseguirà fino a quando gli spari verso le nostre città non cesseranno del tutto e la calma ritornerà». Nella notte torna a parlare Yaalon: «Abbiamo ucciso terroristi di differenti ranghi e questa operazione continuerà e sarà intensificata. Da parte nostra non sarà una battaglia di breve durata».
RISUONANO LE SIRENE
Nella mattinata di ieri sono risuonate le sirene di allarme a Tel Aviv, dopo che l’altro ieri anche Gerusalemme era stata interessata dal lancio di razzi da parte di Hamas. Secondo l’esercito israeliano, sono 225 i razzi lanciati dalla Striscia dall’inizio dell'operazione «Margine protettivo», partita lunedì notte. Circa 40 di questi sono stati intercettati dal sistema anti missili Iron Dome. Non sono solo le zone di confine ad essere bersaglio dei razzi: ieri due missili M302 sono caduti in un’area a nord di Cesarea, ad oltre 130 km dalla Striscia. Un uomo è rimasto ferito. E due razzi sono caduti al largo di Haifa, 90 km a nord di Tel Aviv.
È la prima volta che dei razzi palestinesi raggiungono il grande porto del nord di Israele, che si trova a più di 160 km da Gaza. Hamas sembra dunque aver allungato la gittata dei razzi lanciati contro Israele, gittata che ormai supera i 100 chilometri. Del resto, martedì le Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, avevano avvertito Israele che avrebbero risposto all’offensiva «allargando il raggio» dei loro obiettivi fino a un punto che avrebbe «sorpreso» il nemico. In serata, Hamas ha rivendicato il lancio di tre razzi M-75 a medio raggio dalla Striscia di Gaza contro la centrale nucleare israeliana di Dimona nel deserto di Neghev. Due sono caduti in un’area di 20 km dall'impianto, culla del mai confermato programma nucleare israeliano, ed uno è stato invece intercettato dal sistema di difesa «Iron dome». L’aeronautica israeliana ha lanciato un raid aereo nella zona da cui sono partiti i razzi. Nella notte altri raid a Gaza, mentre l’offensiva di terra si avvicina. A un passo dalla guerra.

l’Unità 10.7.14
Pozzi contaminati e fame Gaza, carcere a cielo aperto
Oltre un milione e settecentomila persone chiuse in una gigantesca gabbia senza speranza
Dove medicinali,elettricità e anche il cibo entrano solo con l’ok israeliano
di U.D.G.


La guerra di Gaza vista dall’Ambasciatore d’Israele in Italia, Naor Gilon. In questo drammatico frangente, Israele, dice a l’Unità il diplomatico, chiede all’Europa e all’Italia, presidente di turno dell’Ue, di «premere fortemente su Hamas affinché accetti, le tre condizioni fondamentali per il negoziato: fine del terrorismo, riconoscimento di Israele e accettazione dei trattati di pace precedentemente firmati».
Bombardamenti a tappeto a Gaza, razzi palestinesi su Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa. È di nuovo guerra?
«In primis mi permetta di cambiare la sequenza della sua domanda. Hamas ha attaccato Israele con razzi e missili e solo in un secondo momento Israele ha risposto militarmente. Secondo punto: non è esatto dire che Israele bombarda Gaza a tappeto, ma colpisce precisamente i terroristi di Hamas e i depositi di armi di questa organizzazione criminale. Guardiamo a come si è svolta la crisi: Abu Mazen ha formato un governo di unità con Hamas che noi non abbiamo accettato. Hamas, legittimato da Abu Mazen, ha rapito tre innocenti civili israeliani, uccidendoli spietatamente solamente perché ebrei. Quindi, Hamas ha cominciato a bombardare le città israeliane, tra le quali Tel Aviv e Gerusalemme, con i missili e razzi. Nessun governo al mondo potrebbe accettare una situazione simile. Nessun Paese potrebbe accettare una condizione in cui la maggior parte dei cittadini vivono sotto la minaccia dei missili. Il primo ministro Netanyahu ha dato a Hamas il tempo per ristabilire la calma, rimarcando che “la pace porterà altra pace”. Hamas, tuttavia, ha scelto di continuare l’attacco contro gli inermi civili. Purtroppo, quest’attacco dimostra che, o Abu Mazen non ha alcun controllo su quanto accade nella Striscia di Gaza, o deliberatamente non intende fermare l’attacco in corso. Entrambe le ipotesi, ovviamente, sono assai negative».
In un articolo pubblicato nei giorni scorsi su Haaretz, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha affermato che la sicurezza non può che nascere da un negoziato di pace. Condivide questa affermazione?
«Noi tutti desideriamo la pace. Per questo, sosteniamo la soluzione dei due Popoli per due Stati, anelata da tutti noi, e riteniamo che questa potrà essere raggiunta solo per mezzo del negoziato. Siamo estraneamente dispiaciuti nel vedere che Abu Mazen ha preferito l’alleanza con Hamas alla continuazione del negoziato di pace. Hamas, voglio ricordarlo, è un’organizzazione terrorista riconosciuta come tale dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Nel suo statuto, Hamas non solo non riconosce l’esistenza di Israele, ma chiede l’uccisione di tutti gli israeliani e di tutti gli ebrei».
Per l’ennesima volta un governo israeliano afferma:
«Per Hamas è la fine», una frase che abbiamo già ascoltato tante volte in passato; ma Hamas è sempre lì. «Israele ha sempre chiesto alla comunità internazionale che agisca con forza per costringere Hamas ad accettare le tre condizioni base del negoziato di pace: fine del terrorismo, riconoscimento di Israele e accettazione dei trattati di pace precedentemente firmati. Sino ad ora, come lei ha visto, Hamas ha scelto di sostenere l’ideologia radicale del fondamentalismo islamico di cui, tra l’altro, è parte anche l’Isil, organizzazione jihadista che ha invocato la conquista di Roma. Con questo tipo di organizzazione, non può esistere dialogo alcuno».
In questo contesto drammatico Israele come guarda all’Europa ed in particolare al semestre di presidenza italiana dell’Ue?
«La nostra richiesta all’Europa, all'Italia e a tutta la Comunità Internazionale è di premere fortemente su Hamas affinché accetti, come suddetto, le tre condizioni fondamentali per il negoziato. Senza di queste, nessun Governo di unità palestinese potrà essere legittimato. Proprio per questo, chiediamo inoltre che siano fatte altrettante pressioni su Abu Mazen, affinché egli scelga tra la continuazione del “patto con il diavolo” o il ritorno al negoziato di pace. Solamente attraverso il negoziato potremo ridare prospettive e speranze ai due popoli».
*Sul conflitto israelo-palestinese, l’Unità ha avviato un ciclo di interviste con i protagonisti delle due parti. Nei giorni scorsi abbiamo intervistato due tra i più autorevoli esponenti della leadership palestinese: Hanan Ashrawi e Saeb Erekat. Le interviste sono consultabili sul sito del giornale.

La Stampa 10.7.14
“Nessun cessate il fuoco. Colpiremo tutti gli obiettivi”
Al Masri, portavoce degli islamisti della Striscia “È il momento di ribellarsi all’occupazione”
di Maurizio Molinari


Mushir al-Masri è il volto di Hamas nella guerra dei media che accompagna il conflitto militare con Israele. Eletto nei ranghi di Hamas nelle elezioni palestinesi del 2006, il 44enne al-Masri fu all’epoca il parlamentare più giovane di Gaza e viene da una delle famiglie più rispettate della Striscia.
Lo incontriamo nel cortile dell’ospedale, da dove concede interviste a raffica alle tv arabe, con l’intento di innescare un’ondata di solidarietà per Hamas capace di rompere l’attuale isolamento.
Quale è la situazione militare sul campo?
«Il nemico sionista ha finito gli obiettivi da colpire, per questo si accanisce contro case e civili. Sono in evidente difficoltà. Mentre noi di obiettivi ne abbiamo davvero molti, possiamo colpirli tutti, e presto se ne accorgeranno».
Sta parlando di Hedera, una città a 120 chilometri dalla Striscia di Gaza, che avete raggiunto con i razzi?
«Hedera è solo una delle sorprese che abbiamo in serbo per il nemico. Pagheranno un alto prezzo di sangue per i crimini che stanno commettendo contro il popolo palestinese».
Temete un’invasione di terra?
«Hamas non teme nulla. Saranno loro a perdere molti soldati se oseranno entrare a Gaza».
Sono in corso trattative per il cessate il fuoco?
«No, questo è il momento di combattere il nemico non certo di trattare con lui la tregua».
Eppure l’Egitto dice sta tentando di riuscirci...
«All’Egitto chiediamo di riaprire i confini e i tunnel, di aiutare a far respirare la nostra economia alle prese con una vasta aggressione militare».
Quale è il vostro obiettivo in questo conflitto con Israele?
«Abbiamo visto con orgoglio le proteste dei palestinesi a Gerusalemme e degli arabo-israeliani dopo il brutale assassinio del ragazzo di 17 anni. Combattendo, chiediamo ai fratelli dell’intera Palestina di sollevarsi e battersi al nostro fianco, per aprire più fronti contro il nemico sionista».
Insomma, puntare ad innescare un’ampia rivolta controIsraele?
«Il momento per sollevarsi contro l’occupazione è ora».
Cosa vi aspettate dalla comunità internazionale?
«Americani ed europei, come al solito, stanno con Israele oppure tacciono sui suoi crimini dovrebbero aiutarci a bloccare questa aggressione. Invece parlano solo della sicurezza di Israele».
E dal mondo arabo?
«Ci aspettiamo aiuti, donazioni e armi. Siamo in lotta per la Palestina e per Gerusalemme, contiamo sul sostegno di quegli arabi che ci sostengono».
Il governo di unità nazionale con Abu Mazen può ancora decollare?
«Noi abbiamo scelto l’unità nazionale, sta ora ad Abu Mazen dimostrare di saper essere a fianco della popolazione palestinese di Gaza aggredita da una sanguinosa macchina da guerra che uccide civili».

La Stampa 10.7.14
Netanyahu: pronti a nuove operazioni
Abu Mazen: genocidio


Benjamin Netanyahu assicura che «l’operazione militare sarà estesa» e Abu Mazen lo accusa di «genocidio dei palestinesi». Il premier israeliano si è recato a Beersheva, per una riunione sulla sicurezza delle città del Sud ed è in questa sede che ha promesso di «intensificare le attività contro Hamas» adoperando un linguaggio che avvalora lo scenario di un possibile intervento di terra. D’altra parte Yuval Steinitz, ministro dell’Intelligence, parla di una «temporanea rioccupazione della Striscia» per poter «smantellare l’organizzazione terroristica che vi opera». In concreto significa far entrare a Gaza contingenti di truppe scelte per dare la caccia ai leader di Hamas dentro bunker e tunnel. È uno scenario del quale il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha discusso a Ramallah con i più stretti collaboratori affermando che «Israele persegue il genocidio dei palestinesi». «Hanno iniziato a Hebron, continuato a Shuafat e ora colpiscono Gaza» ha aggiunto, leggendo la gestione israeliana del rapimento dei tre ragazzi ebrei e dell’adolescente palestinese come un unico piano che ora si concretizza con «la brutale aggressione a Gaza». Da qui la scelta di chiamare Ban Ki-moon per chiedere subito una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu in parallelo con la domanda di adesione palestinese «a tutti gli organismi internazionali». Scegliendo tale approccio, Abu Mazen punta a far comprendere all’amministrazione Obama che il sostegno alle operazioni di Israele potrebbe avere come conseguenza l’avvicinamento ulteriore di Fatah ad Hamas.
Ma in realtà nella sfida diplomatica fra Netanyahu e Abu Mazen ciò che più conta è la posizione dell’Egitto di Al Sisi. Il Cairo infatti è l’unico canale di comunicazione fra Israele ed Hamas e Al-Sisi ha interesse a sfruttare la crisi per cogliere il suo primo successo diplomatico dall’elezione a presidente. Per questo il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, chiede «moderazione e autocontrollo» allo Stato ebraico, recandosi ad Amman per coordinare le mosse con la Giordania. In realtà però la posizione dell’Egitto è più articolata perché Al Sisi considera Hamas un alleato dei Fratelli Musulmani – al bando in Egitto come organizzazione terroristica – e più volte negli ultimi mesi ha bersagliato con ogni sorta di misure, economiche e di sicurezza, la leadership fondamentalista di Gaza. Da qui l’ipotesi di un tacito avallo di Al-Sisi all’intervento di Israele, tantopiù che nel Sinai la cooperazione anti-terrorismo fra i due Paesi è ai livelli più alti dalla pace di Camp David nel 1979. [m.mo.)

il Fatto 10.7.14
Israele, escalation “atomica”
I razzi di Hamas anche contro la centrale di Dimona. Gerusalemme: “Fermatevi o invadiamo”
di Roberta Zunini


Anche il presidente uscente israeliano (lascerà il posto a Rivlin il 24 luglio), il moderato premio Nobel Shimon Peres, ha dichiarato, alla Cnn, che “se Hamas non fermerà il lancio di missili, Israele risponderà”. Con l’offensiva di terra - preparata dalle bombe sganciate senza soluzione di continuità da due giorni dai jet israeliani - che è sempre un terno al lotto poiché non garantisce mai un risultato certo e definitivo in termini di stabilizzazione dell’area e, al contempo, provoca un altro numero di vittime, soprattutto in zone circoscritte e sovrappopolate come la Striscia di Gaza.
Il razzo di fabbricazione iraniana a media gittata lanciato l’altra sera dal braccio armato di Hamas su Gerusalemme ha provocato un rumore assordante, udito anche a Ramallah, la capitale provvisoria dell’Autorità nazionale palestinese da dove il presidente Abu Mazen ha dichiarato che Israele “sta compiendo un genocidio”. Abu Mazen, che ha mandato nella Striscia alcuni suoi uomini (membri del partito Fatah) per negoziare con i vertici di Hamas – al governo della Striscia dal 2007- una tregua con Israele, non poteva fare altrimenti. Ma il termine genocidio non solo è esagerato ma, in questo momento, irricevibile da parte dell’Occidente, sostenitore del presidente moderato palestinese.
NESSUNO, NÉ GLI USA né l’Unione europea potranno e vorranno condannare la caterva di bombe che Israele sta rovesciando sulla Striscia come risposta alle decine di razzi che il movimento islamico radicale e gli jihadisti stanno inviando da giorni e giorni sulle città israeliane, tra le quali la capitale delle tre religioni monoteiste, la città santa: Gerusalemme. Nessuno, non solo in Occidente, è disposto ad ammettere che Israele sta compiendo un genocidio post-moderno dei palestinesi dal 1967, attraverso il declinarsi quotidiano dell’occupazione della Cisgiordania e l’assedio di tutte le frontiere di Gaza dal 2005, quando il defunto Ariel Sharon ordinò il ritiro dalla Striscia dei coloni e dei soldati che li difendevano. Solo gli israeliani lo potranno fare. Ma coloro che lo ammettono e denunciano da anni sono sempre di meno. “Ho paura a organizzare una manifestazione contro questo governo fascista e criminale, pieno di ministri che hanno preso i voti dai coloni, come Avigdor Lieberman e Naftali Bennet. Si tratta di politici violenti. Con la scusa di ciò che è scritto nella Bibbia, ritengono di avere il diritto di tenere in ostaggio e schiavizzare i palestinesi. Sto pensando di tornare in Francia dove sono nato e vissuto fino ai 18 anni”, mi dice un amico di Tel Aviv che preferisce restare anonimo. “Quando ero a Parigi non capivo che Israele è uno stato di apartheid e rabbinico. Ora lo so”. A dirlo apertis verbis , che Israele sta marciando speditamente in questa direzione invece rimangono gli scrittori come Avraham Yeoshua , Amos Oz e David Grossman. Lo scrittore, che ha perso Uri, il figlio 21enne, nell’ultima guerra contro il Libano, sette anni fa, ha scritto a proposito di quest’ultima e pericolosissima crisi: “La destra ha vinto perché è riuscita a instillare la sua pessimistica visione del mondo nella maggior parte degli israeliani. E si potrebbe dire che non solo ha sconfitto la sinistra, ma che ha sconfitto Israele... perché ha sconfitto quello che un tempo si sarebbe potuto definire ‘lo spirito israeliano’: quella capacità di rinascere a dispetto di tutto. Ha annientato il nostro coraggio e la nostra speranza. Una tregua tra palestinesi e israeliani “è impossibile”, perché lo Stato ebraico è “inaffidabile” - ha dichiarato Israa al-Mudallal, responsabile delle relazioni esterne per il governo di unità nazionale palestinese - e non accetterà le nostre condizioni per la tregua: fine dei raid israeliani a Gaza, fine dell’embargo contro la Striscia e liberazione di tutti i detenuti palestinesi. Intanto aumenta il numero dei civili, tra i quali 2 bambini, morti sotto le bombe. Finora sono oltre cinquanta

il Fatto 10.7.14
I bambini di Gaza tra polvere e sangue
Come nelle precedenti “operazioni di difesa” israeliane anche questa volta vedremo tra i vicoli sciami di bambini che ‘giocano alla guerra’ lanciando sassi contro i carri-armati
di Vauro Sanesi


Dalla missione della flotilla per Gaza del luglio 2011 Vauro Sanesi è sulla lista nera e non può entrare in Israele

Ci sono luoghi della memoria e luoghi del cuore. Per me Gaza è ambedue. Nella memoria la polvere. Nel cuore visi di bambini, tanti bambini, di donne e di uomini. È attraverso la polvere sottile e acre che la rivedo nel pensiero oggi che la so devastata. Di nuovo ferita dal fuoco e dalle bombe. Attraverso la polvere mi apparve quando vi giunsi per la prima volta tanti anni fa, nel 1988, agli inizi della Prima Intifada. La “rivolta delle pietre” come la chiamarono. La polvere alzata dal vento del mare si infiltrava ovunque. Lungo le strade dissestate, tra i cardini di ferro arrugginito delle botteghe chiuse per uno sciopero eterno contro l’occupazione israeliana. Nei labirinti infiniti tra le baracche degli immensi campi-profughi.
Il mare non si vedeva. Celato dietro alle fitte costruzioni. Né se ne sentiva il profumo. Ché quello che impregnava l’aria era l’odore del fumo di copertoni bruciati per protesta, l’odore dei gas sparati dai soldati israeliani, la puzza dei mucchi di immondizia abbandonati in strada a imputridirsi al sole. L’odore della miseria insomma.
Aliene torrette su alte zampe d’acciaio sorgevano agli incroci delle vie principali. Troneggiavano come astronavi atterrate da un pianeta ostile e lontano. Da quelle soldati israeliani, resi invisibili dai sacchetti di sabbia dai quali spuntavano minacciose solo le canne brunite delle mitragliatrici, sorvegliavano le strade deserte. Pareva che la città li negasse, negando la propria vita ai loro occhi. Poi, imprevisti, improvvisi, sbucando a frotte dai vicoli e dagli angoli delle strade, stormi di ragazzini, bambini, irrompevano colmando delle loro grida e della loro vivacità il vuoto surreale dell'attimo prima.
ERANO LORO che lanciavano sassi contro le torrette o i blindati lontani. Eccitati dal gioco e dalla paura alzavano la mano con l’indice e il medio sollevati in segno di vittoria. Erano loro che ero venuto a cercare, affascinato da quella battaglia impari tra pietre e carri-armati. Non esistevano a quel tempo razzi Qassam né attentatori suicidi. Era facile per le nostre viziate e distratte coscienze occidentali parteggiare per loro. Era stato facile anche per la mia. Finché l’immagine era distante, appariva ammantata di eroismo esotico. La retorica del sasso contro l’acciaio ci faceva vibrare di emozione e commozione. Adesso che ero lì provavo un’immensa vergogna per tutto questo. Erano solo bambini Cristo! Ai quali la brutalità dell’occupazione, le scuole e gli asili chiusi, il coprifuoco, l’umiliazione di una miseria indotta, non aveva lasciato altro gioco che quello macabro della guerra. Ai sassi la guerra rispondeva con l’acciaio, il piombo e il ferro. Il gioco era mortale.
ERANO OCCHI di bambino quelli che spalancati cercavano invano, per orgoglio infantile, di trattenere le lacrime. Un bambino di non più di 10 anni. Legato mani ai piedi. Incaprettato. Portato per la strada principale sul cofano della jeep dell’esercito israeliano. Esposto come un trofeo alla folla che popolava la via per fare i propri miseri acquisti in una delle brevi pause dello sciopero generale. “Spezzare le braccia all’Intifada”, aveva dichiarato il futuro Nobel per la Pace Rabin. Non era una metafora. I soldati avevano delle apposite mazze rafforzate da tondini di ferro. Erano braccia di bambini quelle che ho visto spezzare a bastonate.
“PER FAVORE portala fuori da qui”, mi disse nella penombra del chiuso della sua baracca la madre della piccola Buthaina. Mi mise in mano una foto della bambina. Buthaina, aveva 4 anni quando era stata uccisa da un proiettile di gomma che le sfondò la tempia. L’ho portata fuori quella foto. Fuori dal carcere a cielo aperto che Gaza era ed è. Mi capita di guardarla a volte. Fantastico sulla donna che oggi Buthaina sarebbe potuta essere. Ma poi la ripongo nel cassetto. Ché se fosse sopravvissuta a quel proiettile forse sarebbe morta bruciata dal fosforo bianco dell’operazione Piombo Fuso o in qualche altra “operazione dei difesa” con un nome diverso. O forse si sarebbe fatta esplodere uccidendo altri giovani come lei in un bus o in una discoteca in Israele. O forse sarebbe diventata una madre. Distrutta, come la sua, dalla perdita violenta di un figlio o di una figlia. Altre volte sono tornato a Gaza. Le sue strade e i suoi vicoli sono ancora colmi di bambini. Sembrano non morire mai i bambini a Gaza. Dicono che i terroristi li usino come scudi umani. Ma in una striscia di costa assediata dove sono rinchiuse ed ammassate quasi 2 milioni di persone “scudo umano” non può non essere chiunque vi viva. Sembrano non morire mai i bambini di Gaza. E invece continuano a morire . Anche adesso mentre scrivo queste righe per “farli uscire” cercando di raccontarli.

Repubblica 10.7.14
La spirale infinita nel caos mediorientale
Perché il copione questa volta non potrà ripetersi
di Lucio Caracciolo


PARREBBE la solita storia. Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse; aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili; segue spedizione punitiva di Tsahal, stivali per terra nella Striscia.
SALVO rientro alle basi entro un paio di settimane. Tutti pronti a ricominciare dopo congruo intervallo.
Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio. È cambiato il contesto. E stanno rapidamente mutando i rapporti di forza all’interno delle élite dirigenti (si fa per dire) palestinesi e della leadership israeliana.
Il contesto prima di tutto. Il Grande Medio Oriente si sta disintegrando. Dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua. Le “primavere arabe” e le controrivoluzioni di marca saudita non hanno finora prodotto nuovi equilibri, ma guerre, miseria, precarietà. Valgano da paradigmi di questa Caoslandia il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana; la disintegrazione della Libia; il massacro permanente sulle macerie della Siria; la mai spenta guerra civile in Iraq che in ultimo ha visto riemergere le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi. Sullo sfondo il rischio che anche la Giordania, battuta da cotante onde sismiche, finisca per crollare.
Infine i tre massimi punti interrogativi: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di al-Assad e gli sciiti iracheni di al-Maliki - oltre che dediti a liquidare i Fratelli musulmani dovunque siano - alla vigilia di una delicatissima successione al trono? Quale fine farà il disegno dell’Iran – o di parte dei suoi leader – di rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti? Per conseguenza: Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?
Nel campo palestinese, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale. Abu Mazen si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani. Ma la pax cisgiordana degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio di tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite. In questa vicenda è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso.
L’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione. A compiere quel crimine sono probabilmente stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale. Una scheggia, non un referente militare della peraltro divisa leadership di Gaza. La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. Spirale infinita, ma non uguale a se stessa. A ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso. La crisi potrà essere sedata, magari a lungo. Non risolta.
Fino a ieri Netanyahu non sembrava preoccupato da tale deriva. Anzi, nel foro interno la salutava in quanto conferma dell’inaffidabilità dei “terroristi” della Striscia appena riciclati come uomini di “governo” nel patetico abbraccio con Abu Mazen e con ciò che residua del Fatah. Oggi il primo ministro israeliano rischia di fare i conti con gli effetti imprevisti del machiavellismo con cui lui, come i suoi predecessori, ha pensato di chiudere la partita palestinese giocandone le fazioni una contro l’altra. Dopo aver cercato il basso profilo nella rappresaglia contro Hamas, la pressione dell’opinione pubblica, angosciata dalla continua pioggia di razzi, lo sta spingendo ad alzare il tiro. L’estrema destra lo accusa di passività, la coalizione di governo perde pezzi (Avigdor Lieberman) e il suo aspirante successore, Naftali Bennett, affila le armi. Risultato: quarantamila riservisti sono mobilitati e una nuova campagna di terra dentro Gaza sembra imminente.
Con quale obiettivo? Una soluzione radicale dovrebbe prevedere la rioccupazione della Striscia. Impossibile senza un bagno di sangue, con perdite considerevoli anche fra i soldati israeliani. Eppoi, l’ultima cosa che Gerusalemme vuole è riaccollarsi la responsabilità di quell’inferno da cui Sharon seppe smarcarsi quasi dieci anni fa.
La storia non si ripete. Massimo, fa rima. E illude. Tutti i contendenti pensano di recitare un copione scritto. Anche volendo, non possono. Dentro e intorno a casa, tutti hanno preso a correre all’impazzata. Verso dove, nessuno sa. Meno che mai quelli che pensano di saperlo.

Repubblica 10.7.14
Ramallah
“Ora una nuova Intifada” tra i palestinesi i raid accendono la rabbia e Hamas cerca la rinascita
Ma sono i gruppi islamisti ancora più radicali a fare maggiore breccia nella popolazione
di Fabio Scuto


RAMALLAH. Ogni ora che passa le simpatie dell’uomo della strada per Hamas crescono. Specie nella “laica” Ramallah. Basta sedersi allo Stars and Bucks Cafè di Piazza Manara — il cuore della capitale de facto della Palestina — per averne conferma. I commenti e i discorsi ai tavolini sono tutti su Gaza e la frase ricorrente è «stanno massacrando la nostra gente, fanno bene a difenderci ». Hamas era ormai isolato dai suoi “padrini” arabi e islamici, in default economico dopo il crollo del contrabbando dall’Egitto che lo finanziava, con un calo dei consensi che poteva sfociare anche nel suo ridimensionamento nella Striscia della Gaza. Un declino politico che nell’ultimo anno è stato continuo, fino a queste settimane. Era sull’orlo del collasso e invece adesso ha rioccupato il centro della scena nel ruolo che il movimento integralista sente come più “caratterizzante”, quello della vera “resistenza” contro il nemico di fronte a una leadership moderata come quella di Abu Mazen che dopo vent’anni di negoziato con Israele si ritrova al punto di partenza.
Hamas è convinto che questo ciclo di violenze possa rimescolare le carte e aiutare il movimento a rilanciarsi come alternativa all’Anp, e così lancia i suoi appelli perché l’incendio di Gaza spinga i palestinesi della Cisgiordania a una Terza Intifada. «Oggi siamo tutti chiamati a un’intifada popolare», dice al telefono dal Cairo Moussa Abu Marzuk, il leader di Hamas che ha diffuso l’appello, «siamo stanchi di parlare di risoluzioni e di pace».
«Hamas oggi non combatte né per la Palestina né per i palestinesi, combatte per restare in vita, perché non ha più nulla da perdere», spiega Mukhaimer Abu Saada, politologo dell’Università Al Aqsa. «Hamas combatte per la sua sopravvivenza politica e la sovranità sulla Striscia ». Il vuoto della proposta politica di Hamas, spiega il professore, ha lasciato campo libero alla ala dura del movimento, ai miliziani del braccio armato — le Brigate Ezzedin al Qassam — che intende sfruttare l’offensiva israeliana per riprendere quel sostegno popolare che l’organizzazione islamica ha perso dall’inizio delle primavere arabe.
Qui sono molti a ripetere che dal punto di vista del movimento il lancio dei missili contro Tel Aviv, contro Gerusalemme e le città del nord di Israele rappresenti una «vittoria», per questo l’organizzazione cercherà di tirare il confronto militare il più a lungo possibile. È quasi un mantra, qui: «La capacità di resistenza della popolazione palestinese è molto più vasta di quella del fronte interno israeliano». Lo dicono tutti, un po’ per convinzione un po’ per disperazione. Per questo motivo Hamas cercherà di continuare a sparare missili contro le città israeliane a un ritmo di decine ogni giorno — nei suoi arsenali ce ne sono circa 350 — nella speranza che uno di questi riesca a “bucare” il sistema di difesa israeliano “Iron Dome” colpendo un aeroporto, una fabbrica, un palazzo. Devastazione e vittime in una città d’Israele creeranno quell’immagine di panico che Hamas cerca. Dal suo punto di vista — anche se la Striscia sarà ridotta a un cumulo di macerie — il fatto stesso di sopravvivere sarà considerato un successo, come avvenne dopo l’Operazione Pilastri di Difesa nel 2012 e Cast Lead nel 2009.
«Hamas scommette che Israele non lancerà come minaccia un’offensiva di terra contro Gaza, perché rioccupare la Striscia è impossibile: il costo di vite umane sarebbe esorbitante», dice ancora il professor Saada. Fra l’altro Israele non ha alcun interesse a rioccupare la Striscia perché non ha un obiettivo politico, scriveva ieri su Yedioth Aaronoth l’analista militare Alex Fishman, «lo scopo delle operazioni militari è uno solo: fermare il lancio dei missili». Il premier Netanyahu nei suoi otto anni di governo non ha mai ordinato all’Esercito una “ground operation”, nel 2009 e nel 2012 Israele si “limitò” a una campagna di bombardamenti aerei che durarono settimane. Ma il governo, trascinato in questo confronto militare contro i suoi interessi dallo stillicidio di missili che da tre mesi cadono nel sud di Israele, potrebbe stavolta cedere alle pressioni dei falchi e aprire una nuova fase. Perché il tiro degli artiglieri di Hamas si fa ogni giorno più preciso e allarga il suo raggio.

il Fatto 10.7.14
Il costituzionalista Alessandro Pace
“Renzi è intollerante a garanzie e contropoteri”
intervista di Silvia Truzzi


Il pacchetto delle riforme costituzionali è nato sotto una costellazione confusa: mille tira e molla, voltafaccia, modifiche su singoli punti nate da trattative plurilaterali. Il caos ha indotto i più a pensare a faciloneria, scarsa dimestichezza con la materia, fretta soprattutto. E se invece dietro il disordine ci fosse un disegno consapevole? “A mio avviso è ben chiara l’idea di concentrare i poteri nella Camera dei deputati e, in definitiva, nella coalizione di maggioranza”, spiega Alessandro Pace, professore emerito di Diritto Costituzionale alla Sapienza di Roma.
Partiamo dalla madre di tutti i guasti: la legge elettorale.
L’Italicum, con l’abnorme premio di maggioranza, riproduce nella sostanza il Porcellum bocciato dalla Consulta. L’altro aspetto, unanimemente criticato, riguarda la disparità di trattamento dei partiti rispetto alle coalizioni, che si risolve di fatto nell’impedimento alla partecipazione alle elezioni dei partiti che non raggiungano l’8 per cento. Non solo: la trasformazione dei voti in seggi non si produce nelle circoscrizioni dove si vota, ma nell’ufficio centrale circoscrizionale, per cui sarà un diverso candidato a beneficiare di quel voto. Detto ciò, se analizziamo il ddl costituzionale Renzi-Boschi alla luce dell’Italicum, che garantisce il premio di maggioranza (pari a 340 deputati) a una coalizione ancorché assai lontana da quel traguardo, ci avvediamo della gravità delle conseguenze.
Che sarebbero?
Fino a ieri, in forza del testo originario del ddl Renzi-Boschi, la coalizione di governo, già dal quarto scrutinio, avrebbe potuto disporre della maggioranza sufficiente di 366 parlamentari (26 senatori oltre ai 340 deputati) per eleggere anche il presidente della Repubblica. Grazie al sub-emendamento Gotor, questa possibilità è stata spostata al nono scrutinio: un traguardo lontano, ma non impossibile, sempre che la maggioranza resti rigidamente inquadrata dopo le molte votazioni. Invece non sarebbe affatto difficile, per la coalizione di governo, riuscire a eleggere tutti e i cinque i giudici costituzionali, date le maggioranze politiche attualmente esistenti nei consigli regionali. Infatti l’articolo 31 del ddl Renzi-Boschi (diversamente dall’attuale articolo 135 della Costituzione) non prevede esplicitamente che i giudici costituzionali debbano essere eletti dal Parlamento in seduta comune. Per cui, verificandosi l’abrogazione implicita (“per nuova disciplina della materia”) dell’articolo 5 della legge costituzionale n. 2 del 1967 che disciplinava il voto nel Parlamento in seduta comune, basterebbe la maggioranza relativa per la loro elezione sia alla Camera (tre giudici) che al Senato (due giudici ).
Qual è il disegno di Matteo Renzi secondo lei?
Il disegno iniziale portato avanti da Renzi - da un lato una Camera dei deputati al centro del sistema dominata dalla coalizione di governo grazie all’Italicum, dall’altro un Senato non eletto dal popolo, i cui componenti sarebbero sindaci e consiglieri regionali part time - ha trovato qualche ostacolo in commissione. Tuttavia le materie nelle quali la funzione legislativa è esercitata collettivamente da Camera e Senato sono poche. Per il resto, le altre competenze legislative che il “nuovo” art. 70 attribuisce al Senato sono più illusorie che effettive perché sono comunque superabili dal voto contrario della Camera, semmai a maggioranza assoluta, che è un obiettivo tutt’altro che irraggiungibile grazie all’Italicum.
Oltre a ciò il Senato non sarebbe elettivo.
Il fatto che le materie di competenza legislativa siano poche e il voto del Senato sia superabile da parte della Camera non esclude che quelle approvate dal Senato – tra cui le modifiche della Costituzione!– siano leggi a tutti gli effetti. Se ciò è vero, è altrettanto vero che il ddl Renzi-Boschi viola un principio basilare dello Stato di diritto secondo il quale le leggi le fanno i rappresentanti diretti del popolo e non delle persone elette ad altri incarichi che fanno i senatori part time. Né l’elezione indiretta da parte dei Consigli regionali e dai Consigli delle Province autonome risolverebbe il problema. Ma c’è dell’altro…
Cioè?
Il secondo comma del primo articolo della Carta dice che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ne discende chi i poteri pubblici sono sempre essenzialmente limitati. Diminuire radicalmente le funzioni del Senato oltre a eliminarne l’eleggibilità significa che il Senato non potrà più svolgere il suo ruolo di contropotere della Camera. E ciò urta contro un altro principio fondamentale, proprio delle democrazie pluraliste, la necessità dei contro-poteri. Una siffatta concentrazione di potere in capo ad un solo organo e a una sola coalizione (per non dire in capo ad un solo partito e al suo leader) è impensabile in una democrazia liberale. Lo affermò esplicitamente lo stesso Presidente Napolitano nel suo bellissimo discorso per il 60° anniversario della Costituzione, allorché prese le distanze dal semipresidenzialismo francese, di cui lamentava l’assenza di contropoteri. Ebbene una delle caratteristiche di quel sistema è il criticatissimo “voto bloccato”, che - guarda caso! - è stato previsto, ciò nondimeno, nel ddl Renzi-Boschi.
E l’immunità dei senatori?
Se il Senato resta elettivo, ai suoi componenti competono insindacabilità e immunità. Altrimenti dovrebbe restare soltanto l’insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle proprie funzioni.
Cosa pensa della proposta di innalzare la soglia minima di firme necessarie per la legge d’iniziativa popolare da 50mila a 250mila?
È sbagliata. Si giustifica tale restrizione sostenendo che verrebbero garantite a tali proposte di legge “tempi, forme e …limiti”. Il che è uno specchietto per le allodole, in quanto serve nel frattempo a non agevolare (come dovrebbe) ma a limitare l’iniziativa legislativa popolare, violando così, ulteriormente, l’articolo 1 della Costituzione che proclama la sovranità popolare.
Ma se questa cosa l’avesse
fatta Berlusconi?
Saremmo tutti quanti saltati per aria. Renzi ragiona come se le maggioranze siano destinate a rimanere invariate per l’eternità. Ma sbaglia, questo non lo può non sapere.

il Fatto 10.7.14
L’economista
Una Assemblea Costituente contro il progetto piduista
di Marco Vitale


Ho letto e riletto con molta attenzione i vostri 10 punti. È importante esaminarli tutti insieme, perché è solo il quadro d’insieme che fa percepire la gravità del pericolo. Trascuro, quindi, le divergenze, che pure esistono, su alcuni singoli punti, per condividere la conclusione: si tratta di un disegno, nel suo insieme, incostituzionale e piduista. D’altra parte da Berlusconi & Co. non c’era da attendersi altro. Ma perché anche Renzi gioca la partita a un così basso livello e impegna l’intero partito su un disegno piduista, mentre avrebbe davanti a sé la possibilità di guidare una fase di innovazioni veramente importanti, democratiche e utili al Paese? Non credo sia facile rispondere a questa domanda (anche se la lettura di Piccioli è convincente). Non mi convince, invece, una risposta solo in chiave di ambizione personale. Ben più solida e soddisfacente per Renzi sarebbe la prospettiva e le soddisfazioni personali, se non coltivasse questa insana prospettiva piduista. Però una posizione puramente difensiva contro questo virulento attacco agli equilibri democratici costituzionali è insufficiente. La maggioranza dei cittadini, angustiata da problemi quotidiani pressanti e da grandi e crescenti preoccupazioni per il futuro, non è sensibile al tema delle libertà ed equilibri costituzionali e non percepisce il pericolo grave insito nella prospettiva piduista (pericolo ingigantito dalla bassa affluenza alle urne). D’altra parte chi, tra le forze politiche organizzate, potrebbe farsi portavoce di questa battaglia? Piccole minoranze responsabili nel Pd, il Movimento Cinque Stelle se non si fosse così gravemente screditato alleandosi con i fascisti inglesi e con altre preoccupanti manifestazioni dei suoi leader. Se non c’è un’alternativa credibile, dove possiamo appendere una qualche speranza di riuscire a contenere l’ondata piduista e innestare una prospettiva costruttiva?
UN PUNTO CENTRALE della riflessione è che comunque le nostre istituzioni funzionano male, che la maggioranza dei cittadini sentono che, comunque, esse debbono subire un cambiamento e un’evoluzione, che questa attesa è condivisa dalle istituzioni europee e internazionali, e dalle maggiori organizzazioni produttive. Funzionano male le istituzioni politico-amministrative (Parlamento, governo, ministeri); funzionano male anche quelle locali (le nostre Regioni sono un disastro a cominciare dalla Lombardia, sino a sprofondare nell’inferno della Sicilia), e quelle funzionali (magistratura, Csm, protezione civile e simili). Perciò una posizione puramente difensiva (contro il piduismo), pur necessaria e preziosa, non è sufficiente. Bisogna inserire una posizione positiva, propositiva, un progetto per una democrazia non autoritaria ma seria ed efficiente e capace di superare gli egoismi delle tante caste che tengono inchiodato il Paese.
Il groviglio dei problemi è tale che vi è un’unica via maestra per dare una risposta corretta, e per tentare una risposta coordinata, meditata e coerente: un’Assemblea Costituente. Ma poiché non si vedono possibilità che un’azione responsabile in questa direzione venga esercitata dalle forze politiche organizzate o dalle istituzioni, l’unica via possibile è quella di un’Assemblea Costituente autoconvocata. Sono consapevole che si tratti di una prospettiva disperata, ma siamo in una situazione disperata. Cittadini responsabili e competenti, soggetti collettivi interessati non solo agli interessi che rappresentano ma al bene comune, esili voci libere nella stampa, parlamentari consapevoli e non schiavi delle segreterie dei partiti, studiosi e intellettuali chi vaglia, sindacalisti interessati ai diritti dei lavoratori, università capaci di pensiero, pur sopravvivono, per ora, nel nostro Paese. Perché un’Assemblea autoconvocata, bene organizzata, con una presidenza autorevole non potrebbe produrre un testo meditato, coordinato e onesto, che identifichi le disfunzioni che fanno soffrire i cittadini e proponga per ognuno di esse soluzioni ragionevoli, che migliorino significativamente l’attuale situazione? Se non altro questa iniziativa e questo testo aiuterebbero i cittadini a porre a raffronto che cosa si potrebbe fare con ciò che si sta facendo o si minaccia di fare. Naturalmente la mia proposta è compatibile con altre di più facile e immediata attuazione già proposte da altri lettori.

il Fatto 10.7.14
Bersani si sfila
“Riforme da aggiustare
L’ex segretario suona la carica. Tra gli oppositori un’area molto vasto
intervista di Sara Nicoli


Il pacchetto delle riforme costituzionali è nato sotto una costellazione confusa: mille tira e molla, voltafaccia, modifiche su singoli punti nate da trattative plurilaterali. Il caos ha indotto i più a pensare a faciloneria, scarsa dimestichezza con la materia, fretta soprattutto. E se invece dietro il disordine ci fosse un disegno consapevole? “A mio avviso è ben chiara l’idea di concentrare i poteri nella Camera dei deputati e, in definitiva, nella coalizione di maggioranza”, spiega Alessandro Pace, professore emerito di Diritto Costituzionale alla Sapienza di Roma.
Partiamo dalla madre di tutti i guasti: la legge elettorale.
L’Italicum, con l’abnorme premio di maggioranza, riproduce nella sostanza il Porcellum bocciato dalla Consulta. L’altro aspetto, unanimemente criticato, riguarda la disparità di trattamento dei partiti rispetto alle coalizioni, che si risolve di fatto nell’impedimento alla partecipazione alle elezioni dei partiti che non raggiungano l’8 per cento. Non solo: la trasformazione dei voti in seggi non si produce nelle circoscrizioni dove si vota, ma nell’ufficio centrale circoscrizionale, per cui sarà un diverso candidato a beneficiare di quel voto. Detto ciò, se analizziamo il ddl costituzionale Renzi-Boschi alla luce dell’Italicum, che garantisce il premio di maggioranza (pari a 340 deputati) a una coalizione ancorché assai lontana da quel traguardo, ci avvediamo della gravità delle conseguenze.
Che sarebbero?
Fino a ieri, in forza del testo originario del ddl Renzi-Boschi, la coalizione di governo, già dal quarto scrutinio, avrebbe potuto disporre della maggioranza sufficiente di 366 parlamentari (26 senatori oltre ai 340 deputati) per eleggere anche il presidente della Repubblica. Grazie al sub-emendamento Gotor, questa possibilità è stata spostata al nono scrutinio: un traguardo lontano, ma non impossibile, sempre che la maggioranza resti rigidamente inquadrata dopo le molte votazioni. Invece non sarebbe affatto difficile, per la coalizione di governo, riuscire a eleggere tutti e i cinque i giudici costituzionali, date le maggioranze politiche attualmente esistenti nei consigli regionali. Infatti l’articolo 31 del ddl Renzi-Boschi (diversamente dall’attuale articolo 135 della Costituzione) non prevede esplicitamente che i giudici costituzionali debbano essere eletti dal Parlamento in seduta comune. Per cui, verificandosi l’abrogazione implicita (“per nuova disciplina della materia”) dell’articolo 5 della legge costituzionale n. 2 del 1967 che disciplinava il voto nel Parlamento in seduta comune, basterebbe la maggioranza relativa per la loro elezione sia alla Camera (tre giudici) che al Senato (due giudici ).
Qual è il disegno di Matteo Renzi secondo lei?
Il disegno iniziale portato avanti da Renzi - da un lato una Camera dei deputati al centro del sistema dominata dalla coalizione di governo grazie all’Italicum, dall’altro un Senato non eletto dal popolo, i cui componenti sarebbero sindaci e consiglieri regionali part time - ha trovato qualche ostacolo in commissione. Tuttavia le materie nelle quali la funzione legislativa è esercitata collettivamente da Camera e Senato sono poche. Per il resto, le altre competenze legislative che il “nuovo” art. 70 attribuisce al Senato sono più illusorie che effettive perché sono comunque superabili dal voto contrario della Camera, semmai a maggioranza assoluta, che è un obiettivo tutt’altro che irraggiungibile grazie all’Italicum.
Oltre a ciò il Senato non sarebbe elettivo.
Il fatto che le materie di competenza legislativa siano poche e il voto del Senato sia superabile da parte della Camera non esclude che quelle approvate dal Senato – tra cui le modifiche della Costituzione!
– siano leggi a tutti gli effetti. Se ciò è vero, è altrettanto vero che il ddl Renzi-Boschi viola un principio basilare dello Stato di diritto secondo il quale le leggi le fanno i rappresentanti diretti del popolo e non delle persone elette ad altri incarichi che fanno i senatori part time. Né l’elezione indiretta da parte dei Consigli regionali e dai Consigli delle Province autonome risolverebbe il problema. Ma c’è dell’altro…
Cioè?
Il secondo comma del primo articolo della Carta dice che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ne discende chi i poteri pubblici sono sempre essenzialmente limitati. Diminuire radicalmente le funzioni del Senato oltre a eliminarne l’eleggibilità significa che il Senato non potrà più svolgere il suo ruolo di contropotere della Camera. E ciò urta contro un altro principio fondamentale, proprio delle democrazie pluraliste, la necessità dei contro-poteri. Una siffatta concentrazione di potere in capo ad un solo organo e a una sola coalizione (per non dire in capo ad un solo partito e al suo leader) è impensabile in una democrazia liberale. Lo affermò esplicitamente lo stesso Presidente Napolitano nel suo bellissimo discorso per il 60° anniversario della Costituzione, allorché prese le distanze dal semipresidenzialismo francese, di cui lamentava l’assenza di contropoteri. Ebbene una delle caratteristiche di quel sistema è il criticatissimo “voto bloccato”, che - guarda caso! - è stato previsto, ciò nondimeno, nel ddl Renzi-Boschi.
E l’immunità dei senatori?
Se il Senato resta elettivo, ai suoi componenti competono insindacabilità e immunità. Altrimenti dovrebbe restare soltanto l’insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle proprie funzioni.
Cosa pensa della proposta di innalzare la soglia minima di firme necessarie per la legge d’iniziativa popolare da 50mila a 250mila?
È sbagliata. Si giustifica tale restrizione sostenendo che verrebbero garantite a tali proposte di legge “tempi, forme e …limiti”. Il che è uno specchietto per le allodole, in quanto serve nel frattempo a non agevolare (come dovrebbe) ma a limitare l’iniziativa legislativa popolare, violando così, ulteriormente, l’articolo 1 della Costituzione che proclama la sovranità popolare.
Ma se questa cosa l’avesse fatta Berlusconi?
Saremmo tutti quanti saltati per aria. Renzi ragiona come se le maggioranze siano destinate a rimanere invariate per l’eternità. Ma sbaglia, questo non lo può non sapere.

il Fatto 10.7.14
Per il referendum abrogativo serviranno 800mila firme


È PASSATA in commissione Affari costituzionali una proposta che riguarda le firme necessarie per dar luogo al referendum abrogativo previsto dall’articolo 75 della Costituzione. I relatori avevano presentato un emendamento che portava il numero di sottoscrizioni dalle attuali 500 mila a un milione. La proposta che è stata approvata fissa il numero a 800 mila. L’emendamento prevede anche un giudizio preventivo di ammissibilità sul quesito da parte della Corte costituzionale, una volta raggiunta la metà delle firme necessarie, e cioè 400 mila. L’emendamento pone anche dei limiti alle materie che potranno essere oggetto di referendum: il quesito dovrà riguardare o un’intera legge o un suo articolo purché abbia un valore normativo autonomo. Vengono quindi esclusi quelli che in gergo sono chiamati “referendum manipolativi”, che abrogano solo una singola parola o una singola parte di un articolo di una legge. Maurizio Migliavacca (Pd), primo firmatario dell’emendamento che ha abbassato il numero delle firme rispetto all’ipotesi iniziale ritiene che si tratti di una “soluzione positiva”.

La Stampa 10.7.14
Il fronte del No lancia la sfida dei numeri al premier
di Marcello Sorgi


La riforma del Senato va in aula. L’annuncio del presidente del Senato Piero Grasso, malgrado le ripetute richieste di rinvio, chiude la fase istruttoria in commissione e il fuoco di sbarramento organizzato dai dissidenti di centrosinistra e centrodestra in queste settimane. A partire da oggi (ma la discussione occuperà qualche giorno) sarà la dura legge dei numeri a stabilire chi vince e chi perde.
I contendenti in campo sono tre, anzi quattro: Renzi, Berlusconi e Grillo, ovviamente; e il fronte del No composto dagli oppositori Pd e Forza Italia e in cerca di alleanze trasversali con i grillini. In partenza, Renzi è il più forte: ha avuto uno scontro frontale con gli avversari interni del suo partito, è riuscito a tenere insieme la larga maggioranza trasversale composta dallo schieramento che sostiene il suo governo, dal Cavaliere che ha riconfermato il patto del Nazareno anche a dispetto dei forti mal di pancia di Forza Italia, e dalla Lega, il cui comandante sul campo è l’ex ministro Calderoli. I dubbi non riguardano la tenuta di quest’inedita maggioranza, ma la sua consistenza: difficilmente, infatti, riuscirà a far passare la riforma con i due terzi dell’aula, necessari per evitare il referendum popolare. E se dovesse avvicinarsi alle dimensioni di una maggioranza semplice, il risultato sarebbe modesto.
Per quanto Berlusconi abbia cercato di convincere uno per uno i suoi senatori, il gruppo più a rischio resta quello di Forza Italia, in cui Minzolini sta organizzando gli oppositori alla riforma. Sebbene l’argomento simbolico su cui i dissidenti cercheranno di prevalere sia quello dell’elettività, esclusa dal testo uscito dalla commissione, dei parlamentari nel nuovo Senato, il punto politico è riuscire a battere Renzi in almeno una votazione. È per questo che Minzolini e i suoi parlano e sono pronti ad allearsi con Chiti, Mineo e i senatori della sinistra Pd contrari al progetto del governo. Va da sé che se al fronte del No dovesse unirsi il blocco del M5S e qualche franco tiratore o assente strategico, i rischi per il premier crescerebbero.
Gli occhi sono puntati, in particolare, su Grillo. Uscito ammaccato dalla sfida con Renzi, l’ex comico ha dovuto fare i conti con resistenze interne alla linea dell’opposizione frontale praticata nel primo anno di legislatura. Quanto ci sia di effettivo e quanto di gioco delle parti, nel tentativo di intavolare un dialogo con il Pd, è difficile dirlo: fatto sta che con qualche sussulto davanti a Renzi si è aperto anche un forno 5 stelle. Sarà il comportamento grillino a Palazzo Madama a dire se l’apertura di M5S alle riforme è sincera o solo tattica.

La Stampa 10.7.14
Senato, la fronda nel Pd si assottiglia
La tensione resta alta, ma i ribelli ora puntano a cambiare l’Italicum
Oggi il voto finale in Commissione
di Amedeo La Mattina


Siamo al rush finale in commissione Affari costituzionali. Nei prossimi giorni la riforma costituzionale arriverà in aula e si capirà se Renzi avrà la strada in discesa o dovrà affrontare l’opposizione che viene da dentro il Pd e Forza Italia. Oggi a Palazzo Madama ci sarà il voto decisivo per il passaggio di questa fase nell’iter parlamentare: si voterà per dare via libera al Senato non elettivo che ha attirato l’ira di un bel pezzo di senatori di tutti i gruppi. Finora tutto è filato liscio anche grazie alle sostituzioni in commissione dei «ribelli» Corradino Mineo e Mario Mauro. I relatori Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli hanno presentato l’emendamento che recepisce l’accordo fra maggioranza e Forza Italia sulla scia del patto del Nazareno. In sostanza i senatori non vengano eletti dai cittadini ma dai consigli regionali in proporzione alla consistenza dei gruppi consiliari. L’emendamento prevede inoltre che scenda da 3 a 2 il numero minimo di senatori che ciascuna regione potrà avere nel futuro Senato.
Comunque la tensione resta alta. La riunione dei forzisti, che doveva svolgersi oggi con Berlusconi, è stata rinviata a martedì prossimo: un modo per depotenziare la fronda di Minzolini che intende presentare un subemendamento per il Senato elettivo eletto a suffragio universale. Minzolini sarebbe dovuto essere presente alla conferenza stampa dell’ex ministro Mauro, ma è rimasto in commissione per seguire la vicenda e votare contro l’accordo tra Renzi e Berlusconi. «Ma è come se fossi stato presente», spiega Minzolini. Mauro ha parlato di «attacco alla Costituzione estremamente forte». A questo punto, ha aggiunto, è necessario rivolgersi al Quirinale: «Chiediamo l’intervento del presidente del Senato Pietro Grasso perché si faccia garante delle procedure», hanno detto il senatore Tito Di Maggio e l’ex ministro. Hanno denunciato l’irregolarità della procedura con cui il senatore dei Popolari per l’Italia è stato destituito dalla Commissione Affari costituzionali. Alla conferenza stampa erano presenti un gruppo di senatori grillini: seduti in prima fila il capogruppo 5 Stelle Maurizio Buccarella e Michele Giarrusso. Quest’ultimo, alla fine della conferenza stampa, si è avvicinato ai giornalisti e ha detto che Mauro ha fatto bene a chiamare in causa il capo dello Stato: «Avevamo ragione noi sull’impeachment a Napolitano».
Da questo punto di vista non sembra proprio che ci sia il feeling giusto per l’incontro che si dovrebbe svolgere la prossima settimana tra il premier e una delegazione di M5S. Anche le parole scritte sul suo blog da parte di Grillo non depongono per una confronto sereno. Secondo il comico genovese il patto del Nazareno «è un salvacondotto per il c... di Berlusconi, che in cambio garantisce il suo appoggio al governo e al disegno controriformista di Napolitano». Poi un suggerimento ai forzisti: «Vendetevi da soli, invece che farvi vendere dal noto pregiudicato. Ci guadagnerete e non farete la figura dei cogl...».
La sensazione è che la fronda nei vari fronti si vada assottigliando. Berlusconi preme e chiama i senatori ribelli uno a uno. Anche in casa Pd si cerca di recuperare il dissenso promettendo modifiche sostanziali sulla riforma elettorale. Che tra i Democratici si stia spegnendo il fuoco lo dimostra pure il fatto che il comunicato congiunto per denunciare l’accelerazione sul calendario delle riforme è stato firmato da soli 12 senatori. Bersani, Chiti, Casson, Mineo hanno capito che è meglio puntare a smontare l’Italicum. «Il processo delle riforme – dice Bersani – è già avviato e deve essere concluso al Senato. Andiamo avanti». Sul resto si vedrà.

Corriere 10.7.14
Renzi chiama a raccolta il partito: ora l’Italicum, la fronda rientrerà
Il premier soddisfatto: e anche questa è andata

ROMA — «E anche questa è andata. È finita come avevo detto io: la riforma del Senato si farà. E con la legge elettorale andrà a finire nello stesso modo. Cioè si andrà avanti, si faranno alcune modifiche opportune e poi manderemo in porto anche questa storia. I dissidenti? Vedrete che si troverà la quadra, esattamente come è successo a Palazzo Madama»: al solito, Matteo Renzi fa sfoggio di grande tranquillità. Non serenità, che quella parola ormai in politica si utilizza sempre meno perché rischia di portare male.
«Sono tranquillissimo», dice il premier conversando con i collaboratori, mentre sembra dare già per tracciato l’iter della riforma del Senato. Non a caso ha convocato la direzione del Partito democratico proprio per il 24 luglio. Per quella data si deciderà della segreteria unitaria. Per quella data si vedrà chi intenderà andare contro una linea «discussa in riunioni su riunioni e assemblee su assemblee». Renzi non crede che siano in molti. Anzi, ritiene che la «grande fibrillazione di cui tanto hanno scritto i giornali si sia ridotta a poca cosa». «Ma vi pare — scherza con i suoi — che poteva andare avanti una rivolta guidata da Minzolini, Mucchetti e Mineo? I giornalisti facciano il loro mestiere e lascino perdere la politica... ».
La fronda sull’Italicum si presenta più insidiosa. E pure più ampia. Ma anche questa scadenza non sembra impensierire più di tanto il presidente del Consiglio. La maggior parte delle modifiche al testo, a dire il vero, è già stata concordata con Forza Italia e alla fine, secondo i renziani, verrà accettata dal Pd e dagli alleati. Per questa ragione il premier conta di portare a casa pure «questo risultato», benché sappia che la partita in questo caso sarà più lunga. Non tanto per le interferenze grilline: «Loro — spiega ai fedelissimi l’inquilino di Palazzo Chigi — sono divisi e comunque mi sembra che lì ci sia una grande confusione e che Di Maio non riesca a portare tutti con sé». No, non sono gli esponenti del Movimento 5 stelle a far pensare al presidente del Consiglio che i tempi potrebbero allungarsi. Il motivo è un altro: sono in molti ad avere paura che, una volta approvata la riforma elettorale, si vada alle elezioni in primavera, magari in abbinata con le regionali.
C’è chi ritiene, nel Pd, ma anche tra gli alleati di Renzi, e non solo lì, visto che Silvio Berlusconi non fa mistero di darlo per scontato, che il presidente del Consiglio a quel punto preferirà andare al voto, in modo da avere finalmente una maggioranza salda e omogenea e dei parlamentari che non siano più quelli nominati da Pier Luigi Bersani. Per questa ragione, l’altro giorno Nico Stumpo, bersaniano, veloce di comprendonio e di lingua, commentava ironico alla buvette della Camera con alcuni deputati del Pd: «Secondo me le riforme non si faranno troppo in fretta... certo non in tempo per sciogliere la legislatura e andare a votare nel 2015. Ci vorrà un po’ di tempo». Ed è esattamente il tempo che Renzi non vorrebbe perdere. E che, invece, avrebbe volentieri perso per le elezioni in Emilia-Romagna. Il piano originario, infatti, era quello di andare a votare a marzo-aprile, come nelle altre Regioni, preparando le primarie per Matteo Richetti, un esponente della nuova generazione del Pd, nonché un politico che non viene dai Ds. Insomma, una bella rivoluzione per una delle Regioni rosse per eccellenza.
Adesso si andrà a votare a novembre. E perciò Renzi rischia di essere costretto ad andare sull’usato sicuro (Poletti, per esempio). Non solo. Con le dimissioni di Errani, dopo la sua condanna in appello, si è aperto un contenzioso all’interno della Conferenza Stato-Regioni. Chi la guiderà adesso che il governatore dell’Emilia se ne è andato? Enrico Rossi, presidente della Toscana, spesso e volentieri in polemica con Renzi, punta alla ricandidatura e quindi vorrebbe quella poltrona, perché lo rafforzerebbe. Per lo stesso identico motivo la desidera anche la governatrice dell’Umbria, Katiuscia Marini. Nicola Zingaretti potrebbe essere un altro candidato, visto che guida una regione importante. Ma c’è chi sostiene che tra il presidente del Lazio e il premier non corrano buonissimi rapporti.
Comunque Renzi affronterà questa vicenda a tempo debito. Ieri, anche in vista del Consiglio dei ministri di oggi, si è concentrato sul problema dei decreti attuativi. E ha sollecitato soprattutto quelli sulla riforma delle Province che avrebbero dovuto essere emanati ai primi di luglio.
Maria Teresa Meli

Corriere 10.7.14
Un’incognita sul futuro delle riforme
Forza Italia spaccata fa vacillare il patto
di Massimo Franco


Il bilancio dei primi giorni di presidenza italiana dell’Europa non è dei più entusiasmanti. Matteo Renzi si è dovuto rendere conto che le divisioni tra rigore e flessibilità rispondono a criteri non tanto di partito ma geografici. La diffidenza verso il nostro Paese e in generale il Sud del continente non è stata scalfita dalla vittoria del Pd alle elezioni del 25 maggio: dobbiamo ancora conquistarci la piena credibilità sul piano finanziario.
Per paradosso, quel successo elettorale, giustamente rivendicato dal premier, fa apparire più controversi i risultati ottenuti finora a Bruxelles. La pressione di Palazzo Chigi sul Parlamento perché voti in fretta le riforme istituzionali viene spiegata, almeno formalmente, con l’esigenza di ottenere maggior credito. Per presentarsi con un risultato tangibile al cospetto dell’Ue, il governo ha messo in calendario per la settimana prossima la discussione dei provvedimenti che devono ridisegnare il Senato. Ma, quasi di rimbalzo, è slittato il famoso «Jobs Act»: quello che dovrebbe ridare fiato al mercato del lavoro, e che pure l’Europa aspetta. Si tratta di un’inversione delle priorità che i settori di FI schierati all’opposizione sottolineano in polemica con Renzi e indirettamente con lo stesso Silvio Berlusconi. Ma l’affanno è più generalizzato. La questione dei decreti attuativi che rallentano l’applicazione delle leggi conferma la difficoltà di tenere il passo alla velocità promessa. Evidentemente l’esecutivo ha calcolato con una eccessiva dose di ottimismo non solo le resistenze politiche ma i tempi parlamentari. Le prime rimangono, e le minacce di voto anticipato che Renzi e alcuni ministri ribadiscono con una certa frequenza magari possono piegarle; d’altronde, i numeri parlano a favore dell’esecutivo. E regge il patto con Berlusconi: il ritorno rapido di Beppe Grillo agli insulti sottolinea la tenuta dell’intesa tra Pd e FI. Un M5S lacerato dai sospetti accusa i due partiti di avere votato insieme contro l’ipotesi di dimezzare il numero dei deputati. E semina sospetti sul suo Luigi Di Maio, il vicepresidente della Camera che ha abbracciato il dialogo con Palazzo Chigi. Il problema, tuttavia, potrebbe diventare Forza Italia. Il monolite berlusconiano rischia di polverizzarsi. Le liti tra le donne del «cerchio magico» di Palazzo Grazioli, la residenza romana dell’ex premier, e il partito, sono un sintomo superficiale ma significativo. Colpisce soprattutto, però, il fatto che Berlusconi abbia rinviato più volte la riunione congiunta con tutti i parlamentari, dopo che la prima si era conclusa senza accordi. L’impressione è che volesse evitare una spaccatura interna sull’atteggiamento verso Renzi. Ma pare che alla fine la situazione si stia sbloccando: Berlusconi vuole fissare l’incontro con tutti i suoi eletti martedì prossimo, alla vigilia del voto in Aula. «È un momento di grande responsabilità per tutti», avverte il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, rivolta al manipolo dei dissidenti che parlano di forzature e comportamenti incostituzionali del governo. Palazzo Chigi vorrebbe l’approvazione della riforma prima della sentenza d’appello del processo contro Berlusconi sulla minorenne marocchina Ruby, prevista per il 18 luglio: una scadenza che angoscia il capo di FI, e che si teme possa ripercuotersi sulle riforme. Ma in questo caso non sarà facile rispettare l’imperativo della velocità.

Il Sole 10.7.14
Centro-destra. Partito a rischio caos
Fi, cresce la fronda Berlusconi costretto a rinviare le riunioni
di Barbara Fiammeri


ROMA  Silvio Berlusconi costretto al passo indietro per evitare l'implosione di Fi. Al termine di una giornata dominata da accuse incrociate, riunioni prima convocate e poi sconvocate all'ultimo momento, minacce di raccolta firme, il Cavaliere, prima di recarsi alla cena per rimpinguare le casse vuote del partito, decide di mettere un punto e dà il via libera all'assemblea di tutti parlamentari per martedì prossimo. Un appuntamento chiesto ripetutamente dalla fronda forzista contro il Patto del Nazareno, che l'ex premier avrebbe preferito evitare, per non ripetere lo scontro andato in scena la settimana scorsa. Ma tant'è: i tempi in cui bastava qualche telefonata per riportare l'ordine sono finiti. Dentro Fi ormai è un tutti contro tutti in cui a dominare è l'incertezza per il futuro. Ed è in questo scenario che va letto anche lo scontro sulla riforma del Senato.
Il merito, l'elezione diretta chiesta anche ieri con un sub-emendamento da Augusto Minzolini, non è che la punta dell'iceberg su cui si è infranto il partito berlusconiano, dominato ormai dal caos. Per una coincidenza bizzarra proprio ieri è partita l'iniziativa di Giorgia Meloni, leader di Fdi, che ha lanciato la petizione per le primarie di coalizione nel centrodestra, raccogliendo l'adesione di tanti big azzurri (da Toti a Gelmini, da Fitto a Brunetta), così come del Ncd di Alfano (presenti Quagliariello, Lupi, De Girolamo) e della Lega con il segretario Matteo Salvini. Primarie che guardano a un futuro che difficilmente potrà vedere Berlusconi protagonista. Il Cavaliere, nonostante la buona notizia dell'assoluzione del figlio Pier Silvio e di Confalonieri, in cima ai suoi pensieri ha sempre le vicende giudiziarie, a partire dall'appello del processo Ruby la cui sentenza arriverà entro la fine del mese.
Come se non bastasse, ad alimentare un clima sempre più teso, ci mette del suo anche la fidanzata dell'ex premier, Francesca Pascale, che «approfitta» della sua posizione – così ha detto – per farsi paladina dei diritti dei gay a nome e per conto del Cavaliere e per tirare una bordata a Daniela Santanchè ribattezzata ieri su Radio24 «Crudelia De Mon», la cattivissima della Carica dei 101.
Questa la fotografia di Fi che accompagna Berlusconi quando ieri sera varca l'ingresso di Casina di Macchia Madama, dove la neotesoriera Maria Rosaria Rossi (la sostituta di Sandro Bondi) ha organizzato i 50 tavoli per la raccolta fondi: minimo mille euro da versare tramite bonifico prima di sedersi. E anche questo è un segnale di non poco conto in un partito abituato fin dalla nascita a poter contare sulle risorse del suo fondatore.
Il Cavaliere continua a mostrarsi convinto di avere dalla sua la stragrande maggioranza del partito. Le riforme sancite dal patto del Nazareno – assicura – avranno il voto di Fi. Una certezza che tuttavia ieri ha mostrato non poche crepe culminata nella sfida tra i due capigruppo di Camera e Senato. Quando Paolo Romani decide di convocare per questa mattina i senatori azzurri, annunciando anche la presenza di Berlusconi, alla Camera Renato Brunetta insorge e poco dopo annuncia a sua volta e per la stessa ora la riunione dei deputati. Chi è vicino a Brunetta sostiene che il capogruppo avrebbe deciso dopo aver cercato inutilmente di poter parlare con Berlusconi. Contemporaneamente, parte tanto al Senato che alla Camera una doppia raccolta di firme: a Palazzo Madama, i frondisti guidati da Minzolini e dai pugliesi vicini a Raffaele Fitto, per chiedere che venga convocata una riunione congiunta di tutti i parlamentari; a Montecitorio per le dimissioni di Brunetta. Maurizio Gasparri sconfortato sbotta: «Se si gestisce con superficialità questo è il risultato». A Berlusconi a questo punto non resta che fermare le macchine, prima che Fi deragli fragorosamente. Romani annulla la riunione; lo stesso poco dopo farà Brunetta. L'appuntamento è fissato per martedì con tutti i gruppi parlamentari. Ma potrebbe slittare anche questo, visto che i deputati europei, a partire da Fitto, con cui Berlusconi si incontrerà oggi a pranzo, proprio martedì sono a Strasburgo per le comunicazioni di Juncker.

La Stampa 10.7.14
Tempi lunghissimi
Quando vedremo le riforme?
Rileggere l’art.138 per saperne di più
di Ugo Magri

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La Stampa 10.7.14
Renzi cambia verso anche nella Giustizia, il Pd si scopre garantista
Ieri l’incontro tra il premier e il governatore dimissionario Errani
di Mattia Feltri

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Repubblica 10.7.14
Svolta garantista in salsa Pd
di Goffredo De Marchis


IN FONDO, per Matteo Renzi, la questione è molto semplice: bisogna spezzare gli “automatismi” degli ultimi vent’anni, chiudere la stagione in cui si collegavano direttamente atti della magistratura, can can mediatico, richiesta di dimissioni dell’indagato. E la difesa delle garanzie, storico caposaldo culturale della sinistra, finiva nel cassetto.
«SELA politica ha le carte in regola, deve rispettare la Costituzione anche lì dove parla delle garanzie degli imputati, della presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva », dice il premier. Significa che un partito può e deve fare le sue scelte in piena autonomia, rivendicare la sua indipendenza al pari dei giudici. In una parola, essere garantista e «valutare caso per caso. Abbiamo fatto così con Francantonio Genovese e Orsoni, lo facciamo anche con Vasco Errani».
In realtà, la questione tanto semplice non è. Perché proprio a sinistra il “pilota automatico” ha prosperato, ha deciso linee politiche ed alleanze, ha stabilito destini di governi e carriere politiche. Colpa del berlusconismo? «Un po’ - spiega il presidente del Pd Matteo Orfini -. Eravamo purtroppo dentro quel meccanismo perché se una parte politica si accanisce contro la magistratura, la reazione è un fatto naturale». Ma qualche cedimento rispetto al garantismo, «uno dei valori storici della sinistra» lo definisce Orfini, ha avuto anche altre ragioni. È stata una resa per cavalcare l’onda popolare. «In questi vent’anni - ricorda la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani, avvocato - alcune battaglie le abbiamo dimenticate non solo in nome dell’opposizione a Berlusconi. Siamo andati oltre e abbiamo lasciato terreno al dipietrismo. Oggi è difficile rammentare le concessioni che abbiamo fatto a Di Pietro perché l’ex pm è fuori dalla politica, ma hanno molto condizionato la nostra parte politica».
Dicono che Renzi (che ieri ha incontrato proprio Vasco Errani) sia oggi più garantista grazie al 40,8 per cento delle Europee. Ma a vedere la cronologia di questa svolta, non è così. Al momento di formare il suo governo, cinque mesi fa, il premier affrontò il caso di quattro sottosegretari indagati e li lasciò al loro posto. «Un avviso di garanzia non è una condanna », disse alla Camera il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, con il pieno sostegno di Renzi. Anche un ministro, Maria Carmela Lanzetta (Affari regionali) aveva un procedimento in corso quando giurò solennemente al Quirinale. A dimostrazione che i casi vanno pesati singolarmente, oggi quel procedimento è stato archiviato. «Non mi spaventano le accuse dei 5stelle e non penso che possano fare breccia nell’opinione pubblica - dice Renzi -. Noi le carte in regola le abbiamo. C’è anche la legge Severino che sancisce nel dettaglio i casi in cui un amministratore pubblico è costretto o meno lasciare il suo posto. Il Pd ha persino uno statuto più rigido del codice penale. Se la politica non ha la coda di paglia ha il dovere di rimanere nel solco delle garanzie costituzionali ».
Una posizione lineare la definisce il vicesegretario Lorenzo Guerini. «Orsoni aveva patteggiato in pratica ammettendo le sue responsabilità, su Genovese il Parlamento doveva valutare il fumus persecutionis e quello hanno fatto i deputati. Nel caso di Errani nessuno di noi ha commentato la sentenza. Il Pd ha ribadito la sua stima per un amministratore di grande capacità che non aveva nessun obbligo a dimettersi perché il reato per cui è stato condannato non rientra nelle fattispecie della Severino. Questo è il punto. Se hai la coscienza a posto, puoi dire quello pensi».
Niente sarà come prima sembra il messaggio del Partito democratico in queste ore. Del resto, che il “prima” non fosse l’Eden lo spiega anche Felice Casson, oggi senatore Pd ma famoso soprattutto per la sua attività di pubblico ministero a Venezia. Uno dei tanti magistrati reclutati in questi anni dal centrosinistra. «Era una deformazione il legame tra avviso di garanzia e le dimissioni e lo penso da sempre dice -. Bisogna essere garantisti sempre e con tutti. Ma i piani sono diversi: c’è la vicenda giudiziaria, poi ci sono gli aspetti politici e sociali e infine c’è l’etica». Casson spiega che la vera svolta non è il garantismo bensì le «valutazioni diversificate, caso per caso. È giusto che la politica segua sempre questa regola».
Ma nel cambio di marcia imposto da Matteo Renzi si trova qualcosa di più profondo. «Riprendersi gli spazi culturali della sinistra», sintetizza Guerini. «Stabilire due principi fondamentali: il garantismo e l’autonomia della politica», aggiunge la Morani. La riforma della giustizia del Guardasigilli Andrea Orlando sarà il banco di prova di una nuova stagione. Si vedrà un approccio diverso alla materia, più libero, garantiscono a Palazzo Chigi. «Il 41 per cento ci aiuta», ammette Morani. Sicuramente, nel Pd non vedevano l’ora di riaffermare il primato della politica e liberarsi da certi vincoli. Per Orfini sono addirittura i partiti ad aver ripreso la scena: «Facciamo delle scelte da gruppo dirigente, a prescindere dalle inchieste. Su Errani tutti abbiamo detto che doveva restare al suo posto, sulla Cancellieri, che non era nemmeno indagata, la richiesta di dimissioni era abbastanza unanime ». A sentire questa parole, più che di garantismo siamo di fronte a una liberazione. E alla rivendicazione orgogliosa di un ruolo.

Corriere 10.7.14
Stipendio ai parlamentari arrestati
Scoppia il caso


ROMA — La Camera continuerà a pagare l’indennità parlamentare a Francantonio Genovese, il deputato eletto nelle liste Pd che si trova agli arresti domiciliari. Lo ha deciso ieri l’ufficio di presidenza di Montecitorio respingendo la richiesta avanzata dal M5S di togliere lo stipendio ai deputati che sono sottoposti a misure restrittive della loro libertà e che per questo non possono esercitare il loro mandato. Per interrompere i pagamenti, ha sentenziato l’organo della Camera, serve infatti «un’iniziativa legislativa», cioè una nuova legge che consenta all’amministrazione di Montecitorio di togliere la busta paga ai deputati che finiscono agli arresti. Ma i Cinquestelle non ci stanno con il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, che va all’attacco: «I partiti danno lo stipendio ai parlamentari in galera». Dal giorno dell’arresto di Genovese, lo scorso 15 maggio, la Camera paga al deputato eletto con il Pd soltanto l’indennità parlamentare connessa alla titolarità della carica, che è prevista in Costituzione e ammonta a 5.246,54 euro netti (10.435 euro lordi). Il deputato siciliano, dal momento in cui ha perso la libertà personale, non riceve invece né la diaria né i rimborsi delle spese per l’esercizio del mandato (comprese quelle per il trasporto).
Prendendo spunto dalla vicenda, i Cinquestelle hanno chiesto di non limitarsi a togliere agli onorevoli arrestati solo le voci accessorie dello stipendio ma di interrompere anche il pagamento dell’immunità vera e propria. L’M5S chiede inoltre di fermare l’erogazione del vitalizio e della pensione agli ex deputati condannati per reati particolarmente gravi, come quelli di mafia, corruzione e quelli contro la Pubblica amministrazione.
La questione era stata ritenuta «meritevole di attenzione» dalla presidenza della Camera. Laura Boldrini ha chiesto un’istruttoria ai questori, i quali oggi si sono espressi contro le proposte del movimento di Grillo: un’eventuale sospensione dello stipendio — è stato argomentato durante la riunione — può essere decisa solo con una legge e non con una semplice delibera dell’ufficio di Presidenza. Un orientamento a cui si è allineata la maggioranza dei consensi. Gli unici contrari sono stati i tre rappresentanti del M5S che ora tuonano contro la decisione. «Se Genovese è agli arresti domiciliari — ha chiesto polemicamente Di Maio — i cittadini che lo pagano a fare?».

il Fatto 10.7.14
Rosso cachemire, Fausto Bertinotti
“Le feste mi hanno rovinato, la sinistra ora ha 5 stelle”
“La sinistra deve sparire e affidarsi ai barbari 5Stelle”
“Siamo dei vinti, almeno torniano con quelli che sono meglio della Le Pen”
intervista di Antonello Caporale


Al momento dei saluti dico a Fausto Bertinotti: Matteo Renzi, ammesso che le legga, trasformerà le sue parole in chewingum. “Ho le mie responsabilità e ne sopporto il peso. Parlo da vinto, da commentatore, da chi ha consumato il suo impegno politico. Mica ho da domandare”
Quanti errori però.
Uno più di tutti mi brucia: non essermi reso conto che alcuni miei comportamenti potessero essere scambiati per commistione con un ceto simigliante a una casta.
Le feste a cui partecipava col sorriso comunista, i capitalisti che frequentava, e quella comunione con volti particolarmente aderenti all’opposto vagheggiato. Un ossimoro più che un compagno.
Pensavo che la mia vita, la mia giovinezza, la mia storia familiare, il mio lavoro di operaio, le lotte a cui ho partecipato potessero immunizzarmi. Ero così tanto distante da quel mondo e ritenevo che nessuno potesse trafugare il mio volto e cambiargli colore.
Anche il cachemire ha fatto la sua parte.
Sul punto dissento.
Fatto sta che la sua storia si è conclusa e le resta sul groppone una sconfitta cosmica. Con i suoi compagni di Sel che si dividono le ultime spoglie e si incamminano a capo chino verso le tende del vincitore.
È morta la sinistra. Non dico il comunismo, c’era stato il muro di Berlino a ricordarci le pietre che schiacciavano i nostri corpi. Ma il socialismo sembra scomparso, piegato. Simultaneamente alla forma avanzata di capitalismo. Ci avevano detto che il mercato si autoregolamenta. E abbiamo visto: siamo tornati all’800.
Non c’è più sinistra e destra.
No, tutto finito. Ora è l’alto contro il basso. È il tempo della post democrazia. Molti sono gli inclusi nel sistema politico, con un partito di governo che è il Pd e un leader con tentazioni autoritarie e una luccicante venatura neo-bonapartista. Dileggia il ceto dirigente, riduce a un cofanetto le assemblee elettive. Poi ci sono gli esclusi, quelli che stanno fuori, i barbari.
A Nichi Vendola chiede di passare con i barbari?
Delle persone non parlo e uno come me può dare solo consigli, sperando che siano buoni consigli.
Un consiglio a noi disperati di sinistra.
Abbassare il vessillo dei partiti, chiudere le sezioni per come sono strutturate adesso. Nell’ottocento mica esistevano i partiti? Ma le idee di sinistra sì.
Chiudere ogni bottega, sparire dalla circolazione.
Far rinascere lo spirito, il senso, le idee rivoluzionarie nella grande prateria degli esclusi, in quel popolo disordinato ma vitale. Sono barbari, però siamo nelle stesse condizioni dell’800.
I barbari votano Grillo.
E meno male. In Francia votano Le Pen.
Attendere che da lì nasca qualcosa?
Solo da lì. La deriva autoritaria ha preso forma e oramai siamo ingabbiati in una condizione di sospensione della democrazia. Con la legge elettorale che sbarra, ostruisce, esclude e un governo sovranazionale di non eletti che esercita un potere abusivo. Maastricht è stata la nostra rovina e Bruxelles ha commissariato il Parlamento nazionale. Con i risultati che vediamo.
Lei parla in quale veste?
So di appartenere a un mondo concluso. Per tutta la vita abbiamo pensato che il nostro obiettivo fosse fare la rivoluzione. E s’è visto dove siamo giunti. Oggi ci sono parole innominabili. Per esempio non è più spendibile quella di padrone. I capitalisti ci dicevano meraviglie della globalizzazione, vero? Eccoci qua. Non è più pronunciabile la parola, non si può dire padrone altrimenti rechi offesa. E sempre oggi, che nel mondo esiste il più alto numero di operai, quella classe è cancellata dalla società, i diritti si assottigliano fino a divenire inconsistenti. Se tu nasci per cambiare il mondo, e poi il risultato è questo, non puoi cavartela con: scusate, abbiamo sbagliato.
È triste convenire e spero non si dispiaccia, ma lei proprio non può cavarsela così.
Lo so, lo ammetto. Sono un vinto.
Ci avete fatto tribolare, sempre a spararvi contro.
Siamo stati nani seduti sulle spalle di giganti. Ricorda?
Adesso ci tocca Renzi.
Il Partito democratico si trasformerà in un moderno Partito di governo.
È già un partito-Stato.
Arriveremo presto alla tracimazione: quando l’articolo 1 della nostra Costituzione verrà di fatto soppresso.
Solo i barbari ci salveranno.
Le idee nascono anche fuori dal Palazzo, e nelle piazze si costruisce un sentimento che forma una comunità.
Ma i barbari usavano anche le mani. Altro che feste e cachemire.
Bisogna rendersi conto che i nostri vessilli non raccontano più e non rappresentano più. Certo che in piazza non sempre il pranzo è di gala. Ma quello è il luogo, non altri.
E lei cosa fa?
Non vede? Abbiamo questa Fondazione, si chiama Cercare ancora.
Cercare ancora?
Dovremo lasciare questa sede, non ci sono più soldi”.

Repubblica 10.7.14
La formula della disuguaglianza
di Moisé Naim


DI CHI è la colpa dell’eccezionale crescita della disuguaglianza negli ultimi anni? Dei banchieri, sostengono in tanti. Secondo questa visione, il settore finanziario è colpevole di aver innescato la crisi economica globale che è cominciata nel 2008 e ancora fa sentire i suoi effetti su milioni di famiglie di classe media in Europa e negli Stati Uniti, che hanno visto diminuire il potere d’acquisto e assottigliarsi le prospettive di impiego. Lo sdegno è amplificato dal fatto che non solo i banchieri e gli speculatori finanziari non hanno pagato il prezzo dei loro clamorosi errori, ma in molti casi sono addirittura più ricchi rispetto a prima del disastro. Altri danno la colpa alla crescente disuguaglianza salariale in Paesi come la Cina e l’India, che con i loro salari bassi deprimono il reddito dei lavoratori nel resto del mondo. La manodopera a buon mercato dell’Asia aggrava il problema, perché crea disoccupazione in quei Paesi dove le aziende chiudono le fabbriche ed “esportano” i posti di lavoro in nazioni estere con un più basso costo del lavoro. Altri ancora vedono il colpevole nella tecnologia: robot, computer, internet e l’incremento dell’automazione delle fabbriche, a detta di costoro, sostituiscono i lavoratori e di conseguenza incrementano la disuguaglianza.
La vera spiegazione è molto più complicata, dice Thomas Piketty, l’economista francese che con il suo saggio Capital in the Twenty First Century si è trasformato in un fenomeno mondiale. In molti Paesi, sostiene Piketty, il capitale (che lui equipara alla ricchezza sotto forma di proprietà immobiliari, attività finanziarie ecc.) sta crescendo a un ritmo più sostenuto dell’economia. Il reddito prodotto dal capitale tende a concentrarsi nelle mani di un gruppo ristretto di persone, mentre il reddito da lavoro è disperso attraverso l’intera popolazione. Pertanto, quando i redditi da capitale crescono più rapidamente dei salari, la disuguaglianza aumenta perché coloro che possiedono il capitale accumulano una quota più alta di reddito. E considerando che la crescita dei salari è direttamente legata alla crescita dell’economia nel suo insieme, la disuguaglianza economica è destinata a peggiorare se l’economia si espande più lentamente dei redditi da capitale.
Piketty riassume questa complicata teoria con la formula “r > g”, dove “r” è il tasso di rendimento del capitale e “g” il tasso di crescita dell’economia. Il futuro è poco incoraggiante, è la sua conclusione, perché prevede che le economie dei Paesi presi in esame cresceranno a un ritmo dell’1-1,5 per cento annuo, mentre il rendimento medio del capitale aumenterà al ritmo del 4-5 per cento annuo. La disuguaglianza, in altre parole, è destinata a crescere. Per evitare questo scenario, Piketty invoca una tassa progressiva sulla ricchezza nei grandi Paesi, una proposta che lui stesso considera utopistica, essendo consapevole degli enormi ostacoli politici che dovrebbe superare e delle colossali difficoltà pratiche che accompagnerebbero una sua attuazione. Di recente, il Financial Times ha sostenuto di aver trovato difetti gravi nell’analisi di Piketty, scatenando un dibattito ancora in corso. In ogni caso, la maggior parte degli osservatori è del parere che i limiti nei dati di Piketty non siano sufficientemente rilevanti da togliere credibilità alle sue conclusioni generali.
L’impatto profondo del libro di Piketty è dovuto in buona parte al fatto di essere uscito in un momento in cui la crescita della disuguaglianza economica è motivo di preoccupazione in America. E dato che gli Stati Uniti si dimostrano molto bravi a globalizzare le loro ansie ed esportare i loro dibattiti politici, il fenomeno Piketty si sta estendendo a posti dove la disuguaglianza è così diffusa, e da così tanto tempo, che l’opinione pubblica sembrava assuefatta e rassegnata ad accettarla passivamente. In molte di queste società ora si discute vivacemente dei metodi per porre un freno a questo fenomeno. Affinché questo dibattito possa rivelarsi utile, tuttavia, è necessario giungere a una diagnosi più accurata del problema. Non è accurato affermare che in Paesi come Russia, Nigeria, Brasile e Cina il motore principale della disuguaglianza economica sia un tasso di rendimento del capitale maggiore del tasso di crescita dell’economia. Per poter dare una spiegazione più esaustiva è necessario includere nell’equazione le imponenti fortune create regolarmente attraverso corruzione e attività illecite di ogni genere. In molti Paesi, la ricchezza aumenta più per effetto di ruberie e condotte illegali che come conseguenza del rendimento dei capitali investiti dalle classi ricche (un fattore che sicuramente ha il suo peso).
Per ricalcare Piketty, la disuguaglianza continuerà a crescere in quelle società dove “c > h”. In questo caso, “c” sta per la capacità di politici e funzionari pubblici corrotti, insieme ai loro compari del settore privato, di infrangere le leggi per profitto personale, e “h” sta per la capacità di politici e funzionari pubblici onesti di far rispettare le prassi amministrative corrette. La disuguaglianza alimentata dalla corruzione prospera in quelle società dove non ci sono incentivi, regole o istituzioni che ostacolino la corruzione. E che al governo ci siano persone oneste è bene, ma non è abbastanza. Sgraffignare soldi pubblici o vendere appalti pubblici al miglior offerente sono pratiche che devono essere viste come rischiose, facilmente individuabili e sistematicamente punite. Della ventina di nazioni su cui Piketty ha fondato la sua analisi, la maggior parte è classificabile tra i Paesi ad alto reddito e fra i meno corrotti del mondo, secondo Transparency International. Sfortunatamente, gran parte dell’umanità vive in Paesi dove “c > h” e la disonestà è il principale motore della disuguaglianza. Questo punto non ha attirato altrettanta attenzione della tesi di Piketty. Ma avrebbe dovuto. (Traduzione di Fabio Galimberti)

il Fatto 10.7.14
Pubblicità web, ipotesi d’alleanza tra De Benedetti e Berlusconi


QUANDO PROVARONO a siglare una tregua nella guerra dei vent’anni di Segrate, nel 2005, tutta Repubblica e un pezzo di sinistra si ribellarono e non se ne fece nulla. Silvio Berlusconi e Carlo De Bendetti dovettero rinunciare al loro progetto di guidare assieme un fondo salva-imprese, Management & Capitali, poi rimasto all’Ingegnere e mai decollato. Oggi, secondo le indiscrezioni raccolte dal Messaggero, i due gruppi rivali starebbero ragionando su un’alleanza per conquistare il nascente (ma asfittico) mercato della pubblicità su Internet. Una mega-alleanza tra Rcs Pubblicità, Banzai, Mediamond (concessionaria della galassia Fininvest) e la Manzoni (l’omologa del gruppo Espresso). Secondo la ricostruzione del Messaggero, l’obiettivo è costruire un polo forte abbastanza da contendere le inserzioni ai grossi motori di ricerca, Yahoo e soprattutto Google. Sarebbero da ricondurre a questi progetti comuni le recenti dichiarazioni di Pier Silvio Berlusconi, vicepresidente di Mediaset e figlio del Cavaliere, che si è detto molto positivo su Matteo Renzi, il presidente del Consiglio sostenuto con entusiasmo da tutto il gruppo editoriale presieduto da Carlo De Benedetti.

l’Unità 10.7.14
Carceri, se l’Italia sembra la Guinea
di Luigi Manconi


LEGGO DELLO SCIOPERO DELLA FAME INIZIATO IL 30 GIUGNO SCORSO, DA RITA BERNARDINI, SEGRETARIA DI RADICALI ITALIANI E VENGO PRESO DA UN SENSO DIS MARRIMENTO. Lei nel proporre ancora una volta il tema del carcere - con tutta la sapientissima follia che è virtù propria delle persone razionali e pragmatiche - ha dedicato particolare attenzione alla questione dell’assistenza sanitaria per i reclusi.
Si tratta di un problema gigantesco, che non sembra presentare differenze troppo acute tra gli standard di cura e di terapia garantiti nelle carceri del nostro Paese e quelli presenti, per esempio, nella prigione di Bata, città della Guinea equatoriale, dov’è rinchiuso Roberto Berardi, un prigioniero italiano che ho iniziato a conoscere. Da qui quel mio senso di smarrimento.
A scanso di equivoci, il nostro è un Paese di solida democrazia pur afflitto da una grave crisi di rappresentanza politica e da un antico deficit di garanzie nel processo penale, mentre la Guinea equatoriale è dominata dal 1979 da un despota di nome Teodoro Obiang. Di conseguenza lo stato dei diritti nel nostro Paese e lo stato dei diritti in quella nazione dell’Africa centrale sono incomparabilmente diversi. Ci mancherebbe. Ma qui si verifica un atroce paradosso: la profonda differenza tra i due sistemi e la superiore qualità della vita sociale, dei diritti individuali e collettivi, delle tutele e delle libertà in Italia tendono via via ad attenuarsi se osserviamo alcuni particolari gruppi sociali e alcuni particolari luoghi. Per un verso le condizioni degli strati più vulnerabili di popolazione e, per l’altro, la debolezza delle garanzie negli istituti del controllo e della repressione sembrano rassomigliarsi qui e in Guinea. In altre parole, per quanto sia doloroso riconoscerlo, a un derelitto recluso in una cella dell’Ucciardone o internato nell’Opg di Aversa e affetto da una qualche patologia può accadere di non essere trattato in modo troppo diverso (ovvero migliore) di come viene trattato Berardi nella sua cella nel carcere di Bata dove la temperatura è stabilmente sui 40 gradi e dove le condizioni igienico-sanitarie determinano il cronicizzarsi della malaria.
Berardi sta in quel carcere dal gennaio del 2013 e si trova in stato di isolamento da oltre sette mesi, sottoposto a percosse, violenze e sevizie, dopo una condanna a due anni e quattro mesi e al pagamento di un milione e 400mila euro. Gli è stata promessa la grazia dal presidente Obiang, mal’atto di clemenza potrebbe sospendere l’esecuzione della pena senza rimetterlo in libertà, perché quella sanzione pecuniaria costituisce la vera merce di scambio. L’integrità del suo corpo (e la stessa possibilità di salvezza) “vale” oggi un milione e 400mila euro. E quanto vale la vita - e quanto valgono i corpi malati, febbricitanti, affetti dalle più diverse patologie, debilitati dalla cattiva alimentazione, scossi da infermità mentali o annichiliti dalla follia - di migliaia di detenuti italiani? Per questo Rita Bernardini ha intrapreso lo sciopero della fame finalizzato a interrompere la tragedia delle morti in carcere e a denunciare la carenza di cure che riguarda anche i reclusi incompatibili con la detenzione. Alla Bernardini si sono affiancati nel digiuno altri 200 cittadini: e condividono il suo allarme tantissimi giuristi, sindacati della polizia penitenziaria, cappellani e direttori di carcere, tutte le associazioni che operano nel sistema penitenziario, alcuni (purtroppo pochi, pochissimi) parlamentari e quel Giorgio Napolitano che, alla bella età di 89 anni, conserva tutta intera la capacità di scandalizzarsi.
Le prime parole e i primi atti del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, fanno ben sperare: e i provvedimenti presi dagli ultimi governi - che alcuni irresponsabilmente hanno annunciato come “svuota carceri” - hanno ridotto il sovraffollamento.
Ma non in misura sufficiente: siamo ancora ben oltre la capienza regolamentare. E rimaniamo lontani dal garantire alla gran parte dei reclusi quelle otto ore di “celle aperte” che costituiscono una indispensabile opportunità di socializzazione e di libertà di movimento. Ciò comporta - oltre alla sofferenza di corpi ristretti in spazi angusti, addensati entro perimetri soffocanti, abbracciati loro malgrado e promiscui per necessità, allo stesso tempo intimi e ostili - anche la decadenza di tutti i servizi, a partire proprio da quelli della salute.
Oggi i detenuti italiani che si trovano in questo stato sono oltre 58mila. A essi vanno sommati i 3300 nostri connazionali reclusi in prigioni di Stati stranieri. Si tratta di Paesi che, fortunatamente, non assomigliano sempre alla Guinea equatoriale, ma ci sono anche quelli che ne rappresentano una versione ancora più feroce.
Ciò che, invero, appare non troppo dissimile è, come si è detto, la condizione dei penitenziari. E di quei connazionali che si trovano detenuti all’estero nulla, o quasi nulla, sappiamo. Quanto ci viene raccontato a proposito di Roberto Berardi non può che inquietarci. E costituisce una ragione in più per sostenere l’iniziativa di Rita Bernardini e di quanti credono nella giustizia giusta.

il Fatto 10.7.14
Missione delle Nazioni Unite sulle carceri italiane

LA POPOLAZIONE CARCERARIA è passata dalle quasi 70mila presenze del 2009 alle attuali 56.590, mentre la capienza carceraria ad oggi risulta essere poco meno di 45mila posti disponibili contro i 40mila del 2009”. Sono questi i dati che il viceministro della Giustizia Enrico Costa ha illustrato ieri durante un incontro in via Arenula al presidente del gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie delle Nazioni Unite, Mads Andenas, in visita nel nostro Paese per un monitoraggio sullo stato di attuazione delle raccomandazioni all’Italia sulla lunghezza dei procedimenti giudiziari, regime carcerario, 41bis e ospedali psichiatrici.

il Fatto 10.7.14
Lorenzin riforma la legge 40 con l’esperto sotto processo
di Loredana Di Cesare


Luca Gianaroli è un esperto di fecondazione assistita ma, stando agli atti che lo accusano, conosce bene anche i meccanismi della corruzione che ruotano intorno alla speranza di avere un figlio: è imputato in primo grado, in un processo a Belluno, proprio per una vicenda che riguarda le liste d’attesa e le forniture legate alla procreazione assistita. E proprio a lui si affida il governo per riorganizzare la legge 40: nel pool di esperti, convocati martedì mattina dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin, compare infatti anche Gianaroli che, nel suo curriculum, oltre alle “250 pubblicazioni su riviste specialistiche italiane ed estere” e all’edizione “di nove volumi”, può vantare anche un rinvio a giudizio per corruzione. Gianaroli, infatti, figura tra i 26 tecnici che aiuterà il ministro a riscrivere le regole sulla fecondazione eterologa (quella con gameti prelevati da un donatore esterno alla coppia) dopo le numerose bocciature della legge 40 da parte della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale. Gianaroli, medico specialista della riproduzione ed ex amministratore scientifico della Sismer Spa, Centro di fecondazione assistita di Bologna, è noto per essere al centro di un processo molto delicato . È imputato, a Belluno, con l’accusa di corruzione: la vicenda riguarda alcune coppie in lista d’attesa per accedere alla procreazione medicalmente assistita.
NEL PROCESSO, insieme con Gianaroli, è imputato anche l’ex primario di ginecologia e ostetricia di Pieve di Cadore, Carlo Cetera. Il ginecologo padovano Cetera deve rispondere dei reati di concussione, corruzione e interruzione di pubblico servizio per aver chiesto e ricevuto denaro (circa 34 mila euro) da alcune coppie che, in cambio, scalavano le lunghe liste d’attesa per gli interventi al Centro di Pieve di Cadore. Il ruolo di Gianaroli, però, non è legato alle liste d’attesa e al loro presunto mercimonio, ma alla sua società, la Sismer, della quale è stato direttore scientifico a partire dal 1995. Secondo l’accusa Cetera, tra il 2003 e il 2011, avrebbe avuto da Gianaroli, allora responsabile della Sismer Spa, società che forniva personale e attrezzature al Centro, 72 mila euro, perché fosse rinnovata la convenzione con l’Usl1 di Belluno.
Il pool di esperti nominato dal ministro, già al lavoro da questa settimana, terminerà le sue funzioni entro il 28 luglio. La prossima udienza del processo per Gianaroli, invece, è prevista per febbraio 2015.

il Fatto 10.7.14
L’autogol di Renzi: bloccati gli investimenti dei comuni
Dal 1 luglio le città non capoluogo devono per forza rivolgersi a Consip, che però non è attrezzata: persino il Piano scuola rischia di fallire
di Marco Palombi


Quando si parla della fretta di Matteo Renzi, di una sua certa tendenza al superomismo da bar di provincia e a governare a colpi di piccoli slogan un grande Paese sembra si parli di critiche astratte, che il giudizio estetico faccia premio sul pragmatismo necessario al difficile compito dell’amministrazione. La storia che andiamo a raccontare dimostra il contrario: quei difetti comportano malgoverno e persino una certa schizofrenia. Mentre, infatti, l’esecutivo si batte in Europa (senza molto successo, per ora) per assicurarsi maggiore flessibilità nella spesa per investimenti, in Italia ha paralizzato di fatto la spesa in conto capitale (cioè gli investimenti) dei Comuni. Nota bene: coi consumi delle famiglie fermi per povertà o incertezza nel futuro, la domanda pubblica è l’unico volano di crescita possibile. Il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan e la Ragioneria generale sanno quanto serva a questo Paese.
CHE LA SITUAZIONE sia questa non lo dice Il Fatto Quotidiano, ma una lettera inviata dall’Anci (l’associazione dei comuni) ai ministri dei Trasporti, dell’Economia e degli Affari regionali: c’è una norma, scrivono i sindaci, che “sta provocando il sostanziale blocco delle gare d’appalto, paralizzando anche attività già in parte avviate dai Comuni”. Il paradosso è che la legge denunciata dall’Anci è il decreto Irpef, quello con cui Renzi ha dato gli 80 euro ai redditi medio-bassi: in quel testo, infatti, oltre a un folle taglio da 2,1 miliardi agli acquisti di Stato, Regioni e Comuni per il 2014, si prevede anche che le stazioni appaltanti scendano da 35mila a 35 in un paio d’anni (al proposito, il premier usò anche la relativa slide).
E come si fa a fare questa rivoluzione? Di fretta. Dal primo luglio infatti - prevede il decreto - i Comuni non capoluogo (cioè quasi tutti) hanno il divieto di acquisire lavori, servizi e forniture in assenza di una Centrale unica di committenza. Le nuove stazioni appaltanti dovrebbero essere certificate da un’apposita anagrafe unica: di diritto vengono iscritte la Consip e le centrali regionali. Risultato: al momento l’unico modo è rivolgersi a Consip, visto che le altre centrali non esistono ancora. Peccato, denuncia l’Anci, che Consip non sia attrezzata per garantire - in tempi rapidi - le piccole gare di cui hanno bisogno i Comuni non capoluogo: tutto bloccato.
Tutto cosa? Potrebbe chiedersi il lettore. La risposta illustra meravigliosamente l’eterogenesi dei fini del governo degli slogan: sono fermi gli appalti per usare i fondi europei, la manutenzione generale e - dulcis in fundo - l’edilizia scolastica, il piano per rimettere in sicurezza le scuole annunciato in pompa magna dal premier e che dovrebbe concludersi entro il 31 ottobre.
Il presidente dell’Anci, Piero Fassino, ha chiesto che il governo intervenga con un decreto ad hoc e ai ministeri interessati
di emanare subito una circolare che consenta “ai Comuni di continuare a svolgere le funzioni istituzionali, in considerazione dell’insussistenza di un congruo periodo di tempo per applicare la nuova previsione”. Dalle parti di palazzo Chigi, però, non ci sentono e allora toccherà alla maggioranza provvedere con un emendamento nel decreto Competitività o in quello sulla pubblica amministrazione che fa slittare la nuova disciplina al primo gennaio prossimo per l’acquisto di beni e servizi e al primo luglio 2015 per l’acquisto di lavori. A Montecitorio Dario Ginefra, deputato pugliese del Pd, ieri ha lanciato un appello a favore dell’emendamento proposto da Anci: a sera avevano firmato 70 democratici.

La Tecnica della scuola 9.7.14
Politica scolastica
Uaar: i privilegi delle paritarie
Secondo l'Uaar, il Governo, in modo empirico, ha definito il valore della retta di 7 mila euro per alunno delle scuole paritarie, giustificando l'esenzione Imu/tasi
Il difficile rapporto tra tasse immobiliari e imprese religiose
di Pasquale Almirante

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IteNovas.com
Tasse: anche da Renzi sconti al Vaticano

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Lettera 43 4.7.14
Imu e Tasi, esenzioni per le scuole paritarie
Niente tasse per gli istituti con rette sotto i 7 mila euro. E per le cliniche convenzionate. «Sconto ai cattolici».

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Blitz quotidiano 3.7.14
Imu-Tasi, chi non paga: scuole private (retta sotto 7mila €) e cliniche convenzionate

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La Stampa 10.7.14
Roma capitale dei rifiuti
“E qui il sindaco vorrebbe i turisti?”
Dalle periferie al Colosseo, viaggio nell’emergenza tra bottiglie a terra e sacchi che marciscono al sole
di Flavia Amabile

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La Stampa 10.7.14
“È un servizio vitale. Pronti a multare l’azienda”
L’Autorità per gli scioperi: “Segnalazioni da tutta la città”


Un tempo l’Autorità di garanzia per gli scioperi si occupava di sindacati e lavoratori. Ora i tempi sono cambiati, nel mirino del presidente dell’Autorità, Roberto Alesse, sono finiti i vertici di Ama Roma Spa. Due giorni fa ha inviato una lettera all’azienda per capire che cosa stia accadendo al sistema dei rifiuti della Capitale.
Perché una lettera?
«Perché l’articolo 1 della legge 146 del 1990 stabilisce che la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti è un servizio pubblico essenziale che deve essere garantito secondo alcuni standard e nel rispetto di alcuni diritti previsti dalla Costituzione come quello alla salute. A quanto ci risulta, invece, questo servizio in questo momento viene negato agli utenti. Stanno giungendo telefonate, segnalazioni che ci hanno spinto ad intervenire come è nelle nostre competenze in base a quello che prevede proprio la legge 146».
Quante segnalazioni avete ricevuto?
«Ne sono arrivate centinaia e centinaia soltanto negli ultimi due-tre mesi. Si tratta di segnalazioni riferite a tutta Roma. Un numero inferiore arrivano dal centro, tantissime dalle periferie. Anche in zone dove in genere la qualità della vita è abbastanza alta come l’Eur».
Che conseguenze può avere la vostra lettera?
«Si tratta di una richiesta di chiarimenti. Dobbiamo capire quali siano i motivi di questi disservizi. Vogliamo capire se sono legati a conflitti esistenti all’interno dell’azienda o ad altre cause. È la premessa per decidere eventuali altre iniziative».
Quali provvedimenti potreste prendere?
«Da tempo abbiamo spostato il nostro raggio di azione dai sindacati alle aziende perché è sempre più evidente che quando c’è un alto tasso di conflittualità collettivo, la responsabilità può anche essere delle aziende. In questo caso siamo di fronte ad un danno per l’utenza che non può usufruire un servizio per cui invece paga una tariffa. Se dovessero esserci le basi potremmo prevedere sanzioni di carattere pecuniario nei confronti dell’azienda ma prima di decidere bisognerà legger ela risposta che arriverà dall’Ama».
Avete sentito il sindaco Marino in questi giorni?
«No, non lo abbiamo sentito al telefono. Lo abbiamo soltanto portato a conoscenza della nostra iniziativa per avere informazioni urgenti sulla situazione dello smaltimento dei rifiuti urbani della Capitale. Credo che ci sentiremo nei prossimi giorni».
[f. ama.]

Corriere 10.7.14
«Boicottaggio degli assenteisti»
Inchiesta sui rifiuti a Roma
Servizio in tilt. L’Autorità per gli scioperi: fare chiarezza
di Paolo Foschi


ROMA — «C’è qualcuno che boicotta il servizio». Il sospetto era stato ventilato da ambienti vicini al sindaco nei giorni scorsi. Dietro l’emergenza rifiuti nelle strade della Capitale, dietro quei cumuli di immondizia che nessuno raccoglie per giorni e finiscono per ostruire i marciapiedi, ci sarebbe la protesta silenziosa e illegittima di gruppi di dipendenti di Ama (l’azienda comunale della nettezza urbana) per contestare il taglio degli straordinari deciso dai nuovi vertici aziendali. Un boicottaggio fatto di assenze giustificate ma collocate in giorni strategici, intoppi e ritardi nei giri della raccolta e altri piccoli trucchi per mandare in tilt il servizio. Insomma, uno sciopero non proclamato e senza alcuna regola. Vero o falso? Nessuno ha portato prove e per i sindacati sono solo «accuse infamanti» per coprire le inefficienze dell’azienda.
Ieri però, a sorpresa e in maniera un po’ irrituale, sulla vicenda è intervenuta l’Autorità di Garanzia per gli Scioperi. Il presidente Roberto Alesse ha informato il sindaco Marino di aver chiesto ad Ama di fornire «con cortese urgenza, adeguate informazioni in ordine ad eventuali situazioni conflittuali, che si manifestano all’interno dell’Azienda, dalle quali possa scaturire, in qualche modo, il danno all’utenza, in un settore, peraltro particolarmente delicato, in quanto riconducibile alla salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone». Un intervento — ha scritto il Garante — deciso dopo aver ricevuto «numerose lamentele da parte dei cittadini utenti, che denunciano lo stato di crisi in cui versa il servizio di smaltimento dei rifiuti urbani, soprattutto con riferimento ad alcuni quartieri della Capitale». Per giorni, fra l’altro, si sono rincorse le voci sull’apertura in procura di un fascicolo contro ignoti per interruzione di pubblico servizio. Ieri, per costringere i pm a indagare, il Codacons ha presentato un esposto chiedendo di fare luce sull’assenteismo in Ama. del resto anche il sindaco Marino da giorni punta l’indice contro «gli assenteisti, perché ogni giorno il 18% dei dipendenti Ama non si presenta al lavoro. Chi la pulisce la città?». E anche ieri è tornato all’attacco, ma con una novità: «La situazione è inaccettabile, come non è accettabile che i dirigenti non controllino. Deve saltare qualche testa». Una posizione che ha fatto infuriare i sindacati: «Da mesi chiediamo di conoscere i dati dell’assenteismo per valutare quale è il problema, ma l’azienda ce li nega» commenta la Cgil.
La vicenda ha anche segnato una spaccatura fra il sindaco Marino da una parte e Estella Marino (omonima ma non parente), assessore all’Ambiente, e i vertici di Ama dall’altra. L’altro ieri infatti Estella Marino era stata chiara e aveva attribuito la responsabilità dell’emergenza alle carenze degli impianti per il conferimento e il trattamento dei rifiuti. E anche il presidente e amministratore delegato di Ama, Daniele Fortini (nominato da Ignazio Marino), lunedì sera aveva fatto diramare una nota spiegando che il caos rifiuti era stato determinato dalla «fragilità del sistema degli impianti».
Un bel pasticcio, dunque. Mentre le strade sono sommerse dai rifiuti (e mentre la tariffa a carico di famiglie e imprese sta per aumentare di un altro 4%), si è dunque scatenato uno scaricabarile che ha tirato in mezzo i dipendenti, in parte scagionati ieri sera dall’assessore Estella Marino: «L’assenteismo è un problema, è vero, ma a maggio è sceso al 16%».

Corriere 10.7.14
Quel lato sporco della Capitale
di Paolo Conti e Sergio Rizzo


Da troppo tempo Roma è sporca. Sporca oltre il tollerabile, per essere la capitale di una delle nazioni del G7. Sporca oltre il tollerabile, per essere oggi anche la capitale d’Europa, con il semestre di presidenza dell’Unione affidato a un’Italia che sta cercando con fatica di recuperare un po’ di prestigio. Sporca oltre il tollerabile, per essere frequentata da milioni di turisti di tutto il mondo: con il che si macchia non solo l’immagine di una città, ma del Paese intero.
Sporca oltre il tollerabile, a dispetto dell’incessante e spavaldo sciamare dei mezzi dell’Azienda municipale ambiente nel centro e in periferia: inconcludente come l’«ammuina» della marina borbonica.
Alla giunta comunale capitolina guidata da Ignazio Marino non si possono negare importanti attenuanti, a parte la cronica inciviltà di troppi cittadini e molti occasionali visitatori. Gravi sono le colpe di tante amministrazioni precedenti. Comprese le lunghissime stagioni del centrosinistra. Nessuno ha mai voluto realmente prendere in mano una situazione destinata a esplodere, come se si potesse continuare a riempire all’infinito la discarica di Malagrotta. Tardive e poco efficaci si sono rivelate le misure per la raccolta differenziata. Di fatto inesistenti le sanzioni per quanti non rispettano le regole.
E poi l’Ama. Non ci voleva un premio Nobel per capire in quale stato versasse un’azienda sfinita dalle lottizzazioni che all’apice della sua folgorante parabola fu addirittura spedita a raccogliere la spazzatura in Africa a Dakar, capitale del Senegal. Dove riuscì a rimediare una figuraccia planetaria, con il contratto rescisso per un livello del servizio giudicato inaccettabile.
Questo era il punto di partenza. Ma si deve anche rammentare che Marino è al Campidoglio ormai da un anno: tempo sufficiente per intravedere anche le sue, di responsabilità. Ha chiuso Malagrotta e lo rivendica a ogni occasione. Ma gli attuali vertici dell’Ama li ha scelti lui. E la differenza rispetto a prima non è percettibile. Il caos rifiuti fa riemergere in pieno tutte le critiche mosse da questo giornale alla gestione del Campidoglio, a cominciare dalla mancanza di autorevolezza. Deficit capace inevitabilmente di ripercuotersi sulla capacità di governare. Che certe reazioni fuori luogo di sicuro non migliorano.
Per esempio, quella rispostaccia a Bruno Vespa («Se ne resti a San Pietroburgo, visto che ci si trova bene...») colpevole di aver twittato «A San Pietroburgo, 5 milioni di abitanti, non ho visto un solo rifiuto sulla strada. Mi sono vergognato di abitare a Roma», Marino se la doveva risparmiare. Perché l’autorevolezza di un sindaco si misura anche dai modi e dalle parole. E forse è arrivato il momento di chiedersi se, accingendosi a sfidare Gianni Alemanno, Marino fosse pienamente consapevole di quello che avrebbe significato amministrare una grande città. Il mestiere assolutamente più difficile, per un politico. La spazzatura, infatti, non si può nascondere. Come l’acqua che ha allagato Milano per le colpevoli non scelte di chi doveva decidere e si è guardato bene dal farlo.

La Stampa 10.7.14
Cina, arrestata la dissidente invitata a cena da Kerry
Blitz di Pechino, la scrittrice tibetana Woeser ai domiciliari
di Ilaria Maria Sala

qui

Il Sole 10.7.14
Vertice a Pechino. Le prove di intesa non cancellano le tensioni e le controversie commerciali tra le due potenze
Investimenti, Cina e Usa accelerano sul trattato
di Rita Fatiguso


PECHINO. La proposta cinese di accorciare i tempi del trattato bilaterale per gli investimenti tra Cina e Usa (valore: 520 miliardi di dollari sonanti soltanto nel 2013) stempera le tensioni tra le due potenze che si contendono la leadership mondiale.
Non è un buon momento tra Cina e Stati Uniti, negli ultimi mesi le fonti di malumore hanno superato di gran lunga le dichiarazioni distensive che, pure, i presidenti Barack Obama e Xi Jinping non hanno mancato di scambiarsi; così ieri il sesto dialogo strategico ed economico bilaterale e il quinto round dell'alto livello di consultazione tra le due aree del mondo che si è svolto tra Diaoyutai e Great Hall of People non è stato certo all'insegna della cordialità. Anzi. Tutti con i nervi tesi, dal presidente Xi Jinping, ai vicepremier Liu Yandong e Wang Yang, all'ex ministro degli Esteri ora al Consiglio di Stato Yang Jechi, ai colleghi americani John Kerry, segretario di Stato, e Jacob Lew, segretario al Tesoro, le cui foto di rito sulla Muraglia non sprizzavano grande entusiasmo.
Sullo sfondo dell'evento, che si chiude oggi e al quale i giornalisti hanno potuto partecipare nel rispetto di evidenti limiti di riservatezza, restano la risoluzione delle controversie a lungo covate e alimentate da contrasti commerciali, tematiche geopolitiche e di sicurezza.
L'obiettivo del trattato bilaterale sugli investimenti, appare più vicino, ma Cina e Usa sembrano perennemente sull'orlo di una crisi di nervi. Certo, gli Stati Uniti e la Cina, ha detto il segretario Kerry possono evitare l'inimicizia: «Non è inevitabile, è una scelta». Ma l'escalation delle tensioni è il motivo per cui, anche se le delegazioni stanno affrontando una serie di questioni economiche legate alla politica dei tassi di cambio o ai diritti di proprietà intellettuale e di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, la svolta deve essere almeno tentata.
Ciò che davvero dà più fastidio a Pechino è il ruolo che gli Usa cercano di ritagliarsi in Asia, specie nel Sud-Est, al punto da considerare le intromissioni americane una delle cause dell'inasprimento delle frizioni con il Giappone. Morale: «Gli Stati Uniti - sostiene Xi Jinping _ hanno da guadagnare da una cooperazione e tutto da perdere dal confronto». Sembra di capire, a patto che se ne stiano oltreoceano, senza voler mettere troppo il becco nella regione dell'Asia Pacifico.
Ma come si fa a star tranquilli? In queste ultime ore Tesla, leader dell'auto elettrica con grandi progetti in Cina, ha dovuto rintuzzare ancora una volta le pretese di Zhan Baosheng, il tycoon che accampa diritti di proprietà intellettuale e chiede la chiusura di tutti gli showroom, Apple ha perso davanti a una corte la battaglia di Cina per il servizio di voice mail Siri. Una Caporetto.
La Wto, l'Organizzazione mondiale per il commercio, inoltre, ha appena dato ragione alla Cina sui meccanismi antidumping americani, la battaglia dell'import di polli americani riprende quota, la Cina affila le armi per le sue celle al polisilicone.
La sicurezza angustia Pechino (e non solo, basta guardare la reazione tedesca alle intrusioni americane) mentre le quotazioni dello yuan preoccupano ancor di più Washington e non da ora. Jacob Lew anche ieri non ha mancato di esortare la Cina ad accelerare la riforma della politica dei cambi. «Una maggiore flessibilità e l'adeguamento dei tassi di cambio potrebbero contribuire ad aumentare il potere di acquisto delle famiglie - ha detto - spostare risorse verso settori che soddisfano la domanda interna, e livellare il campo di gioco».
Davanti a tanta insistenza, non si poteva tacere. «Lo stiamo facendo», gli ha risposto il vice premier cinese Wang Yang, uno che di riforme se ne intende, eccome, avendo aperto la strada quando era a capo della provincia del Guangdong. Ma ha anche aggiunto: «Non possiamo correre troppo».

Corriere 10.7.14
Un processo all’Italia
Guerra d’Etiopia e sanzioni
risponde Serio Romano


Rimangono rarissimi esemplari di una targa che il regime fascista fece collocare in tutti i municipi a ricordo delle sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per avere aggredito l’Etiopia. La lastra riporta la scritta: «18 Novembre 1935 - XIV - A ricordo dell’assedio perché resti documento nei secoli dell’enorme ingiustizia consumata contro l’Italia alla quale tanto deve la civiltà di tutti i continenti». I giovani che la leggono non si raccapezzano. Ci chiarisce le idee?
Alessandro Prandi

Caro Prandi,
la data del 18 novembre, all’inizio della targa, è quella del giorno in cui la Società delle Nazioni concluse un dibattito, iniziato l’11 ottobre, sulle misure con cui il maggiore organismo internazionale avrebbe «punito» l’attacco dell’Italia contro l’Etiopia, il 3 ottobre 1935. Esiste un antefatto che vale la pena di ricordare. Qualche mese prima, il 27 giugno, erano apparsi nella stampa internazionale i risultati di un sondaggio sulla pace, commissionato dai maggiori giornali della Gran Bretagna. Su un totale di undici milioni e mezzo di cittadini britannici interpellati, dieci milioni si erano dichiarati favorevoli alla riduzione universale degli armamenti e altrettanti all’imposizione di sanzioni economiche contro chiunque si fosse reso responsabile di un atto d’aggressione. I membri della Società delle Nazioni ritennero che quel sondaggio rappresentasse abbastanza fedelmente i sentimenti della società europee e ne tennero conto. Scartarono l’ipotesi delle sanzioni militari e si limitarono a vietare l’esportazione verso l’Italia di armi, munizioni e, più generalmente, di prodotti e materie prime utili alle operazioni militari come il ferro, l’acciaio, il rame, il piombo, lo zinco, il cotone, la lana, il petrolio.
Gli effetti pratici dell’embargo furono molto modesti. Gli Stati Uniti non l’osservarono e continuarono a vendere il loro petrolio all’Italia. La Gran Bretagna si considerò vincolata da un trattato che le imponeva di tenere aperto il canale di Suez anche in caso di guerra, e non oppose alcun ostacolo alla passaggio delle navi che trasportavano truppe italiane verso il teatro delle operazioni. Ma per i servizi di propaganda del regime le sanzioni furono il migliore dei regali possibili. Fornivano argomenti che si rivelarono, soprattutto nella società italiana, piuttosto efficaci: le maggiori potenze coloniali vietavano all’Italia ciò che avevano già abbondantemente fatto per se stesse in passato; gli italiani erano vittime di pregiudizi e discriminazioni; l’ipocrisia e il moralismo della diplomazia internazionale non tenevano alcun conto delle esigenze sociali di un Paese affamato di terra e lavoro. Accadde così, paradossalmente, che le sanzioni contribuissero e rendere il regime molto più popolare di quanto fosse stato negli anni precedenti. Ne dette una prova l’entusiasmo con cui una larga parte della società partecipò a una campagna per la donazione di «oro alla patria».
Quanto alle targhe dei municipi, là dove ancora esistono, spetta ai sindaci e ai loro elettori decidere se conservarle o rimuoverle. A me, tuttavia, sembra che dovrebbero essere conservate. Una nazione non dovrebbe mai buttare via il suo passato. Conservarne le tracce anche quando gli eventi ricordati sono controversi, è un segno di maturità.

La Stampa 10.7.14
La forza della Germania è nel mito di Faust
di Tonia Mastrobuoni


C’è una favola che imparano tutti i tedeschi, è quella di Hans-guck-in-die-Luft. Racconta di un bambino incantato dalle nuvole, distratto dagli uccelli, insomma sempre col naso per aria che un giorno cade in un tombino e muore. È pericoloso, suggerisce la storiella, non guardarsi le punte dei piedi, sognare troppo, preferire il cielo alla terra. Crudele? Sarà. Ma martedì, alla fine di una partita storica, dopo una pioggia di gol inflitti a un Brasile inerte, lo ha detto anche Joachim Löw: «Adesso dobbiamo rimanere con i piedi per terra», sobri, concentrati, addirittura «umili». Tattica? Neanche per sogno: cultura, tradizione, «germanicità».
Mentre noi davamo fondo a tutto il repertorio bellico per descrivere la tenacia con cui i tedeschi stavano semplicemente giocando la più bella semifinale di sempre, loro non facevano altro che dare un esempio straordinario ma tipico di gioco di squadra e freddezza esecutiva. Sette gol accompagnati quasi sempre da una selva di fischi, uno solo incassato quasi alla fine e che ha fatto comunque arrabbiare il portiere, Manuel Neuer. La sua smorfia di fastidio, come a dire «ma cosa avete fatto» quando la difesa granitica per un momento ha ceduto, ha fatto il giro del mondo. Troppo? Non per un tedesco: l’impegno preso va onorato fino in fondo. Martedì sera era quello di vincere una partita al meglio e agli undici giocatori in campo non è mai balenato per la testa di fermarsi, di riposarsi, di arroccarsi sulla propria metà campo al quinto gol.
Il segreto della Germania è anche racchiuso in una frase del suo mito più importante, il Faust di Goethe. L’intellettuale che ha vissuto di solo spirito e che cede alle lusinghe di Mefistofele per fare un’esperienza terrena, può peccare e persino far morire Margherita, ma alla fine gli angeli lo perdoneranno e lo libereranno dalla promessa fatta al demone. «Chi si sforza – cantano gli angeli alla fine del Faust I - sempre mirando a più elevate mete, in noi può trovare salvezza». Chi persevera, chi mira ad uno scopo, chi non cede, va premiato. Questo insegna uno dei capolavori tedeschi che a scuola viene insegnato come da noi la Divina commedia.
Naturalmente, ai più rozzi vengono sempre solo in mente i panzergranatieri e la soluzione finale, la ferocia con cui la Germania ha costruito la peggiore dittatura di sempre, il disumano, meticoloso piano per distruggere gli ebrei. Ma sono aberrazioni di una tradizione antica, quella della disciplina, del rigore, della semplicità, che vengono in parte dalla religione protestante e in parte dalla Prussia, dai suoi sovrani «soldati» e sobri, innamorati degli intellettuali francesi e implacabili sul campo. Quando era una media potenza, Federico il Grande difese con successo la Slesia dalle superpotenze europee anche per queste doti. Soprattutto, sono virtù insegnate ai bambini sin da piccoli, e non solo per scopi bellici. I tedeschi non amano gli eccessi e gli sprechi. Basti pensare al tormentone dell’austerità, che il Paese di Angela Merkel applica anzitutto a se stesso.
Ieri, per dire, anche i giornali tedeschi mettevano a confronto l’«iperemotivo» Brasile e la «glaciale e concentrata» Germania. Ma sembravano scritti col loden, tanto per ricorrere al simbolo più famoso della nostra brevissima stagione di sobrietà. Commenti cauti, l’aggettivo «storico» usato col contagocce, pagelle entusiaste ai giocatori, ma anche un memento ricorrente: non è ancora finita, c’è la finale. A metà pomeriggio la partita era già finita in fondo ai tg. La prossima volta, quando vediamo questa Germania, non ricordiamoci solo di Sturmtruppen, ricordiamoci per esempio di Dostoevskij, che la descriveva come un Paese «grande, orgoglioso e particolare» e di Thomas Mann, che si dannava per la «testarda volontà» dei suoi connazionali.

La Stampa 10.7.14
Gajto Gazdanov, “sliding doors” nella guerra civile russa del 1918-20
Torna in una nuova traduzioneIl fantasma di Alexander Wolf, tra i romanzi più belli e più insoliti di un autore da riscoprire
di Anna Zafesova


Due uomini a cavallo si incrociano su un sentiero incandescente nella steppa. Non si conoscono, non sanno a quale parte appartiene l’altro, non hanno ancora nemmeno iniziato a odiarsi, ma è in corso la guerra civile e le decisioni non tollerano esitazioni: entrambi sparano, uno manca il bersaglio, l’altro lo colpisce in pieno e si avvicina a guardare l’agonia farsi strada sul volto sconosciuto del primo e unico uomo che avrebbe mai ucciso.
Un episodio qualunque in quella carneficina che fu la guerra civile del 1918-20, quando negli stessi luoghi – il Sud della Russia e dell’Ucraina e la Crimea – che oggi riempiono le cronache si consumò una delle grandi tragedie della storia russa. Un episodio ordinario, che però anni dopo tormenta ancora il più o meno involontario assassino, avvelenandogli il sonno e la veglia, assalendolo con interrogativi e sensi di colpa, e una curiosità divorante per quella che sarebbe potuta essere la sua vita, e quella della sua vittima, se non fosse stato per quell’incontro casuale dal quale poteva uscire vivo solo uno di loro. Fino a che un giorno non comincia a sospettare che l’uomo che ha visto agonizzare nella polvere della steppa sia ancora vivo, e scopre che anche per lui quel giorno ha cambiato tutto.
Il fato, la passione, la guerra, la morte e la comprensione che essa è il fatto più importante della vita: da uno degli incipit più belli della letteratura russa (che riportiamo in questa pagina) parte uno dei romanzi più belli e più insoliti, una storia esistenziale che Gajto Gazdanov colora di toni noir, ambientata in una Parigi degli anni Trenta che vive più di notte che di giorno. Già da giovane Gazdanov veniva affiancato a Nabokov tra le grandi promesse della letteratura russa, ma solo nel 1947 Il fantasma di Alexander Wolf gli fa guadagnare un po’ di notorietà e gli permette di liberarsi da una vita di stenti che l’aveva portato a fare lo scaricatore, l’operaio alla Renault e il tassista notturno.
Una vita che da sola vale un romanzo, dall’arruolamento a 16 anni nell’armata bianca di hel per combattere i bolscevichi alla fuga dalla Crimea, alla militanza nella Resistenza francese, alla passione per la massoneria: questo scrittore di origine osseta, allevato nella versione più europea della cultura russa, è «quasi non russo» - come nota Zakhar Prilepin nel bel saggio che conclude la nuova edizione italiana del romanzo, uscita da Voland (pp. 157, € 14). È una prosa meticolosa, precisa, psicologica e nello stesso tempo scattante, e totalmente «apolitica», per quanto firmata da un esule. Prilepin colloca Gazdanov semmai a fianco degli esistenzialisti francesi, e di Hemingway con il quale condivide la passione per una «muscolosità un po’ atteggiata», per il pericolo, la guerra, il combattimento (l’incontro di boxe nel Fantasma di Alexander Wolf è descritto vividamente come le corride), le armi. E l’identificazione tra l’autore e il protagonista, che ha vissuto le stesse esperienze di Gazdanov – dalla guerra civile all’emigrazione – e che scopre come quell’unico omicidio peraltro mai commesso ha cambiato e continua a cambiare tutta la sua vita, come il fantasma del suo nemico senza nome segue le sue tracce, condiziona la sua esistenza, avvelena restando invisibile il suo amore per la gelida Elena, la donna con il «pneumotorace dell’anima».
Il protagonista del Fantasma di Alexander Wolf alla fine incontra faccia a faccia il suo spettro, per uno scontro finale. Gajto Gazdanov muore nel 1971 senza essere mai potuto rientrare in Russia, dove i suoi scritti arrivano solo dopo la perestroika. Ma anche in Europa rimane uno scrittore ancora da riscoprire.

Repubblica 10.7.14
Cosa c’insegna il “buon governo” di Lorenzetti Parla Patrick Boucheron
“È la collera che distrugge la democrazia”
di Fabio Gambaro


LE MINACCE che insidiano dall’interno la democrazia sono a volte più pericolose degli attacchi esterni. Per Ambrogio Lorenzetti, ciò era evidente già nel 1338, l’anno in cui dipinse a Siena il celebre affresco del “buon governo”. Lo ricorda oggi lo storico Patrick Boucheron in un libro affascinante che in Francia sta riscuotendo l’elogio unanime del pubblico e della critica: Conjurer la peur ( Seuil, pagg. 288, euro 33), un denso saggio “sulla forza politica delle immagini” che parte proprio da un’originale e dettagliata analisi dell’opera con cui il pittore senese mise in guardia contro gli Effetti del buono e del cattivo governo in città e in campagna .
Secondo lo studioso francese, professore di storia medievale alla Sorbona, l’insegnamento dello straordinario affresco è ancora oggi di grandissima attualità, specie alla luce delle ultime elezioni europee e dei risultati del Fronte Nazionale di Marine Le Pen. Pur essendo stato dipinto quasi sette secoli fa, il lavoro visionario di Lorenzetti continua a dirci qualcosa sui rischi che corre la democrazia e sulla necessità di difenderla.
«Nell’affresco del buon governo, di solito si sottolineano le allegorie della giustizia, della pace e della concordia, se ne dà insomma una lettura rassicurante», spiega Boucheron, di cui in Italia è appena stato pubblicato Leonardo e Machiavelli ( Viella, pagg. 157, euro 19), un saggio che prova a ricostruire l’incontro tra le due grandi figure del Rinascimento. «In realtà, l’opera di Lorenzetti non è per niente rassicurante. Al contrario, è inquietante, perché tradisce un sentimento d’urgenza di fronte a una minaccia sfuggente e poco identificabile. È il momento in cui il comune sta per passare sotto il controllo della signoria, sullo sfondo di una crisi finanziaria che provoca il fallimento di alcuni banchieri, spingendo il popolo a cercare la protezione di un uomo provvidenziale. L’affresco mette in guardia contro questa lenta e insidiosa sovversione delle istituzioni da parte di una realtà ancora indefinita ma estremamente minacciosa. Insomma, le analogie con il nostro presente non mancano. « La minaccia da scongiurare è quella della tirannide che prende forma all’interno della democrazia?
«All’epoca si usava questa espressione. Ma al di là delle parole, che per altro possono essere inadeguate alle realtà attuali, Lorenzetti ci dice che il peggior nemico della democrazia è la collera che erode dall’interno le istituzioni collettive. Nell’affresco, la minaccia non viene da un nemico esterno alla città, ma dal cuore stesso della società comunale, minando a poco a poco il vivere civile. È il cattivo governo che consente l’emergere del risentimento e della demagogia. La storia ci ha insegnato che certe evoluzioni silenziose e senza rotture apparenti sono estremamente pericolose. A forza di piccole rinunce, piccoli tradimenti, piccole vigliaccherie collettive, un bel giorno all’improvviso ci si rende conto che la repubblica, il bene comune, il vivere civile non esistono più. Per questo, al centro dell’affresco di Siena figura un gruppo di danzatori che “scongiurano” la paura. Rappresentano la volontà di mobilitare le energie e le passioni collettive per cercare di reagire contro chi corrompe la democrazia dall’interno» Lorenzetti mette l’arte al servizio di un messaggio politico forte...
«Innanzitutto insiste sull’idea che la politica deve essere finalizzata al buon governo. Questo si realizza non tanto perché esercitato in nome di principi giusti e da persone virtuose, ma solo in quanto riesce concretamente a prendersi cura delle persone, producendo effetti benefici nella vita quotidiana. Contemporaneamente però Lorenzetti ci dice anche che questo ideale non è mai pienamente raggiungibile. Più si cerca di realizzarlo e più esso si allontana, forse perché alla costruzione del bene comune domandiamo sempre di più. Non a caso, nell’affresco, la donna che rappresenta la pace è melanconica e triste. Esprime la consapevolezza di chi sa che l’orizzonte della politica è anche inevitabilmente fatto di delusioni e frustrazioni. Ciò però non deve scoraggiare gli individui. Al contrario, la lucidità deve essere uno stimolo a continuare la battaglia. Come diceva Machiavelli, per centrare il bersaglio, occorre mirare più in alto».
Una parte dell’affresco rappresenta la città in tempo di pace. Che tipo di società immagina Lorenzetti?
«La sua città è molto diversa dalla celebre Città ideale conservata ad Urbino. La sua è una città viva e animata, risultato di una molteplicità di punti di vista. Per il pittore senese, la vita in tempo di pace non è perfezione immobile e divina. Al contrario è una società dinamica di uomini reali con i loro limiti e le loro contraddizioni. La vita civile nasce da contrasti e compromessi. E la democrazia è l’arte di organizzare le divergenze e ricomporre i conflitti. Insomma, la città di Lorenzetti è una successione di conversazioni, dove ognuno ha diritto alla parola. All’epoca, i comuni italiani avevano l’ossessione della circolazione armoniosa della parola. Per questo, i teorici dell’eloquenza civile diffidavano degli oratori popolari capaci di trasformarsi in demagoghi. Per loro, quando la parola pubblica si carica di risentimento e d’invidia è il segno che la vita politica si sta degradando. Che poi è quello che accade oggi un po’ dappertutto in Europa».
La funzione politica dell’artista è rendere visibile il pericolo che incombe sulla società?
«L’affresco di Lorenzetti mostra le conseguenze negative del cattivo governo. La creazione artistica è anticipazione, ci mette in guardia sui rischi a venire. L’artista sente il pericolo, come quei gatti che nelle miniere sentivano il grisù prima degli uomini, permettendo di evitare la tragedia. L’artista non è un profeta, ma solo qualcuno che ha una sensibilità più spiccata degli altri».
Dare un volto alle minacce e alle paure, significa conoscerle e quindi un po’ combatterle?
«Penso di sì. Quando il pericolo è indefinito e impreciso fa sempre più paura. La forza politica delle immagini è proprio questa capacità di rendere visibile ciò che ancora non lo è, mettendo il risultato a disposizione di tutti. Lorenzetti è come se dicesse ai suoi concittadini, e in fondo anche a noi: “Adesso non potrete mai più dire che non sapevate”. Che poi è la stessa intenzione all’origine del mio lavoro».
La sua concezione della storia incrocia diversi filoni di ricerca, dalla storia culturale alla storia economica, dalla storia politica alla storia dell’arte. È il vecchio sogno di una storia totale?
«In parte sì. Soprattutto però difendo l’idea di una storia inquieta e disorientata. A scuola, ci hanno sempre insegnato a orientare la storia secondo la freccia del tempo, costringendoci a pensarla come necessariamente unidirezionale. Io preferisco interessarmi ai momenti di rottura o d’involuzione, quando appunto la storia perde l’orientamento. Come ad esempio la crisi dei comuni medievali. Questa storia disorientata è di conseguenza una storia inquieta, che non è fatta per confortare le nostre certezze o le nostre identità. Non trasmette sicurezze. Al contrario, è una storia che c’interroga e suscita dubbi, ma proprio per questo è molto più interessante. Per me la storia è igiene dell’inquietudine e un esercizio di disorientamento che ci aiuta ad organizzare il nostro inevitabile pessimismo. Ci aiuta a essere lucidi, che significa guardare in faccia il baratro che si avvicina e provare a dominare le nostre paure».

Corriere 10.7.14
Se Montaigne batte gli intellettuali
Gli «Essais» sono utili al presente più di Foucault e Derrida
di Raffaele La Capria


Che curiosa esperienza è stata per me leggere il libricino di Antoine Compagnon Un’estate con Montaigne pubblicato recentemente da Adelphi (traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Lorenza Di Lella, pp. 136, e 12) ! Questo libricino riassume, in 40 capitoletti trasmessi da Compagnon alla Radio Francese, molti saggi di Montaigne, che abilmente divulgati hanno avuto un successo di pubblico straordinario. Mi spiego tanto successo non solo per la bravura di Compagnon che ha estratto dai saggi di Montaigne i passi più significativi e più adatti al suo pubblico, ma anche col fatto che tutti i saggi di Montaigne sono dettati dal senso comune, che è il contrario dell’intellettualismo esasperato dei saggisti francesi che avevano dominato il discorso con il loro genio, ma anche con le loro sottigliezze e le loro complessità: parlo di Foucault, Lacan, Barthes, Derrida e compagni.
Di tante difficili sottigliezze e tante complessità forse il pubblico francese si era stancato e il discorso semplice e pieno di buon senso del grande Montaigne gli era finalmente arrivato facile e comprensibile attraverso la voce di Compagnon. Montaigne non amava le teorie e le idee astratte, preferiva ricavare dai fatti comuni della vita le sue riflessioni, e questo lo rende non solo più umano ma certo più vicino all’esperienza di tutti. Il suo modo di scrivere era molto simile a quello che anche io ho usato e che ho chiamato «lo stile dell’anatra», perché l’anatra fila veloce sull’acqua ma non si vede lo sforzo delle zampette palmate sott’acqua, questo è anche lo stile descritto da Baldassarre Castiglione ne Il Cortegiano , citato da Montaigne, dove si parla della famosa «sprezzatura», cioè la somiglianza tra le frasi che ho letto nel libricino di Compagnon e le mie, da farmi spesso pensare «Ma questo lo avevo già scritto io!».
Per esempio Compagnon scrive: «Non facciamo altro che interporre tra noi e i testi strati di chiose che rendono la loro verità meno accessibile». E io avevo scritto che il commento in molte scuole è più importante del testo, e sotto il commento scompare spesso la poesia di Dante o di Leopardi. Compagnon scrive: «La bilancia in equilibrio rappresenta la sua metodica perplessità», e io avevo scritto che: nato sotto il segno della bilancia oscillo continuamente tra due possibilità e per questo mi definisco un uomo perplesso.
Compagnon scrive, citando Montaigne, sull’inadeguatezza di cui è consapevole e che gli appartiene, e anche io ho scritto i racconti de L’amorosa inchiesta sull’inadeguatezza e sull’incapacità di essere sempre all’altezza delle situazioni che la vita ci presenta. Su un album di fotografie scrive di: «quelle immagini ingiallite che non ci rappresentano più». Anche io ho scritto un apologo intitolato Album con gli stessi concetti. E quando parla dello studio di sé come condizione della saggezza, eccetera, e conclude con la frase di Montaigne: «Lettore sono io stesso la materia del mio libro», è proprio questa la frase che avrei voluto mettere come esergo in testa al Meridiano che contiene tutta la mia opera. E c’è una frase: «Non parlo degli altri se non per parlare meglio di me stesso» che è quasi uguale a quella che avevo scritto io nel Meridiano: «Parlo degli altri per parlare di me stesso, e parlo di me stesso per parlare degli altri». E potrei continuare sottolineando le affinità e le somiglianze, ma mi fermo perché sembra quasi che io voglia usare Montaigne per portar acqua al mio mulino, mentre invece in me c’è solo la soddisfazione di vedere certe mie opinioni e molte cose che ho scritto avvalorate da un così insigne predecessore.
Infine vorrei ricordare che Compagnon ha scritto un libro sul senso comune ed anche io ho scritto un libro intitolato: La mosca nella bottiglia. Elogio del senso comune.