domenica 13 luglio 2014

Raid israeliani, oltre 150 morti palestinesi
'Sgomberate Gaza, zona di combattimento'

l’Unità 13.7.14
Ai lettori
il CdR


Comincia una settimana chiave per il nostro giornale. Le offerte che sono state annunciate, o solo vagheggiate, ora devono venire allo scoperto. Non si può più aspettare. Il dossier Unità è aperto da diversi mesi. Oggi, con la società in liquidazione e il rischio fallimento più vicino, non ci possiamo più fermare alle promesse. Non si vive di soli annunci. E non si fa impresa senza progetti seri. Lo diciamo a tutti i soggetti che in queste settimane hanno fatto esternazioni sul futuro del giornale. La nostra è in primo luogo una comunità di lavoratrici e lavoratori, che in queste settimane continuano a lavorare senza ricevere lo stipendio. A loro si deve una risposta seria e credibile. Per questo diciamo che il tempo è scaduto: anche i lavoratori devono avere la possibilità concreta di negoziare le loro condizioni a un tavolo da aprire al più presto.

l’Unità 13.7.14
l’Unità in lotta
Una bandiera da sfogliare
di Paolo Di Paolo


HA SVENTOLATO PER QUASI UN SECOLO NELLE PIAZZE ITALIANE. È qualcosa di più che un giornale. C’era chi la domenica usciva per le strade - sole, pioggia o vento non importava - con un pacco di copie sotto il braccio. l’Unità si è stretta a doppio nodo ai grandi momenti della storia del nostro Paese e della storia della sinistra, raccontando e alimentando l’evoluzione della società, di un partito, di un ideale. «L’onorevole Giacomo Matteotti scomparso», titolava nel giugno di novant’anni fa esatti, e di lì in avanti c’è stata sempre: anche clandestina, ciclostilata, negli anni della dittatura e della guerra, con il suo nome «puro e semplice» come lo definiva Antonio Gramsci. 
C’è stata con il suo slancio, con la sua visione dei fatti, con i suoi abbagli, talvolta, e con i suoi errori, con l’impegno sempre: di guardare il mondo da sinistra, e del mondo, della collettività le speranze, le conquiste, i fallimenti, le tragedie. Qualcosa di più che un giornale. Le proteste, le manifestazioni, milioni di persone, le bandiere, le feste d’estate - e l’Unità presente come un simbolo, una sfida, una scommessa. Al passaggio tra un secolo e l’altro - era sempre luglio, ma del 2000 - la società editrice fu messa in liquidazione. Il giornale restò lontano dalle edicole fino alla primavera del 2001, quando fu rilanciato dalla direzione di Furio Colombo. È di nuovo luglio, è il 2014, l’Unità rischia di nuovo. Un paradosso è che questo avvenga pochi mesi dopo avere festeggiato il novantesimo compleanno. Ma sarebbe sbagliato pensare che l’Unità meriti di essere salvata solo in virtù della sua lunga e prodigiosa storia, di ciò che ha testimoniato, delle idee che ha mosso e nutrito, delle firme che nel tempo l’hanno resa autorevole, di quelle che ha ospitato nel corso degli anni, dei protagonisti che l’hanno fatta grande, da Ingrao a Reichlin, degli intellettuali che ha ospitato, da Ada Gobetti a Vittorini, da Calvino a Tabucchi, da Lajolo a Pavese a Pasolini. 

Non è solo un immenso patrimonio a essere messo in pericolo, e con tale patrimonio quasi un secolo di storia italiana, di lotte, di dibattito civile, di conquiste sociali e intellettuali. A rischio è un presente vitale - l’Unità di ogni giorno, con le sue scelte, il suo modo di raccontare, con la passione e la fiducia contrapposte all’Italia del cinismoe dell’aggressività cieca - e una possibilità di futuro. Di un futuro italiano in cui il contributo de l’Unità possa alimentare un orizzonte in cui la parola «sinistra» abbia ancora un senso e un peso: nonostante il crollo di muri e la fine di ideologie, nonostante il nostro essere «dopo», oltre il Novecento. C’è spazio e c’è bisogno che il cantiere della sinistra, di una sinistra aggiornata e attrezzata ad affrontare il nuovo escolo, disponga ancora di questo architrave essenziale. Un luogo - su carta e in rete - dove aprire un confronto, una dialettica, sia sempre possibile. Una finestra, sì, da cui affacciarsi: per vedere non solo come va il mondo, ma come potrebbe andare (meglio); una lente che continui a posarsi soprattutto sulle disuguaglianze, sulle ingiustizie sociali; un amplificatore, non delle urla e degli strepiti, non della retorica dei politici, ma di chi non ha voce abbastanza per farsi sentire. Il novantesimo compleanno di questo giornale ha mostrato quanto sia ancora tenace - nonostante la generale crisi dell’editoria e dei periodici - il legame con i lettori, con generazioni diverse di lettori. È raro che il rapporto con un quotidiano sia tanto impastato di vita, vita vissuta, di memorie private e collettive, di staffette fra padri, figli, nipoti. È raro che il solo nome di un giornale evochi all’istante qualcosa, anche per chi ne è distante politicamente. Dici l’Unità, e chiunque sa, chiunque sente. Che è un pezzo di storia, uno spazio condiviso, una regione della testa e anche del cuore, a sinistra. Qualcosa di più che un giornale. Molto di più.

il Fatto 13.7.14
Dopo l’Unità anche Europa rischia di sparire
La crisi dei giornali Pd
L’ex quotidiano della Margherita, nonostante i 30 milioni di fondi pubblici presi in 10 anni, potrebbe chiudere
di Tommaso Rodano


Due giornali di partito sono troppi, non possiamo permetterceli”. Parola di Matteo Renzi, durante l’assemblea nazionale del Pd dello scorso 14 giugno. La stessa frase oggi ha un suono sinistro: i quotidiani del Partito democratico rischiano di chiudere entrambi. E presto: dopo L’Unità, che è stata messa in liquidazione e potrebbe scomparire dalle edicole già da luglio, ieri anche Europa ha lanciato il grido d’allarme. Se non interviene nessuno, l’ex giornale della Margherita cesserà le pubblicazioni entro il 30 settembre. Per tenere sul mercato il quotidiano di Stefano Menichini, in rosso dal primo anno di edizione, non bastano i fondi pubblici per la stampa: Europa ne ha incassati quasi 30 milioni nei suoi primi dieci anni di vita, dal 2003 al 2013. Ieri il Comitato di redazione ha annunciato battaglia: “Sono irricevibili le comunicazioni della società editrice che ha disposto di avviare le azioni per la chiusura delle pubblicazioni per la fine di settembre (...) Il Cdr si batterà in tutte le sedi per garantire l’uscita del giornale oltre quella data”. I redattori di Europa sottolineano “l’espresso apprezzamento” da parte dei vertici del Partito democratico “per la qualità del prodotto editoriale e per lo sviluppo online dove, nel corso del 2013 e nella prima parte del 2014, si è registrato un incremento del 300 per cento”. Un apprezzamento che però non è mai andato oltre una generica promessa d’impegno, come racconta il direttore, Stefano Menichini: “Durante l’ultima direzione del Pd il problema è stato posto in modo chiaro dal presidente del cda di Europa, Enzo Bianco. Si parlava dei debiti de L’Unità, e lui è intervenuto per ricordare che ci siamo anche noi. Quel giorno rispose il tesoriere Francesco Bonifazi, assumendosi l’impegno di cercare una soluzione. Da quel giorno non abbiamo sentito più nessuno”. 
MENTRE l’Unità ha lanciato un appello che chiama in causa in prima persona il presidente del Consiglio, Europa rimane cauta su Renzi e sul ruolo del Pd. Nel comunicato del cdr il nome del premier non si legge mai. “Il momento è complicato 
- spiega ancora Meni-chini - sappiamo che sono finiti i tempi dei salvatori e non possiamo più sperare che aziende editoriali che non sono in grado di stare in piedi siano tenute in vita dal proprio partito. Ma sappiamo anche che la nostra situazione è diversa da quella dei colleghi dell’Unità. Abbiamo già dato al nostro giornale una struttura agile con 14 articoli 1 e meno di 20 lavoratori, abbiamo attivato da tempo il regime di solidarietà e abbiamo puntato quasi tutto sull’online e sul digitale: per aiutarci ad andare avanti non serve uno sforzo enorme”. 
Negli ambienti del Pd è circolata l’idea di riorganizzare l’assetto mediatico del partito, accorpando i due quotidiani in crisi (magari coinvolgendo anche la tv Youdem) e distribuendo “i compiti” tra l’edizione di carta e l’online, ma l’ipotesi è stata accolta con freddezza da entrambe le redazioni. Ieri il cdr de L’Unità ha pubblicato un comunicato di solidarietà nei confronti dei “cugini” di Europa. In assenza di un intervento esterno, i due giornali rischiano di lasciare per strada circa 100 lavoratori.

«oggi arriverà anche il leader di Sel Nichi Vendola»
l’Unità 13.7.14
A Livorno la sinistra «possibile» Civati: andare oltre il renzismo
di Osvaldo Sabato


Se un’altra sinistra è possibile, in quale città se non a Livorno si può rimetterla in piedi? Qui dove è nata, inaspettatamente sconfitta alle ultime amministrative dopo quasi settanta anni di governo, l’8 giugno scorso è caduta nelle mani dei grillini, con il Pd livornese che in questo momento, probabilmente, condensa la sintesi di alcune contraddizioni che si respirano anche a livello nazionale. Un partito che con la guida del premier-segretario Matteo Renzi ha veramente cambiato verso, ma andando in quello sbagliato, secondo Pippo Civati. «Penso che ci sia molta politica da fare », dice il parlamentare monzese per spiegare che cosa succede a Livorno nella tre giorni di Politicamp 2014, che ha preso il via venerdì sera e si concluderà oggi. 
Un migliaio di persone il primo giorno, al The Cage Theatre di Villa Corridi, altrettante ieri, tanti i dibattiti e i workshop sulla Costituzione, la parità, la partecipazione, la cultura, il sindacato, la legalità, il sud e l’economia. Naturalmente non si poteva non parlare di riforme. Lo hanno fatto Fabrizio Barca, Maurizio Landini, Nadia Urbinati, la neo europarlamentare Elly Schlein e Vannino Chiti: «L’ultima parola spetta ai cittadini», è la tesi del senatore notoriamente contrario al nuovo Senato frutto dell’accordo con Silvio Berlusconi. 
Tanti i giovani arrivati da tutta Italia per seguire questa iniziativa che darà vita alla nuova associazione «Possibile» promossa dallo stesso Civati. E a scanso di equivoci e per mettere subito le cose in chiaro gli organizzatori precisano che non ci sarà nessun remake del 1921, non c’è all’orizzonte nessuna scissione dal Pd. «Sarebbe un po’ scontato scindersi a Livorno, siamo un po’ più ambiziosi: vogliamo unire la sinistra. Cerchiamo di unire chi sta nel Pd perché crede in un grande partito di governo però vuole anche un pluralismo interno », è la stoccata di Civati a Renzi accusato nei giorni scorsi di guidare in modo autoritario il partito. «In questi giorni sono volati stracci, non da parte mia, si pensa sempre siano le minoranze, mi pare sia la maggioranza un po’nervosa», aggiunge riferendosi alle tensioni interne sulle riforme costituzionali. 
Quasi per esorcizzarlo, Renzi nei dibattiti viene citato poco. Il minimo indispensabile. Una scelta non casuale, ma dal sapore politico molto netto: a Livorno non si ritrovano gli anti renziani, ma chi vuole più sinistra nel Pd. L’obiettivo della tre giorni livornese mira a far «ciccia» cercando di fare un’operazione che metta a disposizione della sinistra uno spazio politico, mentre «sono tutti ad inseguire leadership ed etichette». 
Temi alla mano qui si cercano convergenze non di stampo elettorale. «C’è il rischio di un vuoto politico pazzesco, un forte egocentrismo», avverte Civati. «Oltre al renzismo ci sono altre forme di vita», aggiunge. Fuori o dentro il Pd. Mettere insieme tutta questa «vita» è il cammino che ha in mente il parlamentare democratico, vera spina nel fianco di Renzi. 
Si spiega così la presenza a Livorno di esponenti della lista Tsipras, come Marco Furfaro, rimasto fuori dall’Europarlamento per la mancata rinuncia di Barbara Spinelli, dei Verdi e oggi arriverà anche il leader di Sel Nichi Vendola, che ha già alcune proposte da mettere sul tavolo come reti e coordinamenti fra i pezzi della sinistra. Potrebbero farsi vedere anche dei parlamentare dei 5 Stelle in rotta con il movimento grillino. Mentre per restare dentro il Pd sempre oggi è atteso Gianni Cuperlo per parlare di sinistra «possibile». «Ma il patto del Nazareno esattamente cosa è», si chiede Civati, confermando la sua contrarietà a qualsiasi accordo con Berlusconi. 
Poi annuncia per settembre le proposte di legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione delle droghe leggere, unioni civili, e reddito minimo di cittadinanza. «Vogliamo richiamare il Pd a spiegare il suo programma, perché va bene Twitter, ma vorrei sapere quali sono gli impegni per i prossimi sei mesi», incalza Civati. Un esempio è la riforma della giustizia. Su questo punto verrà chiesto al Guardasigilli Andrea Orlando un confronto pubblico. 
Chissà se a Livorno riuscirà l’impresa fallita da altri: riunire la sinistra. I «possibili» che per Civati fa rima con «compagni» ci proveranno. Sicuramente una forte spinta l’ha data Adelmo Cervi, figlio di Aldo uno dei sette fratelli fucilati dai fascisti, giunto a sorpresa nella città labronica. 
Ma ha senso cambiare strada con il Pd al 40 per cento? «È necessario cambiare rotta per creare nuovi posti di lavoro», afferma Stefano Fassina. Eccola la scommessa da vincere per la sinistra del partito. Mentre l’ex ministro Maria Chira Carrozza attacca il governo Renzi. «Molte cose su cui stavo lavorando sono state bloccate», dice. 

Sullo sfondo c’è sempre la situazione interna al Pd e la scelta della segreteria di mettere da parte la gestione unitaria del partito. «Non ci stiamo a fare gli yesmen», chiosa Fassina, prima di iniziare a discutere di economia con Filippo Taddei, della segreteria dei democratici. Il primo critica e sottolinea la debolezza di alcune ricette economiche di Renzi, il secondo le difende, a partire dai famosi 80 euro e dal jobs act, un’aspirina per Civati, che invece punta sul reddito di cittadinanza. Sarà questa una delle sue grandi battaglie autunnali. Insomma il dibattito continua pur nella totale assenza di bandiere e simboli del Pd nella convention messa in piedi da Civati. Proprio come faceva Renzi

l’Unità 13.7.14
Vendola: «Sel spaccata dal fascino di Renzi». Oggi da Pippo
di Giuseppe Vittori


Nichi Vendola non uscirà di scena, nessuna migrazione in Canada dove «fa troppo freddo», piuttosto alla scadenza del suo mandato da governatore della Puglia, nel 2015, si dedicherà a tempo pieno a Sinistra e Libertà. Apertissimo il dialogo con la sinistra Pd di Pippo Civati, l’importante non è creare «un nuovo soggetto in provetta» ma creare una rete di relazioni, luoghi di confronto dove «coltivare pensieri e innovazione assieme a tutti coloro che non si arrendono al mito della governabilità o alla irresistibile ascesa del renzismo»: è uno dei punti approvati ieri alla fine dell’Assemblea nazionale di Sel. 
Il primo momento di discussione ampia nel partito dopo l’uscita di dodici parlamentari compreso il capogruppo Gennaro Migliore (sostituito da Arturo Scotto) e il tesoriere (votato ieri Franco Bonato), in vista della conferenza programmatica in autunno. Lo strappo nel partito secondo Vendola è stata una costruzione mediatica, ma non si può nascondere che il problema sia il rapporto con il governo, anzi, il leader di Sel afferma che la «il renzismo, Renzi e il suo fascino », la sua «narrazione. Questo ha causato la frattura vera, il resto sono chiacchiere ». 
Il premier viene additato dal leader di Sel come «l’autore del delitto» compiuto sul centrosinistra con le larghe intese. Bocciate senza mezzi termini le riforme costituzionali che favoriscono, secondo Vendola, «una dittatura della maggioranza » con delle modalità di dibattito che «umiliano il Parlamento». 
Ma d’altra parte il partito della sinistra prevede (o auspica) che «in questa maggioranza si creino delle crepe», del resto è noto che se il Nuovo centrodestra di Alfano uscisse, Sel sarebbe disposta a sostenere il governo. La porta del dialogo con il Pd è comunque aperta, intendendo però il «campo largo» che guarda alla sinistra del Partito democratico. Infatti, come primo atto di quel fare «rete», stamattina Vendola parteciperà ai lavori di «Politicamp 2014», la convention promossa da Pippo Civati a Livorno. «A Civati potremo dire non solo di fare battaglie insieme, ma anche di socializzare saperi, conoscenze, vocabolario », ha detto Vendola, che oggi proporrà al deputato Pd «di dotare le nostre comunità di uno strumento, un settimanale on line dove depositare il senso delle nostre battaglie, dei nostri pensieri». 
Altro polo di riferimento resta la Lista Tsipras: tutti invitati a partecipare all’Assemblea nazionale il 19 luglio a Roma per fare «campagne comuni» come quella referendaria contro l’austerity, lontanissima da quelle che Vendola chiama le «pantomime Renzi-Merkel». 
Le linee guida di Sel sono sempre le stesse: «Ovunque andremo, con chiunque parleremo, diremo che non ci interessano un riformismo senz’anima e un radicalismo incendiario a chiacchiere. Lo diremo a tutti gli interlocutori». 
Nel suo intervento all’Assemblea nazionale riunita al Centro Congressi Frentani, Nichi Vendola ha denunciato che la scissione sarebbe stata, secondo lui, «architettata con una cura per la comunicazione mediatica», i dieci fuoriusciti «sono andati via poco alla volta, per dare la sensazione di uno schianto, di uno smontaggio di una comunità» ch comunque è ancora «viva». 
Vendola si prepara a tornare leader a tempo pieno: «Per quanto mi piaccia il Canada, non potrei mai andare a vivere in un luogo così lontano dal sole del Mediterraneo », ha detto ironizzando sulle ipotesi di un suo «esilio» volontario, poi ha fatto notare il paradosso della svolta pro-gay a Palazzo Grazioli: «Che io debba essere liberato nei miei diritti da Dudù mi fa un po’ specie...». 
Poi ha ricordato il ruolo di Sel, come «pungolo» per il governo sul lavoro e prevedendo un autunno caldo; parlando con la bandiera arcobaleno sul palco Vendola ha criticato il «silenzio» di Renzi sul massacro in Medio Oriente. Però, partendo dal tema della legge mai riformata sul conflitto di interessi, insiste «sulla possibilità che in questa legislatura si possa determinare una crepa di questa maggioranza. Auspico una nuova e diversa maggioranza senza le destre che liberi il paese. Lavoriamo per questo», per demolire il «patto costituente con il padre della patria Berlusconi. È molto di più della bicamerale di D’Alema che Renzi aborriva». Oltretutto, se Berlusconi sarà condannato, il patto potrebbe anche saltare. 
Bocciato il testo delle riforme costituzionali: il ddl Boschi «aggrava la condizione di esclusione delle minoranze, la democrazia non può essere una dittatura della maggioranza», controllata «militarmente » nel dibattito.

«Vendola pensa a Pippo Civati, al quale proporrà, ha spiegato, “di dotare le nostre comunità di uno strumento, un settimanale on line dove depositare il senso delle nostre battaglie, dei nostri pensieri”»
l’Unità on line 12.7.14
Vendola e le defezioni di Sel: «Colpa del fascino di Renzi»

qui

«Oggi il leader di Sel parteciperà al camp organizzato da Pippo Civati»
Repubblica 13.7.14
Il leader apre a Renzi
Vendola: “Sel divisa per il fascino del Pd ma in autunno riprendiamo il dialogo”


ROMA. Nichi Vendola e Sel ripartono, ammaccati dalla scissione guidata da Gennaro Migliore. Ma all’assemblea nazionale del partito, il leader spiega cosa è successo: «Il renzismo, Renzi e il suo fascino. Questo ha causato la frattura vera, il resto sono chiacchiere».
C’è quindi la politica e la psicologia, nell’analisi del governatore pugliese. Ma adesso? «Dobbiamo avere la forza di stracciare il racconto del Pd, dobbiamo dire che dietro a quel racconto c’e’ solo una riduzione degli spazi di democrazia», risponde Vendola. È un attacco a Renzi, dunque. Sulle riforme istituzionali, sui presunti margini di manovra in Europa («non ha ottenuto nulla dalla Merkel»), sul lavoro («prepariamoci a un autunno difficile, dovremo stare vicini ai sindacati»).

Il centrosinistra così come lo aveva immaginato Vendola è finito. Bisogna ricostruirlo. Oggi il leader di Sel parteciperà al camp organizzato da Pippo Civati. Il patto sulle riforme con Berlusconi ha messo definitivamente una pietra sopra al tentativo elettorale di un anno e mezzo fa. Nonostante questo «voglio insistere perché in questa legislatura si apra una crepa in modo che si possa discutere di un’altra piattaforma di governo». Migliore viene salutato con una battuta velenosa. «Ha detto che sono ideologicamente a favore dei perdenti. Pensano che la sinistra fosse nata proprio per questo... «. Però Sel non può fare da sola. «A settembre dovremo riprendere un discorso di cambiamento vero con il Pd».

Repubblica 13.7.14
Il convegno. Anche Cuperlo e Landini all’iniziativa
Civati chiama a raccolta l’altra sinistra
“Diverse forme di vita oltre al renzismo”
di M. V.



DAL NOSTRO INVIATO. LIVORNO. «Oltre al renzismo ci sono altre forme di vita». Pippo Civati chiama a raccolta tutti i pezzi della sinistra, quelli dentro e quelli fuori dal Pd. Li chiama nella città dove la sinistra è nata e dove è stata appena sconfitta dai Cinque Stelle. E le “altre forme di vita” accettano l’invito: oggi arrivano alla kermesse civatiana Gianni Cuperlo e il leader di Sel Nichi Vendola, pronto a lanciare l’idea di ‘reti e coordinamenti’. A confrontarsi, tra gli altri, il dissidente Vannino Chiti e l’ex ministro Fabrizio Barca; Elly Schlein, già animatrice del movimento «Occupy Pd», e Maurizio Landini, segretario generale della Fiom. Dice Civati: «Dobbiamo mettere a disposizione uno spazio politico per trovarci poi a settembre su alcune battaglie politiche», spiega Civati. Quali battaglie? Lo strumento può essere la legge d’iniziativa popolare, spiega il dissidente dem. E anche gli argomenti ci sono già: la legalizzazione delle droghe leggere, le unioni civili e il reddito minimo di cittadinanza. È qui che secondo Civati va sperimentata l’unità della sinistra: «Perché, bene Twitter, l’estro di Renzi e la svolta continua, ma quali sono gli impegni del Pd per i prossimi 6 mesi?». Stefano Fassina su una cosa è d’accordo: «Dobbiamo spostare l’asse politico del Pd». E se Renzi punterà una segreteria unitaria Fassina avverte: «Se vuol dire fare gli «yesmen» allora no».

«Penso che dobbiamo proporre a Civati alcune delle nostre idee»
Repubblica on line 13.7.14
Sel, Vendola: "In autunno riprendere il discorso con il Pd"
Il leader di Sinistra Ecologia e Libertà all'Assemblea Nazionale: "Provare cambiamento vero con i democratici"
E sulle spaccature interne al partito, dopo le tante defezioni: "La frattura l'ha causata Renzi con il suo fascino"

qui

«Oggi sarà a Livorno dove Giuseppe Civati ha organizzato la sua tre giorni. Con lui, spiega Vendola, bisogna fare rete»
il Fatto 13.7.14
Vendola: la nostra scissione colpa del fascino di Matteo


IL RENZISMO, Renzi e il suo fascino. Questo ha causato la frattura vera, il resto sono chiacchiere”. Così Nichi Vendola ha aperto ieri l’assemblea nazionale di Sel commentando l’uscita di alcuni big del partito (dall’ex capogruppo Gennaro Migliore a Claudio Fava passando per il tesoriere Sergio Boccadutri e la deputata Titti Di Salvo). “La rottura di Sel - ha detto - è stata ingigantita sui media. Ci dicono che non siamo né carne né pesce, né sinistra di governo che si mette in ginocchio al fascino effervescente del nuovo sovrano”. Fa autocritica sul passaggio del primo governo Letta che doveva essere analizzato meglio , poi chiude: “Il centrosinistra non c'è: è stato demolito da un’alleanza fra Pd e centrodestra sotto l'egemonia dell’Europa”. Oggi sarà a Livorno dove Giuseppe Civati ha organizzato la sua tre giorni (“Politicamp 2014”). Con lui, spiega Vendola, bisogna fare rete. Ma anche a settembre, con il Pd, garantisce, si deve riprendere “il percorso del cambiamento”.

«Il dissidente Pippo Civati chiama la sinistra nel luogo più simbolico d’Italia e la sinistra risponde: Gianni Cuperlo e anche Nichi Vendola, annuncia Sel, arriveranno a Villa Corridi domenica mattina...
Domattina, dopo aver discusso del «sindacato possibile», riflettori su «la sinistra possibile», il dibattito con Cuperlo, Walter Tocci, il candidato Tsipras Furfaro e a questo punto, anche Vendola»
Repubblica Firenze 12.7.14
Da Cuperlo a Vendola per la sinistra di Civati “Qui sul nostro palco chi ha pensiero critico”
Ieri l’apertura. In sala anche lista Tsipras e grillini Atteso il sindaco Nogarin. Parrini: non sono invitato
di Massimo Vanni


TORNARE a Livorno, dove la sinistra è nata e dove un mese fa è stata clamorosamente battuta. Tornare per ripartire di nuovo. Dal Pd per andare oltre. Il dissidente Pippo Civati chiama la sinistra nel luogo più simbolico d’Italia e la sinistra risponde: Gianni Cuperlo e anche Nichi Vendola, annuncia Sel, arriveranno a Villa Corridi domenica mattina. In tempo, per ascoltare le conclusioni sulla «sinistra possibile». Perché alla periferia di Livorno «si sono riuniti tutti quelli che hanno un pensiero critico», spiega Civati. «Non necessariamente verso il Governo, verso il Pd e dentro il Pd: tutta questa retorica della contrapposizione a me non piace», aggiunge gettando lo sguardo alle delegazioni arrivate un po’ da tutta Italia. Un migliaio di persone almeno.
Già ieri, serata d’apertura di una tre giorni che si concluderà domattina, c’erano il “frenatore” Vannino Chiti, l’ex ministro Fabrizio Barca, la docente della Columbia University Nadia Urbinati, il segretario Fiom Maurizio Landini. Ma anche esponenti dem toscani come i parlamentari Filippo Fossati e Susanna Cenni, la consigliere regionale Daniela Lastri hanno voluto partecipare a “Politicamp 2014”. Più conosciuta forse come la “Leopolda di sinistra”, come da subito è stata ribattezzata la tre giorni in ricordo della prima convention fiorentina del 2010 che vide Civati a fianco di Matteo Renzi. Ormai un secolo fa.
Neppure un saluto formale il segretario toscano del Pd Dario Parrini, per l’avvio della kermesse civatiana: «Non sono stato invitato», spiega Parrini. In compenso ci sono esponenti della lista Tsipras come Marco Furfaro ed esponenti dei Cinque Stelle, locali e nazionali. Lo stesso sindaco Filippo Nogarin, secondo lo staff civatiano, potrebbe comparire a sorpresa al Cage Theatre di Villa Corridi. L’ambizione dichiarata di Civati è comunque quella di riunire a Livorno tutti i “pezzi” dell’italica sinistra nel tentativo di trovare un linguaggio comune. E di immaginare una sinistra che sappia prendere la voce di fronte ad un renzismo ormai dilagante.
«Qui ci sarà tutto quello che si muove a sinistra nel Paese, forse per la prima volta insieme alla pari, cercando di capire cosa sia il caso di fare, senza nessuno che fa il leader o un nuovo soggetto politico», dice Civati aprendo la tre giorni. Del resto, aveva detto nei giorni scorsi, «la politica italiana vive di contrapposizioni, anche perché il premier spesso le cerca». E quella di Livorno, aveva aggiunto, «è una grande assemblea che dal Pd guarda fuori, verso sinistra e verso le battaglie per la democrazia, la partecipazione e l’uguaglianza ».
Stamani il dibattito sulla “cultura possibile”, con l’ex ministro bersaniano Maria Chiara Carrozza e il critico d’arte antirenziano Tomaso Montanari e Pietro Folena. Mentre alle 18.30, a parlare di «politica economica possibile», ci saranno tra gli altri Stefano Fassina e il responsabile economia del Pd Filippo Taddei. Domattina, dopo aver discusso del «sindacato possibile», riflettori su «la sinistra possibile», il dibattito con Cuperlo, Walter Tocci, il candidato Tsipras Furfaro e a questo punto, anche Vendola. Le conclusioni di Civati sono attese per le 13.30. Subito prima del pranzo di autofinanziamento.

il manifesto 13.7.14
Sel ricomincia da Vendola
Il presidente medita di lasciare in anticipo la Puglia per essere leader del partito a tempo pieno
Oggi intanto sarà a Livorno all'iniziativa di Civati al quale propone di costruire un coordinamento
di Micaela Bongi


I sim­boli di Sini­stra eco­lo­gia e libertà que­sta volta non ci sono. Sono stati sosti­tuiti dalle ban­diere arco­ba­leno, per dire che l’escalation mili­tare a Gaza si deve fer­mare e «la nostra discus­sione non ha senso se non rial­ziamo le ban­diere della pace, se non inter­ro­ghiamo un’Europa silente come se fosse fisio­lo­gico con­si­de­rare nor­male i bom­bar­da­menti», e «per quanto pro­li­fico di dichia­ra­zioni sia Renzi, è dif­fi­cile tro­varne una sola sulla guerra in Medio Oriente», pre­mette Nichi Ven­dola aprendo i lavori dell’assemblea nazio­nale di Sel al cen­tro con­gressi Fren­tani di Roma.
E’ il primo di una serie di impor­tanti appun­ta­menti che, da qui a tutta la pros­sima set­ti­mana, impe­gnerà il par­tito pro­fon­da­mente scosso dalle «fuo­riu­scite», una crisi che il lea­der attri­bui­sce all’incapacità di resi­stere alle sirene del premier-calamita, per­ché «il ren­zi­smo, Renzi e il suo fascino, è que­sto che ha cau­sato la frat­tura vera, il resto sono chiac­chiere». E anzi, la rot­tura sarebbe stata anche ingi­gan­tita attra­verso una «sapiente» gestione media­tica, con gli addii scan­diti con il con­ta­gocce, per fa appa­rire la frat­tura una frana.
Ma la crisi è evi­dente, se è vero che i pros­simi giorni potreb­bero riser­vare anche colpi di scena. Que­sta mat­tina Ven­dola par­te­ci­perà al Poli­ti­camp orga­niz­zato a Livorno dall’area Pd di Pippo Civati, con la quale si inten­si­fi­cherà l’asse anche con la pro­po­sta di isti­tuire reti e coor­di­na­menti, e «in par­la­mento ce n’è biso­gno», sot­to­li­nea il pre­si­dente di Sel ipo­tiz­zando non solo un inter­gruppo, ma anche la spe­ri­men­ta­zione di un set­ti­ma­nale online. Gio­vedì 17, poi, l’incontro con il lea­der di Syriza Ale­xis Tsi­pras, che sarà a cena alla festa di Sel a Roma. E ancora, sabato 19 sem­pre a Roma, l’assemblea nazio­nale dell’Altra Europa, sem­pre con il lea­der greco.
E se Ven­dola esclude il con­gresso straor­di­na­rio e «pre­ci­pi­ta­zioni orga­niz­za­tive», dando appun­ta­mento alla con­fe­renza pro­gram­ma­tica dell’autunno, la «nostra Leo­polda», la chiama, «occa­sione di rilan­cio del pro­filo del nostro par­tito», lo stesso lea­der di Sel già nel corso di que­sta set­ti­mana potrebbe pren­dere una deci­sione impor­tante che lo riguarda. Quella non solo di non rican­di­darsi alle pros­sime regio­nali pugliesi, attual­mente pre­vi­ste per la pri­ma­vera 2015; ma di dimet­tersi in anti­cipo da gover­na­tore, per dedi­carsi a tempo pieno al par­tito. E’ Mas­si­mi­liano Sme­ri­glio, nel corso dell’assemblea al Fren­tani, a spie­gare che ci sarà un can­di­dato di Sel per la corsa alla guida della Puglia. Die­tro di lui si sente un «ma dob­biamo vedere chi…» e Sme­ri­glio al micro­fono riprende dicendo infatti «la noti­zia è che avremo un can­di­dato alle ele­zioni in Puglia e un segre­ta­rio a tempo pieno» (cioè Ven­dola, quindi non can­di­dato alla regione). Solo un auspi­cio, quello di Sme­ri­glio rispetto a un Ven­dola lea­der full time, si spiega poi nel par­tito. Certo, la scelta la farà il pre­si­dente. Che però potrebbe appunto deci­dere, nei pros­simi giorni, di lasciare la Puglia e non per tra­sfe­rirsi in Canada (even­tua­lità di nuovo smen­tita se non altro per que­stioni climatiche).
Alle pri­ma­rie del cen­tro­si­ni­stra per Sel dovrebbe cor­rere Dario Stè­fano, il pre­si­dente della giunta per le ele­zioni, le auto­riz­za­zioni e le immu­nità del Senato e rela­tore sulla deca­denza di Ber­lu­sconi; capo­gruppo della Mar­ghe­rita durante la prima giunta Ven­dola e asses­sore nella seconda, dopo essere pas­sato nel 2009 a Sel. Dun­que dovrebbe sfi­dare nei gazebo l’ex sin­daco di Bari Michele Emi­liano, Pd.
Rispetto al par­tito, Ven­dola (che si imputa l’errore di aver ceduto alle «par­la­men­ta­rie» di Ber­sani, «com­pe­ti­zione indi­vi­dua­li­stica» che avrebbe pro­vo­cato la «per­dita dell’innocenza») sarebbe così in pro­cinto di fare non un passo indie­tro, ma un netto passo avanti. Per carat­te­riz­zare Sel con una più forte oppo­si­zione a Renzi, senza stare «in ginoc­chio davanti al nuovo sovrano», come «ci chie­dono ogni giorno» in alter­na­tiva all’«essere sini­stra di oppo­si­zione e tor­nare in qual­che modo nelle caverne».
Intanto Sel si con­cen­tra nella par­tita delle regio­nali con il lan­cio della can­di­da­tura di Gianni Spe­ranza in Cala­bria (ma a più di tre mesi dalla deca­denza di Sco­pel­liti, sulla data delle ele­zioni è buio fitto per­ché in con­si­glio si fa melina) e pen­sando, come sol­le­cita Nicola Fra­to­ianni, anche a una pro­po­sta per l’Emilia Roma­gna, dove dopo la «lezione di stile» (sem­pre Ven­dola) di Errani, il Pd ha ieri deciso per le pri­ma­rie di coalizione.
L’assemblea di Sel elegge infine all’unanimità Franco Bonato nuovo teso­riere. E, con­clude Ven­dola, «la noti­zia è che siamo in campo».

«Il prossimo passo di Sel, per "aprirsi", comincia da Civati a cui Vendola propone di costruire delle reti, dei coordinamenti, e degli intergruppi in Parlamento (ma anche un settimanale on-line)»
La Gazzetta del Mezzogiorno 12.7.14
Vendola blocca la scissione di Sel e «apre» a Renzi

qui

Il Fogliettone 12.7.14
Assemblea Sel, Vendola strizza occhio a Civati

qui

«A proposito di Sel, Civati pare proprio che non voglia giocare allo "scouting"
Non sembra, infatti, tanto interessato a stringere un patto con i fuoriusciti di Led, quanto piuttosto a creare un "apparentamento" con il partito di Vendola
Ciò è stato certificato anche dalla sua presenza alla festa di Sinistra e Libertà a Roma»
PolisBlog 12.7.14
Politcamp: Civati prova a costruire un'opposizione a Renzi da sinistra
di Mario Lucio Genghini

qui

Altri articoli sul tema, ma del tutto analoghi a quelli segnalati qui sopra e facilmente rintracciabili, attraverso Google News, sono anche su molte altre testate: RaiNews, Ansa.it, Quotidiano Nazionale (Il Giorno, Il Resto del Carlino, La Nazione), Lettera 43, TMNews, Puglia 24 News, Termometro politico, il Velino, La Prealpina...

l’Unità 13.7.14
Dialoghi
Israele, Palestina e le ragioni dell’odio
di  Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Il recente incontro in Vaticano tra i capi di Stato di Israele e Palestina aveva fatto sperare nella ripresa di un dialogo costruttivo di pace. Ma come sempre, appena si prova a ricomporre questa dolorosa ferita, i nemici della pace in entrambi gli schieramenti colpiscono, per distruggere ogni minima speranza.
MASSIMO MARNETTO
Una ascoltatrice di Prima Pagina su Radio 3, Sofia Levi, di 80 anni propone il suo ricordo di quello che accadde al tempo dell’Olocausto e della fondazione dello Stato di Israele ed il suo smarrimento di fronte a quello che accade in questi giorni a Gaza. Fratelli le sono i palestinesi, fa capire, come fratelli sono per lei gli israeliani in quanto gente, popoli, di cui poche persone (che lei chiama «i capi») manovrano e decidono il destino. Manipolando le loro coscienze perché il potere dei governanti, dice Sofia, è più forte in tempo di guerra e perché l’odio riversato su un nemico esterno permette di distogliere l’attenzione dai problemi reali di un Paese e di un popolo e dalla incapacità dei «capi» di confrontarsi con questi problemi. Da una parte e dall’altra, dice Sofia. Un discorso proponendo solo apparentemente semplice sulle ragioni di quello che ancora oggi accade nel mondo perché l’odio è sempre stato un catalizzatore potente del consenso politico e perché c’è un rapporto diretto e chiaro fra il potere dei capi e la loro capacità di usarlo. Hitler docet, in questo senso, come tanti altri dittatori ma anche in democrazia perché le ragioni dell’odio vengono utilizzate in modo regolare e spesso vincente anche dove si vota. Con due tipi di elettori soprattutto. Quelli che si interessano solo marginalmente di politica e hanno bisogno di uno sfogo per la loro rabbia impotente e quelli che grandi problemi incontrano nel controllo di una aggressività malata. Come tristemente continuiamo a sperimentare anche da noi qui in Italia.

il Fatto 13.7.14
“Vorrei strappare il mio passaporto israeliano”
La giornalista: “Non siamo vittime ma aguzzini
È vero il nemico vorrebbe annientarci, ma noi abbiamo i carri armati e loro neppure gli ospedali”
di Mira Bar Hillel


Non posso più sopportare politici come Ayelet Shaked che giustificano la morte di innocenti donne e bambini palestinesi. Di chi sto parlando? È giovane. È carina. È laureata in Ingegneria informatica. Dietro i suoi occhi angelici si nasconde l’Angelo della morte ed è proprio a causa sua che sono tentata di dare alle fiamme il mio passaporto israeliano. Ayelet Shaket rappresenta alla Knesset il partito di estrema destra Casa Ebraica. Ciò vuol dire che, per quanto possa apparirvi difficile da credere, questa ragazza dall’aspetto innocente e dai tratti dolcissimi si trova molto più a destra di Netanyahu. 
LUNEDÌ SCORSO ha scritto sulla sua pagina Facebook: “Dietro ogni terrorista ci sono dozzine di uomini e donne senza i quali non potrebbe compiere attentati terroristici. Sono tutti nostri nemici. Mi riferisco anche alle madri dei martiri che li accompagnano all’ultima dimora con fiori e baci. Debbono fare la fine dei loro figli per una semplice questione di giustizia. Dobbiamo impedire a queste serpi di generare altri serpenti”. Una settimana prima, alla vigilia del sequestro del diciassettenne Mohammed Abu Khudair, poi dato alle fiamme, aveva scritto: “Questa non è una guerra contro il terrorismo né contro gli estremisti né tanto meno contro l’Autorità palestinese. È una guerra tra due popoli. Perché? Chiedetelo a loro che l’hanno iniziata”. Come vedete, ancor prima che il ragazzo morisse, lo aveva già additato come un nemico e dopo il suo brutale assassinio non ha mostrato il benché minimo rimorso nè un briciolo di compassione. Mi ha fatto venire in mente la sorella di mia mamma, Klara, e i suoi tre figlioletti che vivevano a Cracovia nel 1939 quando i nazisti invasero la Polonia. 
ANCHE I NAZISTI decisero che tutti gli ebrei erano nemici e che andavano eliminati comprese le donne e i piccoli serpenti che portavano in grembo. Perché? Chiedetelo a loro che hanno cominciato , avrebbero risposto i nazisti se glielo avessero chiesto. Non ho mai conosciuto Klara e i suoi figli morti nel 1942. Ho conosciuto mio zio Romek sopravvissuto nella fabbrica di Oscar Schindler e sua moglie Yetti scampata alla morte perché parlava tedesco talmente bene da riuscire a fingersi tedesca. Anche il fratello di mio padre e la sua famiglia morirono prima della mia nascita nello stesso campo di sterminio nel quale morì Anna Frank. So cosa vuol dire essere vittime inermi, e so che oggi gli israeliani non sono più le vittime, ma gli aguzzini. Sì è vero, gli uomini di Hamas sono assassini che ci odiano e vorrebbero cancellarci dalla faccia della terra. Resta il fatto che è Israele ad avere i carri armati mentre gli abitanti di Gaza non hanno nemmeno ospedali. Shaked ha avuto quello che voleva: a Gaza sono morte quasi 100 persone, un quarto delle quali bambini. In Israele – malgrado gli sforzi di Hamas – non è morto nessuno. E mentre su Gaza piovono le bombe gli adolescenti israeliani postano su Twitter selfie e commenti politici. Ne ricordo due che per fortuna sono stati cancellati: “A morte tutti voi fottuti arabi”, diceva il primo. “Che voi arabi possiate rimanere paralizzati e crepare tra grandi sofferenze”, diceva il secondo. A leggere questa roba non mi resta che prendere il mio passaporto israeliano, accendere un cerino e dargli fuoco. “Not in my name!!!”. Non a nome mio. (The Independent)

Repubblica 11.7.14
Noa: “La musica è luce fondamentale”Israele diventa nazionalista e razzista ogni giorno di più e io non voglio diventare così
di Ernesto Assante

qui

Repubblica 12.7.14
Waters a Neil Young “Non andare a cantare dagli israeliani”


LONDRA. «Gira voce che tu stia considerando di esibirti a Tel Aviv. I picchetti sono stati superati quest’anno da uno o due pesi leggeri della nostra comunità, ma non da uno della tua statura. Woody Guthrie si rivolterebbe nella tomba». Comincia così la lettera spedita a Neil Young da Roger Waters, fondatore dei Pink Floyd. Il musicista britannico ha reso pubblico il messaggio al cantautore americano («uno dei miei più grandi eroi, con John Lennon, Guthrie, Harry Belafonte, Sam Cooke, Billie Holiday») facendo appello all’attenzione del collega americano per i diritti umani in tutto il mondo, «alla luce dei recenti avvenimenti in Israele e a Gaza», e insistendo perché non volti «la schiena davanti al popolo palestinese ».
In passato, durante una visita in Cisgiordania, Waters aveva scritto sul Muro di Israele un verso del suo The Wall «Non abbiamo bisogno di controllo del pensiero». L’artista, che siede nel tribunale Russel per la Palestina, aveva fatto appello al boicottaggio di Israele, chiedendo che il metodo che aveva funzionato per far cadere il regime sudafricano doveva «essere usato per un altro paese che impone l’apartheid».

Repubblica 13.7.14
Il 17enne ucciso in un raid
“Preferisco morire” il testamento sul web del giovane Anas


GAZA. «Dio, ti prego, abbi pietà di me, non ho dormito da ieri. Che la nostra casa sia bombardata, e così la faremo finita una volta per tutte»: così scriveva su Facebook il 17enne di Gaza Anas Qandeel, firmandosi “Sleepy”, il sonnolento. Secondo la sua comunità web, quelle sono state le sue ultime parole. Anas, viene riferito, è stato colpito mentre si trovava in un edificio nella centrale via Nasser. «Ora finalmente Sleepy potrà riposare», ha chiosato qualcuno. Del giovane si sa poco: il padre in anni passati era stato ucciso da Israele e Anas simpatizzava per le Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas. In una delle sue ultime foto si vede un ragazzo allegro, seduto su una transenna di legno. Alle sue spalle si intravede un tendone colorato, forse un circo.
A chi si chiede come mai il giovane abbia potuto implorare di essere annientato, i residenti di Gaza fanno presente che i bombardamenti continui, le esplosioni, le distruzioni, le morti orrende di congiunti e vicini mettono a prova durissima i nervi della popolazione. Le notti vengono trascorse in bianco. E quando anche gli aerei da combattimento israeliani si concedono una tregua, in cielo restano i droni a scrutare la vita degli abitanti della Striscia: strada per strada, casa per casa, finestra per finestra. Il ronzio, dicono a Gaza, «cucina il cervello della gente come un forno a microonde» e nemmeno la musica riesce a coprirlo. Quanto si può resistere in queste condizioni?
Forse questi, o pensieri simili, passavano nella testa di Anas quando ha tracciato le sue ultime parole su Facebook: un testamento virtuale, che però è subito andato a segno nei cuori della gente.

La Stampa 13.7.14
Non sono terroristi ma solo nemici
di Abraham B. Yehoshua

Quando Israele fu fondato nel 1948 i giordani bombardarono Gerusalemme, la posero sotto assedio e uccisero centinaia di suoi cittadini. I combattenti della Legione Araba conquistarono i centri ebraici di Gush Etzion, in Giudea, trucidarono molti israeliani e assassinarono a sangue freddo numerosi prigionieri. Ma durante tutti quei mesi di guerra dura e brutale nessuno definì i giordani «terroristi». Erano «nemici». E malgrado lo spargimento di sangue ci furono contatti tra ufficiali israeliani e giordani per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e la firma di una tregua precaria, ottenuta nel 1949 grazie alla mediazione delle Nazioni Unite. 
Prima della guerra dei sei giorni, nel 1967, i siriani bombardarono i centri abitati israeliani dell’alta Galilea, uccisero e ferirono non poche persone, eppure nessuno definì la Siria «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E Israele, ovviamente, non solo non lo riforniva di carburante ed energia elettrica ma, di quando in quando, inviava suoi emissari a incontrare i loro omologhi siriani per chiarimenti e colloqui circa un’eventuale tregua. 
Fino alla guerra dei sei giorni gruppi di terroristi provenienti dall’Egitto seminarono morte negli insediamenti israeliani lungo il confine, ma anche in questo caso l’Egitto non venne definito «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E nonostante Egitto e Siria dichiarassero apertamente la loro intenzione di distruggere Israele il Primo Ministro israeliano, a ogni apertura dell’anno parlamentare, lanciava un appello ai loro leader perché avviassero colloqui per ripristinare la calma e raggiungere un accordo di pace. 
Che cosa è successo dunque dopo il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, l’evacuazione degli insediamenti ebraici e il trasferimento del controllo della Striscia a Hamas che ci impedisce di definire il suo governo «nemico» e non «terrorista»?
Forse questo aggettivo è più incisivo di quello di «nemico»? Oppure suggerisce che, nel profondo del cuore, ancora vediamo la Striscia di Gaza come parte della Terra di Israele, un luogo dove abbiamo tentato senza successo di insediarci e al quale forse speriamo di tornare, e pertanto non consideriamo i suoi residenti come cittadini di uno Stato nemico ma come arabi israeliani fra i quali operano cellule terroristiche? O magari avvertiamo un senso di responsabilità verso la popolazione della Striscia di Gaza come non ci accadeva con gli abitanti di Siria o Egitto e per questo continuiamo a rifornirli di carburante, di elettricità e di cibo ma, al tempo stesso - e questa è la cosa più importante - ci rifiutiamo di proporre al governo di Hamas di negoziare con noi, come abbiamo fatto in passato con siriani, giordani ed egiziani?
Tutte queste perplessità e complicazioni derivano forse dal timore che eventuali colloqui con Hamas per un cessate il fuoco e una stabile tregua possano «indebolire» Abu Mazen. Ma probabilmente i morti a Gaza indeboliscono ancora di più colui che si considera il leader del popolo palestinese. E anche supponendo che sia questa la nostra preoccupazione rimane la domanda perché non abbiamo approfittato del governo di unità nazionale palestinese recentemente istituito e di cui Hamas è membro per avviare un dialogo con questa organizzazione. 
La profonda frustrazione di Hamas deriva, a mio parere, da una sostanziale mancanza di riconoscimento della sua legittimità agli occhi di Israele e di gran parte del mondo. Una frustrazione che lo porta a commettere devastanti atti di disperazione. Per questo è importante considerare Hamas almeno come un nemico legittimo, con il quale poter arrivare a un accordo o contro il quale combattere in uno scontro armato frontale, con tutto ciò che questo comporta. È così che abbiamo agito in passato con i Paesi arabi. Fintanto che definiremo Hamas una banda di terroristi che ha preso il sopravvento su una popolazione innocente non potremo fermare i bombardamenti nel Sud di Israele con un’adeguata reazione militare e, ancor più importante, non potremo negoziare apertamente con il suo governo per raggiungere un accordo graduale che comprenda una supervisione internazionale della rimozione dei missili da parte di Hamas e del blocco aereo, marittimo e terrestre della Striscia da parte di Israele, l’apertura dei valichi di frontiera per permettere il passaggio di lavoratori e quella di un eventuale, futuro corridoio di transito sicuro fra la Striscia e la Cisgiordania. 
Ma se, diranno i più scettici, Hamas non vorrà negoziare apertamente con noi? In questo caso gli proporremo di farlo nell’ambito del governo di unità palestinese. E semmai dovesse rifiutare anche questa proposta allora lo combatteremo in maniera legittima, secondo le regole della guerra. 
Non dimentichiamo però che i palestinesi di Gaza saranno nostri vicini per l’eternità, come noi lo saremo per loro. Non guariremo questo ascesso sanguinante con discorsi sul terrorismo ma con il dialogo o con la guerra, scontrandoci con un nemico legittimo verso il quale non abbiamo rivendicazioni territoriali o nessun’altra pretesa che non sia quella di un cessate il fuoco.

Corriere 13.7.14
Colpito il centro disabili palestinese
Salgono le vittime tra civili e bimbi
E anche in Israele ci si interroga sulla legittimità dei raid
di Davide Frattini

GERUSALEMME — Seguite le mosche. In quella stanza — dicono i testimoni — dormivano in sei, le sedie a rotelle appoggiate vicino ai letti. A piano terra un centro per disabili, sopra (forse) la casa di un comandante della jihad islamica. Il missile israeliano centra le stanze da basso, in quattro restano feriti: Ola Washahi, 30 anni, viene uccisa dall’esplosione, il corpo di Suha, 47, non si trova. I soccorritori hanno seguito le mosche. 
I colpi di avvertimento lasciati cadere da due droni prima dell’alba non li hanno svegliati e anche avessero sentito quel doppio rintocco sul tetto sarebbe stato difficile per loro riuscire fuggire. Jamala Alaywa ha creato l’istituto nel 1994 a Beit Lahiya, nord della Striscia di Gaza, verso il valico con Israele. Ospita tredici pazienti, al momento dell’attacco la maggior parte era in visita dai parenti per il fine settimana, a celebrare in qualche modo il Ramadan, il mese di digiuno sacro per gli islamici. Li chiama i miei «bambini», sono ormai adulti, Ola e Suha vivevano lì da dieci anni: «Hanno paura, eppure non si rendono conto di quale sia la situazione, non capiscono che c’è una guerra in corso attorno a loro», racconta all’agenzia France Presse . 
I raid e i bombardamenti vanno avanti senza fermarsi da cinque giorni. Le Nazioni Unite hanno conteggiato (fino alle 15 di venerdì): 700 sortite dell’aviazione, 1.100 missili e 100 proiettili sparati dai carrarmati, 330 cannoneggiamenti dalle navi al largo di Gaza, un’esplosione ogni 3 minuti e mezzo. I morti sono almeno 160 (55 uccisi ieri), l’80 per cento civili, tra loro donne e bambini. La contabilità della morte è tenuta dagli ospedali nella Striscia, dove ormai mancano le medicine e il sangue per le trasfusioni. Gli egiziani hanno aperto solo per qualche ora il valico di Rafah a Sud, hanno lasciato passare i feriti più gravi, in centinaia sono rimasti ammassati dietro le barriere della frontiera: da qui non si può scappare, Gaza non produce profughi. 
I generali di Tsahal hanno esportato una nuova tattica in questa operazione. Era usata in Cisgiordania durante la seconda intifada, abolita nove anni fa perché considerata inefficace, reintrodotta a Hebron nelle scorse settimane dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani. Le case di chi è considerato un comandante o un miliziano dell’esercito irregolare di Hamas o della jihad islamica vengono ridotte in macerie, in Cisgiordania è il lavoro degli artificieri, a Gaza delle bombe dal cielo: tra 75 e 83 edifici — stima sempre l’Onu — sono stati demoliti con questa pratica. B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, la considera illegittima: «Anche se i famigliari vengono avvertiti, l’appartamento è vuoto e non ci sono vittime, resta una punizione inaccettabile».
L’esercito israeliano ha diffuso i video girati dalle telecamere installate sui droni. Mostrano i missili schizzare verso l’alto, verso le città israeliane, da postazioni nascoste tra i palazzi. In totale le case danneggiate dai bombardamenti sono 537. «Hamas e le altre organizzazioni terroristiche — dice Peter Lerner, portavoce delle forze armate — hanno incastrato in profondità tra la popolazione i loro arsenali e le rampe di lancio. Usano anche le moschee per occultare le armi e i tunnel scavati a scopi militari. Tengono in ostaggio la popolazione e la sfrutta come scudi umani». 
Anas ha lasciato le ultime parole su Facebook , un messaggio in bottiglia nel mare digitale: «Dio, ti prego, abbi pietà di me, non dormo da ieri. Che la nostra casa sia colpita, così la faremo finita una volta per tutte». A 17 anni — scrive l’agenzia Ansa — non riusciva a sopportare le esplosioni, il ronzio costante dei droni, come tagliaerba che tranciano il cielo. Anas Qandil è morto in un bombardamento mentre si trovava in un palazzo di via Nasser. Gli amici a Gaza ricordano che il padre era stato ucciso dagli israeliani, che Anas si esaltava per le azioni delle Brigate Ezzedin Al Qassam, l’esercito irregolare del movimento fondamentalista. La sua foto su Facebook contrasta con la disperazione: un ragazzo che sorride, seduto sulla staccionata. 
Hassan racconta di quando ha trovato il diario di suo figlio, un ragazzino di 14 anni, nei giorni dell’operazione Piombo Fuso, tra la fine del 2008 e il gennaio del 2009: scriveva di volersi uccidere, tirava fuori al mattino gli incubi della notte. È stato in cura, sembra essersi ripreso. Dalla sua prima crisi, Israele e Hamas si sono affrontate ancora nel 2009 per otto giorni e adesso in questa settimana che non finisce. 

La Stampa 13.7.14
“Stop agli attacchi. Israele deve riaprire subito la trattativa”
Jeffrey Sachs punta il dito contro i troppi errori“Nuove strategie per Iraq, Siria e Gaza”
di Paolo Mastrolilli

«Il presidente Napolitano ha ragione, quando dice che bisogna risolvere la crisi ucraina senza compromettere le relazioni di lungo termine con Mosca, e qualche raggio di speranza comincia a vedersi. Per raggiungere questo obiettivo, però, Europa e Usa devono restare fermi nel ribadire al Cremlino che il comportamento adottato finora verso Kiev è inaccettabile. Napolitano ha ragione anche sui troppi errori commessi in Medio Oriente, dove bisogna fermare l’afflusso di armi e convincere Israele ad una vera trattativa con l’Autorità palestinese. Fra le priorità del semestre europeo italiano, però, aggiungerei anche la lotta alla disoccupazione e le iniziative per la ripresa economica, altrimenti si rischia l’instabilità interna».
L’economista Jeffrey Sachs è al crocevia dei temi toccati dal presidente Napolitano nella sua intervista a «La Stampa». È consigliere del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, è stato consigliere dei governi di Russia e Polonia, e attraverso l’Earth Institute che dirige alla Columbia University è in prima linea sui temi dello sviluppo sostenibile e dell’ambiente.
Partiamo dall’Ucraina: perché vede qualche speranza?
«Usa e Ue sono stati molto fermi, finora, nel chiarire a Putin che le sue azioni erano violazioni inaccettabili. Lo hanno fatto attraverso le sanzioni, che hanno avuto un impatto perché l’economia di Mosca dipende dal rapporto con l’Europa. Io concordo con Napolitano sul fatto che il dialogo costruito con la Russia dopo il crollo del Muro di Berlino non vada compromesso, anche perché è nell’interesse dell’Occidente una relazione responsabile col Cremlino. Qualche segnale positivo è venuto ultimamente da Putin, ma è frutto proprio di questa fermezza, che bisogna conservare per ottenere veri risultati concreti duraturi».
Perché mette il Medio Oriente tra i punti principali dell’agenda dell’Unione Europea nei prossimi sei mesi?
«La drammaticità della situazione è davanti agli occhi di tutti. Siria, Iraq, e ora Gaza: siamo alle porte dell’Europa».
Napolitano dice che sono stati commessi molti errori.
«Troppi errori: è uno shock elencarli tutti. Abbiamo cominciato con l’invasione dell’Iraq. Poi, insieme ad alleati regionali come Arabia e Turchia, ci siamo impegnati per rovesciare Assad. Non ho alcuna simpatia per lui, ma l’effetto, oltre ai 160.000 morti provocati finora, è stato aprire lo spazio dove si sono infilati i terroristi di Isis. Ora si aggiunge la crisi di Gaza, dove hanno gravi responsabilità entrambe le parti, ma che non esisterebbe se Israele avesse fatto una sforzo reale di negoziare con Abbas».
Cosa bisognerebbe fare per calmare la situazione?
«Fermare il continuo afflusso di armi nella regione, e convincere Israele ad accettare una trattativa seria con i leader palestinesi più responsabili. Proprio i paesi amici dovrebbero farlo».
Lei ha inserito anche la disoccupazione tra le emergenze da mettere in agenda: cosa suggerisce di fare?
«L’agenda europea è molto affollata, perché bisogna anche concludere l’accordo sul clima per l’anno prossimo, e sugli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Penso però che si possano unire questi temi. Alcuni paesi in crisi, come la Grecia, dovevano certamente risanare i bilanci, ma ora bisogna puntare sulla crescita. La prima iniziativa concreta da prendere è creare un regime fiscale speciale che favorisca le piccole e medie imprese, soprattutto per l’esportazione. Il secondo sono una serie di investimenti nelle infrastrutture, per ammodernare l’Europa e lanciare gli interventi di lungo termine capaci di stimolare la ripresa. Raggiungereste nello stesso tempo lo scopo di proteggere l’ambiente, creare strutture utili a lungo termine, e favorire la ripresa. Sono scelte coraggiose, ma di coraggio ha bisogno l’Europa».

La Stampa 12.7.14
Le due mosse incomprensibili
di Roberto Toscano

Ancora una volta, come avvenuto periodicamente in passato, Gaza è bersaglio di bombardamenti israeliani.
Sarà anche vero che, come sostengono gli israeliani, gli obiettivi sono i dirigenti politico-militari di Hamas, i depositi di armi e i luoghi da cui vengono lanciati i missili verso Israele, ma la realtà – che si riflette nello stillicidio di vittime civili – è che in una zona fra le più densamente popolate del mondo è del tutto illusorio immaginare che si possano effettuare attacchi, come si dice con un’espressione sinistra, chirurgici. 
E le cose potrebbero ancora peggiorare se i reparti militari e i mezzi corazzati che Israele ha ammassato alla frontiera di Gaza dovessero dare il via ad un attacco via terra.
Sembra necessario chiedersi il perché di questa crisi, che si viene ad aggiungere ad un quadro già pesantemente destabilizzato a livello regionale.
Anche se quegli atroci episodi hanno scavato ulteriormente il fossato di ostilità fra israeliani e palestinesi, l’origine della crisi non va ricercata nell’orrore dell’assassinio dei tre adolescenti israeliani seguito da quello dell’uccisione del ragazzo palestinese. Paradossalmente la barbarie di questi crimini incrociati ha fatto riflettere un po’ tutti, mentre il comportamento delle famiglie delle vittime ha spostato il discorso dalla dimensione politica a quella personale ed umana.
Ma allora? Cos’è cambiato rispetto ai mesi scorsi? E soprattutto: cos’hanno in mente non gli israeliani e i palestinesi – collettività umane e politiche tutt’altro che omogenee – ma gli attori politici: da una parte Netanyahu e dall’altra la dirigenza di Hamas?
Che senso ha per Hamas lanciare su Israele non solo razzi rudimentali, come spesso accadeva in passato, ma missili di media gittata capaci di colpire quasi l’intero territorio di Israele? L’impiego di mezzi militari ha un senso se può puntare alla sconfitta del nemico, ma è da escludere che i dirigenti di Hamas credano di poter sconfiggere le potenti forze armate israeliane. Vi è anche un altro uso della violenza militare, quello tendente non a sconfiggere l’avversario, ma a piegarne la volontà. Una logica di tipo terrorista, che – va detto - può essere messa in atto anche dagli Stati (pensiamo ai bombardamenti sui civili da Guernica a Londra, da Dresda a Hiroshima). Ma anche qui resta un interrogativo di fondo: davvero qualcuno può pensare, dopo tutti questi anni di guerre e di attacchi, che gli israeliani si lascino intimidire da quei missili tirati a casaccio?
E che senso può avere la rottura da parte di Hamas di una linea di relativa moderazione – una rottura che mette una prematura pietra tombale sul suo recente patto con Abu Mazen?
Difficile quindi capire il perché del comportamento di Hamas, a meno di non voler prendere in considerazione un’ipotesi apparentemente azzardata, ma che non ci sentiremmo di escludere. Può darsi che al suo interno cominci a farsi sentire l’effetto di quanto sta accadendo tra Siria e Iraq, con la proclamazione dello Stato Islamico e del Califfato. Certamente c’è una componente retorica, addirittura teatrale in questa riesumazione delle antiche glorie dell’Islam. Ma i simboli a volte hanno la capacità di produrre effetti reali, scatenando potenti ondate di mobilitazione politica. E non dobbiamo nemmeno dimenticare che Hamas è, a differenza di Hezbollah, un movimento sunnita, e come tale potrebbe, almeno in certe sue componenti, risultare sensibile agli appelli di Abu Bakr al Baghdadi, l’improbabile Califfo, e soprattutto alle prospettive che si aprono con l’offensiva dei jihadisti in Iraq, un’offensiva giunta ormai molto vicina, al confine della Giordania. 
Se risulta problematico interpretare il comportamento di Hamas, non molto più facile è comprendere quello del governo israeliano, e in particolare del primo ministro Netanyahu. Il punto non è la risposta al lancio di missili, una legittima difesa cui possiamo soltanto obiettare per il modo in cui viene effettuata e le pesanti perdite civili: viene in mente il concetto di «eccesso di legittima difesa» che esiste nel diritto penale.
Rimane la questione del senso, del disegno politico in cui dovrebbe inserirsi qualsiasi impiego della forza militare. Nessuno pensa che sia fattibile una permanente occupazione israeliana di Gaza, che – isolata, priva di orizzonte economico per la sua popolazione – resterà invece un focolaio di rabbia ed estremismo politico. Un estremismo che – ancora poco tempo fa minoritario rispetto alla linea dell’Autorità Palestinese – è cresciuto e si è radicato non per ragioni ideologiche, e ancor meno religiose, ma per la totale mancanza di prospettive di una soluzione negoziale. Basti citare l’aspetto più macroscopico, e in assoluto meno giustificabile, della politica del governo israeliano: i settlements, quegli insediamenti di coloni che rendono sempre più irrealizzabile l’ipotesi di uno Stato palestinese. 
Possiamo prevedere che i lanci di missili prima o poi finiranno, e che si tornerà a quello che si fa molta fatica a definire come normalità. Paradossalmente l’ipotesi che anche questa crisi non farà che confermare il tragico status quo risulta la più ottimista. Le cose potrebbero andare anche peggio. Qualcuno ha scritto in questi giorni che il fatto che i missili di più lunga gittata siano di fabbricazione, e di origine, iraniana potrebbe rafforzare i fautori di un attacco israeliano all’Iran. Prima di dire che si tratta di fantapolitica dovremmo tenere presente che ormai in tutto il Medio Oriente (e anche oltre, dalla Nigeria all’Afghanistan) il sistema internazionale sembra in fase di avanzata e traumatica decomposizione, senza che emerga la volontà e la capacità dei principali soggetti internazionali – gli Stati Uniti, ma non solo loro – di porre rimedio a questo sempre più pericoloso e sempre meno governabile processo. 
Verrebbe da ripetere, a proposito della comunità internazionale, la risposta che diede Gandhi quando gli chiesero cosa pensasse della civiltà occidentale: «Sarebbe un’ottima idea».

Corriere 12.7.14
L’ultima crisi palestinese, i falchi alleati contro la pace
risponde Sergio Romano

L’annosa, drammatica situazione israelo-palestinese sembra non poter trovare soluzioni nonostante gli interventi del Papa, del presidente Usa e di altre importanti autorità. 
Mi domando: come può un Paese apparentemente così povero e privo di mezzi come è quello palestinese investire tanti soldi in armamenti? 
E chi fornisce tali armamenti? Attraverso 
quali canali? Forse, se si riuscisse a tagliare gli approvvigionamenti economici e di armamenti 
di Hamas la situazione potrebbe facilmente risolversi. 
Erminio Giavini 

Caro Giavini, 
Non credo che una tale misura basterebbe a risolvere la crisi palestinese. Quando gli algerini insorsero contro la Francia nel 1954, il governo di Parigi e i suoi servizi d’intelligence cercarono di isolare l’Algeria dal resto del mondo, ma non riuscirono a impedire che il Fronte di liberazione nazionale ricevesse armi e munizioni da Paesi amici o da chiunque avesse interesse a soffiare sul fuoco. Finché la maggioranza dei palestinesi si riterrà vittima di una ingiustizia, le formazioni combattenti della resistenza continueranno a disporre di armi. La crisi palestinese non si risolve con prove di forza, che si sono già rivelate in passato inconcludenti e dannose. La soluzione non può che essere un compromesso tra le posizioni estreme di ciascuna delle due parti. 
Sappiamo che questo è particolarmente difficile quando entrambi i contendenti hanno tra le loro file gruppi radicali che non vogliono fare concessioni e sono pronti a sabotare qualsiasi tentativo di pace. Forse l’aspetto più inquietante di quest’ultima crisi è la soddisfazione con cui è percepita dagli estremisti dei due campi. Sul versante palestinese piace a tutti coloro che vogliono affondare la ritrovata unità fra le due famiglie della politica palestinese: Al Fatah e Hamas. Sul versante israeliano piace a tutti coloro che hanno lo stesso obbiettivo e vogliono soprattutto sabotare la prospettiva di due Stati destinati a convivere entro i confini della Palestina mandataria (quella amministrata dalla Gran Bretagna sino al 1948). Lo hanno fatto per molto tempo ostacolando la mediazione del segretario di Stato americano sino al suo fallimento e soprattutto servendosi del fatto compiuto degli insediamenti coloniali con cui il futuro Stato palestinese è stato progressivamente rimpicciolito. Lo fanno ora incitando il governo ad agire militarmente contro la striscia di Gaza. Non so se Benjamin Netanyahu condivida questa linea o debba accettarla per non pregiudicare l’unità del suo governo, dove i falchi sono numerosi. Ma la distinzione, tutto sommato, non ha grande importanza. Finché il governo non rinuncerà alla politica degli insediamenti e a rappresaglie che puniscono, in ultima analisi, la popolazione di Gaza, non vi sarà pace in Palestina. 
Per alcuni osservatori particolarmente attenti Israele deve ripensare se stesso e il proprio futuro. In una intervista apparsa ora sul blog dell’Ispi (http://www.ispionline.it/it/intervista/israele-crisi-didentita), Vittorio Dan Segre descrive la situazione attuale come una terza intifada che «non è combattuta sul terreno, ma sullo spazio politico dell’immagine. E qui la debolezza d’Israele è totale. Il Paese deve ripensare la sua capacità di presentare i propri diritti e doveri, ma questa impellenza divide i partiti, incapaci di dire che cosa è realmente Israele. Certamente bisogna “tenere duro” sino al 2016 quando vi saranno nuove elezioni e si spera possa delinearsi un quadro politico che favorisca una maggiore chiarezza su questo fondamentale aspetto».

La Stampa 13.7.14
La sfida di Civati “Una sinistra aperta, Matteo guida da solo”
Anche Landini e Barca al convegno del “dissidente”
di Jacopo Iacoboni
qui

il Fatto 13.7.14
“Il Patto del Nazareno tiene” qualunque cosa sia
di Furio Colombo


Nel mezzo della discussione, quando qualcuno che dovrebbe ubbidire tenta di ribellarsi e alza il tono, e non si capisce se c'è rischio di secessione o no, entra in sala Guerini, vice segretario del Pd, dunque di Renzi e dice: “Il patto del Nazareno tiene”. Noi (la maggior parte di noi, gli astanti) non sappiamo chi sia Guerini e perché, sconosciuto com'era, sia così in alto (il vice di Renzi, il vice di tutto). Ma non sappiamo neanche che cosa sia “il Patto del Nazareno” e perché tenga, e perché, il fatto che “il patto tiene”, rassicuri che tutto andrà come deve andare. 
Come deve andare? Quando lo abbiamo letto, discusso, votato? Se azzardi una domanda del genere, ti portano in scena l'intero tabulato delle elezioni europee, ti ricordano che la ragazza Bonafè ha avuto più voti di chiunque al mondo, inclusi John, Bob e Ted Kennedy. Aggiungono, con l’esasperata pazienza dei veri democratici, che l’insieme delle tante eroiche Bonafè (tra cui una certa Moretti, appena un po’ meno votata, che compare di solito in silenzio accanto a Renzi se la Bonafè in quel momento non è disponibile) fa, in totale, il 40.8 per cento dei voti. Dunque eccoti servito. 
C’è il patto del Nazareno. C’è il voto plebiscitario. Ci sono milioni di italiani con il loro leader. Inutile tentare di dire che quel voto era pro o contro l’Europa, non per il patto del Nazareno. Non ci provare. Sollevi una nuvola d’ira. Quel voto era per Renzi e tutta la scolaresca, punto e basta. Non vorrai offendere gli elettori, come quelli che mettevano in dubbio la legittimità di Berlusconi? 
A VOLTE Guerini precisa: “Noi siamo disponibili a confrontarci su tutto. Nell’ambito del Patto del Nazareno” (citazione testuale, Tg3, ore 19, 6 luglio). Guerini è attendibile. Sono buoni e cari, questi ragazzi di Renzi, ma c’è una linea che non si può attraversare. Puoi avere estro, istinto politico, rapporto stretto con gli elettori, puoi essere persino più inventivo di Calderoli. Ma i patti sono chiari. “Qualunque intervento o dibattito o sfida o confronto finisce qui”. E ti indicano il punto in cui comincia lo spazio già definitivamente assegnato al “Patto del Nazareno”. Come nelle aree militari, ti dicono che “il limite è invalicabile”. Vorresti sapere chi ha stabilito quel limite, raro in politica, perché è senza ritorno? Vuoi sapere chi vigila e chi lo presidia? 
La seconda domanda è facile. Ammesso che in questo patto ci siano due contraenti, su uno vigila Guerini e, a turno, tutti i ragazzi della ormai celebre Scuola Leopolda di Matteo Renzi (al confronto, il collegio di magia del maghetto Harry Potter è poca cosa). Sull’altro si alternano volontari, una volta Romani, della premiata ditta Mediaset, una volta Brunetta, che farà anche spettacolo ma ci puoi contare, perché tiene i suoi in riga. E alla fine persino Calderoli (pensate, Lega Nord, area Borghezio), ma, nella nuova versione, uno che compra bene i saldi, e di professione fa il mediatore parlamentare. È capace di trovare una soluzione anche al Senato eletto – non eletto – però eletto, tanto che sarà protetto da immunità (e chi dice che quella salvifica immunità non possa estendersi, con un paio di colpi di mano detti emendamenti, al mestiere pericoloso di assessore regionale e comunale, certo, in osservanza del Patto del Nazareno?). 
Quanto alla domanda che ho fatto prima (che cos'è il Patto del Nazareno e perché è la porta magica da cui passa la nuova Italia?) credo che la risposta sia: quando dicono “riforme” pensate “Patto del Nazareno”. Quando dicono “Patto del Nazareno” pensate “riforme”. Mi direte che è un nodo scorsoio. Un Paese incaprettato. Certo che lo è. Il Paese è tenuto fermo in un altro tempo, che credevamo finito e che non può sboccare in un dopo. Perché nulla (nulla) può essere fatto o cambiato o innovato senza l’approvazione e collaborazione e partecipazione di Silvio Berlusconi e della sua gente (quelli che ancora si riconoscono in questa definizione). È vero che il pover’uomo ha perduto alcuni dei suoi sodali migliori nella guerra con la Giustizia (che presto, con la riforma che riguarda i giudici e il Csm – nell’ambito del Patto del Nazareno – pagherà per i colpi che è riuscita a infliggere alla malavita politica). 
È VERO che il blocco politico, da lui fondato e pagato, gli si sfarina intorno. Ma avrete constatato che è stato deciso di non notarlo. Ovvero di stringerlo in un abbraccio così stretto da non far capire che non sta più in piedi da solo. Lasciate perdere la questione esteticamente sgradevole del condannato. Non è la sua forza (ormai finita) che conta, ma la messa in scena che consente, anzi obbliga, a lavorare insieme. Il fatto è che la corsa velocissima di Matteo Renzi, e dei ragazzi della sua classe, gira vorticosamente intorno a Berlusconi, che è fermo e stremato, però consultato e riverito per poter dire: attenzione ragazzi, dobbiamo rispettare il patto. 
E quando Guerini entra in aula e ammonisce i possibili dissidenti confermando che “Il patto del Nazareno tiene” e dunque non si facciano illusioni, non fa che parodiare l’altra frase di scuola Leopolda: “Discutete finché volete, ma la decisione finale è già presa e non cambia perché è nel Patto del Nazareno”. Che vuol dire: arrendetevi, non c'è via d’uscita. Siete in un percorso bloccato. È vero. Ma non rinunciate a chiedere (perché dovrete spiegarlo alle generazioni in arrivo) come è successo, per mano di chi, che abbiamo perso il diritto di fare politica e di discutere non dico sulla Giustizia, che sarà un massacro (la decapitazione improvvisa della Cassazione è già avvenuta) ma anche solo sulla trasformazione del Senato in Camera di Commercio degli assessori e dei sindaci?

il Fatto 13.7.14
Boschi. Non solo estetica
Ma che male ti fo se voglio diventare la Presidenta
di Elisabetta Ambrosi

                                                                                                                                                                   
Nel mezzo della discussione, quando qualcuno che dovrebbe ubbidire tenta di ribellarsi e alza il tono, e non si capisce se c'è rischio di secessione o no, entra in sala Guerini, vice segretario del Pd, dunque di Renzi e dice: “Il patto del Nazareno tiene”. Noi (la maggior parte di noi, gli astanti) non sappiamo chi sia Guerini e perché, sconosciuto com'era, sia così in alto (il vice di Renzi, il vice di tutto). Ma non sappiamo neanche che cosa sia “il Patto del Nazareno” e perché tenga, e perché, il fatto che “il patto tiene”, rassicuri che tutto andrà come deve andare. 
Come deve andare? Quando lo abbiamo letto, discusso, votato? Se azzardi una domanda del genere, ti portano in scena l'intero tabulato delle elezioni europee, ti ricordano che la ragazza Bonafè ha avuto più voti di chiunque al mondo, inclusi John, Bob e Ted Kennedy. Aggiungono, con l’esasperata pazienza dei veri democratici, che l’insieme delle tante eroiche Bonafè (tra cui una certa Moretti, appena un po’ meno votata, che compare di solito in silenzio accanto a Renzi se la Bonafè in quel momento non è disponibile) fa, in totale, il 40.8 per cento dei voti. Dunque eccoti servito. 
C’è il patto del Nazareno. C’è il voto plebiscitario. Ci sono milioni di italiani con il loro leader. Inutile tentare di dire che quel voto era pro o contro l’Europa, non per il patto del Nazareno. Non ci provare. Sollevi una nuvola d’ira. Quel voto era per Renzi e tutta la scolaresca, punto e basta. Non vorrai offendere gli elettori, come quelli che mettevano in dubbio la legittimità di Berlusconi? 
A VOLTE Guerini precisa: “Noi siamo disponibili a confrontarci su tutto. Nell’ambito del Patto del Nazareno” (citazione testuale, Tg3, ore 19, 6 luglio). Guerini è attendibile. Sono buoni e cari, questi ragazzi di Renzi, ma c’è una linea che non si può attraversare. Puoi avere estro, istinto politico, rapporto stretto con gli elettori, puoi essere persino più inventivo di Calderoli. Ma i patti sono chiari. “Qualunque intervento o dibattito o sfida o confronto finisce qui”. E ti indicano il punto in cui comincia lo spazio già definitivamente assegnato al “Patto del Nazareno”. Come nelle aree militari, ti dicono che “il limite è invalicabile”. Vorresti sapere chi ha stabilito quel limite, raro in politica, perché è senza ritorno? Vuoi sapere chi vigila e chi lo presidia? 
La seconda domanda è facile. Ammesso che in questo patto ci siano due contraenti, su uno vigila Guerini e, a turno, tutti i ragazzi della ormai celebre Scuola Leopolda di Matteo Renzi (al confronto, il collegio di magia del maghetto Harry Potter è poca cosa). Sull’altro si alternano volontari, una volta Romani, della premiata ditta Mediaset, una volta Brunetta, che farà anche spettacolo ma ci puoi contare, perché tiene i suoi in riga. E alla fine persino Calderoli (pensate, Lega Nord, area Borghezio), ma, nella nuova versione, uno che compra bene i saldi, e di professione fa il mediatore parlamentare. È capace di trovare una soluzione anche al Senato eletto – non eletto – però eletto, tanto che sarà protetto da immunità (e chi dice che quella salvifica immunità non possa estendersi, con un paio di colpi di mano detti emendamenti, al mestiere pericoloso di assessore regionale e comunale, certo, in osservanza del Patto del Nazareno?). 
Quanto alla domanda che ho fatto prima (che cos'è il Patto del Nazareno e perché è la porta magica da cui passa la nuova Italia?) credo che la risposta sia: quando dicono “riforme” pensate “Patto del Nazareno”. Quando dicono “Patto del Nazareno” pensate “riforme”. Mi direte che è un nodo scorsoio. Un Paese incaprettato. Certo che lo è. Il Paese è tenuto fermo in un altro tempo, che credevamo finito e che non può sboccare in un dopo. Perché nulla (nulla) può essere fatto o cambiato o innovato senza l’approvazione e collaborazione e partecipazione di Silvio Berlusconi e della sua gente (quelli che ancora si riconoscono in questa definizione). È vero che il pover’uomo ha perduto alcuni dei suoi sodali migliori nella guerra con la Giustizia (che presto, con la riforma che riguarda i giudici e il Csm – nell’ambito del Patto del Nazareno – pagherà per i colpi che è riuscita a infliggere alla malavita politica). 
È VERO che il blocco politico, da lui fondato e pagato, gli si sfarina intorno. Ma avrete constatato che è stato deciso di non notarlo. Ovvero di stringerlo in un abbraccio così stretto da non far capire che non sta più in piedi da solo. Lasciate perdere la questione esteticamente sgradevole del condannato. Non è la sua forza (ormai finita) che conta, ma la messa in scena che consente, anzi obbliga, a lavorare insieme. Il fatto è che la corsa velocissima di Matteo Renzi, e dei ragazzi della sua classe, gira vorticosamente intorno a Berlusconi, che è fermo e stremato, però consultato e riverito per poter dire: attenzione ragazzi, dobbiamo rispettare il patto. 
E quando Guerini entra in aula e ammonisce i possibili dissidenti confermando che “Il patto del Nazareno tiene” e dunque non si facciano illusioni, non fa che parodiare l’altra frase di scuola Leopolda: “Discutete finché volete, ma la decisione finale è già presa e non cambia perché è nel Patto del Nazareno”. Che vuol dire: arrendetevi, non c'è via d’uscita. Siete in un percorso bloccato. È vero. Ma non rinunciate a chiedere (perché dovrete spiegarlo alle generazioni in arrivo) come è successo, per mano di chi, che abbiamo perso il diritto di fare politica e di discutere non dico sulla Giustizia, che sarà un massacro (la decapitazione improvvisa della Cassazione è già avvenuta) ma anche solo sulla trasformazione del Senato in Camera di Commercio degli assessori e dei sindaci?

il Fatto 12.7.14
Promemoria per i nuovi costituenti /1
Renzi, la Carta e l’inferno pieno di buoni propositi
È comprensibile voler abolire il bicameralismo, ma attenti:
Così il Senato sarà non elettivo e la Camera sottomessa al Governo
di Gustavo Zagrebelsky


Pubblichiamo la proposta scritta che il presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, ha inviato il 4 maggio al ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, che lo aveva invitato a un convegno di costituzionalisti, al quale non poté partecipare per precedenti impegni. Il ministro gli aveva promesso di distribuirlo agli altri relatori e ai parlamentari che si occupano della riforma costituzionale, ma poi – a quanto pare – non lo fece. 
1. Bicameralismo 
Il cosiddetto bicameralismo perfetto è certamente una duplicazione difficilmente giustificabile in quanto le medesime funzioni siano attribuite a due Camere che presentano la stessa sostanza politica, come è oggi, in presenza di analoghe leggi elettorali, le cui marginali e irrazionali differenze circa l’attribuzione dei “premi di maggioranza” sono tali da aver creato una grave disarmonia nella formazione delle maggioranze nell’una e nell’altra, ma non tali da averne fatto due organi di natura diversa. L’incongruenza, di per sé, non deriva dalla partecipazione paritaria a procedimenti comuni. Se le due Camere fossero espressione di “logiche e sostanze politiche” diverse, ma ugualmente apprezzabili e meritevoli di concorrere, ciascuna con il suo originale contributo, alla formazione delle decisioni politiche, non vi sarebbe ragione di scandalo. Anzi: la vita politica ne risulterebbe arricchita. Diverso, invece, il caso in cui le logiche e le sostanze politiche siano le stesse (e per di più organizzate in modo incoerente). In tal caso – che è quello che si è determinato nel nostro Paese – il “bicameralismo perfetto” (per identità di funzioni e di natura delle due Camere) è certamente un’incongruenza costituzionale. Ben vengano, dunque, le discussioni e le proposte per il suo superamento. In questo caso, ma solo in questo, vale l’osservazione (che mi pare risalga all’abate Sieyès) che, se le due Camere sono d’accordo, una delle due è inutile; e che, se non sono d’accordo, una delle due è un impiccio, un anacronismo. 
2. Costi 
Ugualmente comprensibile, anzi apprezzabile, è l’intento di alleggerire, di limitare i “posti della politica”, e con essi, i “costi della politica”, purché, naturalmente, ciò non si traduca, come effetto, in difetto di rappresentanza democratica, tanto più  in presenza di forti correnti antipolitiche, per compiacere le quali esiste il rischio di cedimenti a soluzioni costituzionali antiparlamentari che possono condurre a governi forti, con contrappesi deboli. 
3. Funzionalità 
Altrettanto comprensibile è l’esigenza di funzionalità delle istituzioni parlamentari, funzionalità che è precondizione (insieme alla competenza, alla moralità e alla responsabilità verso i cittadini) per l’efficace difesa della democrazia rappresentativa. Sotto questo aspetto, l’opinione comune è che il bicameralismo, così come l’abbiamo, sia difettoso. È perfino un’ovvietà che, se una legge, per diventare tale, richiede il doppio passaggio in una Camera e nell’altra, i tempi si raddoppiano e, se modifiche sono apportate nella seconda (o terza, o quarta...) lettura, i tempi s’allungano ancora in questo andare e venire che potrebbe non concludersi mai, o concludersi non in tempo utile. 
Si tratta appunto di un’ovvietà, ma forse un po’troppo ovvia. L’argomento del tempo raddoppiato sarebbe incontrovertibile se si trattasse dell’approvazione di una sola legge. Ma se le proposte di legge sono numerose e si accalcano contemporaneamente, creando ingorghi all’entrata del procedimento legislativo, disporre di due porte d’ingresso consente – per continuare nell’immagine – di smaltire il traffico con una velocità doppia. Mentre una Camera lavora su una proposta, l’altra lavora su un’altra. Vero è che al termine del primo round la legge deve passarne un secondo ma, se il quadro politico fosse solido e omogeneo nelle due Camere, si tratterebbe di una mera convalida. Se non lo è, la questione non è tanto costituzionale, quanto politica. Sembra, insomma, doversi temere l’intasamento del procedimento legislativo, per così dire, “a ingresso unicamerale”, cioè precisamente un effetto contrario alle intenzioni riformatrici. A meno che non si decida di sottoporlo a condizioni e termini iugulatori, come quelli indicati nell’art. 72 u.c. del progetto (60 giorni o anche meno, a discrezione del governo, secondo il Regolamento della Camera), termini che farebbero della Camera, nella realtà, un organo di ratifica delle decisioni del Governo, anche perché l’iniziativa legislativa parlamentare, già oggi sottorappresentata, sarebbe ancor più emarginata in un procedimento monocamerale. 
Così, la questione della funzionalità delle procedure legislative – in particolare, sotto il profilo della loro messa in moto – si mostra per quella che effettivamente è: una questione che riguarda il posto della rappresentanza parlamentare nelle decisioni politiche, rispetto al governo. 
4. Tempi 
D’altra parte, pur senza disporre di numeri e statistiche, mi pare che la questione dell’allungamento dei tempi legislativi sia non di poco sopravvalutata. Quante sono le leggi che vanno e vengono? E, soprattutto, che genere di leggi sono? L’impressione è che si tratti delle leggi di maggior rilievo, sulle quali esistono contrasti che la democrazia parlamentare dovrebbe non soffocare, ma consentire d’esprimersi in libere discussioni. Oppure, che si tratti di veri e propri errori, la cui correzione è nell’interesse stesso della maggioranza e del governo; oppure, ancora, di casi di alleggerimento della tensione politica, come quando si dice (e ancora recentissimamente s’è detto e non per poca cosa: la legge elettorale): per ora approviamo, poi ridiscuteremo. D’altra parte, quando il governo lo ritiene necessario, c’è (quasi) sempre a disposizione la questione di fiducia, che tronca la discussione e fa piazza pulita degli emendamenti, ma sempre sotto il controllo del Parlamento, al quale spetta la parola finale. In mancanza della seconda lettura, che cosa accadrebbe in caso d’errore o di ripensamento? La legge da correggere sarebbe in vigore e occorrerebbe promuovere un nuovo procedimento legislativo per abrogarla o modificarla: sarebbe un’alternativa conveniente, dal punto di vista dell’efficienza? E dal punto di vista della certezza del diritto? Insomma: la seconda lettura non è sempre e solo una perdita di tempo: se fosse una possibilità, quando occorre, invece che una necessità, anche quando non occorre, il giudizio in proposito dovrebbe essere diverso da quello corrente. 
5. Riforme 
Fin qui, i miei preconcetti, giustificati o ingiustificati che siano. Ma la questione di fondo, nel mettere mano alla riforma della seconda Camera, è quella della sua sostanza politico-costituzionale. In breve: per quale ragione la si vuole mantenere? E, volendola mantenere in qualche forma, quale funzione rappresentativa le si chiede di svolgere? Schematizzando e guardando alla storia e agli esempi che ne vengono, i Senati esprimono o ragioni federative, nei confronti dello Stato centrale, o ragioni conservative, di fronte alla Camera elettiva e alle sue mutevoli e instabili maggioranze. Le ragioni federative possono eventualmente, di fatto, risolversi in conservazione e le ragioni conservative possono risolversi in federative. Ma quello che conta è l’accento, cioè la ragione principale e, da questo punto di vista, la distinzione tiene. Il Senato degli Stati Uniti e il Bundesrat tedesco appartengono alla prima categoria; il Senato del Consolato e dell’Impero in Francia (il Sénat detto, per l’appunto, conservateur il quale nel 1814 dispose la decadenza di Napoleone), i Senati delle Carte costituzionali della Restaurazione (dello Statuto Albertino, per esempio) e, per ragioni prevalenti, anche il Senato francese odierno (pur nella sua matrice municipalista) appartengono alla seconda categoria. 
Da noi, il dibattito si è orientato pacificamente verso l’idea del Senato come organo rappresentativo delle istituzioni territoriali, cioè – non essendo l’Italia una federazione, se non nel linguaggio politico compiacente – della Repubblica autonomista: non più Senato della Repubblica, ma Senato delle Autonomie, secondo la nuova, rivoluzionaria, denominazione. Rivoluzionaria perché viene mantenuto il divieto di “vincolo di mandato” ma è eliminata (anche per i deputati alla Camera: nuovo art. 67) la “rappresentanza della Nazione”, onde c’è da chiedersi: svincolati in vista di che cosa? Per che cosa saranno eletti? Crediamo che si tratti solo di parole, e non di etica pubblica? 
A quanto sembra, l’orientamento anzidetto è dominante in assoluto. Perché ciò che bene funziona in America e in Germania non dovrebbe funzionare altrettanto bene in Italia? Non esistono forse buone ragioni di coordinamento tra enti territoriali anche da noi? E poi chi si arrischierebbe, oggi, a proporre qualcosa di “conservativo”? 
6. Senato 
Comprendo bene che le idee, per quanto possano apparire buone – e quella che vorrei proporre all’attenzione mi pare buona – devono tenere conto delle condizioni date. E le condizioni date sono dettate dall’opinione comunemente condivisa che si è appena detta: una concezione che definirei “amministrativistica” e non “costituzionalistica” del Senato prossimo futuro. Si abbia un poco di pazienza. La comparazione con gli Stati effettivamente federali – effettivamente significa non che hanno strutture giuridiche federali o simil-federali, ma che hanno radici in realtà così nettamente definite in senso storico-politico come sono gli Stati federati in Usa o i Länder in Germania – questa comparazione, dunque, mi pare porti a dire che la somiglianza con le nostre Regioni è solo esteriore. Le nostre Regioni sono grossi apparati politico-amministrativi che riproducono (salvi, forse, i casi della Valle d’Aosta e della provincia di Bolzano) vizi e virtù dell’amministrazione e della politica nazionale: sono, in altri termini, delle articolazioni più o meno felici di quest’ultima. Non è qui il caso di ragionare sulle cause ma, se ciò è vero, che senso ha un Senato delle Autonomie, se non quello di ricondurre e rispecchiare al centro ciò che già il centro ha trasmesso alla periferia? Che sostanza politica, nuova e diversa, quest’organo esprimerebbe? Nessuna, se non eventualmente maggioranze dissimili da quelle politiche che si formano alla Camera dei deputati. Personale politico di partiti si troverebbe a operare qui e là, e il Senato delle Autonomie si risolverebbe in un segmento secondario d’un sistema politico unico che ha da risolvere al suo interno questioni di natura essenzialmente amministrativa, questioni che, comunque, troverebbero sbocco finale nel contenzioso costituzionale, come già succede ora (con le complesse procedure previste, il rischio è di ulteriore confusione). Si tratterebbe d’un organo di contrattazione di risorse finanziarie e porzioni di funzioni pubbliche, in una sorta di do ut des che già oggi trova la sua sede nelle due “Conferenze” paritetiche Stato-Regionie Stato-Autonomie locali. Coloro che ragionano con tanta sicurezza di Senato delle Autonomie temo che assumano essere le “autonomie” qualcosa com’essi desidererebbero ch’esse fossero, ma che non sono. E, se sono quelle che sono, invece che quelle che si vorrebbe che fossero, il loro “senato” si riduce a ben poca e inutile cosa. 
7. Costituzione 
Se, invece, si volesse cogliere l’occasione della riforma del bicameralismo per un’innovazione che a me parrebbe davvero significativa dal punto di vista non “amministrativistico” ma “costituzionalistico”, tenendo conto di un’esigenza e di una lacuna profonda nell’organizzazione della democrazia, si potrebbe ragionare partendo in premessa dalla considerazione generale che segue. 
(1. - continua)

il Fatto 13.7.14
Promemoria per i nuovi costituenti /2
“Gentile Boschi, le vostre riforme sono autoritarie”
La sintesi tra Senato non elettivo e Italicum produce una politica chiusa alla partecipazione
Che viola lo spirito della Costituzione
di Gustavo Zagrebelsky


Prosegue con la seconda e ultima puntata la pubblicazione, iniziata ieri, della proposta scritta che il presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, ha inviato il 4 maggio al ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, che lo aveva invitato a un convegno di costituzionalisti, al quale non poté partecipare per precedenti impegni. Il ministro gli promise di distribuire il testo agli altri relatori e ai parlamentari che si occupano di riforme costituzionali, ma poi – a quanto pare – non lo ha fatto. 
7. Futuro 
Le democrazie rappresentative tendono alla dissipazione di risorse pubbliche, materiali e immateriali. Sono regimi dai tempi brevi, segnati dalle scadenze elettorali, durante i quali gli eletti, per la natura delle cose umane, cercano la rielezione, cioè il consenso necessario per ottenerlo. Non conosciamo noi, forse, questa realtà? Debito pubblico accumulato da politiche di spesa facile nel cosiddetto ciclo elettorale; sfruttamento delle risorse naturali; devastazione del territorio; attentati alla salute pubblica; abuso dei beni comuni nell’interesse privato immediato; applicazioni a fattori vitali di tecnologie dalle conseguenze irreversibili, ecc. Chi se ne preoccupa, quando premono le esigenze elettorali? 
Qui emergono le “ragioni conservative” della seconda Camera: non conservative rispetto al passato, come è stato nel caso dei Senati al tempo delle Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze dissipatrici della Camera elettiva e questa, secondo lo schema del “governo misto” fu affiancata dai Senati di nomina regia. Allora, i Senati erano ciò che restava dell’Antico Regime, della tradizione e dei suoi privilegi. Ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, si tratta dell’opposto, cioè di ragioni conservative di opportunità per il futuro. Chi è, dunque, più conservatore? Chi, per mantenere o migliorare le proprie posizioni nel mercato elettorale, è disposto a usare tutte le risorse disponibili per ottenere il consenso immediato degli elettori, o chi, invece, si preoccupa, più che non delle sue proprie immediate fortune elettorali, dell’avvenire e di chi verrà dopo di lui? 
8. Proposta 
Su questa linea di pensiero, la composizione del nuovo Senato risulta incompatibile con l’idea di membri tratti dalle amministrazioni regionali e locali o eletti in secondo grado dagli organi di queste, la cui durata in carica coincida con quella delle amministrazioni regionali e locali di provenienza. Questa è la prospettiva “amministrativistica”. Nella prospettiva “costituzionalistica” la provvista dei membri del Senato dovrebbe avvenire in modo diverso. Nei Senati storici, a questa esigenza corrispondeva la nomina regia e la durata vitalizia della carica: due soluzioni oggi, evidentemente, improponibili ma facilmente sostituibili con l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola della non rieleggibilità. A ciò si dovrebbero accompagnare requisiti d’esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenute in regole d’incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti. 
Voci autorevoli si sono levate in questo senso, in evidente contrasto con la concezione del Senato come proiezione delle amministrazioni regionali e locali. Anche l’idea (per quanto forse già tacitamente accantonata) dei 21 senatori che il Presidente della Repubblica “può” nominare (art. 57, comma 5: dunque la composizione del Senato è a numero variabile e il Presidente può riservarsene una quota per eventuali “infornate”?) tra persone particolarmente qualificate corrisponde all’esigenza qui sottolineata. Si tratta d’una proposta, dal punto di vista democratico, insostenibile per una molteplicità di ragioni che i commentatori hanno già messo in luce e, dal punto di vista funzionale, del tutto irragionevole perché mescola elementi eterogenei. Non c’è bisogno di citare letteratura, infatti, per comprendere che un organo che delibera deve essere omogeneo e che, se non è omogeneo, può formulare pareri (potenzialmente diversi) ma non esprimere una (sola) volontà. Ma l’esigenza di cui i 21 sono espressione è valida e può essere soddisfatta anche per via di elezione, purché secondo i criteri sopra detti. Ai quali se ne dovrebbe aggiungere un altro: il numero limitato dei senatori. Negli Stati Uniti sono due per ogni Stato federato. Perché non anche da noi: due senatori per Regione, eletti dagli elettori delle Regioni stesse? Dunque, senza liste, listoni o “listini” che farebbero ancora una volta del Senato una propaggine del sistema dei partiti, con i condizionamenti e gli snaturamenti della loro funzione che ne deriverebbero. Questa, sì, sarebbe una novità, perfettamente democratica e tale da inserire nel circuito politico energie, competenze, responsabilità nuove. Questo, sì, sarebbe un Senato attrattivo per le forze migliori del nostro Paese che il reclutamento partitico della classe politica oggi tiene ai margini. 
9. Pasticcio 
Uno dei punti critici del Progetto riguarda la determinazione dei poteri e la definizione del rapporto tra le due Camere nel bicameralismo non paritario, cioè in tutti i casi di legislazione non costituzionale. Secondo il nuovo articolo 70, le leggi ordinarie sono approvate dalla Camera dei deputati, tuttavia ogni disegno di legge approvato (e non promulgato) è trasmesso immediatamente al Senato il quale, entro 10 giorni, su richiesta di 1/3 dei componenti può disporre di esaminarlo e, nei 30 giorni successivi, può deliberare proposte di modifica, sulle quali la Camera, negli ulteriori 20 giorni, si pronuncia in via definitiva. La legge è promulgata se il Senato non dispone di procedere all’esame del testo deliberato dalla Camera, se è decorso il termine per deliberare o se la Camera si è pronunciata definitivamente. In una serie di casi determinati per materie (art. 70, comma 4) la Camera deve conformarsi alla deliberazione del Senato, a meno che non si pronunci in senso diverso a maggioranza assoluta. In materia di bilanci, la Camera non può discostarsi se non a maggioranza assoluta, solo se il Senato si è pronunciato a sua volta a maggioranza assoluta. Non è qui possibile discutere la ragionevolezza di questo labirinto di regole e della bilancia che può pendere ora a favore di una Camera, ora dell’altra, a seconda delle maggioranze, e a seconda delle materie. Questo giuridicismo, applicato a organi politici, è sensato? Può funzionare? Soprattutto, non c’è il rischio di conflitti? 
In tema di revisione del titolo V, il Progetto si è orientato al superamento del criterio delle competenze per materia, che l’esperienza ha dimostrato essere fonte di possibili frequenti contrasti. Qui, invece, le materie ricompaiono. Ma, soprattutto, che senso ha la “supervisione” del Senato quando già è nota l’esistenza d’una maggioranza alla Camera, in grado comunque d’imporre la propria scelta? Un lamento, una protesta fine a se stessa, tanto più in quanto la legge elettorale sia tale (ma sarà tale?) da costruire più o meno artificialmente vaste maggioranze legislative alla Camera dei deputati. Se esistono obiezioni, sarà la Camera stessa a prenderne cognizione. Non è che i pro e i contra sono sconosciuti, fino a quando non “scende in campo” un organo abilitato a manifestarli. La procedura davanti al Senato sarà presumibilmente destinata alla sterilità. La controprova della sua futilità è l’assenza della questione di fiducia in questa procedura: il Governo non ne ha bisogno, perché ciò che solo conta è quanto accade alla Camera dei deputati. 
Nella prospettiva del superamento “costituzionalistico” del bicameralismo paritario, i problemi di convivenza delle due Camere si potrebbero risolvere così. Alla Camera dei deputati, depositaria dell’indirizzo politico, sarebbe riservato il voto di fiducia (e di sfiducia). Le leggi sarebbero approvate normalmente in una procedura monocamerale. Il Senato, nei casi – si presume di numero assai limitato, ma non elencabili a priori – in cui ritenga essere a rischio i valori permanenti la cui tutela è sua responsabilità primaria, potrebbe chiedere l’attivazione della procedura bicamerale paritaria. Qui ci sarebbe la funzione di garanzia come “camera di ripensamento”, insieme allo snellimento delle procedure in tutti i casi in cui il doppio esame non appare necessario. A sua volta, potrebbe essere proprio la Camera, per semplificare e ridurre i tempi, a chiedere eventualmente che sia il Senato a pronunciarsi per primo. 
10. Autoritarismo 
Un’ultima osservazione. Un certo numero di costituzionalisti, nei giorni trascorsi, ha denunciato con toni d’allarme il pericolo d’involuzione autoritaria, anzi padronale, del nostro sistema politico. Volendo vedere solo e isolatamente la questione della riforma del bicameralismo, la denuncia è apparsa eccessiva, allarmistica. Tuttavia, si parlava in quella circostanza della riforma del Senato non in sé stessa, ma come elemento d’un quadro costituzionale, formale e materiale, assai più complesso. Il quadro è composto, sì, dalla marginalizzazione della seconda Camera, ma anche dalle prospettive in cui si annuncia la riforma della legge elettorale, in vista di soluzioni fortemente maggioritarie e debolmente rappresentative, tali da configurare una “democrazia d’investitura” dell’uomo solo al comando, tanto più in quanto i partiti, da associazioni di partecipazione politica, secondo l’art. 49 della Costituzione, si sono trasformati, o si stanno trasformando in appendici di vertici personalistici, e in quanto i parlamentari, dal canto loro, hanno scarse possibilità d’autonomia, di fronte alla minaccia di scioglimento anticipato e al rischio di non trovare più posto, o posto adeguato, in quelle liste bloccate che la riforma elettorale non sembra orientata a superare. La denuncia dunque veniva, e ancora viene, da quello che i giuristi chiamano un “combinato disposto”. La visione d’insieme è quella d’un sistema politico che vuole chiudersi difensivamente su se stesso, contro la concezione pluralistica e partecipativa della democrazia, che è la concezione della Costituzione del 1948. La posta in gioco è alta. Per questo è giusto lanciare l’allarme. Queste, gentile Ministro Boschi, sono in sintesi (una sintesi assai poco sintetica!) le osservazioni che forse avrei potuto sviluppare nell’incontro di lunedì. Della mia assenza ancora mi rammarico e mi scuso. Immagino che i tempi non saranno così stretti da impedire ulteriori confronti, a partecipare ai quali, fin da ora, se i termini degli accordi politici già presi non saranno preclusivi di discussioni costruttive, le comunico la mia disponibilità. 
(2. - fine)

Il Fatto 12.7.14
Re Giorgio
Napolitano, un presidente interventista oltre i limiti della decenza istituzionale
di Maurizio Viroli


Il presidente Napolitano ripetutamente interferisce sulle prerogative del Parlamento intervenendo mentre è in corso il processo deliberativo in palese violazione del principio cardine dell’ordinamento repubblicano in base al quale “quando il Parlamento parla, il presidente tace” come dichiarò a suo tempo Arrigo Levi, consigliere di Ciampi. Più grave ancora è stata l’offesa inflitta alla Repubblica quando ha accettato il secondo mandato. Quattordici anni configurano un mandato più lungo di quello (nove anni) che la Costituzione assegna ai giudici di Corte costituzionale. In un ordinamento repubblicano più alta è la funzione di garanzia, più lungo è il mandato, come attesta ad esempio il caso americano ove i giudici della Supreme Court sono nominati a vita. Un presidente con mandato più lungo dei giudici pone il presidente in questione al di sopra dei giudici della Corte costituzionale. Anche in questo caso si vede bene la differenza fra un presidente di formazione comunista (Napolitano ) e un presidente di formazione azionista (Ciampi). Invitato a servire per un secondo mandato Ciampi rispose infatti(cito a memoria) “mal si confà in ordinamento repubblicano il rinnovo di un mandato già così lungo come quello del Presidente della Repubblica. 
Per Napolitano (altro segno della sua formazione comunista) lo Stato è in primo luogo governo, all’esistenza di un governo, possono essere sacrificate le più elementari considerazioni di decenza. Né è prova l’invenzione e il sostegno ai governi di larghe intese con delinquenti conclamati quali Berlusconi, senza che nessuna situazione d’emergenza lo imponesse. 
Al quale Berlusconi, in spregio del principio del governo della legge, Napolitano non ha mancato di esprimere comprensione dichiarando, l’indomani della sentenza definitiva di condanna, che era opportuna la riforma della giustizia. 
Più dell’etica conta la politica: ecco allora la lettera di solidarietà alla vedova Craxi nella quale il presidente parla addirittura(cito a memoria e devo verificare, di ‘accanimento giudiziario’ contro lo ‘statista’ morto latitante. Ed ecco pure lettera alla moglie di Almirante elogiato per la sua lealtà costituzionale. 

La grande fortuna di Napolitano è che l’élite politica e i mezzi d’informazione non hanno (salvo poche eccezioni) coscienza repubblicana. La richiesta di dimissioni sarebbe altrimenti potente

il Fatto 13.7.14
Renzi come B: va matto per i satrapi dell’ex Urss
Dopo il viaggio in Kazakistan, domani il premier riceve il presidente dell’Azerbaijan, paese dove si arrestano giornalisti e oppositori
di Gianluca Roselli


In ballo c’è il progetto del gasdotto Tap, Trans Adriatic Pipeline, che nei prossimi anni, passando da Grecia e Albania, porterà in Italia il gas del Mar Caspio. Ma il rovescio della medaglia è l’opportunità di intrattenere rapporti con un Paese dove i diritti civili sono negati e dove membri dell’opposizione e giornalisti sono tuttora in prigione. Oggi, infatti, arriva in Italia il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, che domani incontrerà il premier Matteo Renzi, il presidente della Repubblica Napolitano, il presidente del Senato Grasso e il sindaco di Roma Ignazio Marino. E proprio i tempi di realizzazione del gasdotto, 800 km, di cui 45 in Italia, sarà al centro del colloquio tra il leader azero e il presidente del consiglio.
NON SOLO GAS, PERÒ: l’Italia al momento è il miglior partner commerciale di questa repubblica ex sovietica, con un volume di scambi di oltre 7 miliardi di euro. Il metanodotto Tap sarà ultimato nel 2019 e trasporterà fino a 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno dal giacimento di Shah Deniz fino a Melendugno, in provincia di Lecce.
Resta però il problema di trattare con un Paese che ha infranto tutte le regole sui diritti civili e dove numerosi oppositori sono finiti in carcere. Come Anar Mammadli, a capo del monitoraggio elettorale, e Ilgar Mammadov, leader di un movimento di opposizione, condannato a 7 anni. Ma non basta: negli ultimi anni, a causa delle loro inchieste, sono stati uccisi due giornalisti, Elmar Huseynov e Rafig Tagi, mentre un terzo è morto in carcere.
Aliyev è il tipico presidente-dittatore: eletto per la prima volta nel 2003 ereditando la leadership da suo padre Heydar, è stato poi riconfermato per due volte con percentuali bulgare: alle ultime elezioni, nel 2012, ha stravinto con l’85 per cento dei voti. Un leader che piacerebbe molto a Berlusconi, che andava pazzo per questi presidenti-dittatori dell’Est europeo. “Sono invidioso, perché lei è stato eletto con una percentuale molto superiore alla mia. Si vede che è molto amato dal suo popolo”, disse nel 2009 al premier bulgaro durante una visita ufficiale a Sofia. E qualcuno ricorderà pure l’ex leader ceco Topolanek immortalato nudo tra varie donnine a bordo piscina nelle foto di Villa Certosa. Per non parlare del rapporto con Putin. Ma se l’ex Cavaliere veniva duramente attaccato da stampa e opposizione, con Renzi tutto tace.
E DIRE CHE LA SITUAZIONE AZERA è stata più volte denunciata dagli organismi internazionali. Secondo Reporter senza frontiere, per esempio, l’Azerbaijan è al 160esimo posto su 180 Paesi per le limitazioni alla libertà di stampa, al 139esimo su 167 per indice di democrazia, al 127esimo su 175 per indice di corruzione. Secondo i dati del 2013, sono 142 i prigionieri politici detenuti nelle carceri azere. Per non parlare delle repressioni nei confronti della comunità armena all’interno dell’annosa questione dei territori contesi del Nagorno-Karabakh.
Tutto questo, però, non sembra turbare il governo italiano. Che, come faceva Berlusconi, continua tranquillamente stringere accordi economici con le repubbliche ex sovietiche. Come conferma anche la recente visita di Renzi in Kazakistan, dove ha incontrato l’ormai famoso presidente Nazarbayev, salito agli onori delle cronache per il blitz che, un anno fa a Roma, ha portato all’arresto e al rimpatrio di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Ablyazov. Operazione che mise in grave imbarazzo il ministro dell’Interno Alfano (a suo dire all’oscuro di tutto) e l’intero esecutivo di Enrico Letta nel maggio 2013.

Repubblica 12.7.14
Dal factotum al segretario la carica dei fiorentini per la nuova squadra di Renzi a Palazzo Chigi
di Tommaso Ciriaco


L’AGENDA, finora, era affidata al suo inseparabile iPhone. Dopo quattro mesi di caos creativo, però, Matteo Renzi ha bisogno di una squadra. «La ufficializzerò nei prossimi giorni», ha annunciato giovedì.
NUOVO staff, allora, per sostenere lo sforzo dei pochi fedelissimi in apnea. È IL momento di
dotarsi di un team. Leggero, come ai tempi di Palazzo Vecchio. «Nei primi quattro mesi - ammette Renzi, prima di formalizzare i contratti - non ho nominato neanche il capo segreteria. Ho pensato alle riforme». Tutto si è retto sul “cerchio magico” fiorentino e sull’innesto decisivo di Filippo Sensi, ma ora è il momento di riempire le caselle mancanti. La prima, appunto, è quella del capo della segreteria: toccherà a Giovanni Palumbo, già capo di gabinetto con Renzi alla guida della Provincia di Firenze.
Non è l’unica new entry in arrivo. A Chigi, in un ruolo apicale, potrebbe arrivare Erasmo de Angelis - ex sottosegretario nel governo Letta e vicino al premier - mentre dal capoluogo fiorentino è dato in avvicinamento Franco Bellacci - detto Franchino - autentico factotum del Renzi sindaco. È già pienamente operativo, invece, l’ex capo dei vigili urbani di Firenze, Antonella Manzione, guida dell’ufficio legislativo del governo. Oltre al consigliere diplomatico Armando Varricchio, poi, il premier si affida al responsabile del cerimoniale Ilva Saponara. È lei a gestire fin nei dettagli orari e movimenti istituzionali del Presidente. E accanto al segretario generale Mauro Bonaretti cresce l’influenza del suo vice, Raffaele Tiscar.
Capitolo a parte è la comunicazione, tenuta in massimo conto da Renzi. In questo campo domina i giochi Sensi, uomo ombra del Presidente. Collabora con lui Luca Di Bonaventura, che gestisce il rapporto con i media per Luca Lotti. Nuove forze fresche sono attese a breve, con l’ingresso di un giornalista pescato dall’ufficio stampa del Pd. E siccome c’è da gestire anche la Presidenza italiana dell’Ue, insieme al sottosegretario Sandro Gozi c’è il portavoce del semestre Federico Garimberti. A immortalare ogni momento dell’ascesa del premier ci pensa il suo fotografo personale, Tiberio Barchielli.
Ma Renzi come organizza la sua giornata? Cosa fa nel tempo libero? Al suo fianco ci sono sempre quelli che ormai alla presidenza del consiglio chiamano i «centurioni». Ossia Luca Lotti, Lorenzo Guerini, Maria Elena Boschi, Francesco Bonifazi e Graziano Delrio. Sentinella del renzismo alla Camera, invece, è Ernesto Carbone. I pranzi e le cene sono tutti con loro.
Appena nominato segretario, il ristorante prescelto per i “summit” era l’antico forno Roscioli. Da premier, però, Renzi ha drasticamente ridotto le incursioni fuori dal Palazzo. E i fedelissimi sono “costretti” ad adattarsi alla curiosa dieta del premier. Non tanto, come ai tempi di Palazzo vecchio, pasta al burro e tartare. Nella Capitale è esplosa la sua antica passione per la pizza, accompagnata da vino rosso rigorosamente piemontese. La ordina con i würstel, faceva così anche con la pizzeria a due passi dalla sua abitazione a Pontassieve.
«Da qui al 31 agosto starò abbastanza chiuso nel Palazzo e avrò pochissime occasioni per uscire», ha giurato il Presidente del Consiglio. Avrà tempo per consolidare le nuove abitudini romane. La sveglia continua a suonare molto presto, segnalata con tempestivi tweet all’alba. Dopo una rapida lettura dei giornali sul mini iPad e una spremuta d’arancia quasi sempre in compagnia di Delrio e Lotti, il premier si butta sullo smartphone. È forse il primo presidente del consiglio che per telefonare non passa dalla segreteria, ma contatta personalmente il centralino di Palazzo Chigi. «Sono Renzi, può chiamarmi... », è il ritornello. E un rapporto di amore-odio con la chat: bombardato dai messaggi del gruppo creato dai membri della segreteria del Pd, è stato costretto a silenziarla per non ricevere continue notifiche.
Nel suo ufficio governativo gira spesso senza scarpe, a piedi nudi. Le sneakers, invece, servono per la cyclette che ha fatto montare a Palazzo Chigi. Mezz’ora ogni mattina davanti alla televisione per seguire le news e i talk show. Niente jogging, però. A Firenze giocava a tennis o a calcetto di martedì. Un’abitudine di tanto in tanto - preferibilmente il venerdì - coltivata riservatamente anche nella Capitale: corre dietro a un pallone in un luogo discreto, anche per ragioni di sicurezza, e qualcuno ricorda l’esempio della Nazionale parlamentari, abbonata ai campi della caserma militare della Cecchignola.
Calcetto a parte, Renzi potrà distrarsi nell’agosto romano con un occhio al piccolo schermo. Nel suo studio la tv è sintonizzata quasi sempre su programmi di approfondimento politico. Poi spazio ai tg italiani e alla Cnn. E al calcio. Quanto alle serie tv, ha di recente confidato una passione per “House of Cards”. Chi lavora al suo fianco sa infine che Renzi scrive parecchio. Ma soprattutto sottolinea i testi. Fissa le idee con tre o quattro evidenziatori diversi: ogni colore una priorità. E a tutti ha imposto una regola. I dossier devono essere sintetici, una pagina al massimo. Per il resto c’è l’iPhone, scarico già a metà mattina. Ma un caricabatterie è sempre in tasca

Repubblica 12.7.14
E Borghezio va alla festa dem
di Alessandra Longo


DAVVERO una strana coppia oggi, alla festa del Pd di Nova Milanese. Brando Benifei, enfant prodige spezzino del Pd, 28 anni, europarlamentare fresco di elezione (quasi 40 mila preferenze), incontra per un «faccia a faccia» l’europarlamentare di lunga navigazione Mario Borghezio. Ne dà notizia in una nota, con evidente soddisfazione, il leghista più a destra che ci sia, espulso per razzismo nel 2013 dall’Efd di Nigel Farage dopo le frasi pronunciate contro l’allora ministro per l’Integrazione (e ora collega a Strasburgo) Cecile Kyenge. Vogliamo ricordare che cosa disse. Per esempio: «La Kyenge? Se la vedo penso ad un orango». Seguirono distinguo peraltro integrati da altre dichiarazioni: «Non ho più l’età per le prostitute però nel paese della Kyenge ho assaggiato il prodotto locale». Quello di stasera sarà un faccia a faccia interessante. Il tema: «Prospettive europee»

Corriere 12.7.14
La tentazione dei dissidenti dem: il voto segreto sull’articolo 57
Per chiederlo bastano 20 senatori, ma servirebbe il sì del presidente
di Alessandro Trocino

ROMA — «Se ci sarà il voto segreto sull’articolo 57 avremo delle sorprese, ve lo assicuro». Erica D’Adda è una frondista del Partito democratico e il 57 è l’articolo della Costituzione, architrave della riforma che arriva in Aula lunedì perché riguarda la composizione del nuovo Senato e l’elezione dei futuri senatori (in tutto 100) non più direttamente dai cittadini ma da parte dei consiglieri regionali. La maggioranza sembra salda, ma il timore dei «gufi» (come li chiama Matteo Renzi) è quello di imboscate da parte della pattuglia trasversale di dissidenti. Sullo sfondo, la battaglia dell’Italicum, la nuova legge elettorale approvata finora solo alla Camera, altra faccia dell’accordo tra Pd e Forza Italia. 
La riforma arriva in Aula lunedì e da mercoledì si dovrebbe cominciare a votare. Se Anna Finocchiaro prevede il via libera entro la pausa estiva, i timori rimangono. Nel Pd ci sono i 14 sostenitori del Senato elettivo, quota che però potrebbe salire. E poi c’è il fronte di Forza Italia: da una parte il gruppo dei 7 di Raffaele Fitto (che potrebbero uscire dall’Aula), dall’altra i frondisti di Augusto Minzolini (ai quali si è aggiunto anche Domenico Scilipoti). Martedì si incontreranno con Silvio Berlusconi e lo stesso giorno è prevista l’assemblea dei senatori del Pd, che potrebbe concludersi con un voto che formalizzi la posizione ufficiale del partito. 
Ieri i senatori di Forza Italia Anna Cinzia Bonfrisco e Augusto Minzolini hanno scritto una nota per ribadire «la volontà di proseguire nel processo riformatore in linea con il ruolo centrale assunto da Berlusconi con il patto del Nazareno», ma anche per confermare «la necessità di individuare una soluzione che stabilisca per l’elezione del Senato un criterio che affermi la volontà popolare». E su questo tema, cita la proposta di Renato Brunetta di due liste diverse tra senatori e consiglieri regionali. 
Paolo Romani, capogruppo azzurro al Senato, assicura che la fronda interna sul disegno di legge Boschi si è ridotta e lo si vedrà martedì (a differenza del Pd, in Forza Italia non dovrebbe esserci alcun voto). Ma Minzolini avverte: «Attenzione, ci sono nomi nascosti, potrebbero esserci delle sorprese. Questa riforma non piace quasi a nessuno, vediamo se alla fine la voteranno o no». 
Sorprese che potrebbero arrivare anche dal voto segreto. Al Senato, in realtà, le maglie sono più ristrette. La richiesta può essere fatta da 20 senatori e poi a decidere sull’ammissibilità è il presidente dell’Aula. Felice Casson mette le mani avanti: «Sul tema, il regolamento è chiarissimo». Quindi ci sarà il voto segreto? «Insciallah». Ma una previsione Casson la fa: «Penso che qualcosa riusciremo a cambiare e che comunque l’esame non finirà questa settimana. Noi del Pd presentiamo oltre quaranta emendamenti. Io voterò certamente per il senato elettivo e sull’immunità. Sul voto finale, invece, vedremo cosa uscirà fuori». 
I dissidenti dei vari partiti provano a fare fronte comune. Miguel Gotor, dopo le modifiche sul quorum per eleggere il presidente della Repubblica, è soddisfatto: «Si è fatto un buon lavoro, il testo è cambiato moltissimo, non capisco perché opporsi». Non è d’accordo Maria Grazia Gatti, preoccupata «per i pesi e contrappesi al sistema parlamentare, che non ci sono»: «Io resto per il Senato elettivo, credo che dovrebbero essere ridotti anche i deputati e credo che si dovrebbero allargare le competenze del Senato anche ai diritti sociali e politici». Voterete contro? «Valuteremo. Non siamo un gruppo né una corrente, anche se ci parliamo. Non ho timore di sanzioni: non è più tempo di Inquisizione». 
Dello stesso parere la D’Adda: «Ho dato scherzosamente del Torquemada a Tonini, che aveva chiesto sanzioni. Tanto più che nel nostro regolamento è consentito il dissenso: non ci spaventiamo». Quanto al voto segreto: «Io preferisco la battaglia a viso aperto e non mi nascondo. Ma di sicuro ci sono molti che sono sulle nostre posizioni e non si espongono perché hanno timore». Il testo non le piace, nonostante le modifiche: «Non voglio usare termini pesanti, ma dimostra una visione della democrazia che è diversa dalla mia: c’è un attacco ai corpi intermedi e un accentramento dei processi e dei poteri». Roberto Calderoli, reduce dallo sfortunato malore con infortunio, si attribuisce il merito per «la palude evitata» e riassume i rumors : «C’è un fronte ideologico che voterà contro per convinzione. Ma c’è anche il partito della pagnotta: quelli che, a torto o a ragione, temono di andare a casa». 

Il Sole 13.7.14
Riassetto istituzionale e legge elettorale
Ncd, minoranza Pd, Lega e M5S all'attacco su preferenze e soglie
Riforme in Aula, fuochi sull'Italicum
Renzi tentato dal referendum confermativo in ogni caso: possibile emendamento
di Emilia Patta

ROMA Dopo il sì in commissione, il Ddl costituzionale che supera il bicameralismo perfetto e riforma il Titolo V arriva domani nell'arena di Palazzo Madama. La riforma delle riforme, quella che abolisce il Senato elettivo e che Matteo Renzi è pronto a mostrare come trofeo al Consiglio Ue straordinario del 16 luglio a Bruxelles, occuperà il calendario dell'Aula per tutta la settimana. E, dopo la discussione generale e la presentazione degli emendamenti, i primi voti dovrebbero arrivare proprio mercoledì, in contemporanea con il vertice Ue. Se poi il via libera non arriverà entro venerdì 18 come auspicato inizialmente dal governo, arriverà comunque prima della pausa estiva. E prima della pausa estiva, ricorda la presidente della prima commissione Anna Finocchiaro, sarà avviata anche la discussione sull'Italicum già approvato dalla Camera.
Non mollare mai la presa sulle riforme e sulla legge elettorale per non farsi risucchiare dalla "palude", dunque. Anche perché alcune modifiche da parte della Camera al Ddl Boschi-Delrio, anche se non auspicate, sono messe in conto dal governo. E questo comporterà un secondo passaggio in Senato prima della pausa di tre mesi prevista dalla Costituzione in vista della seconda doppia lettura da parte delle Camere. Il sogno del premier è arrivare all'approvazione definitiva dell'Italicum a settembre e alla fine dell'iter della riforma costituzionale a dicembre 2014 o gennaio 2015. Ma è proprio questa fretta a mettere in agitazione la minoranza Pd e gli altri partiti della maggioranza, nonché Fi: con la riforma costituzionale approvata l'Italicum funzionerebbe a regime (mentre senza riforma per il Senato si tornerebbe a votare con il proporzionale del Consultellum) e il premier – è il sospetto dei suoi avversari, interni ed esterni – potrebbe essere tentato di andare alle elezioni anticipate, soprattutto se i segnali economici stentassero a invertire la tendenza. I sospetti dei non renziani si appuntano sulla primavera 2015. C'è tuttavia da tenere in considerazione il fattore referendum: senza approvazione di modifiche costituzionali con i due terzi in seconda doppia lettura – e al momento i 230 sì necessari in Senato non ci sono – basta un quinto dei deputati o dei senatori oppure 500mila firme per ottenere il referendum confermativo entro tre mesi dall'approvazione definitiva. Questo vuole dire che dal momento del sì del Parlamento occorre attendere tre mesi per dare il tempo ai soggetti interessati di chiedere il referendum, e in caso positivo altri 5 mesi tra un passaggio e l'altro: 8 mesi in tutto. Le elezioni nella primavera del 2015 sono tecnicamente impossibili. In ogni caso la campagna per il referendum potrebbe essere un'occasione straordinaria per Renzi per preparare la futura campagna elettorale per le politiche. Mettere la faccia sulle riforme fino in fondo, inoltre, potrebbe essere un modo per prevenire la probabile iniziativa referendaria da parte dei grillini. Per questo il premier sta prendendo in considerazione l'ipotesi di prevedere il giudizio popolare comunque, anche se la riforma dovesse passare in seconda lettura con i due terzi: un emendamento in tal senso al Ddl Boschi-Delrio potrebbe essere presentato nelle prossime ore in Aula.
In ogni caso dalle parti di Palazzo Chigi si respira serenità riguardo all'imminente voto del Senato. «Non ci saranno imboscate», ripetono Renzi e i suoi. Piuttosto le fibrillazioni si stanno concentrando sul prossimo passaggio dell'Italicum. Ncd, minoranza Pd, M5S, Lega e anche Sel sono uniti in un inedito fronte che chiede l'introduzione delle preferenze e l'abbassamento delle soglie di ingresso al 4% per tutti i partiti, coalizzati e non (l'Italicum prevede una soglia dell'8% per chi non si coalizza). Ieri è sceso in campo lo stesso ministro dell'Interno Angelino Alfano, che nelle scorse settimane ha preferito lasciare il dossier in mano al coordinatore del Ncd Gaetano Quagliariello: «Daremo battaglia sulle preferenze. Ci sono per Comuni, Regioni ed Europa. Perché no per il Parlamento? Per dare potere alle segreterie dei partiti di scegliere i parlamentari? Diremo no». Anche Beppe Grillo sembra puntare tutto sulla «vergogna» delle liste bloccate. E sul fronte delle riforme richiama i suoi alla prova della piazza dando appuntamento per martedì 15 alle ore 11 davanti al Senato. Segno, anche questo, che il dialogo tra M5S e Pd sulla legge elettorale ha perso decisamente fiato di fronte alla tenuta del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Tanto che l'annunciato incontro in settimana non trova ancora conferme a Largo del Nazareno. Chiaro che Renzi vuole prima la prova dell'Aula sulle riforme. Dopo, e solo dopo, si riapre il dossier Italicum.

il Fatto 13.7.14
Riforme
Carceri, il più folle dei decreti legge
di Bruno Tinti


Da due giorni è in vigore il Dl 42/2014. Prevede lo sconto di pena di un giorno ogni 10 per i detenuti in condizioni che, secondo i parametri dell’Ue, costituiscono “tortura”; e il risarcimento del danno cagionato da queste condizioni di carcerazione nella misura di 8 euro per ogni giorno di detenzione. Follia pura. 
1) Va chiarito che l’Ue considera “tortura” la carcerazione quando lo spazio a disposizione di ogni detenuto è inferiore a 7 mq. L'Italia, nell'aprile di quest’anno, ha assicurato l’Unione che nessun detenuto sarà ristretto in meno di 3 mq pro capite. Il che significa che, su un po’ più di 60.000 detenuti, il nostro Paese ne “torturerà” in pianta stabile almeno 50.000, considerato che le carceri italiane garantiscono circa 40.000 posti con un sovraffollamento standard pari a un terzo. Sottratti un po’ di privilegiati, la massa sarà certamente detenuta in uno spazio inferiore a 7 mq. 
Pensare di sottrarsi alle multe comminate dall'Ue e alla disapprovazione politica internazionale – a cui peraltro siamo abituati –, con lo sconto di pena di 1 giorno ogni 10 o con 8 euro di “risarcimento” per ogni giorno di detenzione è appunto folle. Senza contare che, dopo gli sconti Gozzini, incrementati da Severino e Cancellieri (ogni anno di prigione sono, in realtà, 7 mesi e mezzo) ce ne sarà un altro: ogni mese di galera varrà, in concreto, 27 giorni; un altro mese di galera (veramente un mese e 6 giorni) regalato ogni anno a tutti i delinquenti. Un anno sarà uguale a 6 mesi e mezzo. 
2) L’applicazione concreta di quanto previsto dal DL è impossibile. Sia lo sconto di pena che il “risarcimento” non possono essere automatici. Presuppongono l’accertamento delle condizioni che li legittimano. Quindi i giudici di sorveglianza dovranno fare, da domani, 50.000 istruttorie per verificare quanti giorni ogni detenuto ha passato in spazi minori di 7 mq. Il che significa, nel caso di detenuti trasferiti da un carcere all'altro (capita spesso) moltiplicazione per N volte di questa indagine. Inoltre questi accertamenti non hanno una fine nel senso che, una volta fatti questi ipotizzati 50.000, poi non se ne fanno più. Ogni futuro detenuto si troverà nella medesima situazione a partire da dopodomani. La domanda è: dove si trovano centinaia di giudici di sorveglianza a cui affidare questo lavoro? Perché quelli che ci sono non bastano nemmeno per mandare in tempi ragionevoli B a badare ai vecchietti, visto che c'è voluto circa un anno. 
3) Il problema, naturalmente, è identico per quanto riguarda il “risarcimento”. Ma qui c’è un’altra difficoltà. “Risarcimento” significa corrispondere una somma di danaro a compenso del danno cagionato. E il danno sarà diverso da detenuto a detenuto. Una persona anziana o malata avrà patito il sovraffollamento in misura maggiore di un giovane incarcerato che se ne è stato in compagnia dei suoi amici a giocare a carte e a progettare colpi mirabolanti per il giorno successivo alla scarcerazione. Sicché non si può pensare di “risarcire” entrambi nella stessa maniera. E, se è per questo, nemmeno si può quantificare il “risarcimento” in via preventiva, ex lege. Il pagamento di una somma di denaro predeterminata costituisce “indennizzo” e non “risarcimento”. 
E i giuristi che assistono il governo Renzi certamente conoscono la differenza; se “risarcimento” hanno scritto, “risarcimento” sia. Quindi i giudici di sorveglianza non potranno limitarsi ad accertare lo stato di detenzione nelle condizioni di cui al punto 2 ma dovranno accertare la sussistenza e la gravità del danno da questa derivante. Tutto questo moltiplicato per 50.000 più enne (per le procedure future). Ma questa gente lo sa quello che fa? 
4) Per i “risarcimenti” sono stati stanziati 20 milioni di euro. Che saranno del tutto inadeguati. Nel 2009 la Cedu ha condannato l'Italia a “risarcire” a tale Sulejimanovic (condannato a 2 anni e mezzo per rapina aggravata e altri reati) 1.000 euro per 4 mesi e mezzo trascorsi in una cella con spazio insufficiente; il che è prova evidente di quanto questo Dl sia inidoneo a schivare i fulmini della Ue. 
5) Ma la cosa che fa davvero... arrabbiare è la perdurante stupidità (o consapevole progetto criminoso, scegliete voi) della politica italiana. Secondo uno studio del Sappe (Sindacato di polizia penitenziaria), un carcere “leggero” da 600 posti, più che idoneo per la stragrande maggioranza dei detenuti (non sono tutti Totò Riina), costruibile in 4 mesi, costa meno di 20 milioni. E la Provincia di Bolzano (c’entrerà qualcosa il fatto che sono tedeschi?) ha avviato la costruzione di un nuovo carcere in project financing, che significa che sarà costruito e gestito da privati. Il contributo dello Stato sarà inferiore al 50%. Ha senso spendere soldi per “risarcire” i delinquenti invece che per tenerli in galera in condizioni – si capisce – adeguate a un Paese civile?

Repubblica 13.7.14
Equitalia si arrende dai grandi evasori solo 10 miliardi su 300
Appena il 3% delle richieste oltre 500 mila euro ha successo
di Fabio Tonacci


ROMA. I grandi evasori fiscali italiani dormono sereni tra due cuscini. Hanno sul groppone qualcosa come 300 miliardi di euro di tasse non pagate, eppure l’incubo del pignoramento, delle ganasce fiscali, delle ipoteche sui beni, non li riguarda. Vivono molto più tranquilli di chi, per caso o per crisi, ha dimenticato una multa da trenta euro. Perché Equitalia, a loro, non ci arriva. Non può, non ha i mezzi. E anche quando li sfiora, è troppo tardi: il capitale da aggredire per recuperare il credito dello Stato quasi sempre si è già volatilizzato.
Sono centomila i maxi evasori che hanno accumulato col Fisco un debito, secondo una recente stima documentata, superiore a 500mila euro: sono banche, società di assicurazioni, grandi e medie imprese, privati con fortune a 8 zeri che non hanno versato le imposte sui redditi o l’Iva. Più o meno è come se una città delle dimensioni di Ancona avesse evaso una cifra comparabile a una trentina di manovre finanziarie. Ebbene, di questo tesoro da 300 miliardi Equitalia dal 2006 ad oggi è riuscita a recuperare meno di 10 miliardi. E’ poco più del 3 per cento.
Questa cifra, da sola, racconta lo scarso successo, per non dire fallimento, dell’ente pubblico di riscossione dei tributi, controllato al 51 per cento dall’Agenzia delle Entrate e al 49 per cento dall’Inps. Forte con i deboli, dove è più facile incassare l’aggio della pratica risolta. Debole, debolissimo con i forti. E se il premier Matteo Renzi vuole davvero, come ha annunciato, dichiarare lotta dura ai grandi evasori, deve pensare a come riformare l’intero sistema dell’accertamento e della riscossione, di cui Equitalia è soltanto un ingranaggio.
Perché, è bene chiarirlo subito - non è che Equitalia non recuperi i miliardi degli “over 500mila” per scelta politica. È che non ce la fa proprio. È nata nel 2005 raccogliendo l’eredità delle vecchie concessionarie delle banche, che lavoravano poco e male: è impostata come una società privata, per cui deve coprire i costi di funzionamento con l’aggio, ma allo stesso tempo riscuote seguendo le regole pubbliche, dunque si deve necessariamente attivare di fronte a qualsiasi importo. «E però la legislazione attuale impone di usare gli stessi strumenti - ragiona una fonte qualificata interna a Equitalia - sia che si tratti di recuperare piccole somme, sia quando ci troviamo a dover riprendere crediti milionari. Sono strumenti a volte meno incisivi di quelli a disposizione dei riscossori privati».
Il risultato è riassunto in una tabella, che riporta i dati scorporati dell’attività dell’esattore di Stato. Dall’Agenzia delle entrate sono state trasmesse, dal 2000 al 2014, 70 milioni di richieste di pagamento per imposte sul reddito e Iva evase, per un totale di 550 miliardi. Il 75 per cento riguarda debiti inferiori ai 1.000 euro, e per questi Equitalia funziona: ne ha riscosso il 40 per cento, riportando all’Erario 4 miliardi di euro. Il 20 per cento sono cartelle con cifre da 1.000 a 10.000 euro, e già si rallenta: ne ha recuperate il 25 per cento, per circa 10 miliardi di euro. Ma è coi crediti superiori ai 10.000 euro (il 5 per cento del totale) che la riscossione si inceppa: mediamente ne riesce a incassare uno su cinque. Se la cifra supera il mezzo milione di euro, la percentuale di recupero scende sotto un irrisorio 2 per cento, nonostante sia in questo “stagno” il grosso dell’evasione fiscale italiana.
Chi viene beccato dall’Agenzia delle Entrate e si ritrova il proprio nome iscritto a ruolo, spesso mette in atto dei diversivi per evitare di dare quanto dovuto: dal fallimento preordinato, ai ricorsi alla giustizia tributaria, fino al diffusissimo metodo della sottrazione fraudolenta dei beni alla riscossione (col trasferimento all’estero o mediante intestazioni fittizie). Non è un caso che sui circa 700 miliardi di crediti di tutti i tipi affidati a Equitalia (dall’Agenzia delle Entrate, dall’Inps e dagli enti locali) l’80 per cento si riferisca a soggetti falliti o apparentemente nullatenenti. «La riscossione presupporrebbe indagini più approfondite - spiega ancora la fonte - nonché la collaborazione della Guardia di Finanza e la possibilità di controllare i conti correnti ». Altrimenti Equitalia rimarrà sempre, con i forti, un’arma spuntata.

l’Unità 13.7.14
Borghezio e Casapound
A Roma corteo contro l’accoglienza


Borghezio e CasaPound insieme in un corteo anti immigrati. L’esponente leghista e i fascisti del terzo millenio hanno girovagato per qualche ora tra le strade del centro storico della città. «Basta con gli insediamenti nomadi abusivi e con i nuovi centri accoglienza nei quartieri di Roma» è stato il leitmotiv del corteo organizzato proprio da CasaPound, in collaborazione con i comitati dei residenti di Settecamini e Ponte di Nona. Una manifestazione - hanno tenuto a precisare gli organizzatori - «non razzista», anche se ha scatenato polemiche già dai giorni scorsi, con esponenti di Sel e Pd capitolini che l’hanno definita «un’offesa a tutta la città» e hanno chiesto a prefetto e questore di vietarla. Il corteo di circa 200 persone è partito intorno alle 10.30 da piazza Esquilino e tra bandiere tricolore, cori contro il sindaco Marino, palloncini bianchi e striscioni come «Alcuni italiani non si arrendono», ha percorso via Cavour e via dei Fori Imperiali fino a piazza della Madonna di Loreto. A sfilare anche Fabrizio Ghera, capogruppo di Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale in Campidoglio. Ma a guidare il corteo, in prima fila, è stato l'europarlamentare ed esponente della Lega Nord Mario Borghezio. «Sono qui per sostenere tutti i cittadini che vogliono reagire all'invasione degli immigrati a Roma, perché questa città merita di essere difesa» ha detto il leghista annunciando: «La pace è finita, comincia la resistenza. Roma vuole tornare a essere pulita». Per questo Borghezio si è impegnato a tornare nella Capitale a fine mese e ha visitare «uno per uno tutti i quartieri colpiti dal problema». La prima tappa sarà Settecamini. La presenza del leghista, però, non è stata gradita da tutti e così, su via dei Fori Imperiali, c’è stato un breve siparietto con un anziano residente del Rione Monti. «Mettiti il Tricolore» ha detto l’uomo all’europarlamentare. E quando Borghezio si è avvicinato per stringergli la mano, ha insistito: «Non te la do finché non ti levi il fazzoletto verde e ti metti il Tricolore». Pronta la replica del politico che, prima di voltargli le spalle, gli ha risposto: «Me lo metto volentieri se mi dai il tuo, ma non ce l’hai neanche tu». «È davvero grave che sia stato autorizzato un corteo di una organizzazione di chiara ispirazione fascista nella Capitale d'Italia. Mi auguro che non si ripeta più un simile errore» ha dichiarato il vicesindaco di Roma Capitale Luigi Nieri.

Repubblica 12.7.14
Battaglia sulla Franzoni: “Torni in carcere”
“Beneficio possibile solo per chi ha figli più piccoli di 10 anni e il suo ne ha 11
La psicoterapia può iniziare dietro le sbarre”
di Luigi Spezia


BOLOGNA. Non c’è pace per Annamaria Franzoni. Sono trascorse appena due settimane da quando il Tribunale di Sorveglianza le ha concesso di uscire dal carcere e scontare in famiglia, nella sua casa di Ripoli sull’Appennino, i restanti anni di pena. «Spero che Annamaria Franzoni venga dimenticata», aveva auspicato il professor Augusto Balloni, il criminologo e psichiatra che con la sua perizia ha decretato l’uscita dal carcere della Dozza della donna condannata a 16 anni per aver ucciso il figlio Samuele. Non c’è «il rischio che si ripeta il figlicidio », aveva sostenuto l’esperto. Ma un reato così grave non fa stare tranquillo il magistrato dell’accusa Attilio Dardani che ha presentato, con l’avallo del nuovo procuratore generale di Bologna Marcello Branca, un ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale presieduto da Francesco Maisto. Chiede che la misura favorevole venga revocata.
C’era da aspettarselo, perché il procuratore Dardani, nella discussione in Tribunale, si era già battuto affinché Annamaria rimanesse in cella. Dalla parte della Franzoni c’erano 39 giorni di permessi già goduti, il lavoro esterno ottenuto, le relazioni positive degli assistenti sociali e una parte di pena già scontata che le dà diritto ad uscire di cella. Il procuratore si era opposto per due motivi, riproposti ora ai giudici di Cassazione, che decideranno nei prossimi mesi. Il primo motivo è che gli arresti domiciliari speciali, concessi ad Annamaria per stare accanto al secondo figlio Gioele di undici anni, non sono validi perché il figlio ha già compiuto dieci anni. Obiezione già respinta dal Tribunale nella sua ordinanza, laddove spiega che la misura è ammissibile perché quando venne fatta istanza per la concessione degli arresti domiciliari, il 10 giugno 2012, il figlio minore della Franzoni dieci anni non li aveva ancora compiuti. E inoltre esiste un sistema di proroghe. La seconda obiezione proposta dalla Procura generale è più di merito. Si tratta della psicoterapia che il professor Balloni «ritiene opportuna» per rimuovere disturbi di adattamento «con lo scopo di promuovere uno sviluppo e una crescita positiva della personalità e neutralizzare i rischi di future condotte devianti». Il procuratore Dardani ritiene che questa psicoterapia vada iniziata con Annamaria in carcere.
Così adesso la riacquistata libertà, pur con tutte le limitazioni - come andare a lavorare in città solo una volta la settimana e soprattutto non tornare più a Cogne, sulla scena del crimine - è di nuovo minacciata. Annamaria è risucchiata nel passato, dopo le prime giornate di vita normale a Ripoli, con i figli, il marito e la comunità parrocchiale che la protegge. Franzoni ha da poco festeggiato la maturità del figlio maggiore e passa molte ora in casa. Quando esce fa passeggiate, la spesa nell’unico negozio delborgo e cura i gerani.

Repubblica 12.7.14
Una politica per i poveri
di Chiara Saraceno


NEGLI anni della crisi il numero di coloro che si trovano in condizione di povertà assoluta, cioè impossibilitati a sostenere le spese necessarie alla sussistenza materiale, è raddoppiato, passando da 2,4 milioni di persone nel 2007 a 4,8 milioni nel 2012 (e non ci sono indicazioni tali da far ritenere che nel 2013 le cose siano andate meglio). Benché le differenze territoriali si siano ulteriormente allargate, con il Mezzogiorno sempre più impoverito, la povertà morde anche nel Centro-Nord.
L’aumento si è concentrato soprattutto tra minori e giovani, e tra le famiglie più giovani e con due o più figli. A differenza degli anni passati, infatti, anche un secondo (e non solo un terzo) figlio fa aumentare di molto il rischio di povertà, stante l’erosione, quando non la perdita tout court, dei redditi da lavoro di molti genitori. Viceversa, nonostante vi sia stato un aumento di povertà anche tra i più anziani, esso è stato contenuto, segnalando l’effetto protettivo della pensione (più sicura di un reddito da lavoro) e l’efficacia del mantenimento dell’indicizzazione per le pensioni più basse - di fatto l’unica politica di contrasto alla povertà effettuata in modo sistematico in questi anni.
Le altre sono state e sono invece occasionali, frammentate, rivolte a piccoli gruppi, mal disegnate e perciò inefficaci: dalla social card di 40 euro mensili destinata agli anziani sopra i sessantacinque anni e ai bambini sotto i tre, introdotta dall’ultimo governo Berlusconi, alla nuova social card di importo più consistente - dedicata alle famiglie con figli minori con stringenti requisiti sia di reddito sia di status occupazionale - destinata dapprima (con il governo Monti) alla sperimentazione in 12 città, allargata poi con gli stessi criteri, con i fondi europei, a tutti i Comuni del mezzogiorno e successivamente, con gli scarsi fondi messi a disposizione dal Governo Letta, a tutti gli ambiti territoriali. Un allargamento, per altro, che è stato bloccato dal cambio di governo. Quanto al bonus di 80 euro introdotto dal governo Renzi, il suo disegno esclude i poveri assoluti, dato che è destinato ai lavoratori a basso reddito, senza tener conto né del reddito, né dei carichi famigliari e senza affrontare la questione dell’incapienza.
Se questa tortuosa vicenda testimonia che la questione della povertà per lo meno è entrata nell’agenda politica dopo anni di assenza, accompagnata da un crescente impegno di spesa, ne testimonia anche la persistente marginalità. Con il risultato, documentato dal Rapporto sulle politiche contro la povertà in Italia negli anni della crisi, curato dalla Caritas insieme a diverse associazioni e presentato ieri, che tutte queste misure hanno scalfito poco o nulla l’iceberg della povertà assoluta, tanto più che contestualmente sono diminuite le risorse per le politiche locali.
Le informazioni necessarie per mettere a punto una buona politica di contrasto alla povertà assoluta sono ampiamente disponibili. A mancare non sono tanto le risorse economiche, pur notevoli, quanto la volontà politica di fare del sostegno a chi si trova in povertà una priorità dell’agenda politica. Lo insegna la vicenda del Sostegno di Inclusione Attiva, una misura non categoriale né sperimentale di reddito minimo integrato da servizi rivolta a tutti i poveri, fortemente sostenuta dal ministro Giovannini e dalla sottosegretaria Guerra nel governo Letta, bocciata da quello stesso governo che pure aveva approvato la più costosa cancellazione dell’Imu per un anno. Anche la Caritas e le associazioni che hanno collaborato al Rapporto sostengono la necessità di introdurre finalmente in Italia (l’unico paese della Ue, insieme alla Grecia, a non averla) una misura di questo genere al posto di misure frammentate e casuali.
È una questione di equità, di solidarietà sociale, ma anche di lungimiranza, per contrastare i processi in atto di marginalizzazione e la loro riproduzione da una generazione all’altra. Per altro, ce lo chiede anche l’Unione Europea, nelle sue Raccomandazioni del giugno scorso a margine al Piano nazionale di riforma. Insieme agli estensori del Rapporto anch’io mi chiedo se il contrasto alla povertà assoluta faccia parte dell’agenda del governo Renzi, in parallelo alla crescita dell’occupazione. Quando, e se, questa avverrà, infatti, è difficile che i primi a beneficiarne saranno i più vulnerabili e più poveri. Tanto più che molti tra loro hanno sì un lavoro, ma il reddito che ne traggono non è sufficiente a far fronte ai bisogni delle loro famiglie, neppure se ricevessero gli 80 euro.

Corriere 13.7.14
Stamina, i giudici e la scienza negata, per i medici una questione di coscienza
di Adriana Bazzi

La fantasia dei giudici, almeno di quelli che si occupano del caso Stamina, non ha limite. Ieri il Tribunale dell’Aquila ha designato, con nome e cognome, il capo dell’équipe che dovrà somministrare a Noemi, una bimba di due anni con una grave malattia neurologica, un trattamento con cellule staminali per il 25 luglio prossimo: il «capo» è Erica Molino, la biologa della Stamina Foundation di Davide Vannoni. Una biologa, non un medico.
Il Tribunale l’ha autorizzata a nominare i membri dell’équipe, a dettare le tempistiche e le modalità di esecuzione del trattamento agli Spedali Civili di Brescia. Nonostante tutto quello che si è detto e scritto sulla vicenda Stamina, dobbiamo prendere atto di alcune cose. I giudici (non tutti per la verità: a Torino Vannoni è stato rinviato a giudizio per tentata truffa) vanno avanti imperterriti sulla loro strada, «sposando» il metodo vannoniano e ignorando le indicazioni della comunità scientifica, contraria a questa terapia.
I politici, più volte chiamati in causa, se ne stanno più o meno lavando le mani. Gli Ordini dei medici si sono dimenticati che hanno il potere di radiare i professionisti che non rispondono alle regole deontologiche. Perché di questi tempi si stanno perdendo, in mille discussioni, sulla neonata revisione del Giuramento di Ippocrate. Ippocrate appunto, il medico greco che ci ha tramandato i principi che ancora oggi regolano la professione medica. Uno dei più importanti è: primum non nocere , non fare male al paziente. Oggi non si sa se la terapia con le staminali possa fare bene, ma nemmeno si sa se possa fare male (forse sì).
E ogni medico (dice Ippocrate) deve agire in scienza e coscienza. La scienza, in questa questione, è stata messa da parte, e allora si può fare appello solo alla coscienza. Se si può ricorrere all’obiezione di coscienza nel caso dell’aborto o della prescrizione di anticoncezionali, perché i medici non si dichiarano obiettori quando sono chiamati a eseguire passivamente ordini imposti dai magistrati e a sottostare ai diktat di psicologi (lo è Davide Vannoni, l’ideatore del metodo Stamina) e di biologi (la neonominata Erica Molino)? Una questione di coscienza. Ma anche di orgoglio professionale.

Repubblica 13.7.14
“Indesit è di famiglia non posso lasciare tutto agli americani”
Francesca Merloni, nipote di Vittorio, tiene la sua piccola quota “Resto sul territorio, se Whirpool mi farà uscire reinvestirò qui”
di Sara Bennewitz


MILANO. Francesca Merloni non ha accettato l’offerta di Whirlpool per Indesit Company. Si tratta di un gesto simbolico, per dare un segnale al territorio a cui è legata. Nessuna polemica, la primogenita di Francesco Merloni vuole solo dare una testimonianza di fiducia nel gruppo e nelle sue persone e insieme a loro ripartire per un nuovo inizio. Cugini e fratelli hanno fatto le loro scelte, ma lei vuole restare al fianco delle persone che hanno fatto grande l’azienda creata da suo nonno.
Perchè non ha venduto la sua quota di Indesit è una questione di prezzo o di principio?
«Nessuna delle due. Semplicemente non mi sono sentita di tagliare il cordone ombelicale con un’azienda che per la mia famiglia significa molto e per il territorio ancora di più. Premetto che di Indesit ho una piccola quota, mentre resto un socio importante di Ariston Thermo di cui sono anche un amministratore. Ma mio nonno Aristide ci ha insegnato che fare impresa è un lavoro collettivo, e io voglio restare vicina a Fabriano e alle persone che vi lavorano. Questa è una comunità speciale, lo scorso anno durante gli scioperi mi ha colpito una protesta degli operai che indossavano una maglietta con stampata su una foto di mio zio, con scritto Vittorio ci manchi sei uno di noi. E io voglio esserci... » Ma Whirlpool ha già comprato il controllo e a un certo punto potrebbe fondere la società italiana con quella americana costringendola a vendere comunque le sue azioni...
«Allora vorrà dire che reinvestirò su dei progetti per il territorio. Mi hanno insegnato che fare l’imprenditore è soprattutto questo, e che la creazione di valore sta nel capitale umano. Da sempre mettiamo cura e attenzione nel fare dei prodotti che sembrano gioielli, la gente li compra perché sono dei piccoli capolavori. Mio nonno reinvestiva tutto in azienda e ci ricordava che un giorno avremmo ereditato molto più che dei capannoni. Quando da bambina andavo in fabbrica con mio padre gli operai mi chiamavano per nome, ed era una cosa naturale.
Questi valori, che sono quelli di una comunità e di una famiglia che ha sempre avuto una grande etica del lavoro, ce li ho scritti sulla pelle. Anche per questo oggi sono qui a Fabriano a fare la mia parte».
E cosa ne pensa della scelta di un colosso come Whirlpool, che proietta il gruppo in una nuova dimensione internazionale?
«Sono sicura che nello scegliere il partner per accompagnare una nuova fase aziendale, siano state fatte valutazioni molto serie. Ugualmente sono fiduciosa che gli americani avranno cura di preservare i marchi l’eredità e le radici di un gruppo che ha riscosso tanti successi e a cui loro per primi hanno riconosciuto un importante valore.
Non dubito inoltre che per alcuni dei miei familiari vendere sia stata una scelta sofferta, ma ognuno è fatto a modo suo. E io vorrei restare azionista per dare una testimonianza e essere a disposizione del nuovo corso imprenditoriale per ripartire tutti insieme da un nuovo inizio».
Secondo lei in cosa ha sbagliato Indesit e come mai siamo arrivati a questo punto?
»E una bella domanda è non c’è una risposta univoca. C’è stata una concomitanza di fattori tra cui la dura crisi degli ultimi anni e la malattia di mio zio Vittorio hanno avuto un ruolo determinante per portare la famiglia a maturare questa decisione. Ma siccome la Indesit è stata un po’ anche la nostra famiglia, e ci hanno insegnato che stare insieme è il modo per combattere le avversità, io vorrei rimanere vicina all’azienda per vederla ripartire più forte che mai».

Repubblica 12.7.14
Indesit lava all’americana
I Merloni vendono il gruppo al colosso Usa Whirlpool
Il pacchetto di maggioranza passa di mano a 11 euro per azione
La famiglia incassa 758 milioni. I sindacati: tutelare i dipendenti
di Sara Bennewitz


MILANO. Margherita bye bye. La storica lavatrice a marchio Ariston che negli anni novanta è entrata nelle case di tutti gli italiani è stata appena acquisita dall’americana Whirlpool. Indesit Company, colosso europeo degli elettrodomestici nato a Fabriano intorno alla Ariston, entra così a far parte del colosso Usa che in Italia controlla già Ignis. La famiglia Merloni - che ha fondato il gruppo e che congiuntamente controlla il 60,8% del capitale ha accettato di vendere il pacchetto di maggioranza a 11 euro per azione (758 milioni in tutto), mettendo gli interessi dell’azienda prima del proprio tornaconto e rifiutando un’offerta ben più generosa, ricevuta dai cinesi di Sichuan. «La nostra priorità è stata identificare un partner che avesse le caratteristiche per continuare ad assicurare a Indesit e alle sue persone una storia di successo spiega Aristide Merloni, nipote del fondatore e figlio di Vittorio che ha trasformato un’azienda familiare in una multinazionale -. Whirlpool è un leader mondiale e un gruppo solido, che ha già dimostrato di saper valorizzare le competenze che il nostro Paese è in grado di esprimere anche attraverso un forte radicamento territoriale». Oltre agli eredi di Vittorio Merloni che gestiscono l’azienda e attraverso Fineldo hanno il 42,7% di Indesit, anche gli altri rami della famiglia come la sorella Ester (13,2%) e la nipote Claudia (4,4%) hanno ceduto le loro azioni a Whirlpool, rinunciando a spuntare un prezzo superiore, per assicurare al gruppo di Fabriano un futuro più brillante. Dal matrimonio tra Indesit e il colosso che capitalizza 11 miliardi di dollari, nascerà il leader europeo degli elettrodomestici con circa 5 miliardi di fatturato e una quota di mercato superiore a Bosch-Siemens. «Questa operazione posiziona il nostro business europeo su un percorso di crescita e di continua creazione di valore - ha spiegato Jeff Fettig, presidente e ad del gruppo Usa, che finora ha incontrato notevoli difficoltà a emergere nel Vecchio continente -. Un risultato che otterremo insieme a una società di riconosciuto standing come Indesit».
Nonostante le rassicurazioni di Whirlpool - che peraltro si è impegnata a investire altri 280 milioni in Italia - i sindacati ieri erano in allerta. «Esistono i presupposti perché l’acquisizione di Indesit da parte di Whirlpool - fa notare Rocco Palombella, segretario generale della Uilm - avvantaggi la società acquirente a scapito della acquisita». La Fiom esprime invece «preoccupazione» facendo notare come «non una parola riguardo i dipendenti, le produzioni, gli stabilimenti, gli uffici sia stata spesa nel comunicato che annunciava l’operazione». Il presidente delle Marche, Gian Mario Spacca, che aveva incontrato i vertici di Whirlpool, non si aspettava un’intesa a stretto giro, mentre il sindaco di Fabriano, Giancarlo Sagramola, ha richiesto il rispetto degli accordi presi a fine 2013 tra Indesit e i suoi dipendenti. E la vertenza firmata lo scorso dicembre, stabilisce che fino al 2018 non si può fare ricorso a nuove forme di licenziamenti collettivi, pertanto Whirlpool non potrà intervenire per almeno cinque anni. Fatte queste premesse resta l’amarezza che una grande azienda italiana, che negli ha collezionato successi e riconoscimenti sia in termini di brevetti che di design, non è riuscita a mantenere il passaporto italiano.
In Borsa, le azioni (in rialzo del 3%) si sono adeguate ai valori dell’Opa che l’azienda Usa si è impegnata a lanciare allo stesso prezzo riconosciuto al 60,4% posseduto dai Merloni, ma nessuno festeggiava. «Nè la famiglia Merloni né il cda di Indesit avrebbero mai accettato un’offerta ostile a 11 euro fa notare un investitore - non si tiene conto del premio di controllo e per vendere hanno scelto un momento di estrema debolezza, senza guardare alle prospettive attese per il 2015». Vero perché tra debiti e capitale Whirlpool ha valutato Indesit solo 1,5 miliardi, la metà del suo fatturato e meno degli investimenti fatti negli ultimi anni dal gruppo per ammodernare gli stabilimenti in Italia, Inghilterra Polonia e Russia.

Repubblica 12.7.14
Cade l’ultimo baluardo del capitalismo familiare soldi esteri ma imprese salve
di Roberto Mania


ROMA. Per fare i capitalisti bisogna avere i capitali. Gli italiani non hanno più i capitali e non possono più fare i capitalisti. Così scompare l’imprenditoria italiana, più che l’industria tricolore. Perché l’Indesit resterà a Fabriano anche se a comandare non sarà più la famiglia Merloni ma i manager della multinazionale a stelle e strisce della Whirpool che in pancia ha già l’italico marchio dell’Ignis fondata nel 1946 dal “cumenda” Giovanni Borghi. Storie di altri tempi, dell’epopea del capitalismo familiare italiano che è crollato alla prova con il capitalismo globalizzato. Di quel capitalismo che negli anni Ottanta conobbe la stagione del riscatto dei piccoli e medi imprenditori. Ne fu il simbolo proprio Vittorio Merloni che conquistò il vertice di Confindustria dopo le presidenze di Gianni Agnelli e Guido Carli. Quella storia è finita. Dice Giuseppe Berta, studioso dell’industria all’Università Bocconi di Milano: «Il nostro Paese non ha saputo attrarre investimenti su attività proprie, ora li attrae cedendo. Ma questa è anche l’ultima possibilità che abbiamo per mantenere un presidio manifatturiero ». O gli stranieri o la morte, dunque.
I soldi stranieri (“pecunia non olet”, si sa) scalzano le traballanti proprietà italiane. Ma le fabbriche e il lavoro, in genere, restano. È già successo con il Nuovo Pignone comprato dagli americani della General Electric, con Valentino che appartiene a un emiro del Qatar, con la Ducati che fa parte del gruppo tedesco Volkswagen, dei Baci Perugina marchio della multinazionale svizzera Nestlé mentre i cioccolatini Pernigotti sono dei turchi di Toksoz. Parmalat è francese e Loro Piana pure. Se l’è presa il colosso del lusso Lvmh che controlla anche Emilio Pucci, Acqua di Parma e Fendi. L’Alitalia sarà araba, eppure l’armata dei “volenterosi” convocati da Silvio Berlusconi una chance per dimostrare di essere imprenditori l’aveva avuta a sappiamo come l’ha sprecata pensando ad altro. Nemmeno la Fiat è più italiana, è diventata apolide, ha cambiato nome (Fca) dopo la fusione con l’americana Chrysler, è una società di diritto olandese che paga le tasse in Gran Bretagna ed è quotata a New York.
I capitalisti italiani sono anonimi, senza blasone. Basta assistere ad una convention di Confindustria per capirlo. Gli Agnelli, dopo la morte dell’Avvocato e del fratello Umberto, è come se non ci fossero più: Sergio Marchionne è la Fca, non gli Elkann. Pirelli è una public company con i russi di Rosneft destinati ad avere un ruolo di primissimo piano. I Benetton si sono rifugiati nelle concessioni pubbliche decennali dai rendimenti garantiti. Capitalismo? I vari Arvedi e Marcegaglia aspettano le mosse del gigante indiano di Arcelor-Mittal per provare a mettere anche le loro manine sull’Ilva dei Riva, padroni di un’altra epoca. Bene che vada i siderurgici italiani faranno da comprimari. Perché i soldi ce l’hanno gli altri. Come i cinesi di Shanghai Electric che per 400 milioni si sono comprati il 40 per cento di Ansaldo Energia. E per Ansaldo Breda e Ansaldo Sts ci sono gli interessamenti dei francesi di Thales e dei cinesi di China Cnr. E cinese e anche Krizia. Hanno respinto gli attacchi della Nestlé i Ferrero. Ma per quanto ancora la proprietà della Nutella rimarrà italiana? Vedremo. C’è ancora Luxottica di Leonardo Del Vecchio che unico nell’establishment, seduto su una montagna di euro, ha potuto permettersi, dopo le ultime elezioni, di non chiudere provocatoriamente la porta all’ipotesi di un governo-Grillo.
La verità è che diventare stranieri non fa affatto male ai brand del made in Italy. Una ricerca di Prometeia, commissionata dal ministero dello Sviluppo economico, dimostra che le 500 aziende italiane finite in mano a gruppi stranieri negli ultimi dieci anni hanno aumentato il fatturato (+2,8 per cento), la produttività (+1,4 per cento) e anche l’occupazione (+2 per cento). «Si tratta di numeri assolutamente non sorprendenti», sostiene Carlo Calenda, vice ministro dello Sviluppo con delega alla internazionalizzazione. «I Paesi che crescono di più, che hanno minore disoccupazione, che riescono a sfruttare le occasioni presenti nell’economia globale - spiega - sono anche quelli in cui maggiori sono gli investimenti esteri. Ci sono tanti tipi di investimenti stranieri, tra cui l’acquisizione di imprese è quello prevalente nelle economie mature. L’Italia negli ultimi cinque anni, purtroppo, è stata fanalino di coda anche in questo campo: i flussi di ingresso sono stati pari a solo il 3,8 per cento del Pil, rispetto al 5,4 per cento della Germania e al 4,8 per cento della Francia. La mancanza di investimenti esteri è una delle cause dirette della crisi economica».
Ma è con la mancanza di nuovi capitalisti che dobbiamo cominciare a fare i conti. Serve una nuova cultura imprenditoriale che si misceli con quella degli altri Paesi, che accetti i manager e li scelga non per fedeltà (come dimostra una recente ricerca della Fondazione Debenedetti) ma per capacità, che si liberi dalla dipendenza dalle banche, che accetti i passaggi generazionali solo quando gli eredi lo meritano, che sappia investire in innovazione e in formazione. A quando un mea culpa di quel che fu il capitalismo italiano?

Repubblica 13.7.14
Rifiuti a Roma, multe anti caos i manager controllano i cassonetti
di Mauro Favale


ROMA. Il punto di non ritorno sono stati quei maiali fotografati, subito dopo Natale, mentre rovistavano tra la spazzatura a Boccea, periferia ovest della capitale. Per cercare di invertire una china che sta mettendo seriamente in crisi la sua immagine, sette mesi dopo Ignazio Marino ha messo in piedi un piano che, promette, «in 10 giorni riporterà la situazione alla normalità e entro fine mese risolverà l’emergenza per sempre». Per riuscire dove finora l’Ama (la municipalizzata dei rifiuti) ha fallito, i dirigenti non andranno in ferie. «Finché la città non sarà linda e pulita », ha assicurato il sindaco.
Anziché al mare passeranno luglio e agosto per strada, vicino ai cassonetti, insieme a un centinaio di “controllori” chiamati a verificare la qualità del servizio. Ma non solo. Perché Marino per cancellare le quotidiane immagini dei rifiuti per strada sotto al sole dell’estate chiede la «partecipazione dei romani »: non dovranno semplicemente segnalare le situazioni «anomale» sul sito del Campidoglio. Dovranno anche rispettare «le regole di conferimento». Pena una sanzione di un centinaio di euro che saranno proprio i 100 controllori a comminare.
Niente più frigoriferi o televisori abbandonati accanto ai cassonetti e niente più, si spera, sacchetti buttati per strada perché i bidoni sono ormai stracolmi. Per svuotarli più rapidamente ogni municipio avrà a disposizione 2 squadre H24 per gli interventi speciali oltre a un nuovo impianto (preso a noleggio dalla municipalizzata bolognese Hera) per trattare la spazzatura e spedirla poi fuori regione, come succede dal 1 ottobre 2013, da quando è stata chiusa la mega discarica di Malagrotta.
Al di là del cronico deficit sugli impianti, però, nell’ultimo periodo a finire sotto accusa è stata proprio la “prima linea”, gli operatori Ama addetti a una raccolta che troppo spesso funziona a singhiozzo. Su di loro il garante degli scioperi ha puntato il dito e la procura ha aperto un’inchiesta (senza indagati né ipotesi di reato) per verificare, a seguito di un esposto del Codacons, l’ipotesi di un boicottaggio interno dopo il taglio degli straordinari. Il presidente dell’azienda, Daniele Fortini, nega questa possibilità e ieri ha siglato un’intesa con i sindacati contro l’assenteismo che ha raggiunto punte del 18%. Ora bisognerà vedere come reagiranno i romani davanti ai cento controllori (con potere di multa) dopo che ultimamente, come ha denunciato Fortini, già gli operatori sono stati «oggetto di ingiurie da parte di cittadini forse esasperati ».
Marino, intanto, punta tutto sul suo piano straordinario per recuperare consenso e scacciare il suo incubo: Roma invasa dai rifiuti durante gli eventi organizzati per il semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea.

Repubblica 12.7.14
Ucraina nel sangue Poroshenko minaccia “Ogni soldato ucciso a morte dieci ribelli”
di Paolo G. Brera


IL SOGNO di avviare un vero processo di pace in Ucraina è affogato ieri mattina nel sangue di decine di soldati di Kiev, uccisi in un attacco notturno da una pioggia di granate. La «disponibilità immediata » a «un cessate il fuoco bilaterale», ribadita martedì dal presidente Petro Poroshenko al ministro degli Esteri Federica Mogherini, è stata sepolta ieri dallo stesso Poroshenko con parole di fuoco: «Per ogni militare ucciso, i ribelli pagheranno con decine e centinaia di vite. Li troveremo e li annienteremo: nessun terrorista se la caverà, avranno quello che meritano».
Poco prima che sorgesse l’alba un lanciamissili a testata multipla BM-21 “Grad”, un’arma potente e precisa di produzione russa, ha ucciso in un solo attacco una ventina di soldati ucraini nel villaggio di Zelenopillya, a pochi chilometri dalla frontiera con Mosca che Kiev tenta di presidiare, ferendo quasi cento militari. Secondo il ministero dell’Interno, i ribelli «hanno sparato da una distanza di circa 15 chilometri ». Le fotografie della fila di blindati distrutti non può rendere il racconto della paura e dell’orrore dei sopravvissuti, del sangue e del fuoco che in pochi istanti ha avvolto l’accampamento.
La tensione crescente dopo la riconquista di Sloviansk e Kramatorsk e l’avanzata progressiva verso Lugansk e Donetsk, il capoluogo del ricco Donbass che i soldati di Kiev stringono in assedio per fiaccarne la resistenza, ha raggiunto un livello esplosivo. L’esercito ucraino sta cercando di bonificare la regione dalle milizie armate dei ribelli, ma l’operazione è complicatissima: molti “filorussi” sono ragazzi e uomini dei villaggi e delle città del Donbass tornati semplicemente a casa, ancora armati e pronti a combattere. Gli scontri, le bombe niente affatto intelligenti e i morti sono all’ordine del giorno: ieri è toccato a quattro minatori vicino a Lugansk, morti su un bus centrato da un colpo d’artiglieria; e ad altre quattro persone uccise da un ordigno in una clinica oncologica.
Nel frattempo, il quartier generale dei ribelli a Donetsk cerca di mantenere attiva l’osmosi di armi a aiuti che palesemente arrivano dalla Russia, anche se Mosca nega ufficialmente qualsiasi coinvolgimento. Tre posti di frontiera sarebbero ancora nelle mani dei ribelli, e proprio il controllo della linea di frontiera condiviso dai soldati di Kiev e Mosca è uno dei punti critici del piano di pace, affievolito dalle bombe.
Il “Fronte di liberazione russo”, uno dei corpi in cui si frastaglia la galassia dei “filorussi”, ha pubblicato un elenco di 15 giornalisti e editori ucraini condannandoli a morte «per avere scritto bugie sulla lotta di liberazione nel Donbass sotto dettatura dell’Occidente corrotto». Una minaccia che l’Osce definisce «molto preoccupante», così come quella provocata dai «continui attacchi dei separatisti contro i canali televisivi di Lugansk e della Crimea». L’agonia del Donbass è straziante: con la stampa sotto bavaglio, le granate e le bombe fanno tacere la politica. Anche ieri Poroshenko ha confermato ad Angela Merkel la disponibilità a un cessate il fuoco bilaterale, ma a condizioni che i ribelli hanno sempre respinto. E la Ue ha esteso ad altri 11 “filorussi” le sanzioni.

Repubblica 12.7.14
Navajo e speculazione la doppia minaccia al mito Grand Canyon
di Alberto Flores D’Arcais


NEW YORK. La minaccia è duplice: da una parte gli indiani Navajo, dall’altra un gruppo immobiliare (sostenuto da una finanziaria italiana). Oggetto del contendere una delle sette meraviglie del mondo (naturale), una delle mete turistiche più affascinanti, emozionanti e battute al mondo: il Grand Canyon.
«È la più grave minaccia della storia», urla (un po’ retoricamente) dalle pagine del Los Angeles Times Dave Uberuaga, il sovrintendente del Grand Canyon National Park. Dal Mohave Point, il punto di osservazione sul bordo Sud del parco, lì dove ogni giorno si accalcano turisti di ogni risma e paese, in un prossimo futuro si potrebbe in effetti vedere (al posto della meravigliosa vista che si allunga tra le rocce fino al fiume Colorado) uno sciame di costruzioni. Alberghi, ristoranti e negozi uno in fila all’altro lungo la “mesa”, l’altopiano che porta alla riserva Navajo. Oppure una moderna teleferica che trasporti i turisti dal basso in alto e viceversa.
I progetti su cui è stato lanciato l’allarme sono due, non collegati tra loro né come idea né finanziariamente. La teleferica nasce dall’immaginazione dei moderni pellerossa di una delle più famose tribù di “nativi americani” (il termine politicamente corretto con cui vengono oggi chiamati gli indiani dei western). La “Grand Canyon Escalade” dovrebbe portare i turisti (sono cinque milioni all’anno) - che oggi si limitano in stragrande maggioranza ai posti di osservazione - fino alla base del Canyon, facilitando una discesa (e soprattutto una risalita) attualmente possibili solo a piedi o a dorso di mulo. A chi li critica i Navajo rispondono portando l’esempio della tribù rivale degli Hualapai, sulla cui terra (nella parte occidentale del Grand Canyon) è stato costruito un popolare “skywalk” (il sentiero con vetrate a strapiombo) e che dal 2007 offrono ai turisti un tour in elicottero per atterrare nella loro riserva. Con la teleferica c’è un po’ di differenza, ma l’argomento non manca di una certa ragione.
Il secondo progetto vede invece protagonista lo Stilo Development Group, una società di costruzioni (fa capo al Gruppo Percassi di Bergamo) con sedi in Italia e negli Stati Uniti. Che prevede la costruzione di 2.200 abitazioni e circa 300mila metri quadrati di spazi commerciali nel piccolo villaggio di Tusayan (Arizona), una comunità di 558 anime (censimento del 2010), la cui grande fortuna è quella di essere stato costruito proprio all’ingresso sud del Grand Canyon. Tom De Paolo e i suoi partner della Stilo sono più di vent’anni (per l’esattezza dal 1991, quando iniziarono a comprare in modo meticoloso i terreni privati vicino alla Kaibab National Forest) che provano a costruire all’interno del Grand Canyon. Bloccati per due decenni, a causa delle scarse fonti idriche della zona, adesso stanno per vincere la loro battaglia.
Ecco spiegato l’allarme di Dave Uberuaga. I due possibili eventi, messi assieme, rischiano di alterare il celebre panorama e di mettere in pericolo il fragilissimo ecosistema di una delle meraviglie del mondo: il tutto mentre la zona sta attraversando la peggior siccità degli ultimi cento anni.

La Stampa 12.7.14
Cuba, la "rivoluzione" è dei cristiani: dopo 55 anni nasce la prima chiesa
Lo riferisce L’Osservatore Romano. Sarà edificata a Sandino, dove un tempo il regime comunista relegava gli oppositori
di Domenico Agasso Jr
qui

Corriere 13.4.14
Bruxelles e quella Commissione affidata a un camerata neonazista
di Luigi Offeddu

Benvenuti nel Parlamento della nuova Europa. Dove, nella commissione Libertà civili, siederà per i prossimi 5 anni il camerata Udo, uomo di rari dubbi: Adolf Hitler fu per lui «un grande uomo di Stato», Rudolf Hess merita il premio Nobel postumo, e l’Olocausto avrà ucciso «al massimo 340 mila ebrei». In 22 mila manifesti elettorali, Udo è comparso in giubbotto nero, sulla sua moto, con la scritta a caratteri cubitali «Dare GAS», che molti dalla memoria lunga non hanno gradito.
Udo Voigt, 62 anni, da Viersen in Germania, iscritto dai 16 anni all’Npd o Partito nazionaldemocratico che raccoglie i neonazisti tedeschi, e presidente dello stesso dal 1996 al 2011, entra all’Europarlamento avendo conquistato l’1% dei voti nel suo Paese. Con il motto «faremo saltare l’Ue dal di dentro». E con una certezza: tutti devono «inchinarsi davanti ai valorosi soldati della Werhmacht, e delle SS».
Nella commissione Libertà civili, starà con altri 59 fortunati. Voigt è un «non-iscritto», uno di quelli rimasti fuori dagli 8 gruppi politici appena costituiti: Marine Le Pen non l’ha voluto neppure incontrare. E Martin Schulz, presidente tedesco dell’Europarlamento, non usa giri di parole: «Non c’è posto in questa assemblea per i razzisti e gli antisemiti». Un posto invece c’è, e anche comodo: una commissione delicata, che offrirà a Voigt un palco da cui planare sui teleschermi d’Europa. Non gli manca la facilità di parola. Quando gli è stata chiesta ragione di suoi lugubri manifesti elettorali ha risposto soave: «Che c’è di strano? Sono un appassionato motociclista. E intendo entrare in Parlamento a tutto gas». Dal nuovo scranno potrà anche ribadire i principi già declamati negli anni: «soldi per la “nonnina” tedesca, non per i Rom», o «vogliamo un’Europa delle patrie, non sotto la bacchetta dei dittatori di Bruxelles». Ora, però, a Bruxelles e accanto a quei «dittatori» con la bacchetta, siederà anche lui. Non risulta, per ora, che intenda devolvere alle «nonnine» tedesche lo stipendio da eurodeputato — notoriamente non un obolo da mendico — o il gettone riservato ai membri delle commissioni.

Repubblica 13.4.14
Diritto d’untore
Confessione di uno scrittore semifallito sul degenerare della lingua
Ho assistito senza poter far nulla al progressivo decadimento dell’italiano vivente
di Guido Ceronetti


Ho assistito senza poter far nulla al progressivo decadimento dell’italiano vivente
LA CONFESSIONE più attesa dell’anno, invano: uno scrittore dalla carriera ramificata e contundente che si dichiara pubblicamente fallito. Ho buone ragioni per dirlo, ma rettifico subito: non mi ritengo completamente fallito. In che cosa mi possa dire riuscito è aldilà della linea d’ombra; posso invece illuminare bene l’immenso del mio fallimento parziale. Godi del tuo semifallimento, direbbe compiaciuto e approvante il collega di Venosa di Puglia Orazio Flacco, noto tra i giovani dello smart per aver lanciato tra gli italofoni futuri l’espressione carpe diem. Con penuria degli uni e scarsezza dell’altro dirò che non si tratta di soldi, né di successo; lasciamoli fuori da questa sagra dell’ideale.
Il mio essenziale fallimento consiste nell’aver assistito, senza poter far nulla per impedirla, alla progressiva degenerazione della lingua italiana vivente, la scritta e la parlata. Forse, pubblicando un libro di eccezionale bellezza eppure in grado di attrarre all’incirca venti milioni di lettori, svogliati perfino a leggere un quotidiano contenente su mezza colonna il proprio necrologio, avrei imposto un rallentamento alla patologia incurabile della lingua italiana?
NON aver rimorsi, anche l’italiano è mortale; tu non potevi fare che quello che hai fatto, e che qualche onesto letterato ti riconosce... L’impossibile perde! - Ma se incessantemente, proprio come un rimorso (o un vizio assurdo), implacabilmente, io percepisco i Tre Punti-Tre linee-Tre punti emessi di continuo dalla lingua italiana che muore? - Lascia perdere, povero vecchio, ci sono ben altri problemi... - S. O. S., S. O. S., S. O. S... . Non c’è analfabeta o rincoglionito al mondo che non comprenda il significato di questo Saveoursouls, segnale cosmico delle grandi agonie. Se la lingua nella quale ho scritto pensato parlato amato mi manda questa sua emissione vocale di ferita, non le porterò aiuto? Qui sta il mio fallimento: l’impossibile non mi è diventato possibile, morirò e la lingua seguiterà a gridare soccorso fino allo spegnimento.
Adesso non vedo che il mio fallimento, nei secoli ricorderò di averla adoperata bene.
È vero che incalcolabili sono le sconfitte nobili della parola. Semifalliti potrebbero oggi confessarsi tutti gli ascrittori israeliani che si sono impegnati con la parola scritta e l’esempio politico nel disperato contrasto al drago della guerra permanente che ha i denti piantati nei minuscoli spazi territoriali dell’Erez e in quelli irrisolti dei suoi vicini senza terra né acqua. La pace irraggiungibile, tragicamente frustrata sempre, como el toro burlado, como el toro, dev’essere per loro un tormento indicibile. Ma la parola, di regola, è fallimento d’uomo - meteora caduta - nelle sue guerre contro il male.
La perdita di lingua, spregevolmente prostituita all’angloamericano, resa astrazione immonda dall’abbandono della scrittura manuale, è associabile ad un altro mio fallimento: allo scempio ambientale, planetario, e qui da noi dove si consuma lo scempio criminale dell’ambiente vitale e del paesaggio italiano. Nella geniale, grande poetessa del Secolo Crudele Wislawa Szymborska, non c’è il paesaggio naturale, e sono vaghe metafore di riferimento e sostegno metafisico nei versi di Paul Celan. Così nei miei: tutto è occupato dal destino umano, era come vivessi di fatto già in un deserto di sterminate urbanizzazioni, dove alberi e cieli tersi piangono la loro tristezza di angeli feriti.
C’è una significativa correlazione tra la penuria mentale e culturale di generazioni intere delle nostre classi dirigenti e governative e la perdizione simultanea di lingua, di ambiente, di biosfera e di luce intellettuale. Nel loro farneticare perpetuo di allucinati della necroeconomia, in realtà la vita non esiste, il contatto con la realtà di pena dell’essere non esiste, e ogni parola è sprecata.
Com’è possibile che importanti giornali seguitino a traslitterare la notissima parola araba alqàida (la Base), come al-Qaéda, che è pronuncia perfettamente folle? Perfino il corrispondente della Radio24 da New York pronuncia imperterrito Qaéda! Ma è uno dei miei cento e cento fallimenti non essere neppure udito quando seguito a ripetere di non ricadere in quel madornale errore. C’è qualcosa di più triste, in cui ha inciampato addirittura un Papa... La Messa tridentina in latino, che cercò invano di rimettere in uso, con un motu proprio, Benedetto XVI. Di questa sconfitta liturgica fondamentale, che svegliava i furori di Cristina Campo, insieme ai miei, ai tempi della riforma conciliare, ho scritto il meglio delle mie deplorazioni. Quello fu harakiri del Sacro, come se una banda di talebani avesse mitragliato e frantumato la Pietà Rondanini. Eccola là, in frantumi, la Messa in latino con le sue ali di condor del Gregoriano, sostituito da cori e coretti da pollaio. Ma tutta la latinità mi è patria spirituale, getto strida assistendo ai suoi sinistri sradicamenti.
Getto strida anche per il greco, pronunciato in un modo, quando se ne sappia un poco, che avrebbe fatto vomitare Foscolo e Tommaseo. Tutti in Grecia! E poi, ma guarda, quando dicono una parola, quelli là non ti capiscono! Un altro non piccolo fallimento: l’orrida lettura, bestialmente insegnata dai lezionanti, e accolta dai citanti, e dai viaggiatori umiliati, trionfa tuttora nelle scuole del classico superstite! C’era soltanto Filippo Maria Pontani che leggeva come si deve, padroneggiando moderno e classico con la stessa sicurezza.
Di tanta (a volte mi sembra enorme) fatica, che cosa mi resta, nella più triste epoca della vita? Quel che dice una bellissima parola neoellenica, in un verso di Giorgio Seferis: monaxià ( solitudine).
L’originale classico è in più varianti, che indicano l’unicità, vita monastica, eremitica, solitaria (però volontaria), monogamia, monomania, monoteismi... Monaxià è tremendamente attuale, è urbano, disperato, assoluto, non c’è rimedio: Là, da cui siamo partiti Siamo tornati: a quanto c’è di più solo ( monaxià).
Un pugno di nulla in un cavo di mano vuoto.
..... Monaxià monaxià... Solitudine, solitudine...

Corriere 13.7.14
L’exploit dei miliardari che dà ragione a Piketty
di Stefano Montefiori

PARIGI — «Non ci sono mai stati così tanti miliardari in Francia». Il titolo della rivista economica Challenges , che ha pubblicato la sua 19esima classifica annuale delle più grandi fortune francesi, fa impressione nei giorni in cui la disoccupazione continua ad aumentare, il ministro dell’Economia vara l’ennesimo piano per il potere d’acquisto delle classi medie impoverite, e ai cittadini si chiedono sacrifici sicuri e immediati in vista di un risanamento futuro e incerto.
«Non è che Piketty aveva ragione?», si chiedono la rivista e pure il Financial Times , che qualche settimana fa aveva contestato le cifre alla base del «Capitale nel XXI secolo», la monumentale opera dell’economista francese Thomas Piketty. Uscito quasi in sordina in Francia, accolto come un capolavoro da molta critica americana, il saggio di 1.000 pagine di Piketty (in Italia uscirà a settembre per Bompiani) denuncia il ritorno del capitalismo attuale a una fase ottocentesca di gigantesche diseguaglianze, provocate da accumulazione e rendita che, pur essendo fattori improduttivi, allo stato attuale contano più del lavoro e del talento.
I dubbi sul libro di Piketty riguardavano alcuni dati e l’impostazione — tacciata di essere «neomarxista» da alcuni commentatori, soprattutto in patria — più che la constatazione che le disparità aumentano. Comunque l’indagine di Challenges rafforza gli argomenti e la centralità del problema. Se prendiamo la Francia, secondo Piketty l’1% più benestante della popolazione detiene oggi il 25% della ricchezza nazionale, contro il 23% nel 1970. E le cifre della rivista indicano che il totale dei primi 500 patrimoni francesi è aumentato di oltre il 15% nel 2013, toccando quota 390 miliardi di euro.
I miliardari sono 67, ovvero 13 in più che un anno fa , e circa il doppio rispetto al 2008, anno al quale si fa risalire l’inizio della crisi finanziaria ed economica. Una settimana fa, l’Insee (l’istituto nazionale di statistica) ha pubblicato una ricerca che va nello stesso senso: lo 0,01 più ricco di Francia ha visto il suo reddito crescere in modo spettacolare, + 20%, negli ultimi due anni, quelli della crisi più profonda per il resto della popolazione.
Le cifre sulla nuova diseguaglianza francese arrivano proprio nel momento in cui il presidente Hollande sembra tentato dal cambiare politica e abbassare il peso fiscale. I primi due anni all’Eliseo sono stati segnati da una misura simbolica e contestata come la tassa del 75% sulla parte di reddito superiore al milione di euro, norma peraltro bocciata alla fine dal Consiglio costituzionale e trasferita dai privati alle aziende. Nelle ultime settimane il nuovo primo ministro Manuel Valls ha annunciato una riduzione delle tasse soprattutto per le famiglie, e in generale il clima è cambiato: Hollande non dice più «il mio nemico è la finanza», e il ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, semmai lo corregge proclamando «il nostro unico nemico è il conformismo», e promette una nuova politica di sostegno alle aziende.
Difficile quindi che venga ascoltato l’appello di Piketty a tassare di più i molto facoltosi per ridurre le disparità. D’altra parte, il ministro delle Finanze Michel Sapin ha appena confessato di non avere letto il suo libro, «troppo voluminoso, troppo pesante, non fa per me». In attesa di una miracolosa ripartenza dell’economia a beneficio di tutti, non può lamentarsi intanto Bernard Arnault, presidente del gruppo del lusso LVMH. La sua domanda di nazionalità in Belgio è stata respinta, continua a risiedere e a pagare le tasse in Francia, ma resta l’uomo più ricco del Paese e d’Europa: una fortuna di 27 miliardi di euro nel 2013, ovvero 2,7 miliardi in più rispetto all’anno prima.

Repubblica 13.4.14
Il Papa: "Come Gesù userò il bastone contro i preti pedofili"
Colloquio con il Pontefice: "La pedofilia è una lebbra che c'è nella Chiesa e colpisce anche i vescovi e i cardinali"
di Eugenio Scalfari


SONO le 5 del pomeriggio di giovedì 10 luglio ed è la terza volta che incontro Papa Francesco per conversare con lui. Di che cosa? Del suo pontificato, iniziato da poco più di un anno e che in così breve tempo ha già cominciato a rivoluzionare la Chiesa; dei rapporti tra i fedeli e il Papa che viene dall’altra parte del mondo; del Concilio Vaticano II concluso 50 anni fa solo parzialmente attuato nelle sue conclusioni; del mondo moderno e la tradizione cristiana e soprattutto della figura di Gesù di Nazaret. Infine della nostra vita, dei suoi affanni e delle sue gioie, delle sue sfide e del suo destino, di ciò che ci aspetta in uno sperato aldilà o del nulla che la morte porta con sé.
Questi nostri incontri li ha voluti Papa Francesco perché, tra le tante persone di ogni condizione sociale, di ogni fede, d’ogni età che incontra nel suo quotidiano apostolato, desiderava anche scambiare idee e sentimenti con un non credente. Ed io tale sono; un non credente che ama la figura umana di Gesù, la sua predicazione, la sua leggenda, il mito che egli rappresenta agli occhi di chi gli riconosce un’umanità di eccezionale spessore, ma nessuna divinità.
“La corruzione di un fanciullo è quanto di più terribile e immondo si possa immaginare, e questi fatti succedono anche in famiglia “
Sulle processioni e gli inchini ai boss troppi sacerdoti sorvolano sulla mafia ma cambierà e la nostra denuncia sarà costante contro questo male “
Il celibato nella Chiesa fu stabilito nel X secolo, il problema esiste ma non è di grande entità e le soluzioni con il tempo le troveremo
IL PAPA ritiene che un colloquio con un non credente siffatto sia reciprocamente stimolante e perciò vuole continuarlo; lo dico perché è lui che me l’ha detto. Il fatto che io sia anche giornalista non lo interessa affatto, potrei essere ingegnere, maestro elementare, operaio. Gli interessa parlare con chi non crede ma vorrebbe che l’amore del prossimo professato duemila anni fa dal figlio di Maria e di Giuseppe fosse il principale contenuto della nostra specie, mentre purtroppo ciò accade molto di rado, soverchiato dagli egoismi, da quelle che Francesco chiama “cupidigia di potere e desiderio di possesso”. L’ha definito in una nostra precedente conversazione “il vero peccato del mondo del quale tutti siamo affetti” e rappresenta l’altra forma della nostra umanità ed è la dinamica tra questi due sentimenti a costruire nel bene e nel male la storia del mondo. È presente in tutti e del resto, nella tradizione cristiana, Lucifero era l’angelo prediletto da Dio, portatore di luce fino a quando non si ribellò al suo Signore tentato di prenderne il posto e il suo Dio lo precipitò nelle tenebre e nel fuoco dei dannati.
Di queste cose parliamo, ma anche degli interventi del Papa nelle strutture della Chiesa, delle avversità che incontra. Debbo dire che oltre all’estremo interesse di queste conversazioni, in me è nato un sentimento di affettuosa amicizia che non modifica in nulla il mio modo di pensare ma di sentire, quello sì. Non so se sia ricambiato, ma la spontaneità di questo assai strano successore di Pietro mi fa pensare di sì.
Ora lo sto aspettando da qualche minuto nella piccola stanza al pianoterra di Santa Marta dove il Papa riceve gli amici e i collaboratori. Lui arriva puntualissimo senza nessuno che l’accompagni. Sa che ho avuto nei giorni scorsi qualche problema di salute e infatti mi chiede subito notizie in proposito. Mi mette la mano sulla testa, una sorta di benedizione, e poi mi abbraccia. Chiude la porta sistema la sua sedia di fronte alla mia e cominciamo.
*** Pedofilia e mafia sono i due temi sui quali Francesco è intervenuto nei giorni scorsi e che hanno sollevato un’ondata di sentimenti e anche di polemiche fuori e dentro la Chiesa. Il Papa è sensibilissimo sia all’uno che all’altro argomento e ne aveva già parlato in varie occasioni, ma non li aveva ancora presi così di petto soprattutto sui punti riguardanti il comportamento d’una parte del clero.
«La corruzione di un fanciullo» dice «è quanto di più terribile e immondo si possa immaginare specialmente se, come risulta dai dati che ho potuto direttamente esaminare, gran parte di questi fatti abominevoli avvengono all’interno delle famiglie o comunque d’una comunità di antiche amicizie. La famiglia dovrebbe essere il sacrario dove il bambino e poi il ragazzo e l’adolescente vengono amorevolmente educati al bene, incoraggiati nella crescita stimolata a costruire la propria personalità e a incontrarsi con quella degli altri suoi coetanei. Giocare insieme, studiare insieme, conoscere il mondo e la vita insieme. Questo con i coetanei, ma con i parenti che li hanno messi al mondo o visti entrare nel mondo il rapporto è come quello di coltivare un fiore, un’aiuola di fiori, custodendola dal maltempo, disinfestandola dai parassiti, raccontandogli le favole della vita e, mentre il tempo passa, la sua realtà. Questa è o dovrebbe essere l’educazione che la scuola completa e la religione colloca sul piano più alto del pensare e del credere al sentimento divino che si affaccia alle nostre anime. Spesso si trasforma in fede, ma comunque lascia un seme che in qualche modo feconda quell’anima e la rivolge verso il bene».
Mentre parla e dice queste verità il Papa mi si avvicina ancora di più. Parla con me, ma è come riflettesse con se stesso disegnando il quadro della sua speranza che coincide con quella di tutte le persone di buona volontà. Probabilmente - dico io - quella è gran parte di quanto avviene. Lui mi guarda con occhi diversi, improvvisamente diventati duri e tristi. «No, purtroppo non è così. L’educazione come noi l’intendiamo sembra quasi aver disertato le famiglie. Ciascuno è preso dalle proprie personali incombenze, spesso per assicurare alla famiglia un tenore di vita sopportabile, talvolta per perseguire un proprio personale successo, altre volte per amicizie e amori alternativi. L’educazione come compito principale verso i figli sembra fuggito via dalle case. Questo fenomeno è una gravissima omissione ma non siamo ancora nel male assoluto. Non soltanto la mancata educazione ma la corruzione, il vizio, le pratiche turpi imposte al bambino e poi praticate e aggiornate sempre più gravemente man mano che egli cresce e diventa ragazzo e poi adolescente. Questa situazione è frequente nelle famiglie, praticata da parenti, nonni, zii, amici di famiglia. Spesso gli altri membri della famiglia ne sono consapevoli ma non intervengono, irretiti da interessi o da altre forme di corruzione».
A Lei, Santità, risulta che il fenomeno sia frequente e diffuso?
«Purtroppo lo è e si accompagna ad altri vizi come la diffusione delle droghe». E la Chiesa? Che cosa fa in tutto questo la Chiesa?
«La Chiesa lotta perché il vizio sia debellato e l’educazione recuperata. Ma anche noi abbiamo questa lebbra in casa». Un fenomeno molto diffuso? «Molti miei collaboratori che lottano con me mi rassicurano con dati attendibili che valutano la pedofilia dentro la Chiesa al livello del due per cento. Questo dato dovrebbe tranquillizzarmi ma debbo dirle che non mi tranquillizza affatto. Lo reputo anzi gravissimo. Il due per cento di pedofili sono sacerdoti e perfino vescovi e cardinali. E altri, ancor più numerosi, sanno ma tacciono, puniscono ma senza dirne il motivo. Io trovo questo stato di cose insostenibile ed è mia intenzione affrontarlo con la severità che richiede.
Ricordo al Papa che nel nostro precedente colloquio lui mi disse che Gesù era l’esempio della dolcezza e della mitezza ma a volte prendeva il bastone per calarlo sulle spalle dei manigoldi che insozzavano moralmente il Tempio. «Vedo che ricorda molto bene le mie parole. Citavo dei passi dei Vangeli di Marco e di Matteo. Gesù amava tutti, perfino i peccatori che voleva redimere dispensando il perdono e la misericordia, ma quando usava il bastone lo impugnava per scacciare il demonio che si era impadronito di quell’anima».
Le anime - anche questo lei me l’ha detto nel nostro precedente incontro - possono pentirsi dopo una vita di peccati anche nell’ultimo momento della loro esistenza e la misericordia sarà con loro. «È vero, questa è la nostra dottrina e questa è la via che «Cristo ci ha indicato ».
Ma può darsi il caso che qualche pentimento dell’ultimo minuto di vita sia interessato. Magari inconsapevolmente, ma interessato a garantirsi un possibile aldilà. In quel caso la misericordia rischia di finire in una trappola.
«Noi non giudichiamo ma il Signore sa e giudica. La sua misericordia è infinita ma non cadrà mai in trappola. Se il pentimento non è autentico la misericordia non può esercitare il suo ruolo di redenzione».
Lei, Santo Padre, ha tuttavia ricordato più volte che Dio ci ha dotato di libero arbitrio. Sa bene che se scegliamo il male la nostra religione non esercita misericordia nei nostri confronti. Ma c’è un punto che mi preme di sottolineare: la nostra coscienza è libera e autonoma. Può in perfetta buonafede fare del male convinta però che da quel male nascerà un bene. Qual è, di fronte a casi del genere, che sono molto frequenti, l’atteggiamento dei cristiani?
«La coscienza è libera. Se sceglie il male perché è sicura che da esso deriverà un bene dall’alto dei cieli queste intenzioni e le loro conseguenze saranno valutate. Noi non possiamo dire di più perché non sappiamo di più. La legge del Signore è il Signore a stabilirla e non le creature. Noi sappiamo soltanto perché è Cristo ad avercelo detto che il Padre conosce le creature che ha creato e nulla per lui è misterioso. Del resto il libro di Giobbe esamina a fondo questo tema. Si ricorda che ne parlammo? Bisognerebbe esaminare a fondo i libri sapienzali della Bibbia e il Vangelo quando parla di Giuda Iscariota. Sono temi di fondo della nostra teologia ». E anche della cultura moderna che voi volete comprendere a fondo e con la quale volete confrontarvi. «È vero è un punto capitale del Vaticano II e dovremo al più presto affrontarlo ».
Santità, c’è ancora da parlare del tema della mafia. Lei ha tempo?
«Siamo qui per questo».
***
«Non conosce a fondo il problema delle mafie, so purtroppo quello che fanno, i delitti che vengono commessi, gli interessi enormi che le mafie amministrano. Ma mi sfugge il modo di pensare dei mafiosi, i capi, i gregari. In Argentina ci sono come dovunque i delinquenti, i ladri, gli assassini, ma non le mafie. È questo aspetto che vorrei esaminare e lo farò leggendo i tanti libri che sono stati scritti in proposito e le tante testimonianze. Lei è di origine calabrese, forse può aiutarmi a capire».
Il poco che posso dirle è questo: la mafia - sia calabrese sia siciliana sia la camorra napoletana - non sono accolite sbandate di delinquenti ma sono organizzazioni che hanno leggi proprie, propri codici di comportamento, propri canoni. Stati nello Stato. Non le sembri paradossale se le dico che hanno una propria etica. E non le sembri abnorme se aggiungo che hanno un proprio Dio. Esiste un Dio mafioso.
«Capisco quello che sta dicendo: è un fatto che la maggior parte delle donne legate alla mafia da vincoli di parentela, le moglie, le figlie, le sorelle, frequentano assiduamente le chiese dei loro paesi dove il sindaco e altre autorità locale sono spesso mafiose. Quelle donne pensano che Dio perdoni le orribili malefatte dei loro congiunti?».
Santità, gli stessi congiunti spesso frequentano le chiese, le messe, le nozze, i funerali. Non credo si confessino ma spesso si comunicano e battezzano i nuovi nati. Questo è il fenomeno.
«Quello che lei dice è chiaro e del resto non mancano libri, inchieste, documentazioni. Debbo aggiungere che alcuni sacerdoti tendono a sorvolare sul fenomeno mafioso. Naturalmente condannano i singoli delitti, onorano le vittime, aiutano come possono le loro famiglie, ma la denuncia pubblica e costante delle mafie è rara. Il primo grande Papa che la fece proprio parlando in quelle terre fu Wojtyla. Debbo dire che il suo discorso fu applaudito da una folla immensa».
Lei pensa che in quella folla che applaudiva non ci fossero mafiosi? Per quanto ne so ce n’erano molti. Il mafioso, lo ripeto, applica un suo codice e una sua etica: i traditori vanno uccisi, i disobbedienti vanno puniti, a volte l’esempio viene dato con l’omicidio di bambini o di donne. Ma questi per il mafioso non sono peccati, sono le loro leggi. Dio non c’entra, i santi protettori tantomeno. Ha visto la processione di Oppido Mamertina?
«Erano migliaia gli intervenuti. Poi la statua della Madonna delle Grazie si è fermata davanti alla finestra del boss che è in custodia per ergastolo. Appunto, tutto questo sta cambiando e cambierà. La nostra denuncia delle mafia non sarà fatta una volta tanto ma sarà costante. Pedofilia, mafia: la Chiesa, il popolo di Dio, i sacerdoti, le Comunità, avranno tra gli altri compiti queste due principalissime questioni».
È passata un’ora e mi alzo. Il Papa mi abbraccia e mi augura di risanare al più presto. Ma io gli faccio ancora una domanda: Lei, Santità, sta lavorando assiduamente per integrare la cattolicità con gli ortodossi, con gli anglicani... Mi interrompe continuando: «Con i valdesi che trovo religiosi di prim’ordine, con i Pentecostali e naturalmente con i nostri fratelli ebrei».
Ebbene, molti di questi sacerdoti o pastori sono regolarmente sposati. Quanto crescerà col tempo quel problema nella Chiesa di Roma?
«Forse lei non sa che il celibato fu stabilito nel X secolo, cioè 900 anni dopo la morte di nostro Signore. La Chiesa cattolica orientale ha facoltà fin d’ora che i suoi presbiteri si sposino. Il problema certamente esiste ma non è di grande entità. Ci vuole tempo ma le soluzioni ci sono e le troverò.
Ormai siamo fuori dal portone di Santa Marta. Ci abbracciamo di nuovo. Confesso che mi sono commosso. Francesco m’ha accarezzato la guancia e l’auto è partita.

Corriere 13.7.14
Renzi: il mio gioco da mediano per cambiare l’Italia e l’Europa
Tanto meglio se c’è chi non ha capito come mi muovo così arrivo a fari spenti
Io maschilista? Forse lo sono i giudici che al Csm eleggono una sola magistrata
intervista di Maria Teresa Meli

ROMA — Polo viola, jeans, sneakers , il presidente del Consiglio è loquace e sarcastico come sempre: «Scusi se la ricevo così, ma tanto qui il sabato mattina non c’è praticamente nessuno». Lui c’è. Anche perché ha in programma diverse telefonate con i leader del Pse in vista della «cena delle nomine», il 16. Poi deve chiamare il presidente ucraino Petro Poroshenko e il premier spagnolo Mariano Rajoy.
Ha l’aria di uno che ha fatto le ore piccole. Ed effettivamente è così. Si è svegliato alle cinque del mattino per leggere il suo livre de chevet , «la mia lettura quotidiana», lo chiama lui, il libro che ha sempre sotto mano e che ieri mattina troneggiava anche sulla sua scrivania: il riassunto del bilancio dello Stato, voce per voce. Lo compulsa (da solo) quotidianamente e con Pier Carlo Padoan, Carlo Cottarelli e i loro rispettivi staff settimanalmente. Lo sa quasi a memoria. Tanto che l’altro giorno un funzionario addetto alla spending review è rimasto stupito perché conosceva l’esatto ammontare di una voce che non gli tornava. Sulla sua scrivania c’è anche un altro dossier. Ben più agile. Glielo ha dato Denis Verdini. Allungando lo sguardo, nell’attesa che il premier multitasking si occupi della politica internazionale, saltano all’occhio le simulazioni dei diversi sistemi elettorali. Si finirà per parlare di entrambi i dossier. Non perché giacciono lì sul suo tavolo, ma perché lui lega la politica italiana e quella europea con un nodo indissolubile.
Colto l’occhio della giornalista sul suo tavolo, l’avvio della conversazione è questo: «Calcisticamente parlando, qualcuno pensa che io sia un fantasista, cioè quello che inventa il colpo a sorpresa, o il portiere fortunato, che para i rigori perché provoca l’avversario. Non hanno capito che, dal punto di vista amministrativo, io sono un mediano (o in termini non calcistici, accessibili anche a chi non si interessa di pallone, un mulo), che su tutti i palloni si mette lì e “butubum-butubum” studia le carte. Ma è meglio che non lo abbiano compreso: così arrivo a fari spenti lì dove voglio arrivare, con buona pace di tutti i commentatori e dei professionisti della gufata».
Presidente, lei parla così, ma intanto c’è chi dice che la troika potrebbe commissariarci .
«Mai e poi mai. È un’ipotesi che non esiste. Dirò la verità: io non vivo nel terrore dei mercati. L’Italia è più forte delle paure dei vari osservatori e i dati lo dimostrano».
Be', tutti i dati, no.
«Ogni giorno ci sono istituti che sfornano montagne di dati e ognuno legge quelli che vuole. Qualcuno poi si è accorto che nell’ultimo mese c’è stato un aumento di oltre 50 mila posti di lavoro? No, perché, com’è naturale, fa notizia l’albero che cade e non la foresta che cresce. L’Italia è molto più forte di come si racconta in sede internazionale: ha un alto debito pubblico, è vero. Ma ha ricchezza privata e se rimette finalmente a posto il fisco, la burocrazia e la giustizia ce la può fare. Il problema, però, è che la ripresa europea è fragile. Molto fragile. Più del previsto. Il problema è che la produzione industriale non segna negativo solo in Italia ma in quasi tutta Europa, a cominciare dalla Germania».
Ma noi abbiamo qualche problemino in più. Non ha paura dei mercati?
«No. Non mi preoccupano gli investitori internazionali. Al massimo, possono preoccuparmi i frenatori italiani. Ma sono convinto che li stiamo sconfiggendo ogni giorno di più. Tre anni fa, i mercati segnalarono un “problema Italia” in Europa. Adesso c’è un problema Europa nel mondo. Certo, alcuni analisti continuano a dire che noi non ce la faremo. Ma mi piace pensare agli esperti di alcune banche che dieci anni fa dicevano che l’Italia sarebbe fallita. In questi dieci anni sono fallite le banche e nessuno ce l’aveva annunciato. L’Italia, invece, è sempre qui».
Ma non si può dire va tutto bene, madama la marchesa .
«D’accordo con lei. Infatti non va tutto bene. È una situazione difficile, da gestire con grande responsabilità. Ma essere responsabili non significa essere catastrofisti. Responsabile è chi quando vede un ostacolo prova a cambiare strada, non chi urla più forte».
Presidente, può assicurare che i bonus verranno confermati anche il prossimo anno?
«Gli 80 euro verranno senz’altro riconfermati. Stiamo ragionando se sia possibile allargare la platea, partendo da famiglie, partite Iva, pensionati. Questo non lo sappiamo ancora».
Dipende da quel librone che tiene sulla scrivania?
«Anche e non solo».
Cioè?
«Se noi vogliamo avere la forza di mutare il modello di politica economica della Ue, basato tanto sul rigore, e poco sulla crescita, dobbiamo dimostrare di essere capaci di cambiare prima il nostro Paese. Ecco perché attribuisco grande importanza alla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, perché simbolicamente significa che la classe politica non ha paura di cambiare se stessa. E questo le dà l’autorevolezza di dire, in Italia, che si possono abbassare i tetti degli stipendi dei manager pubblici e dei magistrati, per fare un esempio, e di spiegare in Europa che è ora di cambiare verso».
A proposito di Italia, sul Senato non avete ancora convinto tutti .
«Impossibile convincere tutti. Però mi pare che in Commissione si sia registrato un consenso più ampio della maggioranza. Ed è la prima volta che questo accade: non era successo nel 2001, non era successo nel 2006. Certo, sono un po’ stupito. C’è un consenso di quasi tutti sull’impianto. Persino chi mi accusa di autoritarismo riconosce che semplificare i livelli istituzionali, ridurre il potere delle Regioni, superare il bicameralismo perfetto, costituisce un obiettivo condiviso. Ci sono un paio di punti — un paio, non di più — su cui si è scatenato un dibattito molto duro. In particolar modo sull’articolo 57 che disciplina la composizione del nuovo Senato seguendo il modello tedesco. Mi piacerebbe discutere sulle grandi questioni del disegno di legge costituzionale. Invece stiamo a discutere se l’elettività del senatore sia di primo o di secondo livello. A mio giudizio l’obiettivo dei frondisti non è questo».
Qual è, allora?
«Affermare l’elezione diretta per poter dire che il Senato deve avere più poteri. Non si rassegnano all’idea della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori. Inoltre, metto nel conto le resistenze fisiologiche e comprensibili delle burocrazie. Anche per questo, il risultato della Commissione è un passaggio straordinario. E non è che l’inizio. In questa settimana noi abbiamo lavorato su agenda digitale, riforma della pubblica amministrazione, servizio civile universale, riforma della giustizia: il fatto che voi giornalisti siate più attenti ai sospiri di Mineo, Minzolini e Mucchetti che non a questi provvedimenti, mi sembra più il frutto di un affetto tra colleghi che di una valutazione di merito».
Venendo al merito: i frondisti dicono anche che con questa riforma del Senato e con l’Italicum chi vince le elezioni vince tutto e addio democrazia.
«Ho notato come il suo occhio andava a quel documento che riguarda le simulazioni sulla Camera dei diversi sistemi elettorali sulla base delle ultime Europee. Ebbene sa quali sono i risultati? Con il Mattarellum senza lo scorporo, sui 475 collegi uninominali, il centrosinistra ne avrebbe 458, con lo scorporo ne avremmo 438, con il Mattarellum corretto ne guadagneremmo 504 (e Grillo ne avrebbe zero), con il Consultellum 340 (perciò avremmo sempre la maggioranza) e gli stessi con l’Italicum. Quindi, di quale Parlamento a mia immagine e somiglianza si parla?».
Intanto Grillo prepara il sit in .
«È la cosa che gli riesce meglio. Organizzare proteste è il suo mestiere. Il mio, invece, è cambiare l’Italia. Vorrà dire che martedì mattina, mentre si prepara alla 27esima marcia su Roma, che ormai mi sembra una retromarcia su Roma, e mentre urla al 42esimo colpo di Stato dall’inizio della legislatura, gli faremo trovare una puntuale risposta del Pd — argomento per argomento — al suo decalogo della settimana scorsa. Alcuni parlamentari e amministratori 5 stelle sono molto bravi. Spero che abbiano la forza di farsi sentire e non siano zittiti dal blog o espulsi. Le loro idee ci stanno a cuore, la loro passione non merita di disperdersi in un insulto o in una manifestazione».
Perché tutta questa fretta per il Senato? Per paura che arrivi prima la sentenza sul caso Ruby?
«Non la chiami fretta. La chiamo urgenza di dare agli italiani il messaggio che finalmente si cambia. Comunque, Forza Italia sta mantenendo un atteggiamento di grande responsabilità, come del resto tutti i partiti che hanno votato la riforma. Le vicende giudiziarie di Berlusconi sono slegate dal processo di riforma costituzionale. A dispetto di alcune dichiarazioni di fuoco dei suoi, Berlusconi fino a questo momento non ha mai fatto venir meno la sua parola e il suo impegno: diamo a Cesare quel che è di Cesare».
Sembra che lei stia agendo su due fronti in contemporanea: la partita italiana e quella europea.
«Sono legate indissolubilmente. Le faccio qualche esempio pratico. Nel piano sblocca Italia c’è un progetto molto serio sullo sblocco minerario. È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini. È vero: stiamo combattendo su due fronti. Vogliamo restituire autostima all’Italia, ma anche dire che bisogna cambiare. Ed è per questo che ci siamo impegnati sulla legge Madia, quella sulla pubblica amministrazione: sarà una vera rivoluzione. Semplificherà e velocizzerà tante cose, migliorando la vita degli italiani e abbattendo i costi. E anche per questo incontra tante resistenze. Dall’altro verso, vogliamo far capire all’Europa che bisogna imboccare un’altra strada. Il mio unico cruccio è che non riesco — per colpa mia — a spiegarmi bene su quanto sia importante fare le riforme a casa nostra. I mille giorni non sono certo un modo per perdere tempo, ma un progetto di comunicazione organica che consentirà di legare il binomio flessibilità-riforme sia a livello europeo che cittadino».
In Italia, però, c’è chi pensa che lei si stia muovendo solo per se stesso.
«Non è così. Io vorrei che la classe politica italiana fosse consapevole che ci stiamo giocando tutto e che questa volta è possibile farcela. Anche per questo spero che Boldrini e Grasso abbiano la forza di mettere un tetto a tutti i loro alti funzionari come abbiamo fatto noi con i manager di Stato e pure con i magistrati».
Tornando all’Europa: come sono i suoi rapporti con Angela Merkel?
«Io la stimo molto. L’ho sentita ieri (l’altro ieri n.d.r. )».
Avete litigato sulla flessibilità?
«Nel senso che io le ho detto che con il Brasile la Germania era stata poco flessibile e lei mi ha risposto: ci vuole la giusta flessibilità».
In Italia: c’è stata polemica perché Indesit ha venduto a Whirlpool.
«La considero un’operazione fantastica. Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata. Noi, se ci riusciamo, vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto, come a Termini Imerese, nel Sulcis, come nel Veneto. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro, gli imprenditori stranieri in Italia sono i benvenuti».
Presidente, la sua querelle con le banche a che punto è?
«Le banche non hanno più alibi. Patuelli (presidente dell’Associazione bancaria italiana ndr ) che fa la lezioncina all’annuale assemblea dell’Abi non si può sentire. Ho molto apprezzato la reazione pacata ma tosta di Padoan. Le banche adesso sono piene di liquidità. Diano i soldi alle aziende, invece che lamentarsi. Con l’operazione Draghi non hanno più ragione di lamentarsi, né di mettere in sofferenza i piccoli artigiani, gli imprenditori del Nordest, le partite Iva. Navigano nei soldi, li spendano, grazie».
Ultimo capitolo, non certo per importanza, le donne. L’hanno criticata per l’uso strumentale delle suddette nel governo.
«Tanto, una critica in più, una in meno, cosa vuole che cambi. Preferisco essere criticato perché ci sono molte donne che lavorano in posti di responsabilità, che non perché siamo i soliti maschilisti. Una donna guida gli Esteri, una la Difesa, una sta seguendo la riforma costituzionale, una la riforma della pubblica amministrazione, una la politica industriale, una il patto per la salute. Le sembra poco? Preferiva prima? Nel frattempo, abbiamo nominato nelle posizioni di vertice una donna all’Agenzia delle entrate, una all’Agenzia digitale, una per i fondi europei, una alla guida del Legislativo di Palazzo Chigi. Forse i maschilisti sono i giudici che al Csm eleggono una sola magistrata»

Repubblica 13.7.14
La differenza tra scienza ed esorcismo
risponde Corrado Augias


Gentile dott. Augias, ho 71 anni, sono stata primario di Anatomia Patologica a Livorno e altrove. Fino a circa 8 anni fa, pur essendo cattolica avevo un atteggiamento di sufficienza e fastidio verso forme “primitive” di fede, poi ho “visto e sentito” un esorcismo, la drammaticità della lotta tra esorcista ed esorcizzato, un contenitore inerme in balia di spiriti maligni. Un’esperienza sconvolgente mi ha convinto com’è assurdo avere la pretesa di capire tutto di Dio e del male. Ora dopo un cammino lungo di studio e preghiera so con certezza che il Maligno esiste, è un’entità, non una fantasia. Quanto all’abuso dell’esercizio della professione psichiatrica, chi le ha scritto non sa cosa dice, il soggetto da esorcizzare di solito ha un lungo percorso di sofferenza e ha fatto di tutto prima di ricorrere all’esorcista. Il film “L’esorcista” non è solo un’invenzione. Aggiungo che l’esorcismo è gratuito anche se può impegnare diverse persone per diverso tempo. Sono in tanti ad abusare della professione, ad esempio tutti quelli che fanno medicina alternativa, a volte anche laureati in medicina, soprattutto quando si “inventano” diete da far fare a malati terminali, guadagnando sulla disperazione di chi non riesce ad accettare la fine.
Dott.ssa Gabriella Marchetti

Pochi giorni fa l’organizzazione internazionale degli esorcisti (Aie) - fondata da padre Gabriele Amorth - ha avuto, per decreto vaticano, uno statuto giuridico ufficiale. Il signor Roberto Giannarelli si è chiesto in una sua lettera se la pratica dell’esorcismo non possa considerarsi esercizio abusivo della professione psichiatrica. Numerosi i commenti dei lettori. Accanto all’opinione della dottoressa Marchetti, riportata qui sopra, cito quella del dottor Fausto Grignani (emerito di Medicina interna a Perugia) che afferma: «Lei ha concluso la sua risposta sull’esorcismo con le parole: “Se c’è qualcuno che trova nell’esorcismo un beneficio non c’è alcun motivo per negarglielo”. Se la sentirebbe, gentile Augias, di affermare che “se qualcuno trova nella cura Di Bella o nel metodo Stamina un beneficio non c’è alcun motivo per negarglielo“? C’è in gioco un problema culturale importante e non solo un problema di pagamenti a carico del Servizio Sanitario Nazionale. La psichiatria - e le neuroscienze, in generale - hanno compiuto nell’ultimo secolo grandi sforzi per acquisire un approccio scientifico. Posizioni come la sua sembrano volerglielo negare ». È interessante che due medici esprimano opinioni totalmente divergenti. Quanto a me, profano, credo di poter tenere la mia posizione. Naturalmente non consiglierei a nessuno terapie di provata inefficacia, se non truffaldine. Ma l’esorcismo ha tutt’altra natura, lo ritengo solo un tentativo di dare consolazione; allora perché no?

Repubblica 13.7.14
L’Indiana Jones dell’antropologia
Gli indios secondo Chagnon, mai politically correct sotto accusa da parte dei suoi colleghi per i metodi poco ortodossi
di Marino Niola


HA RISCHIATO di essere mangiato da un giaguaro, stritolato da un anaconda di 15 metri, avvelenato dal ragno delle banane, ammazzato nel sonno da tre indios. «Ma io dormo con un occhio aperto e ho il fucile sempre carico. A me Indiana Jones mi fa un baffo», ama ripetere con atteggiamento di sfida Napoleon Chagnon, autore di Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö e gli antropologi . Chagnon è uno degli antropologi più celebri d’America. Certamente il più discusso. Ha dedicato una vita di ricerca agli Yanomamö, una delle ultime tribù dell’Amazzonia, con i quali ha vissuto ben cinque anni. Giungendo alla conclusione che questi ultimi primitivi sono lontani anni luce dal buon selvaggio alla Rousseau. «I veri Indiani sono sporchi, maleodoranti, fanno uso di droghe, ruttano, si rubano le donne, si combattono spesso e volentieri. Insomma sono esseri umani come tutti gli altri». Frasi del genere hanno attirato sul capo dell’autore una vera e propria fatwa da parte dei suoi colleghi che non condividevano un atteggiamento così lontano dal politically correct che impera nell’antropologia.
All’inizio della carriera Chagnon pensava di dover imparare come si sopravvive nella giungla. Ma ha dovuto imparare a sue spese che la vera giungla è quella accademica. E che le frecce degli antropologi a volte possono essere più avvelenate di quelle dei popoli che studiano. L’associazione antropologica americana a fine anni Novanta ha organizzato addirittura una task force per indagare sui suoi metodi, giudicati malsani. I capi d’imputazione vanno dall’aver provocato un’epidemia di morbillo tra gli Yanomamö all’averli pagati per uccidere i loro vi- cini per realizzare un documentario dai toni realistici. E soprattutto di aver sostenuto che la violenza degli Indios ha una spiegazione genetica, non solo culturale. Col tempo la costruzione accusatoria è crollata come un castello di carte. Ma in realtà pur nutrendo molti dubbi sulla sua fondatezza, l’associazione andò avanti nella sua caccia alle streghe. Facendo di Chagnon una sorta di capro espiatorio, l’oggetto di un rito di purificazione della nomenklatura antropologica. In realtà la colpa imperdonabile di questo Céline dell’antropologia è proprio la sua visione né edificante né buonista degli indigeni amazzonici. Che, sulla scia della sociobiologia di Edward Wilson, restituisce alla violenza tutto il suo peso evolutivo. Non a caso i selvaggi di successo, quelli con più mogli e figli, erano proprio i più violenti. La morale della storia si riassume nelle parole di un leader nativo. «Chagnon ha fatto soldi con gli indios, i suoi accusatori pure. La verità è che combattono e questo li rende felici ». Insomma che sia Yanomamö o antropologo, l’uomo è lupo dell’altro uomo. Risultato: Hobbes batte Rousseau uno a zero.

Repubblica 12.7.14
Sulle tracce del mito tra le montagne e i boschi della Tav
Angeli e demoni nella valle dei misteri
di Marino Niola


Benvenuti in Val di Susa, la Stonehenge italiana. Dove la pietra è sacra. E su questa pietra l’immaginario ha edificato la sua chiesa. Un pantheon fatto di monoliti enigmatici, sassi erratici, bassorilievi arcani, graffiti preistorici. E abbazie medievali perdute tra i monti in uno scenario da Nome della rosa .
L’imbocco della valle dei misteri ha una porta ideale. E pure girevole. Si trova ad Alpignano, vicino al ponte sulla Dora. La chiamano il “masso trottola” perché la notte dell’Epifania la roccia incantata compie tre giri su se stessa, quasi a segnare con una piroetta l’uscita di scena della dodicesima notte. Quella che chiude il momento magico dell’anno. Che inizia la vigilia di Natale - quando gli uomini tacciono e gli animali parlano - e termina al dodicesimo rintocco del sei gennaio, quando le pietre si agitano lanciando segnali nella loro lingua silente.
Questa terra rarefatta e metafisica, dove dovrebbe passare la Tav, è celebre sin dai tempi del paganesimo per l’incrocio di energie telluriche e di forze arcane che l’attraversano. All’antica saxorum veneratio dei pagani, che ha disseminato la strada che fuggeverso la Francia di dèi minerali, di numi fossili, la Chiesa ha sovrapposto nel corso dei secoli le sue croci litiche, le sue guarnigioni celesti, i suoi santi guerrieri, le sue fortezze devote. Risultato un fittissimo intrico di simboli che rende la storia stratificata come una geologia. E il mondo politeista, con la sua sacralizzazione della natura, diventa una sola cosa con quello cristiano che della natura fa invece una dependance dell’uomo. Un santuario a cielo aperto.
Un tempo quassù regnava Giove Dolicheno, dominatore incontrastato delle vette e delle folgori. Venerato dai legionari romani che passavano di qui per andare in Gallia. Adesso San Michele, il serafino tutto fuoco e fiamme, signore cristiano delle grotte e dei boschi, è il suo erede. Il simbolo di questo passaggio di testimone tra antichi dèi e santi patroni.
La splendida abbazia dell’arcangelo, costruita intorno all’anno mille, che tutti chiamano semplicemente la Sacra, è a tutti gli effetti una foresta pietrificata. Una mole escheriana che cerca di emergere tra le alte vette che l’accerchiano. E si slancia verso il cielo spinta da vertiginosi contrafforti, scale iperboliche, archi rampanti. Quasi a decollare dalla piattaforma di roccia su cui è poggiata. È il sacro che prende le distanze dalla natura. E traccia le sue nuove coordinate del mondo. Proietta sulla terra le sue sante geometrie. Circoli, angoli e linee miracolosi. E se per due punti può passare una sola retta, quando i punti diventano tre il postulato si fa ancor più indiscutibile. Sacrosanto. E la dimostrazione esatta si trova sul monte Pirchiriano, dove svetta la Sacra. Perché proprio di lì passa la linea invisibile che mette in riga gli altri due centri mondiali del culto micaelico. All’estremo settentrionale l’isola normanna di Mont St. Michel au peril de la mer, San Michele al pericolo del mare, il presidio soprannaturale invocato dai marinai contro la furia degli elementi. L’angelico regolatore delle maree come antidoto alla morte per acqua. All’estremo meridionale il santuario rupestre di Monte Sant’Angelo sul Gargano. Quello fondato dall’arcangelo in persona sulla cima dove aveva regnato il gigante Gargano, una sorta di Gargantua dei boschi e delle balze silvane. Duemila chilometri di via sacra che i pellegrini hanno percorso per secoli dopo che l’evangelizzazione dell’Europa aveva sgombrato il cammino dagli dèi falsi e bugiardi. E non finisce qui. Perché questo andirivieni rituale arrivava dritto a Gerusalemme, pietra terminale di questa retta via della devozione. Insomma un passante angelico che aveva il suo centro nell’abbazia simbolo del Piemonte. In quell’ombelico del mondo che è la Sacra, piantata sulle porte degli inferi come un non prevalebunt.
Certo è che in questa valle è passato di tutto e di più. Questione di energie? È probabile, perché qui la natura si è sempre manifestata in tutta la sua potenza. Fascinosa e tremenda al tempo stesso. Bella e terribile come la immaginava Giacomo Leopardi. Ma qui il terribile ritrova la sua origine linguistica. Che ha a che fare con l’agitazione vitale. Con il timore e il tremore epifanico delle cose. Un’energia talmente fuori scala, talmente a dismisura d’uomo da apparire numinosa. E luminosa. Come quella che si sprigiona dalla testa pelata del monte Musinè. Per secoli covo di maghi, di streghe e di licantropi. E ancora oggi meta di veggenti e sensitivi. In cerca di magnetismi. Qui le bacchette dei rabdomanti oscillano furiosamente, come metronomi impazziti. E il cielo si accende come un display dell’umore divino. Forse perché Erode fu condannato a volare per sempre su questa cima sopra un carro di fuoco. Così sono in tanti a giurare di aver visto la montagna illuminata da fulmini a ciel sereno, globi ardenti e fosforescenze misteriose. Che fanno del Musinè un osservato speciale. Nonché un osservatorio ideale per ufologi, avvistatori di fuochi fatui, emissari dell’occulto. O ghostbusters in missione per conto di Dio. Alla ricerca di travi infuocate, piogge scintillanti e raggi verdi. Luci e suoni di una natura in perenne stato di eccezione. Tanto per non farsi mancare niente si dice anche che qui non cresca un filo d’erba perché una processione infinita di anime dannate risale e ridiscende perpetuamente i fianchi glabri del monte. Come tanti Sisifo dell’aldilà.
Ma in questa valle del vento, dove il diavolo e l’acqua santa si fronteggiano da sempre, sono passati anche Maometto e Carlomagno. Con il più grande dei paladini. Orlando, che proprio a Borgone Susa, nel bosco che porta il suo nome, avrebbe tagliato in due un uovo cosmico di pietra nel tentativo di spezzare la sua spada Durlindana, perché non cadesse nelle mani dei seguaci del profeta. Che ha lasciato anche lui un segno. Lo chiamano i maomèt ed è un masso erratico che porta incisa una figura d’uomo col mantello sulle spalle e un fulmine in mano. L’avrebbero scolpito i temutissimi saraceni in marcia per Roncisvalle. Ma c’è chi assicura invece che si tratti di una divinità celtica.
Evidentemente gli antichi dèi non si lasciano esiliare facilmente da questo passante della storia. I loro bagliori continuano a incendiare le anime. Proprio come la Tav infiamma gli animi.

Repubblica 13.7.14
Com’è camaleontico Shakespeare in love
Sulla sua bisessualità si è discusso molto ma certo doveva essere tanto scomodo se l’editore dei sonetti nel 1640 cercò di “purgarli” mettendoli tutti al femminile
Anche se non si tratta di un vero canzoniere le peripezie del doppio amore sono degne delle tragedie
di Walter Siti



UNA grande delicatezza di cuore e di pensiero: l’innamorato sospetta che in un giorno non lontano colui che ama lo scaricherà, imbarazzato dalle chiacchiere del mondo - e che per rifarsi l’onore dovrà parlar male di lui, mettendolo in ridicolo. Ebbene, gli dice, sappi che in quel momento io sarò dalla tua parte; anzi, posso fare di più: siccome sono bravino a raccontare storie e conosco le mie debolezze, posso inventare su di me qualche calunnia che renda il tuo distacco inevitabile e ti faccia brillare di purezza. Mi darò addosso perché tu ne esca pulito, tutti i torti su di me per dimostrare alla gente che hai avuto ragione; che importa se soffrirò e se tu sarai venuto meno ai nostri giuramenti? È la stessa delicatezza, venata di masochismo, che in un altro sonetto lo spinge a dire al ragazzo «quando morirò non piangermi, non pronunciare nemmeno il mio nome, non dare adito ai pettegolezzi dei benpensanti; anzi, preferisco non essere più nei tuoi pensieri se il ricordo di me deve addolorarti».
Finora ho parlato al maschile, anche se a rigor di termini il discorso potrebbe esser rivolto a una donna; e in effetti anche alla “dark lady” degli ultimi sonetti rinfaccia «come puoi dire che non ti amo, se contro me stesso prendo le tue parti?». Sull’omosessualità o bisessualità di Shakespeare si è discusso fin troppo, la scarsità di notizie non aiuta; spesso con strane negazioni, del tipo che l’amicizia amorosa per lo “sweet boy” era solo platonica - come se omosessualità e platonismo non fossero legati da sempre. Il suo neoplatonismo nero, quell’ossessione confinante con l’idolatria devono esser sembrate assai imbarazzanti ai contemporanei, se l’editore del 1640 cercò di purgare i sonetti volgendo al femminile tutti i pronomi maschili. Eppure il sonetto 20 è chiaro: il “master-mistress” della sua passione è meglio di una donna, peccato che poi la Natura abbia aggiunto al suo corpo un ammennicolo che a lui, Shakespeare, non serve - quindi le donne si godano quello, a lui l’amore e alle donne “la fruizione”. Ma più che i particolari anatomici, mi pare decisiva la solitudine sociale a cui l’omosessualità è condannata; nel sonetto 49, che ha molti punti di contatto col nostro, dice «per lasciare il mio povero essere hai la forza delle leggi/ e all’amore non posso allegare nessuna ragione». Lo ha capito benissimo Pasolini, che proprio i sonetti shakespeariani deciderà di imitare quando nel 1971 si troverà in Inghilterra e dovrà affrontare davvero un abbandono; «io son senza», scriverà, «alcun diritto nel consorzio civile/ di pretendere che non mi diate dolore».
Il guaio di Shakespeare è che è troppo bravo: noi che abbiamo in testa le parole della sua Giulietta, e del suo Jago e del suo Lear, sappiamo quanto sia diabolicamente camaleontico e come sappia rendere credibili i suoi “io” non autobiografici. Anche nei sonetti naturalmente il suo “io” è un personaggio, e la bravura è la stessa. Genialmente reinterpretando la forma metrica, ha capito che può essere il contenitore perfetto per la malafede amorosa; emotività e argomentazione si rinforzano a vicenda, i luoghi comuni del concettismo cinquecentesco diventano carne e sangue. Qui per esempio il concetto, stra-abusato nel petrarchismo europeo, del «poiché siamo una cosa sola il tuo destino è il mio» risulta imbevuto di un’ironia straziante: il “double-vantage” è, pare, metafora tennistica, quel che bisogna conseguire quando il game finisce alla pari (o forse legata all’ambito della scherma, vedi “fight”). In lui le parole diventano subito scene concrete: questo faccia a faccia tra amato e amante (“io” e “tu”, nelle varie forme pronominali e possessive, ripetuti 25 volte in 14 versi) ha l’aria di un’arringa, o di una requisitoria giudiziaria - termini come “prove”, “upon thy part”, “faults”, “right” appartengono al linguaggio forense - “forsworn” o “attainted” piegano piuttosto verso il complotto. Se è il giudizio del mondo che ti fa paura, io leggo la nostra relazione come un processo o un alto tradimento. Ma “scorn” ci porta invece verso l’evangelico e il biblico, è la derisione a cui vengono sottoposti Cristo e Giobbe; “to bend” i pensieri d’amore è quasi costringerli a genuflettersi - chi si umilia sa di valere, religiosamente si sacrifica ma in fondo si sente maggiore dell’amato: “to lose” certo qui sta per “liberarsi, sbarazzarsi di”, ma conserva pur sempre il sottosenso di “perdere” - vinceremo entrambi, ma tu mi perdi. La struttura sintattica e quella logica inglobano l’inconscio in un’architettura precisa: il fitto intreccio di frasi causali, consecutive e concessive si dispone senza sforzo nel movimento in tre tempi (coincidente con le tre quartine) che potremmo schematizzare in “quando-anzi-eppure”, per chiudersi con l’”infatti” del distico finale.
Sentimenti delicati e contorti espressi con muscolosa eloquenza: forse i suoi sonetti non sono un vero canzoniere (come invece era di moda all’epoca, da Sidney a Drayton a Spenser), forse la loro disposizione non è quella voluta dall’autore - ma le peripezie di quel doppio amore, per un uomo e per una donna con inganni incrociati, sono degne della tragedia (o della commedia) che Shakespeare non ha mai scritto.

WILLIAM SHAKESPEARE, dai Sonnets, N. 88 1595- 1605
When thou shalt be dispos’d to set me light, and place my merit in the eye of scorn, upon thy side, against myself I’ll fight, and prove thee virtuous, though thou art forsworn: with mine own weakness being best acquainted, upon thy part I can set down a story of faults conceal’d, wherein I am attainted: that thou in losing me, shalt win much glory: and I by this will be a gainer too, for bending all my loving thoughts on thee, the injuries that to myself I do, doing the vantage, double vantage me. Such is my love, to thee I so belong, that for thy right, myself will bear all wrong.
Quando sarai propenso a svalutarmi e metterai i miei meriti alla berlina, combatterò dalla tua parte contro di me e ti mostrerò giusto, benché tu sia spergiuro. Sono così esperto della mia indegnità che a tuo favore posso imbastire una storia di colpe nascoste, di cui mi sarei macchiato, sicché mollandomi acquisterai più gloria: così facendo sarò anch’io vincitore, perché i pensieri d’amore tanto ho inchinato a te che le ferite che io provoco a me stesso avvantaggiandoti, mi danno un doppio vantaggio. Tale è il mio amore, ti appartengo al punto che per darti ragione mi assumerò ogni torto.

il Fatto 13.7.14
L’intervista Giuseppe Laterza
Croce, i libri e i ragazzi della Fgci Il dovere di essere un editore
di Silvia Truzzi


Giocando con il lettore sulla vicenda del famoso manoscritto, alla fine dell’Introduzione ai Promessi sposi, l’autore dichiara: “Di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo”. L’ironia manzoniana torna in mente in un pomeriggio ventoso di luglio ai Parioli, dove una villetta anni Trenta ospita la sede romana della Laterza. Giuseppe – classe 1957, quarta generazione di editori – fa gli onori di casa nel tour che passa per sale e salette, mille foto seppiate alle pareti, una stanza degli incontri che un tempo lontano ospitava quartetti d’archi e matrimoni. Molti libri, naturalmente. “Ci siamo trasferiti qui negli Anni Settanta, la sede la trovò mia madre”. La storia però era iniziata molto tempo prima. “Credo fareste bene ad astenervi almeno dall’accettare libri di romanzi, novelle e letteratura amena. E ciò per comparire come editore con una fisionomia determinata. Ossia come editore di libri politici, storici, di storia artistica, di filosofia: editore di roba grave”. Il consiglio – destinato a essere seguito alla lettera – arriva da Benedetto Croce. Correva l’anno 1901: più di cento anni dopo il marchio crociano resiste.
Come comincia tutto?
L’azienda viene fondata dai 5 figli di Giuseppe Laterza, un falegname pugliese: c’è, nella nostra storia, una discendenza merceologica del libro, dal legno e dalla carta. Il più giovane, Giovanni, nel 1901 apre la casa editrice. Prima pubblica titoli a carattere locale, poi decide di fare un salto di qualità e parte per Napoli, la grande capitale culturale del Sud. Tra gli altri va a trovare Benedetto Croce che per metterlo alla prova, gli chiede di tradurre un libro di due inglesi, Bolton King e Thomas Okey. Nel saggio, L’Italia d’oggi, si raccontano problemi economici, sociali e culturali dell’Italia dell'epoca. L’incipit è questo: ‘Uno dei primi fatti che fermano l’osservatore della vita pubblica italiana è la confusione e la decadenza dei vecchi partiti politici. Essi han perso fede nei loro princìpi, nel loro paese, in se stessi. L’azione loro sembra poco meglio di una interessata lotta per raggiungere cariche pubbliche e di una cieca resistenza a forze che non sanno comprendere e assimilare e pertanto temono’. Le dice niente? Comunque Croce è contento della riuscita di questo primo titolo e commissiona altre opere: più in là ci farà pubblicare anche i suoi libri.
L’imprimatur del papa laico.
Non era ancora diventato ‘papa laico’, ma era già un importante filosofo. A un certo punto Croce pubblica la Storia d'Europa nel secolo decimonono dove dà un giudizio drastico sul suo vecchio amico Giovanni Gentile, che era già stato ministro della Pubblica istruzione. Gentile s’arrabbia, scrive una lettera a Laterza, di cui era autore, dicendo ‘Non posso continuare a pubblicare per voi se Croce non cambia il suo giudizio su di me’. Imbarazzato, Giovanni si rivolge a Croce ma lui è irremovibile. A quel punto è messo di fronte a una scelta. Risponde a Gentile, seguendo quello che ancora oggi è un principio della nostra azienda: non possiamo censurare un nostro autore. Gentile abbandona La-terza. È una scelta molto faticosa, in quel momento, perché si opta per un grande intellettuale non compromesso con il regime, invece che per un intellettuale di establishment. Credo che lo spirito di fondo pluralista che ha animato la scelta di Giovanni sia rimasto: a distanza di pochi mesi abbiamo pubblicato un libro di Ingroia e Caselli e uno di Fiandaca e Lupo. Far convivere in catalogo idee diverse non vuol dire neutralità: si può perseguire una linea editoriale – quella che da Croce arriva a Salvemini ed Ernesto Rossi, fino a Tullio De Mauro e Stefano Rodotà – senza per questo chiudersi a posizioni anche radicalmente opposte...
Avrebbe potuto fare un mestiere diverso?
Non lo so. Ho un fratello più piccolo, Federico, che ha preso un’altra strada: fa il musicista e compositore jazz. Vive sul lago di Bracciano e ha una vita molto diversa dalla mia, ma sono molto contento delle sue scelte perché la musica è la forma sentimentale artistica per me più forte. Così come mi fa molto felice che una delle mie due figlie, quella che non lavora in casa editrice con me, stia finendo il Centro sperimentale di cinematografia e faccia l’attrice, perché incarna un’altra parte di me.
E lei invece?
La mia famiglia si è trasferita da Bari a Roma quando avevo circa 7 anni. Ho fatto il Tasso, un liceo impegnato politicamente. Era il 1970. Quando sono arrivato, il vecchio movimento studentesco conviveva con i nuovi gruppi: Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia. Io mi collocavo all’estrema destra della sinistra, quindi ero iscritto alla Fgci, la Federazione giovanile del Partito comunista. In più ero l’unico amendoliano, gli altri erano tutti ingraiani. Ingrao era molto più affascinante per un adolescente, nei suoi discorsi alludeva a migliori mondi possibili. Ero bollato come ‘socialdemocratico’ che a quei tempi tra noi era uno dei peggiori insulti che si potessero immaginare...
Chi c’era alla Fgci?
Trai i dirigenti Walter Veltroni, Goffredo Bettini e Carlo Leoni. E un gruppo di figli di papà, in cui ovviamente rientravo anche io, ma gli altri erano figli di papà politicamente parlando perché i loro padri erano i leader del Partito comunista: Pietro Reichlin, Guido Ingrao, Jolanda Bufalini, Fabrizio Barca, Laura Pecchioli, Franca Chiaromonte, Antonella Trentin. Per coincidenza erano anche tutte persone curiose e piene di qualità: discutevamo di politica ma la sera andavamo anche a ballare insieme... All’università non avevo intenzione di fare politica, anche se poi mi sono iscritto di nuovo alla Fgci per contrapposizione al Settantasette. Ero arrivato con Lama cacciato dalla Sapienza. Identifico ancora oggi il movimento con quell’episodio violento, con l’immagine del servizio d’ordine, dei cancelli chiusi dietro Piazzale Aldo Moro e gli autonomi barricati. Poi parlando con alcune persone, per esempio con il direttore di Radio3 Marino Sinibaldi, ho capito che il Settantasette non è stato solo violenza. Probabilmente è stato un errore anche da parte di Lama, il più riformista tra i comunisti, scegliere di fare un comizio all’università proprio in quel momento. Però fu buttato fuori a sassate: quei sassi mi riportarono alla Fgci, e per altri due anni feci attività politica. Dopo di che non mi sono mai più iscritto, né ho partecipato in nessun modo alla vita attiva dei partiti che si sono succeduti a sinistra. Ho sempre pensato che il mio lavoro fosse in un certo senso ‘politico’ e dunque non ne ho mai visto la necessità.
Lettere?
Ho scelto Economia e commercio perché da marxista in erba ero convinto che bisognasse studiare la struttura. Ho avuto la fortuna di studiare con un economista umanista come Federico Caffè. Era uno straordinario maestro, viveva per i suoi studenti, un bastian contrario assoluto. Una volta, insieme ad altri studenti iscritti alla Fgci, andai a chiedergli di sottoscrivere una petizione contro l’invasione russa in Afghanistan. Lui si rifiutò di firmare, perché l’analisi del documento era semplicistica. Ero all’estrema destra della sinistra, però tornavo a casa e dicevo a mio padre, che era un convinto liberale e un vero socialdemocratico: ‘Caro papà, non bisogna fare le riforme che dici tu, ma le riforme strutturali’. Dove per riforme strutturali intendevo quelle che porteranno al socialismo e al cambiamento della proprietà dei mezzi di produzione: a quei tempi, queste cose le poteva dire anche un amendoliano!
Suo padre non sarà stato contento della prospettiva d’essere espropriato della casa editrice.
Scuoteva la testa e sorrideva. Non ci rendevamo ben conto di quello che facevamo, leggevamo il mondo a senso unico. I figli di papà con i jeans sdruciti prendevano a calci le Mercedes davanti al Tasso, poi tornavano a casa ai Parioli dove di Mercedes i genitori magari ne avevano tre in garage. Facendo un esame scoprii che Piero Sraffa, economista grande amico di Gramsci, in un piccolo ma denso saggio, smontava il meccanismo della teoria classica della creazione del valore e contemporaneamente anche la teoria del plusvalore di Marx. Molto ingenuamente, in un attivo della Fgci, chiesi a Gerardo Chiaromonte come la mettevamo con la teoria di Sraffa. E lui mi liquidò così: ‘Ma cosa vuoi, son problemi filosofici...’. Per me era un problema decisivo, perché se non si riesce a dimostrare lo sfruttamento dei lavoratori crolla tutta la teoria di Marx. E rimane l’analisi laburista, cioè il conflitto per chi si prende la fetta grande dei guadagni. Ma non lo sfruttamento. Ancora oggi, nonostante tutto, c’è un retaggio marxista in questo paese. Io credo che ci sia un pregiudizio negativo nella sinistra contro gli imprenditori.
Ma no! Ammesso che il Pd secondo Matteo
sia di sinistra, certo non è ostile agli imprenditori...
Non alludevo a Renzi o Veltroni. Ma credo esista un pregiudizio negativo, che è la stessa faccia dell’incapacità della sinistra di valutare l’impresa nello specifico. Bisognerebbe distinguere chi crea valore a livello effettivo e chi no.
Sono almeno 40 anni che parliamo di riforme. “Fare le riforme” vuol dire ancora qualcosa?
Alcune cose fondamentali sono state fatte, pensiamo al divorzio. Il nodo delle riforme per me è un problema culturale. In assoluto il guaio maggiore è che a sinistra si è discusso pochissimo dei contenuti. Per esempio: cos’è la libertà? Un’idea di cui è stato lasciato il monopolio alla destra, ed è un vero peccato. Anni fa pubblicammo un saggio di Amartya Sen, La libertà individuale come impegno sociale, dove c’è un nucleo fondamentale su cui bisogna esercitarsi. Una buona democrazia, dice Sen, si vede dalla qualità del discorso pubblico, che in Italia non è certo di livello. Circostanza che ha effetti anche sull’attività politica e legislativa. In Italia la regola del discorso pubblico è che raramente si dice ciò che veramente si pensa. Si dice spesso ciò che consente di fare ciò che si vuole. Se io dichiaro ‘Te ne devi andare perché hai più di 70 anni’, creo meno attrito rispetto a una frase come ‘Te ne devi andare perché non sei capace’. Renzi ha usato l’arma generazionale per fare un’operazione squisitamente politica. Dopo di che uno può ritenere che questa operazione abbia contenuti di puro potere o pensare invece che sia davvero un’azione riformatrice perché le cose che dice Renzi introducono nella cultura di sinistra elementi liberali. Sono due visioni legittime. In generale, nel nostro paese, raramente un’affermazione generale è seguita da un atto specifico e individuale. Prendiamo il caso recente delle dichiarazioni del Papa sulla mafia: ne parlavo in questi giorni con mia moglie, giornalista a Rai News. Sarà interessante capire – diceva mia moglie – se il parroco di Oppido, il paese in Calabria dove la processione si è fermata per l’omaggio al boss, verrà in qualche modo sanzionato. Se devo pensare al discorso pubblico italiano, di cui la Chiesa è parte significativa, mi aspetto che nell’immediato non gli succeda nulla. Magari tra qualche tempo – per motivi apparentemente estranei alla processione – il parroco se ne andrà. In questo paese funziona così: Renzi dice ‘Enrico stai sereno’ a Letta e poi succede quello che succede. I politici, ma anche gli intellettuali, ripetono ossessivamente ‘Non è una questione personale’. Invece in Inghilterra o negli Usa è esattamente il contrario: è sempre una questione personale.
Dietro il decadimento del dibattito pubblico c’è una classe dirigente mediocre?
La mediocrità è prima di tutto questione di idee. Non si è discusso a sufficienza dei presupposti ideali della convivenza sociale. Io penso che lo stato sociale sia una grande conquista che ha consentito lo sviluppo economico e il riscatto di milioni di persone. Però il tema delle disuguaglianze è affrontato male. Ralph Dahrendorf – un nostro autore che ho avuto la fortuna di frequentare anche come amico – ha scritto che bisogna passare a un welfare che accompagni le disuguaglianze.
Con la crisi le disuguaglianze aumentano: forse non è il momento migliore per dirlo.
Un liberale progressista come Dahrendorf scrive che siamo diseguali e che la bellezza della vita sta nella diversità. Con due limiti, oltre i quali la diseguaglianza diventa intollerabile: i privilegi strutturali per cui il figlio dell’operaio può fare solo l’operaio e l’emarginazione dai diritti di cittadinanza. Salvo questi due paletti, le diseguaglianze vanno coltivate. In Italia invece per buona parte della sinistra la disuguaglianza è un tabù: non si può neanche pensare che due insegnanti di scuola o due magistrati possano essere pagati diversamente in base alla qualità del loro lavoro. Non dico in base al loro impegno, perché i lazzaroni dovrebbero semplicemente essere licenziati. Io credo che il welfare dell’omologazione sia una delle ragioni della crisi, la sinistra dice che la libertà d’insegnamento presuppone che i professori non siano verificabili.
Infatti: che vuol dire essere di sinistra? Ammesso che l’interrogativo abbia ancora senso...
Abbiamo recentemente pubblicato un libro, Pensare la sinistra, attorno al quale c’è stata una feroce discussione in casa editrice. Da una parte c’erano Pietro Reichlin dall’altra Marco Revelli, in mezzo Michele Salvati. Venivano fuori idee diversissime della sinistra. Reichlin sostiene che l’investimento più importante è quello in educazione e formazione. Revelli insiste invece sulla priorità della difesa dei diritti acquisiti. C’è una sinistra che rivendica più Stato contro il mercato e una che pensa al mercato come regolazione a favore dei consumatori. Ma a sinistra di questo si è discusso poco, mentre si spendevano fiumi di parole sulla contrapposizione tra Veltroni e D’Alema. E naturalmente su Silvio Berlusconi.
La finta opposizione!
Berlusconi andava combattuto proprio in nome del mercato: le sue televisioni – in genere le sue aziende – sono sempre state legate a filo triplo agli equilibri politici, non hanno mai affrontato una vera competizione sul libero mercato. Poi c’è anche il mai affrontato nodo del conflitto d’interessi e quello delle pendenze giudiziarie. Io sono orgoglioso di essere l’editore di Paolo Sylos Labini, Giovanni Sartori, Stefano Rodotà, Maurizio Viroli solo per citare alcuni intellettuali che hanno alzato la voce quando i perbenisti della sinistra invitavano a ‘non demonizzare Berlusconi’. Ma che vuol dire? Se uno ha i problemi di Berlusconi non si può far finta che non esistano perché una parte dei cittadini sembra non dare molto peso alla cosa. Norberto Bobbio, nel Dialogo intorno alla Repubblica con Maurizio Viroli ha scritto che Forza Italia era un ‘partito eversivo’ senza cultura di riferimento e pronto a ogni avventura. Anche lui demonizzatore?
In Italia peraltro abbiamo un’idea sbagliata del conflitto: ci sembra sempre che sia un male e non sappiamo gestirlo. Quando qualcuno dice ‘non sono d’accordo’ si pensa che ci sia sotto qualcos’altro: che quello con cui ti scontri ti abbia fregato la fidanzata o fatto chissà quale altro sgarbo.
Non sarà che siamo troppo consensuali?
Certo, ma questo è un problema della democrazia, che vive di conflitto. Le società procedono attraverso il conflitto. E mica c’è solo quello delle classi sociali rispetto i mezzi di produzione! C’è il conflitto politico, di potere, di reputazione...
No, reputazione no... in Italia non esiste più.
Esiste eccome, solo bisogna capire attraverso quali canali passa. Non è questione di reputazione per alcuni politici andare da Vespa? Non è reputazione per altri frequentare il Billionaire? Non è più la vecchia reputazione: decoro è una parola scomparsa. Molto più semplicemente e senza moralismo, la reputazione un tempo era legata alla coerenza. Oggi siamo tutti felici di smentirci. In televisione i politici dicono tutto il contrario di tutto, nessuno ci fa caso. Il Fatto è uno dei pochissimi giornali a pubblicare le frasi in contraddizione, ma sarebbe più forte svelare i voltafaccia in televisione. Pochi giorni fa, in un incontro promosso in Puglia dai Presidi del libro, Remo Bodei faceva notare che si è deciso di abolire ogni gerarchia di valori. Non si può più dire “questo romanzo è migliore di un altro”, al massimo “questo romanzo mi piace”, come i “like” sui social network.
Il mercato editoriale attraversa una crisi ormai cronica.
La forma libro è meno centrale di qualche decennio fa. I testi si possono leggere anche su altri supporti e questo ne cambia anche i contenuti. Però anche Internet vive nella storia, è destinato a trasformarsi. Come scrive nei nostri libri Gino Roncaglia, non è affatto detto che il web tra qualche anno non cambi, non evolva nel senso della complessità. Io penso che un editore non viva per la carta, ma per le idee. E quindi bisogna capire come le idee possano essere veicolate diversamente. Oggi siamo il primo editore che organizza importanti manifestazioni pubbliche come i Festival dell’Economia e del Diritto o le Lezioni di Storia. Un altro modo di fare circolare le idee.
Anche redditizio, no?
Certo, può esserlo come i libri.
È cambiata l’allure del libro. A metà degli anni Novanta i ragazzi andavano in giro con un libro Adelphi sotto il braccio perché aiutava a rimorchiare le ragazze.
Il miglior complimento che si possa fare a un editore! Bisogna riflettere su alcune cose. Se entro in un negozio, pago con il bancomat e dopo tre secondi la transazione non è eseguita la cassiera comincia a scusarsi convulsamente. Questo accade perché abbiamo un tempo di attenzione bassissimo. Il libro è il contrario di questo: è concentrazione, attenzione, difficoltà. La vita che facciamo e il pensiero in cui siamo immersi – possiamo sintetizzarlo in slogan stupidi come ‘con la cultura non si mangia’ – contraddicono la natura del libro. Se lo guardiamo da questo punto di vista, il fatto che ci siano ancora 5 milioni di italiani che leggono almeno un libro al mese è straordinario. Appena cinquant’anni fa solo il 17 per cento degli italiani leggeva libri. Siamo arrivati a toccare il 46 per cento, anche se dopo il 1996 questa curva cresce poco. Però non dimentichiamoci da dove veniamo.

Corriere 12.7.14
Elizabeth Anscombe
L’altra metà di Wittgenstein
di Sebastiano Vassalli

Sembrerebbe difficile accostare la filosofia di Wittgenstein e la dottrina cattolica della transustanziazione eucaristica. Eppure Elizabeth Anscombe (1919-2001) non vi vedeva alcuna contraddizione. Personalità forte (fumava il sigaro e portava i pantaloni quando ad Oxford le donne erano obbligate a insegnare indossando la gonna), madre di sette figli, era riuscita a vincere la proverbiale misoginia di Wittgenstein, che le affidò la pubblicazione delle sue ultime ricerche, a partire dalle Philosophical investigations apparse postume nel 1953.
Convertitasi al cattolicesimo con il marito poco prima della Seconda guerra mondiale, Anscombe diede ulteriore prova della sua indipendenza di giudizio opponendosi all’attribuzione da parte dell’Università di Oxford di una laurea honoris causa al presidente americano Truman: a suo parere, questi avrebbe determinato l’uccisione ingiustificata di vite innocenti, autorizzando i bombardamenti a tappeto e l’uso delle atomiche per abbreviare il corso della guerra. L’episodio ebbe grande risonanza e determinò una svolta nella direzione del suo pensiero; alla pubblicazione del pamphlet contro Truman nel 1956, seguirono infatti Intention (1957) e l’importante articolo «Moral modern philosophy» (1958). A partire dall’analisi del nesso tra linguaggio e comportamento, Anscombe vi ridisegna il rapporto tra intenzione e azione, arrivando a delineare una vera e propria filosofia dell’agire umano: «Gran parte del mio lavoro ha avuto a che fare con l’intenzione», affermava in un’intervista concessa verso la fine della sua vita. Al tempo stesso, Anscombe recupera appieno il concetto aristotelico di virtù come forma dell’agire, indicando una direzione di ricerca che si sarebbe rivelata assai feconda nei decenni successivi, specie nell’ambito anglosassone (basti pensare a Martha Nussbaum). Il profilo biografico e le dimensioni principali del pensiero della Anscombe sono ora più accessibili al lettore italiano grazie al volume di Elisa Grimi che, a volte con un po’ di enfasi, ne sottolinea il rigore e la coerenza di studiosa e di cattolica.

Il libro: Elisa Grimi, «G.E.M. Anscombe, the Dragon Lady», Cantagalli, pp. 524, € 23

Corriere 13.7.14
Viaggio nella città morta dell’India tra gli amori disperati di Kipling 
e vicende di Holden e Ameera alla luce del mito di Shiva e Parvati
di Giorgio Montefoschi

Gli indiani, oltre a essere notoriamente innamorati della burocrazia (firme, ricevute, timbri), sono anche molto precisi quando si tratta di stabilire la durata di un tragitto in automobile. Sembra che, dentro l’automobile (e in testa), come negli aerei, abbiano un computer. Infatti, benché l’uscita dalle città sia sempre infernale, l’attraversamento delle cittadine e dei numerosi villaggi sia ugualmente tormentoso — con i carretti, i camion, gli animali, gli ingorghi — se ti dicono che ci metterai un certo numero di ore, sono quelle, senza possibilità di salvezza. E spaccano il minuto.
Dalle spiagge di Goa a Hampi — con una perpendicolare che dal Mare Arabico va verso est nel Karnakata, salendo su per le montagne e inoltrandosi in una foresta rigogliosa e folta, poi scendendo nella pianura bruciata dal sole — la previsione è di otto ore. E otto ore sono. Non sette e tre quarti. Otto: dalle quali emergi con la schiena spezzata. Però l’arrivo è sublime verso le quattro del pomeriggio in questa città morta, abbandonata, oggi Hampi, un tempo Vijayanagar, capitale dell’omonimo regno che per due secoli (dal quattordicesimo al sedicesimo) splendette per potenza e per fasto, fino a che i cinque sultani del Deccan si allearono e la rasero al suolo. È sublime, perché, cominciando a inclinarsi, il sole rende i colori morbidi e quasi perfetti. Soprattutto i colori dei giganteschi massi di granito e di basalto che sorgono ovunque e si tengono in stupefacente equilibrio, formando costruzioni folli fra un tempio e l’altro, dighe e cascate nel fiume. Ma quando è successo? Quanti milioni di anni fa, e da dove, la terra ha eruttato queste meravigliose pietre che adesso stanno diventando rosa e poi diventeranno rosse, in mezzo alle risaie, alle palme, ai banani? O sono meteoriti caduti in pioggia dal cielo?
Giù al fiume, i bambini si tuffano nelle pozze verdi. Al bazar, minuscolo, con poca animazione, due ragazzi e due ragazze inglesi stanno all’ombra di una tettoia, con le bottiglie d’acqua minerale Bisleri, abbastanza disfatti. Nel grande tempio dedicato a Shiva, bellissimo, mi metto in fila per entrare nel santuario, sfiorare il fuoco, fare la mia offerta, ricevere la benedizione del dio creatore e distruttore, erotico e lussurioso. Gli uomini e le donne, davanti a me, congiungono le mani, sussurrano una preghiera, chiudono gli occhi. Quando Himalaya portò a Shiva sua figlia Parvati perché la sposasse — racconta una delle infinite versioni del mito — lui cercò di resistere al Desiderio, di non lasciarsi distogliere dall’ascesi, e disse: «Questa fanciulla dai magnifici fianchi non mi si deve avvicinare. I saggi sanno che la donna è la forma dell’Illusione e, in particolar modo, una donna giovane rovina gli asceti. Io sono un asceta, uno yogin, che bisogno ho dunque di una donna?». Ma Parvati era troppo attratta dalla virilità che si sprigionava dal tapas, dall’ascesi del suo amante riottoso. Così lei stessa si dedicò alla castità, finché la potenza accumulata da entrambi non la ebbe per vinta; i due si sposarono e per mille anni di seguito fecero l’amore.
Di colpo, come in quelle latitudini, è calato il crepuscolo intanto. In borsa ho un pocket con i Racconti Anglo-Indiani di Kipling: uno scrittore che amo, anche se, ogni volta che lo leggo, ho la sensazione inquietante di una sfasatura, di una miopia della mente. Vorrei rileggere, dopo molti anni, un racconto che giustamente Anthony Burgess giudica strepitoso. Si intitola Affidati al braccio secolare e parla dell’amore di un funzionario inglese, tale Holden, e una ragazza di soli sedici anni, di nome Ameera. Leggo qualche pagina, finché nasce un figlio, un bambino (mi ricordavo il tetto della casa che guarda dall’alto il villaggio,e i due abbracciati che scrutano le stelle), quindi spengo il lumetto del comodino e mi affido al ventilatore. E al sonno. Che è pieno di sogni «occidentali» parecchio confusi (mio padre e mia madre, letti vuoti, luoghi preclusi), e tuttavia ristoratore.
Così, di buon’ora, dopo la visita a ciò che rimane dei «lussi» reali — il Padiglione del Loto, il Bagno della Regina per esempio — entro nel grande cortile di quello che è considerato il gioiello di Hampi e uno dei gioielli dell’arte dravidica: il tempio Vitthala, dedicato a Vishnu e rimasto incompiuto. Il santuario al centro del cortile non è consacrato; è vuoto. Tutto intorno, gli corre un fossato stretto e profondo: un vero sotterraneo soffocante, dentro al quale non c’è altro che buio. I muri perimetrali esterni, invece, grondano di raffigurazioni scolpite: il pantheon induista, il cielo e la terra, gli uomini e gli animali. Ma quelle sono noiose da raccontare; quasi quanto i sogni. Mentre le pietre cominciano a scottare. Dunque, mi rifugio in un tempietto freschissimo, sempre in quel cortile, dove ritrovo i quattro ragazzi inglesi con una guida. Sono seduti compostamente fra le colonne e guardano uno stupendo albero, che sorge proprio accanto al muro del santuario, non grande, con tutte le sue foglie e dei lievi fiori bianchi. È un frangipani, spiega la guida a una delle due ragazze: il solo albero che può crescere nella nuda pietra, perché ha delle radici che vanno giù profondissime, tre o quattro metri, a cercare l’acqua. La stessa profondità del corridoio buio in cui non si vedeva niente. Lo contempliamo nel silenzio che merita, rotto dal canto degli uccelli, questo albero lieve che dal buio sgorga nella luce.
Fuori ho la macchina. Sono previste altre otto ore, precise, fino all’aeroporto. Quindi, la sera tardi, prendo l’aereo che mi porta a Chennai. Sono passati venticinque anni. Come sarà Madras diventata Chennai? E come sarà Kanchipuram, una delle sette città sante dell’India, che da Madras dista una cinquantina di chilometri e ha il tempio dravidico più bello che abbia mai visto, forse perché era il primo nel quale entravo, più bello persino di quello imponente di Madurai? Mi ricordo che era novembre: c’era il cosiddetto «monsone di ritorno». Il cielo era scuro, ma non pioveva; poi, improvvisamente, la luce si attutiva e venivano giù fiumi di pioggia.
Adesso il cielo è libero, il sole colpisce il bianco, lo scarlatto, il viola delle buganvillee che precipitano dai muri di recinzione dei parchi in cui è immersa gran parte di Chennai. Splende anche a Kanchipuram. Il tempio dedicato a Shiva che voglio rivedere dopo molti anni — col nome difficile da pronunciare: Ekambareswara — sormontato dal suo gopuram (la torre dell’ingresso) alto sessanta metri, è come per tutti questi anni lo avevo conservato nella memoria. Ha il cortile sabbioso con la vasca delle abluzioni che dà spazio prima dell’ingresso vero e proprio; la sala buia delle mille colonne; i penetrali in fondo ai quali si scorgono le statue divine, i bramini seminudi, il fuoco. E quel meraviglioso senso di oscurità non oppressiva, di riposo. La sorpresa è che in fondo, nell’ultimo cortile, l’albero di mango che la leggenda vuole vecchio di duemila e più anni è morto. Al suo posto, è stato piantato un mango giovane di cinque anni. È già bello frondoso e ha i canonici quattro rami che un tempo protessero il matrimonio di Shiva con una delle sue tante mogli. Ogni ramo produce frutti che hanno un gusto differente: il dolce, il salato, l’aspro, l’amaro. Sono: la dolcezza, le difficoltà (il salato non so a cosa corrisponda), il dolore di ogni connubio. E il vecchio mango dove è finito? Un frammento del suo legno è conservato all’ingresso. Dunque torno all’ingresso. Ed è lì: in una nicchia, protetto da un vetro, come un frammento della Croce.
Poco distante, in uno spazio separato da ghirlande di fiori è riunita un piccola folla festante. Si celebrano sessanta anni di un matrimonio. I due sposi — lui è seminudo come un bramino, lei ha un elegante saree — sono seduti in terra: candidi di capelli; felici. Intorno, fiori, figli, nipoti, profumo di incenso. Tutti si accostano, si inchinano, ricevono una benedizione. Anche io mi faccio stampare sulla fronte il rosso. E, in quel momento, sopraggiungono tre suonatori che si accovacciano nel corridoio d’ingresso. Due hanno un tamburo, il terzo suona in una lunga tuba. Sono i suoni — esattamente quelli — che in tutti questi anni avevo conservato nella memoria: si prolungano nei corridoi, fra le colonne, producono rimbombi misteriosi, a un tratto scompaiono. È il momento in cui il tempio chiude per riaprire alle quattro.
Ma io, alle quattro, sono già a Chennai. In albergo, vado avanti col racconto di Kipling. Lì, succede che il bambino muore e Ameera e Holden sono sconvolti dal dolore. Una notte l’uomo e la fanciulla sono di nuovo sulla terrazza. È l’inizio della primavera. Sulla linea dell’orizzonte danza la luce intermittente dei lampi. Ameera si stringe a Holden e gli dice: «La terra arida sta muggendo come una mucca e vuole la pioggia, e io... io ho paura. Non era così quando contammo le stelle. Ma tu mi ami ancora come prima, sebbene un legame ci sia stato sottratto? Rispondi». Holden risponde: «Amo di più perché un nuovo legame è nato dal dolore di cui ci siamo nutriti insieme, e che tu conosci». Vado avanti. Scoppia una epidemia di colera. Ameera muore. Prima di morire, bisbiglia una delle più belle dichiarazioni d’amore della letteratura: «Testimonio... testimonio che non vi è Dio, tranne... te, amato». Holden è impietrito. Si scatena la pioggia.

Corriere La Lettura 13.7.14
Una nuova edizione della Summa Teologica
Rubare si può (a volte), lo dice San Tommaso
di Armando Torno

La Somma Teologica (Summa Theologiae ) di Tommaso d’Aquino venne scritta tra il 1265 e la fine della sua vita (1274). È una di quelle vastissime opere che, secondo il grande storico del pensiero Étienne Gilson, rappresenta le «cattedrali di idee» dell’Italia medievale: sorsero a gara con quelle di pietra che si diffusero nel Nord dell’Europa. Le prime lasciarono traccia indelebile nella teologia e anche nel filosofare profano, le seconde in arte e architettura. E ancora Gilson in una riflessione nella parte finale de La filosofia nel Medioevo non ha dubbi e pone il nome di Tommaso accanto a quello di Dante. D’altra parte, la Commedia che cos’è se non una «cattedrale di idee»?
Tommaso scrisse la Somma con un fine pedagogico, ovvero non si rivolse agli studiosi ma agli studenti, ai novizi. Senza intenti apologetici o polemici, desiderava dar vita a un’opera sistematica, a un manuale. Si propose la chiarezza e, sui singoli argomenti, desiderò offrire risposte con riferimenti indispensabili. L’impianto aristotelico è compiutamente esteso da Tommaso alla teologia, disciplina che pur non essendo fondata su delle verità e dei principi evidenti (come quelli della scienza o anche della stessa metafisica) può avvalersi degli articoli di fede, che sono stati rivelati da Dio. L’opera è divisa in parti che presentano la medesima struttura, ovvero ci si trova dinanzi a una serie di questioni sul tema da trattare, le quali si dividono in articoli formulati come domande; Tommaso enuncia argomenti contro la tesi proposta, poi a favore. Seguono le risposte, le riflessioni; quando lo ritiene opportuno espone contestazioni o altro sulle obiezioni. Un procedere che ha fatto scrivere ironicamente a Umberto Eco nei versi di Filosofi in libertà : «San Tommaso l’Aquinate/ Le due Summae ha elaborate/ con il fare suo giocondo/ per ridurre tutto il mondo/ a un sistema di risposte/ calibrate e ben disposte/ che, con formule sagaci,/ senza fallo sian capaci/ di spiegar nel loro intrico/ da bon Dio fino al lombrico». Ma anche il metodo di indagine della Somma Teologica è ripreso con un sorriso da Eco che, d’altra parte, ha scelto Tommaso per la sua tesi di laurea: «Detto fatto con le buone/ Egli pone una questione,/ ma una volta che l’ha posta/ sente allor la tesi opposta/ poi con sintesi profonde/ al quesito egli risponde/ sino a che non si sia giunti/ ad esaurire tutti i punti».
Ora, la Somma Teologica ebbe una prima traduzione in italiano tra il 1950 e il 1974: l’editore Salani, grazie al lavoro di Tito Sante Centi, la pubblicò in 35 volumi con il latino a fronte; successivamente è stata rivista e continuamente riedita dalle Edizioni Studio Domenicano di Bologna. Nel 1996, grazie a Roberto Coggi, l’opera vide la luce presso quest’ultimo editore solo in italiano (6 tomi). E adesso, a cura di Giuseppe Barzaghi e Giorgio Carbone, ulteriormente riveduta, le Edizioni Studio Domenicano pubblicano l’integrale della massima opera di Tommaso in quattro volumi: saranno circa 6 mila pagine su doppia colonna, dei quali due sono usciti e gli altri sono previsti per novembre (il costo complessivo è di e 230). Una vera impresa editoriale, un’opera che è un fondamento del pensiero teologico e di molta filosofia torna in una veste pratica, disponibile per un pubblico più vasto di quello dei teologi.
Certo, ci si chiede che valore abbia oggi questa «cattedrale di idee». La risposta, al di là delle possibili ironie, è semplice: Tommaso continua a esercitare una notevole influenza. E non soltanto in ambito cattolico. Si prenda l’aspetto economico: l’autore della Somma Teologica si poneva domande sugli aspetti etici del commercio, sulla funzione del danaro e sulla formazione del prezzo; né si dimenticò trattare usura e interesse. Nella stessa Somma , per esempio, Tommaso subordina il diritto di proprietà alla destinazione universale dei beni della Terra; quando si presentano situazioni di estrema indigenza, il furto diventa lecito (II-II q.66, a.7). Un altro esempio può essere la condanna dell’egoismo; tuttavia Tommaso ricorda che esiste un egoismo giusto e legittimo, ché la causa di ogni peccato è l’«amore disordinato di se stessi». E anche nel caso della bugia, spina dorsale della comunicazione odierna, Tommaso è più liberale di Kant: se il filosofo tedesco sostenne che non si deve mentire nemmeno alla presenza di un malvivente, il santo dottore ritiene che la bugia «giocosa» e quella «officiosa», quando non ledono gravemente la carità, non costituiscono peccato mortale e non v’è problema nel proferirle(II-II, q. 110, aa. 2-4).
La donna gode per Tommaso, se si esclude qualche piccola concessione alla cultura del tempo, della medesima dignità e degli stessi diritti dell’uomo, tanto che in caso di infedeltà «marito e moglie vanno giudicati alla pari»; inoltre egli offre una deliziosa definizione di opinione: occupa una posizione intermedia tra il dubbio e la certezza. E anche della superbia: «È desiderare la propria eccellenza oltre i limiti della ragione». Tratta con grande accuratezza il tema del suicidio e giunge a condannarlo decisamente: in questo Tommaso chiude le concessioni eccezionali di alcuni Padri della Chiesa, come Ambrogio e Gerolamo. Per l’aborto Tommaso segue Agostino, il quale nel Commento all’Esodo ritiene che il feticidio sia omicidio se l’anima è già presente nel corpo. Seguendo Aristotele e lo stesso Agostino, ma anche Pier Lombardo, Tommaso non crede che essa possa esservi al momento del concepimento ma soltanto verso il quarantesimo giorno. Certo, oggi le sue tesi sarebbero ben diverse, ma questa è un’altra storia.
Non sono che cenni, quelli fatti. Da sette secoli e mezzo non si è mai smesso di confrontarsi con le opere di Tommaso, con la Somma in particolare. E anche su questioni superate dal comune sentire cattolico, come il Purgatorio, le sue tesi offrono argomentazioni che, pur non essendo vincolanti, conservano un notevole fascino.

Corriere La Lettura 13.7.14
Bloch insegna: i passati remoti ci fanno bene
di Dino Messina

Poche cose sono dannose come l’illusione di vivere in un eterno presente. Lo abbiamo visto con la crisi economica da cui a stento riusciremo a uscire, figlia proprio di quell’errore che ci fa vivere senza una visione prospettica. Marc Bloch (1886-1944), autore nel 1924 del capolavoro I re taumaturghi , era più o meno nella nostra situazione quando nel gennaio del 1937 venne invitato a tenere una conferenza in occasione dell’incarico di docente di Storia economica al Centre polytechnicien d’études économiques . L’onda lunga della crisi del 1929 ancora si faceva sentire e il grande storico, avendo scelto come tema della sua prolusione quello dell’«utilità della storia», metteva proprio in guardia dal mancato studio del passato. Essendo «la storia scienza del cambiamento e sotto molti riguardi scienza delle differenze», essa ci abitua a scuoterci dall’ipnosi dell’immutabilità.
È questa solo una delle osservazioni contenute in quella conferenza che ora viene riproposta a cura di Grado Giovanni Merlo e Francesco Mores dall’editore Castelvecchi (Che cosa chiedere alla storia , pp. 80, e 9). Una vera e propria chicca che interesserà i non pochi estimatori di un personaggio che scelse di impegnarsi nella Resistenza contro il nazismo quando era alla soglia dei sessant’anni ed era un affermato professore, fondatore della scuola delle Annales assieme a Lucien Febvre, che nel 1949 avrebbe curato gli scritti postumi del collega ucciso dai nazisti, Apologie pour l’histoire, ou métier d’historien .
Studia meglio il passato, argomenta Bloch, chi ha maggiore curiosità per le vicende umane del presente. Il che non vuol dire che la storia vada piegata agli interessi del momento: la si deve anzi raccontare con la maggiore obiettività possibile. Lo storico quindi deve essere capace nello stesso tempo di passione e distacco. Altra raccomandazione di Bloch è di non limitarsi all’analisi del passato prossimo. I salti storici, i grandi cambiamenti ma anche certi rapporti di causa effetto si vedono meglio quanto più guardiamo al lungo periodo. A determinate condizioni corrispondono certe conseguenze. Il che non ci deve autorizzare a facili analogie tra il passato e il presente. Esercizio che Bloch riteneva antistorico.

Il Sole Domenica 13.7.14
Filosofia minima
Aristofane e le donne libere di Platone
di Armando Massarenti

«Se tutti i beni saranno in comune, come potrò far doni a una ragazza per conquistarla?». È la domanda di Blepiro, personaggio della commedia di Aristofane Ekklesiazùse (Donne in assemblea), che si prende gioco della proposta di legge emessa dalla protagonista Prassagora; costei, insieme ad altre donne travestite da uomini, è riuscita a far approvare nel parlamento ateniese una sorta di proto-comunismo. Prassagora risponde in modo rassicurante: «Potrai far l'amore gratuitamente. Infatti stabilisco che anche le donne siano in comune a tutti gli uomini e facciano figli con chi vogliono». La sagacia di Aristofane, che con il suo teatro comico riesce a toccare la coscienza politica degli spettatori ateniesi, viene indagata da Luciano Canfora nel suo La crisi dell'utopia. Aristofane contro Platone (Laterza). Con un'argomentazione stringente, e contraddicendo gran parte della tradizione filologica a partire da Stephen Halliwell, Canfora dimostra come uno dei bersagli polemici della commedia sia soprattutto il filosofo Platone, autore di una delle più celebri utopie politiche della storia. Quando un personaggio delle Ekklesiazùse chiede: «Ma come si farà, nel momento in cui tutte le donne saranno in comune, a capire di chi sono i figli?», leggiamo quasi le identiche parole critiche rivolte da un interlocutore a Socrate nel dialogo della Repubblica: infatti l'utopia comunistica platonica presume la condivisione anche di donne e figli. In un altro luogo della commedia, poi, si fa riferimento a un personaggio piuttosto lascivo, tal Aristillo, che è un riferimento a Platone: il suo vero nome infatti era Aristocle, il cui diminutivo, per distinguerlo dal nonno omonimo, era proprio Aristillo. L'utopia platonica viene dunque capovolta comicamente con un'altra utopia, quella delle donne al potere che mettono in scena l'assurdità della proposta astratta di un filosofo che non solo era imparentato con i Trenta Tiranni, ma che aveva perseverato – con il tiranno Dionisio I di Siracusa – nel fallimentare tentativo di realizzazione pratica delle sue idee politiche. Una fin troppo lunga tradizione culturale occidentale ha operato una "santificazione" filosofica di Platone, omettendo di criticarne adeguatamente le idee politiche e non solo. Canfora, complice Aristofane, indica la strada per una lettura nuova e più onesta del filosofo greco e per una rilettura della sua utopia. Facendoci consapevoli dell'enorme impatto che deve aver avuto in una società maschiocentrica come Atene la Repubblica di Platone (soprattutto per la proposta della parità in pubblico uomo/donna e parità in funzioni cruciali) e l'eco di essa in una città in cui le donne "libere", cioè in grado di esplicare le proprie capacità, sono esplicitamente quelle considerate "di malaffare". Lo scandalo è che Platone propugna la fuoriuscita di casa delle donne "perbene", il loro libero commercio con gli uomini e soprattutto la loro funzione primaria nella difesa della città.

Il Sole Domenica 13.7.14
Biologia ed etica
In vitro sono solo cellule
È ora di ridiscutere i principi giuridici ed etici della legge che da 10 anni vieta l'uso di embrioni umani per fini di ricerca
di Gilberto Corbellini e Michele De Luca

Nella discussione svoltasi a Strasburgo, davanti alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo relativamente al ricorso «Parrillo contro Italia», si è tornati a parlare dello statuto scientifico degli embrioni umani e delle cellule staminali embrionali umane. Adele Parrillo, avendo perso il compagno nella strage di Nassiryia del 2003, chiede di potere donare a scopo di ricerca alcuni suoi embrioni, generati in provetta e crioconservati prima di quell'incidente nell'ambito di un trattamento di fecondazione medicalmente assistita. Richiesta rifiutata dallo Stato italiano sulla base della legge 40 del 2004, che non consente la donazione degli embrioni per scopo di ricerca. La Corte Europea ha pilatescamente evitato di prendere posizione, giudicando irricevibile il ricorso, e rimpallando tutto al governo italiano. Da parte sua, la Corte di Strasburgo, nella sentenza Brustle vs Greenpeace del 18 ottobre 2011, aveva abbracciato una definizione di «embrione umano» talmente estensiva da esser priva di alcuna pertinenza scientifica – del resto mirava a impedire la commercializzazione di derivati della ricerca con cellule staminali embrionali. Se quella definizione, che tanto piace agli integralisti, fosse adottata in sede di valutazione etica della ricerca nel campo delle biologia di base e della medicina rigenerativa, i più avanzati progetti di ricerca europei non andrebbero più finanziati.
Sulla natura biologica dell'embrione umano e delle staminali embrionali umane si discusse ad nauseam dieci anni fa, in occasione della promulgazione della legge 40, e l'anno successivo in merito ai quesiti referendari, con cui si tentò di impedire lo scempio, nel nome di dottrine e superstizioni confuse, del diritto riproduttivo in Italia. Negli ultimi dieci anni, mentre la Corte Costituzionale svuotava la legge 40, la scienza della biologia dello sviluppo umano ha fatto passi in avanti significativi. Proviamo quindi ad aggiornare la discussione. L'unione in vitro di due gameti (fertilizzazione in vitro) genera un aggregato di cellule, sostanzialmente tutte uguali tra loro, che sono le cellule staminali embrionali. Questo aggregato di cellule o embrione, non è un individuo, ma ha la potenzialità di diventare tale dopo il suo impianto in utero, ovvero dopo che le cellule hanno perso l'attributo della "staminalità" come singole cellule. Di fatto, ciascuna staminale embrionale, all'inizio dello sviluppo, ha la potenzialità di diventare un individuo. Una proprietà che, tra l'altro, possiede anche la cellula pluripotente riprogrammata (iPS) di Shinya Yamanaka, che ha identiche potenzialità di generare un essere vivente dopo l'impianto in utero. Di questo abbiamo la prova sperimentale nel modello animale. Ovviamente cambia il tipo di manipolazione che genera tale potenzialità: fertilizzazione in vitro che consente l'unione di uno spermatozoo e di un oocita in un caso, riprogrammazione di una cellula del corpo con 2-4 geni nell'altro. In buona sostanza quindi, anche una cellula adulta, somatica, della pelle ad esempio, ha la potenzialità, in seguito a un intervento artificiale che modifica alcuni fattori naturali, di generare un uomo o persona.
Lo Stato italiano non vieta la ricerca sulle cellule staminali embrionali, ottenute disaggregando un'embrione, ma non consente né la donazione a scopo di ricerca né la manipolazione degli embrioni stessi. Questo perché la legge, usando una semantica confusa che fa coincidere il termine giuridico "concepito" con quello biologico di "embrione", e dice che quest'ultimo non si può distruggere in quanto avrebbe un diritto soggettivo alla vita. Oggi sappiamo che ogni singola staminale embrionale, su cui invece è possibile fare ricerca, ha la stesse potenzialità biologiche di un embrione (o concepito). E che tali potenzialità possono essere indotte artificialmente nelle cellule del corpo che perdiamo e distruggiamo ogni giorno. Il prodotto del concepimento, quindi, non ha alcuna proprietà metafisica o statuto speciale, che non sia sperimentalmente riproducibile. Ergo, attribuire soggettività a delle cellule è una sciocchezza, sul piano filosofico e scientifico. La soggettività richiede lo sviluppo di specifiche strutture neurali, che naturalmente non sono previste e non esistono quando le cellule embrionali sono staminali.
Lo Stato dice che non è possibile distruggere un embrione italiano, però si può lavorare sulle cellule staminali ottenute dalla distruzione di un embrione "straniero". Il fatto che si possa poi abortire un feto italiano sano, e per motivi che nulla hanno a che fare con la salute del feto stesso, è un "dettaglio". In realtà, si tratta di una faticosa conquista di civiltà. Perché il controllo sociale sulle scelte riproduttive, in generale e a cominciare con il divieto di abortire, ha causato tra le peggiori aberrazioni morali ai danni della cosiddetta dignità umana. Si potrebbero quasi ravvisare elementi di razzismo e comunque una visione poco universale del valore della vita umana, in chi si oppone all'uso di embrioni umani o alla loro creazione per fini di ricerca in Italia, ma poi non combatte l'uso di staminali embrionali umane nei laboratori italiani.
Ovviamente non chiediamo di estendere il divieto di sperimentazione che vale per gli embrioni umani alle staminali, create distruggendo embrioni stranieri. Stiamo usando logica e scienza per illustrare l'assurdità degli argomenti che vietano la ricerca sugli embrioni umani. A partire dagli embrioni non più destinati alla procreazione, per cui non si negherebbe a nessun bambino la possibilità di nascere. Mentre si potrebbe dare, attraverso la tanto vituperata ricerca scientifica, la possibilità a moltissimi bambini e adulti malati di sopravvivere a gravi patologie. Quale etica sottende il fatto di lasciar deperire embrioni in un congelatore, piuttosto che dare a questi prodotti artificiali una dignità di contribuire a scoperte fondamentali per il progresso della medicina e della salute di tutta l'umanità?
Le staminali embrionali sono cellule assai affascinanti, versatili, e in grado di fornire una quantità incredibile di informazioni sulla biologia e sui meccanismi funzionali che regolano l'auto-rinnovamento, la proliferazione ed il differenziamento delle cellule. Presentano ancora difficoltà più serie delle staminali adulte, almeno dal punto di vista della loro applicazione clinica. Ma se alcuni governi lungimiranti non avessero consentito l'utilizzo di embrioni per ricerca, oggi non saremmo in grado di conoscere molte delle cose che sappiamo sulle embrionali, e Yamanka non avrebbe vinto il Nobel per la medicina nel 2012 per le sue scoperte sulle cellule pluripotenti indotte o iPS. È cronaca di questi giorni che nei paesi anglosassoni sono in corso sperimentazioni cliniche su tessuti generati da colture di cellule staminali embrionali. E, attenzione, staminali embrionali, iPS o staminali adulte non sono alternative. Quasi certamente risulteranno complementari, e molte patologie potranno un giorno essere curate o alleviate davvero da ciascuna di queste cellule, come oggi si può fare con le staminali emopoietiche ed epiteliali. Come al solito, quando questo avverrà, noi italiani andremo all'estero per accedere a questi trattamenti.
Senza nulla togliere alla ricerca sulle cellule staminali adulte, di cui uno degli autori di questo articolo si occupa da più di vent'anni, ostacolare la donazione di embrioni alla ricerca significa privare le persone della libertà di contribuire al progresso delle scienza medica e alla lotta contro patologie ad oggi prive di alternative terapeutiche.
*La Sapienza Università di Roma
**Università di Modena e Reggio Emilia