lunedì 14 luglio 2014

l’Unità 14.7.14
Ai lettori
il CdR


Comincia una settimana chiave per il nostro giornale. Oggi vedremo i liquidatori e consegneremo loro un messaggio semplice: non si può più aspettare. Le offerte che sono state annunciate, o solo vagheggiate, ora devono venire allo scoperto. Il dossier Unità è aperto da diversi mesi. Oggi, con la società in liquidazione e il rischio fallimento più vicino, non ci possiamo permettere di trascinare la vertenza fino ad agosto, cioè nel «deserto» delle ferie estive. Lo diciamo a tutti i soggetti che in queste settimane hanno fatto esternazioni sul futuro del giornale. La nostra è una comunità di donne e uomini che stanno continuando a lavorare senza ricevere lo stipendio. A loro si deve una risposta seria e credibile. A loro si deve offrire la possibilità concreta di negoziare le loro condizioni a un tavolo da aprire al più presto.

l’Unità 14.7.14
Diamo valore a un simbolo
di Chiara Valerio


SONO UNA PERSONA PIUTTOSTO FRIVOLA. ME NE ACCORGO, PER ESEMPIO, QUANDO VALUTO la possibilità che l’Unità, il giornale dove scrivo dal 2008, il primo col quale ho intrapreso una - questa - lunga e allegra collaborazione, possa chiudere. Sono una persona frivola perché non penso, prima di tutto, all’eredità storica, politica e umana che andrebbe perduta, se non dispersa, alla chiusura de l’Unità, non penso, prima di tutto, ai giornalisti e ai collaboratori che dovranno essere ricollocati - loro e le loro famiglie, - non penso neppure alla sede di via Ostiense, dove pare che uno assembli un giornale guardando una Roma che è immagine di un futuro passato, no, quando visualizzo la possibile chiusura de l’Unità, mi ritrovo - in jeans e camicia, una mise ormai renziana - davanti a un’edicola, una qualsiasi, e mentre guardo i giornali, mi rendo conto che la testata de l’Unità non c’è più. Che quel marchio, quell’icona pop, non appartenga più all’orizzonte degli scaffali. Se la questione fosse smettere o non smettere di produrre la Coca-Cola, rinunciare definitivamente non a certi modelli ma a tutta la linea di jeans Levi’s, se la V di Valentino diventasse W per un passaggio di proprietà, io sono certa che le prime trattative, economiche, industriali, estetiche sarebbero per il marchio. Per quella virgola rossa, tra una «l» corsiva e una «U» maiuscola, per il font, per il nero dei caratteri e il rosso del fondo.
A chi appartiene il marchio de l’Unità? Al giornalisti, al direttore, ai collaboratori, all’editore, ad Antonio Gramsci, di chi è, chi può venderlo? Sono così frivola, sono tanto cresciuta negli anni 80, che penso che la sola vendita, o l’affitto, del marchio de l’Unità possa regalare al giornale una nuova vita. Mi rendo conto, oltre che della frivolezza, pure dell’egoismo della proposta, visto che scrivo su questo giornale, ma tant’è... Il punto è che quando ho cominciato a scrivere su l’Unità, immediatamente, ho avuto spazi e fiducia e possibilità di proporre e inventare.
Il punto è che scrivere su l’Unità è stato, e continua a essere, un esercizio per ricordarsi, un giorno alla volta, una riga dopo l’altra, che fare cultura significa discutere, significa trasformare tutte le polemiche in dialettica, significa uscire fuori da un sistema nel quale i «no» non sono accettati e i «sì» si pagano (come bene ha osservato Giorgio Vasta in una discussione sul futuro prossimo del mercato editoriale). Se è vero che la parola Unità non è nata per essere riprodotta sulle magliette, o sulle bottiglie di bibite gasate, o sul retro di un pantalone, è vero altrettanto che il mercato - come per la Coca-Cola. o i Levi’s, o la V di Valentino - sarebbe in grado di attribuire un valore al simbolo, un valore economico certo, e di trasformare questo valore economico in una possibilità di futuro e di dialettica per la testata.
Se per tornare a parlare di significato o valore simbolico, di immaginario addirittura, se per restituire alle parole la loro natura di formula magica, non c’è rimasto che appellarci al mercato, alla pubblicità e al brand, allora assumiamoci almeno dichiariamolo a viso aperto. Sorridenti diciamo a noi e ai lettori che il partito è meno fantasioso del mercato, che un passato intatto (magari) è preferibile a un futuro, forse molto diverso, ma possibile.
La scorsa settimana un uomo, un signore molto distinto, che si chiama Silvio e che lavora come giardiniere mi ha detto che ci sono due modi per ricordare le persone e le cose passate, il primo è far dire messe in suffragio, il secondo è far lavorare i vivi, e lui preferiva far lavorare i vivi. Ecco, io penso che mettere all’asta il marchio - il disegno, il logo, la testata - de l’Unità, come se fosse un manoscritto di Leopardi o di Manganelli, sia una maniera per ringraziare un pezzo di storia politica e culturale italiana. Io, per come stanno andando le discussioni, sono per il merchandising.

il Fatto 14.7.14
Prendiamo la nostra Bastiglia
di Marina Valcarenghi


Oggi è l’anniversario della presa della Bastiglia e vorrei anch’io ballare in piazza a Parigi e non solo perché sono per metà francese. Si celebra in questo giorno il ça ira della canzone di quel tempo: si farà, ce la faremo. Ce la faremo a fermarli, a cambiare le cose, non si governa un popolo come una plebe. E i simboli erano importanti, allora come oggi. Nell’immensa fortezza della Bastiglia ormai quasi abbandonata c’erano solo sette prigionieri, il 14 luglio 1789, ma era l’immagine oppressiva del potere assoluto che spingeva la gente all’attacco di quella prigione. Era un simbolo, che assorbiva la protesta contro un sistema ingiusto che avvelenava la Francia. A prescindere da come poi sono andate le cose, quel giorno rappresenta, nel mio modo di pensare, un momento archetipico, e cioè qualcosa di universale, un fuoco che periodicamente si accende in un punto o nell’altro del pianeta. Certo che si tratta di minoranze ed erano minoranza quegli scalmanati di Parigi il 14 luglio, come lo erano in Russia nel ’17, o in Messico nel 1910 o in Italia nel 1848 e nel 1943. Sono sempre i pochi che si muovono, si sa, ma quando una minoranza - e non succede spesso - riesce a farsi interprete di uno stato d’animo collettivo, qualche cosa alla fine succede e il fuoco si accende.
Il nostro è uno strano paese: abbiamo da più di cento anni, in forme diverse, il più vergognoso malgoverno d’Europa, abbiamo però anche - al di fuori del circo mediatico e del mercato dei cervelli - grandi studiosi, coraggiosi giornalisti, magistrati eroici e importanti protagonisti nel cinema e nella letteratura, gente per bene, che lavora seriamente, che fa onore al nostro paese ma, per quanto riguarda la cosa pubblica, ormai da quasi 50 anni tutto è fermo, come se fossimo colpiti da un sortilegio. Cambiano le generazioni, ma restano i ladri, i mafiosi, i corrotti, gli incapaci. Credo che sia ora di svegliarsi e di dire ancora una volta ça ira, ce la faremo a fare della buona politica con delle facce finalmente credibili.

l’Unità 14.7.14
Civati e Vendola alleati per condizionare Renzi
Nasce a Livorno «Possibile», un’associazione «per battaglie politiche comuni»
Il leader di Sel: «Scriviamo insieme un’agenda di lotte»
Cuperlo: «Cerchiamo l’unità per una sinistra rinnovata»
di Osvaldo Sabato


«Non ho fatto tutta questa strada per diventare un piccolo Fioroni» afferma dal palco Pippo Civati. Come dire, che l’associazione “Possibile” lanciata ieri a Livorno dal parlamentare democratico non ha nessuna intenzione di diventare una corrente del Pd. L’aspirazione è molto più grande e mira ad unire tutto quel mondo della sinistra per tornare a parlare di lavoro, diritti civili, economia e riforme costituzionali. Tornare a farsi sentire è, appunto, possibile. Se ne discute con il pensiero su quanto sta succedendo a Gaza. E che ci sia bisogno di spingere di più sull’acceleratore ne sono convinti lo stesso Pippo Civati, Nichi Vendola e Gianni Cuperlo. “Possibile” è stato il filo conduttore del Politicamp di Villa Corridi. «Questa associazione non è una corrente del Pd per avere assessorati, ma è nata per fare battaglia politica » spiega Civati, che pensa ad un grande contenitore di «battaglie politiche comuni ». Nessuna fuoriuscita dal Pd, nessuna fuga dentro Sel, ma solo la voglia di pungolare e condizionare le scelte della maggioranza del Pd e del governo Renzi sui temi più caldi. Si partirà a settembre con le prime proposte di legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione delle droghe leggere, le unioni civili e il reddito minimo garantito.
Fuori e dentro il teatro The Cage, nello spazio all’aperto davanti al palco degli interventi, ieri erano in quasi duemila le persone giunte a Livorno da tutta Italia per seguire la giornata conclusiva della tre giorni civatiana. Di un’ ipotetica linea di collegamento fra Vendola e la sinistra del Pd ha parlato il leader di Sel annunciando una «possibile nascita di esperienze comuni a sinistra partendo dal semestre europeo, qui ci sono tanti insoddisfatti per l’andamento delle cose e per la leva del renzismo».
Tracciato l’asse, Vendola, ipotizza una sorta di Leopolda rossa con l’anima della sinistra del Pd. «La sfida è non chiudersi in un unico orto» dice Gianni Cuperlo, promotore di Sinistradem, sottolineando la necessità di superare una volta per sempre la logica della contrapposizione interna al Pd. «Renzi oggi è pienamente legittimato, qui non si tratta di cercare rivincite madi consolidare quel 40%. Le anime della sinistra sono da sempre bravissime a dividersi, la sfida oggi è provare a unirle» spiega Cuperlo. Quindi «non è in agenda nessuna fuoriuscita dal Pd: semmai c’è da cercare di dare al Pd un ancoraggio a sinistra » ribadisce l’esponente di punta della minoranza democratica. Lo sfidante di Renzi alle primarie per la segreteria del Pd riafferma «sarebbe sbagliato andarcene ». Anzi. «Dobbiamo sentirci parte dell’equipaggio in nome della voglia di cercare l’unità per una sinistra rinnovata» precisa Cuperlo. Con un’idea chiara: «-alziamo lo sguardo, il tempo della divisioni è alle spalle, lavoriamo per l’unità» dice lanciando la proposta di un evento in autunno «partendo da obiettivi comuni».
Seduto sul palco c’è Vendola che lo ascolta, subito dopo tocca a lui parlare e la prima cosa che fa è raccogliere l’assist di Cuperlo. «Non vi dico: rompete o uscite. Non faccio shopping» precisa il leader di Sel, «dico che c’è una sinistra che non fa battere il cuore perché non offre speranza. Quella speranza che viene offerta a buon mercato da Renzi, che ha due ingredienti: Renzi non è stato associato all’austerity; si è costruita l’idea che l’aggressione grillina potesse conquistare il primato nel Paese». Apre a «Pippo e Gianni», dice di voler fare «cose insieme a voi» e che servono «reti di sinistra». Per Vendola «c’è uno spazio per fare cose insieme partendo da un’agenda di lotte. Con il diritto di disturbare il manovratore italiano e anche europeo in questo semestre di presidenza italiana». Insomma il dado è tratto. E tutto potrebbe diventare più facile se, come consiglia Civati a Renzi, scorrendo la rubrica del cellulare «prima di Verdini c’è Vendola. Può parlare anche con lui, secondo me vengono fuori cose buone per il Paese».

Repubblica 14.7.14
Civati, una rete di sinistra con Vendola e Cuperlo
di Massimo Vanni


DAL NOSTRO INVIATO LIVORNO. Gianni Cuperlo e Nichi Vendola accettano l’invito. Salgono assieme sul palco della convention convocata da Pippo Civati per riunire tutti i pezzi della sinistra anti-renziana oggi dispersa nei partiti e fuori dai partiti. E a conclusione della tre giorni, dove dominano le scritte ‘meno destra e più sinistra’, ‘meno spread e più felicità’ ma nessuna bandiera Pd, Civati lancia l’associazione ‘Possibile’: «Uno spazio aperto per il dialogo interno alla sinistra, che non a caso non porta nel nome l’indicazione di nessun partito. Non ho fatto tutta questa strada per diventare un piccolo Fioroni», spiega. E se il leader di Sinistradem dice che «è il momento di unire le energie e le risorse che ci sono perché il congresso è alle spalle e dobbiamo ricollocare una sinistra rinnovata e ripensata », il presidente di Sel ipotizza la costruzione di una rete: «Non sono qui per fare shopping, oggi l’Italia e l’Europa non sono capaci con la Merkel e con Renzi di offrire un cambiamento reale».
Consegnata agli archivi quella sfortunata di Vasto, la “foto di Livorno” con i tre leader della sinistra, di fronte ad un paio di migliaia di persone, sembra già un nuovo manifesto. Non solo una semplice prova di dialogo fuori dalle appartenenze: «Da domani questa rete si strutturerà senza burocrazie in ogni città, così da avere una “Livorno possibile” o una “Taranto possibile”», dice Civati. Pensando già di replicare al sud la convention organizzata a Livorno, la città dove la sinistra è nata e dove, dopo 70 anni, è stata sonoramente sconfitta dai Cinque Stelle. «Da settembre proveremo a insistere sull’agenda di governo con proposte che attraversino il campo parlamentare, dalle droghe leggere al reddito minimo garantito ai diritti civili», dice ancora Civati. Che dopo la gaffe del giorno prima, quando il conduttore di un dibattito aveva annunciato in diretta la morte di Ciampi ricoverato a Bolzano, rivolge dal palco un augurio all’ex Capo dello Stato.
Vendola tiene a dire di non aver mai chiuso al Pd: «Ma non intendo genuflettermi al renzismo: l’industria crolla, la povertà raddoppi e l’occupazione aumenta ma per l’inquilino di Palazzo Chigi la nave va». Cuperlo punta il dito sul conflitto israelo-palestinese: «Sono preoccupato di una difficoltà se non di un silenzio dell’Europa di fronte a questo ennesimo tassello di una lunga tragedia e credo che bisognerebbe lavorare perché ritorni in campo una forte iniziativa politica». E lo stesso Vendola concorda: «Renzi, che normalmente parla di tutto e abbondantemente, non ha ancora parlato sulla crisi in Medio oriente e sul ritorno dell’incendio a Gaza».
Applauditissimo, il nemico giurato della riforma del Senato Corradino Mineo chiede più rispetto per i dissidenti. Mentre Walter Tocci ironizza sulle riforme: «Non si eleggono più i senatori, non si eleggono più i deputati e non si eleggono più le Province. E’ il ceto politico che elegge il ceto politico».

Corriere 14.7.14
Civati: un’associazione per tutta la sinistra

Anche il leader di Sel Nichi Vendola e il pd Gianni Cuperlo nell’ultima giornata, ieri a Livorno, della convention organizzata da Pippo Civati, uno dei leader della minoranza democratica. Nei due giorni di dibattiti, a cui hanno partecipato oltre mille persone, si è discusso del futuro della sinistra e dei rapporti con Matteo Renzi. «Il premier — ha detto Civati con una battuta — può scorrere la rubrica del cellulare: prima di Verdini c’è Vendola. Può parlare anche con lui, secondo me vengono fuori cose buone per il Paese». Al termine è stata varata una nuova associazione, si chiamerà «Possibile», dove — ha spiegato Civati — la sinistra italiana «potrà dialogare».

Formiche 14.7.14
Così Civati, Barca e Vendola non vogliono morire renziani
di Francesco De Palo

qui

il Giornale 14.7.14
Vendola, l'ultima spiaggia degli antirenziani del Pd
Traghettare nel partito i rimasugli di Sel e i movimentisti alla Landini
Così Civati prova a rafforzare un'opposizione interna divisa e ininfluente
di Laura Cesaretti

qui

La Nazione 14.7.14
Civati, Cuperlo e Vendola fanno squadra al Politicamp di Livorno

qui

Affari Italiani 14.7.14
Vendola, Civati e Cuperlo
L’asse “Possibile” del Politicamp
di Antonio Bucci

qui


I NUMERI
I raid iniziati l’8 luglio scorso.
Israele ora minaccia l’attacco di terra
172 i morti palestinesi
Oltre 1200 i feriti, l’Onu: il 78% delle vittime sono civili, il 22% bambini
10.000 gli sfollati
Israele ha lanciato volantini nel nord di Gaza avvertendo i civili di andarsene
1 morto israeliano, una donna colpita da infarto per lo stress da bombardamento

dall'Unità

l’Unità 14.7.14
Riyad Mansour
L’ambasciatore palestinese alle Nazioni Unite:
«Intervenga la comunità internazionale Netanyahu non ha licenza di uccidere»
«Questa è una punizione collettiva. Tutela Onu per il popolo palestinese»
intervista di U. D. G.


Oggi è l’anniversario della presa della Bastiglia e vorrei anch’io ballare in piazza a Parigi e non solo perché sono per metà francese. Si celebra in questo giorno il ça ira della canzone di quel tempo: si farà, ce la faremo. Ce la faremo a fermarli, a cambiare le cose, non si governa un popolo come una plebe. E i simboli erano importanti, allora come oggi. Nell’immensa fortezza della Bastiglia ormai quasi abbandonata c’erano solo sette prigionieri, il 14 luglio 1789, ma era l’immagine oppressiva del potere assoluto che spingeva la gente all’attacco di quella prigione. Era un simbolo, che assorbiva la protesta contro un sistema ingiusto che avvelenava la Francia. A prescindere da come poi sono andate le cose, quel giorno rappresenta, nel mio modo di pensare, un momento archetipico, e cioè qualcosa di universale, un fuoco che periodicamente si accende in un punto o nell’altro del pianeta. Certo che si tratta di minoranze ed erano minoranza quegli scalmanati di Parigi il 14 luglio, come lo erano in Russia nel ’17, o in Messico nel 1910 o in Italia nel 1848 e nel 1943. Sono sempre i pochi che si muovono, si sa, ma quando una minoranza - e non succede spesso - riesce a farsi interprete di uno stato d’animo collettivo, qualche cosa alla fine succede e il fuoco si accende.
Il nostro è uno strano paese: abbiamo da più di cento anni, in forme diverse, il più vergognoso malgoverno d’Europa, abbiamo però anche - al di fuori del circo mediatico e del mercato dei cervelli - grandi studiosi, coraggiosi giornalisti, magistrati eroici e importanti protagonisti nel cinema e nella letteratura, gente per bene, che lavora seriamente, che fa onore al nostro paese ma, per quanto riguarda la cosa pubblica, ormai da quasi 50 anni tutto è fermo, come se fossimo colpiti da un sortilegio. Cambiano le generazioni, ma restano i ladri, i mafiosi, i corrotti, gli incapaci. Credo che sia ora di svegliarsi e di dire ancora una volta ça ira, ce la faremo a fare della buona politica con delle facce finalmente credibili.

Repubblica 14.7.14
Bombardata Gaza migliaia in fuga L’Onu chiede la tregua
Primo blitz via terra delle forze speciali israeliane Netanyahu: tempi lunghi
A decine di migliaia hanno lasciato le case dopo gli avvertimenti pre-raid
“Cinque minuti per fuggire di una vita non resta nulla” Nel racconto di Salem il dramma della Striscia
di Fabio Scuto


GERUSALEMME. HANNO raccolto tutta una vita in pochi minuti, svegliato i figli che dormivano sulle brandine, zucchero e biscotti nelle buste di plastica insieme alle medicine, quattro magliette per i bambini in una sacca sformata, i documenti e le tessere alimentari delle Nazioni Unite nella borsa.
NON c’è stato tempo né lo spazio per prendere né qualche libro di scuola né un ricordo, un oggetto caro, la foto del matrimonio o quella vecchia del nonno in uniforme egiziana, quando Gaza apparteneva a un altro mondo. Si sono trovati in strada in pochi minuti Salem Abu Halima con la moglie Farida e i due bambini. Il vecchio somarello bianco attaccato al carretto, hanno percorso i dieci chilometri per arrivare alla “Gaza Beach Primary School” dell’Onu, alla periferia della città, uniti nel destino alle altre decine di migliaia che per tutta la mattinata hanno abbandonato Beit Lahiya e Beit Hanun, le due cittadine nel nord della Striscia dove - annunciati da volantini e telefonate - i caccia F-16 israeliani hanno cominciato a bombardare a raso, con metodo, per distruggere le basi di lancio dei missili che anche ieri sono arrivati numerosi nei cieli israeliani. Tutti intercettati dall’Iron Dome, il “totem” della Difesa aerea israeliana.
«Non c’era altra scelta, abbiamo dovuto obbedire all’ordine degli israeliani di sgomberare tutta la zona. Abbiamo due figli da salvare, il resto è andato perduto. Già non eravamo niente per il mondo e adesso è come essere nessuno», racconta ancora Salem. Le strade di Beit Lahiya, settantamila abitanti, si sono svuotate dall’alba di ieri dopo una notte di violentissimi bombardamenti. Ma soprattutto dopo il lancio dei volantini che davano agli abitanti tempo fino a mezzogiorno per abbandonare l’abitato. «Ci siamo mossi all’alba, tanto con quei bombardamenti nessuno poteva dormire, uno ogni dieci minuti: è stato terrificante », dice con un filo di voce Farid che in due viaggi con la moto è riuscito a portare i sei membri della sua famiglia fino a questa scuola dell’Unrwa, dove spera non si abbatta un bombardamento. Altre migliaia in fuga hanno cercato ospitalità da parenti e amici, ma per molti la bandiera blu dell’Onu sembra il rifugio con migliori garanzie. L’Unrwa ha deciso di aprire per ora dieci - delle oltre duecento scuole che gestisce nella Striscia - per dare un rifugio a questa prima ondata di arrivi.
Oltre ventimila palestinesi in fuga da Beit Lahiya sono arrivati ieri nelle scuole dell’Onu in carretti trainati da asini o cavalli pieni di bambini, bagagli e materassi, c’è chi è arrivato su un taxi sgangherato, in macchina, in moto. I meno fortunati a piedi, trascinando i resti di una vita dentro un trolley malridotto.
Anche Mohammed Sultan ha caricato tutto quel che ha potuto sul suo carretto trainato da un cavallo, la moglie, i suoi cinque figli aggrappati alle borse a qualche masserizia messa insieme in tutta fretta. Non c’era più posto per lui e così ha camminato per chilometri assieme ad altri familiari adulti in direzione di «una scuola con la bandiera blu». Samari al-Atar viveva nel quartiere di Atatra, un’altra delle zone “calde” che è stata duramente bombardata ieri dall’aviazione israeliana. «Abbiamo cercato riparo in casa prima durante la notte, i muri tremavano e i bambini piangevano di paura. Luda, la più piccola tremava e aveva gli occhi sbarrati. È stato come scegliere tra la vita e la morte», racconta in lacrime, «e poi mentre stavamo scappando hanno ricominciato a sparare tutto intorno, non abbiamo potuto portare nulla con noi, i nostri figli sono a piedi nudi ». Nadia, la moglie descrive il terrore della fuga alle prime luci dell’alba con gli aerei israeliani che volavano in cerchio sopra le loro teste. «La gente urlava e c’erano vecchi che non ce la facevano a camminare da soli, i più giovani li aiutavano. Non c’è l’elettricità e le strade erano buie come la pece ».
I banchi sono stati messi lungo il corridoio per sgombrare le aule e dare un tetto a tutti, ma è impossibile. Giardini e palestra sono invasi da un tappeto di materassi e coperte, una tenda tirata su con un lenzuolo e quattro paletti. Altre scuole verranno aperte dell’Unrwa perché il flusso degli sfollati non si ferma. All’interno del complesso scolastico i bambini sfollati disegnano su una lavagna con il gesso rosa e giallo: elicotteri israeliani e carri armati che sparano, i razzi palestinesi che partono. Suha Zyed ha ancora tutte le sue borse chiuse, come se dovesse scappare ancora d’improvviso. «Non è la prima volta che bombardano anche le scuole, e anche gli ospedali sono stati colpiti. Di sicuro a Gaza non c’è niente. Che ne sarà di noi adesso? Abbiamo perso tutto: il nostro futuro e anche il futuro dei nostri figli».

il Fatto 14.7.14
Dopo l’ultimatum di Tel Aviv
Fuga da Gaza Hamas: “Non lasciate le case”
di Cosimo Caridi


Striscia di Gaza. Un paio di cuscini e poche coperte, Mahmoud non ha caricato altro sul retro della sua moto. Moglie e due figlie si sono strette sulla sella. Non era ancora l’alba, stavano per consumare la colazione prima del lungo digiuno del Ramadan. “I vicini ci hanno bussato, hanno detto di scappare, gli israeliani stavano arrivando. Non abbiamo fatto in tempo a prendere nulla, nemmeno le scarpe delle bambine”. L’Unwra, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha aperto le scuole per accogliere i nuovi profughi. In principio quattro, poi otto strutture. Il rovente sole di luglio non fa in tempo a scaldare le pietre bianche che gli edifici sono già pieni. A una prima conta almeno in 4 mila hanno abbandonato le loro abitazioni per essere accolti dalle Nazioni Unite. Ma questa è solo una piccola parte, molti altri hanno preferito andare a casa di parenti al centro della Striscia. In questo contesto le parole di papa Francesco - fautore della preghiera di pace in Vaticano nel giugno scorso con Abu Mazen e Simon Peres - rivolte ieri durante l’Angelus non sembrano sortire effetti: è stato “un accorato appello” quello di Bergoglio che ha esortato “le parti e tutti quanti hanno responsabilità politiche in Terrasanta “a non risparmiare la preghiera e a non risparmiare alcuno sforzo per fare cessare ogni ostilità” . A metà mattinata viene diffuso un volantino dell’Idf (esercito israeliano) in cui sono indicate specifiche aree nel nord della Striscia che verranno attaccate. “I civili hanno tempo di allontanarsi entro mezzogiorno. Chiunque trascuri le istruzioni dell'esercito metterà la vita di se stesso e della sua famiglia a rischio. Attenzione. L'operazione dell'esercito sarà breve”. Un ultimatum a cui Hamas risponde immediatamente in modo opposto con questo invito: “Non lasciate le vostre case”. Intanto si contano gli attacchi e i morti, 21, della notte precedente. Il raid israeliano più micidiale è stato contro una moschea: in 16 hanno perso la vita e i feriti sono almeno 50. A fine giornata il bilancio si aggraverà ancora: 183, secondo il ministero della Salute di Gaza. Nella crisi del novembre 2012 i palestinesi uccisi furono 171.
I bambini sciamano per il cortile della scuola dell’Unwra di Nasser, pochi di loro hanno capito cosa sta succedendo. Ma Akram, sette anni e gli occhi azzurri, ha un piano: “Mettiamo questi banchi davanti all’ingresso così nessuno potrà entrare, nemmeno i soldati”.
LA SUA FAMIGLIA si è sistemata in una classe al primo piano, oltre venti persone, la quasi totalità sotto i quindici anni. Per terra qualche stuoia e in un angolo una pentola che bolle. “Perché il presidente Abu Mazen non si decide a dire qualcosa, a fare qualcosa” urla il fratello maggiore di Akram, con la rabbia che solo un adolescente sa esprimere. Intanto fuori dalla scuola continuano ad arrivare famiglie alla ricerca di un posto dove sistemarsi. Passano le 12 e tutti si aspettano l’inizio di bombardamenti israeliani, che però non arrivano. Hamas tenta quindi di scongiurare la fuga collettiva dalle zone periferiche e per bocca di un suo portavoce dichiara: “Gli abitanti di Gaza non devono ascoltare gli ordini d’Israele di abbandonare le loro case. Ci devono restare. Questa è una guerra psicologica”.
A fine giornata sono oltre 10 mila i gazawi in fuga verso aree più sicure a centro della Striscia. L’esercito israeliano dovrebbe colpire le zone a nord, dalle quali partono i razzi che il movimento islamico lancia contro Tel Aviv e Gerusalemme.
L’AVIAZIONE vorrebbe bonificare le aree per evitare di cadere in trappole preparate da Hamas, il passo successivo sarebbe l’invasione via terra che in realtà è già iniziata con azioni specifiche condotte da truppe d’elitè, per riuscire a colpire la dirigenza del movimento islamico. I leader di Hamas sono nascosti da tempo e cambiano con frequenza i loro rifugi. Gli attacchi aerei si basano su informazioni precise, ma sovente non riescono a colpire come previsto. Sono i civili, più spesso, a cadere al posto dei miliziani di Hamas. “Questa è casa mia e non me ne vado. Se devo morire preferisco farlo qui”. Sono in pochi a restare a Beit Lahia, ma Adnan non ha intenzione di muoversi. “La mia famiglia è dovuta scappare nel ’48, dopo la creazione di Israele. I miei genitori erano ancora bambini e vennero a vivere qui. Ma io sono un adulto e non voglio scappare né dalle bombe, né dall’esercito e ancor meno dalle bombe dell’esercito israeliano”.

La Stampa 14.7.14
Quel fiume di carretti in fuga dal fronte
“Distruggono tutto”
Fra i profughi che da Beit Lahiya vanno verso Sud
“Arriveranno i tank, ritroveremo solo macerie”
di Maurizio Molinari


Strade vuote, negozi sbarrati e i pochi sguardi umani che filtrano dietro porte semichiuse. Beit Lahiya si presenta come un luogo spettrale.
Sabato mattina ospitava circa 80 mila residenti, ora ne sono rimasti qualche centinaio. Per scoprire dove sono finiti bisogna percorrere l’arteria che porta a Jabalya, il maggiore campo profughi a Nord di Gaza. Più ci si avvicina a destinazione, più aumenta il numero di carretti trainati da asini sui quali sono appollaiate famiglie intere. I più abbienti hanno affittato un taxi e fra i ragazzi c’è chi viaggia in moto ma il disordinato fiume umano è soprattutto composto da famiglie che camminano a piedi, in gruppi disordinati.
La destinazione sono le scuole dell’Unrwa - l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi - che a Jabalya hanno aperto i cancelli per accogliere un fiume umano che non sa dove andare. Davanti alla «Boy School» si è creato un parcheggio di carretti e asini che invade la strada. È l’immagine dell’esodo di Beit Lahiya, composto da migliaia di microstorie come quella di Nabil Maarouf, 56 anni: «Ho una moglie, 4 figli e 10 figlie, sabato notte ho appreso che gli israeliani avrebbero bombardato il nostro quartiere e non ci ho pensato due volte, siamo saliti sul carretto e siamo arrivati qui». A Maarouf la notizia della minaccia israeliana l’ha data il notiziario in arabo di «Kol Israel», la radio di Gerusalemme, mentre Abdel Karim, 35 anni e 4 figli, dice di averlo saputo «guardando Russia Today», ovvero l’emittente russa in lingua araba molto seguita dai palestinesi della Striscia. «Poco dopo aver sentito cosa diceva la tv russa, era in mezzo alla notte, abbiamo sentito bombardamenti forti sul centro di Gaza e siamo andati subito via» aggiunge Karim.
L’altro mezzo con cui Israele ha comunicato la richiesta di «lasciare le vostre case entro le 12 di domenica per evitare attacchi duri» sono stati migliaia di volantini in arabo, gettati dal cielo. Hamas ha tentato di fermare la fuga stampando a sua volta dei comunicati scritti: «Non lasciate la vostre case, non fate il gioco del nemico». Ma il timore dei bombardamenti ha prevalso e Beit Lahiya si è trasformata in un deserto urbano, desolato al punto da evocare il «Day After» di una bomba ai neutroni perché gli edifici sono intatti ma gli esseri umani non ci sono più. Se si escludono alcuni uomini intenti a smontare i tombini per trasformare l’ambiente sotterraneo in rifugio o alcune auto in cerca dei parenti rimasti indietro. A ricevere i profughi nelle scuole sono insegnanti come Ibrahim Belbesi, 62 anni: «Di professione insegno inglese ma adesso aiuto questi disperati, hanno bisogno di tutto».
È l’esercito israeliano ad aver voluto svuotare Beit Lahiya perché è dal Nord della Striscia che, sin dall’inizio dall’operazione «Protective Edge», sono partiti il 36 per cento dei razzi lanciati da Hamas e il 30 per cento di quelli a lungo raggio destinati a Tel Aviv, Gerusalemme e l’aeroporto Ben Gurion. «Hamas usa Beit Lahiya per attaccare le nostre città - spiega Arye Shalicar, portavoce dell’esercito - e adopera la popolazione civile come un gigantesco scudo umano, l’evacuazione degli abitanti ci consente un confronto diretto con Hamas e forse farà cessare i razzi, perché la protezione umana non ci sarà più». Ciò significa che droni, satelliti e informatori israeliani hanno identificato in Beit Lahya una pericolosa piattaforma di lancio di razzi. Da qui i bombardamenti massicci, iniziati dalle 14 di ieri, con intensità crescente, facendo tremare la terra per chilometri.
A conferma della volontà di Tzahal - l’esercito israeliano - di imporsi a Beit Lahya c’è il blitz dei commandos della Marina - Shayetet 13 - che all’alba di domenica hanno attaccato dal mare la base di Hamas sulla spiaggia di Al-Sudaniya. Si tratta di un angolo di arenile popolato di casematte e con una base militare della Marina palestinese. È da qui che sono partiti molti dei razzi a lungo raggio: M-75 e J-80. «Ed è qui che le nostre truppe speciali hanno colpito, trattandosi di un obiettivo che dal cielo non poteva essere raggiunto» spiega Shalicar. Nello scontro a fuoco sono morti - secondo Al Jazeera - quattro miliziani di Hamas mentre tre commandos sono rimasti feriti.
A molti profughi di Beit Lahya la sovrapposizione fra il blitz dei «pipistrelli» - soprannome dei Navy Seals israeliani - e l’evacuazione obbligata fa ricordare «quanto avvenuto alla fine 2008» in occasione dell’operazione «Piombo Fuso». «Gli israeliani allora invasero Gaza passando da Beit Lahiya - ricorda Ahmed Kafarna, 46 anni - trasformarono la nostra città in una base per i loro carri armati, da dove bombardavano il centro di Gaza». L’obiettivo sarebbe dunque creare uno spazio per agevolare l’intervento di terra, creando il nuovo confine fra Israele e Hamas lungo la «Strada 17» ovvero il grande viale che prende il nome dalla caserma - oramai demolita - di Forza 17, le truppe scelte dell’Olp di Yasser Arafat. «Torneranno su questo viale, lo trasformeranno in campo militare e poi se ne andranno, lasciando solo macerie» prevede Kafarna. Ironia della sorte vuole che buona parte dei volantini sganciati su Beit Lahya sono stati portati dal vento alla vicina Beit Hanun, dove i residenti li hanno stracciati in mezzo alla strada, gridando «noi restiamo».

La Stampa 14.7.14
Il medico norvegese: il metallo rovente fa stragi
“Amputazioni gravissime. Sono le bombe dei droni”
di M. Mo.


Nell’ospedale Al-Shifa di Gaza è un chirurgo di Oslo a curare i feriti più gravi causati dai bombardamenti israeliani. Erik Fosse è arrivato venerdì dalla Norvegia «grazie a un visto israeliano della durata di sei mesi». Lo incontriamo durante una sosta fra gli interventi che esegue nelle sale operatorie sotterranee. Camice verde, scarpe bianche comode e nessun cellulare, Fosse esordisce affermando «sono qui da pochi giorni ma posso già fare delle osservazioni sulle ferite più frequenti che mi sono trovato ad affrontare».
Di che ferite di tratta?
«La maggior parte delle persone ricoverate arrivano con ferite molto gravi alle gambe ed alla parte bassa del corpo. Sono ferite vistose e molto serie».
Da che cosa sono provocate?
«Dalle bombe lanciate dai droni israeliani. Sono ordigni molto efficienti, come il sito Internet chi li produce afferma con un certo orgoglio, ma causano queste gravi conseguenze».
Ci spieghi queste conseguenze...
«Le bombe dei droni mirano a uccidere una, o al massimo due persone. L’esplosione è infatti limitata ma dopo aver investito l’obiettivo le bombe toccano terra e sprigionano del metallo fuso che al contatto con il terreno rimbalza verso l’alto, causando ferite molto gravi, che assomigliano a grandi tagli».
In che maniera le curate?
«Non è facile curarle perché questo genere di ferite causa spesso delle amputazioni. Per questo le persone immediatamente vicino alle vittime designate, che in genere sono i suoi famigliari, arrivano da noi menomate, con arti inferiori o genitali mancanti. Solo in due casi siamo riusciti a salvare la vita a questi poveretti, che spesso sono donne e bambini, e li abbiamo trasferiti in Giordania per consentire loro di sottoporsi ad ulteriori cure mediche».
Perché è venuto a Gaza?
«Perché ci ero già stato, comprendo la grande situazione di sofferenza e difficoltà dei medici palestinesi e ritengo giusto aiutarli. E credo sia anche giusto far sapere all’opinione pubblica che i droni israeliani, e i missili che lanciano, non sono solamente armi chirurgiche ma anche armamenti anti-persone che dovrebbero essere vietati o almeno regolamentati». [m. mo.]

Corriere 14.7.14
Le notti insonni attaccata alla radio
Poi di giorno sfido l’incubo là fuori
di Abeer Ayyoub


Non appena ho saputo che un istituto per disabili era stato colpito dall’aviazione israeliana a Beit Lahia, nella zona nord della Striscia di Gaza, mi sono recata sul posto assieme ad alcuni colleghi giornalisti. Un paio di minuti prima del nostro arrivo, abbiamo sentito grosse esplosioni lungo la stessa strada che stavamo percorrendo. Urlando per la paura, abbiamo invertito la rotta e fatto rientro a Gaza senza il nostro servizio.
Diretti in ufficio, siamo passati accanto all’ospedale Al-Shifa, il più importante di Gaza, e siamo scesi per andare a vedere se vi fossero state vittime nell’ultimo bombardamento aereo. Le ambulanze arrivavano da ogni dove. «All’obitorio, all’obitorio», gridava un dottore indicando i corpi delle vittime.
Ci siamo recati all’obitorio, dove avevano portato i morti del raid aereo: si trattava di un paio di persone che camminavano lungo la strada quando erano state centrate da un ordigno. All’obitorio, abbiamo visto una scena che resterà impressa nella mia memoria finché vivrò: un corpo carbonizzato privo di testa! Ho provato a superare lo shock con tutte le mie forze, ma mi sono sentita sopraffatta.
Tutto questo si è svolto in una sola ora, dei sei giorni di raid aerei in cui la violenza non ha conosciuto pause. I morti sono oltre 150, per la maggior parte civili. E sono stati colpiti mentre erano barricati in casa.
Questa è la terza guerra della mia vita, e ogni volta è la stessa orribile esperienza. Ma stavolta è diverso, perché l’attacco coincide con il mese santo del Ramadan. Invece di raccoglierci in preghiera e spezzare il pane insieme a colazione e al tramonto del sole, con la celebrazione del suhoor , veniamo colpiti nelle nostre case, mentre siamo seduti davanti alla televisione ad assistere a scene di sangue e devastazione.
Dei miei familiari, nessuno osa uscire di casa, tranne la sottoscritta, per dovere professionale. Pochissima gente esce per strada, e solo per procurarsi il necessario per la famiglia, eppure anche costoro sono stati colpiti dai bombardamenti e dalle esplosioni.
Per tutti e sei i giorni, né io né le mie sorelle ci siamo potute concedere una notte di risposo. Passiamo le ore notturne a seguire le notizie alla radio e sui social media. Quando mi sforzo di dormire per poter essere in grado di lavorare il giorno dopo, chiudo gli occhi e precipito sempre nello stesso incubo, di essere uccisa o di perdere uno dei miei cari.
È una pazzia. I tagli di energia elettrica aggravano la situazione, manca la luce e si è costretti a lavorare in un caldo torrido.
Per la terza volta, Israele ha scatenato un’offensiva militare contro il milione e mezzo di abitanti di Gaza con il medesimo obiettivo, sempre perseguito e mai raggiunto: distruggere Hamas e metter fine al lancio di razzi da Gaza contro le città israeliane. Israele sostiene che Hamas si serve dei palestinesi di Gaza come scudi umani, ma nulla è più lontano dalla realtà.
Per metter fine ai lanci missilistici da Gaza, Israele deve rinunciare all’aggressione e all’oppressione della popolazione palestinese, aprendo i confini in modo che possa rifornirsi delle materie prime indispensabili per lavorare e produrre; consentire alla gente di entrare e uscire da Gaza; e smettere di sparare sui pescatori e sui contadini occupati a svolgere il loro lavoro. Solo allora gli abitanti di Gaza potranno vivere come tutti gli altri esseri umani.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

il Fatto 14.7.14
I ‘Navy Seals’ israeliani
Shayetet 13, infiltrati invisibili
di Valerio Cattano


L’operazione via terra a Gaza è iniziata senza la “cavalcata delle Valchirie” di Wagner sparata a tutto volume dagli elicotteri da combattimento. Quella è roba da americani. Gli israeliani sono entrati nella Striscia dal mare affidando il compito di trovare depositi di armi e neutralizzare postazioni di razzi allo Shayetet 13 (la Flottiglia), una delle unità d’élite della Marina. Per cercare un paragone di facile presa nell'immaginario collettivo, si tratta del corrispettivo dei Navy Seal a stelle e strisce. La storia di questi incursori - il loro motto è “Come un pipistrello fuori dal buio, come una granata che esplode in un tuono” - specializzati in azioni di commando sia in mare che a terra è singolare, perchè il loro addestramento si deve a un ex componente della X Mas, zoccolo duro della Repubblica di Salò, dato che, dopo l'8 settembre 1943, il gruppo comandato da Junio Valerio Borghese entrò a far parte della Marina Repubblicana fascista. In pochi ricordano che invece gli altri incursori italiani rimasti a Sud in quell'Italia spaccata in due, si raggrupparono sotto il comando degli angloamericani con il nome di Mariassalto. Riconosciuti dagli eserciti che avevano preso parte al conflitto mondiale come esperti di guerriglia, proprio un ex componente della X Mas - Fiorenzo Capriotti - e uno di Mariassalto - Nicola Conte - furono avvicinati nel 1948 dai Servizi Italiani per un incarico: andare in Israele e addestrare la Flottiglia. Per uno strano scherzo del destino, o di un pragmatismo militare per cui ogni fine giustifica il mezzo, Capriotti, che dopo la guerra in Italia aveva aderito al Movimento sociale italiano, divenne un eroe pure per gli israeliani che dal fascismo erano stati perseguitati: nel 1992 fu dichiarato comandante ad honorem di Shayatet 13.
NELLA STORIA del conflitto arabo-israeliano, Shayetet 13, costituito da tre squadre (assalto, sub e superficie) ha sempre avuto missioni ad alto rischio da compiere ma al contrario dei colleghi di altre nazioni - vedi appunto i Navy Seals - gli incursori israeliani non hanno film di cassetta a celebrare le loro attività in tutto il mondo. Nonostante le polemiche internazionali sull'episodio della nave turca Mavi Marmara (2010) piena di attivisti pro palestinesi - gli incursori si calarono sul pontile dell'imbarcazione che voleva rompere il blocco navale attorno a Gaza e vi furono nove morti fra i civili
- Israele continua a tenere in grande considerazione i suoi uomini-rana, che dalla loro formazione possono annoverare solo una grande disfatta, avvenuta per stessa ammissione di uno degli ex comandanti, in Libano il 4 settembre 1997, con molti morti e feriti.
Scoppiata l'ennesima crisi con Hamas, a Shayetet 13 è stato affidato il primo attacco notturno. La radio militare dell'Idf ha ammesso che 4 marinai sono stati feriti in modo non grave, aggiungendo che l’obiettivo è stato distrutto e tre miliziani di Hamas sono stati uccisi. I siti web di Hamas descrivono invece un insuccesso israeliano, e la pressione psicologica si tramuta in un nuovo filmato in ebraico: “Soldato israeliano che entri a Gaza, fermati ! Sei entrato nel mirino di Hamas”. Fra comunicati, incursioni e doppie versioni dei fatti, la certezza è che la guerra nelle strade è iniziata.

il Fatto 14.7.14
Renzi, M5s e dissidenti: botte su Senato e soldi
Il premier attacca l’ala Pd in disaccordo con la riforma del Senato
Renzi accusa i dissidenti: “Protestano per i soldi”
di Stefano Caselli


Tra bradipi e gufi, la politica domenicale italiana continua nel suo incedere prettamente zoologico. Il rapace notturno, tanto caro a Renzi, è nuovamente evocato in una intervista fiume al premier pubblicata ieri sul Corriere della Sera. Il simpatico mammifero, sinonimo di lentezza, è l’ultimo epiteto coniato a misura di Renzi dal duo Grillo-Casaleggio (ieri sul blog). Oggetto di entrambe le esternate, le riforme istituzionali, prima fra tutte quella del Senato (riduzione a 100 membri eletti direttamente dai Consigli regionali su base proporzionale) già approvata in Commissione Affari costituzionali e da oggi a Palazzo Madama: “Il M5S - si legge su beppegrillo.it   - ha messo alla prova la velocità di Renzie e ne ha constatato la velocità del bradipo. Il M5S ha risposto alle richieste del Pd in tempo reale (dieci risposte al Pd su legge elettorale e riforme istituzionali: postate sul blog la scorsa settimana, ndr). È necessario concludere questo confronto al più presto. Per cui se non verrà confermata una data di incontro con la nostra delegazione insieme a eventuali rilievi alle nostre risposte ne prenderemo atto e lasceremo che la trattava si sviluppi con la benedizione del Colle tra il noto pregiudicato, e forse da venerdì anche noto carcerato, e il bradipo fiorentino”. Fine dell’ultimatum.
MARIA ELENA BOSCHI raccoglie poco dopo: “Risponderemo senza problemi nelle prossime 24 ore - dichiara il ministro per le Riforme Costituzionali - Il Pd incontrerà M5S ed il tavolo resta aperto. Prendo atto di questa fretta, ma segnalo che negli ultimi mesi abbiamo lavorato" .
Il governo del “fare”, appunto, definizione tanto cara al premier Renzi che “in polo viola, jeans e sneackers” riceve a palazzo Chigi il Corriere di sabato mattina, “con l’aria di chi ha fatto le ore piccole (...) e si è svegliato alle cinque del mattino” per dedicarsi alla sua “lettura quotidiana (...) il riassunto voce per voce del bilancio dello Stato” che conosce “quasi a memoria”.
Il titolo della lunga intervista (“Italia commissariata? Non esiste”) ha un che di sinistro, dato che smentisce una notizia che non ci sembrava fosse all’ordine del giorno (il pericolo di commissariamento dell’Italia da parte della Troika dell’Ue modello Grecia) ma tant’è. A Matteo Renzi, più che gli “investitori internazionali”, preoccupano “i frenatori italiani”, tra cui anche quelli che si oppongono alle Riforme, in primis quella del Senato: “Non si rassegnano - dichiara il premier della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori”. E poi torna il nome di Corradino Mineo, il reprobo, senatore Pd estromesso dalla Commissione Affari Costituzionali settimane fa causa ostruzionismo. L’ex direttore di Rainews24 scherza su tanta, reiterata, attenzione nei suoi confronti: “Vedo che Renzi continua a fare di me una personificazione del male - dichiara - Non sono degno, non merito tanto. Dice che chi si oppone alla riforma del Senato lo fa per mantenere la propria indennità? Mah. Faccio presente che noi avevamo chiesto di ridurre il senato a 100 membri (unica richiesta che poi è stata effettivamente recepita) ma anche di dimezzare a 315 il numero dei deputati a Montecitorio. Il veto su questa drastica riduzione dei parlamentari se non sbaglio è arrivato dal governo. Quindi semmai è lui che protegge chi vuole conservare una poltrona, per usare il suo linguaggio. Piuttosto che preoccuparsi di ‘frenatori’ e ‘gufi’, forse Renzi dovrebbe spiegare perché si è opposto alla riduzione dei deputati”.
SECONDO LEI PERCHÉ? “Il problema principale - prosegue Mineo - è il combinato tra l’Italicum e la riforma del Senato. Vincere le elezioni con il 37% significa avere almeno 340 deputati su 630 e almeno 35 senatori su 100. Questo significa che chi vince le elezioni potrà scegliere anche il capo dello Stato, visto che dopo il terzo scrutinio la maggioranza dei 2/3 è previsto che scenda al 51% degli aventi diritto. Il Capo dello Stato, poi, eleggerà 5 giudici della Corte Costituzionale, che uniti ai cinque nominati dal Parlamento dominato da un premio di maggioranza devastante fanno dieci su quindici. Una roba del genere non si è vista mai in un nessuna democrazia liberale del mondo”. Un modello di “democrazia autoritaria” che Il Fatto denuncia da tempo.
Matteo Renzi tiene a precisare che la fretta sulla Riforma del Senato non è dettata dai tempi stretti della sentenza d’appello sul caso Ruby: “Non credo che questo il problema siano i processi di Berlusconi - conclude Mineo - Certo è che Renzi si prodiga nuovamente in un grande elogio del suo principale interlocutore (“diamo a Cesare quel che è di Cesare. Ha sempre mantenuto la parola data”, ndr). Spero che non faccia lo stesso errore di Letta e Napolitano. Nom si può non tenere conto che possa essere di nuovo condannato definitivamente. Questa gamba della solidarietà nazionale è debole e fragile, non la vedo affatto bene”.

l’Unità 14.7.14
Dissidenti Pd: «Da Renzi falsità, non difendiamo privilegi»
Chiti, Mineo, Cuperlo e altri respingono le accuse:

«È assurdo dire che chi vuole cambiare in modo diverso la Costituzione vuole mantenerere l’indennità»
di Osvaldo Sabato


Matteo Renzi attacca i senatori del Pd che si oppongono alla riforma del Senato, frutto dell’accordo con Silvio Berlusconi, e lo fa senza tanti giri di parole. «Non si rassegnano all’idea della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori» dice al Corriere della Sera. Parole che hanno scatenato la reazione immediata di Vannino Chiti, uno dei “dissidenti” nel Pd insieme a Erica D’Adda, Nerina Dirindin, Maria Grazia Gatti, Felice Casson, Paolo Corsini, Francesco Giacobbe, Sergio Lo Giudice, Claudio Micheloni, Corradino Mineo, Walter Tocci e Renato Turano. «Il presidente del Consiglio Renzi sulle riforme ha detto alcune cose non vere» replica Chiti. «Sostenere che chi propone una riforma costituzionale diversa vuole difendere l’indennità dei senatori è assurdo. Tagliando il numero dei deputati a 315 o 470 sparirebbe qualche centinaio di indennità, insieme alle 215 che eliminiamo al Senato» ribadisce Chiti. La polemica infiamma il clima nel Pd a pochi giorni dal dibattito nell’aula di Palazzo Madama sulla riforma voluta fortemente dal premier - segretario Matteo Renzi. Nel mirino della minoranza interna del Pd c’è anche quell’Italicum che non va proprio giù. «La legge elettorale va cambiata, io ne sono convinto» dice Gianni Cuperlo, a margine dell’iniziativa di Pippo Civati a Livorno. «Va cambiata su tre punti» aggiunge l’ex presidente dell’assemblea nazionale del Pd. «Sono le soglie dell’8% per l’accesso al Parlamento delle forze non coalizzate, vuol dire che puoi raccogliere quasi 4 milioni di voti e non avere una rappresentanza nelle istituzioni » spiega Cuperlo «questo non va bene per la qualità della nostra democrazia ». Un altro punto che non convince sono le liste bloccate. «Vanno assolutamente superate, lo so che attualmente si dice che questo sistema è più corto con quattro o cinque nomi scritti sulla scheda e non i quaranta nomi di prima affissi fuori dal seggio, però con il sistema del collegio unico nazionale non si ha alcuna certezza che il tuo voto contribuisca ad eleggere e a conoscere l’eletto, poi garantire un vero equilibrio di genere fra uomini e donne» aggiunge Cuperlo. «Su questi punti la battaglia va avanti, l’impegno va avanti e alla fine ognuno si assumerà le sue responsabilità» conclude il deputato del Pd.
«Il problema non è solo mio» commenta il senatore Corradino Mineo, anche lui ieri a Livorno all’iniziativa di Civati, contrario fin da subito al nuovo Senato, disegnato dalla ministra delle Rifome Maria Elena Boschi. «Io faccio sempre quello che ho sempre fatto, dico quello che penso, non ci sono problemi, sono tranquillo» premette Mineo «però personalizzare, raccontare delle sciocchezze e puntare il dito contro persone come Chiti, solo perché si sono opposte ad una riforma che non condividono, dopo aver dedicato tutta la loro vita al Pd, dire che lo fanno solo per la pagnotta, per mantenere dei privilegi, è una caduta di stile intollerabile ». Ma come si sente nel Pd chi dissente all’attuale leadership? «Credo che noi dobbiamo essere grati a Renzi» dice ancora Mineo «il problema è che troppi stanno correndo in soccorso del vincitore, se continuano i proclami, le promesse e poi ancora i proclami, poi l’anatema contro chi dissente, allora, questa cosa rischia di rovinare tutto». «Basta con la politica gattopardesca » dice da Livorno il senatore civatiano Walter Tocci. L’ex vicesindaco di Roma attacca senza mai citare Renzi «ormai in Italia si danno nomi altisonanti alle leggi: Cambia Italia, Cresci Italia, ma sono solo accozzaglie di norme, che poi non producono risultati, tanto è vero che ci sono 750 decreti fermi, che dovrebbero attuare quelle parole d’ordine». Poi a proposito del decisionismo del premier, Tocci, spiega «è un immaginario che consola e rassicura». Quanto alla situazione interna al Pd. «Renzi ama fabbricarsi nemici improbabili, che possa combattere meglio. Così il suo mondo magico si popola di gufi, di sabotatori, che vogliono impedirgli di portare al popolo lo scalpo del Senato»

Corriere 14.7.14
Senato, tocca all’Aula
Caso indennità, i ribelli contro il leader
Il fastidio nel partito per le parole di Renzi
Boschi scherza: Matteo un po’ confusionario
di D. Mart.


ROMA — In aula a Palazzo Madama oggi e domani tutti i parlamentari iscritti a parlare, e c’è da giurarci che saranno molti, potranno dire cosa pensano della riforma del Senato e del Titolo V (federalismo). Poi, da mercoledì partirà la batteria di votazioni (è quasi impossibile che venga concesso anche un solo scrutinio segreto) sugli emendamenti che giungeranno copiosi sul banco dei relatori fino al termine previsto per le 13 di domani. La nave della riforma del bicameralismo, dunque, va. Ma si è appena staccata dalla banchina per affrontare una lunga crociera in acque sicure ma anche sconosciute, visto che le riforme costituzionali devono doppiare il voto in Aula ben quattro volte, due al Senato e due alla Camera, con un intervallo di almeno tre mesi tra i primo e il secondo passaggio nello stesso ramo del Parlamento.
Per questo, il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi (Pd), svela i piani del governo: incassando la prima lettura al Senato non prima del 22-24 luglio, «io mi auguro di riuscire ad approvare la riforma prima della sospensione estiva. Se il governo non farà ferie, il Parlamento avrà una pausa. Spero che entro la metà di agosto si arrivi all’approvazione». Così ha parlato il ministro al «Caffè della Versiliana» e da questo calendario si deduce che l’obiettivo del governo sarebbe quello di discutere la riforma alla Camera in fretta e furia, per poi votare prima di Ferragosto. Sarebbe una novità perché finora tutti pensavano a settembre per il secondo passaggio in Parlamento.
Ma le acque sconosciute in cui si è inoltrata la riforma inducono alla prudenza anche il ministro che attribuisce ai grillini la capacità di regolare la velocità della legge: «Molto dipenderà dall’atteggiamento del M5S e da quanto i suoi parlamentari cercheranno di rallentare il lavoro. Ci hanno già provato, senza successo, quando abbiamo discusso l’abolizione delle Province». Anche il premier Matteo Renzi — che il ministro Boschi descrive in pubblico a Marina di Pietrasanta come uno «un po’ confusionario ma negli ultimi mesi è molto migliorato» — non nasconde che «le resistenze saranno tantissime». Ma allo stesso tempo è certo che «la maggioranza sarà molto ampia». Eppure, è stato lo stesso Renzi con la sua intervista al Corriere della Sera — in cui ha detto che chi rema contro la riforma lo fa perché, con la scusa dell’elezione diretta, vuole mantenere l’indennità — a surriscaldare gli animi: «Il premier ha la cattiva abitudine di criminalizzare chi dissente», osserva un pacato Augusto Minzolini (FI, non allineato con il patto del Nazareno). Che aggiunge: «Io non ho interessi perché a differenza di Renzi, che ha scelto la politica come professione, la mia esperienza in politica ha un inizio e una fine». Vannino Chiti (non allineato insieme ad altri 14 senatori del Pd) è più ruvido: «In un’intervista il presidente del Consiglio ha detto alcune cose non vere... Sostenere che chi propone una riforma costituzionale diversa vuole difendere l’indennità è assurdo. Tagliando il numero dei deputati a 315 o 470 sparirebbe qualche centinaio di indennità...». Ma su questo punto, la diminuzione del numero dei deputati, il governo appare inamovibile.
Forza Italia assicura che il patto del Nazareno con il Pd tiene. Il ministro Boschi ricambia ribadendo, a pochi giorni dal processo di appello in cui Berlusconi deve rispondere di concussione e di prostituzione minorile, che Forza Italia «fin qui si è comportata in modo molto responsabile e serio». Dunque la riforma potrebbe essere approvata con la maggioranza dei due terzi tale (in terza e quarta lettura) da scongiurare il referendum confermativo? «Non ho paura del referendum, non è escluso che si possa fare comunque un referendum», taglia corto Boschi.

Repubblica 14.7.14
E il premier avvisa i frondisti “Chi non vota si mette fuori”
di Tommaso Ciriaco


ROMA. È la finale delle riforme e Matteo Renzi non vuole che qualche testa calda del Pd gli rovini la festa. Per questo, alla vigilia del passaggio in aula del ddl Boschi, da Palazzo Chigi filtra l’ordine di serrare i ranghi. Pena l’uscita di fatto dal partito. Nessuno metterà alla porta i dissidenti con un atto d’imperio, saranno loro stessi a porsi fuori dal recinto dem: «In una forza politica o in un gruppo parlamentare - spiega il premier in queste ore a chi gli chiede un pronostico - ci si sta se si rispettano le regole democratiche di convivenza. Quattro senatori non possono fermare il Pd e le riforme. Chi vota contro si mette fuori da solo». Tanto più che, fino all’ultimo minuto, del provvedimento si parlerà e si discuterà.
Domattina, prima dell’inizio dei lavori d’aula, è convocata l’ultima assemblea dei senatori del Pd. E forse lo stesso Renzi si presenterà a sorpresa al gruppo per un discorso da coach. «Poi - annuncia il vicecapogruppo Giorgio Tonini - ci sarà un voto, e sarà impegnativo per tutti. Perché esiste l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà dei parlamentari dai vincoli di mandato, ma esiste anche la coerenza dei comportamenti. Ognuno si assumerà le proprie responsabilità ». Nessuna minaccia di espulsione, ribadisce Tonini, «ma chi accusa Renzi di portare avanti un progetto autoritario ed eversivo alla fine si troverà a fare i conti con le sue stesse parole». Eppure, nonostante le pressioni, resiste nel Pd un’area di dissenso non comprimibile. Ne fanno parte Chiti, Mineo, Mucchetti e almeno altri sette-otto senatori. Determinati, come dice scherzando Mucchetti, «fino all’estremo sacrificio».
Se fra i democratici si discute, in Forza Italia si è aperto un vero buco nero. La lettera con cui Raffaele Fitto ha denunciato l’eccessiva «fretta» di chiudere un accordo sotto l’effetto «ipnotico» di Renzi ha provocato in Berlusconi una grande irritazione. L’ex Cavaliere ne ha discusso per tutto il pomeriggio ad Arcore, in una riunione ristretta con Giovanni Toti, Paolo Romani e Deborah Bergamini. Nonostante le pressioni per far rispondere direttamente il leader, si è stabilito di affidare la replica a Paolo Romani, anche per non dare troppo risalto a Fitto.
Per i frondisti azzurri il clima interno, a questo punto, si fa pesante. E non a caso il capogruppo di FI ricorda che il sì alle riforme sarà «impegnativo per tutti». L’assemblea di gruppo di martedì ci sarà, ma Berlusconi - concentrato sul processo Ruby - non ha ancora deciso se prendervi parte. «Fitto e gli altri mi stanno creando questi problemi - è lo sfogo del leader - mentre i giudici mi vogliono mandare in galera».
Nonostante la rabbia dell’ex premier, però, Forza Italia e Gal sembrano a un passo dall’implosione. Il rischio è che la situazione sfugga di mano. E sono in molti a pensarla come il senatore Antonio Milo: «Qua è in gioco la democrazia, è una riforma senza contrappesi. Così rischiamo il regime: persino nella Russia di Putin i cittadini possono votare». Con Minzolini e Milo ci sarebbero una ventina di senatori di centrodestra pronti a uscire dall’aula o, addirittura, a votare contro. Ma anche dentro Ncd e centristi esistono piccole sacche di resistenza: Formigoni, Azzolini e Giovanardi tra gli alfaniani; Mauro e Di Maggio tra i popolari. Quanto alla Lega, il partito terrà coperte fino all’ultimo le carte. Sembrava fatta con Calderoli, che oltretutto è uno dei relatori della riforma. Nelle ultime ore, invece, Matteo Salvini ha rimesso tutto in discussione: «Se il Senato serve, deve essere eletto. Se non serve, va chiuso».

Repubblica 14.7.14
Il fascino di don Giovanni
di Francesco Merlo


DISSOLUTO e dissolutore, Matteo Renzi è il don Giovanni d’Italia. Gli danno infatti del seduttore sia Vendola sia Fitto, che sono pugliesi di navigata voluttà. Due gelosissimi Masetto mozartiani, sempre promessi e mai sposi.
NIKI di Terlizzi (Bari) e Raffaele di Maglie (Lecce), lo accusano dunque di sedurre - condurre a sé - persino la sinistra degli antagonisti di Sel, Migliore e Fava alla testa di una folla di sedotti, e addirittura la destra domiciliata in casa Berlusconi: Pascale, Marina, Piersilvio, Confalonieri … Vendola e Fitto non si somigliano, non si frequentano e probabilmente si detestano. E tuttavia hanno usato le stesse parole morbide dell’amore. Non hanno evocato il solito tradimento, il carro del vincitore, gli Alcibiade che cambiano casacca e identità, gli Arlecchino che servono più padroni, i talenti in vendita e i professionisti a contratto, ma hanno denunziato, da due luna park politici così vicini e così lontani, gli stessi trucchi d’acchiappo: il fascino, l’ipnosi, le lusinghe, i sussurri del diavolo.
Entra dunque per la prima volta nella politica nazionale la categoria della seduzione, non quella berlusconiana che divise l’Italia, ma la larga intesa dell’incantamento che l’unisce, l’edonismo renziano al posto dell’indimenticabile edonismo reaganiano, la superficialità avvolgente del seduttore di Kierkegaard che mai offre il matrimonio ma solo la prepotenza del capriccio, non la responsabilità ma l’abbaglio dei sentimenti.
Don Giovanni non ha comprato deputati e senatori né si è venduto agli industriali, eppure ha fatto suo il rude Marchionne e ha oggi una maggioranza che il povero Letta neppure si sognava, un overbooking parlamentare per dirla in “renzenglish”.
E ha incartato i giornali, persino quelli berlusconiani che lo maltrattano come il Celentano imbronciato della carezza in un pugno. Si è introdotto soavemente nell’estetica di Canale 5, adescando le loro Madonne trasformate in sue Leopolde: Barbara D’Urso e Cristina Parodi dopo Maria De Filippi. E alla Rai, senza che nulla don Giovanni abbia concesso a direttori e presidenti che supplicano un appuntamento, ormai gozzaniamente si struggono per lui gli ex berlusconiani e gli ex veltroniani: il Tg1 è un boudoir di bambù intrecciato, il Tg2 muore nel suo nome, il Tg3 lo lavora con l’ago come nelle poesie barocche di Giambattista Marino. E La 7 è tutta un flirt: persino Santoro ha lasciato Grillo per la mistica renziana, con l’esperimento di Giulia Innocenzi che è il Mariadefilippismo con altri mezzi.
E forse pure la inviolata magistratura concede a lui quel che a nessuno ha dato, le intercettazioni, la separazione delle carriere, lo stipendio, la pensione. Sono sacrifici d’amore secondo Vendola e Fitto, gli stessi dei Mandarini di Stato che si sono tagliati i compensi per farsi belli con lui.
Ed è sedotto Oscar Farinetti, che gli ha portato Eataly col piglio di chi consegna Vittorio Veneto al Trono. Don Giovanni ha pure conquistato Flavio Briatore e tutto il Twiga: «L’uomo forte di Berlusconi è lui, è Renzi».
Certo, il Leporello del nostro don Giovanni è Verdini che - mi raccontano - lo ha persino portato dal sarto toscano che già gli aveva (inutilmente) rivestito Marcello Pera quando divenne presidente del Senato. Leporello è il servo astuto di questa storia d’amore con il Paese, riveste don Giovanni, lo assiste, lo protegge, «madamina il catalogo è questo…», gli affina gli strumenti della seduzione, che sono quelli della bellezza, dell’affabulazione, della sicurezza di sé, dell’ambizione ostentata, e ancora: supremazia, egemonia, guida dei propri uomini, controllo del Parlamento.... È il vecchio carisma della leadership, parola inglese che rimanda al mare perché viene da “to lead”, condurre e da “ship”, nave... Forse dunque Vendola e Fitto, resi lucidi dai di-battiti del cuore, ci hanno solo spiegato, con un doppio guizzo linguistico ad alta densità, come sta nascendo in Italia una nuova leadership: la seduzione che guida e non comanda, il fascino che ottiene e non chiede... Si sa come finisce male il Don Giovanni. Ma Vendola e Fitto ci saranno ancora quando il fuoco crescerà? Come dice Leporello: «Madama, veramente in questo mondo, conciòssiacosaquandofosseché, il quadro non è tondo».

Corriere 14.7.14
Dirsi in faccia un po’ di verità
di Ernesto Galli della Loggia


Sono molte, forse anche troppe, le cose che il governo attuale si è impegnato a fare. Ma mano a mano che qualcuna di queste viene sia pur faticosamente compiendosi, ci si accorge che esse non bastano a far ripartire il Paese.
La parola d’ordine della «rottamazione» con la quale Matteo Renzi ha costruito il suo successo quando era un outsider serve poco a Matteo Renzi presidente del Consiglio. Oggi, quel messaggio di rottura chiede non solo di essere riempito di contenuti specifici. Chiede soprattutto una visione più alta, una voce più matura e più convincente, capace di mobilitare le menti e i cuori: e in questo modo di spingerli al rinnovamento e all’azione. Voglio fare un esempio solo apparentemente minore: quello del rilancio del servizio civile messo in cantiere dal governo pochi giorni fa.
Ebbene, invece di farne un’occasione per una sorta di grande chiamata all’impegno civico per l’Italia, rivolta a una gioventù oggi sfiduciata e abbandonata a se stessa; invece di immaginare obiettivi concreti per un tale impegno (chessò, pulire le coste e le rive dei corsi d’acqua, tenere lezione d’italiano e di cultura elementare per gli immigrati, presidiare di notte le periferie urbane garantendone la sicurezza); invece di cercare di colpire l’immaginazione come avrebbe fatto un Roosevelt, evocando una Giovane Italia che riprende in mano le sorti del suo Paese, invece di qualcosa del genere ci si è limitati alle solite trattative con la solita burocrazia della solidarietà, con le decine e decine di associazioni, cooperative, Ong (in genere accuratamente lottizzate), che non si capisce bene che cosa faranno ma si capisce solo che avranno un po’ di soldi pubblici in più.
È in questo modo che il carisma che certamente Renzi possiede rischia — ripercorrendo le orme fatali di Craxi e di Berlusconi — di restare un carisma vuoto. Vuoto di quella capacità essenziale per un uomo di governo che è la capacità di leadership (cioè di guidare e di fare, convincendo e creando consenso). Non a caso, se non mi sbaglio, già comincia a serpeggiare tra molti uno scetticismo larvato, un senso di disillusione.
Non inganni il premier la pletora di quelli che mossi dalla speranza di conservare le proprie posizioni ora vogliono salire sul suo carro di vincitore. Sono proprio questi che ogni giorno di più appesantiscono e impacciano i suoi movimenti, alla lunga rendono imbolsita la sua immagine e, lungi dal costituire un seguito, semmai gli impediscono di consolidarne uno. Il vero seguito, infatti, quello che gli serve per riuscire, Renzi deve cercarlo nell’opinione pubblica, e a me pare che egli debba ancora costruirselo. La vittoria elettorale nelle elezioni europee (i cui risultati, lo ricordi, si sono spesso dimostrati quanto mai volatili) è soprattutto un preannuncio di consenso, ma guai a considerarlo equivalente a un consenso già acquisito e consolidato.
L’Italia, non bisogna stancarsi di dirlo, è sull’orlo di un vero e proprio declino storico. Arretriamo in tutto. In tutto stiamo uscendo dal gruppo di testa nelle classifiche mondiali; sempre più perdiamo la proprietà di pezzi importanti del nostro apparato produttivo; peggiorano le nostre condizioni materiali di vita; si accrescono le differenze sociali; aumenta la distanza tra le diverse parti della Penisola; i giovani, presenti in numero sempre minore, ci abbandonano in misura sempre maggiore.
Dove sia il punto di non ritorno non lo sappiamo. Ma sentiamo che esso, ormai, non è forse troppo lontano. Che senza un mutamento rapido e radicale, qui ed ora, siamo destinati a vedere cominciare a sgretolarsi l’edificio di conquiste storiche costruito pur tra alti e bassi lungo un secolo e mezzo. Perché è questo e non altro ciò che oggi è in gioco.
Matteo Renzi se ne rende conto? A tanti è sembrato di sì. E che proprio perciò egli fosse la persona giusta per guidare il Paese. Molti hanno sperato che forte della sua giovane età e del suo temperamento egli potesse essere il protagonista del mutamento radicale che serve all’Italia. Renzi lo sa. Finora, però, non ha compiuto il passo davvero decisivo per avviare la svolta che il Paese attende: il passo senza il quale tutto il resto è impossibile. E cioè dire a questo stesso Paese la verità.
Per risalire la china abbiamo bisogno innanzi tutto di verità. Che si dica come stanno le cose, che si parli dei molti errori che abbiamo commesso e delle vie senza uscita in cui ci siamo cacciati. Che si smascherino le bugie di vario genere che le mille corporazioni italiane, dai magistrati ai giornalisti, ai tassisti, raccontano e si raccontano per mantenere i propri privilegi ai danni dell’interesse generale.
Dobbiamo sapere che da troppo tempo crediamo di poter vivere al di sopra dei nostri mezzi. Bisogna che l’Italia ascolti raccontare per filo e per segno degli sprechi pazzeschi e delle disfunzioni (dal numero degli addetti alle spese vere e proprie) che quasi sempre con la complicità dei sindacati sono divenute la regola nelle amministrazioni pubbliche. Che si dica a voce alta che fare le Regioni come le abbiamo fatte, con i poteri che abbiamo loro dato, è stato una scempiaggine assoluta. Che dalle elementari all’università abbiamo scaricato sul nostro sistema d’istruzione tutto lo sciocchezzaio ideologico e tutte le fumisterie parademocratiche che ci hanno attraversato la mente negli Anni 60-70, in tal modo mandandolo in pezzi. Che le privatizzazioni sono state un’autentica truffa ai danni della collettività. Che troppo spesso il livello professionale del management alla guida del nostro apparato produttivo e bancario è infimo mentre la sua sete di soldi è enorme. Che da noi il merito è messo al bando dovunque ma specie dalla classe dirigente, continuamente a caccia di posti tramite raccomandazione a pro di mogli, mariti, figli e amanti vari.
Che le cose stanno così (e quelle ora elencate costituiscono solo un modesto campionario) lo sanno, lo sappiamo tutti. Ma sarebbe una vera rivoluzione se a dirlo fosse il Potere, per bocca del presidente del Consiglio: perché solo a quel punto la verità da tutti conosciuta diverrebbe innegabile. Sarebbe un macigno ineludibile nel nostro discorso pubblico con cui tutti dovremmo fare i conti. Mettendo così a rischio i nostri vizi più inveterati: a cominciare per esempio dalle bugie pietose delle corporazioni di cui dicevo sopra, come quella dei magistrati, con i loro motivi di aria fritta accampati per conservare il privilegio di restare in servizio fino a 75 anni.
Certo, dire la verità è quasi sempre scomodo e difficile. Ma se vuol mantenere fede alle speranze da lui stesso suscitate, se vuole cambiare verso al Paese, Matteo Renzi è atteso a questa prova di lucidità e di coraggio. Per cui serve una cultura politica, una conoscenza della società italiana e della sua storia, un’ispirazione anche morale (sì, quando la politica va oltre la routine, essa s’incontra inevitabilmente con l’etica), che non so se egli abbia. Ma qui è Rodi, e qui egli deve saltare. Senza una grande operazione di verità, di tutta la verità, sul proprio passato e sul proprio presente, l’Italia non potrà mai cambiare strada. E quindi non potrà mai salvarsi.

La Stampa 14.7.14
I nuovi poteri dello Stato
di Ugo De Siervo


Arriva in Aula il testo - deliberato dalla prima Commissione del Senato, sotto la spinta del governo - di esame del ddl di revisione costituzionale relativo alla trasformazione del Senato e del nostro sistema regionale, nonché della eliminazione del Cnel e delle Province.
Val la pena di dedicare un po’ di attenzione ai testi che sono stati varati, dal momento che non mancano certo le novità, anche importanti e relative perfino a materie neppure trattate nell’originario disegno di legge governativo. E ciò appare tanto più necessario, dal momento che finora purtroppo hanno molto prevalso nel dibattito e nella stessa cronaca giornalistica le valutazioni molto politiche utilizzate dai vari gruppi o sottogruppi parlamentari, mentre sono quasi scomparse le considerazioni su ciò che muterebbe nelle istituzioni repubblicane con una Costituzione così modificata. 
Non solo occorre prendere atto di ciò che ora va alle deliberazioni del plenum del Senato, ma occorre cercare di comprendere come innovazioni del genere si inserirebbero, più o meno organicamente, nella nostra Costituzione. Le novità sono peraltro molte e quindi per ora vediamo di concentrare l’attenzione sulle sole principali innovazioni che si produrrebbero nei poteri centrali dello Stato.
Cominciamo dalla composizione del Senato, radicalmente diversa da quella proposta nel disegno di legge governativo, a riprova della modestia della originaria progettazione: scompaiono (giustamente) la eguale rappresentanza di ciascuna Regione, la paritaria nomina di esponenti regionali e comunali, l’inserimento di diritto dei Presidenti delle Regioni e dei Sindaci dei capoluoghi regionali, la proposta di affidare al Presidente della Repubblica la nomina di ben 21 Senatori, mentre ora, invece, più semplicemente si affida ai Consigli regionali la nomina al loro interno di 74 Senatori, secondo le consistenze demografiche delle diverse aree regionali, e di 21 Sindaci, mentre il Presidente della Repubblica si limiterebbe a nominare Senatori per sette anni gli attuali cinque Senatori a vita.
Comincia a mutare pure l’originaria accentuata dequalificazione dell’Assemblea senatoriale: si parla ancora di Senato della Repubblica (e non più «delle autonomie»); riappare il Presidente del Senato, prima letteralmente cancellato; si affida al Senato almeno parte dei necessari poteri conoscitivi e di controllo; si estendono, seppure assai limitatamente, le leggi che devono essere approvate dalle due Camere (oltre a quelle già originariamente previste nel disegno di legge, fra cui ovviamente emergono le leggi costituzionali). Ciò però non toglie che in generale restino debolissimi i poteri del Senato su tutte le altre leggi, rispetto alle quali il dissenso del Senato può essere messo nel nulla dalla volontà della maggioranza della Camera e solo in casi eccezionali dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti. Questo anche quando il Senato si esprima a larghissima maggioranza o su leggi del tutto rilevanti per le autonomie territoriali.
Fra le cose relativamente minori, che non sembrano mutate, vi è pure la paradossale gratuità della funzione senatoriale, malgrado l’evidente grande lavoro richiesto: né penso che possa ipotizzarsi che ciascun Senatore si porti dietro il livello retributivo della mansione precedentemente svolta, con tutte le relative diversità; ciò senza pensare ai poveri Senatori di nomina presidenziale!
Mentre però l’attenzione era assorbita dai meccanismi di selezione dei Senatori, il ddl ed il lavoro della Commissione senatoriale hanno introdotto innovazioni notevoli in altre parti del nostro ordinamento costituzionale: non penso certo all’inutile moltiplicazione del numero delle votazioni a maggioranza qualificata per l’elezione del Presidente della Repubblica, ma mi riferisco alla configurazione di una forte corsia preferenziale per le proposte legislative del Governo, ma anche all’opportuna introduzione di vari limiti alla decretazione d’urgenza; alla sostanziale agevolazione dei referendum popolari di abrogazione delle leggi, malgrado il parziale innalzamento delle firme necessarie (ora 800.000), dal momento che il loro esito sarebbe valido se partecipa al voto un numero di elettori superiore alla metà dei votanti nelle elezioni politiche precedenti (notoriamente siamo in una stagione di forti astensionismi); la Corte costituzionale sarebbe chiamata a giudicare della ammissibilità dei referendum richiesti a metà della procedura di raccolta delle firme e soprattutto potrebbe essere chiamata a giudicare della costituzionalità di una legge elettorale per Camera o Senato in via preventiva, su istanza di una minoranza parlamentare. Proposte tutte di grande importanza, ma che meriterebbero davvero un’attenzione assai maggiore: basti pensare alle difficili sentenze sulle leggi elettorali ed ai loro successivi effetti.
Il problema di fondo è che sembra purtroppo essere mancata una forte ed organica progettazione costituzionale, che si facesse carico di tutti i problemi immediatamente rilevanti ed urgenti (e solo di questi). C’è da sperare che non sia una frase di convenienza quella del Ministro Boschi, secondo la quale sarebbero possibili ancora ritocchi: a volte i restauratori riescono a fare cose davvero egregie.

l’Unità 14.7.14
La lettera
Caro Berlusconi, sta prendendo un abbaglio
di Massimo Mucchetti


Caro Silvio Berlusconi, non la capisco più. Mi rendo conto che i processi di Milano, Bari e Napoli possano avere un effetto intimidatorio e le facciano sognare la grazia presidenziale quale estremo rimedio a quella che lei ritiene una giustizia ingiusta. Ma questa volta temo stia sbagliando i conti. Mi spiego.
Ho avversato molte scelte politiche di Forza Italia e dei governi da lei presieduti, non tutte: la Cassa depositi e prestiti Spa, per esempio, fu ottima; la riforma costituzionale del 2005 aveva punti migliori di quella oggi all’esame del Parlamento. E tuttavia ho sempre ammirato la sua capacità di difendere con realismo e coraggio gli interessi suoi e di quella parte della società italiana che le si era affidata. Nel 1994, lei decise di fondare un partito nuovo per dare una voce all’Italia del CAF(Craxi, Andreotti, Forlani), che Mani Pulite aveva privato di rappresentanza politica, e per servire così due finalità: a) evitare la presa del potere da parte della «gioiosa macchina da guerra»; b) avere uno scudo a difesa delle sue attività imprenditoriali che sentiva minacciate dai «comunisti».
Grazie a quella intuizione, la Fininvest guadagnò il tempo necessario a valorizzare, quotandole in Borsa, le imprese partecipate più importanti: Mediaset, Mondadori e Mediolanum. E così, forte del consenso del mercato, la Fininvest allentò la morsa dei debiti che, diversamente, l’avrebbero soffocata. Anzi, il suo gruppo si trovò ad avere una posizione finanziaria netta addirittura positiva. Grazie poi alle iniziative parlamentari, le cosiddette leggi ad personam, lei ebbe modo di rallentare inchieste e processi. Un capolavoro. Glielo riconobbi su l’Espresso e in un libro intitolato Licenziare i padroni?, nel quale riconoscevo come, tramite le sue società, lei avesse impostato un rapporto con la Borsa migliore di quello di tanti sopracciò al riparo delle scatole cinesi. Fosse capo del governo o fosse capo dell’opposizione, lei si era reso intoccabile. Quello stesso D’Alema, che tre anni prima l’avrebbe voluta sul lastrico, qualificava Mediaset come risorsa del Paese. Chapeau allo stratega. Ma adesso? È sicuro di leggere bene la realtà? È tranquillo sul fatto che i suoi consiglieri non abbiano interessi personali da difendere più urgenti dei suoi?
Il patto del Nazareno lo conosce lei, non chi non c’era. Posso dunque sbagliare, ma mi pare di aver capito che superior stabat Italicum, longeque inferior Senatus. La legge elettorale dovrebbe garantire il duopolio Pd-Forza Italia.Achi arriva primo alle urne, il governo, al secondo il monopolio dell’opposizione. Comunque andasse, a lei sarebbe andata o bene o almeno discretamente. Funzionale alla nuova legge elettorale, sarebbe l’abolizione del Senato come soggetto politico, la sua riduzione a dopolavoro municipal- regionale. Il fatto che il Pd sembri a lei finalmente guidato da un segretario-padrone, sia pure selezionato per via plebiscitaria, le fa sangue. Il partito carismatico-personale l’ha inventato Silvio Berlusconi, non altri. Ma il patto del Nazareno non equivale a un patto tra due uomini d’affari, dove conta la stretta di mano e il resto lo sistemano consulenti e avvocati.
Temo che lei abbia preso un abbaglio. La politica non si riduce mai a un rapporto d’affari, anche se può comprendere accordi di tal natura. Il Parlamento non è formato solo dagli sherpa dei capoccioni. Non sarà un concentrato di premi Nobel, ma alla fine rappresenta il Paese che vota. Ed è possibile che voglia dire la sua. Ma soprattutto il leader del Pd non è un uomo d’affari. Non proviene dalla «trincea del lavoro». Renzi è un homo totus politicus. Nel bene e nel male. E mentre per l’uomo d’affari la fedeltà alla parola data fonda la reputazione, per l’uomo politico una tal fedeltà vale principalmente per gli altri, assai meno per sé stesso. La reputazione di un leader politico non richiede certi prerequisiti. Ricorderà l’Enrico stai sereno... Renzi valutò che, con Letta a palazzo Chigi, il Pd avrebbe perso rovinosamente le Europee e prese il suo posto in tempo utile per rovesciare i pronostici. Crede che il premier senta verso di lei obblighi superiori a quelli che aveva con il suo predecessore?
Vede, caro Berlusconi, mi sono fatto l’idea che Renzi segua la politica del carciofo. Oggi porta a casa il Senato come vuole lui. Domani la mollerà sulla legge elettorale e farà l’accordo con Bersani, Calderoli e Alfano. La qual cosa gli darà due strepitosi vantaggi in vista delle dure prove dell’economia: ricompatterà il Pd e garantirà la sopravvivenza a una opposizione di centro-destra plurale, dunque divisa, dunque sostanzialmente impotente. Lei si ritroverà ad abbaiare alla luna. O a tacere dignitosamente come sta facendo Enrico Letta. A quel punto ci sarà il cambio della guardia al Quirinale. Il nuovo presidente sarà scelto da Renzi, che avrà fatto le liste del partito vincitore del premio di maggioranza alla Camera e avrà pilotato le scelte dei consiglieri regionali-senatori. Da uomo pratico, le sarà indifferente se la scelta del successore di Napolitano avverrà subito o al decimo scrutinio. Ma conterà moltissimo per lei capire se davvero il Quirinale renziano possa cancellare le sentenze.
Non ho sfere di cristallo, ma non mi pare azzardato prevedere che, al dunque, non ci vorrebbe una grazia, ma ce ne vorrebbero tre o quattro: una per ogni condanna che le potrebbe arrivare dai processi in corso, ancorché chi le vuol bene possa legittimamente augurarsi tre o quattro assoluzioni. E come potrebbero essere concesse tante grazie a una sola persona quando anche l’obiettivo della cosiddetta pacificazione nazionale perderebbe consistenza nel momento in cui, con la legge elettorale rivista, lei non potrebbe più riportare all’ovile le pecorelle smarrite di NCD e della Lega? Credo invece più logico attendersi che il nuovo presidente prenda atto di avere un Parlamento delegittimato due volte, dal Porcellum, con il quale è stato eletto, e dalla riforma costituzionale appena fatta, e dunque sciolga queste camere.
Nel 1994, molti uomini della Fininvest, a cominciare da Fedele Confalonieri, le consigliavano l’appeasement con la politica. Ebbe ragione lei a giocarsi la sua partita. Oggi, altre persone le rivolgono lo stesso suggerimento. A Mediaset temono che un Renzi ostile modifichi le regole colpendo il Biscione, dunque auspicano sia blandito da Forza Italia. I suoi avvocati fanno lo stesso in vista della grazia. Costoro pensano al suo bene. Ma, come Confalonieri nel 1994, possono sbagliare. E poi, da imprenditore, crede davvero che il futuro della sua azienda riposi nel grembo del premier e non nelle iniziative che voi saprete prendere nel quadro del riassestamento globale del settore? Ma, come lei sa meglio di chiunque altro, il primo consigliere che spinge per l’accomodamento con palazzo Chigi e’ il senatore Verdini. E qui, lei mi perdonerà, lascio perdere le domande retoriche e passo a un’argomentazione diretta.
Il suo amico Verdini deve rispondere della bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino e di altre imputazioni. Qui la politica non c’entra. Si tratta di affarucoli di strapaese, ma con una conseguenza grave come la liquidazione coatta amministrativa della banca decretata dalla Banca d’Italia. Senonché per Verdini i processi non sono ancora entrati nel vivo. E qui diventa interessante vedere se lo Stato e le istituzioni si costituiranno parte civile laddove possibile o se chiuderanno un occhio e, ove lo facessero, se schiereranno i migliori avvocati o se troveranno il Giovanni Galli della situazione per giocare a perdere come accade alle elezioni amministrative fiorentine. Verdini ha maggiori possibilità di ottenere vantaggi dalla benevolenza del Principe rispetto a lei.
Visto da lontano, il suo interesse di imprenditore e uomo politico padrone del suo destino sarebbe quello di avere un sistema politico certo capace di decidere (dunque via il bicameralismo paritario) e tuttavia ancorato al corpo elettorale (Senato a elezione diretta e, piuttosto dell’Italicum, meglio il Consultellum), capace di far pesare il proprio consenso elettorale per fare maggioranza. Come faceva il suo vero amico, Bettino Craxi. Certo, se pensa di sbaragliare Renzi, di essere un D’Artagnan destinato a rivincere alla grande, auguri. Ma Vent’anni dopo è il titolo di un romanzo...
P.S. Questo è un articolo da giornalista. Che scrivo in ossequio, per una domenica, al consiglio del premier, via Corriere della Sera, di lasciare la politica ai politici, suppongo, di mestiere.

Repubblica 14.7.14
Castel Volturno, rivolta degli immigrati
di Stella Cervasio


NAPOLI. Una lite in un bar, la scintilla che ha fatto scoppiare la rivolta. Il titolare del locale ha sparato alle gambe di due immigrati e la comunità è intervenuta in loro difesa, cercando di farsi giustizia. Cinquanta extracomunitari si sono riversati a Pescopagano, una frazione di Castel Volturno - dove sei anni fa i killer dei boss casalesi uccisero sette africani - mettendo il quartiere a ferro e fuoco. In risposta alla sparatoria, il gruppo ha incendiato il furgone del titolare del bar Torino, dove la rissa era cominciata e un’altra auto, poi la reazione di massa è proseguita nel gabbiotto della vigilanza che lavora per l’autore del ferimento: hanno lanciato pietre contro l’edificio, all’interno e sul retro del quale erano depositate bombole di gas che sono esplose una dopo l’altra. Due i fermati dalla polizia.
Tutto è nato da una rissa all’interno del locale mentre alcuni guardavano la partita. Stranieri e italiani che sono venuti quasi alle mani, mentre volavano gli insulti al termine di una giornata che doveva essere dedicata al riposo dal duro lavoro stagionale nei campi. Sconosciuto il motivo del diverbio. Il titolare del caffè ha estratto la pistola e ha sparato due colpi ferendo alle gambe due degli immigrati presenti nel locale.
Immediata la risposta della comunità africana: si sono precipitati tutti fuori dove li hanno raggiunti altri connazionali e insieme hanno preso di mira il furgone del titolare, dando fuoco ai veicoli. La protesta è proseguita nei pressi del gabbiotto della vigilanza di un parco a 500 metri dal bar: pare che all’interno ci fossero delle persone, che sono però riuscite a mettersi in salvo prima che i colpi dei sassi facessero saltare in aria le bombole. Numerose le esplosioni sentite dal vicinato.
«Una piccola guerra civile annunciata », dice il sindaco di Castel Volturno, Dimitri Russo, che era sul posto e così definisce gli episodi di ieri sera. «Pescopagano è una delle tante zone di Castel Volturno con l’80 per cento di immigrati e il 20 di italiani. Una situazione esplosiva, siamo ai limiti della vita civile: ci sono oltre 15 mila extracomunitari su una popolazione di 25 mila persone. Vivono in condizioni pietose, in case abbandonate che occupano con igiene precaria. Non sono sorpreso, si sapeva che prima o poi sarebbe successo. Qui è impossibile qualsiasi forma di integrazione: le istituzioni non ci sono. Abbiamo soltanto 14 vigili urbani su 72 chilometri di territorio ». La vendetta degli immigrati non si è fatta attendere: coinvolti in una scena da Far West, si sono armati di fuoco e pietre, per farsi giustizia da soli. I vigili del fuoco sono rimasti sino alle 22.30 a spegnere l’incendio che ha avvolto il box delle guardie giurate e i veicoli, mentre una decina di volanti di polizia presidiava la zona per contenere la rivolta.

Corriere 14.7.14
Migranti feriti alle gambe, scoppia la rivolta
di Fulvio Bufi


Auto incendiate e tensione per le strade dopo i colpi di pistola contro due ivoriani
NAPOLI — Il ferimento a colpi di pistola di due uomini ivoriani, avvenuto ieri sera a Pescopagano, sul litorale domiziano nei pressi di Castel Volturno, ha scatenato la rivolta di decine di immigrati che per circa due ore si sono scatenati in gravi episodi di violenza, dando fuoco a quattro auto e un furgone, e appiccando un incendio anche a una villetta a schiera, adiacente a quella dove abitano i responsabili del ferimento.
La calma nel paese casertano è tornata soltanto a tarda sera, mentre gli autori della sparatoria sono stati individuati e fermati dalla polizia già poche ore dopo l’episodio. Secondo quanto ricostruito dagli agenti del commissariato di Castel Volturno a ferire i due cittadini ivoriani, di 30 e 37 anni, sono stati due italiani, un uomo che lavora come vigilante per una agenzia che ha sede proprio a Castel Volturno, e suo figlio, che non è ancora chiaro perché fosse in possesso di una pistola. A sparare, infatti, pare sia stato proprio il più giovane. Secondo la sua versione, lo avrebbe fatto per difendere il padre, che aveva fermato i due ivoriani sospettando che fossero autori di un furto, e sarebbe stato perciò aggredito. Le vittime — che sono state raggiunte da proiettili alle gambe, e sono ora ricoverati in ospedale, ma non in pericolo di vita — hanno invece parlato di una lite senza nessuna motivazione precisa se non una vecchia antipatia che padre e figlio nutrirebbero nei loro confronti. Di fronte a queste due versioni contrastanti proseguono le indagini della polizia che, pur avendo già certezza sui responsabili, vuole avere altrettanta chiarezza sul movente del duplice ferimento.
Ma si indaga anche su quello che è accaduto dopo, cioè sulla rivolta che per un paio d’ore ha tenuto altissima la tensione. In realtà, seppure la convivenza tra italiani e africani sia ormai pluridecennale e tendenzialmente pacifica, sul litorale domiziano permangono anche situazioni in cui l’integrazione tra le due comunità non si è mai compiuta fino in fondo. E se l’episodio del ferimento può anche essere letto come il gesto di due sole persone, la rivolta che ne è scaturita ha coinvolto una parte consistente della comunità africana, a dimostrazione dell’esistenza di profondi rancori che possono facilmente tornare a galla.
Del resto gli immigrati africani a Castel Volturno e dintorni hanno subito non poche violenze. Il caso più vecchio è l’omicidio del trentenne sudafricano Jerry Essan Masslo, avvenuto il 24 agosto del 1989 a Villa Literno durante un tentativo di rapina a un gruppo di immigrati che avevano appena ricevuto la (misera) paga di una giornata di lavoro nei campi per la raccolta dei pomodori.
Ma l’episodio più grave resta quello della strage del 18 settembre 2008, quando un commando di camorristi casalesi, guidati dall’allora latitante Giuseppe Setola, massacrò sei africani al solo scopo di seminare il terrore nella comunità di immigrati di cui fanno parte anche bande di spacciatori. Le vittime di quella strage, però, erano tutti lavoratori, tutte persone per bene. Anche allora a Castel Volturno si scatenò la rivolta, che fu molto più lunga e violenta di quella di ieri. Su quest’ultima, invece, la polizia sta ancora cercando di stabilire se sia stata spontanea o pilotata proprio da qualche esponente delle bande criminali africane che operano nella zona.

Corriere 14.7.14
Immigrati visti come un costo da un elettore dem su due
Sulla stessa linea il 79% di Forza Italia e il 70% della base dei 5 Stelle
La maggioranza punta il dito contro la Ue
di Nando Pagnoncelli


Il problema dell’immigrazione è un tema particolarmente sentito, come sempre negli ultimi anni, quando d’estate gli sbarchi aumentano e la percezione della presenza di immigrati sul nostro territorio cresce più che proporzionalmente. E tanto più succede in questi mesi così drammatici e travagliati.
Gli stranieri regolari residenti in Italia sono circa 4.377.000 (dati Istat al gennaio 2013) e rappresentano poco più del 7% della popolazione che vive stabilmente nel nostro paese. Ma gli italiani intervistati pensano che gli immigrati regolari, escludendo i clandestini, siano molti di più. Solo il 4% infatti stima che la loro incidenza sulla popolazione sia inferiore alla media (il 4% o meno), l’8% (sempre una percentuale davvero bassa) stima un valore molto vicino a quello reale (tra il 5 e l’8%), la grandissima maggioranza (69%) invece pensa che siano di più, addirittura quasi un quarto pensa che gli immigrati regolari siano almeno la metà della popolazione residente. Questa sovrastima sembra una costante nella percezione degli italiani e tende a crescere: la stessa domanda fatta più di nove anni fa dava una percentuale del 61% di chi stimava la presenza degli immigrati superiore alla realtà. Oggi questa percentuale, come abbiamo visto, è del 69%. Il dato è piuttosto trasversale, anche se una percezione un po’ più alta del fenomeno si riscontra tra gli elettori del Movimento 5 Stelle, tra i ceti medi e i lavoratori autonomi, nei piccoli centri.
Una presenza così massiccia di immigrati è vissuta come un costo da quasi il 70% degli italiani, tra tutti i segmenti sociali, esclusi gli studenti, e tra tutti gli elettori, compresi quelli del Pd (58%). Le spese che il nostro paese deve sopportare per il controllo dell’immigrazione clandestina, l’accoglienza dei migranti, l’assistenza pubblica e l’integrazione superano di gran lunga i vantaggi che ne riceviamo in termini di versamenti di tasse e contributi. Anche in questo caso sembra evidente che questa percezione è influenzata dal recente, ed acceso, dibattito sui costi dell’operazione Mare nostrum. Si tratta indubbiamente di un impegno pesante per il nostro paese, stimato in circa 9 milioni al mese, poco più di 100 milioni l’anno. Ma se sull’altro piatto della bilancia mettiamo l’Irpef versata dai contribuenti stranieri (nel 2013 poco più del 7% del totale dei contribuenti) che complessivamente versano al nostro stato più di 6 miliardi e 500 milioni (ricaviamo questi dati dal Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione – edizione 2013 della Fondazione Leone Moressa, pubblicato da Il Mulino), le cose cambiano. Tuttavia, l’idea che oramai la contribuzione degli immigrati al nostro sistema sociale sia così rilevante è davvero poco diffusa: solamente un italiano su quattro ritiene che, pur con queste ingenti spese, il saldo sia positivo.
L’altro tema ineludibile a questo proposito è relativo al ruolo dell’Europa. La maggioranza assoluta (56%) pensa che l’Europa abbia scaricato sull’Italia il peso del problema. Ma una robusta minoranza (il 36%) pensa che le colpe siano soprattutto dell’Italia, che non riesce ad organizzarsi e che scarica sull’Unione questa incapacità. Queste posizioni hanno una più marcata accentuazione politica, anche perché pertengono all’operato del governo. Non a caso gli elettori della compagine governativa (Pd e centristi) sono convinti per oltre il 60% che le responsabilità ricadano innanzitutto sull’Europa, mentre il contrario avviene fra gli elettori dei partiti dell’opposizione che, per il 50% o poco più scaricano le colpe sul nostro paese.
Comunque sia, emerge con evidenza un pesante problema di informazione. Se il tema dell’immigrazione difficilmente potrà sottrarsi all’emergenza che lo caratterizza, una maggiore conoscenza dell’effettiva realtà dell’immigrazione regolare e del suo contributo al funzionamento del nostro paese può essere utile a favorire un dibattito meno drammatizzante.

l’Unità 14.7.14
Come correggere le diseguaglianze
di Massimo D’Antoni


Uno degli effetti del persistere della crisi è l’attenzione crescente per il tema della diseguaglianza. Che l’aumento delle diseguaglianze economiche negli ultimi decenni abbia alimentato la bolla finanziaria che ha portato alla crisi è una tesi ormai ampiamente accettata.
Secondo questa interpretazione, è stato l’impoverimento progressivo della classe media americana a incoraggiare l’indebitamento privato, che ha provocato la crisi e tuttora frena la ripresa. Il tema è particolarmente caldo oltreoceano, come dimostra anche lo straordinario successo del libro Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty. L’economista francese documenta come i livelli di concentrazione di ricchezza stiano tornando ai livelli estremi raggiunti a fine Ottocento. Sembra essersi dunque interrotta la combinazione di circostanze che ha garantito, nel corso del XX secolo, quel capitalismo del benessere diffuso che siamo abituati a considerare come la condizione normale delle economie avanzate, e che è stata la cornice economica e sociale per lo sviluppo delle democrazie moderne.
Europa e Nord America hanno conosciuto, a partire dalla prima guerra mondiale fino agli anni Settanta, una riduzione delle diseguaglianze sociali e una progressiva perdita di centralità dei patrimoni ereditati. La tesi di Piketty è che questa sia ben lungi dal rappresentare una tendenza spontanea o necessaria del capitalismo. Il rallentamento della crescita economica da un lato e l’aumento dei rendimenti del capitale che ha accompagnato la recente fase di globalizzazione finanziaria dall’altro rischiano infatti di generare processi cumulativi che potrebbero riportarci, nel giro di pochi decenni, a rapporti sociali segnati, come nel passato meno recente, dall’accesso ad una dotazione patrimoniale. Ciò avrebbe conseguenze preoccupanti anche sotto il profilo della tenuta democratica (pensiamo a cosa possa implicare la concentrazione della ricchezza sul piano politico, anche alla luce della recente scelta del nostro Paese di eliminare il finanziamento pubblico dei partiti). La tesi dell’economista francese è dunque particolarmente provocatoria e, al di là delle proposte specifiche, ha il merito di richiamare la sinistra alla necessità di interrogarsi sull’evoluzione di lungo periodo dell’economia capitalistica. La concentrazione della ricchezza è l’altra faccia dell’impoverimento del ceto medio. L’analisi di Piketty ben si concilia con dati e statistiche che occupano i titoli dei giornali ma sempre meno ci sorprendono: sul calo dei consumi, sull’assottigliamento dei risparmi delle famiglie, sulle crescenti situazioni di disagio sociale. Esiste un rimedio?
Molte analisi sull’aumento della diseguaglianza puntano l’indice su fattori strutturali, quali la globalizzazione e il progresso tecnologico, che determinerebbero un progressivo divario nelle retribuzioni tra chi sta al passo con le richieste del mercato e chi è penalizzato da competenze di basso livello e quindi più esposte alla concorrenza dei Paesi emergenti. In quest’ottica, la diseguaglianza nei Paesi sviluppati sarebbe un fenomeno difficilmente evitabile, e forse nemmeno così critico, visto che sarebbe il prezzo da pagare per la diffusione della tecnologia e l’ampliamento dei mercati.
Si tratta tuttavia di un punto di vista parziale del problema. Come sottolinea lo stesso Piketty, i processi in atto, al pari dell’evoluzione lungo tutto il XX secolo, sono infatti in misura rilevante l’effetto di precise scelte politiche. Se per un verso la redditività del capitale è stata contenuta da eventi drammatici quali le due Guerre mondiali, dall’altra ha operato in modo determinante la tassazione sia dei redditi elevati che dei lasciti ereditari. Nel periodo compreso tra la Seconda guerra mondiale e gli anni Settanta nel Regno Unito e negli Stati Uniti, Paesi che sarebbero diventati la culla del neoliberalismo, le aliquote di imposta sui redditi elevati eccedevano l’80% e in alcuni casi il 90%. Lo scopo di tali imposte non era tanto ottenere gettito quanto fornire un esplicito disincentivo all’accumulo di ricchezza e alla richiesta di salari elevati da parte dei super-manager o altri percettori di redditi alti. È solo nel clima culturale/politico determinatosi a partire dagli anni Ottanta che ha prevalso l’idea che tali imposte «confiscatorie» fossero controproducenti o magari immorali. Non è un caso che tale orientamento politico abbia coinciso con l’inizio di un lungo periodo di aumento incontrollato dei redditi top.
Va detto che politiche fiscali così aggressive sarebbero oggi impedite, prima che da una residua resistenza culturale, dall’integrazione internazionale dei mercati. Sarebbe agevole per un contribuente rispondere con un trasferimento di residenza o spostando i propri capitali all’estero. Per impedire forme di concorrenza fiscale sarebbe necessario un forte coordinamento internazionale; sappiamo quanto sia difficile, ma governi di orientamento progressista dovrebbero porre la questione, per lo meno a livello europeo.
Tali coraggiose misure sono tuttavia solo una parte della risposta necessaria. Lo scorso ventennio dovrebbe averci ormai convinti non solo del fatto che il mercato non regolato, lungi dal ridurle, tende ad acuire le diseguaglianze, ma anche del fatto che a far difetto è lo schema per il quale prima si fa funzionare il mercato e solo dopo ci si preoccupa di redistribuirne i frutti. L’idea di coniugare il massimo di liberalizzazione con appropriate politiche di correzione ex post degli effetti peggiori di un’economia non regolata, molto in voga negli anni Novanta presso i sostenitori della «terza via», si scontra con il fatto che, una volta create e legittimate le diseguaglianze, è difficile trovare le risorse di consenso politico necessarie a correggerle. Allo stesso modo in cui, una volta creato un welfare per i poveri, è difficile convincere i ricchi dell’opportunità di garantirne il finanziamento.
È per questa ragione che proprio in Paesi come il Regno Unito sta prendendo piede l’idea che occorra operare sugli stessi meccanismi di mercato, regolando i processi di creazione di ricchezza invece di puntare a correggerne gli effetti a posteriori: il termine in voga è «pre-distribution ». A pensarci, non è poi un’idea nuova. È anzi il cuore del modello sociale europeo: è l’idea che alcuni beni primari vadano forniti al di fuori della logica di mercato, e che la compressione retributiva derivante dalla regolamentazione del mercato del lavoro, lungi dall’essere la radice dei nostri problemi, è invece una delle condizioni per un capitalismo equilibrato.

il Fatto 14.7.14
Torino, la Fiat non abita più qui. Purtroppo
di Furio Colombo


Il libro Made in Torino? Fiat-Chrysler automobiles e il futuro dell'industria di Giorgio Barba Navaretti e Gianmarco Ottaviano (Il Mulino) è stato scritto per spiegare, giustificare, normalizare ciò che è accaduto: la Fiat se ne è andata. Si sono accorti anche gli artefici della più grande delocalizzazione della storia industriale che era necessario tentare una spiegazione invece di ripetere ciò che invece è stato dato come un disinvolto annuncio. Il libro comincia: “L’unione tra Fiat e Chrysler (...) è una operazione complessa che aiuta a capire in che direzione si sta muovendo l’industria nel XXI secolo”. Forse sarebbe stato meglio aggiungere che ciò che è accaduto fra Torino e Detroit non è tanto un modello fra tanti di nuovi comportamenti aziendali quanto un caso unico di cui nessuno immagina una possibile replica né un ragionevole esito per la Fiat. Quindi a pag. 11  : “Ottimismo e determinazione caratterizzano l'aria che (...) si continua a respirare a Detroit”. A Detroit, non a Torino. Torino non era inferiore a Detroit (città che è fallita). Torino aveva ingegneri progetti, operai e vita. Ma città e fabbrica erano in cassa integrazione quasi continua, senza progetti, senza investimenti, senza modelli. A pag. 17  : “Non sappiamo se la Fiat di oggi sia la miglior Fiat possibile per il nostro Paese. (...) Ma riteniamo che quella della integrazione con Chrysler fosse l’unica strada”. E qui manca ogni accenno all’incalcolabile squilibrio fra la nuova azienda madre (Chrysler) radicata nel Paese più forte del mondo e con un solido sostegno pubblico, e la Fiat, diventata azienda-filiale, collocata al centro di una crisi gravissima e non governata nè in ambiti industriale, nè politico, e prigioniera delle regole europee. “L’identità tra l’automobile e la nazione a cui appartiene l’azienda che la produce è fortissima nell’immaginario collettivo. Tutti sanno che una automobile francese è francese, una tedesca è tedesca, e così via” (pag. 77 ). L’affermazione si trova in quasi tutti i discorsi di Gianni Agnelli. Nel libro ne segue un’altra, degli autori: “Ma, come insegna la storia di Fiat e Chrysler questa identità diviene più complessa man mano che la produzione si espande su più continenti e le aziende si uniscono”. Ora, con tutto il rispetto per gli autori, la “la storia di Fiat e Chrysler” non insegna nulla. Perchè ancora nulla è accaduto sul lato minore, il lato Fiat. Ma la Fiat, quando era viva, coincideva con l'Italia come nessuna industria in nessun Paese. “Durante la crisi la Fiat in Europa ha deciso deliberatamente la strategia di macchine al minimo, lanciando un numero limitato di nuovi modelli. Circa metà degli addetti italiani sono in cassa integrazione per la necessità di ristrutturare gli impianti per i nuovi modelli”. Ecco, questa è la Fiat che fu di Giovanni, Gianni e Umberto Agnelli. Un contenitore vuoto al traino della nuova azienda padrona americana. Questo non lo dice il libro, che è scritto da economisti che si comportano come bravi avvocati e puntano all'assoluzione. Non vedo perché la giuria dei cittadini italiani dovrebbe dire che va bene così.

Corriere 14.7.14
«Alitalia, l’accordo è valido anche senza la Cgil»
Salvi 11.036 lavoratori che entrano nella nuova compagnia
di Francesco Di Frischia


ROMA — Il giorno dopo l’intesa con i sindacati sull’Alitalia, alla quale ieri hanno aderito anche le organizzazioni che rappresentano piloti e assistenti di volo (Anpac, Anpav, Avia), la Cgil conferma la propria opposizione. Ma il ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi, taglia corto: «Se non firmerà, l’accordo è comunque valido», una convinzione che dovrebbe aver tratto confrontandosi con Etihad, la compagnia aerea araba che aveva chiesto ai sindacati «la pace sociale».
Lupi definisce il patto «un grande accordo industriale e imprenditoriale» e guarda al sindacato guidato da Susanna Camusso: «Mi auguro che la Cgil si sia presa tre giorni per capire l’importanza dell’opportunità che abbiamo davanti e che quindi firmi». Se ciò non dovesse avvenire però «l’accordo è valido comunque, con l’80% dei lavoratori rappresentati dalle altre sigle sindacali».
Soddisfazione dall’amministratore delegato di Alitalia, Gabriele Del Torchio, che parla di «un altro passo decisivo di questa road map che mi auguro a breve ci porterà alla definizione dell’alleanza strategica con Etihad Airways». Per questo «voglio ringraziare il governo, i sindacati Cisl, Uil, Ugl, e Anpac, Anpav e Avia che hanno capito l’urgenza e la necessità di trovare un accordo — fa notare — assumendosi la responsabilità di una scelta che assicuri un futuro di sviluppo ad Alitalia e la garanzia del posto di lavoro a più di 11 mila persone, a cui si aggiungono tutti i lavoratori dell’indotto». Del Torchio aggiunge, pensando alla Cgil: «Sono fiducioso che anche chi non ha ancora sciolto la riserva possa arrivare alla sottoscrizione di questa intesa».
Da Corso d’Italia, però, si valutano i contenuti del documento e si registrano posizioni diverse. Il segretario nazionale della Filt Cgil, Mauro Rossi, boccia l’accordo e «twitta»: «È uno scempio dei diritti dei lavoratori. Impossibile da firmare. Da contrastare in ogni sede». Parole condivise dal segretario generale della Filt Cgil, Franco Nasso: «La strada per risolvere il problema era un’altra e l’abbiamo proposta. A questo punto è chiaro che la trattativa era in mano a Etihad, ma rispetto alla quale i vertici di Alitalia avevano dato affidamenti talmente vincolanti da non avere alcuno spazio di manovra». Più articolata l’analisi del segretario confederale, ex leader filt, Fabrizio Solari: «Valuteremo il da farsi con il massimo di coinvolgimento dei lavoratori. L’unica cosa che mi sento di escludere è che la Cgil si estranei dalla vicenda».
Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, commenta: «Abbiamo saputo conciliare gli interessi generali del Paese con quelli dei lavoratori di Alitalia, garantendo la nascita di un nuovo vettore aereo italiano altamente competitivo e di grande qualità».
Dal documento sottoscritto sabato si apprende che nella nuova società italo-araba andranno 11.036 lavoratori. Dei 2.251 esuberi, invece, saranno ricollocati in società esterne 681: di questi 200 in attività di manutenzione pesante svolta da Atitech a Fiumicino; 56 unità nella security ; 85 nell’ information technology ; 100 in aziende fornitrici di Cai e 40 tra i fornitori di Adr. Inoltre 100 piloti e 100 tecnici verranno assunti da Etihad, previa selezione. A rimanere dentro Alitalia saranno 616 lavoratori: 52 in filiali estere; 200 in riqualificazioni su posizioni operative oggi coperte con contratti a tempo determinato, che saranno rescissi; altri 250 assistenti di volo avranno il contratto di solidarietà. Per 86 dipendenti durante la mobilità forzata scatterà la possibilità di andare in pensione ed infine per 28 è già terminato il rapporto di lavoro.
A finire in mobilità saranno in 954: per loro verranno sperimentati i contratti di ricollocamento. Il significato di questo progetto lo spiega Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio: «Si passa da forme di assistenza ai lavoratori in esubero ad un impegno immediato, affinché da subito ci si faccia carico di una loro ricollocazione». Ci saranno dei voucher che «saranno pagati ai tutor che prenderanno in carico il lavoratore solamente quando questo sarà approdato in un altro posto di lavoro — precisa Zingaretti —. Così si chiude una brutta stagione, anche di perdita di dignità per tanti lavoratori e lavoratrici». Tra le righe dell’accordo spunta infine un incentivo di 10 mila euro lordi a chi lascerà volontariamente l’azienda entro il 10 settembre.
La trattativa con i sindacati, compresa la Cgil, per il contratto di settore e aziendale riprende oggi al ministero dei Trasporti. I prossimi sette giorni saranno decisivi: sempre oggi il governo incontra imprese e banche. Mercoledì arriverà in Italia l’amministratore delegato di Etihad, James Hogan, anche se non dovrebbe compiere atti relativi all’acquisto di Alitalia. Infine il 22 luglio a Bruxelles il ministro Lupi dovrà presentare non solo il programma del semestre della presidenza italiana, per quanto riguarda trasporti e infrastrutture, ma anche per aggiornare l’Ue, «spero in maniera definitiva», auspica lo stesso Lupi, sulla procedura relativa a Alitalia-Etihad.

il Fatto 14.7.14
Quote rosa
Uk professore Domenico De Masi
“Devono tirare fuori le unghie per farsi valere”
intervista di Ch. Da.


La fiducia nelle donne c’è. A parole. Nei fatti sono ancora gli uomini, il sesso forte da secoli, a dettare legge. In buona sostanza, la rivoluzione di genere dipende anche e soprattutto da loro. Il terreno è pronto. Le nuove generazioni sono nate con le pari opportunità. Per andare al supermercato ci sono i turni, così per pulire la casa e andare a prendere i figli a scuola. È sulla bocca degli economisti più illuminati la formula magica “Womenomics”, neologismo coniato nel 2006 dalla rivista inglese Economist, che ha preso in prestito l’espressione “Womeneconomics”, un parto di Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari del mondo, per incentivare i cambiamenti a favore delle donne. Ma l’Italia, con il 14,5 per cento di donne manager nel privato, è ancora fanalino di coda in Europa, dove la media è del 33,3 per cento.
Qualcosa però è stato fatto. Dopo due anni dall’entrata in vigore della legge Golfo-Mosca sulle quote rose per le aziende quotate in Borsa e controllate da enti pubblici, secondo la Banca d’Italia, la presenza femminile nei Consigli di amministrazione è salita all’11 per cento (contro il 4,5 nel 2004 e il 6,6 nel 2010). Ma non è ancora il momento di fare i salti di gioia: nel 2011, in occasione del turnover nei Cda, nel 92 per cento dei casi un uomo è stato rimpiazzato con un altro uomo e l’85 per cento delle volte una donna con un uomo. Consola che la maggior parte delle imprese (il 66 per cento) oggi abbia almeno una poltrona su cui siede una donna. Che questa non sia più solo “la figlia di” o “la moglie di”, ma abbia scalato la montagna senza bisogno di spintarelle. Secondo Manager Italia, i settori con più donne al comando sono sanità e assistenza sociale (41,3 per cento), e istruzione (38,1 per cento). Off limits invece è il business delle costruzioni (7,9 per cento). Non se la cavano bene neppure nel commercio, alberghi e ristoranti, trasporti, attività immobiliari e finanziarie: qui le donne sono un terzo degli uomini. In Parlamento con le elezioni di febbraio 2013 le quote rose hanno raggiunto il record storico (30 per cento circa). “Le donne in politica possono favorire l’ascesa del gentil sesso in economia, ma in questo momento non abbiamo riscontri e rimane solo un auspicio” commenta Francesca Zajczyk, docente di Sociologia urbana all’Università Bicocca di Milano, esperta della questione femminile.
Fingere di essere uguali agli uomini per paura di venire sminuite e per farsi ascoltare dai dipendenti è l’atteggiamento che spaventa di più Domenico De Masi, noto sociologo del lavoro e professore alla Sapienza di Roma. “Le donne tendono a copiare il cliché del management maschile: aggressivo, maschilista, gerarchizzante, talvolta rude, da caserma. Io mi aspettavo che l'avvento femminile nelle cabine di regia avrebbe portato un vento diverso”. Cioè? “La donna deve puntare di più sulle sue qualità - spiega De Masi -: la solidarietà, non l’egocentrismo; l’etica, non il cinismo; l’affettività, non la distanza; e l’estetica, contro l’uomo in affari che di solito dà precedenza alla pratica”. A parità di condizioni, la donna il successo deve sudarselo più dell’uomo. “Al maschio può bastare la cordata, la donna deve dimostrare di essere un genio e non smette mai di essere sotto esame”.
Un altro ostacolo figlio del pregiudizio di genere è il gap- salariale. Secondo Bankitalia, il divario è del 13 per cento (era del 6 a metà degli anni ’90). Alma Laurea rileva che nel 2013, a un anno dalla laurea, il 63 per cento dei ragazzi ha già un lavoro e guadagna il 32 per cento in più delle ragazze (1220 euro contro 924), e dopo cinque anni la differenza non cambia (1646 euro contro 1266). Lo scollamento tra la realtà nel nome degli stereotipi, sintomo del senso di inferiorità ancestrale del maschio e dell’insicurezza viscerale femminile, e la realtà come dovrebbe essere si impone con i numeri. Le donne più degli uomini si iscrivono all’università (64 su 100, appena 52 i secondi). E quelle con la laurea in mano tra i 30 e i 34 anni sono il 26,9 per cento contro il 17,2 del sesso opposto. Ma quasi una su quattro perde il lavoro dopo la nascita del primo figlio.

La Stampa 14.7.14
Presto ai figli solo il cognome della madre (se si vuole)
di Carlo Bertini


Il primo ok è atteso per questa settimana, il secondo, grazie al bicameralismo perfetto ancora in vigore dovrà arrivare dal Senato. Ma già il voto atteso alla Camera mercoledì avrà una sicura risonanza e sarà interessante vedere se questa novità riuscirà a scalfire una tradizione millenaria: la legge di sette articoli che ha ottenuto giovedì scorso il placet in commissione Giustizia e che andrà in aula dopodomani sancisce infatti la possibilità di attribuire alla nascita il cognome materno per i figli. Eliminando quindi l’obbligo di adottare quello del padre. A onor del vero, come spiega il dossier dell’ufficio studi di Montecitorio, attualmente «l’attribuzione al figlio del solo cognome paterno non è oggetto di esplicita previsione normativa primaria, risultando tuttavia norma consuetudinaria saldamente radicata nella realtà sociale». Nel 2006 la Consulta emise una sentenza sull’attribuzione ai figli del solo cognome del padre, definendola «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia che affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Con questa legge dunque i neonati potranno vedersi attribuito il cognome paterno, materno o di entrambi i genitori. Con una formula secondo cui in caso di un disaccordo tra padre e madre sulla scelta il figlio avrà il cognome di entrambi, ma in ordine alfabetico. La legge che va in aula questa settimana disciplina una materia complessa e prevede le stesse regole anche per i figli nati fuori dal matrimonio e riconosciuti da entrambi i genitori. In caso di riconoscimento tardivo da parte di un genitore, il cognome si aggiunge solo se vi è il consenso dell’altro genitore e dello stesso minore se quattordicenne. E il principio della libertà di scelta vale anche per i figli adottati. In futuro, tutti quelli che avranno il doppio cognome potranno trasmetterne al figlio soltanto uno. Le nuove norme però non saranno subito operative. L’applicazione è infatti subordinata all’entrata in vigore, entro un anno, del regolamento che deve adeguare l’ordinamento dello stato civile...

Corriere 14.7.14
Se la legge vuole in cella i giornalisti «abusivi»
di Pierluigi Battista


Chissà, sarà in un sussulto di dignità che il sito ufficiale della Federazione nazionale della stampa, ultima scheggia brezneviana sopravvissuta al tracollo dell’89, ha deciso di nascondere lo sconsiderato elogio della legge grottesca e liberticida che stanno cuocendo in Parlamento. Con l’appoggio dell’Ordine dei giornalisti, istituito da Benito Mussolini ed ereditato, caso unico nel mondo dell’Occidente libero, nella Repubblica antifascista, si sta proponendo un avvitamento di manette a danno di «chiunque abusivamente eserciti» la professione di giornalista «per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato»: il reo verrebbe «punito con la reclusione fino a 2 anni e con la multa da 10 mila a 50 mila euro». Non sono previsti umilianti riti di autocritica in appositi istituti per la riabilitazione ideologica e morale del nemico del popolo (sinora, ma non si può mai dire).
È una legge semplicemente pazzesca. La si può prendere con ironia, come fa Carola Parisi sulla testata giornalistica online L’ultima ribattuta immaginando questa scena in un carcere già vergognosamente sovraffollato: «“Come mai siete dentro?” “Io spaccio”. “Io ho rubato una macchina”. “Io non ho superato l’esame da giornalista”». O con sgomento. E constatare in quale scarsa considerazione sia tenuta la libertà di stampa e di opinione per chi non dispone di un tesserino vidimato dallo Stato e con quanta ferocia corporativa si voglia tenere dall’informazione e dalla scrittura lontani gli esclusi, chi non fa parte della categoria controllata, chi non viene ritenuto degno di pubblicare e osa sfidare il monopolio della corporazione. Il carcere per chi scrive «abusivamente»: ma vi rendete conto dell’enormità? E se un giorno, a legge liberticida approvata, qualcuno volesse pignolamente applicare le nuove norme, che fanno, si presentano a casa di un freelance, del collaboratore di un blog, per mettere ai ceppi un «abusivo»? E non c’è bisogno di essere entusiasti di YouReporter per capire che non si può trattare un sito come un covo di delinquenti. E non c’è bisogno di essere super-liberali, ma solo di avere un po’ di buon senso, per capire che non si può essere così rozzi, grossolanamente autoritari, per indicare il carcere come punizione di un giornalista «abusivo».
Tra l’altro è semplicemente ridicolo accostare, come indica la legge, i giornalisti «abusivi» ai medici «abusivi» o agli ingegneri «abusivi». Chi entra con il bisturi in sala operatoria spacciandosi per chirurgo, o chi costruisce ponti proclamandosi ingegnere è un criminale pericoloso. Chi fa del giornalismo senza essere iscritto all’Ordine, in un regime pluralistico dove le fonti di informazioni sono tante e diverse, non fa male a nessuno. E non sarà certo un timbro dello Stato, comunque, a neutralizzarne l’eventuale pericolo. Ma il buon senso scarseggia, le corporazioni sono aggrappate al loro monopolio e la libertà di opinione non sembra un valore forte. Questo è il vero pericolo.

il Fatto 14.7.14
Verità e smentite
Il Papa riparla a Scalfari “Pedofilo il 2% del clero”
di Stefano Citati


Alla fine, italianamente, fa quasi più rumore la polemica della notizia. Scalfari ri-parla con Papa Francesco e padre Lombardi, responsabile della comunicazione vaticana, sottolinea che non si tratta di intervista perché i virgolettati usciti ieri su Repubblica (e ripresi dai media del mondo) non sono attribuibili. Lombardi tiene a precisare che non tutte le frasi riportate sono state pronunciate testualmente dal Papa e “in particolare due affermazioni che hanno attirato molta attenzione e che invece non sono attribuibili al Papa: che fra i pedofili vi siano ‘cardinali’ e che il Papa abbia affermato con sicurezza, a proposito del celibato, ‘le soluzioni le troverò’. “Nell’articolo tali affermazioni vengono chiaramente attribuite al Papa ma, curiosamente, le virgolette vengono aperte prima, ma poi non vengono chiuse. Mancano le virgolette di chiusura... Dimenticanza o esplicito riconoscimento che si sta facendo una manipolazione per i lettori ingenui”.
Eppure i ‘semi-virgolettati’ parlavano di un pontefice all’attacco più che mai della piaga della pedofilia nelle gerarchie cattoliche: “La lebbra della pedofilia contagia anche la Chiesa, ma la debellerò con il bastone”. “La corruzione di un fanciullo è quanto di più terribile e immondo si possa immaginare - osserva francesco nel dialogo con il fondatore del quotidiano romano
- specialmente se, come risulta dai dati che ho potuto direttamente esaminare, gran parte di questi fatti abominevoli avvengono all’interno delle famiglie o comunque di una comunità di antiche amicizie”.
I DISTINGUO producono subbuglio nei media italiani, ma in quelli internazionali hanno ben poco spazio. La Bbc titola secco sul sito: “Il Papa: 1 membro del clero su 50 è pedofilo” (ovvero il 2%, che è poi anche un cifra che ha permesso in passato alla Chiesa di sostenere che si tratta di una percentuale del fenomeno nella media, se non anche più bassa, di quelle conosciute nella società laica).
Nel colloquio uscito nel giorno della ‘sfida’ Mondiale tra pontefici - quello in carica argentino, e il dimesso, tedesco - si parla anche del celibato dei preti che, ricorda Bergoglio, “fu stabilito nel X secolo, cioè 900 anni dopo la morte di nostro Signore. Il problema certamente esiste ma non è di grande entità. Ci vuole tempo ma le soluzioni ci sono e le troverò”.
E poi “la nostra denuncia della mafia non sarà fatta una volta tanto ma sarà costante”. “Ho visto la processione di Oppido e dico: tutto sta cambiando e tutto cambierà”. “Alcuni sacerdoti tendono a sorvolare sul fenomeno mafioso; condannano i singoli delitti, onorano le vittime, ma la denuncia pubblica e costante delle mafie è rara. Il primo grande Papa che la fece proprio parlando in quelle terre fu Wojtyla”, e fu “applaudito da una folla immensa”. Il papa argentino spiega anche di voler approfondire la conoscenza del fenomeno mafia: “So quello che fanno, ma mi sfugge il modo di pensare. È questo aspetto che vorrei esaminare e lo farò leggendo i tanti libri e testimonianze”.

l’Unità 14.7.14
«Pedofili due preti su cento: via dalla Chiesa»
Seicento i casi denunciati ogni anno. Il Pontefice: «Impugnerò il bastone»
di Franca Stella


Quanti sono i preti pedofili all’interno della Chiesa? «Molti miei collaboratori che lottano con me - ha dichiarato Papa Francesco in un’intervista al fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari - mi rassicurano con dati attendibili che valutano la pedofilia dentro la Chiesa al livello del due per cento. Questo dato dovrebbe tranquillizzarmi ma debbo dire che non mi tranquillizza affatto». Da quando è salito sul soglio pontificio, la pedofilia è il chiodo fisso dI Bergoglio. «Gesù - ha spiegato ancora il Papa - amava tutti, perfino i peccatori che voleva redimere dispensando il perdono e la misericordia, ma quando usava il bastone lo impugnava per scacciare il demonio che si era impadronito di quell’anima».
I numeri, forniti dal Vaticano a inizio 2013, non lasciano dubbi: il picco delle denunce di abusi ricevuti dalla Congregazione per la dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio, è stato nel 2004, con 800 denunce, mentre negli ultimi tre anni ci si è attestati sui 600 casi all’anno, che in maggioranza riguardano abusi commessi dal 1965 al 1985, come ricordava don Robert Oliver, da meno di un anno promotore di giustizia della Congregazione. Denunce di tipo «canonico», perché poi esistono le denunce alle autorità giudiziaria. Gli abusi sui bambini da parte dei prelati hanno rappresentato un vero e proprio «tornado» fin dall’inizio del pontificato di Benedetto XVI, sconvolgendo intere Chiese nazionali, in particolare negli Stati Uniti, ma anche in Irlanda, Olanda, nella stessa Germania. Rivelazioni da parte di uomini della Chiesa, soprattutto negli Stati Uniti, erano partite già prima dell’arrivo di papa Ratzinger nell’aprile del 2005 al soglio pontificio, ma è negli anni successivi che lo scandalo si è allargato anche in America Latina e in Europa, soprattutto in Irlanda, dove sono emersi i crimini commessi da sacerdoti troppo spesso coperti dalla gerarchia.
Il giro di vita impresso da Benedetto XVI si è tradotto anche, a livello di Congregazione per la Dottrina della fede, in processi canonici che hanno portato, nel biennio 2011-2012, alla riduzione allo stato laicale di 400 sacerdoti accusati di molestie a minori. E lo scandalo pedofilia ha pesato anche sull’ultimo conclave: oltre al caso del porporato scozzese Keith O’Brien, che non ha partecipato all’elezione di Bergoglio dopo le rivelazioni su suoi approcci sessuali nei confronti di seminaristi, lo Snap, la rete americana dei sopravvissuti agli abusi dei preti, aveva stilato una lista di 12 cardinali da non eleggere «per rispetto alle vittime di abusi sessuali, soprattutto bambini, da parte di esponenti del clero, per le omissioni che hanno fatto nel denunciare i responsabili e per le giustificazioni che hanno dato nonostante le prove documentate».
Che il problema all’interno della mura pontificie sia sentito lo dimostra anche la presa di posizione della sala stampa vaticana all’intervista. Padre Lombardi ha sottolineato che «in particolare, ciò vale per due affermazioni che alcuni virgolettati, attribuiti al Papa, non siano stati precisi, non attribuibili al Pontefice. Uno di questi è quello che «fra i pedofili vi siano dei cardinali».
Probabilmente la precisazione di Lombardi è di tipo temporale. Il riferimento a porporati colpevoli di abusi riguarda allora due vecchi casi. Il primo lo avevamo accennato: il cardinali O’Brien (attualmente in «ritiro spirituale » per decisione dello stesso Bergoglio), mentre il secondo fa riferimento a Groer (che però è deceduto). Entrambi hanno ammesso di aver compiuto abusi sessuali. «Ci sono stati momenti in cui la mia condotta sessuale è caduta al di sotto degli standard ame richiesti, in quanto prete, arcivescovo e cardinale », aveva scritto il cardinale Keith O’Brien, allora arcivescovo di Glasgow, nei giorni convulsi del febbraio 2012, quando si stava preparando il Conclave (dal quale si autoescluse) ed erano state rese pubbliche le accuse per fatti risalenti agli anni Ottanta, quando era direttore spirituale del St. Andrew’s College.
Le voci su Hans Hermann Groer, arcivescovo di Vienna dal 1986 e due anni dopo cardinale, erano in circolazione dai primi anni ‘90. Lui si era sempre rifiutato di rispondere pubblicamente alle accuse. Dapprima i suoi colleghi vescovi austriaci lo difesero, respingendo le «calunnie» e gli «attacchi anticlericali ». Una linea in quel momento sostanzialmente condivisa da Giovanni Paolo II. Quando le accuse, affidate ai giornali, divennero però più circostanziate e gravi (oltre che di abusi sessuali, si parlava dell’utilizzo della confessione come mezzo di «approccio»), Groer fu costretto, seppure con molta lentezza, a lasciare.
Ma al di là delle precisazioni temporali di Padre Lombardi è vero negli ultimi due anni il Vaticano non sta facendo sconti a nessuno. Specie con prove certe, rispetto al passato, chi sbaglia paga. Come l’ex nunzio nella Repubblica Dominicana, l’arcivescovo polacco Jozef Wesolowski, 66 anni, che poche settimane fa, al termine del primo grado di giudizio del processo canonico a suo carico, è stato condannato dalla Congregazione per la Dottrina della fede alla dimissione dallo stato clericale. Wesolowski, alle spalle una lunga carriera diplomatica e dal gennaio 2008 a Santo Domingo, rimosso dall’incarico e richiamato in Vaticano dal Pontefice nell’agosto scorso perché coinvolto in un caso di presunti abusi pedofili, ha ora due mesi per proporre un eventuale appello. Poi del suo caso se ne occuperà la giustizia vaticana con un processo penale. Senza coperture né trattamenti speciali per i presuli d’alto rango.

il Fatto 14.7.14
Qui Vaticano
Aborto, matrimonio, gay: cattolici divisi al Sinodo
di Marco Politi


Alla fine, italianamente, fa quasi più rumore la polemica della notizia. Scalfari ri-parla con Papa Francesco e padre Lombardi, responsabile della comunicazione vaticana, sottolinea che non si tratta di intervista perché i virgolettati usciti ieri su Repubblica (e ripresi dai media del mondo) non sono attribuibili. Lombardi tiene a precisare che non tutte le frasi riportate sono state pronunciate testualmente dal Papa e “in particolare due affermazioni che hanno attirato molta attenzione e che invece non sono attribuibili al Papa: che fra i pedofili vi siano ‘cardinali’ e che il Papa abbia affermato con sicurezza, a proposito del celibato, ‘le soluzioni le troverò’. “Nell’articolo tali affermazioni vengono chiaramente attribuite al Papa ma, curiosamente, le virgolette vengono aperte prima, ma poi non vengono chiuse. Mancano le virgolette di chiusura... Dimenticanza o esplicito riconoscimento che si sta facendo una manipolazione per i lettori ingenui”. Eppure i ‘semi-virgolettati’ parlavano di un pontefice all’attacco più che mai della piaga della pedofilia nelle gerarchie cattoliche: “La lebbra della pedofilia contagia anche la Chiesa, ma la debellerò con il bastone”. “La corruzione di un fanciullo è quanto di più terribile e immondo si possa immaginare - osserva Francesco nel dialogo con il fondatore del quotidiano romano - specialmente se, come risulta dai dati che ho potuto direttamente esaminare, gran parte di questi fatti abominevoli avvengono all’interno delle famiglie o comunque di una comunità di antiche amicizie”. I DISTINGUO producono subbuglio nei media italiani, ma in quelli internazionali hanno ben poco spazio. La Bbc titola secco sul sito: “Il Papa: 1 membro del clero su 50 è pedofilo” (ovvero il 2%, che è poi anche un cifra che ha permesso in passato alla Chiesa di sostenere che si tratta di una percentuale del fenomeno nella media, se non anche più bassa, di quelle conosciute nella società laica). Nel colloquio uscito nel giorno della ‘sfida’ Mondiale tra pontefici - quello in carica argentino, e il dimesso, tedesco - si parla anche del celibato dei preti che, ricorda Bergoglio, “fu stabilito nel X secolo, cioè 900 anni dopo la morte di nostro Signore. Il problema certamente esiste ma non è di grande entità. Ci vuole tempo ma le soluzioni ci sono e le troverò”. E poi “la nostra denuncia della mafia non sarà fatta una volta tanto ma sarà costante”. “Ho visto la processione di Oppido e dico: tutto sta cambiando e tutto cambierà”. “Alcuni sacerdoti tendono a sorvolare sul fenomeno mafioso; condannano i singoli delitti, onorano le vittime, ma la denuncia pubblica e costante delle mafie è rara. Il primo grande Papa che la fece proprio parlando in quelle terre fu Wojtyla”, e fu “applaudito da una folla immensa”. Il papa argentino spiega anche di voler approfondire la conoscenza del fenomeno mafia: “So quello che fanno, ma mi sfugge il modo di pensare. È questo aspetto che vorrei esaminare e lo farò leggendo i tanti libri e testimonianze”.

Repubblica 14.7.14
“Coperti gli abusi del vescovo”, scandalo a Londra
di Enrico Franceschini


LONDRA. Come nel gioco delle scatole cinesi, sotto il Big Ben è scoppiato uno scandalo che contiene uno scandalo che contiene un altro scandalo: resta solo da capire quale sia il più grande e quale il più piccolo. Il filo comune è lo stesso su cui si scaglia a Roma papa Francesco: la pedofilia. Per raccontarli tanto vale partire dalla fine, cioè dall’ultimo in ordine di tempo: il Times di Londra ha scoperto che la baronessa Elizabeth Butler-Sloss, 73 anni, giudice in pensione e fino al 2004 il magistrato donna di più alto grado del Regno Unito, aveva deciso di non coinvolgere un vescovo in un rapporto sulla pedofilia nel clero anglicano perché lei «voleva bene alla chiesa». Lo scandalo precedente è che la medesima baronessa, incaricata dal primo ministro David Cameron di guidare una commissione d’inchiesta su un presunto insabbiamento di indagini sulla pedofilia al parlamento di Westminster negli anni ‘70-’80, avrebbe troppi legami con l’establishment per investigare imparzialmente la vicenda, incluso il legame di sangue con il proprio defunto fratello, lord Havers, che fu lord cancelliere (procuratore generale) in quegli anni e venne accusato di avere protetto un influente diplomatico apertamente pedofilo. Il terzo scandalo è quello del “dossier pedofilia” a Westminster: 114 incartamenti su una ventina di parlamentari che 30-40 anni fa erano sospettati di abusi sessuali su minori, un dossier misteriosamente scomparso dagli archivi di Scotland Yard.
Di pedofilia si parla molto di questi tempi in Inghilterra. Dalla chiesa alle scuole private fino alla Bbc, è un fiorire di accuse per violenze sessuali su minori di ambo i sessi, culminate in rivelazioni da film dell’orrore, come quelle sul presentatore della hit parade in tivù Jimmy Savile (deceduto nel 2012), un orco che molestava orfanelli e malati in ospedali e si accaniva perfino sui cadaveri all’obitorio; e nella condanna a cinque anni di prigione per l’attore Rolf Harris, spedito in carcere a 84 anni. Nei giorni scorsi la stampa ha individuato un nuovo filone: l’esistenza di un dossier pedofili in Parlamento, aperto e subito chiuso negli anni ‘80. Non solo insabbiato ma in seguito addirittura sparito, forse distrutto. Un’ombra mostruosa sull’establishment dell’epoca. Un’ombra a cui si aggiungono ogni giorno nuovi elementi: ieri indiscrezioni del People e del Mirror hanno tirato in ballo perfino Margaret Thatcher, riferendo che quando era primo ministro disse a un proprio ministro, chiacchierato per rapporti con ragazzini adescati vicino alla stazione Vit- toria di Londra, che doveva «ripulire i propri atti sessuali», peraltro senza che il monito producesse risultati.
Sotto pressioni dell’opinione pubblica, Cameron ha nominato una commissione d’inchiesta e l’ha affidata alla baronessa Butler-Sloss. Ma quasi subito sono cominciate le contestazioni nei confronti dell’ex magistrato. E ora il Times rivela che la baronessa ha protetto un alto prelato dall’accusa di pedofilia, perché - come confidò lei stessa nel 2011 in un’udienza a porte chiuse alla camera dei Lord alla vittima degli abusi di due preti - «i giornali godrebbero a vedere un vescovo alla gogna».

l’Unità 14.7.14
Lettere eretiche. Cara Unità ti scrivo
Una raccolta di missive inviate ai giornali
Pubblichiamo la premessa
di Luigi Cancrini


SONO PIÙ DI 5 ANNI CHE LEGGO LELETTERE INVIATE A L’UNITÀ SCEGLIENDONE POI UNA A CUI RISPONDERE. Lo faccio ogni giorno e lo considero sempre di più un modo di tenermi in contatto con il mondo della gente che pensa. Che riflette. Di cui penso a volte che sia diversa dagli altri, da quelli che non pensano e che non scrivono, soprattutto perché è curiosa, continuamente interessata a quello che accade e al suo significato, evidente o recondito, e perché è portata a proporre, su quello che accade e sul suo significato, un suo personale giudizio.
Rispondendo, più o meno consapevolmente, all’idea che dell’uomo aveva Kant: l’essere che ha davanti a sé un cielo stellato da esplorare e lo contempla, infinito e scintillante, nella realtà che sta fuori di lui (la «curiosità» instancabile del capire) e dentro di sé una coscienza morale (quella cui si lega di continuo il suo sentimento del giusto e dell’ingiusto). Lasciandosi colpire (i lettori che scrivono lo fanno quasi sempre per questo, perché se ne sentono colpiti) dalle notizie che scelgono di commentare nel modo così profondamente umano, sempre, del giudizio di valore: giusto o sbagliato che sia, che piaccia o no a chi lo ascolta e importante sempre, però, per dare conto del numero straordinario e dell’importanza dei punti di vista, del modo diverso per gli esiti ma tremendamente uguale nella metodologia con cui l’essere umano reagisce alle informazioni che riceve.
Facendole sue nel momento in cui le collega al movimento vivo delle sue emozioni. Coinvolgendosi in prima persona. Come ben dimostra, mi pare, questa bella raccolta di lettere scritte a tanti giornali da Paolo Izzo sui temi che più lo appassionano. Collegati sempre in modi diversi, ma su uno schema che si ripete, alla denuncia della sopraffazione del più furbo sul più debole e alla precarietà degli argomenti «morali» con cui questa sopraffazione viene giustificata.
Centrale è in questa riflessione, in effetti, proprio il tema del moralismo, di quella che Carl Marx chiamava ironicamente nei Manoscritti «la signora morale» imperniata, nel qui ed ora della situazione italiana, soprattutto sui precetti della Chiesa di Roma. Di cui Izzo denuncia con forza particolare la doppiezza delle posizioni e l’ingerenza nella vita politica, l’oscurantismo culturale e la pretesa di fornire risposte autoritarie ai dubbi su cui dovrebbe crescere la coscienza e la consapevolezza delle persone. Di cui Izzo segnala continuamente dunque le incertezze, le debolezze e le carenze. Dall’interno di un discorso, però, che esprime un bisogno forte, naturale, prepotente di una religiosità che potrebbe incontrarsi con quella dei laici se solo si mantenesse più attenta al Vangelo. Alla Parola di cui Gesù, uomo illuminato o Dio sceso in terra, si è fatto comunque portatore.
Il problema, che io sento particolarmente come un problema anche e non solo mio, ha origini naturali nell’educazione religiosa che tutti abbiamo comunque avuto e che naturalmente ci ha posto, in un certo momento della nostra vita, di fronte alla necessità di affermare che «etica» è prima di tutto la scelta di chi comunque ragiona con la propria testa.
Anche nel momento in cui pensa di trovarsi di fronte ad un testo «sacro» che sta lì per aiutarlo a capire non a dirgli quello che deve pensare. Su strade aperte molti secoli fa da Lutero (ricordate le Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini?) e portate avanti oggi tenacemente, oltre che da Izzo, dai radicali e dai tanti laici capaci di mantenersi sempre rispettosi anche della fede di chi crede. Come è in grado di sentire prima che di capire, oggi, forse, il Papa che la Chiesa si è data di recente. Per venire incontro, forse, a questo tipo di critiche e di richieste.

l’Unità 14.7.14
In nome di Madiba
Desmond Tutu per la buona morte
Londra si appresta a discutere di una legge sul fine-vita
L’ex arcivescovo di Canterbury, Carey, la difende
E Tutu con lui: «Vergognoso quanto hanno fatto a Mandela»
di Marina Mastroluca


La gente dovrebbe poter morire in modo decoroso». Morire con dignità «è un nostro diritto». Parole sentite ogni volta che un caso dolorosamente personale irrompe sulla scena pubblica e riaccende la polemica. Ma se a pronunciarle è Desmond Tutu, arcivescovo anglicano, premio Nobel per la pace e paladino della difesa dei diritti umani, il richiamo alla dolce morte come a un diritto proprio dell’essere umano ha un peso specifico diverso. Per la storia di Tutu e per la sua testimonianza diretta della lunga agonia di Nelson Mandela, trattenuto a forza tra i vivi mentre l’establishment politico sudafricano trasformava il suo letto d’agonia in una passerella. «Quello che è stato fatto a Madiba è vergognoso», scrive Desmond Tutu sulle pagine del britannico Observer entrando di peso nel dibattito che nei prossimi giorni approderà alla Camera dei Lord, sulla scia di una proposta di legge sul fine vita che non avrà un iter facile: 110 Lord sono già iscritti a parlare, un record assoluto, e la discussione si apre solo venerdì prossimo.
Tutu non è stato il primo nella Chiesa anglicana - 80 milioni di fedeli nel mondo - a infrangere il tabù della sacralità sempre e comunque inviolabile della vita. Sabato scorso l’ex arcivescovo di Canterbury, George Carey, si è espresso a favore della legge presentata da lord Falconer che prevede la possibilità per il medico di intervenire attivamente per abbreviare l’agonia di un malato terminale, che abbia di fronte un orizzonte di vita di non più di sei mesi. Carey, in passato contrario ad ogni forma di eutanasia, in un articolo pubblicato sul Daily mail ha ammesso di aver rivisto il suo modo di pensare. «Di fatto, ho cambiato idea. Le certezze filosofiche passate sono crollate di fronte alla realtà di inutili sofferenze», ha detto l’ex arcivescovo sostenendo che i progressi della medicina, in grado di prolungare la vita di malati gravi, impongono una «svolta etica». «Oggi siamo di fronte a un paradosso. Rispettando rigorosamente la sacralità della vita, la Chiesa rischia di promuovere l’agonia; e il dolore è l’esatto contrario del messaggio cristiano di speranza», ha aggiunto.
Parole non condivise dall’attuale arcivescovo di Canterbury Justin Welby, anche lui intervenuto sulla stampa - il Times stavolta - per difendere la posizione tradizionale della Chiesa anglicana, contraria a pratiche che possano agevolare il passaggio tra la vita e la morte. Con lui anche le associazioni che difendono i diritti dei disabili: il timore è che uno spiraglio aperto in nome della compassione possa trasformarsi nell’incubo di pressioni indebite su persone gravemente malate perché abbrevino la propria esistenza. Al contrario, le organizzazioni che si battono per il diritto ad una fine dignitosa hanno tirato dalla propria parte l’appello di monsignor Carey e di Desmond Tutu. Il rabbino Jonathan Romain, a nome di 60 leader religiosi che sostengono la proposta Falconer, tira le somme: «Non vedo nessuna santità nella sofferenza, nessuna sacralità nell’agonia».
Lo stesso sentimento che riecheggia nelle parole di Tutu che ha ricordato come il dibattito britannico si apra nel Mandela Day e che proprio nel nome di questo gigante scomparso anche il Sudafrica dovrebbe interrogarsi sul fine vita, come sta facendo Londra. «Una morte dignitosa per me significa poter parlare con le persone con cui ho vissuto e essere in pace. Significa dire addio alle persone che ami, possibilmente a casa», scrive Tutu. Non quel circo messo su intorno a Mandela, immortalato con lo sguardo vuoto, incapace di parlare, di essere davvero presente. «È stato un affronto alla sua dignità».
Lord Falconer incassa con soddisfazione l’inatteso sostegno che arriva dal Sudafrica e che ha il pregio di venire da un uomo di chiesa, di indiscussa levatura morale. In Gran Bretagna l’eutanasia è illegale, il suicidio assistito è passibile di una condanna a 14 anni di prigione, anche se le ultime direttive dell’autorità giudiziaria britannica invitano alla clemenza nei casi in cui è stato compiuto per «compassione». C’è uno spazio opaco dove si colloca il fine vita, uno spazio dilatato dai progressi della medicina che la legge finora ha finto di non vedere. «Penso che molta gente si scandalizzerebbe se io dicessi che voglio una morte assistita - ha scritto ieri Tutu -. Direi che davvero non me ne importa». Mandela, che di lui parlava come della voce di chi voce non ha, ne sarebbe stato contento.

Repubblica 14.7.14
Slovenia
Svolta a sinistra vince il partito anti-corruzione


LUBIANA. il partito di Miro Cerar (nella foto), il giurista che in poco meno di un mese è salito alla ribalta della politica slovena, è il grande trionfatore delle elezioni politiche anticipate del paese balcanico. Secondo gli exit poll, il partito del docente universitario avrebbe raccolto il 36,9% dei consensi (38 deputati su 90), il risultato migliore conseguito da qualsiasi partito nella storia parlamentare della Slovenia. Il partito, fondato pochi mesi fa con un programma anticorruzione, ha probabilmente fatto il pieno dei voti di sinistra, rimasti vaganti dopo la scissione interna a Slovenia positiva, partito principale del governo uscente e rimasto clamorosamente fuori dal parlamento. La Slovenia ha svoltato decisamente a sinistra: i due partiti di centrodestra (SDS e Nova Slovenija) hanno avuto secondo gli exit poll un consenso pari appena al 25%.

Corriere 14.7.14
Le grandezze dell’autentico Califfato
La storia usurpata dai fondamentalisti
di Lorenzo Cremonesi


Un giorno forse qualcuno riuscirà a dire al signor Ibrahim Awwad Al-Samarrai, meglio noto col nome di battaglia di Abu Bakr Al-Bagdadi, che ha preso un granchio. Il 29 giugno nella moschea di Mosul si è auto-proclamato signore indiscusso del «nuovo Califfato» sunnita tra Iraq e Siria. E, abusando di questo titolo ripreso dalla culla della storia araba classica, fa la guerra «santa» agli sciiti, attacca le milizie sunnite moderate in Siria, perseguita i cristiani, promette di conquistare «Roma, Bisanzio e Cordoba», ruba, tortura, uccide, minaccia di attaccare Bagdad e destabilizzare l’intera regione. Dimostrando di ignorare che proprio il Califfato di Bagdad fu l’epoca d’oro della cultura islamica. Ma non nei termini della crociata wahabita intollerante da lui propagata. Tutto il contrario.
Dal 750 d.C., sino all’invasione mongola del 1258, la dinastia califfale degli Abbasidi fece di Bagdad un formidabile centro di studi, tollerante, aperto al mondo, curioso di tutto ciò che fosse diverso e sconosciuto. Al-Bagdadi magnifica il sacrificio degli «shahid», i martiri della sua guerra santa? Non sa che oltre mille anni fa il Califfo Harun al Rashid impose alla sua città la massima più famosa di quell’epoca di grande rinascimento: «L’inchiostro di uno studioso è più sacro del sangue di un martire». E volle che proprio nei palazzi più lussuosi lungo il Tigri, chiamati «la casa della saggezza», venissero ospitati scienziati, letterati, matematici, astronomi, filosofi. Non importa se ebrei, cristiani nestoriani, cinesi, indiani.
Grazie a loro il Medioevo cristiano ricevette i capolavori della filosofia greca: i Presocratici, Platone, Aristotele, gli Scettici. E poi i classici latini, bizantini, ebraici. Mentre l’Europa era nel pieno dei «secoli bui», lungo il Tigri tramandavano la geometria euclidea, studiavano le stelle, esaltavano gli studi empirici. A Bagdad lavorò Ibn Al-Haytham, precursore delle scienze ottiche; insegnò il medico persiano Avicenna (Ibn Sina); fu letto e diffuso Averroè (Ibn Rushd), il padre arabo della rivoluzione copernicana. E poi, offesa di tutte le offese per i nuovi censori di Mosul, vi fu stilato uno dei cicli di racconti raccolti nelle Mille e una Notte : sensuale, libertino, provocante, intelligente.

l’Unità 14.7.14
Giacomo Leopardi che gran pensatore
In uscita due libri che ci parlano di religione e di desiderio
Da sempre c’è chi vede lo scrittore credente e cristiano e chi invece ne fa un ateo
di Gaspare Polizzi


LEOPARDI È TRA I POCHI GRANDI DELLA CULTURA A NON AVER BISOGNO DI SCADENZE CELEBRATIVE. Escono ora due libri che gettano nuova luce sul suo pensiero - L’ordine dei fati e altri argomenti della «religione» di Leopardi di Rolando Damiani (Longo, Ravenna) e Desiderio e assuefazione. Studio sul pensiero di Leopardi di Alessandra Aloisi (ETS, Pisa) -, riaffermando ciò che i suoi amici, a partire da Pietro Giordani, ben sapevano: Leopardi fu un grande pensatore. A mio avviso è il maggiore pensatore italiano dell’800 e tra i maggiori in Italia. Lo testimonia ora anche il suo inserimento canonico nel primo volume dell’Ottava appendice dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Il contributo italiano alla storia del pensiero, dedicato alla filosofia e curato da Michele Ciliberto. Damiani, ordinario di Letteratura Italiana a Ca’ Foscari di Venezia, è un leopardista tra i maggiori: ha curato, tra l’altro, le Prose, lo Zibaldone e le Lettere per i Meridiani Mondadori, un Album Leopardi e la biografia All’apparir del vero, tradotta nel 2012 in Francia da Allia.
In questo volume si cimenta su un tema squisitamente filosofico, e teologico, molto controverso: la riflessione leopardiana sulla religione. Ben nota la divaricazione delle interpretazioni: da chi vede Leopardi sempre, anche se tormentatamente, credente e cristiano, a chi ne fa un ateo esplicito e conseguente. Ogni polarizzazione porta con sé una semplificazione, pericolosa per intendere un pensatore «in movimento» quale fu sempre Leopardi, e spesso non in movimento lineare e “progressivo”.
È indiscutibile la profondità e l’ampiezza degli studi teologici del giovane Leopardi, destinato a una carriera ecclesiastica. Studi che una mente così ampia non poté e non volle dimenticare: «Leopardi - ben sottolinea Damiani - non disperde nulla della propria storia conoscitiva e sentimentale e anche religiosa, ma piuttosto la trasvaluta». Lungo i sei capitoli della sua finissima esegesi Damiani segue l’impronta filosofica e teologica di un inesaurito confronto con il Cristianesimo, nel segno di un’espressione raccolta nella Storia del genere umano, Operetta preliminare che tocca da vicino la questione dell’«enigma della forza ordinatrice del cosmo»: «“l’ordine dei fati” è locuzione allusiva dell’aldilà del nome e del logos, dell’antecedente all’arché precluso agli uomini e al quale gli stessi Dei sono subordinati ».
A ragione Damiani riconosce in tale questione un assillo che trapassa in tante pagine dello Zibaldone, si esprime in noti esercizi poetici come Ad Arimane, e diviene tema filosofico soprattutto nelle Operette: nella citata Storia e in altre due tra le più dense, quali il Cantico del gallo silvestre e il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco. L’ordine dei fati trascende il volere degli Dei e appare inesorabile per lo stesso Giove. Si tratta di quel Dio del male che Leopardi disvela, seguendo Teofrasto e poi Stratone, identificando il male con l’ordine delle cose, mistero «mirabile e spaventoso », esprimibile in una teologia apofatica, che procede alla conoscenza di Dio per via di negazioni, ovvero a quella antiteodicea descritta da Patrizia Girolami (L’antiteodicea. Dio, dei, religione nello «Zibaldone» di Giacomo Leopardi, Olschki, Firenze 1995). Nella complessità della riflessione leopardiana sul divino l’antiteodicea non smentisce tuttavia, a mio avviso, la profondità conseguente dell’approdo materialistico e ateistico della sua riflessione.
Alessandra Aloisi raccoglie nel suo primo libro leopardiano i risultati di un dottorato di ricerca in Filosofia all’Università di Pisa e di una frequentazione con Leopardi che si è avvalsa della collaborazione con un altro grande leopardista, Antonio Prete. Aloisi ha pubblicato con Prete l’antologia Il gallo silvestre e altri animali (Manni, Lecce 2010), innovativa per il focus sull’animalismo leopardiano, presente in forme interessanti anche in questo volume.
Il libro rivendica una sistematicità del pensiero leopardiano, che ruoterebbe intorno ai due concetti “metafisici” di desiderio e di assuefazione, «gli unici due a partire dai quali fosse lecito tentare una ricostruzione quanto più possibile complessiva del pensiero filosofico leopardiano». Affermazione impegnativa, ampiamente sostanziata nei cinque capitoli del volume in un largo ventaglio di aspetti psicologici, sociologici, ontologici ed estetici. Aloisi vede la sistematicità leopardiana in forma aperta e problematica, più nelle domande filosofiche che ritornano che non nella chiusura teoretica di un sistema di risposte. Ricordo che sulla sistematicità del pensiero leopardiano, fortemente contestata nella tradizione neo-idealistica italiana (in particolare da Benedetto Croce), si è misurato di recente, con una visione viceversa “forte” e unitaria di stampo dialettico, Fabio Vander in Il sistema- Leopardi. Teoria e critica della modernità (Mimesis, Milano-Udine 2012).
Aloisi intreccia la sua ricostruzione di «una vera e propria teoria del desiderio e del suo rapporto con la realtà e l’immaginazione» con la tradizione filosofica moderna del 600 e del 700, da Spinoza a Pietro Verri, da Pascal a Condillac, da Locke a D’Holbach, da Montaigne a Rousseau.
Un rilievo significativo acquista l’uso di categorie filosofiche del 900, desunte da Bergson e soprattutto da Gilles Deleuze, che permettono ad Aloisi, in un esercizio difficile, di confrontarsi con un’elevata varietà di interpretazioni e di applicare la teoria dell’arte di Deleuze, producendo una lettura originale del pensiero leopardiano, in efficace interazione con lo spinozismo.
A mio avviso, la limitazione della trattazione ai concetti di desiderio e assuefazione è sì funzionale alla ricostruzione di una filosofia morale e di un’estetica, in altri termini della ricognizione leopardiana sulla natura umana, ma non tiene in adeguato conto il nesso che Leopardi stabilisce, fin dai suoi studi giovanili, tra la visione della natura, cosmica, chimica, biologica, e l’indagine sul problema del desiderio e sull’esistenza o meno di una felicità per gli uomini e per gli animali.
I due libri vanno accolti come due contributi significativi a quella rivalutazione della filosofia leopardiana che è ancora lontana dall’essere univocamente riconosciuta.

Corriere 14.7.14
Il fascino infinito della luna gigante
Leopardi studiò astronomia e se ne innamorò
di Armando Torno


La luna attira. Non fece in tempo ad accorgersene Beethoven perché il nome della composizione per pianoforte numero 14 in Do diesis minore, da lui chiamata Sonata. Quasi una fantasia , diventò Al chiaro di luna dopo la sua morte. Fu Ludwig Rellstab negli anni ’30 dell’Ottocento a denominarla in tal modo, scorgendo nell’Adagio sostenuto di apertura un idilliaco panorama notturno addolcito da luce lunare. D’altra parte, Giacomo Leopardi in quegli anni si innamorò dell’astro. Nel Canto notturno le pone domande: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/ Silenziosa luna?»; nei versi ad essa titolati la chiama in causa quale testimone esistenziale: «O graziosa luna, io mi rammento/ Che, or volge l’anno, sovra questo colle/ Io venia pien d’angoscia a rimirarti:/ E tu pendevi allor su quella selva/ Siccome or fai, che tutta la rischiari». Ne La sera del dì di festa la descrive, anzi la dipinge: «Dolce e chiara è la notte e senza vento,/ E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ Posa la luna, e di lontan rivela/ Serena ogni montagna».
Leopardi era arrivato ad amarla dopo averne studiato interpretazioni e calcoli, esaminato Galileo e le teorie delle maree in un’opera giovanile: la Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII (ora ripubblicata da La Vita Felice, ché Mondadori l’ha esclusa dai «Meridiani» con poesie e prose). Impossibile riprendere tutte le sue citazioni ma, come dirà Thomas Mann in Nobiltà dello spirito , la luna è emblema dell’arte: entrambe consentono un abbraccio tra mondo materiale e spirituale; rivolgere lo sguardo alla luna significa elevarsi nel cosmo senza dimenticare la terra. D’altra parte, nel 1657 Cyrano de Bergerac aveva pubblicato un ardito romanzo dal titolo L’altro mondo o Gli Stati e gli Imperi della Luna , nel quale espose teorie filosofiche e scientifiche allora non gradite ai benpensanti, quali l’eternità e infinità dei mondi, la costituzione atomica dei corpi et similia . Il francese era già stato anticipato da Ariosto. «Tutta la sfera varcano del fuoco,/ et indi vanno al regno della luna»: con questi versi inizia il canto XXXIV dell’Orlando Furioso , in cui il paladino Astolfo è condotto sulla luna da Giovanni evangelista per recuperare il senno di Orlando, smarritosi per amore.
D’Annunzio nell’Alcyone scioglierà un’immagine alla «Nascente luna, in cielo esigua come/ il sopracciglio della giovinetta», mentre Samuel Beckett in Molloy perderà la pazienza: «Com’è difficile parlare della luna con discrezione! È così scema, la luna. Dev’essere proprio il culo quello che ci fa sempre vedere». Supererà il suo romanticismo Alfred de Musset, nella Ballata alla luna : «C’était dans la nuit brune,/ sur le clocher jauni,/ la lune/ comme un point sur un i» («Era nella notte bruna/ sul campanile ingiallito/ la luna/ come un punto su una i». Un’altra immagine giunge da Sergej Esenin che troverà anche il tempo di innamorarsi di Isadora Duncan, ma ne L’acero antico non si scorderà di lasciare un simbolo: «La luna, rana d’oro del cielo».
Tra i malati guariti da Gesù presso il lago di Tiberiade c’erano dei lunatici (Matteo 4,24): così allora erano detti i colpiti da epilessia, attribuita a influssi lunari. Presso i babilonesi l’astro prendeva la forma di uomo ed era il dio Sin (qualcuno lo vedrà nell’etimo del Sinai); maschile resterà anche in Egitto, dove sarà il dio Thout, detto anche Chonsu: a lui verrà attribuita l’arte della scrittura e la sapienza, per questo i Greci lo identificheranno con Ermete. Già, i Greci: finalmente la luna diventa donna. È Selene.

Repubblica 14.7.14
Gramsci e Wittgenstein quel dialogo a distanza su che cos’è una lingua
I due non si conobbero mai. Ma Franco Lo Piparo in uno studio mostra l’influenza che il primo esercitò sul secondo inducendolo a modificare le sue tesi
di Raffaele Simone


NELLA storia dei grandi incontri intellettuali alcuni si possono spiegare solo come effetto di un richiamo favorito da una dea dell’intelligenza. Così quelli tra Rousseau e Hume o tra Joyce e Svevo. In Il professor Gramsci e Wittgenstein (Donzelli, pagg. 186, euro 18), Franco Lo Piparo ricostruisce e racconta con mano maestra un incontro ancora più avventuroso, perché ebbe luogo tra due persone che non si conobbero mai.
La sua idea è infatti che la svolta che portò Wittgenstein dalla concezione logicistica del linguaggio come rispecchiamento del mondo (presentata nel Tractatus logico philosophicus, 1922) alla seconda fase del suo pensiero, in cui il linguaggio si modella secondo gli usi e le prassi degli utilizzatori ( Ricerche filosofiche), è dovuta all’influsso… di Gramsci! Ma Gramsci in quel periodo (a cavallo degli anni Trenta) era in carcere! E allora? La spiegazione (e qui sta la protezione della dea dell’intelligenza) si trova nel fatto che quei geni avevano un amico in comune nella persona dell’economista (e comunista) Piero Sraffa, che risiedeva a Cambridge come Wittgenstein, ma teneva strettissimi contatti (anche, secondo Lo Piparo, per conto di Mosca) con Gramsci attraverso la cognata Tania. Sraffa fu “il tessitore” dei “fili sotterranei e invisibili” tra il pensiero dell’uno e dell’altro, anzi soprattutto tra le elaborazioni di Gramsci e quelle di Wittgenstein.
Sembra una trama alla Le Carré e quest’impressione è accentuata dalla maestria con cui Lo Piparo estrae (dai Quaderni del carcere , dalle opere di Wittgenstein e dalle mille testimonianze sui due pensatori) segmenti parlanti e li monta in un mosaico che lascia meravigliati per la coerenza dell’immagine e che a tratti ci fa restare col fiato sospeso.
Gramsci, che cominciò a Torino studi di linguistica, portò anche in carcere un interesse primario verso il linguaggio. Lo vedeva non solo nei suoi fondamenti (chi lo produce, chi e che cosa lo fa cambiare) ma anche come fattore cruciale per la costruzione della società, dell’egemonia politica e della cultura. In questo quadro nasce l’idea, che Lo Piparo ricostruisce molto bene, che le strutture delle lingue non sono nulla se spogliate degli usi che ne fanno i parlanti: «Il linguaggio si trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà, per l’affiorare di nuove classi alla coltura, per l’egemonia esercitata da una lingua nazionale sulle altre». Ebbene, Wittgenstein (sconfessando le sue posizioni di un tempo) riprende questo pensiero sotto forma del concetto di “gioco linguistico”, il linguaggio usato nella prassi. Il “messaggio” gramsciano, come Lo Piparo mostra, era arrivato fino a lui attraverso Sraffa, che aveva una conoscenza diretta dei quaderni gramsciani.
Certo, quanto l’argomentazione di Gramsci è trasparente, tanto quella di Wittgenstein è tormentata, interrotta da continue domande a sé stesso, da esempi paradossali o stridenti, dal tono sentenzioso… Ma è davvero sorprendente vedere, seguendo Lo Piparo, che quando Wittgenstein cerca di spiegare che cosa è una regola o un comando usa gli stessi esempi e le stesse parole con cui Gramsci in uno dei suoi quaderni illustra il funzionamento delle regole grammaticali non scritte.

Corriere 14.7.14
Il terzo polmone del cristianesimo: la modernità della tradizione siriaca
Esegesi, preghiera, creazione: un pensiero secolare e i suoi interpreti
di Pietro Citati


Oggi, noi abbiamo un’idea inesatta e incompleta delle origini del Medioevo cristiano. Conosciamo il cristianesimo latino e occidentale; e quello bizantino. Ignoriamo quasi tutto di una terza tradizione, quella siriaca, specialmente siro-orientale, alla quale è dedicato il bellissimo libro di Sabino Chialà: La perla dai molti riflessi (Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, pagine 270, e 25). Di questa tradizione oggi non resta quasi niente: piccole comunità disperse e perseguitate nei paesi del Medio-Oriente, che di rado riescono a far giungere la voce fino a noi. Ma, un tempo, fino al tredicesimo secolo, esisteva una chiesa ricchissima, separata da Roma e da Bisanzio, che dalla Siria e dalla Mesopotamia, da Antiochia e da Selucia-Ctesifonte si estendeva fino in Persia orientale, nella penisola arabica, nello Yemen, in Asia centrale, in India, in Mongolia, e in Cina, dove fiorì dal VII al IX secolo.
Come i cristiani di Palestina, la comunità siriaca era di origine semita. Parlava una variante di aramaico, il siriaco; e in siriaco (e poi in persiano, sogdiano, cinese) tradusse l’Antico e il Nuovo Testamento. Nelle scuole e nei monasteri della Siria e della Mesopotamia, si studiavano i classici greci; e dal siriaco li tradussero gli arabi, che poi, attraverso la Spagna, li avrebbero reintrodotti nell’occidente latino. La chiesa siro-orientale seguiva il rito definito «assiro-caldeo». Aveva una croce a braccia eguali, senza la figura del Crocifisso (sebbene il Crocifisso avesse un ruolo essenziale nella loro teologia): braccia che terminavano, ognuna, in tre perle. I padri siro-orientali furono molti: Afraate il Persiano, Efrem, Giovanni il Solitario, Abramo di Natpar, Isacco di Ninive.
A partire dal secondo sinodo di Selucia-Ctesifonte (488), la chiesa siro-orientale fu diofisita: credeva nella duplice natura, divina e umana, del Cristo. Da qualche tempo essa aveva allentato i legami col mondo bizantino, anche per evitare le persecuzioni, spesso violente, dell’impero di Persia, sotto Shapur II (309-379) e Bahram IV (388-399). Non accettò le risoluzioni del concilio di Efeso del 431. Di lì nacque l’incomprensione e la rottura tra cristianesimo occidentale e orientale, che trovò il proprio culmine nel viaggio, a metà del XIII secolo, di Guglielmo di Rubruk in Mongolia (Viaggio in Mongolia , Fondazione Valla-Mondadori, a cura di Paolo Chiesa, 2011), quando il frate francescano non riconobbe nei sacerdoti alla corte del Khan mongolo i discendenti dell’antichissima tradizione siro-orientale. Per le comunità siriache e persiane, l’avvento dell’Islam non significò, almeno nei primi secoli, persecuzione e decadenza: i cristiani scrissero in arabo; e proprio a partire dal VII secolo, la chiesa di Mesopotamia conobbe una straordinaria fioritura ed espansione in Oriente.
***
Prima che Mosé e Gesù preannunciassero il libro, ogni aspetto, volto e riflesso della Natura era una parola pronunciata dal Creatore. La Natura è parola, come quella che leggiamo nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Chi non sa cogliere Dio nella creazione — il sole, la luna, gli alberi, i fiori, le pietre — non saprà trarre giovamento dalla lettura della Genesi e dei Vangeli. Dio ama la creazione: la sua creazione, con una specie di follia, come scrive Isacco di Ninive. Anche se ci fu un tempo in cui la creazione non esisteva e lo spirito di Dio aleggiava come una colomba sulle acque, non ci fu mai un tempo in cui Dio non la conoscesse. Quando gli sembrò, la fece esistere: parlò, creò la luce, il sole, la luna, gli animali striscianti, e due volte l’uomo.
Accanto al libro della Creazione, vi è quello della Scrittura. In esso, Dio si rivolge agli esseri umani impiegando parole che essi conoscono: a costo di impoverire il proprio messaggio, rivelandolo in colori pallidi, privi dello splendore originario. Dio si abbassa, si fa prossimo all’uomo, gli parla impiegando la sua lingua, non la propria. Come nessuno di noi vede Dio, così nessuno conosce la sua lingua trascendente: la conosce solo il Figlio. Dio si nasconde: comunica all’uomo parole divine facendole apparire umane, che non dicono la verità di Dio, ma ne offrono una rappresentazione imperfetta.
Quale essa sia, la Scrittura è una perla, come le perle sulle braccia della croce: il suo aspetto è bellissimo, da qualunque lato la si guardi. Disse Efrem: «Posi la perla, fratelli miei, sul palmo della mia mano, / per poterla esaminare. / Mi misi ad osservarla da un lato: / aveva il medesimo aspetto da tutti i lati. / Nella sua limpidezza, io vidi il Limpido, / che non diventa opaco; / e nella sua purezza, / il mistero grande del corpo di Nostro Signore, / che è puro. / Nella sua indivisibilità, vidi la verità, / che è indivisibile». La perla è il Figlio: non vi è segno della Scrittura che non lo proclami: non vi è pagina dove non vi sia l’immagine del Cristo; non c’è carattere che non porti il nome del Signore. La perla è infinita. Anche se i giorni dell’uomo fossero numerosi come tutti i giorni del mondo, da Adamo sino alla fine dei tempi, e l’uomo meditasse le Scritture per questo tempo, non potrà mai cogliere tutte le profondità delle parole, perché nessuno può comprendere la sapienza di Dio, sebbene mascherata, riflessa, umanizzata.
Poiché la veste è umana, la Scrittura è piena di contraddizioni: frasi e massime sembrano annullarsi a vicenda. Le parole di Gesù si oppongono, come se fossero state dette a due diversi generi di persone. Per esempio, il Signore ha detto: «Non giudicate» (Mt. 7,1): ma anche: «Correggilo davanti a tutta la chiesa» (Mt. 18,17). «Se questi comandamenti fossero tutti e due per te — dice il Liber graduum —, quale di essi seguiresti? Sia che tu giudichi, sia che tu non giudichi, ti allontani dal Vangelo». Se vedete parole diverse tra di loro — dice Abramo di Natpar — non bisogna sconvolgersi: la verità è una: il Signore. Ma ci sono molte diverse forme, a causa della varietà dei tempi e degli individui. Se vediamo parole in contraddizione tra loro, non dobbiamo essere precipitosi, escludendo che si possano accordare. Quello che importa è la totalità della Scrittura, che dobbiamo avere sempre alla mente.
Così questi scritti, del V, VI e VII secolo, affermano cose che potrebbero ripetere i moderni interpreti della Scrittura: la molteplicità del testo, la varietà dell’interpretazione, la complementarietà dei metodi esegetici, secondo i contesti e i destinatari. L’esegesi siriaca è legata a tre tradizioni: l’esegesi giudaica, la scuola antiochena e quella alessandrina. Spesso la lettura allegorica, tipica della scuola alessandrina, viene rifiutata perché offende il significato letterale. Gli antiocheni preferiscono la lettura tipologica: la quale, pur offrendo un senso ulteriore rispetto a quello letterale, non annulla mai la realtà del testo. C’è la lettura fattuale e la letteratura tipologica: il mistero dell’Antico Testamento viene rivelato nel Nuovo. Questa lettura è anche spirituale. Qualche padre, invece, come Afraate il Persiano, invece di leggere l’Antico Testamento con l’occhio del Nuovo, legge il Nuovo Testamento con quello dell’Antico. Su un punto, tutti i padri siro-orientali sono d’accordo: l’esegesi biblica non potrà mai spiegare in modo definitivo la pagina biblica ed esaurirne il senso. Compito dell’esegeta non è di chiudere e delimitare la Scrittura fissando un significato, ma di rendere possibile un accesso sempre più ampio. Se la Scrittura è inesauribile, le spiegazioni sono sempre parziali: l’esegeta dice forse, è possibile, avanza ipotesi. «Le parole di Dio — dice Afraate — sono infinite e non sono mai sigillate per sempre. Se prendi acqua dal mare, non si noterà alcuna sua diminuzione. Se levi sabbia dalla spiaggia, la sua quantità non diminuisce». Dio ha impresso nelle parole molta bellezza, perché ciascuno possa indagare ciò che ama: ha nascosto dentro di esse ogni genere di tesori, perché ciascuno possa venire arricchito. «Gioisci perché ti sei saziato, dice Efrem, e non ti rattristare per ciò che ti supera! L’assetato gioisce perché ha bevuto, ma non si rattrista perché è incapace di esaurire la fonte». Ogni interprete è un tuffatore che si getta nell’acqua in cerca della perla: fruga a tentoni nelle profondità del mare, e porta la perla alla superfice. Non esaurisce le perle: non esaurisce la Scrittura; Dio ha bisogno di tuffatori e vuole che si moltiplichino.
Non basta pregare Dio: bisogna leggere, rileggere, bussando alle porte della Scrittura; perché la lettura è il nutrimento privilegiato della preghiera e senza di essa non si può comprendere Dio. Quindi, la lettura è più importante della preghiera. Ma, al tempo stesso, non dobbiamo accostarci alle parole misteriose della Scrittura senza prima aver pregato. La preghiera è la chiave per discernere la verità dalla Scrittura. I monaci siriaci ci raccomandano di leggere nella quiete, lontani da tutti, liberi dalle preoccupazioni del corpo e dal tumulto degli affari.
***
Isacco di Ninive nacque non sappiamo quando sulle rive del Golfo Persico; e, tra il 661 e il 681, venne nominato vescovo di Ninive. Dopo cinque mesi di episcopato, abbandonò le vesti di vescovo per ritirarsi tra gli anacoreti. Secondo la leggenda, diventò cieco a causa dello sforzo prolungato della lettura. Morì molto vecchio. Ignoriamo se tutte le sue opere ci siano giunte: esse ebbero fortuna, tradotte in greco, arabo, georgiano, russo, etiopico, latino, italiano, francese, catalano, castigliano. Quando scrisse I fratelli Karamazov , Dostoevskij le conosceva. Affascinava la densità della frase, gli abbaglianti scorci epigrafici, la natura originale del pensiero, che dovette scandalizzare non pochi lettori. In italiano sono stati recentemente tradotti i seguenti libri: Discorsi ascetici I: L’ebbrezza della fede (a cura di M. Gallo e P. Bettiolo, Roma 1984): Discorsi spirituali (a cura di P. Bettiolo, Bose 1990): Terza collezione di discorsi ascetici (a cura di Sabino Chialà, Bose 2004). Consiglio sopratutto, come lettura introduttiva, l’antologia curata da Sabino Chialà: Un’umile speranza , Bose 1999.
Secondo Isacco di Ninive, ci fu un tempo, prima della creazione, in cui Dio non possedeva nome: in un secondo tempo, nel nostro indefinito presente abitato da uomini e da animali, possedeva il nome, sempre improprio, che gli attribuivano gli esseri umani; e infine verrà di nuovo un tempo in cui Dio non avrà nome, avvolto nella sua luce. Il Dio dei tempi intermedi, che noi chiamiamo Padre, Figlio, Spirito, ama il mondo con eccesso e follia; e abita gli uomini, sia pure non con la propria natura, siccome essa non può essere circoscritta né racchiusa. Dio ama tutti: dà i propri doni a tutti: peccatori e demoni, e a coloro che non sanno neppure che egli esista. Ma c’è una qualità che Dio non possiede: egli non è giusto, o è al di sopra della giustizia. Come possiamo chiamare Dio giusto, se leggendo i Vangeli ci imbattiamo nella parabola del salario degli operai, e in quella del Figliol prodigo?
Nei suoi scritti, Isacco di Ninive parla soprattutto degli uomini, che contempla nella loro miseria e nella loro gloria. Ci raccomanda di curare le cose piccole: chi le trascura anche nelle cose grandi sarà un mentitore e un ingannatore, come dirà Tolstoj in Guerra e pace . Non dobbiamo cercare le cose più difficili di noi: osarci nelle cose nascoste; avere troppo zelo, perché chi ha «zelo» è malato di una grande infermità. «Un uomo zelante non raggiunge mai la pace dei pensieri». «Per ogni pratica c’è una misura, e per ogni pratica è noto un tempo. Chiunque cominci prima del tempo qualcosa che è superiore alla sua misura, ne ha danno e nessuna utilità». Il cristiano ha sempre il dono miracoloso del kairos .
Siccome viviamo nel mondo, dobbiamo conoscere il peccato. Isacco dissemina una serie di aforismi. «Chi è puro di persona, vede tutti gli uomini e nessuno gli sembra impuro e contaminato». «Ama i peccatori e rigetta le loro opere». «Cristo è morto per gli empi, non per i buoni». «Non odiare il peccatore. Piangi su di lui. Perché lo odi? Semmai odia i suoi peccati». Vi fu un tempo in cui il peccato non esisteva, nel Paradiso Terrestre, e vi sarà un tempo, nel regno dei cieli, in cui non ci sarà più.
L’epoca in cui viviamo è piena di tentazioni. Noi le odiamo, perché supponiamo che vengano da Satana: in realtà, discendono da Dio. Senza conoscere le tentazioni, noi non possiamo conoscere la verità. Solo se entriamo nella tentazione, acquistiamo la sapienza dello Spirito. Chi non è capace di ricevere una tentazione grande, non sarà capace nemmeno di ricevere un grande dono. Se Dio ritira da noi la grandezza della tentazione, ci ridurrà anche la grandezza del dono.
Come i monaci, dobbiamo vivere nella solitudine: anche a casa, nel mondo, possiamo essere solitari e abitare una cella interiore. Allora, in poco tempo, diventiamo partecipi alle mente divina, e senza ostacoli, ci avviciniamo alla limpidezza dei pensieri. Nella nostra cella mentale, preghiamo: sgorga dal cuore una sorgente di dolcezza; le membra si commuovono, gli occhi si chiudono, e i pensieri si trasformano. Come dice il Vangelo, non dobbiamo chiedere a Dio le cose di cui abbiamo bisogno: il Salvatore, che conosce ogni cosa per la compassione che lo abita, si dà pensiero di tutto ciò che ci riguarda. La vera preghiera è un’altra: sentiamo ciò che è Dio, avvertendo la sovrabbondante pienezza del suo amore.
La forma più alta della preghiera è quella spirituale, quando la natura esce da ciò che le è proprio. Allora non prega né l’anima, né la mente, né i sensi: mentre tutto è nella quiete, (lo Spirito divino che discese su Gesù nel battesimo) compie la propria orazione. Chi prega si acquieta davanti alla magnificenza del Signore che si rivela allo Spirito, ed è ridotto al silenzio. Questo è il segno che il Signore si è compiaciuto di lui.
La preghiera sale. A un certo punto, si arresta in un luogo, che interrompe il mormorio delle labbra: questo luogo Isacco di Ninive lo chiama lo stupore o la non-preghiera. Il pensiero non ha più preghiera, né mente, né lacrime, né potere, né libertà, né suppliche, né desideri, e non brama nulla di quanto viene sperato in questo mondo e nel mondo futuro. L’orazione è superata, eppure continua sempre. Come dice san Paolo, nella Lettera ai Romani, «lo Spirito, quando abita nell’uomo, non smette di pregare. Lo Spirito prega continuamente. Allora, né quando dorme né quando è sveglio, la preghiera cessa nella sua anima; ma, sia che mangi, sia che beva, sia che faccia qualcosa, e persino se è immerso nel sonno, le esalazioni della preghiera si levano nel suo cuore senza fatica». Questo tipo di orazione ebbe un’immensa fortuna: nella mistica bizantina, nella preghiera russa; e in un bellissimo libro russo, che anni fa ebbe molto successo in Italia: La via del pellegrino (Adelphi).
Lassù, in alto, vicino all’altro mondo, ci sono le lacrime. Come acque di torrente, esse scorrono dal nostro occhio, non costrette, mescolandosi alle fatiche, alla lettura, alla preghiera, alla meditazione, al cibo, e alle bevande: in tutto ciò che facciamo, esistono le lacrime. Esse sono l’unico segno del corpo che manifesta la percezione della verità. Quando giungiamo nella ragione delle lacrime, il pensiero esce dalla prigione di questo mondo e posa il piede nell’orbita del mondo nuovo. Esso respira ormai l’aria meravigliosa di quel luogo, e comincia a versare lacrime di stupore e di ammirazione. Quando s’innalza ancora, il corpo resta senza lacrime, senza sensazioni, e trova la verità nel silenzio.
La lettura, la preghiera, la non preghiera, le lacrime, il luogo senza lacrime sono tutte tappe di quel processo che conduce alla divinizzazione dell’uomo. Isacco di Ninive la accetta: la mistica bizantina la accetta; ma l’occidente cattolico e latino l’ha, quasi semp re, profondamente rifiutata.

l’Unità 14.7.14
Maazel, una vita in musica
È morto il grande direttore d’orchestra. Aveva 84 anni
Era in Virginia per preparare l’annuale Castleton Festival A quindici anni aveva già diretto la maggior parte delle più importanti orchestre americane. Fu scoperto da Toscanini
di Giordano Montecchi


LORIN MAAZEL SE NE È ANDATO. UN ALTRO GRANDE DIRETTORE D’ORCHESTRA VA A OCCUPARE il seggio che gli spetta nel Pantheon della musica novecentesca. 84 anni, nato nel 1930 a Neuilly-sur-Seine, negli ultimi tempi aveva dovuto rassegnarsi per motivi di salute a rallentare un’attività dai ritmi frenetici, preclusi ai comuni mortali, svoltasi nell’arco di una carriera sfolgorante di successi, durata addirittura 75 anni. Nel 2013, ad esempio, leggiamo in un comunicato, ben 111 concerti. L’annuncio della scomparsa, a seguito delle complicazioni di una polmonite, è giunto ieri dal Festival di Castleton, fondato nel 2009 da Maazel nella sua tenuta in Virginia.
Nato in Francia, da una famiglia di origine ebrea, Maazel è cresciuto e si è affermato negli Usa, condividendo con tanti altri grandissimi e indimenticabili protagonisti del mondo musicale quell’avere radici che sconfinano da un continente all’altro e che sembrano abbracciare il mondo intero. Maazel è stato il paradigma stesso del «genio » musicale, inteso come amalgama di qualità riservate a pochissimi, in cui istinto, intelligenza del suono, eleganza naturale, doti percettive, facilità stupefacente, memoria infinita, carisma comunicativo si accumulano in modi quasi sovrumani. Bambino, fu naturalmente un prodigio, e dappertutto leggeremo l’esclamazione rivoltagli da Arturo Toscanini che nel 1941 aveva invitato questo bimbo di undici anni a dirigere la Nbc Symphony Orchestra: «God bless you!», Dio ti benedica.
Da allora l’enfant prodige, divenuto poi direttor giovane ed entusiasmante, e infine astro dello star system, con i risvolti inevitabili che il cavalcare l’onda di questo mondo comporta, ha diretto e inciso una mole di musica che ha senz’altro pochi termini di confronto nell’epoca, ancor giovane tutto sommato, della musica mediatica. Forse è una lettura troppo superficiale, ma la tentazione è forte di riassumere la grandezza di Maazel in termini quantitativi. Una lettura che, implica l’inevitabile sottile riserva, non tanto sulla qualità - Maazel era direttore di tecnica, acume e preparazione da lasciare attoniti - bensì sullo «spessore », cioè sulla profondità delle sue interpretazioni. È questo uno dei grandi dilemmi della musica: quanti artisti baciati dalla sorte sono in qualche misura condizionati nel loro sentire dall’assoluta, superiore facilità e immediatezza con la quale restituiscono qualsiasi partitura capiti loro fra le mani? Lo si è detto tante volte di Maazel, per il quale spaziare dal Barocco alla serialità sembrava comunque una passeggiata.
A quante centinaia di dischi è affidata la sua eredità? Difficile dire. La lista (incompleta!) di Arkivmusic.com gli assegna un repertorio di 92 compositori diversi, da John Adamsa Ellen Zwillich. In questa messe di musica, momenti straordinari si intrecciano a capitoli di impeccabile routine. Adesso toccherà riascoltare, rileggere e ritrovare i «perché», i motivi fondanti dell’arte di questo straordinario interprete.

La Stampa 14.7.14
Non è tutto Duce quello che Luce
A Roma una mostra sull’Istituto nato nel ’24 per celebrare l’Italia fascista: ma tra i filmati spuntano immagini che documentano una realtà diversa da quella ufficiale
di Giovanni De Luna


Anche chi non sa niente della storia del fascismo capisce benissimo di cosa si tratta se si parla di «film Luce», un termine che nel linguaggio comune indica uno strumento propagandistico piegato alle esigenze di un regime totalitario. In effetti «la Luce» è una sigla; sta per «L’Unione Cinematografica Educativa» e designa l’ente varato dal fascismo nel 1924 con il compito di raccontare e celebrare l’Italia di Mussolini. A partire dal 1926 la proiezione dei film prodotti dall’Istituto Luce divenne obbligatoria in tutti i cinema. Fu l’arma decisiva per assicurare al fascismo un consenso di massa; in un Paese ancora largamente analfabeta, le sue immagini avviarono la costruzione di un immaginario comune organizzato intorno al culto del Duce.
Diffuso capillarmente, in modo efficiente (i cinemobili, automezzi attrezzati per le proiezioni all’aperto, arrivavano nei paesi più sperduti) e tecnicamente all’avanguardia, il Luce, insieme con la radio, gestì i tre settori chiave per il regime: educazione, informazione e propaganda. Il risultato di quella attività si ritrova oggi nei suoi archivi: cinquemila ore di film e tre milioni di fotografie, un giacimento sterminato che proprio per queste sue dimensioni riserva però molte sorprese. Per quanto occhiuto e ossessivo fosse il controllo della dittatura sulla sua produzione, era praticamente impossibile che in quella valanga di immagini su cui il regime fondava la propria autorappresentazione non si insinuassero anche quelle che sfuggivano agli occhi del censore. Ma, viste con gli occhi di oggi, anche quelle più esplicitamente propagandistiche documentano una realtà diversa da quella intenzionalmente messa in scena dal fascismo.
Esemplare, in questo senso, è la mostra «Luce, l’immaginario italiano», aperta fino al 21 settembre al Vittoriano di Roma, per celebrare i 90 anni dalla fondazione. Gabriele D’Autilia, il curatore, si è impegnato con successo in un’operazione intellettualmente affascinante: far parlare quelle fotografie e quelle pellicole «malgrado sé stesse», forzando le intenzioni dei suoi autori, rompendo il nesso che le legava agli scopi del regime per restituirle alla storia del nostro Novecento. Dall’Unità nazionale in poi, per «fare gli italiani» era stato necessario costruire un repertorio di immagini con cui poter immaginare l’Italia, ovviando all’assenza di una geografia comune, alla frammentazione del nostro Paese in tanti luoghi separati e sconosciuti gli uni agli altri. Nell’Italia liberale, ad assolvere questo compito furono i quadri dei pittori risorgimentali, poi fotografi come gli Alinari; con il fascismo il ruolo venne assunto e ingigantito proprio dall’Istituto Luce.
Ed è proprio per il modo in cui il Luce operò nella costruzione di un immaginario italiano che oggi, nella raccolta proposta dalla mostra la realtà vince sulla rappresentazione della realtà. Così, tra le architetture razionali, il gigantismo industriale, l’imponenza dei lavori pubblici e delle altre opere del regime, ci si sorprende nel vedere affiorare i volti e i gesti di un’Italia contadina, arcaica, ancora esclusa dai percorsi della modernità. Anche dall’intreccio tra fascismo e «bonifica integrale» deriva una considerazione suggerita dall’immagine di Mussolini a torso nudo, immortalato nella calura della trebbiatura in un podere dell’Agro Pontino. Tra le tante fotografie di Mussolini, questa in particolare è importante proprio perché propone la figura del dittatore nei panni dell’uomo che ha sconfitto la «malvagità» della natura, è stato in grado di renderla benefica e produttiva, tanto da fondare su quel suolo ingrato nuove città destinate a presidiare un territorio finalmente conquistato alla civiltà. Ma si trattò di una vittoria effimera. Pochi anni dopo, nel corso della Seconda guerra mondiale, quando nel gennaio del 1944 gli eserciti alleati sbarcarono ad Anzio, i tedeschi per rallentarne l’avanzata utilizzarono i canali come trincee e allagarono più di 12 mila ettari di terreno. E la natura - questa volta grazie all’uomo - si prese la sua rivincita, coprendo d’acqua quella terra che le era stata contesa con tanti sacrifici.
Sono soprattutto i corpi, la fisicità degli italiani di allora, i loro volti scavati dalla fatica, il loro sguardo rassegnato, a sfidare la monumentalità inseguita dai fotografi e dagli operatori del Luce. Corpi scolpiti da lavori arcaici, quasi che l’industrializzazione fosse solo un velo sottile disteso a coprire un’Italia ancora premoderna; corpi gonfi e panciuti di militari e gerarchi, quasi a seppellire nel grottesco l’enfasi guerriera del regime.
Quando, nel dopoguerra, all’Istituto Luce subentrarono i cinegiornali della settimana Incom, le immagini diventarono più democratiche, più pluraliste, ma i corpi restarono gli stessi. Il bracciante comunista che salutava con il pugno chiuso e i coltivatori diretti democristiani riproponevano un’antropologia nemmeno scalfita dalla fine del fascismo. E i corpi delle donne restavano quelli opulenti e matronali delle «maggiorate» o quelli sfiancati dalle gravidanze delle «mamme» prolifiche. Poi arrivò il boom economico. A «fare gli italiani» subentrarono i consumi; il mercato introdusse con successo i suoi riti e i suoi miti in un immaginario italiano la cui estetica si ridefinì nella dimensione che è quella in cui viviamo oggi e che ci fa guardare alle immagini del Luce come a un colossale reperto archeologico.

il Fatto 14.7.14
Con Vermeer nello studio del pittore
di Tomaso Montanari


Quasi tutto quello che sappiamo del misterioso pittore Jan Vermeer è contenuto nei suoi straordinari dipinti: dove non accade nulla, il tempo è come fermo e sembra che la pittura, descrivendo frammenti di vita normale bagnati da una luce meridiana, parli in verità solo della pittura stessa. La prima notizia di questo quadro risale al 1676, cioè un anno dopo la morte dell’autore e tra i cinque e i dieci anni dopo l’esecuzione del quadro. In quell’anno la vedova dell’artista cede alla propria madre il quadro (cercando probabilmente di salvarlo così dai numerosi creditori che andavano divorando l’eredità), che in tale occasione viene indicato come «De Schilderconst», cioè l’«Arte della pittura». È probabile, ma non certo, che si tratti dello stesso dipinto che un catalogo d'asta del 1696 descrive come: «Ritratto di Vermeer in una stanza, con vari accessori. D’una bellezza rara. Dipinto da lui stesso».
Così, o si è letto il quadro come un’allegoria - o della pittura olandese (a causa della grande carta dell’Olanda appesa sopra la modella), o delle arti in genere (a causa degli oggetti simbolici sparsi sul tavolo); oppure lo si è invece ritenuto un ‘semplice’ autoritratto, rifiutando ulteriori implicazioni. Forse il titolo che meglio spiega ciò che vediamo è L’Atelier: è stata appena scostata, proprio per noi, la pesante tenda colorata che vediamo sulla sinistra, e così possiamo rubare l’insolita vista del pittore al lavoro, nel suo studio.
Il pavimento, il lampadario, la seggiola con le borchie lucide sono quelli che si ripetono ossessivamente in molti dei quadri di Vermeer, e dunque probabilmente sono quelli della sua casa: niente di più facile che il pittore rappresenti allora proprio il suo tavolo, i suoi oggetti di scena, il suo cavalletto, la sua vera modella e infine se stesso, con un costume più o meno di fantasia, ma certo non con un abito di lavoro. Questo abbigliamento solenne e il fatto che non vediamo il viso del pittore spingono a pensare che Vermeer abbia voluto rappresentare tutti i pittori di tutti i tempi, e dunque anche la pittura stessa. E che il quadro sia dunque una sorta di riflessione - meglio: un riflesso - sullo studio del pittore: un luogo magico, come il teatro. Un luogo dove va in scena una finzione che è più vera del vero. Un specchio capace di catturare tutta la luce del mondo, e di imprigionarla per sempre in un quadro: ma solo se è lo studio di Vermeer.

il Fatto 14.7.14
L’uomo che parlava ai bambini
Bollea avrebbe cento anni, è stato il padre della psichiatria infantile italiana
Ma soprattutto un grande italiano
Ma oggi il suo Istituto sta per essere chiuso
di Ferruccio Sansa


Il bambino è il padre dell’uomo”. Chissà se Giovanni Bollea aveva letto il verso del poeta inglese William Wordsworth. Eppure sembra scritto da lui, dal padre italiano della neuropsichiatria infantile. Bollea che ci ha insegnato a non vedere i bambini come versione incompleta dell’adulto. E che da loro, dai travagli e dalle felicità che contribuiranno a formarli, prenderà forma l’uomo.
Ci sono momenti che racchiudono la vita di una persona. Per Giovanni Bollea erano gli istanti in cui incontrava per la prima volta i piccoli pazienti. Chi c’era, chi vi ha assistito stenta a trovare le parole per descriverli. La stanza del medico scompare, i genitori finiscono sullo sfondo. Restano soltanto lui, con il suo camice bianco, e il bambino: “Bollea rimase zitto, allungò le sue mani grandi sulla scrivania finché non toccarono quelle di mio figlio. Ma senza prendergliele, senza afferrarlo. Poi lo guardò fisso negli occhi, per uno, cinque, dieci minuti, a me parve un tempo interminabile. C’era qualcosa di accogliente, non di aggressivo in quello sguardo. Finché mio figlio a sua volta lo guardò fisso. Come non aveva mai guardato nessuno. Come se quei due, il medico e il bambino, riuscissero a vedersi oltre le pupille, nel fondo della persona. Allora Attilio cominciò a parlare, quasi fosse la prima volta”. Così la mamma di uno dei bambini di Bollea racconta quell’istante. Il grande medico lo descrisse così: “Quando mi portano un bambino, anche dopo che i genitori mi hanno spiegato ciò che ha o ciò che non ha, io non so mai qual è la prima domanda che gli farò. Lo guardo, lo saluto, magari gli faccio fare un momento di ginnastica e poi mi viene in mente la prima domanda; scendo così al suo livello di comunicazione, con umiltà, cercando di comprendere chi ho di fronte; mi ‘destrutturalizzo’, mentre in me c’è uno sdoppiamento: un io che osserva e un io che conversa. È proprio in questa maniera che riesco ad entrare nell’altro ed a capire quel che devo fare”.
All’alba a lavorare poi a scuola
In quegli istanti il bambino lasciava emergere se stesso. Ma anche Bollea abbandonava ogni schermo. Il suo sguardo rivelava l’esperienza, la scienza, ma soprattutto una lunga vita. Tutt’altro che semplice. Oggi noi lo ricordiamo con espressioni che nella loro solennità finiscono per essere riduttive: “il padre italiano della neuropsichiatria”. Ma Bollea è stato prima di tutto un grande uomo. Un grande italiano.
Era tutto scritto in quei suoi sguardi, come nella foto che lo ritrae mentre un bambino gli tira un’enorme palla, simbolo del gioco, ma anche del peso che i piccoli spesso portano con sé. E che Bollea cercava di afferrare.
Davvero il bambino è padre dell’uomo, perché, senza quei primi anni nella Torino di inizio secolo, Bollea (che era nato il 5 dicembre 1913 e oggi avrebbe cento anni) non sarebbe diventato l’uomo che ha aiutato tante persone a liberarsi dalla sofferenza mentale. Perché fu l’infanzia vissuta con dignità, ma sul limite della miseria, a insegnargli il rigore che fu suo tratto fondamentale. Da quei giorni in cui si alzava all’alba per aiutare i genitori nel loro panificio, prima di andare a scuola. Dove era sempre il primo.
Chissà, forse tendendo le mani ai suoi pazienti, guardandoli negli occhi, il medico ricordava se stesso, la madre Rosa, il padre Gelsomino “un idealista e ribelle per natura - così lo descrisse - insofferente verso ogni forma di ingiustizia sociale”. Idealista come Giovanni.
Bollea li perse presto, Rosa e Gelsomino, quei genitori dai nomi di fiore. E le ingiustizie decise di combatterle soprattutto con la sua scienza, facendo il medico, nella Torino travagliata, ma straordinaria degli anni Trenta di Carlo Levi, Primo Levi, Luigi Einaudi. Così come nella vita di ogni giorno. Era di sinistra - dal Pci al Pd, negli ultimi anni - ma lo si vedeva soprattutto dalle azioni. Storie dimenticate in cui, per un gioco del destino, Bollea si ritrovò probabilmente a portare un premio Nobel all’Italia. Non per sé, però. Per quel compagno di studi che si chiamava Renato Dulbecco (morto due anni fa, anche lui quasi centenario): già, capitò che i due si trovarono di fronte per conquistare un posto all’università. Lo ottenne Dulbecco, ma Renato, figlio di famiglia benestante, ritenendo forse di meritarlo meno dell’amico, glielo lasciò. E Giovanni non dimenticò mai. Fino a quel giorno durante la ritirata di Russia. Un inferno difficile perfino da immaginare: Bollea, medico delle truppe, procede a piedi, con una gamba rotta, con il cuore che gli sta cedendo. Ma resiste. Finché su un carro che trasporta cadaveri congelati riconosce il volto di Dulbecco. È ancora vivo. In quel momento passa il camion per gli ufficiali. La salvezza. Bollea potrebbe salire, ma lascia il posto all’amico ferito. E continua a piedi.
Questo era l’idealismo di Bollea: che ignora le leggi razziali e si innamora di Renata Jesi, la ragazza ebrea romana conosciuta a un ballo. La sposa nel 1938, quando il fascismo ha già il suo volto più terribile. Giovanni affronta le prove di quegli anni: è sul fronte in Slovenia e in Russia, ma sempre come medico. Intanto cerca in ogni modo di proteggere il figlio Ernesto, la piccola Maria Rosa nata in clandestinità. Riesce a salvarli tutti, anche i suoceri. Per lui, anti-fascista, vicino al comunismo e ai Partigiani, è questa la Resistenza: curare i feriti al fronte, tornare a Roma per salvare la famiglia.
Terrore, sofferenza. Anche da qui nasce la determinazione di curare finalmente i bambini affetti da disturbi psichici, prima confinati nei reparti di pediatria o peggio negli istituti. Un desiderio coltivato da quando, a sette anni, aveva visitato il Cottolengo di Torino: “Questi bambini disgraziati saranno i primi a entrare in paradiso”, gli aveva detto la suora. E lui, d’istinto: “Perché invece non provate a curarli?”.
Ecco allora nel Dopoguerra gli studi a Losanna e poi, al ritorno in Italia, il lavoro incessante per realizzare a Roma il Centro Medico Psicopedagogico e la Scuola Italiana di Neuropsichiatria Infantile.
La ricerca, la cura sul campo, la vita, questo era Bollea. Parlano le oltre duecento pubblicazioni. Ma soprattutto le testimonianze di uomini e donne come la madre di Attilio. E i racconti della figlia Maria Rosa: “Papà stava sempre con i pazienti, ma non ha mai saltato un pranzo e una cena con noi. Voleva che quei momenti fossero salvi, che ognuno parlasse della sua giornata, di quello che succedeva nel mondo. Poi di nuovo si chiudeva nello studio per leggere o fare telefonate interminabili con i colleghi”. A sentir raccontare la vita di Giovanni Bollea non si trova un confine tra esistenza quotidiana e teoria. Le parole che ricorrono, in chi lo ha conosciuto, sono “coerenza”, “rigore” e “morale”. Ma non “severità”. Anzi. Ecco la poesia che gli ha dedicato il figlio Daniele: “Bambino che ancora non sei nato/ che Dio ti mandi un padre come il mio,/ nato col sogno di far felice il mondo/ Quando mi prendeva per mano/ c'eravamo solo io e lui/ Liberi dalla paura che risuona/ tra ciò che è stato e ciò che sarà”.
Quell’uomo che ti dava sicurezza
Un uomo che dava sicurezza. Racconta la seconda moglie Marika nel libro di Giovanna Lo Sapio (Armando Editore): “Madri e padri uscivano dal suo Istituto entusiasti e gratificati . Per questo, Giovanni dava l'impressione di forza e di potenza straordinarie, un misto di perfezione e di emozione profonda. Aveva un peso, una presenza. Il ritmo dei suoi movimenti, a volte, sembrava partire da un bilanciamento orizzontale e verticale, alternativi al suo pensiero”.
No, non un uomo distaccato. Il contrario: “Dietro un’apparente calma nascondeva le sue tensioni”, ma non le faceva gravare sugli altri, le risolveva dentro di sé, come dice Marika. Un professore che ti metteva soggezione, ma poi trovavi con i piccoli pazienti sdraiato sotto un tavolo a giocare. Un lavoro continuo, sugli altri e su se stesso: “Era affascinato - racconta Marika - dai caratteri in formazione; anche e perché considerava se stesso in continuo avanzamento e lievitazione dei propri ideali. Cercava la semplicità attraverso la maturazione e la purificazione dei suoi pensieri; calma che gli si leggeva sulla fronte dove le rughe apparivano, scomparivano o si attenuavano, ogni giorno diverse”.
Il suo difetto? “Non essersi voluto arricchire”, finge di criticarlo il figlio Ernesto. E Maria Rosa: “Ha sempre trascurato la libera professione, la più redditizia. Curava tutti, benestanti e povera gente che lo pagava con un paio d’uova”. A tutti i piccoli pazienti dedicava lo stesso tempo, uguali attenzioni.
Certo, poi c’erano state le amicizie importanti con Carlo Levi, Ennio Flaiano, Renato Guttuso. C’era la stima di grandi della politica come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Ma Bollea era soprattutto altro: “L’uomo grande in tutte le cose che si faceva piccolissimo nelle cose che desiderava per sé, per vivere una vita semplice che a lui piaceva”. L’uomo - come racconta Marco Carniti, figlio di Marika, regista di un’opera intensa sulla vita di Bollea in scena il 15 dicembre all’Argentina di Roma - “che aveva un naturale senso dell’eleganza per le cose non materiali, ma che dovevi fermare ogni volta che usciva con cravatte e maglioni tutti sbagliati”.
La costruzione di se stessi, tra malattie, cadute e scompensi, ecco la grande fatica della vita che Bollea studiava. E rispettava: “Con lui - è ancora Marika a dircelo - ho capito che se non si costruisce l’Io, come valore fondamentale e imprescindibile, non ci può essere né libertà, né democrazia e che la scienza di introspezione che aveva scelto gli imponeva quella carica di rabbiosa vitalità che travolgeva le sue giornate”.
Ecco i capolavori di Bollea, più dei libri, delle ricerche: “L'equilibrio tra affetti intimi e dovere sociale”. Il frutto non è la perfezione, ma una versione molto più umana: la coerenza. Un messaggio che ci ha lasciato e va ben oltre la disciplina dei suoi studi. E forse ancora più l’essere arrivato alla fine, dopo aver attraversato tanti dolori, sempre “con il sogno di far felice il mondo”. Lui che non credeva in un’altra vita, ma continuava a sperare in questa.

il Fatto 14.7.14
Il ricordo
Saper vivere con gli ideali di un ragazzo
di Antonio Padellaro


Se c’è un difetto che rimprovero a Giovanni Bollea è quello di avere vissuto una vita così luminosa da far risaltare maggiormente la mediocrità della vita degli altri, in questo caso la mia. È la sensazione che ho provato la sera del 23 giugno scorso quando, a Milano, sul glorioso palcoscenico del Piccolo Teatro l’esistenza di questo italiano generoso scorreva limpida nel centenario della nascita, attraverso le testimonianze soprattutto di quei bimbi che aveva guarito e che diventati adulti erano venuti a dirgli semplicemente grazie. Il mondo è pieno di gente di buone intenzioni su ciò che sarebbe bello fare per migliorare le cose. Poi ci sono quelli, pochi purtroppo, che quelle cose le fanno realmente. Come Bollea che nell’Italia del dopoguerra spiegò che l’infanzia non è una fase della crescita bensì la pietra angolare su cui si poggia l’uomo che verrà. Che se i disturbi dell’età evolutiva non saranno curati in tempo quella pietra tenderà a sbriciolarsi e a produrre infelicità. Come Bollea che fondò l’associazione per la tutela degli alberi (Alvi) e che descriveva i bambini quando entrano nel bosco e subito il loro sguardo si allarga verso la cima delle piante perché, diceva, l’albero è un segno di vita che porta in sé il concetto di crescita. Con Giovanni parlavamo spesso di politica. Ne aveva un sommo rispetto e molto si dispiaceva del discredito da cui ultimamente veniva mortificata. Era un piemontese educato nell’utopia della sinistra umanitaria, dedita a sollevare la condizione dei più deboli e intrisa di rigore azionista. Un giorno mi disse: “Ho sempre cercato di restare fedele agli ideali della mia giovinezza”. Tre parole che sembrano giungere da un mondo scomparso, abitato da espressioni desuete come dignità e rispetto. Molti anni dopo leggendo il Berlinguer di Walter Veltroni scoprirò che era la stessa frase che il leader del Pci aveva una volta confidato ad Aldo Tortorella. Mi parlava di sé per parlarmi di me. Degli strappi dolorosi che la vita ti costringe a compiere se non vuoi perderti nella depressione dei rassegnati. Amava l’”Unità” ma era contento che ci fosse il “Fatto”. O almeno gli piaceva farmelo sapere. Nella foto più bella seduto sulla riva del mare osserva le vele bianche all’orizzonte. Trasmette un senso di pace interiore, di riposo meritato dopo tanto cammino.

Repubblica 14.7.14
“Il cervello artificiale è uno spreco di soldi” scienziati in rivolta contro il progetto Ue
Nel mirino lo Human Brain Project: una lettera firmata da 600 ricercatori chiede di bloccare il progetto da un miliardo di euro per realizzare un super computer che imita il funzionamento dei neuroni
di Silvia Bencivelli


PIÙ di un miliardo di euro pubblici per la ricerca sul cervello. E seicento scienziati che protestano, chiedendo di bloccare il finanziamento. Non è il mondo capovolto: è quello che sta realmente succedendo in questi giorni nei laboratori europei. Pomo della discordia è il mastodontico Human Brain Project: un progetto in cui sono coinvolte più di cento istituzioni scientifiche di ventiquattro paesi, che ha lo scopo di costruire un computer capace di simulare il funzionamento del cervello umano. In realtà sarebbe un’idea ambiziosa, prematura e disorganizzata, secondo i ricercatori di mezza Europa, che rischia di farci sprecare i pochi soldi che destiniamo alla scienza. Per questo oggi chiedono di bloccare tutto.
Lo Human Brain Project è uno dei due progetti “flagship” europei, cioè i due progetti “faro” in cui l’Europa ha deciso di investire soldi ed energie per i prossimi dieci anni (l’altro è un megaprogetto sul grafene). La scelta di investire in un computer simulatore del cervello è avvenuta nel gennaio del 2013, all’interno di una rosa di sei progetti molto diversi tra loro: dalla robotica all’informatica per il futuro della medicina. Il progetto “flagship”, per l’Unione europea e per i suoi stati membri (chiamati a mettere metà del finanziamento), è un impegno economico enorme. Ma si tratta anche di un pesante indirizzo che viene dato alla ricerca scientifica con una decisione presa “dall’alto”. Per questo tra gli scienziati i malumori covavano da tempo. Sono esplosi ai primi di luglio quando su internet ha cominciato a girare una lettera aperta che chiedeva di «controllare con attenzione gli aspetti scientifici e la gestione» di tutto lo Human Brain Project. Oggi questa lettera vede crescere di giorno in giorno l’elenco dei firmatari e l’ultimo aggiornamento parla di seicentodieci. In particolare, le critiche riguardano il fatto che un investimento così ingente sia destinato ad inseguire un’idea unica di cervello, mentre la ricerca è ancora lontana da una definizione condivisa e chiara di come funziona la nostra mente. Perciò oggi, ha dichiarato alla Bbc il neuroscienziato inglese Peter Dayan, lo Human Brain Project «non può che fallire, ed è uno spreco di soldi che succhierà fondi alla ricerca di valore e quindi creerà un grande disappunto nell’opinione pubblica che ne è la vera finanziatrice». Soprattutto, insistono gli scienziati, non è onesto proporre il megacomputer come soluzione a problemi concreti, come la demenza senile o il Parkinson.
Il coordinatore dello Human Brain Project, l’israeliano Henry Markral, della École Polytechnique Fédérale di Losanna, si è difeso. Si tratta di un progetto per lo sviluppo di nuove tecnologie, non di neuroscienze: non competerà coi fondi per la ricerca di base. E comunque, «abbiamo a che fare con un nuovo paradigma: ogni nuovo paradigma incontra queste difficoltà all’inizio, e le frizioni sono inevitabili».
Intanto dall’altra parte dell’oceano un analogo progetto americano sta per partire: si chiama BRAIN (Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies) Initiative e ha l’obiettivo di mappare ogni neurone del cervello. È un progetto ancora più ricco (tre miliardi di dollari in dieci anni) e anche quello è stato accolto da qualche mugugno. Il cervello è probabilmente la cosa più complessa che esista in natura, spiegano gli scienziati e, finché non cominciamo a conoscerlo davvero, è necessario che la ricerca sia il più possibile libera.

Repubblica 14.7.14
Giacomo Rizzolatti
“Quel calcolatore è un’idea vecchia i processi umani sono più complessi”
di S. Benc.


GIACOMO Rizzolatti è uno dei neuroscienziati italiani più famosi al mondo: scopritore dei neuroni specchio, ha appena ricevuto a Copenhagen il milione di euro del Premio Brain per la ricerca neuroscientifica. Ed è la firma numero 119 della lettera di protesta indirizzata alla Commissione europea. Per lui, il problema è soprattutto che qui qualcuno ha deciso di puntare tutto su un’unica cosa. «Ed è come se decidessi di investire tutti i miei soldi in bond, per dire, argentini! Perché dobbiamo prendere questo rischio?».
Lei conosce i ricercatori coinvolti nello Human Brain Project?
«Alcuni sì, e sono persone rispettabilissime. Ma il problema è che se tu dai i soldi a loro poi non ne hai più per tutti gli altri. E come facciamo a dire che la loro idea funziona?».
Secondo lei, per esempio, funziona?
«Secondo me no. Mi avevano proposto di partecipare, ma mi è parsa da subito un’idea sbagliata. Perché qui si vuole rifare il cervello umano partendo da un singolo neurone (per di più di topo!), aggiungendo mano a mano altri neuroni, fino a fare una colonna di neuroni, pezzo per pezzo. Ma oggi sappiamo che per fare un cervello non basta mettere insieme neuroni, e che il cervello non è una macchina semplice che vive da sola, ma è una macchina sociale. Molto più complicata di così. Insomma, in un certo senso, l’idea dello Human Brain Project è un’idea vecchia ».
Ma allora perché dirlo adesso?
«In realtà le perplessità ci sono sin dall’inizio della faccenda. E, in generale, riguardano anche il modo di decidere questi grandi finanziamenti. Perché dobbiamo renderci conto che i grandi consorzi europei perdono un sacco di tempo e di energie in chiacchiere politiche. Mentre la ricerca funziona meglio sulla competizione, cioè lasciando a ogni scienziato la libertà di muoversi come vuole».