martedì 15 luglio 2014

l’Unità 15.7.14
Ai lettori
il CdR

È arrivato il tempo delle offerte serie e del confronto con i lavoratori. Basta indiscrezioni e rumors poco credibili, tra pitonesse, gufi e sciacalli. l’Unità non merita di essere stritolata in un oscuro gioco di tatticismi e operazioni mediatiche. Ieri i liquidatori hanno informato la redazione che sulla supposta offerta dell’onorevole Santanchè non ci sono novità. C’era stata una richiesta di informazioni una settimana fa, che è stata respinta. Oggi non c’è nulla di nuovo. Stop. Per quanto riguarda noi lavoratori, abbiamo già chiarito che un’ipotesi di quel genere è incompatibile con la storia della testata e quindi irricevibile. Ancora stop. Siamo stati informati che una proposta elaborata da Matteo Fago (primo azionista della Nie in liquidazione) dovrebbe arrivare in settimana.
I liquidatori la valuteranno. Se sarà considerata accettabile, chiediamo fin da ora di aprire un tavolo con l’offerente per definire i termini e le condizioni del trattamento dei dipendenti. Se dovessero arrivare altre offerte compatibili con quella, esigeremmo la stessa cosa. Chiediamo trasparenza e correttezza nei confronti dei lavoratori. Siamo pronti a prenderci le nostre responsabilità. Chiediamo di fare lo stesso a tutti i soggetti coinvolti. Se qualcuno pensasse che si può sfuggire a scelte dolorose ma responsabili attraverso passaggi traumatici, come il fallimento, sappia che dovrà farlo a viso aperto, in modo trasparente e non con sotterfugi. Noi continueremo a lavorare, anche senza stipendio, fino a quando ce lo consentiranno, perché crediamo nel valore della testata e della comunità che si è sviluppata negli anni attorno ad essa.

l’Unità 15.7.14
l’Unità in lotta
Durante la crisi servono più idee, non meno
di Giuseppe Montesano

CARI AMICI DE L’UNITÀ ,MI AVETE CHIESTO DI SCRIVERE PER VOI QUALCHE BUONA RAGIONE PER CUI QUESTO GIORNALE NON DEVE MORIRE: MA MI È DIFFICILE FARLO, PERCHÉ IO NON CAPISCO. Che cosa non capisco? Be’, proprio non capisco i motivi per cui l’Unità dovrebbe morire. E credo che dovreste invitare a scrivere non chi vuole che l’Unità continui a esistere, come me, ma quelli, se ci sono, che vogliono la morte de l’Unità: che siano loro a spiegare quali sono i motivi. Ho ascoltato, come tutti con molta soddisfazione, il discorso di insediamento per il semestre europeo del Presidente del Consiglio di questo Paese: e soprattutto quando ha parlato del Rinascimento, cominciato a Firenze circa cinquecento anni fa.
Mi ha molto colpito e convinto, quel richiamo storico, per un concetto che vi era espresso: che il Rinascimento nacque in un periodo di crisi. Là si indicava una via: i momenti critici, quando qualcosa si trova sull’orlo dell’abisso, possono essere trasformati in occasioni; dall’attuale crisi dell’Italia e dell’Europa germanizzata potrebbe nascere un periodo trionfante, inventivo, libero, moderno, umano: un altro Rinascimento. Ma se è così, e il ragionamento di quel discorso era perfettamente logico, sarebbe molto saggio che dalla crisi di mezzi de l’Unità il giornale rinascesse e non morisse: se le crisi economiche sono opportunità, lo sarà anche la crisi di un giornale. Ma è noto che il Rinascimento del 1500 e dintorni si sviluppò e trionfò perché nella crisi ci fu chi investì denaro: e lo investì non solo su farsetti, armature e soprammobili, oh no, affatto! In quegli anni ci fu chi decise di investire sulla cultura: su cose «inutili» come le statue di Michelangelo e gli infiniti dipinti che decoravano chiese, palazzi, piazze; e i tizi del Rinascimento investirono su altre cose «inutili» come i libri: su infiniti scrittori, poeti, umanisti, filologi, gente che pensava a cose inutili come la Bellezza e Platone, ma che i signori del Rinascimento riuscivano a vedere come cose indispensabili alla rinascita. Forse perché ritenevano che i beni immateriali, cultura e arte, sono un potere di trasformazione profondo della società? Incredibile: i mercanti del Rinascimento, nella crisi, puntavano sulla cultura. E puntavano forse su un sapere ristretto? Ma no: sono diventati famosi perché erano aperti alla scienza, alla laicità, alla religione, all’arte, al commercio, all’informazione, a tutto e insieme al contrario di tutto. Erano aperti: non temevano la libertà delle idee, non temevano che ci fossero troppe idee, ma volevano che le idee traboccassero. Un giornale è questo, e in futuro dovrebbe diventarlo ancora di più: un luogo dove le idee traboccano.
Io troverei orribile la chiusura di qualsiasi giornale, anche dei foglietti che più che far circolare idee nuove e intelligenti fanno circolare vecchi interessi; perché anche quei giornali mi rendono più ricco come cittadino, mi costringono a confrontarmi con punti di vista diversi emi mostrano idee che se pure vecchie restano idee; perché anche quei giornali partecipano al discorso pubblico secondo le regole del discorso pubblico, forse la sola forma di reale democrazia concessa ai cittadini. E allora perché mai proprio l’Unità dovrebbe chiudere, perché dovrebbe essere muta per sempre una voce che ha fatto in questi anni difficili scelte difficili cercando di puntare sulla libertà delle idee? Non lo capisco. I giornali sono nati per stimolare i neuroni della coscienza civile, e l’Unità questo lo fa e lo ha fatto, e se lo fa poco, be’, dovrebbe essere spinta a farlo di più, non spinta nella fossa del silenzio: senza voci diverse le civiltà muoiono, perché dopo aver ucciso la propria cultura illudendosi di correre veloci, corrono solo alla morte. I signori del Rinascimento avevano un motto: «Festina Lente», cioè «Affrettati Lentamente».
Non è un motto sempre veritiero per la democrazia? Non far vivere l’Unità vorrebbe dire far morire uno spazio di libertà e di critica: ma nei tempi di crisi gli spazi di libertà e di critica servono di più, non di meno. Difficile da capire? Ma no: «questo» lo capirebbe anche un bambino.

Repubblica 15.7.14
La campionessa della destra che vuol comprare l’Unità
di Michele Serra

SANTANCHÈ che vuole comperare l’Unità è un po’ come se il comandante Marcos debuttasse come broker a Wall Street. Sono gli scherzi del post-ideologico, che per quanto post ancora non era riuscito a scardinarle proprio tutte, le coordinate del vecchio panorama politico e sentimentale del pianeta Terra.
AVVERTENZA : un giornale (o una qualunque azienda) in agonia merita rispetto a prescindere, e non c’è offerta, non c’è obolo che almeno da un orecchio non possa essere ascoltata con cortesia anche se poi verrà rifiutata con altrettanta cortesia; a meno che, come Casaleggio, si attenda la fine del mondo stropicciandosi le mani, tanto poi si va tutti a vivere su Plutone via internet. Il vecchio glorioso amato e odiato giornale fondato da Antonio Gramsci si dibatte da decenni (non per diretta volontà di Casaleggio, insomma) in una crisi ferale, che è di mercato e prima ancora di ruolo: dunque non merita astio né spregio la proposta di acquisto che la signora ha avanzato in tandem con Paola Ferrari, giornalista, conduttrice televisiva e moglie di Marco De Benedetti. Niente di illecito o di ingiurioso. Ma di sbalorditivo, sì.
Sbalorditivo perché Santanché, tra i tanti difetti, ha sempre avuto il pregio di una schietta faziosità, donna di destra dal rossetto ai tacchi, dai sentimenti - è la compagna del feroce Sallusti - all’eloquio da parà. Perché dunque inserire nel suo shopping anche un giornale comunista? I dietrologi ci sguazzeranno, immaginando un movente sadomaso (ti compero perché voglio che agonizzi tra le mie braccia) o una brutale intenzione pedagogica (ti compero e ti raddrizzo la schiena finché non abiuri e scrivi che Gramsci, se fosse ancora tra noi, tornerebbe in Sardegna solo per brindare al Billionaire). Noi gente semplice restiamo, invece, a bocca aperta, come i vecchi diffusori dell’Unità alla bocciofila, come i lettori residui (pochi ma non pochissimi) di quel giornale che ha segnato la storia del Paese, che nacque nella Torino operaia e intellettuale, che fu clandestino sotto il fascismo, che entrava in fabbrica, negli anni Cinquanta, nascosto sotto il giubbotto dei sindacalisti, il giornale che milioni di italiani comunisti comperavano ogni mattina per sapere “che cosa dice il Partito”, il giornale che svolazzava in piazza San Giovanni dopo le grandi manifestazioni e i funerali di Berlinguer.
Sono cose che non tornano, va detto; e va anche detto che è normale che non tornino. La vita continua, e la vita cambia. Di qui a immaginare Daniela Santanché che nomina il direttore dell’Unità, francamente il passo è grande. Così grande che, a parte il comunicato secco e dignitoso del comitato di redazione dell’Unità che si limita a definire “irricevibile” l’irricevibile, davvero non si sa bene che cosa dire e che cosa pensare, se non che la confusione è grande sotto il cielo, e per giunta, per essere luglio, dal cielo cade tanta di quella pioggia che neanche in novembre.

Repubblica 15.7.14
Unità, muro anti-Santanchè “Irricevibile la sua proposta”
di G. D. M.

ROMA. Baciare la pitonessa? Mai, rispondono all’Unità. «Giudichiamo la proposta di acquisto della signora Santanchè incompatibile con la storia della testata, quindi irricevibile». È il finale del comunicato che apparirà stamattina sulla prima pagine del giornale a firma del Cdr. Ma la dirigente di Forza Italia non demorde. E rilancia. «L’interesse c’è e i liquidatori non possono negarlo. Ho messo tutto per iscritto. Sanno chi è il mio socio. Nei prossimi giorni farò altri passi formali», dice la pasdaran di Berlusconi. Il socio è Paola Ferrari De Benedetti, la conduttrice della Domenica Sportiva, amica storica della Santanchè. I numeri, ossia la cifra di acquisto, e il piano industriale sono in fattura. Arriveranno sulla scrivania degli amministratori temporanei entro questa settimana.
L’iniziativa della Santanchè è un temporale che si abbatte su una redazione già da tempo in difficoltà e che forse solo questo mese riceverà gli stipendi arretrati di maggio e giugno. La scadenza della pratica di liquidazione è fissata al 29 luglio. Se non si troverà una soluzione, il 30 si dovranno portare i libri in tribunale dichiarando fallimento. Alcuni, nella sede del giornale, vanno oltre la questione di opportunità politica ricordando rovesci imprenditoriali dell’onorevole azzurra. Ma la scelta è quella di opporre un muro “ideologico” all’eventuale scalata della Santanchè. «Siamo ancorati a una tradizione di sinistra. L’obiettivo è innovare ma non snaturare», dice il direttore Luca Landò. «L’Unità è un brand, ha ragione Renzi. È come la Nutella. Ma se dentro il barattolo della Nutella ci metti un’altra cosa, anche il brand muore». Insomma, offerta o provocazione che sia, la proposta non ha alcuna possibilità di riuscita. «Credo che la aSantanchè punti a farsi un po’ di pubblicità - spiega Landò - . Vuole solo dimostrare che la sua concessionaria editoriale si muove a tutto campo, slegandola dall’immagine di destra della sua titolare ». Ma l’accostamento pitonessa- Unità resta una bomba.
E se alla fine l’unica proposta in campo fosse quella della Santanchè? I liquidatori sono convinti che non sarà così. È sul tavolo anche l’offerta di Matteo Fago, ex editore online, attuale socio di maggioranza dell’Unità. Offerta insufficiente per ora. Gli amministratori protempore gli hanno chiesto un’integrazione e sembrano ottimisti. I giornalisti rimangono preoccupati e cauti. Tanto più che la Santanchè considera la partita tutt’altro che chiusa: «Parlerò a tempo debito. Anche della linea politica».
Al Pd la vicenda è seguita dal tesoriere Francesco Bonifazi, vicinissimo al premier. È stato Matteo Renzi a dire che Unità e Europa , altro giornale di area Pd, avrebbero dovuto unirsi. Qualche mese fa la soluzione appariva vicina. Cessione dell’Unità alla famiglia di costruttori Pessina, unificazione della testate e un direttore in pectore nella figura di Stefano Menichini. Ma l’operazione è molto complessa e c’è il rilancio possibile di Fago. Adesso anche Europa, quotidiano diretto dallo stesso Menichini, annuncia guai grossi. Oggi il direttore spiegherà ai lettori lo stato dell’arte con l’orizzonte di una chiusura il 30 settembre. Con grande realismo spiegherà che per il momento Europa cercherà di trovare una soluzione economica da sola. Fare un nuovo giornale del Pd comporta passaggi delicatissimi. E l’”ingerenza” della Santanchè non aiuta.

il Fatto 15.7.14
Santanchè & Ferrari, le amiche di destra che vogliono l’Unità
Lettera ai liquidatori: entro il 30 luglio va trovato un acquirente
Il CdR si oppone
di Car. Tec.

La faccenda è seria, il resto meno. Il mercato libero e l'Unità in liquidazione danno a Daniela Santanché, deputata di Forza Italia, l’opportunità di spedire una lettera (non un’offerta formale, come sventagliato ai media) per acquistare il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Il comitato di redazione, che rappresenta giornalisti senza stipendio da mesi, definisce “irricevibile” la proposta di Santanché, che stavolta agisce assieme a un’amica conduttrice televisive, Paolo Ferrari (Rai Sport), nuora di Carlo De Benedetti, l’ingegnere del gruppo Espresso. Il 30 luglio è la scadenza fissata per valutare gli eventuali e futuribili proprietari del quotidiano , per adesso soltanto Santanché&Ferrari hanno avanzato un interesse. Ferrari s’è candidata, era il 2008, nelle liste di Destra-Fiamma Tricolore nella circoscrizione Lazio1 per “Santanché presidente” e, quest’anno, le ha donato 20.000 euro come contributo elettorale.
La Piotenessa conferma (e già si vocifera di Fabrizio Rondolino direttore, ndr), deve aumentare l’attività imprenditoriale: oltre alla raccolta pubblicitaria con Visibilia (che potrebbe perdere la fonte di via Negri, sede del Giornale dei Berlusconi), Santanché gestisce diversi periodici ex Mondadori. Anche l’azionista Maurizio Mian, famoso per possedere un cane ereditario milionario che si perpetua nel tempo (il leggendario Gunther), conferma e, dunque, non smentisce quel che sembrava impossibile, ma che potrebbe accadere (in teoria): “Bisogna prendere in considerazione – dice Mian alla Zanzara su Radio24 – l’offerta della Santanché, che è una persona molto intelligente, ha grandi capacità, è una potenza mediatica e politica. Le ho parlato, è in gamba e moderna. Quando la Santanché decide di fare delle cose le fa bene”.
CI VOGLIONO soldi, subito. Quelli pubblici, ridotti (e spesi) negli anni, non bastano più. Chi detiene le quote non vuole cacciare il denaro che serve. E dunque Mian, accolta con entusiasmo l’opzione Pitonessa, invita Matteo Renzi a riformare la sua traiettoria politica e mediatica: “L’Unità dovrebbe essere di Renzi, dovrebbe rimanere l’organo ufficiale degli eredi del Pd. Ma non so se sia una strada ancora percorribile”. Da palazzo Chigi al Partito democratico è un accavallarsi di rassicurazioni, c’è chi promette di lavorare a soluzioni e chi, addirittura, di possederne una. Il cdr ha chiesto un incontro ai commissari liquidatori per spiegare il “no” alla coppia Santanché-Ferrari: “Occorre, anzitutto, trasparenza. Il cdr ritiene l’ipotesi del passaggio dell’Unità ad un’esponente di Fi incompatibile con la storia del giornale stesso. Speriamo che il segretario del Pd Renzi intervenga nella vicenda e eviti che il giornale fondato da Antonio Gramsci passi nelle mani di esponenti di Forza Italia”

La Stampa 15.7.14
Santanché e Paola Ferrari
La strana coppia vuole l’Unità
La loro è l’unica offerta: l’alternativa è la chiusura a fine mese
di Giacomo Galeazzi
qui

Corriere 15.7.14
Santanchè sogna l’Unità per sfidare il Pd (da sinistra)
di Tommaso Labate

ROMA — Un piano editoriale non di un giornale «semplicemente di sinistra». Ma di «supersinistra», che sfidi Matteo Renzi dalla rive gauche. E poi, una compagna d’avventura famosa e di destra, talmente di destra che la «Pitonessa» la coinvolse anni fa nelle liste de La Destra di Francesco Storace.
A sentire le confidenze che avrebbe fatto ad alcuni amici, Daniela Santanchè avrebbe davvero un «piano dettagliato» per rilevare l’Unità. E non da sola. Bensì su un tandem in cui l’altro sellino sarebbe occupato da Paola Ferrari, volto noto della Rai tv, sua compagna di ventura alle elezioni politiche del 2008 nonché nuora dell’ingegnere Carlo De Benedetti, proprietario del Gruppo Espresso.
«Questi sono affari. E sugli affari non faccio confidenze. Confermo soltanto l’interesse per l’Unità e il fatto che col mio gruppo sto facendo i passi formali per quel giornale. Adesso la saluto» è — in rapidissima sequenza — la somma di parole con cui un’insolitamente poco loquace Santanchè liquida la questione a metà di ieri pomeriggio. Quanto al coinvolgimento nell’avventura editoriale di Paola Ferrari, reduce dal trasferta monstre in Brasile per il Mondiale, quello era agli atti dalla mattinata, rivelato da un lancio dell’agenzia di stampa LaPresse .
Nella redazione del quotidiano fondato da Gramsci si vivono giorni di apprensione. «La proposta d’acquisto della Santanchè» mette a verbale Bianca Di Giovanni, del comitato di redazione del quotidiano «dovrebbe essere arrivata questa mattina. Per noi è irricevibile». Com’è irricevibile per Stefano Fassina, l’ex viceministro che twitta — a uso e consumo della Santanchè — il suo «no grazie, l’Unità deve rimanere a sinistra per lavoro e libertà».
Eppure, a dare man forte all’ingresso della Santanchè sulla scena dell’editoria di sinistra, arriva Maurizio Mian, imprenditore e azionista al 20 per cento del giornale. «L’Unità ? Male, male. Siamo sulla strada della chiusura» confessa ai microfoni della trasmissione radiofonica La zanzara. E ancora: «Bisogna prendere in considerazione l’offerta della Santanchè, che è una persona molto intelligente, ha grandi capacità, è una potenza mediatica e politica». Non solo. «Ci ho parlato» confida Mian,«è in gamba e moderna. Quando la Santanchè decide di fare delle cose le fa bene».
Luca Landò, il direttore del quotidiano, ammette: «Qua si tratta di raddrizzare la Concordia. Ma, una volta che l’abbiamo raddrizzata, non bastano solo i soldi, ammettendo che quelli della Santanchè ci siano davvero. Non è indifferente se questa nave salpa verso i mari della destra o verso quelli della sinistra, che sono dei nostri lettori. Serve un piano di rilancio...». E il Pd? «Mah» risponde il direttore «il Pd non è il nostro proprietario ma dovrebbe essere nostro interlocutore. Abbiamo dato voce a tante anime del partito e questo, forse, è stato visto con un po’ di sospetto...». E Renzi? «Diciamo che abbiamo un rapporto british . Non ci ho mai parlato» conclude Landò prima di ascoltare, dalla viva voce dei liquidatori, che dalla «Pitonessa» non è ancora arrivata alcuna lettera di impegno formale. Eppure Santanchè conferma, anche ufficialmente, che «stiamo facendo i passi ufficiali e formali per raggiungere l’obiettivo». Mesi fa, con un colpo di scena, la deputata forzista si aggiudicò — tra lo stupore collettivo — la storica rivista cinematografica Ciak«. «Si presentò dicendomi “guardi che non sono quella che lei vede in televisione”» racconta Piera Detassis, direttrice del mensile, giornalista non certo ascrivibile al mondo della destra italiana. «E, se devo essere onesta» aggiunge «finora così è stato. Non ha mai interferito nel nostro lavoro».

il Fatto 15.7.14
Atomi in libertà
Da Civati a Rizzo: a sinistra si fanno in 6 (per ora)
di Tommaso Rodano

Nell’oceano del consenso renziano, la zattera della sinistra italiana prova a issare l’ultima bandiera. Il sussulto arriva dalla “Leopolda rossa” organizzata da Pippo Civati a Livorno. I tre giorni di “PolitiCamp” sono valsi una nuova “associazione apartitica” per tentare di arginare la deriva renziana. Il nome sarà Possibile, i compagni di viaggio ci sono già: GianniCuperlo, tuttora in testa a una delle micro correnti di sinistra del Pd, e Nichi Vendola, leader di quel che resta di Sinistra
Ecologia e Libertà.
LA MINISTRA Maria Elena Boschi ha commentato con ironia feroce: “A questo punto dell’estate arriva sempre Civati, come le indicazioni dei telegiornali su come ci si ripara dal caldo”. Pippo e gli associati, invece, promettono di non avere in cantiere un nuovo partito: la galassia della sinistra italiana gode già di un discreto numero di liste, dagli equilibri variabili e dal potenziale elettorale assai incerto. Vendola e Sel, come detto, hanno appena subìto una separazione: Gennaro Migliore ha fatto le valigie con una decina di parlamentari e si è fatto anche lui la sua associazione: Libertà e diritti. I fuoriusciti avranno mani libere nel rapporto con Renzi. Vendola sull’argomento ondeggia : a giorni alterni rifiuta di “salire sul carro del vincitore”, o sostiene che “in autunno bisognerà riprendere il discorso col Pd”. Il dibattito ha lacerato un partito che alle ultime elezioni politiche del 2013 (da alleato del Pd) ha preso il 3,2 per cento. Poi, alle europee di maggio, si è unito alla Lista Tsipras, contribuendo al 4 per cento finale.
Nel nome del leader greco, in vista delle urne, Vendola aveva seppellito l’acerrima rivalità con gli ex compagni di Rifondazione Comunista (a loro volta uniti con i Comunisti italiani nella Federazione della Sinistra). Con il decisivo impulso dei garanti “società civile”, l’Altra Europa si è issata al fatidico 4 per cento, utile per eleggere tre deputati a Strasburgo. Un successo ottenuto senza mai smettere di litigare. Prima delle elezioni Camilleri e Flores d’Arcais hanno abbandonato il ruolo di garanti in polemica con la composizione delle liste, dopo le urne la decisione di Barbara Spinelli di non rinunciare al seggio (escludendo Marco Furfaro di Sel) è stata l’argomento per una nuova resa dei conti. Il futuro è incerto: questa settimana gli eletti incontrano la “base”, alla presenza dello stesso Tsipras. Vendola, rimasto senza eurodeputati, si è defilato. Rifondazione e Comunisti italiani sembrano favorevoli all’adesione. L’ultima volta che entrarono in un cartello elettorale fu per le politiche del 2013: era la Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, con i Verdi, l’Idv e Luigi De Magistris. Misero insieme il 2,2 per cento.
C’È VITA, si fa per dire, anche a sinistra di Tsipras. Resiste a tutt’oggi l’irriducibile Partito Comunista dei Lavoratori. Nato nel 2006 da una costola trozkista di Rifondazione, col suo leader Marco Ferrando contribuì al fallimento del secondo governo Prodi. Alle politiche del 2013 ha preso un incoraggiante 0,26 per cento. Alle stesse elezioni ha partecipato un’altra lista, oggi scomparsa: il Partito di Alternativa Comunista. Arci rivali di Ferrando e compagni (la Rete ne conserva memorabili invettive), si fermarono allo 0,01 per cento. Infine, c’è l’indomito Marco Rizzo. Tre legislature nel Parlamento italiano con Rifondazione e Comunisti italiani, una in quello europeo, oggi guida il Partito Comunista (ex Comunisti Sinistra Popolare). Il congresso (ri)fondativo si è svolto a gennaio. Il motto è lo stesso: “Ritornare tra la gente, ripartire dalle lotte”.

l’Unità 15.7.14
Daniel Levy, ex consigliere dell’allora premier israeliano Ehud Barak
«Netanyahu non vuole la pace, la sua non è autodifesa»
«La riconciliazione palestinese apre al dialogo e per questo è considerata un pericolo da evitare»
di Marco Mogiello

La leadership israeliana è «miope e irresponsabile » perché pensa di poter trarre vantaggi da un’ulteriore radicalizzazione palestinese e per questo ha sfruttato l’incidente dei tre coloni uccisi. «L’idea che ci potessero essere dei progressi nella riconciliazione palestinese è una minaccia per Netanyahu». È quanto ci spiega Daniel Levy, analista politico del think tank European Council on Foreign Relations ed ex consigliere dell’ex premier israeliano Ehud Barak: la comunità internazionale dice e la Ue devono ottenere un cessate il fuoco e ricordare a Israele le sue violazioni del diritto internazionale.
Quali sono le ragioni della nuova escalation di violenza a Gaza?
«Bisogna guardare a due elementi. Uno è che Gaza continua ad essere un’area di punizione collettiva. Una situazione in cui le persone vivono permanentemente sotto assedio, in cui è impedita qualsiasi reale reintegrazione di Gaza nella più ampia comunità palestinese. Questo crea una condizione che quasi garantisce escalation periodiche. Poi si può guardare alla cause più immediate. Con la riconciliazione palestinese Hamas si sente schiacciata e vuole riguadagnare visibilità, ma anche Israele ha bisogno di condurre una delle sue periodiche riduzioni della capacità militare di Hamas a Gaza. Ma per me la vera ragione è che il premier israeliano ha sfruttato molto cinicamente l’uccisione dei tre coloni. Penso che i servizi di intelligence israeliani sapessero che i tre ragazzi erano stati uccisi e non rapiti, ma che Netanyahu abbia sfruttato per due settimane l’idea del rapimento per fare quello che voleva fare comunque e avere una scusa per agire contro Hamas e altri palestinesi in Cisgiordania con una campagna di arresti di massa e punizioni collettive. Hamas ha risposto. Israele ha risposto a sua volta e ora ci troviamo in questa escalation».
Quindi secondo lei Netanyahu sta cercando di ostacolare la riconciliazione tra le fazioni palestinesi?
«Certo, molto chiaramente. Netanyahu non vuole promuovere la pace e il ritiro israeliano dai territori occupati. Il suo obiettivo è esattamente l’opposto. La leadership israeliana vuole mantenere un controllo permanente sui palestinesi e vuole evitare qualsiasi progresso di pace. Da questo punto di vista la divisione palestinese è molto utile e quindi l’idea che ci potessero essere dei progressi nella riconciliazione palestinese è una minaccia per Netanyahu. Il premier israeliano ha utilizzato questa riconciliazione per dire che Abbas è uno che fa accordi con i terroristi, ma sa bene che anche se queste affermazioni suonano bene alla Cnn l’unità palestinese indebolisce la sua posizione. Quindi Netanyahu ha utilizzato le due settimane (tra la scomparsa dei tre coloni e la scoperta dei cadaveri) per contrastare Hamas sul terreno in Cisgiordania e per attaccare Abbas dal punto di vista diplomatico. E ora probabilmente la riconciliazione palestinese è indebolita ».
Cosa dovrebbe fare la Ue e la comunità internazionale?
«Nell'immediato bisogna dire chiaramente e pubblicamente a Israele che le sue violazioni del diritto internazionale e le uccisioni indiscriminate di civili palestinesi devono finire. Il diritto all’autodifesa non include il diritto di fare quello che sta facendo Israele a Gaza, né quello di mantenere un’occupazione illegale per 47 anni. La comunità internazionale poi dovrebbe spingere l’Egitto a fare da mediatore in modo più efficace, perché Usa, Francia, Germania e Regno Unito si riuniscono ma nessuno di loro ha dei veri contatti con Hamas. Sono necessari altri interlocutori. Dobbiamo imparare la lezione del passato. Nel 2008 e 2009 (operazione israeliana Piombo Fuso a Gaza, ndr) il mondo è rimasto a guardare. Le conseguenze delle azioni compiute in questi giorni sono già terribili. Le Nazioni Unite hanno stimato che il 78% delle vittime palestinesi sono civili. Nel lungo termine poi bisogna affrontare le questioni di fondo nei periodi di calma. Prima di questa escalation abbiamo avuto un anno e otto mesi di calma e prima di allora quasi quattro anni e i nodi non sono stati risolti».

l’Unità 15.7.14
Senza luce, medicine e cibo. Il calvario della Striscia
Migliaia si rifugiano nelle scuole dell’Onu: «Non bombardatele»
Appello delle ong: «Qui manca tutto»
di Umberto De Govannangeli

La diplomazia annaspa, tra appelli che cadono nel vuoto e un pressing che non sortisce effetti. Perché a Gaza non c’è tregua all’orizzonte, solo macerie, e morti. La maggior parte sono donne e bambini. «Israele continuerà a colpire Hamas e le sue strutture. Il danno alla fazione islamica e alle altre organizzazioni del terrore a Gaza è severo», ribadisce il ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon, «terminare le operazioni ora significherebbe solo maggiore scontro in futuro», gli fa eco il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman. Ieri, secondo l’agenzia di stampa Dpa, sono stati almeno 40 gli obiettivi colpiti. Venti razzi sono stati lanciati dal territorio palestinese e per la prima volta dall’inizio di questo nuovo conflitto, uno è caduto sulle alture del Golan occupate da Israele, senza fare vittime. Israele invece ha abbattuto un drone lungo la costa meridionale del Paese, le Brigate al-Qassam, ala militare di Hamas, hanno rivendicato di averne «lanciati diversi», uno ha raggiunto il ministero della Difesa di Tel Aviv. È la prima volta che aerei senza pilota decollano dalla Striscia da quando è cominciata l’operazione.
SIRENE A TEL A VIV
Un razzo lanciato da Gaza è stato intercettato su Tel Aviv dopo che in città nel primo pomerggio era scattato un nuovo allarme e si era udita un’esplosione. Stando a quanto riferito dall’esercito di Israele, «diversi razzi sono stati lanciati dal Libano sulla Galilea occidentale», senza fare feriti. Le forze armate dello Stato ebraico hanno risposto con colpi di artiglieria e denunciato il caso alle forze Onu, il timore è che si possa aprire un nuovo fronte di conflitto lungo il confine nord del Paese. Israele ha colpito Hamas anche in Cisgiordania, arrestando cinque leader del movimento a Nablus e Jenin. Sono circa 715 i razzi che hanno raggiunto Israele e oltre 160 quelli intercettati. Ad una settimana dall’inizio, il bilancio dell'operazione israeliana, stando al ministero della Salute di Gaza, è di 172 morti e oltre 1.200 feriti. Tra le vittime, secondo l’Onu la maggior parte sono civili.
Almeno 17mila palestinesi di Gaza hanno lasciato le loro case nel nord della Striscia e hanno trovato rifugio presso le strutture delle Nazioni Unite. I più deboli sono le prime vittime. I bambini per primi. I piccoli feriti sono centinaia, «nessun bambino dovrebbe soffrire l’impatto terrificante di una simile violenza », si legge in una nota dell'agenzia Onu per l’infanzia. «Le ostilità in corso producono danni, sia sul piano fisico che psicologico, e hanno conseguenze allarmanti per le future possibilità di pace, stabilità e dialogo».
È sempre pù emergenza umanitaria. Oxfam sta portando assistenza di prima necessità a oltre 3mila famiglie in fuga dal conflitto nella Striscia di Gaza. «Le persone continuano a chiedermi quale sia l’attuale situazione di Gaza, e io non so da dove iniziare per descriverla. Spaventosa. Pericolosa. Confusa. Moltissime emozioni sono in gioco - racconta l’operatrice dell’organizzazione umanitaria Arwa Mahna dall’interno di Gaza -. Gli aerei colpiscono dovunque, in ogni istante, giorno e notte. La notte è il momento più difficile. I bombardamenti si intensificano e li sento farsi sempre più vicini. Anche se sono esausta cerco di forzarmi a non dormire… Le esplosioni sono anche più spaventose al risveglio, così preferisco essere desta quando colpiscono». Sempre secondo Oxfam inoltre, con l’intensificarsi dei raid aerei, adesso sono 395mila le persone in 18 diverse località, che si sono viste distruggere le strutture idriche e sanitarie che fornivano loro servizi essenziali. Mentre il 90% dell’acqua potabile nella Striscia è a rischio di contaminazione. In grave difficoltà anche le strutture sanitarie: sono stati danneggiati 4 ospedali, 3 cliniche, un centro per disabili e 4 ambulanze. Le 10 cliniche mobili di Oxfam hanno dovuto sospendere momentaneamente il proprio lavoro a causa dei bombardamenti in corso. In totale inoltre stando a quanto riportato da Mofeed Alhasayna, Ministro del lavoro e dell’edilizia abitativa, più di 390 case sono state completamente rase al suolo, mentre quelle danneggiate sono 10.500. Inoltre 36 scuole sono state colpite.
Cresce nel frattempo l’emergenza cibo: i prezzi dei beni alimentari stanno salendo rapidamente: lo staff di Oxfam, presente a Gaza con 34 operatori locali, riporta che il prezzo di verdure come pomodori è raddoppiato nei giorni scorsi. Mentre ovviamente i negozi restano chiusi. «Negli ospedali e nelle farmacie - denuncia Terre des Hommes - manca circa la metà dei farmaci inclusi nella lista dei farmaci essenziali stilata dalla Organizzazione Mondiale della Sanità; scarseggiano 470 tipi di materiali sterili e monouso, tra cui aghi, siringhe, cotone, disinfettanti, guanti, ecc. Manca il carburante per alimentare ambulanze e generatori che permettono di far funzionare i macchinari salvavita e le sale operatorie durante le almeno 12 ore al giorno in cui l’unica centrale elettrica non riesce a fornire elettricità. Mancano le sacche di sangue necessarie a soccorrere le migliaia di feriti».

Repubblica 15.7.14
“Emergenza umanitaria” in 395mila senza acqua
Colpiti anche gli ospedali

GERUSALEMME. Con l’intensificarsi dei raid aerei israeliani nella Striscia di Gaza esplode anche l’emergenza umanitaria: sono 395mila le persone, in 18 diverse località, senza acqua e strutture sanitarie. L’allarme arriva dall’associazione umanitaria Oxfam, secondo cui il 90% dell’acqua potabile nella Striscia è a rischio di contaminazione. «La situazione è spaventosa, pericolosa e confusa - racconta l’operatrice di Oxfam, Arwa Mahna, dalla Striscia - gli aerei colpiscono dovunque, in ogni istante, giorno e notte».
I bombardamenti stanno mettendo in grave difficoltà molte strutture essenziali: sono stati danneggiati quattro ospedali, tre cliniche, un centro per disabili e quattro ambulanze. Le 10 cliniche mobili di Oxfam hanno dovuto sospendere momentaneamente il proprio lavoro a causa dei bombardamenti in corso.
Cresce nel frattempo l’emergenza cibo. I prezzi dei beni alimentari stanno salendo rapidamente: secondo lo staff di Oxfam, presente a Gaza con 34 operatori locali, il prezzo di verdure come pomodori è raddoppiato nei giorni scorsi. Mentre ovviamente i negozi restano chiusi. Un’emergenza confermata dall’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), che ha accolto decine di migliaia di sfollati nelle proprie scuole di Gaza e ha lanciato un appello per raccogliere fondi straordinari per assicurare ai palestinesi della Striscia cibo e aiuti di prima necessità, in particolare per poter distribuire alimenti che non hanno bisogno di cottura (frutta secca, tonno in scatola, acqua potabile). Le strutture scolastiche che ospitano gli sfollati, infatti, non hanno cucine per poter far fronte all’emergenza.
E sale, intanto, nelle ultime ore il numero delle vittime dei raid che a Gaza è arrivato a 176, mentre sono oltre 1.130 i feriti, di cui due terzi costituiti da donne e bambini. L’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) riporta inoltre che almeno il 75% dei decessi riguarda civili, di cui il 30% è rappresentato da bambini. Sono quasi 400 le case completamente distrutte - secondo il ministero del Lavoro di Gaza - e oltre 10mila quelle danneggiate parzialmente.

il Fatto e The Independent 15.7.14
Gaza. Il sacrificio dei bambini
Quelle bombe e il silenzio degli innocenti
di Kim Sengupta

Era il centro della nostra vita, era per noi la cosa più preziosa del mondo; l’avevamo attesa così a lungo! Ora non sappiamo se si risveglierà; non sappiamo cosa le è accaduto”. Alla al-Masri nasconde il viso tra le mani come non riuscisse più a sopportare la vista della figlia di nove anni che soffre in un letto di ospedale. Alla e sua moglie Hanan hanno avuto la bambina dopo molti anni di attesa e molte cure. Mariam era figlia unica e i genitori le dicevano sempre di non allontanarsi per via dei pericoli. “Nostra figlia stava giocando in giardino quando è acceduto. Gli israeliani hanno bombardato una casa dall’altra parte della strada, ma purtroppo una scheggia ha colpito mia figlia. Era distesa in una pozza di sangue, colpita alla testa: abbiamo molta paura”, dice il signor Marsi. Mariam è solo uno dei tantissimi bambini uccisi o gravemente feriti da quando ha avuto inizio l’operazione “Protective Edge” decisa da Netanyahu. Secondo le autorità sanitarie palestinesi fra sono 22 i bambini che hanno perso la vita.
MOLTI ABITANTI di Gaza affermano che gli israeliani non si limitano a colpire le case nelle quali abitano militanti di Hamas. Stando a quanto affermano le autorità militari israeliane, i cittadini verrebbero invitati ad abbandonare l’abitazione con un sms o una telefonata pochi minuti prima del bombardamento, ma molti si trattengono sul posto comportandosi come “scudi umani”. Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano accusa Hamas di lanciare razzi da quartieri densamente popolati mettendo a rischio la vita di donne e bambini. Il dottor Nabil Sharqawi ha curato molti dei piccoli feriti giunti all’ospedale al-Shifa. “È una cosa che ci mette a dura prova. Siamo medici, ma siamo anche esseri umani e lo spettacolo dei bambini feriti è difficile da sopportare. Marian ha riportato lesioni cerebrali. Anzitutto ci auguriamo che sopravviva. Poi vedremo se potrà parlare o vedere. Sciaguratamente il suo non è un caso isolato”. Mentre parla si sente il rumore assordante delle esplosioni non lontano dall’ospedale e il sibilo dei razzi sparati su Israele. Il dottor Sharqawi ci mostra la foto di un bambino orrendamente ferito: “Non faccio che pensare a questo bambino. È arrivato in ospedale l’altro ieri. Aveva dieci anni. Aveva perso entrambe le braccia e una gamba. Ma era perfettamente cosciente tanto da dirmi: ‘La prego, dottore, faccia smettere questo dolore’. C’era ben poco da fare e poco dopo è morto”. Yasmeen Dawass, una studentessa di medicina di 22 anni che ci fa da interprete, è preoccupata per un suo collega colpito mentre andava in moto. Non sa cosa gli è successo. Finalmente lo vede disteso sul letto accanto a quello di Mariam con tutte e due le gambe amputate e un moncherino al posto del braccio destro. “Era un ragazzo come tutti gli altri. Non era un militante, non lanciava razzi. Se ne andava in moto per i fatti suoi. Perché gli hanno fatto questo? Sarebbe diventato medico, avrebbe aiutato la gente che soffre”, dice Yasmeen.
IN UN REPARTO vicino incontriamo due vittime di cinque anni. Sono cugini. Nuraddin è stato ferito alla testa. Il missile ha ucciso entrambi i genitori. Kinan è stato colpito al petto e alla gamba. Suo padre e sua sorella sono morti. La casa è stata distrutta perché apparteneva a Ha-fez Hamad, ritenuto dagli israeliani, un membro del jihad islamico. Con lui sono morti sei componenti della sua famiglia tra i quali sua moglie, sua madre, due fratelli e una nipote di 21 anni. Seduta accanto ai cugini la zia Amal, 50 anni, dice: “Nuraddin è in stato di incoscienza. Kinan invece sa di suo padre e di sua sorella. Non riesco a immaginare come questa tragedia influirà sulla loro vita quando cresceranno. Odieranno gli israeliani e desidereranno vendicarsi oppure riusciranno a dimenticare tutto? Molti di noi vogliono che questa spirale di violenza e odio si arresti; vogliamo la pace, siamo stanchi della guerra”. Ma a casa di Hamad non tira aria di riconciliazione. Con il braccio che cinge la nipotina di quattro anni, Hafeth Hamad esclama: “Certo che dobbiamo reagire. Gli israeliani minacciano di occupare Gaza …. Che lo facciano. Vedranno come sanno combattere i nostri uomini e le nostre donne. Perché dobbiamo permettere che ci massacrino senza reagire? Ogni due anni la storia si ripete. Vogliono sterminare i palestinesi e il mondo glielo lascia fare. Nessuno ci aiuta”.
A Gaza il sentimento prevalente è quello di essere stati abbandonati da tutti. Il dottor Qadri ci dice che i rifornimenti medici attesi da Ramallah, capitale della Cisgiordania, non sono arrivati. Hamas e Fatah, che controllano la Cisgiordania, dovrebbero far parte di un governo di unità nazionale, ma recentemente l’alleanza politica ha mostrato segni di logoramento. “Abbiamo chiesto aiuto a molti organismi internazionali, ma finora abbiamo ricevuto solo promesse - dice Qadri - le medicine stanno per finire e anche le attrezzature scarseggiano. Metà della ambulanze sono inservibili per mancanza di benzina”. Mentre parliamo un ambulanza porta un altro piccolo ferito: Mohammed Abdulrahman Hatem: undici anni.

il Fatto 15.7.14
Spirale della violenza
Gli eccessi di Israele e la paranoia del nemico globale
di Furio Colombo

Ciò che accade è tragico e umanamente impossibile da accettare. Come il bombardamento di Dresda (ricordate Mattatoio n. 5?). Un carico di bombe israeliane, in una serie di attacchi che non finisce, continua a cadere su Gaza seminando morte e indimenticabili traumi quasi solo tra la popolazione civile. In ogni guerra (divenuta “moderna” nei terribili anni 1940-1945) ogni uso di mezzi offensivi delle nuove generazioni coinvolge soprattutto i civili. E lo stesso accade, come ha dimostrato l'accendersi di scontri in Ucraina, se fai avanzare “mezzi” (i nuovi mezzi) sul territorio. La guerra, con la potenza di questi strumenti, non si deve più fare. Adesso mettetevi nei panni di Israele. Non con questo governo, che fa scelte politiche e strategiche ispirate al rischio estremo, dunque discutibili, ma con i cittadini. Tutto intorno a loro l'idea antica e secolare è rimasta intatta: sono maledetti e se ne devono andare. Non perché, o non solo, quel territorio sia, per alcuni secoli, appartenuto ad altri. Ciò è avvenuto in decine di nuovi Stati. Ma è inaccettabile, qui, che siano venuti gli ebrei. Il problema non è se occupano troppo territorio. Il problema è che non devono occuparne alcuno. Ogni metro di terra su cui c'è un ebreo è ingiustamente occupato.
TUTTO IL MONDO che circonda Israele è un mondo di violenza e di morte, impegnato in massacri fratricidi (Siria, Iraq) e infinite divisioni che non coincidono con i confini (sciiti, sunniti, salafiti) e che non lasciano molto spazio per dialogare con un vicino indesiderato. Perché quel vicino, nel verbo di ciascuno di quei Paesi, dovrebbe essere distrutto (versione militare) o dovrebbe porre fine all'occupazione (versione diplomatica, dove per “occupazione” non si intendono i territori in Cisgiordania, ma tutto Israele). È vero, non dovrebbero esserci le “colonie” che già dal nome si pongono come una provocazione. Ma questo vale nel linguaggio delle diplomazie internazionali. In quello di tutto il mondo arabo le colonie sono da distruggere con tutti coloro che ci stanno dentro, per poi continuare e distruggere ciò che c'è alle spalle, e dunque tutto Israele. Si può anche ridere dei missili che vengono lanciati a centinaia e provocano paura ma nessuna vittima. Ridono di quelle armi giocattolo coloro che credono di sostenere i palestinesi denunciando lo spettacolo tremendo della morte e della fuga di massa, mostrando di non vedere che questa gente di Palestina è due volte vittima: di chi manda missili potenti e perfetti da Israele su Gaza. E di chi da Gaza inizia ogni volta un nuovo periodo di morte, mostrando di poter colpire Israele.
L’impegno e l’orgoglio di chi li lancia i missili imperfetti di Hamas , comunque, è di provocare una risposta terribile da mostrare al mondo, qualunque cosa costi in vite palestinesi. A questo punto la guerra asimmetrica si rovescia: è Israele il colpevole. I media del mondo offrono le prove, che sono spaventose. Ma il lancio di razzi (che, essendo inadeguati, vengono interpretati come una provocazione modesta, un “via, non esageriamo!”) continua, in modo che la reazione di Israele continui e appaia “sproporzionata”. Ed ecco lo spettacolo che giustamente ci sconvolge tutti. Però è indispensabile la domanda: come ne usciamo? Israele tace e si accontenta di notare che le armi di chi ha deciso la sua distruzione sono per ora imperfette e non portano ancora a termine il compito di punire e ripulire la terra araba. Una divisione fra nemici mortali e trattativisti (che salverebbero le vite dei loro connazionali ) non è neanche in vista. È vero, la durezza di Israele forse aumenta la compattezza, disperati in fuga si aggregano ai combattenti. Mettiamo che Israele taccia. Sarebbe un gesto grande e generoso, Ma qualcuno ricorda il comportamento di un Paese che ha salvato la vita del nemico giurato, lasciando esposte le vite dei suoi?
E poi non vi sembra che abbiamo trascurato la proclamazione del Califfato, se non altro come minacciosa e paurosa lettera di intenzioni ? L’agitazione per il Sionismo come il male del mondo continua a provocare fervidi scontri in Rete e nella stampa del mondo. E invece il Califfato viene preso come un racconto in più delle Mille e una notte, una variazione avventurosa sul tema del potere arabo dalla parte del mondo che possiede tutto in misura immensamente più grande di Israele, che ha solo la terra, i cittadini e le armi. È vero che sono troppe le bombe su Gaza perché tutte le bombe su mamme e bambini, su famiglie disperate e in fuga che non c'entrano niente e vivono e muoiono terrorizzate, sono comunque troppe. Però nel giudicare - ed è giusto giudicare - non cercate di non vedere l'intera, vasta, terribile scena, piena di morti ovunque si guardi, in tutta l'area. I morti non giustificano i morti, la pena non si confronta con la pena. Ma i fatti fanno luce sui fatti. La cosa terribile che sta succedendo non è il potente Israele contro gli spossessati di Gaza, ma Israele, per potente che sia, contro il resto del mondo. Perché il mondo occidentale, salvo buoni consigli, non c'è. La Giordania non sembra avere più respiro per fare da “Paese amico”. L'Egitto, che tradizionalmente interveniva e garantiva, non è più in grado di farlo. La Siria e l'Iraq sono due carnefici simmetrici di se stessi. E ciò che avviene nelle città conquistate da Isis, quando issa la bandiera nera, è il modello di ciò che accade dopo. Noi italiani, a differenza dei giorni di Prodi che ha fermato un pericolo enorme fra Israele e Libano, siamo estranei e assenti. Anche l'Europa lo è. Vogliamo continuare così e così, da lontano, voltando le spalle, buttar tutto il peso del giudizio negativo su Israele solo perché non lo hanno ancora ferito a morte?

Repubblica 15.7.14
L’Egitto: “Tregua subito e colloqui”
Hamas apre: “Siamo disponibili”
Netanyahu riunisce il suo gabinetto
di F. S.

GERUSALEMME. Non si ferma la guerra di Gaza, al settimo giorno i raid dei caccia israeliani sulla Striscia proseguono, il lancio di missili anche mentre nuove armi entrano nel conflitto. Ieri mattina le Brigate Ezzedin al-Qassam hanno lanciato un drone armato di missili contro il porto di Ashdod che dista solo una quindicina di chilometri da Gaza. Il drone si è schiantato su una spiaggia appena oltre il confine della Striscia centrato da un missile Patriot, anche se per la propaganda islamica ha invece colpito il cuore del comando militare israeliano a Tel Aviv. Ma uno spiraglio sembra aprirsi con la proposta di cessate-il-fuoco avanzata ieri sera dall’Egitto al vertice straordinario della Lega Araba convocato sulla crisi nella Striscia. La proposta di Al Sisi si basa sui principi della tregua del 2012, cioè la cessazione contemporanea dei raid e dei lanci di missili, la fine delle «eliminazioni mirate» dei leader integralisti, l’allentamento della morsa dell’embargo sulla Striscia. Ismail Haniyeh, il “premier” di Hamas a Gaza ieri notte dagli schermi della tv Al Aqsa ha annunciato che Hamas accetta «in via di principio» la proposta. Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che «condivide la proposta» - lo scrive Haaretz - e questa mattina presto chiederà al gabinetto di guerra del suo governo di approvarla.
L’impegno egiziano per la tregua potrebbe tirare fuori dai problemi anche Israele, che ha proseguito ieri con la sua campagna aerea - che avrebbe distrutto il 50% dell’arsenale - perché anche Netanyahu è consapevole di quali drammatiche conseguenze potrebbe una escalation e l’ordine di invadere la Striscia. Israele ieri aveva già tratteggiato le sue richieste per fermare le operazioni militari a Gaza: una soluzione “alla siriana”, cioè il disarmo di tutti i missili in possesso di Hamas e il loro trasferimento verso un Paese terzo. Il cessate-il-fuoco proposto ieri notte invece “congelerebbe” la situazione, lasciando gli arsenali di Hamas e degli altri gruppi islamisti ancora pieni. A molti non sembra quella “soluzione definitiva” che il primo ministro aveva promesso quando ha ordinato l’inizio dell’Operazione “Protective Edge”.
Dopo sette giorni di bombardamenti a Gaza è emergenza umanitaria, le devastazioni dei bombardamenti dal cielo e dal mare che martellano Gaza di giorno e di notte: i morti palestinesi in una settimana sono più di 180, oltre 1300 le case distrutte, diecimila quelle danneggiate, 30 mila gli sfollati nelle scuole dell’Onu, mezzo milione di persone sono senza acqua né elettricità.

La Stampa 15.7.14
Pressing dell’Egitto, tregua più vicina
Mediazione di Al Sisi: proposto un cessate il fuoco da oggi
Gli islamisti sono disposti a trattare ma chiede la riapertura dei valichi e la liberazione di 59 detenuti
di Francesca Paci
qui

Corriere 15.7.14
I poveri in Italia sono raddoppiati in quattro anni
L’Istat: oggi sono oltre sei milioni
di Alessandra Arachi

ROMA — C’è un male sottile in Italia che sta minando alle radici il nostro tessuto sociale: la povertà. Sta aumentando, di anno in anno. In quattro anni è addirittura raddoppiata, da 3,1 a 6,1 milioni di poveri, ci dice uno studio storico del Redattore Sociale. E l’Istat, dunque, ci segnala che oggi in Italia è una persona su dieci ad essere povera.
Il nostro istituto di statistica divide la povertà in categorie: quella relativa e quella assoluta. Quella relativa in un anno è rimasta sostanzialmente stabile, 3 milioni 230 mila famiglie, ovvero il 12,6 per cento del totale. Quella assoluta invece è drammaticamente aumentata: oggi si è toccata quota un milione e 206 mila famiglie, una percentuale del 9,9 per cento contro l’8 per cento dello scorso anno.
«Naturalmente tutta questa crisi è strettamente legata alla mancanza di lavoro e anche al fatto che le pensioni e gli stipendi sono ormai fermi da anni», sentenzia Carlo Dell’Arringa, economista esperto di questioni sociali. E spiega: «Non dobbiamo pensare che l’assenza di lavoro sia soltanto l’aumento della disoccupazione. Infatti se parliamo di occupazione part time, questa in un anno e addirittura aumentata di mezzo milione di posti. Ma parliamo, appunto, di occupazione part time, ovvero meno ora di lavoro e meno stipendio».
Aumentano i poveri in Italia e di conseguenza ci sono anche molti più bimbi indigenti, più minori: nel 2013 sono diventati un milione e 434 mila i poveri con meno di 18 anni, ovvero il 13,8 per cento del totale (contro il 10,3% del 2012).
La situazione più preoccupante è nel Sud del nostro bel Paese: il picco si registra in Sicilia e in Calabria, due regioni che insieme sommano un terzo dei poveri (relativi) di tutte le famiglie italiane, con rispettivamente il 32,5 e il 32,4 per cento di famiglie povere.
I valori più bassi si registrano invece nella provincia autonoma di Bolzano (3,7 per cento), seguita a ruota dall’Emilia-Romagna (4,5 per cento) e poi dalla Toscana (4,8 per cento).
«Il ministero delle Politiche agricole darà un sostegno agli italiani che soffrono di povertà alimentare», ha detto ieri Maurizio Martina, ministro delle Politiche agricole, segnalando che per quattro milioni di italiani che soffrono di povertà alimentare il suo dicastero ha previsto lo sblocco di dieci milioni di euro per la fornitura di pasta e farina da destinare agli enti caritativi .
Ha poi aggiunto il ministro Martina: «Con il ministero del Lavoro abbiamo elaborato un programma operativo di 450 milioni di euro fino al 2020 perché l’assistenza alimentare è una priorità assoluta».
Abbiamo raggiunto un record di povertà nel nostro paese, almeno relativo all’anno di riferimento del 2005. Ma non dobbiamo essere troppo pessimisti per il futuro, non necessariamente.
È di nuovo Carlo Dell’Arringa che ci fa un’analisi e apre un pochino alla speranza: «Alcuni indicatori ci fanno avere delle aspettative di una ripresa economica per la fine di quest’anno», dice e poi spiega che questa ripresa dovrebbe avere un trascinamento positivo nel prossimo anno. Aggiunge l’economista: «La ripresa potrebbe cominciare verso l’autunno-inverno di quest’anno e potrebbe portare una boccata di ossigeno nel mondo del lavoro, ovvero dare oggettivamente più lavoro alle persone». Non resta che sperare che sia tutto vero.

il Fatto 15.7.14
L’esercito degli invisibili
Triplicano i poveri: 6 milioni
Il Rapporto Istat: è indigente un italiano su dieci. E lo stipendio non basta più
di Carlo Di Foggia

Ci siamo sbagliati: nella grande crisi i poveri non sono raddoppiati, sono triplicati. Solo tre giorni fa la Caritas diffondeva una radiografia drammatica dell’Italia: 4,8 milioni di poveri “assoluti”, il doppio di quanti erano nel 2007, primo anno avanti crisi. La sintesi di uno sprofondamento verso la miseria elaborata però su dati vecchi, cioè quelli dell’Istat 2012: “Ma non ci sono indicatori tali da far ritenere che nel 2013 le cose siano andate meglio” si giustificavano i ricercatori della Cei. Infatti sono andate molto peggio. Ieri l’Istat ha fornito i numeri aggiornati: in Italia ci sono 6,2 milioni di persone povere, il 10 per cento della popolazione. Poveri “assoluti” non “relativi” (rispetto alla media degli altri). Questi ultimi rappresentano il 16,6 per cento dei cittadini: 10,4 milioni di individui. Nel giro di un anno il numero di chi non può permettersi una vita considerata “dignitosa” anche da un asettico contatore statistico è aumentato di un milione e 206 mila unità (per tre quarti concentrati al Sud), un incremento da far impallidire anche il rapporto della Caritas, che infatti ieri è stata costretta a ritirare il documento dal sito per aggiornarlo.
Sull base dei dati usciti ieri, se si continua così, alla fine di quest’anno l’esercito degli indigenti sarà quattro volte più numeroso che agli albori della grande crisi che dall’America ha investito l’Europa. Riassume l’Istat: “In Italia circa una famiglia su cinque è povera o quasi”.
LA PERCEZIONE SOCIALE del fenomeno - spiegano gli esperti
- non segue l'andamento disastroso dei bollettini economici. La povertà sembra invisibile. Quella “assoluta” – cioè non calcolata rispetto a una media – non è uguale ovunque, ed è slegata dal reddito. Un incapiente (sotto gli 8 mila euro lordi annui e dunque non paga tasse) che vive in un piccolo comune calabrese, per l'Istat non sempre è povero, come invece un suo omologo lombardo. Proprio per questo il segnale d'allarme che viene dal sud è doppiamente preoccupante. Non è quanto guadagni ma quanto puoi spendere che fa la differenza. Il costo della vita - quindi la spesa - frantuma l'Italia in due mondi: Nord-Sud, e piccoli-grandi Comuni (sotto i 50 mila o superiore ai 250 mila abitanti). Con una capacità di spesa 1.373,36 euro, una famiglia con due coniugi e un figlio a carico non sopravvive a Milano, mentre è fuori dall'indigenza a Catanzaro (dove per i ricercatori ne bastano poco più di mille) o Brindisi.
È il risultato di un complesso sistema di calcolo elaborato nel 1997 e aggiornato nel 2005: il paniere Istat, suddiviso in spesa per alimenti; abitazioni e “residuale” (cioè vestiti, trasporto ecc...) che stabilisce gli standard minimi di “dignità”. Già nel 1984, il Consiglio europeo spiegava che: “Dovrebbero essere definite povere le persone, le famiglie e i gruppi di persone le cui risorse (materiali, culturali e sociali) sono così limitate da escluderli dal minimo accettabile livello di vita dello stato nel quale vivono...”. L’Italia è stata tra i primi Paesi a provarci. La precisione è al dettaglio. Esiste addirittura una soglia di peso per i vari alimenti: per un maschio adulto del Nord, il pane non deve scendere sotto i 224 grammi giornalieri; per una spesa di 0,53 euro al giorno. Stesso discorso per le abitazioni (28 metri quadri minimi per un single e 42 per un nucleo familiare composto tra persone); i vestiti (un paio di scarpe, esclusi capi di lusso e spese di lavanderia e tintoria) e il trasporto (niente mezzi privati, solo pubblici). Un meccanismo complicato, ma che permette di capire il senso dell’espressione “povertà invisibile”. La statistica vede più e meglio la condizione sociale del Paese. La percezione si limita alla sola povertà estrema. E questo spiega anche il fallimento delle ricette messe in campo. Per evitare contestazioni statistiche, finora studi e ricerche si sono concentrati sulla povertà “assoluta”, trascurando quella “relativa”, che però è la vera misura della disuguaglianza di un Paese: sei povero se guadagni molto meno di chi ti sta intorno.
I poveri “assoluti” sono meno dei poveri “relativi”, ma è sui primi che sono calibrate le politiche di sostegno, che quindi risultano sempre inadeguate. Nel 2008 - governo Berlusconi (ministro del Tesoro Giulio Tremonti) - i fondi contro la povertà ammontavano a 2,5 miliardi di euro; in un lustro di tagli, nel 2013 - governo Letta - si è arrivati a soli 964 milioni, pochi spiccioli destinati alle famiglie, per le pari opportunità e le politiche giovanili. E i fondi per le politiche sociali mancano proprio dove più ce ne sarebbe bisogno, cioè Mezzogiorno e isole: si va dai 282 euro a persona di Trento ai 25 euro della Calabria. Al ministro del Lavoro Giuliano Poletti, il direttore della Caritas Francesco Soddu ha rinnovato la richiesta di una nuovo strumento che vada oltre “la miseria della social card” di Tremonti: il reddito di inclusione sociale. Uno strumento che costerebbe 7 miliardi di euro. La risposta di Poletti è stata articolata: “Abbiamo bisogno di costruire un’infrastruttura che ce lo permetta. Il nostro Paese non ha una dotazione tipo banche dati o elementi di analisi”. Tradotto: per ora non se ne fa nulla. E i poveri continueranno ad aumentare.

l’Unità 15.7.14
Due Italie sempre più lontane
di Nicola Cacace

I RECENTI DATI DELL’ISTAT SULLA POVERTÀ DELLE FAMIGLIE E QUELLI DELLA BANCA D’ITALIA SULLA RICCHEZZA DELLE FAMIGLIE MOSTRANO PLASTICAMENTE IL QUADRO DELLE DUE ITALIE che si allontanano sempre più per effetto della crisi e di meccanismi di diseguaglianze crescenti cui è difficile porre riparo. Renzi ci sta provando, coi tetti agli stipendi degli alti dirigenti e con gli 80 euro ai dipendenti. Troppo poco per la dimensione del gap e perché ci sono solo due modi per combattere le diseguaglianze, fisco progressivo e welfare inclusivo. Speriamo ci riesca, ma il tempo non gioca a favore, tra la gravità dell’oggi ed i tempi realizzativi di leggi e norme.
Il raddoppio della povertà assoluta tra 2007 ed oggi, da 2,4 milioni,4%della popolazione, a 4,8 milioni, 8% della popolazione, è un segnale di gravità assoluta, cui neanche i Media hanno dedicato l’attenzione dovuta. Solo in Grecia, in nessun altro paese Spagna inclusa, si è realizzato un peggioramento così netto della condizione sociale. Al cospetto di questi dati, se non si sono verificati sinora episodi significativi di violenza sociale, questo è dovuto alla funzione di aiuto a figli e nipoti esercitata da milioni di pensionati, quelli che godono di pensioni calcolate col vecchio metodo retributivo, che però, secondo la legge inesorabile del fine vita, si riducono di alcune centinaia di migliaia ogni anno. Gli esperti ritengono che almeno la metà dei 14 milioni di pensionati attualmente sostengono almeno 8 milioni di giovani e relative famiglie, consentendo loro una stentata sopravvivenza.
«Nonostante il calo degli ultimi anni, le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un’elevata ricchezza netta, pari a 7,9 volte il reddito lordo disponibile; tale rapporto è comparabile con quello di Francia, Regno Unito e Giappone e superiore a quelli di Stati Uniti, Germania e Canada ». Così commentava Bankitalia nel suo ultimo rapporto 2013 sulla ricchezza delle famiglie. Si noti che gli italiani sono più ricchi anche di paesi con Pil per abitante più alto. C’è un’altra peculiarità del dato italiano: l’elevata ricchezza di cui parla Bankitalia ha una sua caratteristica unica, è concentrata in poche mani, il 46% della ricchezza totale di 8.542 miliardi è posseduta da 2,4 milioni di famiglie, il 10% della popolazione, mentre l’ultima metà della popolazione ne possiede meno del 10%. C’è di più. Le due Italie , la maggioranza di poveri e ceto medio e la minoranza dei più ricchi, bravi e fortunati hanno reagito diversamente rispetto alla crisi, il potere d’acquisto della maggioranza si è ridotto molto di più della ricchezza reale e finanziaria. «Nel 2012 il valore della ricchezza netta complessiva è rimasto quasi invariato, dato che la flessione del valore delle attività reali (gli immobili, -3,5%) è stato in parte compensata da un aumento delle attività finanziarie (4,5%)» (BdI).
Di fronte al perdurare di una crisi feroce che colpendo duramente poveri e ceto medio mina le basi di convivenza civile e democratica, di fronte alla condizione di «ricchezza » di una minoranza, meritata sin che si vuole ma comunque realizzata anche grazie agli stakeholder del sistema paese, lavoro, territorio, ambiente, etc., la soluzione di chiedere un contributo straordinario - non chiamiamola più patrimoniale, come si suggerisce da più parti -, un contributo una tantum ai cittadini che possono per aiutare a non morire, donne, vecchi e bambini mi sembra una soluzione obbligata per una nazione che voglia continuare ad essere tale e non solo un declinazione geografica.
Perché rivolgersi alla ricchezza e non ai reddito come fatto in occasione di crisi passate (Giuliano Amato)? Perché la ricchezza in Italia è più facilmente monitorabile rispetto ai redditi, la ricchezza immobiliare è nel Catasto, la ricchezza finanziaria nella banca dati della Finanza.
Le formule di un contributo straordinario che potrebbe fornire qualche decina di miliardi sono molte. Una di queste, ripresa da Luca Landò su l’Unità, è di chiedere un contributo straordinario ai possessori di ricchezza superiore ai 2 milioni di euro, che sarebbero poco meno del 10% dei 24 milioni di famiglie totale. Un’aliquota media dello 0,5% darebbe un contributo straordinario medio di 10mila euro a famiglia, che non manderebbe fallito nessuno e potrebbe fornire a Renzi e Padoan una ventina di miliardi utili a tante cose, estendere il contributo degli 80 euro ad altre categorie in pena, pensionati, precari, partite Iva, stabilire sussidi per le famiglie povere, pari alla differenza tra reddito familiare e livello di povertà, etc. Molti autorevoli personaggi hanno in passato avanzato proposte simili, senza successo, da Pellegrino Capaldo a Luigi Abete, da Pietro Modiano a Vito Gamberale, a Carlo De Benedetti ed altri ancora, senza successo. Sinora né Renzi né i suoi hanno mostrato sensibilità al tema, con l’eccezione del responsabile economico Taddei, se ho ben capito alcune sue riflessioni. Ma, si sa, Spes ultima dea.

l’Unità 15.7.14
Dopo il ferimento di due africani
Raid e rivolte, Castel Volturno è una polveriera
Per tutto il giorno si sono fronteggiati abitanti e immigrati


Da una parte i bianchi, dall’altra gli africani. Da una parte il predominio dei clan camorristi, dall’altra i piccoli spacciatori che certe volte cercano di mettersi in proprio. A Castel Volturno la convivenza sociale è come una miccia sempre innescata. Basta un episodio di criminalità comune a scatenare l’inferno, le ritorsioni, e barricate. Ed è successo anche domenica sera, dopo un conflitto a fuoco nel quale sono rimasti feriti due nordafricani. È stato il clan di Cipriano a sparare, padre e figlio sono stati arrestati, ma subito dopo per strada è scoppiata la guerriglia. Gli immigrati hanno appiccato il fuoco ad alcune auto e hanno appiccato il fuoco al piano terra della villetta dei Cipriano. Ieri mattina i residenti si sono piazzati sulla Domiziana allo svincolo di Pescopagano con striscioni e posti di blocco, gli africani si sono schierati sul lato opposto, esattamente come era accaduto nel 2008, dopo la strage di camorra, con polizia e carabinieri nel mezzo e gli elicotteri che sorvolano la zona con la preoccupazione che la situazione degeneri. Un pugno di agenti delle Forze dell’ordine a fronteggiare una guerra. Sì, perché a Castel Volturno dove l’ex sindaco si è dimesso per minacce di mafia, l’esercito è andato via da sei anni. I rinforzi erano stati mandati da Maroni allora ministro dell’Interno; così come pattuglie di carabinieri e polizia sottratte ad altre parti d’Italia. Ma dopo la strage e il processo tutto è tornato come prima: i clan che spadroneggiano, gli immigrati arrivati per il lavoro stagionale con presenze massicce e i residenti sempre meno tolleranti. «Siamo stanchi - urlavano ieri - di dover subire vessazioni da parte di alcuni africani che evidentemente non sono qui per lavorare. Ci sentiamo abbandonati ». Dall’altra parte gli immigrati che hanno organizzato in sit in: «Noi non siamo bestie. Non vogliamo essere criminalizzati, l’altra sera due italiani hanno sparato contro due africani senza nessun motivo».
La guerriglia urbana è scattata domenica dopo l’ennesima sparatoria. Un raid punitivo deciso dai Cipriano e finito con due immigrati della Costa d’Avorio (30 e 37 anni) gambizzati e all’ospedale. Secondo le prime ricostruzioni i due immigrati sarebbero stati sorpresi a rubare nella società di Cipriano e sarebbe stato uno dei figli, Cesare, ad aizzare gli animi. Lo ha riferito uno dei feriti: «Ero in bicicletta a Pescopagano e avevo una bombola sulle spalle. Improvvisamente mi si è affiancato un vigilante con l'auto: era un ragazzo. Lui mi ha chiesto dove aveva preso la bombola e se l’avessi rubata, gli ho risposto di no, che era mia, ma lui mi ha aggredito. A quel punto è intervenuto un connazionale che passava di lì emi ha dato una mano. C'è stato un litigio, sono volati degli schiaffi poi però la cosa sembrava finita lì. Invece, dopo pochi minuti, il giovane è tornato insieme al padre con una pistola e hanno fatto fuoco». Dopo la sparatoria la comunità africana si sarebbe riversata per strada dando fuoco ai cassonetti e ad alcune automobili. Ne è nata una maxi rissa con le famiglie barricate nelle case terrorizzate. I due Cipriano, pare e figlio, rispettivamente 60 e 21 anni, sono stati arrestati con l’accusa di tentato omicidio, gli africani sono tornati a casa. Sembrava finita lì, ma invece ieri mattina il passa parola e la gente si è radunata sulla Domiziana per protestare. Non solo i residenti, ma anche persone che a Castel Volturno possiedono la seconda casa e che lamentano furti, saccheggi, degrado sociale. «Ci sentiamo abbandonati dallo Stato - dicono - . Non possiamo consentire che i neri facciano da padroni di casa».
Era già accaduto sei anni fa. Il 18 settembre del 2006 quando sei immigrati vennero ammazzati da un gruppo dei Casalesi guidato da Giuseppe Setola. Una strage organizzata a colpi di kalashnikov contro alcuni africani che avevano deciso di gestire in proprio il traffico di droga. Gli uomini dei Casalesi spararono nel mucchio uccidendo anche persone che non c’entravano nulla. Con Castel Volturno sotto i riflettori arrivarono i rinforzi e l’esercito. Ma adesso. Anche il sindaco Dimitri Russo è in allarme: «Qui lo Stato non c’è, le forze dell’ordine sul territorio sono pochissime e quelle che ci sono non riescono a controllare il territorio. Il fragile equilibrio tra italiani e immigrati a Castel Volturno si sta spezzando. Qui c'è una bomba sociale pronta ad esplodere». Dimitri Russo ha annunciato nei prossimi giorni un Consiglio comunale aperto alla cittadinanza. Castel Volturno conta 25mila abitanti e una popolazione immigrata di 2500persone. Quelle censite. Perché ci sarebbero altre 10mila stagionali che non compaiono nelle statistiche.
Ieri è intervenuto il ministro dell’Interno Angelino Alfano: «L’Italia è un Paese accogliente, ma non può accogliere tutti. Chiamerò subito il prefetto, i vertici delle forze dell'ordine, i sindaci per ragionare sulle azioni da avviare. Quando c'è uno sbilanciamento enorme tra presenze di immigrati e cittadini italiani, si possono determinare tensioni».

Repubblica 15.7.14
Barricate e minacce
Castel Volturno sull’orlo della guerra razziale

CASTEL VOLTURNO. La guerra è riesplosa. L’odio ha avuto ancora la meglio. Prima lo scontro di domenica sera: bianchi che sparano sui neri alla cieca, con il pretesto che li hanno visti rubare; e i neri che, in risposta, arrivano in massa come diavoli nella notte, a incendiare, distruggere, seminare terrore. Poi, il disordine e la paura che dilagano in piazza anche ieri: con blocchi stradali dei residenti da un lato, e degli immigrati dall’altro. E il caos, la tensione, il rischio di linciaggi temuti, o promessi, su entrambe le barricate. Avviene a Pescopagano, terra di nessuno tra i comuni di Castel Volturno e Mondragone, nel casertano. Le proteste isolano per ore la statale Domitiana, mandano allo sbaraglio migliaia di pendolari diretti verso sud o nord, per lavoro o vacanza. Il bilancio è di due uomini fermati da polizia e carabinieri: sono Giovanni e Cesare Cipriani, padre e figlio, 60 e 21 anni, accusati di duplice tentato omicidio dei due giovani della Costa d’Avorio. Indaga la Procura di Santa Maria Capua Vetere. Gli indagati raccontano che «i neri stavano rubando una bombola di gas»: avrebbero reagito male al richiamo dell’anziano, un ras del paese dai modi spicci e dalle opache relazioni, al punto da gestire da anni una società di vigilanza mai nemmeno autorizzata. Si attende la convalida del gip entro stasera. Le nuove tensioni, intanto, riaccendono la polemica sull’immigrazione. Forza Italia e Lega attaccano il governo. E il ministro dell’Interno Alfano avverte: «L’Italia è un Paese accogliente ma certo non può accogliere tutti».

Repubblica 15.7.14
Bianchi contro neri nella terra di nessuno
“Fate qualcosa o ci uccideremo a vicenda”
di Conchita Sannino

CASTEL VOLTURNO. Il sangue è ancora a terra, in via Lista. È il punto in cui la polveriera dei dimenticati, la Pescopagano dei nigeriani ghanesi senegalesi mischiati e nascosti tra i cittadini italiani, ha visto precipitare la pigra serata da finalissima Mondiale nella cupa fiammeggiante sommossa alla “Rodney King” casertana. E ora la striscia di Gaza di questa frazione di Castel Volturno toccata dal mare, a metà tra due comuni e nessuno Stato a curarsene, è divisa anche in due blocchi di protesta, che per la prima volta alzano le mani solo per ufficializzare l’odio, e in fondo la fatica e l’incapacità di andare avanti così. Da soli, con le loro leggi che non danno certezze e il loro dio che non risponde.
Il blocco Uno è dei bianchi, sulla Domitiana, sono loro a cominciare a mezzogiorno. Prima pochi uomini e ragazzi, poi le famiglie, poi perfino le signore dagli stabilimenti balneari più lontani ma accarezzati e sporcati dallo stesso mare. «Ma voi dite sempre che siete impotenti, che non potete fare nulla - grida un commerciante ambulante sulla ventina a un carabiniere - ma allora cosa aspettate? Che noi, a questi neri li uccidiamo e li gettiamo nelle terre? O volete che ci ammazziamo tra noi? Tanti povericristi africani ci sono, e io li conosco, ma gli altri rubano e fanno del male, fate pulizia»..
Il blocco Due si forma subito dopo, a centocinquanta metri, sulla Consortile. Sono tutti africani. Difendono quel sangue ancora a terra, di due ragazzi ivoriani, feriti domenica e per caso scampati alla morte. «Non è vero che quei nostri fratelli stavano rubando una bombola di gas - dice il più calmo - noi siamo guardati con disprezzo, con odio, ci insultano e poi vogliono i nostri soldi per fittare delle fogne e cercano la nostra manodopera e il nostro silenzio per i lavori più umili». È una ferita che ne apre altre e scava nuove trincee e si mischia a frustrazioni, inganni, degrado e sogni di perduta bellezza della Domitiana ridotta a enorme lager: per i poveri di ogni etnìa; e per i ricchi residui, alcuni neri e criminali, come i boss bianchi.
Così, lentamente, il paesaggio si è ripiegato sulla nuova geografia. E Castel Volturno, e il lembo di Pescopagano sono diventati dormitorio a cielo aperto di case o svaligiate e lasciate alla mercè degli immigrati che arrivano; oppure di ville super accessoriate e coperte di cancelli e vigilantes privati, ufficiali o clandestini. È qui dentro che c’erano i semi della loro “Rodney King”, come la rivolta che infiammò Los Angeles, dopo l’assoluzione dei poliziotti che pestarono “re Rodney”. Enrico Masiti, un impiegato, protesta: «Basterebbe che un paese civile si interrogasse sulle sue bombe sociali, sarebbe bastato fare una sola azione amministrativa esemplare all’anno». Patrizia Del Vacchio, artista che viene solo d’estate a rimettere i piedi nell’acqua che l’ha vista ragazzina: «Diciamo la verità: se non ci fossero stati i Cipriani, famiglia temuta, che “vende” la sua vigilanza a noi qui intorno, quanti sarebbero scesi in piazza? ». Già: imbarazzante la storia dei Cipriani, l’anziano finito in carcere è cognato del vicesindaco Pd di un comune vicino.
«Non ci sono innocenti, siamo tutti vittime, però la colpa è delle istituzioni», abbassa gli occhi Flora Giordano. «Pensare che venivo dall’età di nove anni, mio padre si innamorò di questo posto, fece comprare casa alle sorelle, agli amici. Ma ogni volta che torno, confronto quei ricordi con l’immondizia, l’abbandono e la terra dei dannati che vedo. E quanti furti, quante devastazioni: purtroppo sono loro, a compierle». Anna Musella confessa: «Io e mia madre ci trasferimmo qui anni fa. Sa che noi non lasciamo mai la villa incustodita? O esce lei, o esco io».
Perfino Angela, la ragazza sotto choc della famiglia Cipriani, l’adolescente che ha vissuto momenti di panico durante l’assalto dei neri, domenica, barricandosi in casa e implorando un vigile del fuoco di tenerle compagnia al telefono mentre quelli distruggevano e entravano al piano di sotto, perfino lei nonostante il suo punto di vista deve riconoscere e ringraziare l’aiuto che le ha dato un altro nero: «Scrivetelo per favore. Voglio ringraziare quel pompiere, e anche quell’africano ».
Ora che il ministro Alfano promette interventi e il presidente dei deputati di Sel, Arturo Scotto, replica: «Più diritti per tutti a Castel Volturno», è chiaro che la storia di questa polveriera dell’immigrazione è stata scritta anche con il sangue dei neri: di Jerry Masslo, dei sei ghanesi innocenti massacrati nel 2008 dalla stragista di Giuseppe Setola, superkiller dei casalesi. E di quel Jospeh Ayimbora, unico sopravvissuto, che nell’unica intervista non insultò i bianchi ma disse «Dio lavorava su di me mentre quelli sparavano». È la stessa teoria di abbandono e odii costruiti nel laboratorio delle scelte mancate, dell’accidia di governo, locale e centrale. È come quella striscia che è rimasta in via Lista, lo stesso muto filo di sangue.

il Fatto 15.7.14
Il regime italiano di Apartheid
risponde Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, dopo la sparatoria (colpiti alle gambe) contro due immigrati nei pressi di Castel Volturno, e la rivolta che ne è seguita (come due anni fa) mi sono convinta che, di fronte all'immenso problema dell'immigrazione, siamo il peggior Paese in Europa. Perché, invece, continuiamo a elogiare la nostra bontà sulla base di due o tre episodi belli e rarissimi?
Virginia

NOI CI SIAMO DIMENTICATI (e se ne sono dimenticati i giornali, i telegiornali, gli “approfondimenti”, che questo sfortunato Paese, che adesso è governato, come in un brutto racconto di Dan Brown, dal “Patto del Nazareno”, subito prima, e per quasi venti anni, è stato governato dalla legge Bossi-Fini, tra le più barbare che abbiano mai tormentato gli immigrati, compresi coloro cui sarebbe stato obbligatorio riconoscere subito il diritto di asilo). Grosso modo per tutti questi anni abbiamo offerto ai migranti arrivati vivi sulle nostre spiagge tre opzioni: la prigione subito (ricordate il reato di clandestinità?) l'espulsione, con trasporto forzato, a volte in Paesi sbagliati, data l'incompetenza e la mancanza di mezzi. E la scomparsa dentro il mondo del lavoro: paghe irrisorie ed enorme vantaggio per i numerosissimi imprenditori della disperazione. Castel Volturno è un caso esemplare, ma quel caso si estende in tutta Italia. E benché il numero dei nuovi venuti che restano in Italia sia il più basso in Europa, molti italiani son convinti (vedi Pagnoncelli sul “Corriere della Sera” del 14 luglio) che l'Italia sia invasa. Colpa di una politica ignobile o assente, colpa dei politici che tacciono per tenersi amica la Lega o gli elettori della Lega, colpa del totale silenzio del velocissimo governo Renzi che al problema degli immigrati non è ancora arrivato (non una parola). Ma, con un'ampia apertura che comincia in prima pagina sotto un grande fotocolor, e occupa gran parte di pag. 4, ci ha pensato l’“International New York Times” molto prima di questo nuovo dramma, il 16 giugno scorso. Elisabetta Povoledo, corrispondente in Italia di quel giornale, è andata a vedere che cosa succede non nelle campagne lontane, abbandonate alla gestione della camorra, ma a Roma. Li ha trovati. E nelle condizioni in cui li ha trovati, sono la prova dell'abbandono e isolamento totale in cui vivono, senza neppure una registrazione di base che permetta di rintracciarli gruppo per gruppo, o famiglia per famiglia, o persona per persona. Solo se compiono reati si materializzano e vengono cercati e, tentativamente, identificati. È vero che l'Europa, con un comportamento immorale, non vede e non sente. È anche vero che l'Italia non può far finta di non notare larghi insediamenti improvvisati in aree abbandonate, insediamenti che continuano a crescere senza che un solo ente, utile o inutile, della nostra burocrazia comunale o regionale (o di quel che resta delle province) abbia portato un solo asciugamano. Nella narrazione del “New York Times” vi sono i nomi e gli episodi toccanti di gente che aiuta e anzi inventa modi per essere utile, come mobilitare una scuola elementare per fare una grande colletta di spazzolini da denti e tubetti di dentifricio che poi vengono distribuiti all'accampamento più vicino. E c'è il racconto del Salaam Palace, un edificio abbandonato della periferia romana divenuto il luogo di vita e di sopravvivenza per le famiglie africane di questa ondata di arrivi. E c'è il racconto della clinica improvvisata che giovani medici (e studenti di medicina) hanno organizzato da soli nel pauroso luogo di abbandono. S'intende che stiamo parlando di persone e famiglie e gruppi che hanno diritto di asilo perché fuggono dalla guerra. S'intende che noi tutti sappiano che luoghi migliori e diversi di accoglienza sono stati smantellati quando il secessionista Maroni (da cui discende questo disastro umano) era ministro dell'Interno. Ma Alfano? Ma Renzi? Nessuno, quando si farà un po' di luce, potrà perdonare all'Europa la sua totale disattenzione. Ma neppure l'Italia potrà essere facilmente assolta da questo crimine. Si faccia avanti chi crede e dice che un Paese normale e civile non poteva fare diversamente, perché sarebbe costato troppo salvare e tutelare vite umane.

il Fatto 15.7.14
Armi spuntate contro il clero pedofilo
La commissione pontifica voluta dal papa è ancora in fase di rodaggio e si riunirà solo in ottobre
di Alessio Schiesari

Si chiama Pontificia commissione per la tutela dei minori il bastone (il copyright è più di Eugenio Scalfari che di Bergoglio) che Papa Francesco proverà a brandire a contro il clero pedofilo. Istituita lo scorso marzo, per guidarla il papa venuto dalla fine del mondo ha scelto – con uno dei suoi coup de théâtre – l’arcivescovo di Boston Sean O’ Malley, il rappresentante del clero statunitense che più di ogni altro si è schierato per la politica della tolleranza zero contro i pedofili. L’organo collegiale voluto da Bergoglio è composto da sei membri, tre uomini e tre donne. Tra queste c’è anche l’irlandese Marie Collins, abusata da un sacerdote all’età di tredici anni, che due anni fa denunciò il suo caso di fronte alle più alte autorità vaticane.
LA COMMISSIONE sarà pure un’arma, ma al momento è ancora piuttosto spuntata. Si è riunita due sole volte (ai primi di maggio e la prima domenica di luglio) e perfino la sua composizione è ancora sub judice. In molti infatti chiedono che venga ampliata e aperta anche a un maggior numero di membri extraeuropei, in modo da renderla pronta ad affrontare i casi e le segnalazioni provenienti da tutto il mondo. Al momento non è ancora chiaro come agirà: per dirla con il responsabile della comunicazione vaticana, monsignor Federico Lombardi, la commissione sta ancora definendo “gli statuti, il suo status e le sue finalità il modo di essere”, oltreché la possibilità di disporre di “un ufficio operativo stabile”. In altre parole, ancora non è chiaro cosa farà, come agirà e che poteri avrà. L’unico risultato ottenuto finora è stato l’incontro privato tra Bergoglio e sei vittime di abusi (equamente ripartiti tra Germania, Irlanda e Regno Unito), avvenuto lo scorso 7 luglio. Un segnale più chiaro della volontà di Bergoglio di fare pulizia senza reticenze è arrivata a fine giugno con la riduzione a stato laicale dell’ambasciatore della Santa sede a Santo Domingo, il nunzio apostolico polacco Josef Wesolowski (che ora rischia l’estradizione).
Tra gli altri spunti dell’intervista di Bergoglio a Repubblica che hanno avuto più eco a livello internazionale, c’è il dato sulla percentuale di preti pedofili all’interno della chiesa, che Bergoglio stima al due per cento. Tradotto in numeri assoluti, sarebbero quindi circa 8 mila i sacerdoti che si sono macchiati di abusi, su un totale di 414 mila. Prima di Bergoglio, la facoltà di giustizia criminale del John Jay College di New York aveva stimato una percentuale doppia, il 4 per cento, per il periodo tra il 1950 e il 2002. Un dato che sembra altissimo, ma che in realtà è simile a quello di altre categorie abituate a lavorare con l’infanzia.

Repubblica 15.7.14
I sacerdoti e i criminali
risponde Corrado Augias

Caro Augias, sono rimasto, come tanti, inorridito dalla scena di profanazione avvenuta a Oppido Mamertina. Dopo questo oltraggio inaudito fatto fare alla statua della Madonna delle Grazie portata in processione che si ferma ad omaggiare la casa di un capo mafia, sarebbe opportuno: l’allontanamento del parroco, il commissariamento del Comune di Oppido Mamertina, il divieto, impartito dal vescovo, di fare funerali o matrimoni religiosi ai capi mafiosi. Perché la Calabria capisca bene che la sceneggiata con la statua della Madonna che fa l’inchino ai mafiosi è solo offensiva nei confronti della madre di Gesù e va punita con l’allontanamento dai sacramenti e dal perdono di chi appartiene a queste organizzazioni criminali e non si pente. Sono persone che hanno scelto di dare la morte anziché il sacro rispetto della vita degli altri. Devono essere messi di fronte al rischio di essere davvero allontanati come forma di pressione, per aiutarli a non essere più vittime, ma, finalmente, credenti e liberi cittadini.
Francesco de Goyzueta -

Il brano sui rapporti tra le mafie e la Chiesa cattolica era, a mio parere, il più impressionante dell’intera conversazione tra papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Vero che c’è stato il precedente di Karol Wojtyla quando nella valle dei Templi di Agrigento (1993) lanciò il famoso grido “Mafiosi convertitevi!”. Quello rimase però un gesto praticamente isolato, al quale non seguirono comportamenti conseguenti da parte di autorità e rappresentanti della Chiesa. Né si può chiedere che tutti i parroci abbiano la statura morale e la tenuta eroica di preti come Pino Puglisi o Giuseppe Diana uccisi per la loro determinazione contro i criminali. Le intenzioni di Francesco sembrano diverse. Quando afferma: «La nostra denuncia della mafia non sarà fatta una volta tanto ma sarà costante», proclama un atteggiamento e un impegno che non hanno precedenti. Nel saggio La mafia devota di Alessandra Dino (Laterza) uno dei punti critici che venivano indicati era esattamente la divisione e l’incertezza di una Chiesa dalle molte anime, in cui l’opera dei sacerdoti impegnati a diffondere una pastorale antimafiosa si è spesso scontrata con l’atteggiamento condiscendente di altri religiosi. Una Chiesa divisa che rischia di mettere a repentaglio la vita dei sacerdoti che s’impegnano e, per un altro verso, si offre alle organizzazioni criminali che ne ricavano grande profitto in termini di strumentale legittimazione. Alle stesse conclusioni arriva del resto un altro saggio Le sagrestie di cosa nostra ( di Vincenzo Ceruso - Newton Compton editori) dove si legge che proprio su queste incertezze si fonda il convincimento di molti mafiosi di poter conciliare due attività: uccidere e pregare.

l’Unità 15.7.14
La svolta anglicana. Sì alle donne vescovo
di Roberto Arduini

Mettendo fine a mezzo secolo di discussioni e profonde divisioni sul ruolo della donna, la Chiesa anglicana ha approvato l’ordinazione delle donne vescovo. Si sono udite grida di giubilo, dopo che il sinodo generale, organo esecutivo della Chiesa Anglicana, riunito a York, nel nord dell’Inghilterra, ha approvato la svolta. Il «sì» è arrivato dopo una tripla votazione nelle tre differenti camere della Chiesa: la House of Bishops ha registrato 37 voti a favore, 2 contrari e un astenuto; la House of Clergy ha espresso 162 voti favorevoli, 25 contrari e 4 astensioni; per la HouseofLaity152 sì, 45 no e 5 astenuti. Già entro la fine del 2014 la Chiesa anglicana potrebbe ordinare le prime donne vescovo.
È la seconda volta che la Chiesa anglicana prova a introdurre questo cambiamento. Nel 2012 il voto fu bloccato per soli sei «no». In quell’occasione, la riforma passata alle due «camere » dei vescovi e del clero, ma fu poi bloccata in quella dei laici. Rowan Williams, allora arcivescovo di Canterbury (la seconda carica dopo la regina ma, nei fatti, la prima), disse che la Chiesa anglicana aveva perso un’occasione di «credibilità». Stavolta l’occasione non è stata mancata. «È un grande giorno per la Chiesa e per l’eguaglianza », ha fatto sapere il primo ministro David Cameron, favorevole alla riforma, sottolineando su Twitter la «grande leadership» dell’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby.
LE PRIME A FINE ANNO
Proprio Welby è il grande artefice della svolta. Grazie a lui, la Chiesa d’Inghilterra, casa madre della comunità anglicana di 80 milioni di fedeli in 165 Paesi, avrà entro la fine dell’anno il primo vescovo donna. Vescovi donne anglicane esistono già in altri Paesi (Stati Uniti, Canada, Irlanda e Australia), mala Chiesa d’Inghilterra era ancora ostile nonostante ci fossero già pastori donna: il primo «vicario» donna venne ordinato nel 1994. Ora rappresentano un terzo del clero. Molti preti e vescovi anglicani erano quindi ben consapevoli che il rifiuto di aprire alle donne vescovo in una chiesa che ha già nelle sue pastore un punto di forza, era diventato una posizione scomoda.
Così dopo la sconfitta del 2012, Welby e i suoi collaboratori hanno fatto di tutto per accelerare l’iter all’interno di un sistema che richiedeva tempi troppo lunghi. Lo scorso febbraio lo stesso Sinodo aveva approvato una procedura che riduceva da sei a tre mesi il periodo delle consultazioni sull’argomento nelle 44 diocesi inglesi. E il risultato è stato un successo: ben 43 diocesi hanno dato il loro via libera alle donne vescovo e soltanto una non è riuscita a esprimersi in tempo. Anche in questi giorni l’arcivescovo si era fatto sentire: dicendosi più volte «speranzoso» di vedere passare la riforma. Welby era intervenuto anche in tv per sostenere la riforma, alla trasmissione Andrew Marrshow per dire: «Spero che annunceremo la prima donna vescovo entro la fine del 2015». «È incomprensibile non averla approvata prima», ha detto dopo il voto. La sua scelta contava anche sull’appoggio del suo vice di fatto, cioè l’arcivescovo di York, John Sentamu.
Ora la riforma sarà dibattuto in Parlamento e avrà bisogno dell’approvazione di Elisabetta II, capo formale della Chiesa d’Inghilterra. Poi la riforma passerà il prossimo 17 novembre di nuovo all’esame del sinodo generale della Chiesa anglicana, che avrà il compito di vararla ufficialmente.
La riforma ha anche i suoi oppositori: soprattutto nell’ala più conservatrice della Chiesa anglicana ci sono molte resistenze alle nomine di donne vescovo. E la norma appena approvata ne ha tenuto conto, permettendo anche una scelta particolare per le parrocchie più tradizionaliste: quella di nominare, in caso di un vescovo donna, una figura maschile come alternativa. Il rischio è di creare due diversi livelli di episcopato, ma questo sarà oggetto delle prossime battaglie di Welby.
Nonostante tutto, già dal 2015 si potrebbe avere una vera è propria «ondata » di donne vescovo, perché diverse diocesi come quelle di Nottingham, Newcastle e Oxford dovranno rinnovare i loro vertici.

La Stampa 15.7.14
“Fatto grave che complica il cammino ecumenico”
Vian: crea problemi con cattolici e ortodossi
di Giacomo Galeazzi

Adesso le cose si complicano notevolmente». Al termine di un travagliato sinodo la Chiesa d’Inghilterra ha autorizzato la nomina di vescovi donne e in Vaticano ad analizzarne conseguenze ed effetti è il professor Giovanni Maria Vian, direttore dell’«Osservatore Romano» e storico del cristianesimo all’università «La Sapienza» di Roma.
Professore, questa svolta è la pietra tombale sul dialogo tra cattolici e anglicani?
«Chiaramente è una decisione che complica il cammino ecumenico. Il problema non è solo con Roma ma anche con le Chiese ortodosse e per di più la Comunione anglicana è divisa al suo interno».
È in atto una spaccatura?
«Sì. Per esempio, gli anglicani del sud del mondo, che sono ormai maggioranza, sono in larga parte contrari alle donne vescovo. È una questione seria che rappresenta un ostacolo sulla via dell’ecumenismo, ma certo non la sua fine».
Ciò significa che lo scisma d’Occidente non sarà mai sanato?
«È una storia che viene da lontano. Sono sviluppi che si erano già manifestati negli anni Quaranta e poi negli anni Settanta quando ci furono in alcune comunità anglicane asiatiche ordinazioni sacerdotali di donne».
Come sono i rapporti con Papa Bergoglio?
«Anche di recente il primate anglicano Justin Welby ha confermato vicinanza e apprezzamento per papa Francesco assicurando di voler proseguire il cammino di amicizia e di avvicinamento con la Chiesa di Roma. Da Giovanni XXIII gli incontri tra i vescovi di Roma e gli arcivescovi di Canterbury sono frequenti»
Come si è arrivati a questa svolta?
«È un problema interno alla Comunione anglicana che si dividerà ancor di più al suo interno. Ma con questa decisione il movimento ecumenico si complica anche nei confronti delle antiche Chiese orientali e di quelle ortodosse».
Quali possono essere le ripercussioni?
«Il sì alle donne vescovo è un passo e una scelta che non facilitano l’avvicinamento dottrinale. La speranza è che il processo vada comunque avanti».
In che modo si potrà rimettere in moto il dialogo «azzoppato» tra Roma e la Comunione anglicana?
«Per tenerlo in vita, l’ecumenismo spirituale e l’amicizia quotidiana tra cristiani di diverse confessioni dovranno crescere e superare le divisioni teologiche. Adesso, però, andranno chiariti alcuni punti fondamentali. Si è verificato un evento grave che rischia di riflettersi in maniera estremamente negativa sul secolare percorso verso l’unità di tutti i cristiani».

La Stampa 15.7.14
Accoltella l’ex moglie e si uccide
L’agguato sotto casa, davanti ai figli. Poi l’aggressore si butta sotto il treno
di Gianni Giacomino e Fabrizio Assandri
qui

La Stampa 15.7.14
Sempre più pillole nelle case ma gli italiani si curano male
L’allarme dell’Aifa: cresce l’uso inappropriato dei medicinali
di Paolo Russo
qui

La Stampa 15.7.14
Muore a 5 anni avvelenato dalle medicine della madre
La tragedia in provincia di Trapani. Il bimbo, senza che i genitori se ne accorgessero, avrebbe assunto farmaci risultati poi letali
qui

La Stampa 15.7.14
Renzi anticasta
di Mattia Feltri
Matteo Renzi è nella casta ma è fuori dalla casta. Anzi è anticasta ma non è il solito anticasta. È anche del Pd ma non è il solito leader del Pd. E così è garantista ma non il solito garantista e sta con la magistratura ma non come i soliti che stanno con la magistratura. È per l’Europa ma non è il solito europeista e contro l’Europa ma non il solito antieuropeista. In fondo è il premier ma non è il solito premier. Si insinua il sospetto che invece noi siamo proprio i soliti deficienti.

il Fatto 15.7.14
Il boy scout che compulsa e sa tutto a memoria
“POLO VIOLA, jeans, sneakers, il presidente del Consiglio è loquace e sarcastico come sempre: ‘Scusi se la ricevo così, ma tanto qui il sabato mattina non c’è nessuno’. Lui c’è. (...) Ha l’aria di uno che ha fatto le ore piccole. Ed effettivamente è così. Si è svegliato alle cinque del mattino per leggere il suo livre de chevet, ‘la mia lettura quotidiana’, lo chiama lui, il libro che ha sempre sotto mano e che ieri mattina troneggiava anche sulla sua scrivania: il riassunto del bilancio dello Stato, voce per voce. Lo compulsa (da solo) quotidianamente e con Pier Carlo Padoan, Carlo Cottarelli e i loro rispettivi staff settimanalmente. Lo sa quasi a memoria”. (Maria Teresa Meli, Corriere della Sera, 13 luglio)
L’agenzia Stefani è stata la prima agenzia di stampa italiana. Nel 1924, con Mussolini, divenne il megafono del regime. Fu chiusa nel 1945.

Corriere 15.7.14
Da Fonzie a Eataly
In un libro-dizionario il mondo del leader
di Pierluigi Battista

La velocità sembra essere il tratto costitutivo del renzismo. Ora, con altrettanta velocità di esecuzione, arriva il dizionario del renzismo. Si intitola «Il Renzi» (Editori Internazionali Riuniti), come vengono chiamati dagli studenti i vocabolari e i dizionari. Ma non è un tomo pesantissimo. È una griglia di voci, dalla A di «Adesso» («la cifra dell’azione politica di Matteo Renzi») scritta da Sofia Ventura alla Z di «Zavorra» per la penna di Carlo Bertini, che, coordinate da Mario Lavia, sono quelle di tanta parte del giornalismo politico italiano, chiamato a decifrare, senza lunghe attese, il fenomeno che ha sconvolto la politica italiana in pochi mesi. Ora tutto sembra soffiare a favore di Renzi ma, come nota Lavia, «la “fortuna” di Machiavelli non è mai dalla tua parte una volta per tutte». Perciò vale la pena fissare come in un’istantanea l’insieme delle parole e delle figure che danno il tono del renzismo e che permettono di interpretarne i gesti. Si va dunque, in ordine alfabetico, dal «Baricco» secondo Jacopo Iacoboni «la vera, autentica mente della filosofia-Leopolda», al «Bipartitismo», visto che secondo Laura Cesaretti «la sintesi, la mediazione, il compromesso, il consociativismo» non fanno per Renzi. Ecco «Boy scout», lo scoutismo secondo Marco Damilano: «La sua Frattocchie, un’Ena in calzoncini corti, una scuola di leadership», e quando Renzi disse «pongo il mio onore nel meritare la vostra fiducia» volle formulare «un codice di riconoscimento» con il giuramento degli scout. Nella voce «Cattolici» lo stesso Damilano ricorda la partecipazione di Renzi al Family Day nel 2007, un’appartenenza un tempo rivendicata, che tende a «scolorire», a «evaporare». Il «Giuliano Da Empoli» descritto da Marianna Rizzini, è più di un consigliere del Principe, giacché «non ha vezzi snobistici da “sinistra che non si sporca le mani”». Il «Decisionismo» renziano di Fabio Martini si nutre del «senso di colpa degli interlocutori, che finiscono per sentire sulle proprie spalle il peso di tanti dinieghi e delle tante non-scelte dei quali nel passato si è resa protagonista la politica nel suo complesso». Importante «Eataly» di David Allegranti, giacché il «gastronauta» Oscar Farinetti «sul palco della Leopolda ha tenuto interventi jobsianamente foolish e anche hungry». Decisivo «Elezioni» di Maria Teresa Meli, che ricostruisce la storia del blitz che ha fatto diventare Renzi premier dopo aver defenestrato Enrico Letta: «Approdato a Palazzo Chigi, mancava ancora un dettaglio perché Renzi potesse considerare il suo piano ben riuscito: far dimenticare al popolo del Pd le modalità di quel così poco ortodosso passaggio di consegne», obiettivo che sembra sia stato raggiunto con il clamoroso 40,8 per cento delle elezioni europee. Poi il giubbotto da «Fonzie» di Stefania Carini, «la pelle della politica pop». La «Leadership» di Alessandra Sardoni, in un mondo dove «aspirare al potere, al ruolo di capo era sempre stata un’ambizione indicibile, da dissimulare tra machiavellismi e scaramanzie». C’è «Montecitorio»: secondo Salvatore Merlo Renzi «sembra disprezzare la vita misteriosa della vita parlamentare, fatta di gesti vaghi, carriere vaghe, incarichi vaghi». C’è «Palude» di Lucia Annunziata, «il grido di guerra del renzismo». Il «Partito» di Francesco Cundari, che descrive in Renzi la «continua ostentazione della propria diversità» fino a diventare «posa sdegnosa». I «Professoroni» di Daniela Preziosi, fulcro della «polemica anti-intellettuale» di Renzi che trasforma un mestiere, «professore» in una «maschera da commedia dell’arte». Le «Renziane» di Elisa Calessi: «Per loro non esiste la questione della donna, esiste la questione del lavoro, del merito, della scuola». Praticamente una rivoluzione. L’ennesima. Da ordinare in un dizionario.

Corriere 15.7.14
Concretezza e capacità di delegare antidoti (scout) contro gli autoritarismi
di Mauro Magatti

Con la velocità e la determinazione di cui è capace, Renzi batte quotidianamente il tempo del cambiamento: il Senato, la legge elettorale, il terzo settore, la riforma della Pubblica amministrazione, il jobs act sono i tanti temi che si rincorrono nell’agenda politica. D’altra parte, come ha ripetutamente affermato, la sua strategia è dimostrare al Paese che cambiare si può. E gli italiani si augurano che ce la faccia.
Così, grazie alla legittimazione elettorale di cui dispone, Renzi gioca la sua leadership forzando la mano a una classe politica riluttante. E questo lo fa a suon di ceffoni. Cosa che gli accresce il consenso popolare e insieme l’astio di chi si sente messo all’angolo.
È normale che, in un Paese complicato come l’Italia, chi vuole cambiare sia tacciato di autoritarismo. E non è difficile capire che, dietro a questa accusa, si celano spesso invidie e resistenze. D’altra parte, il fatto che Renzi, non richiesto, si sia sentito di rispondere a questa critica che sta nell’aria, è segno che si tratta di un punto sensibile.
In realtà, l’Italia si trova oggi in una situazione singolare: al di là dei meriti del capo del governo, è come se l’intero Paese, esausto e sfiduciato, si fosse consegnato nelle mani di un uomo solo. Non è la prima volta che ciò accade nella nostra storia. Ciò, se da un lato dà al premier uno spazio di azione straordinario, dall’altro nasconde una sottile insidia: quanto più fragorosamente si disgregano assetti istituzionali ed equilibri di potere, tanto più velocemente si riforma, attorno al capo, in modo informale e caotico, una nuova corte — fatta non solo di singole persone ma anche di gruppi di potere — che ha tutto l’interesse a sfruttare a proprio vantaggio la situazione. Ciò, oltre a produrre quel sapore autoritario, rischia di cancellare la critica, deprimere la competenza, far perdere lucidità decisionale, scardinare le istituzioni.
Nell’educazione scout in cui è cresciuto Renzi, i temi della leadership e della promessa sono centrali. Provenendo dalla stessa matrice culturale, mi permetto di riprendere due sottolineature di quel mondo, utili per superare la situazione nella quale Renzi rischia di impantanarsi.
La prima è che «autorità» viene dalla stessa radice della parola «autore», che significa «colui che fa accadere». Per questo, l’autorità è legittima solo se è autentica. Cioè se fa quello che dice. Se mantiene le promesse. Renzi lo continua a ripetere. Quasi ossessivamente. Perché sa che, nella condizione in cui si trova — quasi dovesse tirare un calcio di rigore — non può fallire. Dimostrata la sua bravura nello sfondamento, il premier si misuri ora sulla congruenza di un disegno di riforma complessivo — che non è proprio facile scorgere — e sulla concretezza dei risultati ottenuti. Nel mondo reale e non solo negli atti parlamentari. Avendo la pazienza di curare fin nei minimi dettagli la realizzazione delle riforme annunciate e l’umiltà di circondarsi dei migliori che gli possono dare una mano nel centrare l’obiettivo.
La seconda sottolineatura è che l’autorità diventa fattore di cambiamento vero e duraturo solo se, assumendosi le proprie responsabilità, è al contempo capace di «autorizzare». Cioè se è capace di non cedere alla angoscia del controllo che porta all’accentramento. Che alla fine blocca il cambiamento. Nella fase di costruzione, non basta battere il tempo; occorre delineare un’armonia che permetta la mobilitazione diffusa e coerente delle tante energie propulsive presenti nella società. Autorizzando, cioè, tanti altri, nei diversi campi della vita sociale, a diventare protagonisti della vita del Paese. È su questo secondo aspetto che si vedrà se la deriva statalista potrà dirsi davvero archiviata.
A chiederlo è peraltro il tempo che viviamo. Uomini soli al comando possono servire per aprire varchi nuovi. Ma per costruire e cambiare davvero, per rianimare un’intera società, occorre saper decidere delineando il senso di un cambiamento di cui sia possibile condividere con altri le aspirazioni e le ragioni. Che vengono prima e vanno oltre la persona del leader. E di cui egli porta, solo provvisoriamente, la responsabilità.
Il premier ci rifletta. È sulla sua capacità di qualificare in modo più articolato la propria leadership nella nuova fase apertasi a seguito del salto che egli stesso ha consentito all’Italia di compiere, che si giocherà il suo e il nostro futuro.

Repubblica 15.7.14
Una libertà contraddetta
di Alessandro Pace

LEGGO su Repubblica che oggi Matteo Renzi si presenterà all’assemblea del gruppo dei senatori del Pd, per un discorso “da coach”. «Poi - annuncia il vice capogruppo Giorgio Tonini - ci sarà un voto, e sarà impegnativo per tutti. Perché esiste l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà dei parlamentari dai vincoli di mandato, ma esiste anche la coerenza dei comportamenti. Ognuno si assumerà le proprie responsabilità». «Nessuna minaccia di espulsione, ribadisce Tonini, ma chi accusa Renzi di portare avanti un progetto autoritario ed eversivo si troverà a fare i conti con le sue stesse parole».
Eppure circa un mese fa, quando vennero sostituiti d’autorità, nella commissione Affari costituzionali del Senato, i senatori Mauro e Mineo, fu garantito loro e agli altri 14 “dissidenti” che, per i lavori in aula, diversamente da quelli in commissione, l’art. 67 sarebbe stato rispettato. Una tesi, questa, evidentemente contraddittoria, perché se l’art. 67 deve essere rispettato quando c’è in gioco la libertà di coscienza del parlamentare, il rispetto dovrebbe essere dovuto non solo in aula ma anche in commissione.
A quel ragionamento contraddittorio, ora si aggiunge quello parimenti contraddittorio del senatore Tonini, secondo il quale la libertà dei parlamentari dai vincoli di mandato è bensì garantita dall’articolo 67 della Costituzione, ma i parlamentari risponderanno per i loro comportamenti.
Un modo di ragionare alquanto datato, che si riscontra infatti in talune dichiarazioni costituzionali a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, le quali, se da un lato riconoscevano la libertà di parola e di stampa, dall’altro ne consentivano però la punizione dei pretesi abusi. Ma le proclamazioni di libertà delle Costituzioni della metà del secolo XX - come la nostra - hanno un ben diverso spessore e una indiscutibile maggiore efficacia.
In forza delle loro proclamazioni, dal riconoscimento di un diritto segue infatti l’impossibilità giuridica di conseguenze pregiudizievoli, siano esse penali, civili e disciplinari.
Ho già in altra sede sottolineato come la presentazione, da parte del Governo, del disegno di legge costituzionale di riforma del Senato e dei rapporti tra Stato e Regioni sia stato un errore, perché ha finito per ricondurre alla logica dell’indirizzo politico di maggioranza la stessa revisione costituzionale, che risponde invece ad una logica ben diversa e assai più alta.
Ebbene, le conseguenze pregiudizievoli di questa errata impostazione sono ora sotto i nostri occhi. Si giunge a minacciare i senatori Pd (a dover “fare i conti” con le loro stesse parole) se, per difendere i valori della vigente Costituzione, dovessero dissentire dalla riforma Renzi. Con il che, per il senatore Tonini, la riforma Renzi, ancorché tuttora approvata solo in commissione, varrebbe di più della Costituzione italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
Duole constatare che, mentre si fanno avanti i garanti della futura riforma, tacciono i garanti della Costituzione vigente.

il Fatto 15.7.14
Il Senato si suicida
Palazzo Madama, la riforma arriva in aula superblindata
Imbarazzo di Grasso al vertice di un’assemblea in via d’estinzione: “Sembro un capotreno di un treno in corsa”
Il voto finale la settimana prossima
Renzi: “Vedrò i 5Stelle”. Ma il patto con B. non si tocca: il premier studia sui dossier di Verdini
I capponi di Matteo meditano vendetta sull’Italicum
Dissidenti rassegnati alla prima sconfitta. Mineo sarcastico: “se il premier dura mille giorni abbiamo l’indennità per altri tre anni”. I grillini contro la “dittatura”
di Fabrizio d’Esposito

I senatori capponi iniziano a votare il loro Natale che è metà luglio ed è l’anniversario della Rivoluzione francese. A Palazzo Madama le luci sono accese anche se è mattinata piena. I tendaggi, antichi e pesanti, sono tirati fino a giù. Non si respira il senso della resistenza all’abbattimento del Senato e del bicameralismo perfetto. Piuttosto rassegnazione e malinconia, se non tristezza. A partire dal presidente dei capponi, Pietro Grasso che preferisce la metafora ferroviaria: “Mi sento come un capotreno che fa salire la gente su un treno in corsa che sta partendo”. Metafora un po’ bugiarda. Perché per i capponi di Renzi non ci sarà posto sui treni del futuro.
Il mancato tweet malevolo
di Corradino il frondista
Il senatore cappone Corradino Mineo è uno dei frondisti più famosi del Pdr, il Partito democratico renziano. Avanza per il Transatlantico e si piazza nei pressi di un busto glorioso, quello di Giuseppe Garibaldi. Dai Mille dell’eroe dei due mondi ai Mille del premier. Dice Mineo: “Io voglio bene a Matteo, credimi, altrimenti stamattina avrei fatto un tweet malevolo dopo aver ricevuto questo sms”. Segue lettura del messaggino: “Domani sera assemblea dei senatori Pd. Odg: i mille giorni di Renzi”. Ecco il mancato tweet malevolo di Mineo: “Mille giorni sono altri tre anni di indennità per tutti”. Silenzio. Il senatore-giornalista della dinastia dei ribelli Min (Min come Mineo e l’azzurro Minzolini) scuote il capo rassegnato più che arrabbiato. La battuta malevola si riferisce all’ultima ferita inferta da Renzi ai presunti conservatori. “Lo fanno per l’indennità”. Schiaffi su schiaffi da un premier che non ha nemmeno l’età per sedere qui, tra stucchi, luci e ritmi che rimandano a un’Italia ottocentesca. Anche Maria Elena Boschi non ha l’età. Eppure è lei la madrina costituente che traballa su tacchi-trampoli di altezza dodici.
Quattro gatti in aula, si muore senza passione
La nuova era renziana cambia verso alla Costituzione e l’incipit è un lunedì mattina da deserto dei Tartari. In aula sono “quattro gatti”. Testuale, da un intervento grillino. Ci sono il Movimento 5 Stelle, la Lega e poi tanti vuoti. Un commesso fa la spola tra la buvette e l’aula di Palazzo Madama. All’andata ha un vassoio con dodici bicchieri di cristallo, vuoti. Al ritorno ha in mano cinque bottiglie d’acqua, vuote. Conclude Mineo: “Sono tutti già rassegnati. Adesso è il momento delle parole in libertà, alla fine questa riforma scritta con i piedi sarà votata. I nominati metteranno il cavallo dove vuole il padrone. Anzi, i due padroni”. Il Senato sembra destinato a morire senza passione, senza enfasi. Pochissimi, per il momento, gli scatti in avanti. Calderoli, con una mano ingessata, si autodefinisce, da relatore di maggioranza, come un “serial killer con una pistola carica”. Riuscirebbe a sparare nelle sue condizioni? Il grillino Nicola Morra cita Alberto Sordi. Per la precisione il marchese del Grillo: “Perché io so’ io e voi nun siete un cazzo”. Destinatario, manco a dirlo, il premier pigliatutto.
L’ammissione dei bersaniani: “C’è il rischio autoritario”
Si evocano altri sinistri ventenni (plurale di ventennio), dittature e autoritarismi. Tra i capponi c’è chi si emoziona come Doris Lo Moro del Pd: “Esprimo una profonda sensazione, non dico di inadeguatezza ma di emozione per il ruolo che stiamo svolgendo”. Federico Fornaro è un altro cappone del Pd. Bersaniano, non frondista. Sono due categorie diverse. Sostiene: “Non mi sento un tacchino, sono sereno, stiamo attuando un passaggio delicatissimo, la riforma più grande dal ’48. E l’abolizione del Senato faceva già parte del programma dell’Ulivo”. Epperò. Un pericolo c’è. Lo ammette: “Con un Senato di cento persone elette in secondo grado e una Camera di 630 nominati c’è il rischio di una deriva autoritaria”. Parole che, lette in controluce, indicano forse il vero fronte trasversale della resistenza: l’Italicum, cioè la legge elettorale. Malpancisti, contrari, semplicemente non renziani assomigliano a una squadra che ha già perso la prima partita e pensa alla prossima. Perché per evitare una Camera di nominati ci sono solo le preferenze. Di qui i proclami sussurrati di riscosse da attuare nelle prossime settimane. Capponi sì ma fino a un certo punto. Se l’Italicum passa subito, i capponi perdono anche i tre anni di indennità promessi dai mille giorni renziani.
La “riforma prostituzionale” e l’appello del Condannato
Alle 16 e 40, in aula sta parlando la grillina Blundo. Grida contro la “riforma prostituzionale” e termina con “abominio”. Paolo Naccarato, eterno cossighiano, vaga in Transatlantico. Da poco ha lasciato gli alfaniani di Ncd ed è ritornato tra gli autonomisti di Gal: “Non c’è una totale consapevolezza di essere capponi. Si prende atto che il processo riformatore è ineluttabile. La prima lettura la possiamo dare per scontata”. Ma le altre? “Dipende dalla tempistica e dal merito della legge elettorale”. Tranne un paio di “incidenti” che potrebbero accadere in questa settimana, il fronte bellico che verrà è l’Italicum. Appunto. Sempre che venerdì 18 il processo d’appello per Ruby non ribalti tutto. La citata “riforma prostituzionale” se non altro mette insieme due fattori che s’incrociano. Indovinate quali.

Corriere 15.7.14
La faccia nascosta di una Riforma
Fine silenziosa del referendum
di Michele Ainis

Le Costituzioni invecchiano, come le persone. Però, a differenza di noialtri, possono ringiovanire, bevendo un elisir di lunga vita. È a questo che serve ogni riforma, a proiettare nell’attualità un testo figlio dell’aldilà, di un’altra stagione della storia, affinché continui a rispecchiare lo spirito del tempo. E che faccia ha il nostro spiritello? Quella di chi va di fretta, sicché detesta le lungaggini della democrazia parlamentare, tanto più se rallentata da due Camere gemelle. Dunque la revisione del Senato gli strapperà un sorriso, come del resto il rafforzamento del governo, liberato dal ricatto della doppia fiducia. Qui e oggi, il nostro umore collettivo esige decisioni rapide, governi stabili, politici senza privilegi. Di conseguenza l’indennità zero per i nuovi senatori offre un’altra occasione per sorridere: e tre.
Ma questo spiritello ha anche voglia di passare dall’altro lato dello specchio: vuole decidere, oltre che guardare. Da qui la crisi delle assemblee parlamentari, che peraltro è un fenomeno mondiale, non solo italiano. Negli Usa Benjamin Barber propone di rimpiazzarle con i sindaci, la Primavera araba le ha sostituite con le piazze, in Europa il ritiro della delega s’esprime con la diserzione dalle urne e con la domanda di democrazia diretta. Ecco perché ovunque si moltiplicano le consultazioni online dei cittadini, sugli argomenti più svariati. Ed ecco perché i referendum sono in auge dappertutto: fino al 1900 ne vennero celebrati 71; nel mezzo secolo successivo se ne aggiunsero altri 197; ma nel mondo si sono tenuti 531 referendum dal 1951 al 1993, e ormai sono innumerevoli, non basta il pallottoliere per contarli.
Su questo versante, tuttavia, la riforma nega un’iniezione di gioventù alla nostra Carta. Anzi: le dipinge in viso un’altra ruga. Sta di fatto che gli unici due strumenti introdotti dai costituenti furono le leggi popolari e il referendum abrogativo. Sennonché le prime si sono rivelate altrettante suppliche al sovrano, che non le ha mai degnate d’uno sguardo; il secondo è stato generato con 22 anni di ritardo, senza mai diventare adulto. Avremmo potuto attenderci qualche correzione nel progetto del governo: macché, silenzio tombale. Poi ha parlato la commissione Affari costituzionali del Senato, e avrebbe fatto meglio a stare zitta. Perché ha quintuplicato le firme necessarie sulle leggi popolari (250 mila), in cambio di un occhio di riguardo. Ma è un occhio finto: quelle leggi verranno esaminate «nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari». E senza la possibilità di trasformarle in referendum propositivi ove le Camere restino silenti, come suggerì a suo tempo la commissione dei 35 esperti insediata dal governo Letta.
E il referendum abrogativo? In pratica, abrogato. Scende di qualche gradino il quorum, però anche in questo caso salgono le sottoscrizioni: da 500 mila a 800 mila. Mica poco, se esercitiamo per esempio la memoria sull’insuccesso dei 12 referendum radicali, depositati l’anno scorso in Cassazione; il migliore (quello sulla responsabilità civile dei giudici) si è arrestato a 421 mila firme, eppure li aveva sottoscritti tutti e 12 pure Berlusconi.
Significa che già adesso, per allestire un referendum, serve un movimento organizzato e ben determinato. Significa perciò che da domani il referendum sarà un’arma a disposizione dei partiti, non dei cittadini. Degli eletti, non degli elettori.
Anche perché ormai l’autocertificazione è legge, la Pubblica amministrazione s’affaccia dallo schermo dei computer, ma per ogni referendum bisogna raccogliere le firme su carta e alla presenza di un pubblico ufficiale. E il voto elettronico? Usato in Belgio, in Austria, in Irlanda, in Svizzera, in Estonia (dove l’accesso a Internet è garantito dalla Costituzione), usato in India come in Messico e in Brasile, in Florida come in Arizona. Usato dall’Unione Europea per sottoscrivere le leggi popolari (e qui peraltro bastano un milione di firme, lo 0,2% della popolazione complessiva). In Italia, viceversa, i governi ci chiedono d’accendere il computer per esprimere pareri (dal valore legale della laurea alla spending review , dalla giustizia alla burocrazia), mai per timbrare decisioni.
D’altronde, in futuro, ci resterà ben poco da decidere. Con questa riformulazione, il referendum potrà colpire intere leggi o singoli frammenti, purché «con autonomo valore normativo». Traduzione: stop ai referendum manipolativi, quelli che cancellavano una virgola di qua, un avverbio di là, trasformando il significato della legge, e trasformando perciò il referendum abrogativo in propositivo, benché negato dai costituenti.
Con le nuove regole, il quesito elaborato da Segni nel 1993 verrebbe dichiarato inammissibile; eppure quel quesito aprì l’era del maggioritario, inaugurando la Seconda Repubblica. Ma evidentemente i nostri politici ci si sono affezionati, non vogliono correre il rischio di precipitare nella Terza Repubblica. Contenti loro, scontenti noi.

Corriere 15.7.14
I documenti scomparsi sui costi della politica
di Riccardo Puglisi

Dove sono finiti i 25 documenti Pdf che contengono le relazioni finali dei gruppi di lavoro della spending review di Cottarelli? Questi file sono stati consegnati all’inizio di marzo, ma sembra che siano rimasti chiusi in qualche (virtuale) cassetto. Esperienza personale: io stesso ho fatto parte di uno dei gruppi di lavoro — quello dedicato all’analisi dei costi della politica —
e ricordo la data di consegna. Eppure posso leggere il documento
solo andando a ripescarlo dal mio computer.
Né io, né nessun altro, può leggerlo nel sito internet dedicato alla revisione della spesa.
Facciamo un passo indietro. Ho il sospetto che la famosa frase di Margaret Thatcher, premier britannico dal ‘79 al ‘90 — «Non esiste il denaro pubblico, esiste soltanto il denaro dei contribuenti» — trovi sempre più consensi in Italia, a motivo dell’asfissiante livello di pressione fiscale raggiunto. Il denaro dei contribuenti finanzia nel nostro Paese una spesa pubblica che sembra difficile da domare, specialmente nella sua parte corrente, cioè al netto degli investimenti.
Con un anglicismo forse superfluo, il processo di revisione della spesa pubblica è noto dalle nostre parti come spending review . Esso viene delegato a commissioni tecniche, le quali devono identificare i capitoli di spesa meno giustificabili dal punto di vista sociale, e le sacche di inefficienza che non hanno nessuna giustificazione. Lo scopo finale è naturalmente quello di creare gli spazi per una riduzione consistente della pressione fiscale di cui sopra.
L’ultima esperienza di revisione della spesa è quella guidata da Carlo Cottarelli, su incarico del governo Letta. Sul sito revisionedellaspesa.gov.it esiste una sezione apposita chiamata Revisione aperta, all’interno della quale «[...] verranno inseriti progressivamente tutti i dati e le informazioni disponibili sulla spesa e sui risultati raggiunti dall’attività di Revisione della spesa». Il dato di fatto è che i 25 gruppi di lavoro costituiti da Cottarelli hanno consegnato le proprie relazioni finali nel mese di marzo, ma la sezione è e resta desolatamente vuota. Il governo Renzi ha dichiarato di avere recepito molti dei suggerimenti forniti dai gruppi di Cottarelli, ma al momento non è possibile sapere con esattezza che cosa non è stato recepito.
Su questo tema, come accennavo, posso aggiungere qualche dettaglio proveniente dalla mia esperienza personale. Insieme ad altri economisti, ho fatto parte del gruppo di lavoro — presieduto da Massimo Bordignon dell’Università Cattolica — a cui Cottarelli aveva affidato il compito di analizzare i cosiddetti costi della politica, sia a livello statale che a livello locale. I numeri sono importanti: ai primi di marzo abbiamo consegnato un file Pdf di 106 pagine, il quale riassume i risultati della nostra analisi. Con uno spericolato esercizio di estrapolazione posso immaginare che gli altri 24 gruppi di lavoro abbiano prodotto documenti simili al nostro. La domanda sorge spontanea: come mai questi documenti non sono liberamente consultabili all’interno della suddetta sezione del sito apposito?
Intendiamoci: sono ben lungi dal pensare che il governo debba passivamente recepire tutti i suggerimenti provenienti dai gruppi di lavoro della spending review . Evidentemente governo e parlamento hanno l’ultima parola sui tagli da farsi. La questione è un’altra, ed è di carattere procedurale: ritengo che i cittadini-contribuenti abbiano il diritto di sapere quali suggerimenti siano contenuti nei documenti della spending review , in modo tale da poter verificare che cosa è stato recepito dal governo, e che cosa non lo è stato. Il governo potrebbe anche spiegare le ragioni politiche o tecniche per cui ha deciso di non recepire questo suggerimento o quell’altro.
Nel novembre 2012 — durante la campagna elettorale per le primarie del Partito democratico — Matteo Renzi aveva rimarcato la necessità di un Freedom of Information Act (Foia), cioè di un’assoluta trasparenza su documenti e informazioni della Pubblica amministrazione, per «combattere corruzione e inefficienze». Per quali strane ragioni il Renzi premier del 2014 deve «cambiare verso» rispetto al Renzi del 2012, lasciando chiusi nel cassetto i 25 documenti Pdf della spending review ?

il Fatto 15.7.14
Stefano Rodotà
“Avremo un governo padrone del sistema costituzionale”
intervista di Silvia Truzzi

Mentre al Senato comincia il dibattito sulle controriforme, Stefano Rodotà, già professorone, risponde così al telefono: “Il mio stato d’animo è terribilmente malinconico. Poteva finire in modo molto migliore di come si avvia a concludersi”.
Siamo un Paese alla rovescia: chi insinua dubbi sulla legittimazione degli oppositori o è membro di un’alleanza di governo che nessun cittadino ha votato o di un Parlamento fortemente sospettato di legittimità dalla sentenza della Consulta sul Porcellum.
È una vecchia tecnica: invece di discutere le tesi dell’interlocutore, lo si delegittima. Mi spiace perché la famosa lettera dei professoroni aveva messo in modo un meccanismo virtuoso, di iniziative parlamentari che andavano verso un processo riformatore, che non era in contrasto con la democrazia. Invece chi sostiene un’idea di riforma non brutale e semplificata, viene apostrofato come gufo o rosicone. Alla peggio lo si accusa di voler salvare lo stipendio.
Al Corriere della Sera, domenica il premier ha anche dichiarato “Mi piacerebbe discutere sulle grandi questioni del disegno di legge costituzionale”.
Ma chi gliel’ha impedito? Ha avuto sul suo tavolo una tale ricchezza di proposte che certamente questa auspicata discussione avrebbe potuto aver luogo! Solo che si è preferito andare avanti senza confronti. La domanda che dobbiamo porci è: Renzi e il suo gruppo dirigente hanno la cultura costituzionale adeguata per caricarsi il peso di questo cambiamento radicale?
Parliamo del merito. La questione centrale è analizzare la riforma del Senato insieme alla nuova legge elettorale che dovrebbe sanare l’illegittimità del Porcellum alla Camera.
E quindi torniamo al patto del Nazareno. Quante volte abbiamo chiesto di conoscere i punti di questa intesa e quante volte siamo stati liquidati con un “ma cosa volete”? Siamo costretti a dar ragione a Fitto - a Fitto! - che chiede chiarezza all’interno di Forza Italia! Non vogliamo chiamare il combinato disposto del nuovo Senato più Italicum “svolta autoritaria”? Diciamo allora che assisteremmo a un enorme accentramento di potere nelle mani dell’esecutivo e del premier. Alla diminuzione, e in qualche caso alla scomparsa, di controllo e contrappesi. Se questi poteri e contropoteri sono esclusi dal procedimento democratico – governo e attività legislativa – allora la funzione di controllo viene spostata all’esterno. Cioè sulla Consulta che viene caricata di un compito politicamente molto delicato. Ed è ciò che ha costituito l’oggetto della critica degli ultimi vent’anni, troppo potere alla magistratura. Ma se le forme di controllo all’interno del processo politico vengono eliminate, è ovvio che si spostano all’esterno. Non ci sono più gli equilibri costituzionali.
A cosa porta tutto questo?
La maggioranza viene costruita attraverso una legge maggioritaria e un premio molto alto: quindi nelle sue mani finiscono tutti i diritti fondamentali. Aggiungo: nessuno può essere preso in giro a proposito dell’elezione del presidente della Repubblica, che sarebbe maggiormente garantita con lo slittamento al nono scrutinio dell’abbassamento della soglia di maggioranza. La storia di questi anni – in alcuni si è arrivati anche al 22esimo scrutinio – racconta che basta aspettare. Rinviare nel tempo la necessità della maggioranza non qualificata non garantisce proprio nulla.
Chi va al governo con l’Italicum controllerà direttamente o indirettamente 10 dei 15 giudici costituzionali (5 nominati dal Parlamento e i 5 scelti dal Quirinale).
La maggioranza può impadronirsi del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali. Mi spingo più in là: avremo un premier e un esecutivo che si impadroniscono del sistema costituzionale, senza forme efficaci di controllo. Ora si devono eleggere due membri della Corte che sono in scadenza: siamo alla sesta votazione perché si aspetta un accordo tutto politico. Scadendo il presidente, la Corte deve immediatamente provvedere, ma lo farà con un organico che non è pieno, 13 giudici su
15. Anche l’ultimo presidente è stato eletto con un solo voto di scarto: tutto questo incide, pesantemente, sulla sostanza degli equilibri costituzionali. Invece di preoccuparsi di mettere la Consulta nella situazione formalmente giusta per eleggere il presidente, si discute dei nomi di politici. Un fatto gravissimo che dimostra lo spirito che accompagna la fase che stiamo vivendo.
Cosa pensa della ghigliottina in Costituzione, con la limitazione di emendamenti e ostruzionismo?
Il voto bloccato altera il processo legislativo. La velocità di cui si parla, finisce per travolgere la discussione: l’unico interesse è eliminare i punti di vista critici e arrivare al risultato . Una volta costruita la famosa maggioranza blindata, in teoria non ci sarebbe bisogno della ghigliottina. Invece oltre alla legge maggioritaria, s’introduce anche la ghigliottina: un’altra riduzione di spazi democratici.
Dicono: chi si oppone è contrario all’innovazione.
Le soglie dell’8 e 12 per cento previste dall’Italicum chiudono completamente gli spazi a nuove aggregazioni politiche. Questi numeri vogliono dire: non entra più nessuno. Trovo in questa riforma uno spirito di conservazione, di garanzia delle posizioni acquisite. I cittadini, più si va verso un parlamento non rappresentativo, più ritengono di avere diritto a strumenti di partecipazione importanti. Portare a 800mila le firme per un referendum, addirittura a 250 mila le firme per un disegno di legge popolare, è esattamente il contrario di ciò che si chiede. Il referendum in Italia ha avuto un ruolo fondamentale : nel 1974, sul divorzio, ha sbloccato il sistema politico. È sconvolgente la volontà di andare in così palese controtendenza: si fanno diventare impraticabili gli strumenti di partecipazione. L’idea è non disturbare il manovratore: non si vuole che i cittadini non dico interferiscano, ma che intervengano. Invece sarebbe stato necessario introdurre il referendum propositivo e aumentare le forme di controllo diffuso.

il Fatto 15.7.14
Presidente Grasso, perché non si dimette?
di Antonio Padellaro

Nell’aprire la mesta cerimonia di estinzione dell’attuale Senato, il presidente del Senato Piero Grasso ha detto: “Mi sembra di essere un capotreno che chiede ai passeggeri di salire su un treno in corsa...”. Carino, ma poteva fare di meglio. Per esempio: mi sembra di essere un capotreno di un treno fuori servizio. O cancellato. O su un binario morto. O rottamato (allusivo). Poteva ricorrere a paragoni ippici: mi sembra di essere un cavaliere in sella a un cavallo morto. Gastronomici: un cuoco con la dispensa vuota. Artistici: un pittore senza tela e senza pennelli.
Avrebbe potuto anche prendere la cosa molto sul serio e dire qualcosa del genere. Cari colleghi, quando non molto tempo fa mi onoraste della vostra fiducia eleggendomi al vertice di questa assemblea, non avrei mai potuto immaginare che a mia totale insaputa (allora) sarei stato chiamato a svolgere la funzione di esecutore testamentario (o di becchino se preferite) di un’istituzione fondamentale nell’architettura della nostra amata Costituzione. Ora, poiché ho un passato da difendere al servizio dello Stato contro le cosche più feroci di ogni specie, non mi farò certo trasformare nello zimbello di un giovane premier e della sua arrogante compagnia. Ragion per cui, onorevoli senatori, visto che continuate a trasmettermi in via strettamente confidenziale sentimenti di rabbia e umiliazione, che tuttavia non avete il coraggio di esternare, vi annuncio che a me questo coraggio non fa difetto. Vogliate quindi accettare le mie immediate e irrevocabili dimissioni, con la speranza che questo gesto vi induca a un soprassalto di dignità. Grazie per la vostra collaborazione.
Presidente Grasso, è così difficile?

il Fatto 15.7.14
Il senatore decano
Sergio Zavoli: “È una legge spaventosa, ma siamo tutti sotto ricatto”
di Antonello Caporale

È il bastone a disturbare il passo di Sergio Zavoli, a tenergli impegnate le mani e a consegnare i pensieri all’età. “Non sto bene, dovrei operarmi. Ma i medici nicchiano, mi consigliano cure palliative, mi spiegano che dovrei dedicarmi alla fisioterapia. Li comprendo, la medicina contempla il rischio ma non l’azzardo. E forse quest’operazione è un azzardo”.
Lei è uno straordinario novantenne.
Sto rileggendo delle lettere di gioventù, scritte da me. Non le ricordavo, non le riconosco, non mi rappresentano più. Sono un’altra persona, ho un’altra vita, e altri incredibili difetti.
Mi ha colpito la sua mano alzata insieme alla maggioranza del Senato per decretarne la fine e approvare un pasticcio più che una riforma... Lei, il senatore eletto più anziano, maestro di giornalismo, potrebbe dire una parola, sentirsi libero di esprimerla. Invece tace.
Io non sto bene, non mi sento in forma. E vivo questo periodo con qualche angoscia.
Ma avrebbe il dovere di parlare, se ritiene che la riforma costituzionale sia cattiva.
È spaventosa, lo so.
Lo sa, però, è silente.
Siamo sotto ricatto. Se casca questo governo è la barbarie, il disordine politico. E c’è un alito di verità in questa paura. E questo rafferma i pensieri, riduce i propositi e consegna tutti noi stancamente a quel dopo che non vorremmo.
Ricordo che i senatori a vita, assumendosene ogni responsabilità, fecero nascere il governo Prodi.
Ricordo anch’io. Perché mi dai del lei?
Perché è un maestro. Lei ha avuto tutto dalla vita, e forse una sua parola in questa aula così depressa, screditata del suo onore, contribuirebbe almeno a mitigare gli errori.
Non ce la faccio, purtroppo.
Ciampi ce la fece da senatore a vita e votò il governo perché giudicava giusto farlo. Berlusconi lo definì un personaggio “immorale”, al pari di Levi Montalcini. Le ricordo che altri senatori della destra li denigrarono portando in aula i pannoloni per la terza età.
Che vergogna.
Cosa sarà questo Senato di consiglieri regionali?
Senti: io alle primarie ho votato Cuperlo, non Renzi. E chiesi a lui di darsi da fare. Mi sembra scomparso dalla circolazione. Cos’è il Pd adesso? Non oso immaginarlo. Hai ragione a dire che stiamo approvando una riforma spaventosa.
Calderoli si è appena intestato il merito di ritornare sulla scena del delitto: “Sono un serial killer”.
È una delle sue solite boutade. In questo giro la sua verve eccentrica è tenuta a freno dalla Finocchiaro.
Anna Finocchiaro? Colei che Renzi irrise per la scorta armata che la difendeva tra i pacchi dell’Ikea? Si disse disgustata dal trattamento subito. Oggi fa con cura il lavoro richiesto.
Anna è una brava parlamentare e anche buona. Tenta di ridurre il danno, agisce per il bene comune. Ne sono certo.
Lei crede?
Io sono spaventato da quel che ci capiterà tra poco. Sono spaventato – per esempio – dal fatto che Napolitano se ne andrà. Con tutti i suoi difetti che voi gli dite e con l’instancabile tagli e cuci è riuscito a tenere l’Italia sull’orlo dell’abisso. L’abisso non l’abbiamo conosciuto per suo merito. Aspetta un po’ e vedrai questa destra come si ricompone. Avrà tempo di divenire cattiva e si presenterà ai nastri di partenza con la faccia che oggi non vogliamo vedere.
Anche Renzi è cattivo. Sa essere cattivo, sa essere anche cinico.
La politica è fatta di questi sentimenti. La ferocia ha la medesima forza dell’amore.
Li vede questi senatori con la testa china che ci stanno passando davanti?
Certo che sì.
Cosa pensa del presidente del Senato?
Non conosco Grasso.
Si permise di obiettare che forse bisognava riflettere prima di liquidare questa assemblea e tener presente che senza l’elettività è un corpo vuoto, un guscio di nullafacenti. Ricorda Renzi cosa rispose?
Non ricordo.
Gli fece rispondere che lui non doveva mettere becco. Il presidente del Senato non ha titolo.
In questa legislatura sto facendo meno cose. Ho dato di più e fatto meglio nella scorsa.
Qui sembra una esecuzione funebre. Sembra che dobbiamo darvi il consuolo.
Tu sei meridionale?
Sì. Consuolo sta per consolazione. Vi dobbiamo consolare noi cronisti. Ai funerali si porta il caffè, lo zucchero, i pasticcini. Le lacrime si asciugano con una bevanda calda.
Ho conosciuto bene Gaetano Afeltra. Voi meridionali avete un modo così teatrale, illuminato, prezioso di dire. Una volta mi raccontò di un tizio che improvvisamente morì. Cosa aveva, chiesero. Nulla, era solo raffreddato. Raffreddato? La morte cerca una scusa, risposero. Frase straordinaria... la morte cerca una scusa. Una densità di immagine incomparabile. La vostra lingua è un’opera sacra.
È in corso una gran tappa al tour. Cinque scollina-menti, due gran premi della montagna di prima categoria...
Nibali è un giovane promettente, delizioso. Ma Contador (ieri poi caduto e ritirato, ndr) è già un campione affermato. Voglio donarti questo libretto: “La società libera e la libertà d’informazione. Giornalismo, etica e responsabilità”.
È prezioso il suo dono.
Sai che in Rai mi hanno detto che a settembre riprendono Le notti della Repubblica?
È una bellissima notizia.
Bella sì. Eppure quei due consiglieri che Bersani indicò per Viale Mazzini non si sono mai fatti vedere, né sentire. Un po’ mi è dispiaciuto.
Zavoli è la televisione.
Adesso mi concedo delle poesie.
Saranno bellissime.
Aspetta a leggerle.
Aspetto di vederla con la mano alzata prendere la parola nell’aula del Senato prima che questo palazzo venga dismesso.
Sono vecchio e sono stanco.
Tutte le persone sagge sono vecchie e stanche.
È il bastone che mi infastidisce.

il Fatto 15.7.14
Mauro: “Sos, il Putin di Firenze ormai fa cose da Minculpop”
di Carlo Tecce

Il senatore Mario Mauro ci manda un messaggino: “Sono pronto”. È carico. Vuole denunciare le trame di Matteo Renzi, gridare contro l’assalto a Palazzo Madama, condannare la leggerezza dei colleghi che non comprendono la deriva istituzionale. E lo chiamano moderato, Mauro: “Eccomi, sono pronto”.
Per cominciare, Renzi dice che protestate per l’indennità.
Questo conferma il suo disegno.
Quale?
Un disegno di tipo autoritario che ha come ispirazione il modello di Putin: tramortire il dissenso ed esaltare la propria immagine.
Funziona questo disegno?
Se non sbaglio (e qui si fa ironico, il centrista dei Popolari per l’Italia) un tempo c’era il ministero per la propaganda, il Minculpop, adesso abbiamo la propaganda senza ministero. Renzi lavora per parole chiavi che i giornalisti trasformano in soluzioni: ma sono parole, soltanto parole. È un inganno colossale.
Ma questa riforma Boschi perché non le piace?
Devo fare una premessa.
Premetta.
Che c’entra il nuovo Senato con la flessibilità, la crescita, l’economia?
Che c’entra?
Nulla. E per questo motivo Renzi ci mette davanti a una responsabilità che non ha senso logico. Ci ordina: o approvate questa riforma oppure l’Europa s’incavola. Cosa frega a Bruxelles se noi facciamo votare la fiducia di un governo a Montecitorio e basta o anche a Palazzo Madama?
Perché avverte questo bisogno Renzi?
Per confondere gli italiani. Bruxelles aspetta che siano riformate la giustizia e il fisco, che sia debellata la corruzione, che siano ridotti gli sprechi, non certo cosa fa il Parlamento. E poi finiamola di sparare balle: da vent’anni il Parlamento non serve a nulla, i compiti legislativi li ha presi Palazzo Chigi con i decreti.
E allora cos’è che non tollera del modello di Palazzo Madama pensato da Renzi?
La fine, definitiva, di protezioni contro il capo autoritario. Con la legge elettorale Italicum e questo Senato, il partito di maggioranza relativa potrà avere il controllo dell’unica Camera funzionante davvero, potrà nominarsi il presidente della Repubblica e i giudici della Consulta.
Voi cosiddetti ribelli quanti siete?
Ancora pochi, sempre gli stessi, ma vogliamo sollecitare il dibattito e ripristinare la verità perché non posso rassegnarmi al Putin di Firenze.
Anche voi di centro trattino destra avete colpe.
Sì, ci siamo frammentati. Il centrodestra è stato svuotato, ma io resto nei Popolari (Mauro è passato da Silvio Berlusconi a Mario Monti e poi è andato via).
Perché il legame (o il patto) tra l’ex Cavaliere e Renzi è così indissolubile?
Conviene a entrambi. A Renzi per fare il muro contro Grillo, a Berlusconi per giocare un ruolo istituzionale. Non vi siete accorti di cosa accade nelle Commissioni o in aula?
Cosa?
La vera maggioranza che sostiene questo governo è Partito democratico più Forza Italia. Il resto sta lì, come Ncd, zitto e muto.

il Fatto 15.7.14
Ma Renzi h già deciso tutto con Verdini per conto di B.
In senato si discute fono a domani. A vuoto
E il padre del porcellum, Calderoli dice: “Io relatore? Come dare la pistola a un serial killer”
di Wanda Marra

Leggendo gli atti della Costituente ho trovato le medesime tensioni e gli stessi dubbi che ci attraversano oggi”. Aula di Palazzo Madama, ore
11. Comincia la discussione sulla riforma del Senato e sul Titolo
V. Prova ad imprimere un po’ di solennità la relatrice, Anna Finocchiaro. Ma in realtà è l’intervento del correlatore, Roberto Calderoli, quello che meglio descrive l’atmosfera complessiva: “C’è voluto coraggio a dare l’incarico di relatore di maggioranza a me. È stato come dare una pistola carica in mano a un serial killer e sperare che non facesse una strage”. Voti importanti quelli della Lega. E garantiti da uno come Calderoli, il padre del Porcellum. Strategie, trattative coperte, giochi di visibilità, da parte dei senatori. Spregiudicatezza e determinazione ad arrivare al risultato ad ogni costo, da parte di Matteo Renzi. Ecco il clima in cui si sta facendo la “grande” riforma costituzionale.
Il gioco è pericoloso, la potenza messa in campo dal governo massima. Va liscio il primo voto sulle pregiudiziali di costituzionalità. Ma in Senato gli iscritti a parlare sono 124, il termine per gli emendamenti viene spostato dalle 13 a stasera alle 20. Se ne annunciano centinaia, alcuni scivolosi. Anche perché in realtà sono pochissime le modifiche che verranno accolte. Il patto del Nazareno è blindatissimo. E non ammette deroghe. Domenica Matteo Renzi al Corriere della Sera si scagliava contro gli oppositori: “Vogliono salvarsi l’indennità”. Ieri lo stesso quotidiano pubblicava una serie di simulazioni, secondo le quali con qualsiasi sistema elettorale si andrà al voto (dal Consultellum, all’Italicum) il Pd di Renzi stravincerà. Simulazioni che sarebbero contenute in un dossier di Denis Verdini, che viaggia tra i tavoli del Nazareno e quelli di Palazzo Grazioli. Il patto è saldissimo, le proteste sono inutili oggi e lo saranno pure domani sulla legge elettorale, e nessuno ha né il peso, né l’autorità per mettersi di traverso: ecco il messaggio che Palazzo Chigi vuole mandare ai dissidenti, veri o aspiranti tali. Pronto a scommettere che non ci saranno sorprese.
PERÒ, le fronde trasversali resistono. E il voto finale a Palazzo Madama slitterà ancora: si inizia domani pomeriggio, forse giovedì mattina. Si dovrebbe finire a inizio settimana prossima. “Entro il 2014 la legge elettorale, nel 2015 le riforme istituzionali”, detta i tempi Renzi. Avrebbe voluto chiudere giovedì, prima della sentenza della Corte di Appello su Berlusconi nel processo Ruby (prevista per venerdì). In questi giorni, si moltiplicano le voci in favore di un’assoluzione dell’ex Cavaliere. Che – come chiarisce il Mattinale – aiuterebbe le riforme: “Berlusconi innocente, Berlusconi riformatore. Le due cose vanno insieme. Renzi la smetta di tenere separati i due campi”. Non a caso, dunque, “non c’è spazio per modifiche sostanziali”, andavano ripetendo i senatori, con sfumature di impotenza o di soddisfazione, a seconda dello schieramento.
Stamattina si riunirà il gruppo Pd (senza Renzi) e si voterà: non sui singoli contenuti, ma sull’impianto generale. Un modo per provare ancora una volta a mettere all’angolo i dissidenti. Stasera il segretario-premier vedrà i suoi parlamentari. Oggetto: i 1000 giorni. Memento mori. Anche Berlusconi riunisce i gruppi: medesima esigenza, di stoppare i Minzolini e i Fitto.
A qualche modifica, comunque, si lavora. Prima di tutto sull’elezione del presidente della Repubblica : per adesso la base è costituita dai parlamentari e dopo 9 scrutini, basta la maggioranza semplice. Ieri Gotor (Pd, bersaniano) capitanava una raccolta di firme per aggiungere anche gli europarlamentari. Qualche modifica ci potrebbe essere in tema di poteri. Il gioco che sta cercando di condurre Calderoli: più poteri alle Regioni, meno allo Stato. Renzi ha detto il contrario, e in Aula i senatori del Carroccio sono stati molto critici. Conseguente preoccupazione della Boschi.
IL VERO nodo resta l’elettività. Che infatti si vota subito. Prima della sentenza Ruby, e prima dell’incontro con i Cinque Stelle. In una lettera tranchant Renzi si è detto disposto a vedere il Movimento giovedì o venerdì. Rintuzzando le critiche in tema di elettività. È su questo che si peserà la ribellione: sono in 16 i Dem dissidenti, una ventina di Forza Italia, 4 di Ncd. Possibilista il premier sull’immunità, nella stessa lettera ai grillini: modifica possibile, ma solo se non servono particolari forzature. Tra gli emendamenti, in particolare, “sensibile” quello che riduce il numero dei deputati, con firme trasversali. “Su questo il governo potrebbe andare sotto”, profetava Felice Casson. Il che vuol dire correzione della Camera e immediata necessità di una lettura in più, rispetto alle quattro previste.

La Stampa 15.7.14
Ma la pattuglia dei franchi tiratori già prepara lo sgambetto in Aula
Il relatore Calderoli presenta la riforma in Aula e la critica: “Va modificata”
di Mattia Feltri

La minaccia aveva qualcosa di vago e qualcosa di stravisto: i numeri, che cambiano di volta in volta ma dicono sempre la stessa cosa, stavolta segnalavano centoventiquattro iscritti a parlare - fra loro tutti e quaranta i componenti del gruppo grillino - con una ventina di minuti a testa. Risultato: 2 mila 480 minuti per un totale di quarantuno ore e mezzo di dibattito. Come si farà mercoledì a cominciare a votare? Ed è un atteggiamento catalogabile alla voce ostruzionismo? Ma soprattutto, non sarà che ognuno - renziani, oppositori interni, Cinque stelle - tirerà dritto piantando delle bandierine qua e là senza l’ambizione di trovare una sintesi? Insomma, si stava per cominciare la millesima maratona parlamentare, quando sul pessimismo planetario è calato il solito Roberto Calderoli, busto a proteggere le due vertebre rotte, dita steccate in una specie di gesso da cartone animato dopo la caduta della scorsa settimana. C’è da premettere che Calderoli è, insieme con Anna Finocchiaro, con cui costituisce una coppia imprevedibilmente affiatata, il relatore di maggioranza della riforma; e cioè sarebbe quello incaricato di spiegare ai senatori quanto è bella e quanto è giusta la modifica costituzionale voluta dal governo e aggiustata in commissione. Serviva dell’ottimismo, come ha spiegato all’aula lo stesso Calderoli: «Di questa nomina ringrazio, per la fiducia e per il coraggio, la presidente (della commissione Affari costituzionali, ndr) Finocchiaro e chi con lei questa scelta ha condiviso. Di coraggio ce ne è voluto veramente tanto a nominare me come relatore di maggioranza. Era infatti come dare una pistola carica in mano a un serial killer, e sperare che non facesse una strage».
La benaugurante metafora non era poi così abnorme, e vi basti un passaggio dell’intervento: «Il testo del governo prevedeva 21 senatori su cento di nomina del presidente della Repubblica. Non è una riforma, è una barzelletta. Mi piacerebbe sapere chi ha scritto questa sciocchezza». Era lì ad ascoltare Maria Elena Boschi, vestita di nero in severità senatoriale, e molto indiziata della titolarità della proposta. Calderoli stava elencando tutti gli aggiustamenti che gli è toccato di fare in commissione, e poi ha detto che altrettanti ne andrebbero fatti in aula. Sembrava un intervento di opposizione, «ma io ho ripetuto quello che ho sempre detto in commissione», ha spiegato poi Calderoli. Le tre correzioni fondamentali sono: 1) Una norma transitoria - ossia provvisoria - per l’elezione dei componenti del nuovo Senato, perché attualmente sono eleggibili solo consiglieri regionali e sindaci, e quindi incostituzionale perché non tutti possono concorrere alla carica; quando i consigli regionali saranno interamente rinnovati la norma sarà riproponibile. 2) Riduzione dei deputati a cinquecento, perché seicentoquindici, contro cento senatori, sono troppi. 3) Abbassamento della soglia di ottocentomila firme per la presentazione di referendum. 
Al di là delle tre questioni, si è capito che la strategia di Calderoli era più cicciosa della geremiade a cui si è comunque assistito. Lungo una giornata faticosa, si è infatti assistito all’eterno richiamo alla P2 di Licio Gelli (la Cinque stelle Rosetta Enza Blundo), ai paralleli fra Matteo Renzi e Benito Mussolini (il leghista Raffaele Volpi), al ripescaggio di un discorso di dieci anni fa di Luigi Zanda contro le riforme del centrodestra, e perfettamente riproponibile oggi (ancora i Cinque stelle con Vito Crimi), per non dire del «concetto di aporia in senso socratico» suggerito da Felice Casson, uno della minoranza interna del Partito democratico. Il fronte anti Renzi, insomma, pareva discretamente sfilacciato, e pure rassegnato, con un Corradino Mineo persuaso che «dal punto di vista dei numeri i giochi sembrano fatti». Ma dopo l’esordio di Calderoli i leghisti si sono tutti ringalluzziti e andavano in giro dicendo che «qui c’è aria di una calderolata». Breve indagine, e la calderolata consisterebbe nell’infilare qualche voto segreto su qualche emendamento cruciale. E lì i leghisti sono persuasi di portarsi dietro parecchia gente, e non soltanto fra gli oppositori palesi, ma anche fra i lealisti del Pd, gente che non vede l’ora di combinare uno scherzo al presidente del Consiglio.

Corriere 15.7.14
La fronda e «l’attacco impossibile»: passeranno
Chiti: le battaglie si combattono perché giuste anche quando si rischia di perderle
di Monica Guerzoni

ROMA — «Non sarà una passeggiata, ma la riforma passerà». Adesso Vannino Chiti ammette che espugnare «Fort Alamo» abbattendo gli ultimi pilastri della riforma costituzionale del governo è una sfida a dir poco ardimentosa. I numeri sono dalla parte di Renzi e il senatore che guida i dissidenti del Pd non si fa illusioni: «So bene che i rapporti di forza non sono a nostro favore, però resto convinto che le battaglie si combattono perché sono giuste, anche quando si rischia di perderle». Se non è una resa, è la presa d’atto che la nave va e che fermarla non sarà facile.
I 16 dissidenti «dem» combatteranno in Aula, emendamento dopo emendamento, la loro «battaglia di principio». Ma nella piccola compagine rimbalzano umori contrastanti. C’è chi è preoccupato per le sorti della democrazia e chi è tentato di rientrare nei ranghi. Oggi i ribelli si vedranno per preparare l’assemblea di stasera con il segretario, che li ha accusati di puntare solo a conservare l’indennità. Loro si sono mortalmente offesi. Massimo Mucchetti respinge al mittente i «colpi sotto la cintura» e, sul suo blog, pubblica una lettera al leader di FI: «Caro Berlusconi...». Il senatore tenta di far leva sui dubbi degli azzurri e semina sospetti, prevedendo che il patto del Nazareno non terrà perché sarà il premier a romperlo: «Renzi non è un uomo d’affari che fonda la propria reputazione sulla parola data». Come già Raffaele Fitto, che aveva dipinto i colleghi di partito come «ipnotizzati da Renzi», Mucchetti prende a bersaglio Denis Verdini. Ricorda il crac del Credito cooperativo fiorentino e insinua che il plenipotenziario di Berlusconi sulle riforme abbia «maggiori possibilità di ottenere vantaggi dalla benevolenza del Principe». In Aula, il più duro è Felice Casson. Giura che i ribelli non hanno volontà antigovernative, poi attacca: «Sul nostro piccolo gruppo è stata fatta disinformazione e una censura pesante che non accettiamo». L’ex magistrato vuole riformare la Camera, accusa il governo di dire «mezze falsità» per contrastare chi non condivide il testo e infine, per dire che il ddl è «sgrammaticato» dal punto di vista costituzionale, ricorre a Socrate: «Più che parlare di strada senza uscita preferisco attenermi al concetto di aporia, quella fase della maieutica volta alla liberazione dal falso sapere». Un modo sofisticato per annunciare una raffica di emendamenti con cui «superare le aporie» della legge: «Nel testo del governo i senatori saranno nominati dai partiti, noi invece vogliamo un Senato elettivo». Tra i dissidenti c’è chi guarda con speranza ai leghisti, che sembrano aver assunto un atteggiamento assai meno benevolo verso Renzi. «La battaglia è ancora lunga, siamo solo all’inizio del cammino...» guarda avanti con ottimismo un senatore dissidente, che preferisce restare anonimo. Sulla platea che elegge il capo dello Stato sarà battaglia. E così sulla riduzione dei deputati. «Sono stati presentati una miriade di emendamenti per riformare la Camera — conferma Maria Grazia Gatti, agguerritissima —. Avere 630 onorevoli e 100 senatori è una sproporzione enorme, una autentica follia». È su questo aspetto che i dissidenti concentreranno le forze, nel tentativo di ampliare il fronte trasversale di chi vuole cambiare i connotati anche a Montecitorio. «Io ci punto» confessa la senatrice Gatti, rimasta molto male per la frecciata di Renzi sull’indennità: «Un insulto volgare. Se il premier arriva a dire una cosa tanto grave è perché è messo male, una prova di debolezza».
Il bersaniano Miguel Gotor è convinto che la fronda non abbia più armi, che il dissenso interno sia «fisiologico» e che d’ora in avanti «succederà poco o nulla». Così la pensa anche il lettiano Francesco Russo e fa notare che l’intero gruppo del Pd, fronda compresa, ha accolto senza polemiche la riduzione da 20 a 10 minuti del tempo a disposizione per ogni senatore. Ma Casson non ci sta e quando la presidente di turno Valeria Fedeli lo invita a chiudere, lui protesta: «Mi appello al regolamento, ho venti minuti».

La Stampa 15.7.14
Stato-Regioni, la chiarezza che manca
di Ugo De Siervo
qui

La Stampa 15.7.14
Quello che Renzi dovrebbe dire
di Irene Tinagli

Caro Direttore,
in questi giorni molti si chiedono se Renzi riuscirà ad arrivare alla fine dell’anno senza una nuova manovra, e se non gli converrebbe mettere le mani avanti e dire subito che sì, forse ci vorrà una manovra. Ho sempre pensato che la politica dovrebbe essere più coraggiosa nel dire le cose come stanno, ma in questo specifico momento Renzi non può preannunciare alcuna manovra. 

Per tre motivi. 
Primo, perchè con quell’annuncio si brucerebbe gran parte del capitale di fiducia costruito in questi mesi, col rischio di neutralizzare l’effetto degli ottanta euro (ammesso che ci sarà) provocando un aumento del risparmio anziché del consumo a causa del timore di nuove tasse. Secondo, perchè se lo facesse lancerebbe il messaggio all’Europa e agli investitori che le riforme economiche sono più deboli e lente di quanto annunciato, con effetti potenzialmente devastanti per il nostro Paese. Terzo, perché comunque ha circa tre mesi di tempo per farsi venire un’idea, per trovare una soluzione fattibile. E lui meglio di chiunque altro sa quante cose possono cambiare in tre mesi, dallo spread alle condizioni politiche nazionali e internazionali. 
Quindi, per ora, va bene dire a tutti di stare sereni. Però, chiaramente, non basta. Ci sono alcune cose che Renzi ancora non ha detto e che dovrebbe dire – e soprattutto fare - al più presto. 
Innanzitutto dovrebbe delineare e comunicare una strategia più chiara per lo sviluppo e la crescita del Paese. Non basta dire che vogliamo più flessibilità e più soldi per gli investimenti. Dobbiamo dire dove e come vogliamo spenderli questi soldi. Dobbiamo dire il dove, perchè fino ad oggi i progetti finanziati, dalle grandi opere come il Mose alle attività di formazione, sono andate troppo spesso ad ingrassare interessi politici e personali, con zero effetti su crescita e occupazione. Nè possiamo pensare che gli interventi sull’edilizia scolastica o lo sblocco di alcune opere comunali, per quanto necessari, rappresentino un piano strategico di sviluppo futuro. Dobbiamo poi dire il come. Perchè stiamo ancora spendendo miliardi di euro attraverso strumenti insostenibili come le agevolazioni a fondo perduto, senza per di più un reale monitoraggio e valutazione dei loro effetti. 
Non è vero infatti che oggi non si fanno politiche industriali. Se ne fanno eccome. Solo negli ultimi mesi Invitalia ha erogato circa ottocento milioni di euro di agevolazioni a fondo perduto ad imprese nostrane e multinazionali. Il problema è che si fanno senza una strategia organica e una direzione chiara (e, cosa ancor più grave, senza valutazione dei risultati). Perchè è difficile ravvedere un coordinamento strategico o un piano di lungo termine nei fondi elargiti alle produzioni più disparate, dalla produzione dell’aceto Ponti all’imbottigliamento dell’acqua minerale (26 milioni alla Ferrarelle), dalla trasformazione del pomodoro ai gelati Algida della Unilever, dalla produzione di pneumatici (12,4 milioni alla Bridgestone) alle telecomunicazioni (30 milioni a Vodafone e 40 a Telecom).
Ecco, Renzi dovrebbe avere il coraggio di dire che da domani si cambia verso alle politiche di sviluppo, che aboliamo gli inutili finanziamenti a pioggia e a fondo perduto, e che con i miliardi risparmiati aiutiamo chi fa impresa con veri tagli di tasse e con servizi che funzionano. Dovrebbe inoltre dire che finalmente ci sarà il coraggio di creare un mercato aperto e concorrenziale nei settori ancora chiusi e dominati dai pochi soliti noti, dai servizi locali ai trasporti agli ordini professionali. E infine dovrebbe dire che da domani smettiamo di tergiversare sulla semplificazione del mercato del lavoro e degli ammortizzatori, e che ci sarà il coraggio di tener testa ai conservatori sui temi del lavoro così come si è fatto sul tema del Senato. Ecco: queste due cose. Una chiara e innovativa politica per la crescita, che sappia tagliare prebende e creare spazi imprenditoriali concorrenziali e competitivi. E una profonda riforma del lavoro, che sappia tagliare assistenzialismi e supportare la flessibilità con politiche attive. È chiaro che tagliando sussidi ad imprese e lavoro andrà incontro a polemiche e forse impopolarità. Ma queste sono le due cose da dire e fare subito. Non solo per evitare di parlare oggi di nuova manovra, ma per evitare di doverla fare domani.

Corriere 15.7.14
L’incertezza economica allunga un’ombra sull’esito delle riforme
di Massimo Franco

La riforma del Senato avanza e i piccoli rinvii del voto non sembrano in grado di comprometterla. Dire che il governo può cominciare a godersi la vigilia di un risultato storico, tuttavia, è prematuro. L’incertezza sulle questioni economiche sta aumentando. Ieri Palazzo Chigi ha voluto smentire le voci di un anticipo della Legge di stabilità ad agosto, considerate dall’opposizione come un surrogato della manovra correttiva in autunno che il premier Matteo Renzi continua ad escludere. In realtà, dovrà essere pronta ad agosto per assecondare le indicazioni della Ragioneria generale dello Stato. Il timore del governo, però, è che si accrediti un suo affanno su questo versante. E infatti Renato Brunetta, capogruppo di FI alla Camera, ne approfitta per attaccare il premier.
A ruota, tutta la filiera dei suoi avversari martella sulla tesi di un «possibile commissariamento dell’Italia» da parte di Fmi, Commissione Ue e Bce, la cosiddetta troika : una prospettiva, in realtà, tutta da verificare, e smentita nettamente da Renzi. Certo, rimane un filo di inquietudine sulle prospettive autunnali. Il quadro che mette insieme debito pubblico, produzione industriale, aggravamento delle sacche di povertà e assenza di crescita non consente un grande ottimismo. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ieri ha diramato il rapporto sull’area della moneta unica europea. E le sue conclusioni contribuiscono ad acuire la preoccupazione. All’Italia, in particolare, il Fondo chiede di rendere più efficiente la giustizia civile, fare riforme strutturali che frenano la produzione, e affrontare una disoccupazione giovanile in ascesa.
E per quanto suggerisca anche all’Unione Europea di usare al massimo i margini di flessibilità finanziaria contenuti nel Patto di stabilità e di crescita, come chiede il nostro governo, gi spazi di manovra rimangono molto esigui.
Per questo, la soddisfazione per l’inizio del dibattito sulle riforme istituzionali ieri nell’aula del Senato è stata bilanciata e resa amara dalle notizie sui sei milioni di poveri in Italia rilevati dall’Istat, e dai dati sul debito pubblico forniti da Bankitalia. Se il bicameralismo sarà cambiato, si tratterà però di uno spartiacque. «Non sfugge il rilievo e la portata di questa riforma» ha sottolineato ieri Anna Finocchiaro, presidente della Commissione affari costituzionali a Palazzo Madama.
È probabile che si cominci a votare non al mattino ma nel pomeriggio di domani, per questioni procedurali. Si tratterebbe comunque di un traguardo mancato per decenni e di colpo a portata di mano. Le resistenze di una parte del Pd ci sono ancora. E oscillano tra richieste di modifiche sull’elezione dei senatori, e accuse di autoritarismo: sebbene questo non preluda a rotture interne. Il fronte più insidioso rimane quello di Forza Italia. Alle critiche contro un Silvio Berlusconi «ipnotizzato da Renzi», secondo Raffaele Fitto, si sommano le questioni giudiziarie. Finora si è dato per scontato che se pure il 18 luglio prossimo Berlusconi sarà condannato in appello per il caso Ruby, la marocchina minorenne delle feste ad Arcore, non ci sarebbero conseguenze sul governo.
Ma ieri Il Mattinale , bollettino di FI, ha intimato: «Berlusconi innocente, Berlusconi riformatore. Le due cose vanno insieme», come a rimettere in discussione il patto con Renzi. La puntualizzazione, tuttavia, sembra quasi d’ufficio. E ripropone semmai i contrasti all’interno del partito. D’altronde, il consigliere politico dell’ex premier, Giuseppe Toti, conferma l’asse istituzionale con Renzi. Critica solo la politica economica di Palazzo Chigi, definita a base di tasse. Ma il capo del governo continua a muoversi anche in direzione del Movimento 5 Stelle, col quale prepara un nuovo incontro. Sia lui che i vertici del M5S vogliono il dialogo, nonostante la diffidenza reciproca e gli insulti che Beppe Grillo continua a scagliare. «Entro il 2014 si approva la legge elettorale, nel 2015 la riforma costituzionale, e poi l’eventuale referendum», assicura Renzi in una lettera al M5S. Suona come un invito implicito a condividere il suo «programma dei mille giorni».

l’Unità 15.7.14
La voce contro l’apartheid
Muore Nadine Gordimer l’autrice amica di Mandela
La minuta ed eroica «guerrigliera dell’immaginazione» se n’è andata
Madiba la volle al suo fianco alla cerimonia del Nobel. Aveva 91 anni
di  Maria Serena Palieri

LA SUA ULTIMAR ACCOLTA DI «SHORT STORIES», USCITA IN ITALIA NEI PRIMI MESI DI QUEST’ANNO PER ILS UO EDITORE TRADIZIONALE, Feltrinelli, e la sua traduttrice di sempre, Grazia Gatti, ha un titolo che evoca un bilancio, Racconti di una vita: storie scritte tra il primissimo inizio di carriera e gli ultimi anni, tra il 1952 e il 2007. I primi due pezzi si aprono sullo scenario di un ospedale. Coincidenza? Non è impossibile che Nadine Gordimer abbia voluto orchestrare con questi dettagli il suo addio a noi lettori, visto che, come annunciò nell’occasione, nell’ultima intervista a un giornale italiano, era affetta da un cancro al pancreas e non sentiva più le forze per creare: «Non ho più l’energia, scrivere mi fa star male e sono troppo critica, troppo esigente verso il mio lavoro, non credo che accetterei qualcosa che non mi soddisfa », spiegava prendendo indirettamente - con questo understatement - le distanze dal plotone di scrittori che qua e là nel globo andavano in quelle stesse settimane dichiarando ben più spettacolari, mediatici addii alla pagina scritta. La minuta ed eroica «guerrigliera dell’immaginazione », come la definì Seamus Heaney, è morta l’altro ieri novantenne a Johannesburg. Si è spenta nel sonno e vegliata dalle persone a lei care, spiega un comunicato della famiglia. Erano con lei i figli Oriane, che, insegnante in Piemonte, fondava il suo legame privilegiato con l’Italia, e Hugo, nato dall’unione durata un cinquantennio con il secondo marito Reinhold Cassirer, commerciante d’arte, quello che definiva «un meraviglioso matrimonio».
In Italia era stata insignita del premio Grinzane e del Primo Levi. E, già ultraottantenne, i capelli grigi stretti in una svelta coda, magrissima ed energica, si era affacciata a un Festivaletteratura a Mantova. Premio Nobel per la Letteratura nel 1991 era stata la prima penna sudafricana, e la settima donna, a essere assunta nell’empireo di Stoccolma. Dodici anni dopo la seguirà un altro sudafricano, John M. Coetzee, e nel 2007 un’altra donna schierata contro la segregazione razziale, la rhodesiana Doris Lessing. Nelle motivazioni del Nobel la parola apartheid ha un peso importante. Perché Nadine Gordimer è stata una scrittrice che ha fuso con abbagliante intelligenza in un suo originale crogiuolo magistero narrativo e impegno civile.
È figlia di due ebrei immigrati in Sudafrica, Isidore e Nan, lui proveniente dalla Lettonia lei da Londra, e nasce il 20 novembre 1923 a Springs, un centro minerario nell’East Rand, l’area urbana a est di Johannesburg. Viene educata però secondo uno stampo cattolico. Resta un solo anno alla University of Witwatersrand, ma il tempo è abbastanza per verificare le barriere tra studenti bianchi e neri. È allora che entra in contatto con l’African National Congress e comincia la sua militanza. Nel 1964 durante il processo di Rivonia contro gli attivisti neri, dal quale Nelson Mandela esce con una condanna al carcere che sconterà per 27 anni, ha la fortuna e l’audacia di entrare, clandestina, nella cella dove «Madiba» aspetta la sentenza. È l’inizio di un legame tra i due futuri Nobel, lui per la Pace lei per la Letteratura, che durerà fino alla morte del leader dell’Anc. Mandela riesce a ottenere in carcere uno dei suoi romanzi, Burger’s daughter ed è una emozionatissima Nadine a ricevere dal suo eroe una lettera di elogi. È poi sui divani della sua casa di Johannesburg che, quasi trent’anni dopo, F.W. De Klerk e Madiba trattano la pace e la fine della segregazione in Sudafrica. È lei che Mandela vuole al suo fianco a Oslo quando va a ritirare il Nobel per la Pace. Ed è nel nome di Mandela che, nelle ultime stagioni, Nadine Gordimer accusava il suo paese di aver tradito, con la corruzione, un sogno.
Maqual è il segno che Gordimer artista lascia nella letteratura del secondo Novecento e del nuovo millennio? Quarantenne, negli anni Sessanta e Settanta è negli Stati Uniti dove insegna in alcuni atenei. Ha alle spalle un esordio, appena quindicenne, con un racconto per bambini uscito nel 1937 sul Children’s Sunday Express, una prima raccolta di racconti, Face to face del 1949 e un primo romanzo, The lying days, del 1953. Seguono uno stuolo di altri romanzi (quindici quelli pubblicati da Feltrinelli), un piccolo esercito di racconti (diciassette le raccolte uscite per lo stesso editore) e saggi e pièces teatrali…
Si tratti della storia di Mehring, il farmer afrikaner di uno dei suoi testi più antichi, Il conservatore come di quella di Paul Bannerman, l’attivista ambientalista che nel recente Sveglia, ammalato di cancro alla tiroide e, sottoposto a radioterapia, diventato per alcune settimane radioattivo, vive un singolare apartheid, si tratti dell’amore tra Julie, giovane liberale bianca e Ibrahim, musulmano povero e clandestino nell’Aggancio o della storia della zulu Jabu e del bianco Steve, unitisi in matrimonio quando le unioni miste erano proibite e alla prova dei sentimenti nel Sudafrica democratico in Ora o mai più, Nadine Gordimer riesce a trasformare quel nodo tematico, segregazione-unione, in una luce accesa su un intero campionario di sentimenti ed esperienze umane. Su temi epocali come quel «senso di colpa» che, spiegava, il suo Paese nutriva per l’apartheid come i tedeschi nutrivano per il nazismo. Con una prosa geniale che mai in migliaia di pagine cede alla retorica. Un suo motto era: «La verità non è sempre bella, ma la fame di verità lo è».

Repubblica 15.7.14
L’inedito
L’ispirazione non esiste. Basta la vita interiore
di Nadine Gordimer

Ho dovuto convivere a lungo con me stessa, sia come scrittrice sia come donna. Non sarebbe stata un’esistenza molto diversa se fossi stata uno scrittore, un uomo. Qualunque sia il nostro sesso, noi scrittori, non importa come, dobbiamo fare una distinzione netta fra gli spazi da dedicare alla scrittura e quelli della vita - come posso definirla? - socio-biologica. Ha un effetto altisonante, questo termine, ma non posso optare per “vita emozionale” perché anche ciò che si crea nella vita dedicata alla scrittura implica emozioni forti. La ripartizione del tempo e dell’impegno comporta un’autodisciplina ferrea. Un giornalista ha una scadenza da rispettare, mentre il poeta o il romanziere è padrone di se stesso (o di se stessa). L’editore, in un contratto, può indicare la data di consegna di un manoscritto, ma ciò avviene in base alla stima fatta dallo scrittore-capomastro sui tempi di conclusione del lavoro, opera dell’immaginazione - che non ha orologi né calendari. Se l’anticipo sul pagamento si esaurisce prima che il lavoro sia terminato, be’, questa è la grande differenza tra la creatività e il commercio.
Ovviamente lo scrittore non sta ad aspettare la cosiddetta “ispirazione”, come la chiama chi non è scrittore. Alla fine arriva, certo, ma di solito non nelle ore destinate allo scrittoio, alla macchina da scrivere, al programma di videoscrittura (o di qualunque strumento si tratti). Quelle ore servono alla trasformazione di qualcosa che è già nato, idee che emergono nel corso di altre attività e di altre situazioni. Ti svegli nel cuore della notte. In un bar o in una riunione ti estranei dal chiacchiericcio concentrandoti intensamente, irresistibilmente su altro. Penso di aver iniziato a scrivere fin da bambina, quando, nei tragitti lunghi o brevi sul sedile posteriore dell’automobile dei miei genitori, in silenzio raccontavo a me stessa storie, dialoghi, impressioni. Oggi rivivo spesso questo tipo di esperienza nei viaggi aerei di una certa durata; fra un qui e un lì, le necessità di interagire con gli altri, conduco una vita interiore, l’interiorità dell’immaginazione individuale. Ho scoperto di essere una persona riservata con cui vivere. Non so se è così per tutti gli scrittori. Io non sono mai stata capace di condividere con altri le aspettative, l’euforia per avere conseguito gli obiettivi che mi ero posta nel lavoro o la frustrazione per non esserci riuscita. Non capisco come il grande Thomas Mann potesse leggere a voce alta ogni sera alla sua famiglia riunita la parte di lavoro conclusa nella giornata. Sono sempre stata convinta che nessuno avrebbe potuto capire ciò che davvero volevo esprimere in uno scritto finché non mi fossi finalmente convinta di non poter fare meglio di così.
Da Vivere con uno scrittore , che uscirà il 1-5 ottobre per Feltrinelli, nella raccolta Tempi da raccontare . Trad. di Valeria Gattei

La Stampa 15.7.14
Nadine Gordimer: “Il Sudafrica ha tradito il sogno di Mandela”
La scrittrice amica dell’ex presidente: è vero, siamo liberi ma in questo Paese manca la giustizia e domina la corruzione
Quando Mandela venne liberato Nadine Gordimer fu una delle prime persone che volle vedere
È a casa sua che si riunivano gli esponenti dell’African National Congress che avevano bisogno di un rifugio sicuro
Intervista di Paolo Mastrolilli e Lorenzo Simoncelli
qui

il Fatto 15.7.14
Addio Gordimer, se ne va la Mandela bianca
Si è spenta a 91 anni la scrittrice sudafricana che vinse il Nobel
Iscritta all’ANC di Madiba, ma fiera oppositrice del successore, Jacob Zuma
di Elisabetta Ambrosi

La festa è stata bella, ma ora la ricreazione è finita e bisogna tornare ai grandi problemi del Sudafrica”. Così Nadine Gordimer aveva commentato, nel luglio del 2014, la fine dei Mondiali di calcio, svoltisi proprio nel suo Sudafrica. Dove l’altro ieri (a Johannesburg), è morta, a novantuno anni, per un cancro al pancreas che aveva rivelato nella sua ultima intervista italiana. La corruzione diffusa, l’aumento delle diseguaglianze sociali e del divario tra ricchi e poveri, la criminalità scaturita dalla povertà, l’enorme disoccupazione giovanile, l’immigrazione: questi erano i problemi che la scrittrice sudafricana, vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 1992 e del Booker Prize nel 1974 (con Il conservatore, storia di un uomo d’affari bianco che continua a vivere nella sua villa di Johannesburg incurante di violenze, omicidi, miseria ), continuava a denunciare nelle sue dichiarazioni pubbliche.
PER LEI, che per gran parte della sua vita aveva lottato contro la segregazione dei neri e l’odio razziale, iscrivendosi all’African National Congress quando il partito ancora era fuori legge, l’urgenza di questi ultimi anni era soprattutto la giustizia sociale. Tanto che persino l’aggressione che subì a casa sua, nel 2006, fu un’occasione per ribadire che la violenza si risolve solo creando lavoro, non costruendo prigioni: “L’apartheid non esiste più – aveva detto nel dicembre scorso a La Stampa – ma abbiamo fallito nell’obiettivo di garantire a tutti la possibilità di una vita decente”. Il primo romanzo, I giorni della menzogna, uscito nel 1953, racconta la storia di una giovane donna bianca nel paese segnato dai conflitti razziali. L’ultimo, Ora o mai più (pubblicato in Italia, come tutti gli altri, da Feltrinelli), è invece la storia di una coppia, “lei nera, lui bianco”, che dopo la liberazione va a vivere in un quartiere residenziale, dove è costretta però a confrontarsi con la nuova emigrazione, la violenza diffusa , gli scandali del potere. Quelli, in particolare, del nuovo presidente Jacob Zuma, più volte aspramente criticato dalla stessa Gordimer, che ne misurava tutta la distanza con il suo riferimento umano e ideale, Nelson Mandela.
AVEVA conosciuto Madiba nel 1964 durante il suo processo, era stata parte della delegazione che lo aveva accompagnato a ritirare il premio Nobel per la pace, lo considerava “insieme a Gandhi, la figura più importante del ventesimo secolo”. Atea forse proprio per passione di giustizia –“ come posso credere in un Dio che sceglie me ma ne fa morire un altro?” – curiosa dell’Italia, dove vive sua figlia (“È strano che un presidente del Consiglio possieda giornali e tv”, diceva di Berlusconi), Gordimer ha sempre difeso l’idea della letteratura non come proiezione di sé, semplice autobiografia – “Non è di me che scrivo” – ma come la possibilità di “raggiungere universi che stanno oltre il mondo di cui disponiamo” (la sua avversione per i ghetti era così forte da convincerla a rifiutare un premio letterario riservato alle donne, perché “non esiste un premio per soli scrittori uomini”). Lo stesso compito, demolire distanze, rendere uguali, lo aveva ai suoi occhi l’istruzione, l’altro grande fronte sul quale Gordimer è stata sempre impegnata: “È il semi-analfabetismo il pericolo di oggi”, aveva detto a un’intervista al Fatto del 2010. È morta in Sudafrica perché, diceva, “considererei un tradimento andarmene”. E perché aveva ancora molte speranze per il suo Paese, libero da neanche vent’anni. “Ho resistito alle difficoltà dell’apartheid, resisterò alla disillusione di oggi”.

La Stampa 15.7.14
Le fenici cinesi che ripuliscono l'aria inquinata
Phoenix Towers è il nome della coppia di altissimi grattacieli mangia-smog progettati per la città di Wuhan
di Giulia Mattioli
qui

La Stampa 15.7.14
Cina, finisce in galera per corruzione anche la star nazionalista della tv
di Ilaria Maria Sala

Nelle maglie sempre più strette della campagna contro la corruzione lanciata con vigore da Xi Jinping, segretario di partito e presidente cinese, e è finito anche Rui Chenggang, star televisiva della China Central Television (Cctv) noto anche per il suo nazionalismo populista.
Rui, anchorman di un programma tra politica e economia, passò dalla gloria del piccolo schermo alla ribalta delle cronache nel 2007, quando decise di lanciare, da solo, una crociata contro la presenza di uno Starbucks all’interno della Città Proibita, riuscendo a trascinare tali folle (virtuali) dietro di sé da portare gli amministratori dell’antica residenza imperiale, oggi museo, a far chiudere i battenti al caffè americano.
E poco importa che questo colosso turistico a cui accorrono ogni giorno migliaia di persone sia gestito in quel modo pedante e statale di prima delle riforme economiche cinesi, e che, straniero o meno, fosse l’unico coffee shop un po’ moderno: Rui decretò che nel cuore dell’architettura «cinese» non poteva esserci nulla di straniero. Rui probabilmente non è al corrente del fatto che il primo architetto della Città Proibita fu un vietnamita, Nguyen An, e non s’interessa del dettaglio che a risiedervi più a lungo - dal 1644 al 1911 - furono i Qing, una dinastia di conquista, considerata «straniera» dai patrioti repubblicani.
Oggi, al posto di Starbucks, c’è un caffè che appartiene a un gruppo cinese.
Vinta questa prima battaglia, Rui lanciò il suo - contraddittorio - personaggio. Molto ben vestito (con un debole per i marchi italiani) e felice possessore di una Jaguar, nazionalista ardente ma perfettamente a suo agio con l’inglese, pronto a insultare ospiti in studio stranieri con arroganza rara, ma fiero di far introdurre uno dei suoi libri dall’ex rettore dell’Università di Yale, insomma la lista di contraddizioni di Rui non è breve.
Rui, dunque, è passato dall’essere il noto e popolare conduttore del talk show «Notizie Economiche», a essere arrestato insieme a Li Yong, il vice-direttore della sezione economia della Cctv, per «corruzione». Il che forse potrebbe spiegare meglio sia i completi eleganti che la Jaguar, e anche la pessima reputazione di cui gode parte della stampa cinese per la sua propensione a chiedere bustarelle per parlare in modo elogiante di alcune aziende e dei loro prodotti. Nemmeno il nazionalismo sfegatato, dunque, salva le star televisive dalla campagna anti-corruzione cara a Xi.

Corriere 15.7.14
La Danimarca e il ponte per cacciare i mendicanti
Ma la vicina Svezia insorge: siete cinici ed egoisti
di Luigi Offeddu

BRUXELLES — La Danimarca si prepara a espellere verso la vicina Svezia, attraverso il ponte di Øresund che collega direttamente i due Paesi, i mendicanti stranieri che sono apparsi nelle sue strade negli ultimi mesi, da quando si sono allentate le maglie dell’accordo di Schengen.
Dalla Svezia arriva già una risposta dura: «questo è un atto di cinismo». Controrisposta da Copenaghen: per anni il ponte di Øresund è stato chiamato «il ponte delle lucciole», perché percorso da migliaia di cittadini svedesi diretti ai bordelli di Copenaghen, dove la legge non punisce i clienti delle prostitute. Perché ora anche la Svezia non può caricarsi di un problema sociale, dare il suo contributo a risolverlo? E il dibattito si svolge fra due Paesi del Nord, entrambi civilissimi, entrambi rinomati per la loro tradizione di ospitalità verso i rifugiati o i bisognosi di tutti i continenti. Ma in alcuni casi, nei talk show su radio e tv, siamo quasi alle battute da bar. Per esempio: «il pedaggio sul ponte è di 30 euro, chi lo pagherà?».
L’argomento mette tutti a disagio: perché non esistono soluzioni pronte e l’apertura di molte barriere ha posto i Paesi nordici davanti a enigmi laceranti, e apparentemente senza sbocco. Del resto anche la Svezia starebbe preparandosi a bandire l’accattonaggio e forse ad autorizzare la deportazione di chi mendica. L’Unione Europea sta per ora a guardare, con molti dubbi sull’effettivo rispetto dei principi comunitari che proteggono la libera circolazione degli uomini e delle merci, in tutti i Paesi membri. E torna intanto, ma su un argomento assai più serio delle antiche beffe, la tradizionale ruggine fra svedesi e danesi, alimentata da guerre e partite di calcio, e raccontata con un sorriso in tanti film.
Coloro che vivono di questue nelle piazze di Copenaghen e di altre città danesi sono in gran parte cittadini romeni, e dunque europei a pieno titolo: uomini, donne, anziani, bambini. Fra loro, molte famiglie di etnia Rom, anch’esse protette da un passaporto romeno o Ue, quando ne sono in possesso. A Copenaghen, città turistica e piena di stranieri soprattutto d’estate, i mendicanti sono più di 200, forse anche 400, secondo qualche indagine sommaria: non un dramma nazionale, ma spesso la vista di bambini e neonati esposti come «esche» per suscitare la pietà dei passanti irrita o impressiona la pubblica opinione. Non mancano però, in certe frange estremiste, «irritazioni» di altro genere, confinanti con il razzismo e certo lontane dal comune sentire nazionale.
La Danimarca non è ovviamente un Paese razzista ed è retta da un governo bicolore socialdemocratico-socialiberale: pure ha mostrato anch’essa — come altri Paesi Ue — di essere impreparata davanti alle ondate migratorie dall’Est negli ultimi anni. Ai municipi e alle associazioni benefiche finanziate dallo Stato è fatto divieto di assistere in qualsiasi modo chi vive mendicando, e questo non allevia certo l’opera delle associazioni di volontariato. E poi ci sono i proclami come quello di Trine Bramsen, deputata socialdemocratica, responsabile per gli affari legali e i diritti umani del suo partito: «Non vogliamo che la Danimarca si faccia la reputazione in tutta l’Europa di un albergo dove si dorme e si mangia gratis. Deve essere vietato l’accattonaggio, il trascorrere la notte dietro le case altrui. Se scatterà il divieto, questa gente sceglierà un altro Paese, per esempio la Svezia, dove già sa di avere migliori possibilità».
La polemica continua. Secondo un recente sondaggio, i danesi concittadini di Trine Bramsen sono più ricchi degli svedesi, e anche dei tedeschi.

Corriere 15.7.14
X-Files: l’accademia Usa che studia il paranormale
Un dipartimento dell’Università della Virginia conduce ricerche sui fenomeni non spiegati dalla scienza
di Paolo Valentino

CHARLOTTESVILLE (Virginia) — Nei suoi incubi notturni, James Leininger sognava aerei colpiti che precipitavano ed esplodevano ancora in aria, prima di inabissarsi nel mare. Di giorno ricordava di essere stato nella US Air Force, pilota di un caccia in forza alla portaerei Natoma Bay. Parlava della sincera amicizia con un altro aviatore, Jack Larsen. E raccontava in dettaglio la propria morte, dopo che il suo aereo era stato abbattuto dai giapponesi nel cielo di Iwo Jima. All’epoca in cui evocava graficamente queste memorie James aveva 2 anni.
I fatti cui si riferiva il bambino della Louisiana erano successi più di mezzo secolo prima. Nella battaglia di Iwo Jima, la portaerei Natoma Bay perse in effetti un solo pilota. Si chiamava James Huston, veniva dalla Pennsylvania (cioè quasi 2 mila chilometri lontano dalla casa dei Leininger) e le circostanze della morte combaciavano esattamente con i ricordi di James, compresa quella che il nome del pilota del caccia in volo dietro di lui al momento dell’incidente era Jack Larsen. Ma nessuno le aveva mai rese pubbliche. Furono necessari al padre del piccolo quasi tre anni di ricerche negli archivi della Marina, per mettere insieme questi elementi.
«È assolutamente impossibile che un bambino di 2 anni possa aver assorbito queste informazioni attraverso mezzi normali» dice il dottor Jim Tucker, professore di psichiatria e scienze neurocomportamentali alla University of Virginia.
Quello di James Leininger è solo uno delle migliaia di casi di cui Tucker si occupa. Nel prestigioso college di Charlottesville dirige la Division of Perceptual Studies, meglio nota con l’acronimo di Dops. Fondata nel 1967 da un altro accademico, Jan Stevenson, l’istituto ha per missione «l’investigazione scientifica ed empirica di fenomeni che suggeriscono che le attuali assunzioni della scienza e le teorie sulla natura della mente o della coscienza possano essere incomplete».
Di cosa stiamo parlando? Il lettore avrà già capito: percezioni extrasensoriali, poltergeist, esperienze di morte apparente o extracorporali, memorie di vite altrui o, detto altrimenti, reincarnazione. Diciamolo diversamente: nel 2014, in una delle più rispettate istituzioni accademiche degli Stati Uniti, si studia il paranormale.
Prima di scandalizzarsi è bene precisare che nessun professore della Dops sa leggere la mente degli studenti, né questi passano attraverso i muri come nella X Mansion del Professor Charles Xavier. No, il laboratorio della Virginia è un posto pieno di gente brillante e seria, dove si fa solida ricerca basata su dati e fatti, nonostante l’oggetto del suo interesse sia controverso e sollevi perplessità in buona parte della comunità scientifica.
È dagli anni Settanta che Tucker lavora al Dops, il cui nome d’origine era Division of Personality Studies, occupandosi soprattutto di bambini che, come James Leininger, hanno ricordi vividi ma non vissuti personalmente, spesso di gente realmente esistita nel passato e vissuta a grande distanza. Sono testimonianze che suggeriscono la possibilità di una «sopravvivenza della personalità oltre le morte». Il Dops ha analizzato e catalogato in un database più di 3 mila casi, non solo di bambini, nei quali i pazienti raccontano memorie altrui.
La scienza ufficiale ha sempre guardato al laboratorio di Charlottesville con scetticismo, quando non con sospetto. Stevenson, il fondatore, venne accusato di non rispettare standard d’analisi rigorosi, di voler per forza vedere evidenza scientifica dove altri vedevano superstizione e, non ultimo, di aver tenuto in vita l’istituto grazie alle donazioni di ricchi filantropi, ossessionati dalla reincarnazione: uno di questi fu Charles Carlson, l’inventore della xerografia, che lasciò 1 milione di dollari al Dops, probabilmente su richiesta della moglie, di cui era nota la passione per il paranormale.
Ma i suoi sostenitori non mancano. E senza dover risalire a Max Planck, padre della fisica quantistica e teorico della coscienza universale, o a Carl Sagan, per il quale la reincarnazione «era un’area di ricerca parapsicologica degna di seria indagine», studiosi contemporanei hanno valutato positivamente i metodi di Stevenson e Tucker.
Già nel 1977, scrivendo su una rivista specializzata, lo psichiatra americano Harold Lief aveva lodato l’approccio del Dops. E precisando di voler sospendere il giudizio su telepatia e reincarnazione, si era detto «vero credente nei metodi di Stevenson». Su Scientific American , lo psicologo Jesse Bering ha definito «per nulla scontato il fatto che il lavoro del Dops sia privo di senso» e si è chiesto perché i dati raccolti dall’equipe di Stevenson e Tucker non vengano presi più seriamente: «forse che il nostro rifiuto anche di guardare a questi risultati, men che meno discuterne, sia riconducibile alla paura di sbagliarci?».
Certo siamo avanti a informazioni fuori del comune. Ma nulla toglie al fatto che alla Division of Perceptual Studies in Virginia si lavori con rigore, metodo e serietà pari a quelle di altre celebri istituzioni come la Nasa o il Mit. Che poi non vogliate credere a James Leininger e alle memorie di una vita non sua, è un’altra storia.

Corriere 15.7.14
Cuba
Arresti di massa tra le Damas de Blanco

L’AVANA — Le autorità cubane hanno arrestato domenica circa 100 donne appartenenti al gruppo delle «Damas de Blanco» (donne in bianco) durante la loro marcia settimanale per le strade della capitale cubana. Un numero di arresti davvero elevato per il gruppo di opposizione formato dalle mogli e dai parenti dei dissidenti cubani in carcere nelle prigioni dell’isola. Un gruppo che è l’unico ad essere autorizzato a protestare e a manifestare per le strade dell’Avana e che tutte le domeniche, dopo la messa, scende puntualmente in piazza. Le donne sono state arrestate e rilasciate poco tempo dopo. Secondo alcuni dissidenti cubani questi arresti si spiegano con la sempre maggiore visibilità delle Damas de Blanco e con la conseguente paura del governo di Raúl Castro che le vede come una minaccia per la sua legittimità. Le donne sono state arrestate mentre commemoravano il 20esimo anniversario di un incidente nel quale morirono circa 40 persone nel tentativo di lasciare Cuba in barca.

Corriere 15.7.14
Se in Francia anche la Sinistra chiede lo stop agli «Uteri in Affitto»
di Stefano Montefiori

Con una lettera aperta al presidente François Hollande pubblicata su Libération, l’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors e l’ex primo ministro Lionel Jospin hanno lanciato ieri una petizione perché l’Eliseo si pronunci di nuovo contro la pratica — illegale in Francia — della «Gpa» (gestation par autrui), ossia l’utero in affitto. Una recente sentenza della corte di Strasburgo rende ora teoricamente possibile la registrazione in Francia di gravidanze e nascite contrattate all’estero, per esempio negli Stati Uniti .
«Il contratto di madre in affitto è contrario al principio del rispetto della persona — scrivono Delors, Jospin e decine di altri firmatari —. Viola il rispetto sia della donna che porta in grembo il figlio su ordinazione, sia del bambino, che viene ordinato da una o due persone, si sviluppa nel ventre della gestante, e poi viene consegnato. Gli essere umani non sono delle cose».
Sul finire degli anni Novanta i francesi Sylvie e Dominique Mennesson, che non riuscivano ad avere figli, decisero di fare ricorso alla pratica dell’utero in affitto in California, dove è legale. Si rivolsero a un’agenzia che li mise in contatto con una donna, Mary, la quale dietro il compenso di 8.500 euro accettò di portare in grembo gli embrioni formati dagli ovociti di un’amica della coppia e dagli spermatozoi di Dominique. Nell’anno 2000 nacquero le gemelle Isa e Léa, figlie dei Mennesson per la legge americana ma non per quella francese.
Dopo 14 anni di battaglia legale, giovedì 26 giugno la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Francia per essersi rifiutata di trascrivere allo stato civile Isa e Léa come figlie dei Mennesson. Una sentenza carica di conseguenze: per le due ragazze, che potranno adesso ricevere la cittadinanza francese, e per circa 2.000 persone nelle loro condizioni. Ai tempi delle manifestazioni contro le nozze degli omo-sessuali, Hollande aveva dichiarato che non avrebbe mai ammesso la «Gpa» in Francia. Ma dopo la sentenza di Strasburgo, una serie di ricorsi simili a quelli dei Mennesson rischiano di scavalcare la legge. Contro «il mercato dei bambini», come lo chiamano Delors e Jospin, si schierano la destra, non solo cattolica, e da ieri due padri nobili della sinistra .

l’Unità 15.7.14
Togliatti disse: l’Unità sbaglia
Racconto inedito di Nilde Iotti sull’attentato al leader del Pci
Il 14 luglio 1948 i colpi sparati da Pallante. Il segretario invita il partito alla calma
e pochi giorni dopo critica il giornale: quel titolo non va
di Giorgio Frasca Polara

14 LUGLIO 1948, SESSANTASEI ANNI FA. POCO PRIMA DI MEZZOGIORNO PALMIRO TOGLIATTI, IN COMPAGNIA DI NILDE IOTTI, STA USCENDO DA UN INGRESSO SECONDARIO DELLA CAMERA DIRETTO A BOTTEGHE OSCURE. AD UN TRATTO UN COLPO DI PISTOLA, seguito da altri. La prima pallottola fallisce il bersaglio. La seconda colpisce il segretario del Pci alla nuca, facendolo cadere. Mail piombo per fortuna si schiaccia contro l’osso. Un terzo proiettile trafigge un polmone di Togliatti, la ferita più grave. È in quel momento che Nilde Iotti si volta e vede Antonio Pallante, l’attentatore, che si avvicina - in mano ha una rivoltella a tamburo calibro 38 - per sparare ancora, a distanza ravvicinata. Istintivamente Iotti si getta su Togliatti urlando. Mossa e grido confondono Pallante facendogli sbagliare la mira: il colpo raggiunge Togliatti di striscio, ad un fianco. La rapidità degli eventi paralizza i pochi presenti. Iotti deve urlare perché non si lasci scappare l’attentatore, che verrà acciuffato, arrestato, processato: pena modesta perché - si disse - più che un fanatico era un mezzo infermo di mente. L’attentato si tradusse in uno shock politico violentissimo. Tutti intuirono che potevano accadere fatti ancora più gravi. Mentre un’ambulanza trasportava Togliatti al Policlinico dove il prof. Pietro Valdoni, il più autorevole chirurgo dell’epoca, era già pronto per operarlo, i negozi cominciavano ad abbassare le saracinesche per timore del peggio: la voce dell’attentato si era sparsa come un fulmine. E infatti nel primo pomeriggio il centro di Roma fu invaso da una folla immensa, e molto duri furono gli scontri con la polizia, che mulinava con le jeep della «celere». Fanatico o seminfermo di mente lo sparatore, ma soprattutto «atto isolato» come si affrettò a sostenere il ministero dell’Interno? Certo quel gesto era covato e cresciuto nel clima acutissimo della campagna elettorale del 18 aprile, dello scontro frontale di tre mesi prima tra la Dc e il Pci. Senza contare che l’anno precedente i comunisti, come il Psi, eran ostati esclusi dal governo in un clima internazionale di aperta rottura tra Est ed Ovest. Senza contare che in una Sicilia ancora ribollente per il post-separatismo c’erano stati l’attentato mafioso a Girolamo Li Causi e - nel contesto della furia non solo criminale ma anche politica della banda Giuliano - la strage di Portella della Ginestra. Disse qualcuno (e divenne quasi senso comune) che la immediatamente successiva vittoria di Gino Bartali al Tour di Francia «salvò la democrazia in Italia» stemperando i momenti di paura suscitati dall’attentato a Togliatti. Pura banalizzazione degli eventi. Ed anche un modo per appannare il ruolo addirittura istituzionale che, proprio in quei momenti, ebbe lo stesso leader del Pci: mentre lo stavano caricando sull’ambulanza aveva sussurrato a Longo e Secchia: «State calmi, non perdete la testa». Parlava con grande fatica, ma anche con grande lucidità raccomandando di mantenere i nervi saldi, che insomma non succedesse un quarantotto. A testimonianza di come e quanto il Togliatti sempre realista (il «totus politicus», come aveva detto di lui Benedetto Croce) sapeva tener conto, anche in quei drammatici momenti, dei rapporti di forza esistenti nel Paese, la sua compagna mi rivelò 40 anni dopo un episodio molto significativo. «Quando qualche giorno dopo l’intervento chirurgico - raccontò Nilde Iotti - gli fu permesso di scorrere i giornali, Togliatti volle leggersi le cronache dell’attentato. Lo colpì, proprio sull’Unità, un titolone a nove colonne “Via il governo della guerra civile”. Ricordo il suo commento: se avessero scritto “Via il ministro dell’Interno”, questa sì che sarebbe stata una richiesta non solo plausibile ma anche accettabile! E infatti più tardi si seppe che in Consiglio dei ministri, riunito d’urgenza lo stesso giorno dell’attentato, il ministro degli Esteri Carlo Sforza ed il suo sottosegretario, un giovanissimo Aldo Moro, avevano posto il problema delle dimissioni del ministro dell’Interno ». Il ministro era Mario Scelba, la cui responsabilità più grossa non fu tanto e soltanto quella di non aver saputo prevenire l’attentato (ma su questa mancata protezione del Capo c’era stata anche, per la inadeguata vigilanza dell’apparato del Pci, la furibonda reazione di Stalin), ma soprattutto quella di aver poi teso nei fatti ad esasperare le tensioni di quei giorni con continui caroselli, sparatorie e cariche della polizia non solo a Roma ma ovunque per il Paese: due morti a Napoli, uno a Taranto, un altro a Firenze...E quando a Torino una decina di operai della Fiat decise di «sequestrare» l’amministratore delegato Vittorio Valletta, Scelba pensò di chiamare l’esercito. Fu lo stesso Valletta a bloccarlo, e a sgonfiare la protesta con una battuta sarcastica: «Intanto andate a lavorare, altrimenti domani vi licenzio tutti e dieci». Sempre Scelba pensò addirittura alla immediata chiusura di tutte le sedi del Pci come «misura di sicurezza ». Ma De Gasperi bloccò la proposta che, quella sì, avrebbe potuto far degenerare la situazione. Fu lo stesso De Gasperi ad esprimere a Togliatti la sua solidarietà. «Un gesto - chiosò Iotti - che ebbe un peso politico».

Corriere 15.7.14
Defoe, il maestro delle sensazioni
Nessuno è come lui nel trasmettere il realismo delle sciagure
di Sergio Perosa

Defoe è il campione del realismo circostanziato, ma è anche uno che inventa parecchio. La sua è quasi sempre fiction, invenzione romanzesca. La minuziosa appropriatezza dei dettagli anche minimi — nelle descrizioni d’ambiente e di costumi, di personaggi e atmosfere — serve a ottenere l’«effetto di realtà» e autenticare il discorso, a far credere alla veridicità della narrazione. Nessuna «sospensione dell’incredulità», come avrebbe voluto il romantico S. T. Coleridge, è richiesta al lettore, che va invece convinto che si trova davanti al vero.
Defoe tende alla visualizzazione e alla drammatizzazione, addirittura a forme di pre-novecentesco «correlativo oggettivo»: «Vorrei poter restituire il suono esatto dei lamenti e delle invocazioni che ho udito da alcuni poveri moribondi»; che soddisfazione poterli riportare «in modo così efficace da suscitare un’emozione nell’animo stesso del lettore». Un altro metodo che usa spesso — come del resto molti narratori prima e dopo di lui — è di attribuire le vicende che narra a un testimone «informato sui fatti». Forse per questo inventa di più, cautelandosi e sentendosi «autenticato» per interposta persona.
Lo dimostra quel suo strano Diario dell’anno della peste (riproposto dalle edizioni Elliot). L’anno della peste di Londra è il 1665, e lui aveva allora cinque anni: avrebbe potuto rammentare solo qualche sprazzo, forse non era nemmeno a Londra, al massimo ne aveva sentito parlare da sopravvissuti molti anni dopo. Altre celebri descrizioni della peste, come quelle di Tucidide o di Manzoni, concentrano in spazio relativamente breve l’effetto d’orrore: Defoe lo protrae per oltre duecento fitte pagine, servendosi di reminiscenze di parenti o conoscenti, ma soprattutto di resoconti, bollettini e statistiche ufficiali, delle testimonianze scritte che fossero reperibili.
Lo fa inoltre — altro elemento del realismo settecentesco e oltre — perché era un fatto di attualità, da sfruttare per fini di diffusione e copie vendute. Nel 1720 la peste era scoppiata a Marsiglia e il possibile contagio impensieriva mezza Europa, soprattutto le città portuali come Londra. Subito Defoe ci scrive su diversi articoli giornalistici, addirittura un vademecum , debita preparazione per la peste sia dell’anima che del corpo, e due anni dopo questo Diario inventato di un’epidemia di oltre cinquant’anni prima.
Ci sono momenti a forte tinte: il delirio dei colpiti dal morbo, ma anche di predicatori stralunati che corrono nudi per le strade, ruberie, atrocità e bagordi raccapriccianti, i carri dei morti che precipitano assieme ai vivi nelle fosse comuni, fuochi spettrali e cimiteri improvvisati che costellano la città. Ma direi che il testo ha non tanto pathos quanto terribilità e arriva a farci coesistere con quella esperienza di terrore, distruzione e follia collettiva proprio rendendoli evidenti e tangibili nella loro quotidianità e insieme sconvolgente sorpresa.
La quotidianità dell’orrore a cui non si sfugge è il suo gran pregio (come oggi per molte epopee post-nucleari), assieme all’oculato procedere per gradi nel tracciare l’insorgere, il dominio e la progressiva scomparsa del morbo. Ché la peste si diffonde anche nel contado, dove Defoe la segue, in particolare attraverso tre fuggiaschi che vivono alla ventura fra campi e foreste. Pensiamo a Shakespeare che qualche decennio prima con la sua compagnia in tempo di peste fuggiva da Londra per andare a recitare in campagna, con esperienze forse simili.
Del libro di Defoe — di cui Elio Vittorini aveva dato una prima versione già nel 1940, dichiaratamente sfrondata per renderla più accettabile al pubblico — esce come ora si richiede una seconda traduzione integrale (un’altra era uscita da Casini qualche decennio fa). È vero che l’autore ci mette dentro di tutto, talvolta si ripete e fa qualche confusione: ma è giusto così, e non ci sorprende neanche il moralismo, finto o reale che fosse.
Nonostante qualche riserva, Defoe è conciliante, addirittura corrivo con i cittadini e l’establishment di Londra, si compromette (come fece spesso anche in altri campi) fino a elogiarne il lavoro svolto; includendovi i poteri divini, che hanno castigato la città per i suoi peccati e poi misericordiosamente l’hanno graziata con la sospensione della pena. Credeva, o voleva farci credere, anche a questo: «nulla può succederci senza l’ordine o il permesso del Signore»; «come se l’epidemia non fosse casata da Dio», e via dicendo. Era un dissenziente e come in Robinson Crusoe , la pena o le catastrofi sono volontà e un segno del cielo.

Il libro: Daniel Defoe, «Diario dell’anno della peste», traduzione di Antonietta Mercanti, introduzione di Goffredo Fofi, edizioni Elliot, pagine 238, euro 17.50

Corriere 15.7.14
Le corrispondenze amorose che parlano a busta chiusa
Nelle missive il lato intimo di giganti di Otto e Novecento
di Chiara Maffioletti

Probabilmente il segreto è che ci vuole del tempo. Quello che rende e renderà per sempre una lettera d’amore non tanto uno strumento per comunicare, ma un gesto con un significato che arriva prima delle parole che consegna, è che per scriverla, chi lo ha fatto, deve averci dedicato del tempo. Lo deve aver cercato, magari aspettandolo per diverse ore prima di trovare almeno un po’ di quella calma indispensabile quando ci si deve sedere a un tavolo per iniziare a tradurre i propri pensieri in parole scritte. Serve tempo per concentrarsi su una calligrafia che, anche per i meno fiscali, deve essere il più possibile lontana dallo scarabocchio. Serve tempo poi per rileggere e, magari dopo, anche per riscrivere tutto «in bella». Per questo, una lettera d’amore significa dire «sei importante» a qualcuno ancora prima che apra la busta. Perché oltre alle parole, un foglio scritto a mano regala attimi di vita che una persona ha deciso di donare a un’altra. Regala attenzione, cura e pazienza. Oltre che sentimento.
Non è un caso se questo strumento non abbia perso un grammo del suo fascino nonostante, negli anni, il suo uso sia diventato sempre più una rarità. Le caselle delle lettere si riempiono ormai solo di volantini delle più inutili pubblicità o di buste minacciose che si preferirebbe non aprire.
E dire che c’è chi invece, nella storia, ha ricevuto missive da Fernando Pessoa, John Keats, Oscar Wilde, Freud, Colette, Pablo Neruda, Frida Kahlo, Ernest Hemingway... Testimonianze non solo d’amore, raccolte ora in una collana di 20 libri — in edicola da oggi con il «Corriere» (ogni volume sarà in vendita a 6,90 euro + il prezzo del quotidiano) — che custodisce le corrispondenze appassionate di alcuni dei giganti dell’Ottocento e del Novecento. Letterati, artisti, scienziati e pensatori che sbriciolano il loro nome imponente, la loro fama, sotto i colpi di parole e paroline d’amore che ne mostrano la sorprendente vulnerabilità. Parole che svelano fragilità e tenerezze anche infantili di questi miti, che attraverso i loro stessi racconti amorosi abbandonano ogni facciata e si mostrano per quelli che sono davvero, nel loro intimo. E molto spesso è un’immagine ben diversa rispetto a quella che è passata di loro. Si scopre così, ma è solo un esempio, che l’enigmatico Fernando Pessoa scriveva alla giovane fidanzata: «Ciao, amore. Qualche volta pensa a me, quando non sei distratta... Sono proprio sicuro (per quanto mi riguarda) di essere innamorato di te. Sì, credo di poter affermare che sento per te un certo affetto. Un reggimento di bacini dal tuo, sempre tuo, Fernando».
Probabilmente oggi, il grande scrittore avrebbe aggiunto alla fine anche degli emoticon e un paio di cuoricini. E forse oggi, il robusto scambio con la sua Bebè, come lui chiamava Ophélia Queiroz, sarebbe stato fatto anche di qualche email e di diversi messaggini su WhatsApp, uccidendo così però buona parte del romanticismo oltre che pagine di letteratura.
Questione di epoche. Oggi sembra impossibile lasciar passare più di qualche ora senza sapere dove si trovano fisicamente le persone a noi più care. Senza sapere se stanno bene, cosa stanno facendo. L’abitudine all’attesa per avere loro notizie non esiste più e quello che anzi diventa esasperante è vedere che la persona amata ha visto il nostro messaggio — la tecnologia ormai consente facilmente anche questo — e non ha risposto. In amore vince «chi visualizza e non risponde» sembra essere il nuovo detto nell’era dell’iper-connessione, in cui la fuga dagli altri non è praticamente più possibile.
Ma tra un messaggio scritto su un cellulare o sullo schermo di un pc e una vera lettera d’amore c’è come minimo la differenza che passa tra un dipinto e una fotografia. Ne esistono di bellissime, senza dubbio. Emozionanti e piene di significato. Ma un dipinto richiede tempo e dedizione che va ben oltre quello necessario per lo scatto di un clic.
Lo stesso succede quando si sceglie di scrivere su un foglio i propri sentimenti, impugnando una penna che all’inizio trema un po’ per la paura di sbagliare. Nelle parole c’è tutta quell’emozione che chi riceve la lettera prova a sua volta, magari anche toccando, facendo scorrere le dita sulla carta incisa proprio lì dove chi ce l’ha mandata ha finito per farlo. Una lettera d’amore si tocca, si guarda, si annusa, si rilegge, si conserva. E spiace pensare che in un periodo storico che ha definitivamente cambiato la grammatica delle relazioni, sempre meno persone abbiano il privilegio di provare il batticuore che scatta quando inaspettatamente si riceve una lettera da una persona che amiamo. Ci si sente lusingati da quella busta che diventa improvvisamente l’appiglio a cui siamo aggrappati per avere delle risposte o anche solo per sentirsi almeno un po’ rassicurati. Ricevere una lettera d’amore fa scattare sentimenti simili a quelli che prova un bambino quando finalmente trova i giocattoli che desiderava, la mattina di Natale.
Una lettera d’amore non è immediata, prima di arrivare ha fatto un viaggio, anche quando è consegnata a mano. E, a differenza di sms e altre chat, non richiede mai una risposta impulsiva, immediata. Una lettera si può gustare a lungo, perché chi l’ha scritta ha riversato una parte di sé che l’innamorato che la riceve cerca avidamente di decifrare scorrendo ogni riga, provando a indovinare perché ha scelto un termine e non un altro. Una lettera d’amore è quasi sempre sincera perché il solo modo con cui ha senso scriverla è con il cuore in mano. Ed è anche per questo che una lettera d’amore inizia a parlare ancora prima che venga aperta la busta.

il Fatto 15.7.14
L‘ultimo requiem
Maazel, genio che svelò il Grande Fratello
di Giorgio Cerasoli

Un grandissimo direttore, ma anche un prolifico compositore. Tra la musica scritta da Lorin Maazel spicca un titolo rappresentato nel 2005 alla Royal Opera House di Londra che la dice lunga sul carattere particolare e i molteplici interessi del musicista: 1984, basato sul lavoro distopico di Orwell, in cui con grande lucidità veniva svelato il volto del “Grande Fratello” e si dava voce al grido di disperazione di un’umanità costretta a seguire i suoi ordini. Il nome di Maazel figurava ancora nel programma, stampato pochi mesi fa, del Beethovenfest di Bonn, dove il prossimo 20 settembre avrebbe dovuto dirigere la Sinfonia dal Nuovo Mondo di Dvorák alla guida dei Münchner Philharmoniker, ma le sue condizioni di salute si erano aggravate nelle ultime settimane e gli impegni europei erano stati cancellati. È morto domenica scorsa nella sua casa in Virginia per complicazioni sopraggiunte a una polmonite. Proprio dal nuovo mondo aveva portato in tutti gli angoli della terra il suo inesauribile entusiasmo, lui che era nato vicino Parigi nel 1930 da una famiglia americana di religione ebraica e origini russe trasferitasi oltreoceano due anni dopo per via delle leggi razziali.
BAMBINO PRODIGIO, aveva iniziato a studiare violino a cinque anni e ben presto anche direzione d’orchestra, riuscendo a stupire, appena undicenne, Arturo Toscanini, che lo aveva invitato a dirigere la Nbc Symphony. Lunghissimo l’elenco delle orchestre – tra cui le prestigiose Cleveland Orchestra, l’Orchestre National de France, la Filarmonica della Scala e l’Orchestra dell’Opera di Stato di Vienna
– dirette in oltre settant’anni di eccezionale carriera, una discografia con più di trecento titoli, innumerevoli gli eventi di cui fu protagonista. Come il Lohengrin diretto, primo americano, nel 1960 al Festival di Bayreuth; le Sinfonie di Beethoven proposte a Londra nel 1988 in una maratona di oltre dieci ore; la visita senza precedenti in Corea del Nord nel 2008 per dirigere la New York Philharmonic. Personalità poliedrica e inarrestabile, parlava correttamente le principali lingue europee, aveva studiato filosofia e matematica, era un accanito lettore di classici e, più di recente, annotava le proprie acute e talvolta irriverenti riflessioni su un blog. Il pubblico cinematografico lo ricorderà sul podio nel Don Giovanni di Josef Loosey e nella Carmen di Francesco Rosi, quello televisivo nel celebre Concerto di Capodanno a Vienna ma anche ospite a Che Tempo che fa. E, dopo Abbado, il mondo della musica perde un’altra grande personalità che tanto ha creduto e si è adoperata per sostenere i giovani talenti.

Repubblica 15.7.14
Elogio del confine in un mondo globale
Considerati un retaggio del passato in un pianeta che non oppone limiti alla potenza del mercato, i luoghi di margine vedono rivalutate vitalità e capacità di innovazione
di Roberto Esposito

Ad appena un anno di distanza dalla caduta del grande Muro, il guru giapponese Kenichi Ohma e pubblicava le sue lezioni di management con il titolo Il mondo senza confini ( tradotto da Il Sole 24 Ore). Termini come “flussi”, “ibridazioni”, “postnazionalismo” disegnavano il nuovo mondo globale come uno spazio liscio ed omogeneo, aperto alla libertà di un mercato senza confini. È bastato poco perché tale scenario andasse in frantumi. A partire dall’ipotesi di un rapido tracollo degli Stati-nazione. I quali devono certamente adattarsi alla convivenza con altre formazioni spaziali che ne alterano il profilo e ne riducono le prerogative. Ma rimangono gli attori principali della politica.
In realtà lo scenario che nell’ultimo ventennio si è andato delineando appare irriducibile a tutte le formulazioni precedenti. Né la divisione tra Est e Ovest né quella tra Nord e Sud, né il modello unilaterale né quello multilaterale sono in grado di rappresentare un mondo unificato dalle differenze, orientato insieme all’inclusione e all’esclusione.
La tesi di Sandro Mezzadra e Brett Neilson, presentata in un libro uscito l’anno scorso in America e adesso tradotto da il Mulino con il titolo Confini e frontiere , è che la categoria più adatta a restituire questo quadro in continua evoluzione sia proprio quella di confine. A patto, però, di ripensarne radicalmente il significato. Generalmente contrapposto alla frontiera, interpretata come orizzonte in continua espansione, il confine condivide con essa la dimensione dinamica. Tutt’altro che linea immobile destinata a dividere lo spazio globale in territori stabilmente definiti, esso è luogo di produzione di rapporti e di conflitti, di disciplinamento e di innovazione - una vera fabrica mundi , per usare la splendida espressione rinascimentale.
Gli autori del libro, sviluppando le ricerche postcoloniali di Balibar e Spivak, di Sassen e Chatterjee, percorrono in lungo e in largo questa fenomenologia ambivalente, assumendo il confine non solo come oggetto, ma anche come paradigma dotato di significato simbolico e materiale. Esso da un lato si moltiplica in una serie di figure correlate - limite, soglia, marca, faglia. Dall’altro si dilata fino a includere in sé lo spazio che dovrebbe dividere. Più che semplice muro, il confine è zona in cui è possibile vivere, come ormai accade negli aeroporti e nei ghetti costruiti ai margini o dentro gli spazi metropolitani. Basti pensare alla striscia di Gaza o alla terra di nessuno situata tra Stati Uniti e Messico.
Anche una nave può diventare confine, come è accaduto per più di sei mesi a una imbarcazione contenente 254 migranti, intercettata dalla marina indonesiana su segnalazione dell’Australia e trasportata nel porto di Merak, dove essi si sono rifiutati di sbarcare. In una situazione in cui nessun Paese si è voluto assumere la responsabilità di intervenire, quella nave è finita in un vuoto normativo divenendo una specie di isola in movimento. Qualcosa di analogo è capitato nel 2004 sulle nostre coste, quando la marina italiana ha impedito ad un’altra imbarcazione alla deriva di approdare. Dopo una estenuante trattativa diplomatica tra Italia e Malta, finalmente sbarcati a Porto Empedocle, i superstiti sono poi stati espulsi in Ghana e in Nigeria.
Già Carl Schmitt, nel Nomos della terra , aveva colto il ruolo costitutivo dei confini. Se da sempre essi esprimono i rapporti di forza politica tra potenze rivali, al tramonto del diritto pubblico europeo delineano i grandi spazi in cui si divide il mondo. È noto il ruolo della cartografia nell’elaborazione dell’universo coloniale e poi imperialistico. La suddivisione del globo in aree di influenza è stato uno strumento efficace per entrambi i blocchi durante il periodo della guerra fredda.
Ma la funzione assunta oggi dai confini è ancora diversa. Essa non si limita all’ambito geopolitico, ma invade l’intera sfera dell’esperienza contemporanea, investendo territori a cavallo della legge e dell’economia. Il confine regola il complesso rapporto tra cittadinanza, potere e diritti, ristrutturando tempo di vita e tempo di lavoro. Mezzadra e Neilson analizzano la trasformazione profonda che subiscono le condizioni lavorative di soggetti esposti al continuo passaggio di confine, come le donne destinate alla cura di anziani o, all’altro capo dello spettro sociale, i traders. Femminilizzazione del lavoro e finanziarizzazione dell’economia ne sono allo stesso tempo la causa e l’effetto. Attraverso una sempre più intensa mobilità di persone, merci, denaro, le nuove frontiere si dimostrano dispositivi indispensabili al governo della biopolitica contemporanea. Assai più che nell’antico regime sovrano, i confini impongono regole e comportamenti, limitano e controllano, segmentano ed escludono. Come dicono i latinos, non siamo noi ad attraversare i confini, ma essi che ci attraversano.
Eppure il confine, come è evidente, ha una doppia faccia - separa e congiunge. Allo stesso modo al suo lato violento, ne corrisponde uno creativo. Disciplinando i soggetti, esso li mette in relazione. Da qui il suo potenziale politico in una stagione in cui le classiche dicotomie politiche - tra destra e sinistra, conservazione e progresso - sono entrate in affanno. Allorché la società appare troppo frammentata per disporsi lungo un unico fronte, la molteplicità dei confini consente aggregazioni parziali altrimenti impossibili. Come sostiene anche Emanuela Fornari in un libro di argomento affine, edito da Bollati Boringhieri col titolo Linee di confine , il principale ruolo politico del confine, all’interno dello spazio globale, è quello di traduzione tra dimensioni socio-culturali altrimenti incomunicabili. Ciò - questo continuo lavoro di significazione e di negoziazione - produce un soggetto politico molto diverso da quelli classici, rappresentati da classi, partiti e sindacati. Anche perché ne trasforma continuamente i caratteri, appunto traducendo gli uni negli altri. In questo modo il gioco politico si sposta fuori dagli Stati, per articolarsi lungo l’intero fronte sociale. Sarà questa la politica a venire? Ed essa basterà a mobilitare le energie estenuate dei nostri sistemi politici? Personalmente ho qualche dubbio. Una politica dei confini è necessaria e anche inevitabile. Ma soltanto se riuscirà a confrontarsi con i poteri che ancora guidano gli Stati, sarà in grado di modificare i rapporti di potere tra chi ha troppo e chi nulla.

Corriere 15.7.14
Gli amici sono simili (anche nel Dna)
di Eoardo Boncinelli

Il Dna delle persone amiche tende a somigliarsi. Lo dice una ricerca che ha effettuato analisi su un milione e mezzo di persone: sappiamo da tempo che una coppia condivide il grado di cultura e d’intelligenza. Se ora ci viene detto che anche gli amici mostrano una somiglianza genetica, non bisogna sorprendersi. Essere amici vuol dire parlarsi, condividere interessi e passioni. Gli amici si scelgono reciprocamente, anche se la vita può portare a disillusioni.

Chi si somiglia si piglia, si dice molto spesso. Vuoi vedere che è veramente così!? È stata appena pubblicata una ricerca che attraverso l’analisi del Dna di un milione e mezzo di persone ha portato a concludere che il Dna delle persone amiche tende a somigliarsi. Non so se sia assolutamente vero, ma certo è verosimile e non inatteso. Perché?
Sappiamo da decenni, dai tempi in cui ancora non esistevano tutte le diavolerie di oggi per analizzare il Dna delle diverse persone, che i due membri di una coppia tendono a condividere il grado di cultura e d’intelligenza. Non fu allora e non è oggi una grossa sorpresa. In una coppia bisogna parlare e scambiare continuamente punti di vista e idee; e per farlo, il possesso di uno stesso grado di cultura e d’intelligenza certamente aiuta. Le coppie evanescenti e destinate a dissolversi tendono a essere quelle nelle quali si parla poco e di cose poco importanti. Comunque sia, questo fatto è più che assodato e figura in ogni manuale di biologia umana, quella scienza che studia appunto le caratteristiche biologiche di noi umani.
Se diamo per scontato questo fatto, occorre chiedersi dove è riposta la predisposizione alla cultura e all’intelligenza. Anche se si tratta di fenomeni che hanno, ovviamente, una grossa componente culturale e sociale, non c’è dubbio che anche i geni ci mettano lo zampino, assicurando una potenzialità intellettuale, un certo grado di memoria e, perché no?, anche una certa propensione a informarsi e a far tesoro delle informazioni acquisite. Insomma, certamente, i due partner di una coppia che funziona hanno una certa somiglianza genetica.
Se ora ci viene detto che anche le coppie di amici mostrano una certa somiglianza genetica, non è il caso di sorprendersi. Essere amici vuol dire parlarsi, condividere interessi e passioni, ed essere in grado di discuterne. Una coppia di amici è un calco significativo di una coppia di amanti, anche se spesso il grado di coinvolgimento affettivo è minore, almeno a certe età. Non a caso si è parlato in passato di «affinità elettive». Appare chiaro quindi che una certa somiglianza genetica può aiutare, anche se difficilmente sarà un fattore discriminante di valore assoluto. Avere una struttura genetica portante non troppo dissimile appare quindi un fattore predisponente, anche se ha senso chiedersi: «Di tutti i geni che possediamo quali si somigliano di più nelle coppie di amici?».
Ma prima viene spontanea un’altra domanda: «Come ci si accorge di chi ha i geni simili a noi?». Si tratta di una domanda semplice. Non sono i geni quelli di cui ci si può accorgere, ma la loro estrinsecazione, cioè il loro contributo al comportamento e all’atteggiamento complessivo. E questi sì possono essere rilevati, anche se quasi mai consapevolmente. Con certe persone ci si trova meglio che con altre, e quasi sempre non si sa dire perché. Ma questo succede invariabilmente fino dalla prima età: gli amici si scelgono reciprocamente, anche se la vita può poi portare a disillusioni e «tradimenti», proprio come nelle faccende di cuore.
Quali geni contano di più in questa giostra di personalità? Sarei molto curioso di saperlo, ma già ci viene detto che i geni in questione sono tra quelli che sembrano evolvere più velocemente nella storia della nostra specie. Prospettiva bellissima e affascinante. Noi evolviamo, cioè miglioriamo continuamente il nostro modo di affrontare ed eventualmente modificare l’ambiente in cui viviamo, ottimizzando le nostre relazioni personali e la nostra interdipendenza. Insieme per un mondo migliore, verrebbe fatto di dire, «se non facessimo brutti sogni» come dice l’Amleto di William Shakespeare. Da dove vengono i brutti sogni — intolleranza, insensibilità, conflittualità e aperta ostilità? Dalla bestia che ancora alberga in noi.

Repubblica Salute 15.7.14
Malattia batterica quasi scomparsa che ha una recrudescenza in Europa L’intreccio con l’Hiv. Trattato solo un caso su 10
Giovani adulti e sesso “facile” Il ritorno della sifilide
di Aldo Franco De Rose*

ALLA fine degli anni 90 alcune infezioni sessualmente trasmesse (IST) come la sifilide erano diminuite drasticamente, quasi dimenticate, almeno nei paesi industrializzati, successivamente si è avuto un aumento nei paesi dell’Est fino a rappresentare un vero problema di salute pubblica per tutta l’Europa. Più recentemente, è stato accertato che la sifilide rappresenta un importante fattore di rischio per le infezioni da Hiv. E intanto arriva un nuovo allarme dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms): a partire dal 2008, nel mondo, sono quasi 1,5 milioni le donne in gravidanza con la sifilide e, come riportato dalla rivista PloSMedicine, in meno del 10% la malattia viene individuata e trattata, con gravi conseguenze: 212.000 nati morti, 107.000 decessi nel periodo neonatale, 62.000 parti prematuri o basso peso alla nascita e 150.000 neonati con sifilide congenita. L’Africa Subsahariana è la regione più colpita con una prevalenza del 2,13%, mentre l’Europa è interessata per lo 0,16% e la Romania è il paese più coinvolto.
In Italia i dati della infezione da sifilide non sono allarmanti ma meritano sicuramente attenzione. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (Iss), dal 1 gennaio 1991 al 31 dicembre 2012, sono stati accertati 8803 casi. Nelle donne il numero di infezioni ha evidenziato una riduzione fino al 1998 ma un aumento di ben quindici volte tra il 1998 e il 2008 con una riduzione e stabilità verso il 2012. Negli uomini l’aumento è stato di circa sei volte nel 2005 rispetto al 2000 e poi una riduzione fino al 2012. Oggi però la sifilide rappresenta una nuova fonte di preoccupazione in quanto si è dimostrata capace di aumentare il rischio di infezione da Hiv fino a sette volte. Infatti, dei 95.752 pazienti con una Infezione Sessualmente Trasmessa, 67.102 (69,4%) hanno effettuato un test anti-Hiv e 4.921 (7,3%) sono risultati positivi. E a prevalere è stata la sifilide, come è stato ribadito ad un recente convegno romano “Focus on: Hiv”. «La nostra ricerca», dice Aldo Di Carlo, direttore scientifico del San Gallicano (dove, a Dermatolgia Infettiva è stato avviato un Programma di lotta alla sifilide nelle popolazioni di giovani adulti), «è durata 25 anni e ha valutato la probabilità di acquisire l’infezione da Hiv in una popolazione di circa 2.000 maschi a rischio che hanno fatto sesso con altri maschi (MSM): tra il 2001 e il 2009 si è verificato un incremento dell’incidenza dell’infezione mai registrato dal 1985; inoltre nel 2013 i pazienti sieropositivi con sifilide erano il 33%, nel 2011 il 17%» .
La sifilide o come spesso viene ricordata “il mal francese” dalla presunta epidemia portata in Italia nel 1495 dal re francese Carlo VIII, ha una incubazione di 2-18 settimane e viene trasmessa dal batterio Treponema Pallidum, quasi esclusivamente con rapporto sessuale: nella fase primaria la malattia si evidenzia con ulcerazione (sifiloma) ai genitali ma anche all’ano, bocca o gola e ingrossamento dei linfonodi inguinali. Successivamente le ulcerazioni scompaiono e, nel II° stadio, che si verifica dopo 2- 6 mesi dal contagio, si hanno eruzioni pustolose in tutto il corpo, compreso le palme delle mani, con malessere generale. Dopo qualche settimana i disturbi scompaiono ma le persone sono sempre infette. In caso di mancata guarigione, anche dopo 10-30 anni, si potrà avere il terzo stadio con danni a tutti gli organi, fino alla cecità, paralisi, demenza e morte.
*Spec. Urologo e Andrologo, Clinica Urologica Genova

l’Unità 15.7.14
Scelti per voi. Il film di oggi
Quel giardino di limoni simbolo del conflitto in Medioriente

IL GIARDINO DI LIMONI (2008) Il conflitto israelo palestinese raccontato attraverso gli occhi di una donna coraggiosa decisa a salvare ad ogni costo il suo giardino. Eran Riklis dopo «La sposa siriana» torna sui temi del medioriente raccontando lo scontro tra vicini di casa: la protagonista che vive in Cisgiordania e coltiva la sua limonaia, dall’altra il ministero della Difesa israeliano che vuole smantellare i profumati limoni.

l’Unità 15.7.14
Misteri neozelandesi firmati da Jane Campion
di Aldo Grasso

Jane Campion, la regista premio Oscar per Lezioni di piano , ha scritto e diretto una serie televisiva molto raffinata e acclamata dalla critica americana, «Top of the Lake», ambientata nei paesaggi della Nuova Zelanda in mezzo a una natura incontaminata e potente, tra nebbie e sconfinati silenzi (Sky Atlantic, lunedì, 22.10).
Alla base della storia c’è un mistero: Robin (Elizabeth Moss, che interpreta Peggy Olson in «Mad Men») è una detective specializzata in crimini sessuali. Ritorna da Sydney in Nuova Zelanda per stare vicina alla madre, malata terminale, proprio mentre la sua cittadina d’origine è scossa dalla scomparsa di Tui, una ragazzina di dodici anni incinta e vittima di una presunta violenza. Robin indaga insieme alla polizia locale e ben presto il caso inizia a trasformarsi in un’ossessione, a consumarla nel profondo: c’è molto di personale (con una storia d’amore adolescenziale che si riaccende), ci sono i traumi del passato che riaffiorano e l’immedesimazione con la vittima diventa una forza oscura che guida la sua ricerca.
Ben presto diventa chiaro che, nei propositi della serie, non è solo la risoluzione del caso a contare, che non siamo di fronte al più classico dei gialli: la forza di «Top of the Lake» sta invece nelle sue stranezze ed eccentricità. La prima è un ritmo molto lento, lontano dall’adrenalina dei gialli investigativi, che spesso si concede apparenti digressioni dal filone narrativo principale alimentando l’ambiguità del racconto. Per esempio quando decide di seguire un gruppo di donne che vivono in un villaggio di container a bordo del lago, guidate dalla guru GJ (Holly Hunter), per guarire da cicatrici del passato.
Più che i traumi, alla serie importa raccontare quello che viene dopo: vivere con le conseguenze di un dolore, trovare la forza di sopravvivergli.