mercoledì 16 luglio 2014

l’Unità 16.7.14
Ai lettori


I giornalisti de l’Unità non tifano per una soluzione piuttosto che per un’altra: tifano per il loro giornale. Nel polverone che a più riprese si sta montando su una vicenda seria e per certi aspetti drammatica, i lavoratori hanno avuto un atteggiamento irreprensibile. Chi vuole salvare l’Unità deve presentare ora un’offerta solida dal punto di vista economico, che abbia la condivisione più ampia possibile nel mondo vicino al giornale.
Ciò significa il Pd, il mondo del lavoro e del sindacato, quello dell’associazionismo e della militanza storica della base del partito, che proprio in questi giorni si sta impegnando nelle feste de l’Unità. Solo così si rafforza il giornale fondato da Antonio Gramsci. Altre strade non esistono. Sappiamo che sarebbe in arrivo una integrazione alla proposta presentata giorni fa da Matteo Fago, aspettiamo di vederla e di conoscere la valutazione dei liquidatori in proposito. Ricordiamo comunque a Fago che il suo dovere di imprenditore oggi è il pagamento degli stipendi dei lavoratori che stanno conservando il valore della testata mantenendola in edicola. Quanto ad altri annunci dell’onorevole Santanché, sappiamo che finora non sono suffragati da fatti. Ma anche se lo fossero, consideriamo l’ipotesi non percorribile per rispetto della storia del giornale e dei suoi lettori.

Prima Comunicazione online 16.7.14
Il Cdr dell’Unità: “Basta gufi, offerte serie”
In arrivo quella di Matteo Fago

qui

l’Unità 16.7.14
Il caso Unità
Santanchè insiste, Ferrari frena: prematuro
La deputata forzista: combatterò fino alla fine
I liquidatori: non è arrivata alcuna proposta formale
Carlo De Benedetti: completamente estraneo a questa iniziativa


Santanchè insiste. A proposito del l’Unità dice: «Parlerò quando sarà il caso di parlare». Nonostante i giornalisti siano sulle barricate, aggiunge, «io lotterò fino alla fine perché ciascuno possa esprimere le proprie idee. Sarà una scelta loro ». Così risponde ai giornalisti, arrivando nella sede di Forza Italia per l’assemblea dei parlamentari con Silvio Berlusconi. Interverrà sulla linea politica del giornale? «No, io non intervengo proprio sull’argomento. Parlerò quando avrò qualcosa da dire». Ma quel qualcosa da dire, tradotto al momento in una lettera d’intenti, non ha convinto i liquidatori, tanto meno il Comitato di redazione che ha ribadito a più riprese l’inconciliabilità tra il passato, il presente e il futuro del giornale fondato da Antonio Gramsci, con il profilo politico e il cursus della deputata forzista. Ma Paola Ferrari, indicata come socia di Santanchè nell’«operazione Unità», taglia corto: «Sono concentrata nel mio lavoro e basta, tutto il resto è prematuro». Anche Carlo De Benedetti, suocero di Paola Ferrari, chiamato in causa in alcune ricostruzioni giornalistiche apparse in questi giorni, respinge ogni illazione: «L’ingegnere - dice una nota del gruppo Espresso - si dichiara totalmente estraneo a questa iniziativa e considera del tutto arbitrari, poiché infondati, i riferimenti al gruppo Espresso che resta il suo unico impegno editoriale passato, presente e futuro. Con l’occasione l’ingegnere ricorda che nella sua vita non è mai stato iscritto ad alcun partito» Sul caso interviene il deputato del Pd Stefano Fassina: «L’Unità non è uno dei tanti prodotti sul mercato - dice - Ha una storia e deve continuare ad avere una certa funzione. Il ragionamento economico non passa. È un ragionamento di carattere politico-culturale - afferma intervistato da Klaus Davi per il programma Klaus Condicio- L’Unità deve stare a sinistra. Con tutto il rispetto per la Santanchè, mi pare che lei sia posizionata su un altro versante. Preferirei che ci fossero altri interlocutori e stiamo lavorando in questa direzione perché altrimenti l'Unità, se perde la sua connotazione culturale e politica, non ha senso neanche come prodotto editoriale». Sul campo resta la lettera d’intenti inviata da giorni dal socio di riferimento della Nie, Matteo Fago, lettera che, secondo i liquidatori, dovrebbe trasformarsi nei prossimi giorni in una offerta più dettagliata. In un comunicato, il Cdr afferma con forza che «i giornalisti de l’Unità non tifano per una soluzione piuttosto che per un’altra: tifano per il loro giornale. Nel polverone che a più riprese si sta montando su una vicenda seria e per certi aspetti drammatica, i lavoratori hanno avuto un atteggiamento irreprensibile. Chi vuole salvare l’Unità deve presentare ora un’offerta solida dal punto di vista economico, che abbia la condivisione più ampia possibile nel mondo vicino al giornale, cioè il Pd, il mondo del lavoro e del sindacato, quello dell’associazionismo e della militanza storica della base del partito, che proprio in questi giorni si sta impegnando nelle feste dell’Unità. Solo così si rafforza il giornale fondato da Antonio Gramsci. Altre strade non esistono». E non esiste neanche più tanto tempo per evitare la chiusura. In assenza di chiarezza tutti i boatos possono acquistare i crismi della «credibilità». Come quello lanciato dal sito Dagospia secondo cui il «vero acquirente de l’Unità ed Europa sarebbe il costruttore Pessina, che affitterebbe la testata dai soci per tre anni e poi si vede... ».

il Fatto 16.7.14
L’ultima minaccia
Se la Pitonessa sposta l’Unità a Porto Cervo
di Nanni Delbecchi


Genera sconcerto l’ipotesi di acquisizione dell’Unità da parte di Daniela Santanchè e Paola Ferrari. Ma c’è anche chi sostiene che fanno sul serio, che la coppia è bene assortita e adatta allo scopo: qui non si tratta di rilanciare una testata, ma di rifarla da capo a piedi. Un settore, quello del rifacimento, in cui entrambe ci hanno messo la faccia (e non solo quella). Di più: esisterebbe un piano di cambiamento dei connotati dell’Unità nei dettagli, dei quali anticipiamo i punti salienti.
Testata. Come ha detto Matteo Renzi, il giornale fondato da Antonio Gramsci “è un brand da tutelare”.
Ferrari & Santanchè sono d’accordissimo, anzi, secondo loro potrebbe diventare addirittura una griffe. I primi passi sarebbero il restyling della testata, con la U a richiamare la U di Emmanuel Ungaro, e la creazione di un nuovo logo: una doppia G di Gramsci ispirata alla doppia G di Gucci.
Sede. Sarebbe quasi pronta una faraonica redazione in Largo del Nazareno: Denis Verdini si starebbe occupando degli ultimi ritocchi. Per i redattori dissidenti, in quota Corradino Mineo, ci sarebbe uno stanzino separato, messo a disposizione da Renato Brunetta. Quanto alla sede milanese, certa Via Monte-napoleone; resta da decidere in quale showroom.
Direzione. Tra Vittorio Feltri (il candidato della Santanchè ) e Ivan Zazzaroni (il candidato della Ferrari) potrebbe spuntarla Sandro Sallusti (il candidato di Feltri).
Poche chance per Vasco Errani, caldeggiato da Renzi in persona, ma considerato troppo di destra.
Gadget. L’apoteosi di ogni brand che si rispetti. Allo studio un po’ di tutto: orecchini a forma di falce e martello tempestati di swarowski, scarpe e borsette in pelle di pitone con la doppia G di Antonio Gramsci, dvd celebrativo dell’ultimo ventennio (Quando c’era Berlusconi), poster del faccione di Gramsci con una nuova acconciatura firmata dai Vergottini .
Sponsor. Paola Ferrari avrebbe pronto un accordo con l’Enel per illuminare a giorno tutte le redazioni, in particolare gli uffici degli editori, con le stesse lampade al quarzo e led ad alto voltaggio utilizzati per La domenica sportiva. Anche il Comune sarebbe disposto a fare la sua parte, perché la sede dell’Unità diventerebbe la Times Square romana.
Festa. La sede della Festa nazionale dell’Unità verrebbe trasferita a Porto Cervo.
Per l’occasione Flavio Briatore sarebbe disposto a riaprire il Billionaire (“Per un brand da tutelare, questo e altro”) e a fare le cose in grande. Niente più salamelle, solo aragostelle; niente più orchestrine che suonano Guantanamera, ma un recital esclusivo di Michael Bublè che reinterpreta Bandiera rossa in chiave swing.
Esclusivo privé per Renzi e amici, esclusivissimo privé del privé per Corradino Mineo e amici.
Lettori. Si punta a riconquistare lo zoccolo duro originario. Quei lettori che un tempo “compravano l’Unità per sapere che cosa pensa il partito”, come ha scritto ieri Michele Serra. Adesso potrebbero sapere che cosa comprano Daniela Santanchè e Paola Ferrari.

Repubblica 16.7.14
Il caso
Crisi “Unità”, De Benedetti: io estraneo all’acquisto


ROMA. «L’Ingegner De Benedetti — spiega una nota — ha appreso dalle agenzie di stampa che esiste l’ipotesi di una possibile partecipazione di Paola Ferrari all’acquisto dell’editrice dell’ Unità.
L’Ingegnere si dichiara totalmente estraneo a questa iniziativa e considera del tutto arbitrari, poichè infondati, i riferimenti al Gruppo Espresso, che resta il suo unico impegno editoriale, passato, presente e futuro.
Con l’occasione, l’Ingegnere ricorda che nella sua vita non è mai stato iscritto ad alcun partito».
«Sono concentrata sul mio lavoro e basta, tutto il resto è un discorso prematuro », risponde invece la giornalista Rai Paola Ferrari, interpellata in merito alle indiscrezioni che la vorrebbero in pista accanto a Daniela Santanchè per rilevare L’Unità.

l’Unità 16.7.14
Questo giornale è della sinistra
di Luca Landò


Daniela Santanchè a l’Unità? La voce, per quanto infondata, ha ovviamente attirato l’attenzione di giornali e tv. E non poteva essere altrimenti.
In tutti i manuali di giornalismo ti insegnano che la notizia è l'uomo che morde il cane, non viceversa. Ma il punto è proprio questo: la pitonessa, come amabilmente è stata soprannominata, vuole davvero mordere l'Unità?
Al momento, dicono i liquidatori, non è arrivata nessuna concreta offerta, tranne una lettera inviata una settimana fa. Poi solo voci e qualche agenzia astutamente imbeccata. Ma poco importa, una proposta la si può sempre preparare, firmare e spedire. Nel frattempo la pasionaria di destra è riuscita a far parlare di sé, ma soprattutto della sua attività extrapolitica. Ad esempio della sua concessionaria di pubblicità, Visibilia, e del recente acquisto della rivista Ciak, ben conosciuta nel mondo del cinema. Che c'entra l'Unità? Nulla, ma intanto tutti parlano di lei (Santanché, non l'Unità) e di questo piccolo “polo” editoriale che nasce a destra ma vuole crescere a sinistra. Eccolo il risultato, ampiamente ottenuto, dell'anima nera che si tinge di rosso. Che poi questo voglia dire sfruttare le crisi altrui, per un po' di pubblicità gratuita, poco importa: business is business.
C'è un altro aspetto che vale la pena evidenziare. Rompendo il silenzio che circonda la situazione davvero difficile dell'Unità, Daniela Santanché vuole lanciare un messaggio che non è affatto commerciale, ma politico: se una orgogliosa discendente del mondo sanbabilino della destra milanese è disposta a prendere l'Unità, vuol dire che l'Unità non conta davvero nulla. E che nel nuovo mondo della politica, destra e sinistra sono categorie superate, preistoriche.
Su questo punto, ovviamente, Santanché sbaglia di grosso. Perché le idee sopravvivono ai conti economici e se i secondi comandano la liquidazione della società che edita il giornale, le prime dicono che l'Unità è, tutt' ora, un punto di riferimento indispensabile per chi, giorno dopo giorno, crede che questo mondo possa, anzi debba, essere cambiato e migliorato. L'Unità oggi conta, eccome. Lo dimostrano i messaggi di incoraggiamento e solidarietà che arrivano ogni giorno in redazione, compresa la proposta, reiterata, di un azionariato popolare. E lo confermano le iniziative sui novant'anni del giornale andate esaurite in edicola nel giro di due ore.
Destra e sinistra non sono residui del Novecento né categorie dello spirito: al contrario sono due modi diversi, anzi opposti, di leggere il presente e costruire il futuro. Ecco perché l'Unità non finirà mai nelle mani di un editore di destra: perché se ciò dovesse mai accadere, finirebbe l'Unità. Se questo è il sogno della signora Santanché, glielo lasciamo volentieri: la realtà dice che l'Unità resta e resterà un giornale di sinistra. Lo garantiscono i suoi giornalisti e i suoi poligrafici. Ma soprattutto i suoi lettori.

l’Unità 16.7.14
L’utopia che attraversa il quotidiano
di Sandra Petrignani


TODO CAMBIA DICE LA CANZONE E UNA CORRETTA OSSERVAZIONE DELLE COSE. «CHE TUTTO VADA VERSO LA SUA ESTINZIONE» malediva una scrittrice che mi sta particolarmente a cuore, Marguerite Duras, convinta (come sono anch’io) che il senso di tutto stia nella fine. Allora perché non posso sopportare che l’Unità chiuda, che l’Unità scompaia? Per motivi sentimentali? Certo. «Ci scrivo da più di 20 anni», come andava contando nel suo intervento su questo tema Valeria Viganò. Erano i primi Anni 90, direzione Veltroni, quando abbiamo cominciato a collaborare con questa testata storica, sia lei sia io. Ci tornerò più avanti a quei bei tempi.
Adesso mi preme rispondere alla domanda che mi sono appena posta: perché è importante - al di là dei miei casi personali e soprattutto di quelli di una redazione che lo fa vivere a ranghi ridotti e senza percepire stipendio da mesi - che questo quotidiano continui a esistere? Abbiamo una situazione politica fluida e instabile. Un Pd turbolento e diviso, malgrado che il suo segretario sia popolarissimo e largamente amato e sia anche presidente del Consiglio. Logica vorrebbe che il suo Partito gli si stringesse intorno - rimandando le dispute a dopo - e gli desse forza invece di segargli le gambe. Logica vorrebbe che un bel team di imprenditori di sinistra (la sinistra imprenditoriale di oggi, quella renziana se vogliamo, una sinistra lontanissima certo da quella di Gramsci, ma: todo cambia non ce ne dimentichiamo) si mettesse le mani sul cuore e in tasca e investisse in modo decisivo su un giornale cartaceo e on-line capace (le forze redazionali e intellettuali ci sono) di rendere questa nuova sinistra interessante e propositiva. Gli investimenti ben fatti gasano le redazioni, la scelta delle persone giuste in ruoli direzionali compattano gli animi, la convinzione che si possa tornare al lavoro non solo per lo stipendio, ma in vista di un disegno più alto e complesso stimola la creatività.
Si dirà che chiedere di investire sui giornali è una follia in questi tempi digitali. A me sembra invece che siamo tutti orfani di un buon quotidiano credibile, la cui proprietà non nasconda compromissioni vergognose, per esempio, e sia sinceramente interessata non solo ai propri guadagni, ma anche all’elaborazione di un mondo migliore, a un dibattito culturale aperto e onesto, a una funzione dei giornalisti come ascolto del popolo da una parte e pungolo verso chi ci governa, dall’altra. Per la storia che ha dietro di sé, per i tanti cambiamenti attraversati (e sopportati con onore) l’Unità è un marchio vendibile, riciclabile, rilanciabile.
Naturalmente, perché tutto questo si realizzi, bisogna che i tempi siano maturi. Come lo erano, e qui torno a guardarmi indietro, quando Walter Veltroni assunse, fra le solite sterili polemiche, la direzione del quotidiano (aveva solo 37 anni) e ne moltiplicò le copie in tre anni. S’inventò i libri e le videocassette in allegato, imitato poi da altri giornali ben più grandi. Erano opere importanti questi «gadget » (ricordo che dovetti scrivere un’introduzione a Moby Dick per dirne una). Veltroni chiamò a collaborare - con l’onore del commento in prima pagina su fatti non strettamente culturali, ma di cronaca anche nera - una truppa di giovani scrittori, trenta/ quarantenni come lui, gente che tornava a scrivere romanzi e poesie dopo la bufera dello sperimentalismo e dimostrava di saper seminare quella terra bruciata e ritrovare un pubblico, ma gente comunque non dal nome di richiamo. Nessuno di loro aveva ancora vinto alcun premio importante, per dire. Veltroni scommetteva sulla sua generazione, e vinceva. E intanto rinnovava il partito e lo ricompattava.
A me sembra che il momento attuale sia altrettanto maturo per qualche clamorosa novità, per una nuova speranza. C’è in giro un disperato bisogno di pulizia, trasparenza, onestà. C’è molta intelligenza costretta a piegarsi a un sistema cultural-editoriale perverso. Che state aspettando? Date a questa intelligenza un libero campo dove misurarsi con l’indipendenza e il coraggio.

Internazionale  - dal New Scientist - 17.7.14
Un mondo senza Dio
Alcuni studi scientifici dimostrano che in molti paesi sempre più spesso le persone si allontanano dalla religione
È possibile che un giorno gli esseri umani smettano di credere?
E se succederà, il mondo sarà un posto migliore?
di Graham Lawton

qui, si ringraziano Franca Nardi e Gloria Gabrielli

La Stampa 16.7.14
Israele continua con i raid su Gaza
Invito a evacuare per 100 mila persone
I bombardamenti nella Striscia ripresi dopo la rottura della tregua

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La Stampa 16.7.14
Ma gli jihadisti guadagnano consensi
Hamas scavalcata da gruppi sempre più estremisti e vicini ad Al Qaeda
di Francesca Paci

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il Fatto 16.7.14
Armi e sistemi bellici, Italia primo fornitore Ue di Israele. Rete Disarmo: “La smetta”

"Nel 2012 rilasciate autorizzazioni per 470 milioni di euro per l’esportazione di sistemi militari verso lo Stato israeliano", spiega Giorgio Beretta, analista dell'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa: più del doppio di quanto totalizzato insieme da Germania e Francia. L'organizzazione: "Vendiamo armi a una delle parti in conflitto, come possiamo essere mediatori?". Appello dei deputati Pd: "Serve un embargo immediato"
di Giusy Baioni

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Corriere 16.7.14
La fuga di Samah, 11 anni: a piedi e senza cibo
di Abeer Ayyoub

Quando sono arrivata in una delle scuole dell’Unrwa (l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ndt) nella città di Gaza, dove si sono rifugiati oltre 16.000 palestinesi che hanno abbandonato le proprie case nella città settentrionale di Bet Lahya, mi sono trovata davanti a una scena molto toccante. C’erano persone che avevano dovuto lasciare le loro case dopo la mezzanotte, senza essere riuscite a prendere il cibo per il Suhoor. E anche se l’alba era il momento in cui avrebbero dovuto rompere il digiuno, non avevano con sé nulla da mangiare, dato che erano fuggite di corsa dalle proprie abitazioni quando gli scontri armati erano scoppiati vicinissimi a loro.
Ho incontrato bambini di tutte le età, donne e uomini, che si sentivano impotenti perché non riuscivano a far fronte alle esigenze di base delle loro famiglie. Mi hanno detto che si sentivano molto tristi perché avevano dovuto lasciare le loro case pulite e comode per andare a dormire nelle aule, dove non ci sono né cibo né lenzuola e neppure l’acqua nei bagni.
Tra i tanti bambini che giocavano nel cortile della scuola, c’era una bella ragazzina di undici anni di nome Samah. Stava giocando con i suoi cugini e fratelli, eppure sembrava davvero infelice.
«Ho tanta fame. Una delle donne di qui mi ha dato una pagnotta, ma è l’unica cosa che ho mangiato da ieri mattina», mi ha detto Samah in tono triste.
Samah è fuggita insieme alla sua famiglia, facendo a piedi tutta la strada che va dal nord alla città di Gaza. Mi ha raccontato che stava dormendo quando ha sentito gli spari, e che sua mamma le ha detto che si sarebbero dovute spostare in una scuola.
Per i cittadini di Gaza, andarsi a rifugiare nelle scuole non è una cosa nuova. È già successo sia nel 2008, durante l’operazione Piombo Fuso, che nel 2012, nel corso dell’operazione Pilastro di Difesa. Gli sfollamenti di massa sono diventati ormai una scena ricorrente quando si verificano attacchi e bombardamenti sui vari fronti.
Da quando è cominciata l’operazione Margine Protettivo, all’alba di martedì, oltre 170 persone sono state uccise, 1.500 sono rimaste ferite e il bilancio delle vittime è destinato ad aumentare. La gente è molto preoccupata del fatto che non si intraveda per questo conflitto nessuna soluzione imminente, che non si parli seriamente di nessun cessate il fuoco.
Da quel giorno, poche persone a Gaza hanno avuto il coraggio di lasciare le proprie case, tranne che per necessità urgenti, come procurare alle loro famiglie i beni primari per il periodo di Ramadan, ma anche quelle persone sono state colpite dalla violenza israeliana, e alcune di loro sono state addirittura uccise.
Tornando alla scuola, i rifugiati hanno potuto finalmente interrompere il digiuno solo con l’arrivo di alcune associazioni benefiche che hanno distribuito del cibo. Non bastava neanche per le migliaia di persone che si trovavano lì. Quando scoppia un conflitto, molti di quelli che ne fanno le spese e che diventano vittime sono solo persone innocenti.
(traduzione di Sara Bicchierini)

Corriere 16.7.14
Combattere o trattare? Le anime contro a Gaza e all’estero
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Il messaggio televisivo registrato viene trasmesso lunedì sera poche ore dopo la proposta egiziana per il cessate il fuoco. Dal bunker dove si nasconde sotto la sabbia di Gaza, Ismail Haniyeh, ex premier del governo nella Striscia, ribadisce le condizioni per fermare i lanci di missili contro le città israeliane. Sono le stesse richieste che i capi militari fondamentalisti ripetono dalle prime ore dell’offensiva.
Quella che sembra unità di obiettivi con i generali dell’esercito irregolare è più probabilmente — spiegano gli analisti — debolezza dei leader politici. Che devono seguire la linea dettata dal comandante delle Brigate Ezzedin al Qassam, Mohammed Deif. Un nome che da anni non ha un volto, negli otto giorni di guerra del 2012 la sua voce aveva esaltato le azioni dei miliziani.
Gli israeliani hanno cercato di eliminarlo due volte, l’ultimo raid lo avrebbe lasciato su una sedia a rotelle. La decisione di andare avanti, di neppure prendere in considerazione l’offerta egiziana sarebbe sua. Le Brigate hanno proclamato che l’iniziativa del Cairo «non vale l’inchiostro con cui è scritta», mentre Mussa Abu Marzuk, tra i boss del movimento, stava ancora valutandola.
«Non è chiaro chi stia dando gli ordini dentro ad Hamas — scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano israeliano Haaretz —. I boss militari? I capi politici locali ormai indeboliti o quelli che vivono all’estero, tra il Qatar e la Turchia? In queste situazioni prevalgono i più estremisti, quelli che hanno una linea diretta con le squadre che sparano i razzi». In questi giorni sono riapparse le foto che ritraggono Khaled Meshaal nel suo «esilio» in Qatar: si tiene in forma alla cyclette e gioca a ping pong nella palestra dove incontra il giovane emiro Tamim, tra gli sponsor del movimento.
Meshaal ha cercato di mantenere un ruolo anche in queste settimane. Le indiscrezioni su un suo viaggio in Turchia per discutere un possibile negoziato hanno solo irritato gli israeliani, che con il premier Recep Tayyip Erdogan non si sono ancora riconciliati, e gli egiziani. Abdel Fattah al Sisi, il generale diventato presidente, non vuole concedere spazio alle ambizioni diplo-matiche di altre nazioni e certo non del Qatar: il piccolo emirato potrà se vuole sborsare milioni di dollari ovvero aiutare Hamas a riprendersi economicamente.
«Anche prima di questo conflitto — scrive Avi Issacharoff sul giornale digitale Times of Israel — il movimento era stremato, soprattutto dalle operazioni degli egiziani contro i tunnel del contrabbando. La rabbia tra la gente di Gaza stava crescendo». I fondamentalisti non hanno i soldi per pagare gli stipendi a 50 mila impiegati pubblici, forze di sicurezza comprese. Dopo l’intesa con il Fatah pretendevano che il presidente Abu Mazen intervenisse, Israele ha bloccato il trasferimento dei fondi. «Lo scontro ha restituito prestigio ai fondamentalisti — commenta Haaretz — nel mondo arabo». Il no — per ora — al cessate il fuoco promosso dagli egiziani rischia di lasciare Hamas isolato.

Il Sole 16.7.14
Gaza, ultimatum di Israele a 100mila palestinesi: «via entro le 8»
Hamas: restate, è guerra psicologica

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Il Sole 16.7.14
Europa, ci sono più di 25 milioni di disoccupati (come una guerra)
Che ora (dicono gli psicologi) rischiano di ammalarsi
di Vito Lops

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l’Unità 16.7.14
Nuovo Senato. Valanga emendamenti: 7831
Tempi più lunghi per il voto
Nonostante i richiami di leader e segretari, non molla il gruppo dei dissidenti
42 ore di discussione generale
Migliaia di modifiche: solo da Sel quasi seimila
di Claudia Fusani


I leader incontrano separatamente le truppe, nel pomeriggio Berlusconi, in serata Renzi. Manon serrano le fila. Almeno non come vorrebbero. E le votazioni sul disegno di legge costituzionale vengono rinviate all’inizio della prossima settimana, lunedì, martedì, dipende quando le Commissioni liberanno per l’aula i testi dei due decreti (Turismo e cultura e Competitività) che sono in scadenza a fine mese.
C’è un filo rosso che lega i mal di pancia trasversali e i rinvii. La causa principale è che i 124 iscritti a parlare per la discussione generale si stanno prendendo tutto il loro tempo (20 minuti a testa), non intendono rinunciare neppure a un minuto per declinare, tra citazioni e ammonizioni, il loro dissenso non alle riforme - nessuno di loro è contrario all’abolizione del bicameralismo e nei vari interventi rispediscono al mittente l’accusa di «essere preoccupati solo dell’indennità» -ma a una parte dei contenuti del disegno di legge. Alla fine saranno 42 ore di discussione generale. Con il presidente del Senato Piero Grasso che ieri, in serata, a chi gli chiedeva una previsione sui tempi, ha detto: «Bisogna dare a tutti la possibilità di esprimere la propria opinione e io garantirò questo diritto».
Il secondo motivo per cui l’ipotesi di approvare già in questa settimana il ddl s’è sciolta come neve al sole, è che i malpancisti hanno presentato 7.831 emendamenti. Sel, da sola, ne firma 5.933, Gal 1,020, M5s 193, 210 a testa circa il Pd e Fi. Un numero non previsto e che sembra giudicare non esauriente il lavoro della Commissione.
Le frenate e gli altolà sono stati evidenti lunedì quando il relatore della legge Roberto Calderoli nel suo intervento ha celiato definendosi «il serial killer della maggioranza» e ha messo giù cinque o sei punti che riguardano i poteri delle Regioni su cui la Lega «non accetterà passi indietro». E ha annunciato che sul Senato non elettivo non è detta l’ultima parola. In caso di dubbi, ieri Calderoli è stato ancora più chiaro. Almeno sul significato traslato del concetto di serial killer: «Il regolamento dice che il relatore, quale io sono, può presentare in qualsiasi momento un maxiemendamento del disegno di legge: se si dovesse verificare questa eventualità, di questa riforma se ne riparla a settembre. Per questo la Lega valuterà fino in fondo, in ogni passaggio, quello che sarà messo in votazione... Perché sento di emendamenti della maggioranza che levano alle Regioni alcuni poteri, sento anche di passi indietro sul bilancio...».
I cosiddetti dissidenti Pd, quella ventina che ieri mattina non s’è presentata alla riunione del gruppo mandando solo Massimo Mucchetti (astenuto) in rappresentanza del frondisti, hanno presentato circa sessanta emendamenti (gli stessi 25 della Commissione ma aumentati per chiarezza e ordine del voto in aula). I temi sono quelli di sempre: competenze del nuovo Senato, riduzione del numero dei deputati (470 invece che 630), via l’immunità, senatori eletti almeno con un listino collegato nelle regionali. Stamani Vannino Chiti, che di questa fronda è stato da subito il motore, spiegherà le ragioni per cui il Senato deve perdere la fiducia, non c’è dubbio, ma deve essere modificato in un altro modo.
Paolo Romani si aggirava ieri pomeriggio in Transatlantico con fare abbastanza soddisfatto: «Berlusconi fa delle riforme una questione di fiducia sua personale. E ci ha chiesto di andare avanti compatti». Detto questo, il capogruppo di Fi presenterà qualche emendamento, ad esempio per chiarire meglio le quote dei sindaci e quelle dei consiglieri regionali. Nulla di travolgente. Eppure Romani ha il suo da fare in Senato a prendersi da parte uno per uno i più scettici. Passeggia sottobraccio con Giacomo Caliendo; è dialettico con Minzolini. Il quale non molla: «Resto contrario a un Senato che non sia elettivo». Portano la sua firma ben 34 emendamenti, anche sulla diminuzione dei deputati. Minzolini resta convinto che «a giugno 2015 si andrà a votare per le politiche, solo così si spiega la fretta di Renzi». L’ipotesi sarebbe stata fatta anche da Berlusconi nella riunione: «Ci ha detto di stare pronti».
Il Movimento 5 Stelle ha iscritto a parlare in aula tutti i suoi 45 senatori e ha presentato circa 200 emendamenti. Applaudito, non solo dai suoi, l’intervento di Serenella Fucsia che si definisce «generazione precedente a quella di Telemaco che neppure ha fatto Erasmus», e però cita Saragat, Calamandrei e De Gasperi e ricorda come sia sempre stato «il Senato del popolo», cioè eletto dai cittadini. Non si può dire che i 5 Stelle facciano questa battaglia per questioni di indennità.
Solo Gal ha presentato oltre mille emendamenti. È un pugno di senatori prestati dall’ex Pdl con lo scopo di essere utili al momento opportuno. Adesso, ad esempio, per fare quel lavoro di disturbo che non potrebbero fare nè Forza Italia nè la Lega. Un’altra mossa che sembra firmata dalla C del sulfureo Calderoli.

il Fatto 16.7.14
Matteo al Pd: seguitemi, si fa come dico io
Annuncia un agosto di fuoco sui decreti: “fate poche ferie e non protestate”
I frondisti non mollano, i tempi si allungano
di Wanda Marra


Non sono qui per imporre le mie idee ma per costringerci a una tempistica stringente e a un impegno deciso verso il Paese”. Assemblea dei gruppi Pd, Montecitorio. Matteo Renzi arriva carico, che più carico non si potrebbe, per mandare un messaggio molto chiaro a tutti i parlamentari: a questo punto ognuno si deve prendere le sue responsabilità per andare avanti. Punto e basta.
È LA SFIDA totale, finale, ai dissidenti. Quelli che si ribellano alle riforme costituzionali. Ma non solo. “Quel 40,8% dovrebbe non farci dormire la notte. Dovrebbe caricarci di una responsabilità straordinaria. Ci hanno dato l’opportunità di cambiare sul serio, di cambiare davvero. L’impegno è quello di rispondere fedelmente all’ultima grande occasione che gli elettori potevano dare a un partito politico”, chiarisce Renzi iniziando. Poi, la richiesta. Senza se e senza ma: “Son qui per chiedervi una mano. Lo dico con l’assoluta serenità di chi sa che in questi gruppi parlamentari non vengo a chiedere la vostra simpatia. Ma una lealtà. È inutile aprire altre discussioni. Da qui al 2017, anno del prossimo congresso del Pd e al 2018, anno delle elezioni, vogliamo andare a discutere del prossimo voto. Oppure di quello che dobbiamo fare?”. Che i gruppi parlamentari avrebbero potuto creargli dei problemi, Renzi lo sapeva prima di arrivare a Palazzo Chigi. Ma lo ha toccato con mano. Stavolta lo ammette. E lo mette sul tavolo: “Abbiamo troppi decreti e abbiamo troppe cose da fare: per questo faremo poche ferie”. Li enuncia tutti, uno per uno, annunciando un agosto di fuoco per convertirli. Un agosto in cui si gioca il tutto per tutto. Per qualcuno giustificato dall’approdo di elezioni subito, magari a ottobre. Renzi decide di trasmettere in streaming la riunione con i parlamentari dem per provare per l’ennesima volta ad azzerare il dissenso sulle riforme costituzionali e a richiamare tutti alla responsabilità sui 1000 giorni. La decisione arriva nel primo pomeriggio, quando si fa sempre più chiaro che la situazione in Senato è più complicata di quanto sembra. Anche dopo il voto dei senatori Dem: 86 sì, un astenuto (Mucchetti), ma i frondisti non partecipano. Non danno il loro assenso a un testo base, che potrebbe essere ancora cambiato. Sono 16, ma sono solo una parte delle fronde varie.
Perché quando non è guerra aperta, è guerriglia. Il governo vuole andare avanti come un treno verso l’approvazione delle riforme costituzionali? I ribelli di Forza Italia e Pd si mettono d’impegno per ostacolarlo. Tanto per cominciare, ci sono riusciti con il moltiplicarsi degli interventi in Aula: non si comincerà a votare neanche domani. Tutto riaggiornato alla prossima settimana. Con non poche incognite: perché a Palazzo Madama arrivano una serie di decreti in scadenza.
TANTO CHE in un primo momento Palazzo Chigi aveva pensato di anticiparli prima del voto sulle riforme, poi invece l’indicazione è di andare diritti. Nessuno però a questo punto sa quando davvero arriverà il voto finale: si dice a metà settimana prossima, ma gli ostacoli si moltiplicano. A partire dagli emendamenti presentati. Più di 7500 in tutto, un numero esorbitante: di cui 6000 di Sel, un migliaio dei malpancisti di Fi e a Gal, una cinquantina del gruppo Pd, più 60 dei dissidenti, 100 della Lega, 14 del Nuovo centrodestra.
Poi ci sono, le trattative incrociate. Sul Senato, con i frondisti di Forza Italia e Pd, con la Lega. E poi sull’Italicum, con tutti: M5s, Ncd, ancora Forza Italia e bersaniani, la questione resta complicata. In teoria a Palazzo Madama i dissidenti non hanno i numeri per mettere in difficoltà il governo, ma su qualche modifica si potrebbe chiedere il voto segreto, con esiti imprevedibili. E magari rallentamento di tutto: una correzione alla Camera significa la necessità di un passaggio in più, oltre alle 4 letture conformi necessari. Con tutte queste incognite, la lentezza pare garantita, al di là dei numerosi proclami del governo: e l’allarme decreti da convertire è stata lanciata pure da Napolitano. “Il primo segno di vita arriva sulla mancanza delle ferie - dice Renzi a un certo punto - Non va bene, siamo in streaming”

Repubblica 16.7.14
Pd, sfida di Renzi: “Non sono autoritario gestione unitaria se sulle riforme si corre”
All’assemblea dei senatori i dissidenti evitano di votare no
di Carmelo Lopapa


ROMA. Indica la luna delle riforme e del «grande cambiamento », Matteo Renzi, e ignora il dito che sollevano oppositori interni, democratici poco inclini a votare il Senato non elettivo, la “resistenza” di chi gli dà dell’autoritario e che ieri mattina non si è presentata all’assemblea Pd riunita a Palazzo Madama. Ottantasei sì e i paladini del “no” non si presentano.
Glissa, il premier, non è quella la sfida che abbiamo davanti, è il messaggio. E avverte: «Io sono pronto a governare il partito anche con chi la pensa diversamente, a patto che sulle emergenze la pensiamo come gli italiani e cioè che non c’è un momento da perdere». Inconcepibili «certe accuse di autoritarismo ». Si dice dunque certo che «la settimana prossima ci sarà un voto al Senato in prima lettura: la riforma non la stiamo facendo a colpi di maggioranza, ma sobbarcandoci la fatica di ascoltare chi la pensa diversamente ». Come il M5s «nonostante gli insulti alle donne pd». Domani nuova puntata in streaming con i grillini. Berlusconi e i suoi restano interlocutori privilegiati. «Fondamentale che Forza Italia stia a questo tavolo».
È sera inoltrata, aula dei gruppi di Montecitorio, si chiude con un lungo applauso il discorso lungo 50 minuti che il presidente del Consiglio tiene davanti alla platea di deputati e senatori dem. Tredici interventi seguiranno, dall’oppositore D’Attorre ad altri. Ma la strada sembra spianata. Ancora una volta. Lui vola alto. Torna a «quel 40,8 per cento che non dovrebbe farci dormire la notte, dovrebbe caricarci di una responsabilità straordinaria». Gli italiani «ci hanno dato l’opportunità di cambiare sul serio e se non cambiamo li tradiamo. Vi invito a fermarvi e ad alzare la testa e guardare fuori da qui». Anche perché «ha smesso di piovere sulla crisi economica ma il sole non arriva», disoccupati e imprenditori al palo attendono risposte. Da qui la campagna d’estate che parte tra agosto e settembre. «Voglio visitare dieci realtà particolari: sarò intanto a Napoli tra Bagnoli, Secondigliano, Scampia, Pompei. Sarò tra Reggio e Gioia Tauro. Sarò nel Sulcis, a Olbia, all’Aquila. Sarò a Gela. Sarò a Termini Imerese, sarò a Taranto e nell’Emilia Romagna che si è risollevata» dopo la tragedia del terremoto. «Il presidente del Consiglio si prenderà dei fischi, ma va fatto». E poi l’altro annuncio, quello dei «tre progetti di rilancio del sistema Paese per parlare al mondo: Milano, con l’Expo, Venezia e gli Uffizi di Firenze».
La sferzata arriva quasi a fine assemblea. «Vi chiedo di fare poche ferie. Non come atto di flagellazione biblica ma perché abbiamo fatto troppi decreti e abbiamo un sacco di lavoro parlamentare da portare avanti». Davanti al premier che stavolta resta in giacca e cravatta si alza il brusio della sala piena come un uovo. Lui se la cava alla Renzi: «Noto l’entusiasmo, capisco di non essere stato particolarmente incisivo finora ma che il primo segnale di vita arrivi sulle ferie...». Ma c’è poco da girarci intorno. Lui sarà in giro e continuerà a lavorare a Palazzo Chigi, loro dovranno stare a Montecitorio e Palazzo Madama.
«Nel 2017 il prossimo congresso del Pd che precederà il voto del 2018. Fino ad allora, sfruttiamo la possibilità di cambiare l’Italia o stiamo a discutere del comma della legge elettorale? Gli italiani non hanno votato per me, ma per il Pd, confidando nel cambiamento». Torna sulla proposta dei mille giorni, «etichettata come lo sprinter diventato maratoneta: ma no, mille giorni non è perdere tempo, è la cornice delle riforme per consentirci di andare in Europa a dire che le riforme le facciamo sul serio e non perché ce lo chiedono. Siamo stati votati da 11 milioni, siamo il partito più votato in Europa». Dopo la doccia fredda quasi un mozione degli affetti: «Io sono qui per chiedervi una mano. In questi gruppi non vengo a chiedere un tributo alla simpatia personale. Non voglio conquistarla, vi chiedo una lealtà non su di me ma sul Paese. Non vi impongo le mie idee, ma dobbiamo fare in fretta». A cominciare dal lavoro, sul quale chiede una «delega ampia, nessun un derby ideologico».

La Stampa 16.7.14
Chiti: “Sfido Renzi sull’indennità Perché non la dimezza a tutti?”
Il senatore “ribelle”: voterò contro il testo, ma non lascio il Pd
intervista di Carlo Bertini


«Noi saremmo interessati a salvare le nostre indennità? Renzi dimezzi quelle di deputati e senatori portandole a seimila euro, allora sì che si risparmierebbe». Vannino Chiti è il capofila dei dissidenti del Pd, quelli che il premier chiama i frenatori. «Un secolo fa gli Stati Uniti passarono dal voto indiretto dei senatori delle assemblee degli Stati all’elezione diretta dei cittadini, perché rilevarono un eccesso di corruzione e di localismo. Forse si pensa che da noi non esistano questi rischi?». Ex diessino, toscano come Renzi, Chiti rivendica il diritto al dissenso in un partito, «perfino nel Pci di Togliatti Concetto Marchesi votò contro l’articolo 7 della Costituzione», quello sui Patti Lateranensi, che il celebre intellettuale rifiutò di approvare uscendo dall’aula insieme a Teresa Noce. E poi fu insignito del compito di operare una revisione linguistica e sintattica alla Carta prima del voto finale. Chiti è deciso a votare contro questa riforma costituzionale se resterà così e non lascerà poi il Pd. «E perché dovrei?».
Dicono che ognuno dovrà assumersi le sue responsabilità, o no? 
«Stamattina alla riunione del gruppo Pd hanno ribadito una cosa normale: che sulla Costituzione non ci può essere disciplina di partito o sanzioni disciplinari. Non mi pare del resto fossero state prese quando alcuni parlamentari fecero appello a votare contro Marini, designato alla Presidenza della Repubblica. Quindi nessuno dia lezioni da quel pulpito. Sulle battaglie alla luce del sole uno ci mette la faccia, i franchi tiratori no. Io ho sollevato alcuni problemi e noto che sono state aumentate le competenze del Senato su leggi elettorali e trattati europei. Erano 148 membri, ora sono 100. Ma altre questioni sono irrisolte».
E pensa possano essere modificate? 
«Che sia la Camera sola a dare la fiducia e ad avere l’ultima parola sulle leggi del programma di governo lo condivido e questo è il punto fondamentale per superare il bicameralismo paritario. Ma le libertà religiose, i diritti delle minoranze e le leggi etiche possono essere temi su cui dare l’ultima parola solo alla Camera votata con l’Italicum? Immunità: io chiedo di mantenere l’insindacabilità sulle opinioni e i voti di ogni parlamentare e di toglierla sia per deputati che per senatori… che facciamo?».
Renzi ha aperto sul tema ai grillini. 
«Ho visto. Vedremo come finirà. Poi c’è il grande tema di ridurre il numero di deputati. Devono scendere a 315 come in Spagna per evitare uno squilibrio sulla rappresentanza e sull’elezione del Capo dello Stato. Oppure a 470 come il numero dei collegi del mattarellum. La Costituzione è fatta di equilibri. E per una riforma così fondamentale, penso sia bene fare un referendum per dargli una legittimazione definitiva. Ultimo problema è il modo di elezione dei senatori».
Il punto più dolente. Come ha preso quello schiaffone di Renzi sull’attaccamento alle indennità? Gli italiani la pensano così, non crede? 
«Nel merito hanno scelto un modello barocco, mettendo due principi opposti in Costituzione: che i senatori siano nominati con un mix di sistema proporzionale e maggioritario dai consigli regionali. Comunque, detto tutto questo, se il testo manterrà questi limiti non lo voterò per rispondere alla mia coscienza. Sull’indennità Renzi ha detto una falsità, cristianamente porgo l’altra guancia, ma non mi farà arretrare di un millimetro. E gli chiedo: perché non fa la battaglia per equiparare l’indennità di deputati e senatori a quella del sindaco di Roma? Vorrebbe dire dimezzare sul serio le spese. Io sono per farlo subito, facciamo venire allo scoperto quelli che sono contrari?».

La Stampa 16.7.14
Il dibattito in aula
“Deriva autoritaria”, “Serve la rivoluzione”
La riforma che tutti contestano
Alcuni senatori citano Goldoni, altri Salvador Allende: ecco il frasario essenziale
di Mattia Feltri

qui

Corriere 16.7.14
La debolezza di FI rende meno certa la tenuta del patto
di Massimo Franco


Un leader in sella e un altro in affanno. Matteo Renzi che tiene l’assemblea con i suoi parlamentari facendola trasmettere in diretta streaming , e Silvio Berlusconi che invece cerca di placare i propri in un’atmosfera cupa, sono lo specchio dei rapporti di forza tra Pd e Forza Italia. Ma soprattutto, sono i toni accorati con i quali l’ex premier ha invocato l’unità del partito a confermare quanto il centrodestra sia in fermento; e come i malumori per l’asse istituzionale saldatosi con palazzo Chigi continuino a covare, come una bomba ad orologeria nascosta nel cuore delle riforme. Sostenere, come ha fatto Berlusconi, che l’elettorato ha voltato le spalle a FI per le «liti da spogliatoio», è un modo per richiamare tutti alla disciplina.
Ma la spiegazione suona un po’ superficiale. Non ci si chiede perché le liti siano scoppiate, e come mai l’«allenatore» di sempre oggi non riesca più a ricomporle. Avvertire che «chi mette in difficoltà» il partito con interviste e dichiarazioni conflittuali rischia di essere deferito ai probiviri, è un ulteriore, involontario segno di debolezza. Nasce dall’esigenza di avere un voto compatto per la riforma del Senato promessa a Renzi; e insieme dalla paura di ritrovarsi sotto accusa di fronte a una percentuale di «ribelli» che evidentemente si potrebbe gonfiare in maniera incontrollabile. Anche la motivazione con la quale Berlusconi invita ad appoggiare la proposta del governo non sprizza convinzione né forza.
È, piuttosto, una fotografia impietosa e realistica della subalternità del centrodestra a un Pd che continua a spiazzarlo; e dell’insofferenza di spezzoni di FI per quel «patto del Nazareno» che sei mesi fa ha cementato l’intesa tra Renzi e Berlusconi, con il coordinatore Denis Verdini come garante. Se ci tiriamo fuori dall’accordo, ha ammonito ieri l’ex premier, diventeremo ininfluenti perché Renzi ha il vento in poppa e i voti per approvare la riforma del Senato anche da solo. Dunque, «datemi la vostra fiducia ancora una volta».
Ma il timore che il suo ordine stavolta fatichi a passare è stato così evidente da suggerire la chiusura dell’assemblea senza nessun dibattito. Il risultato è di fare emergere un partito sdoppiato nella sua identità: iper-collaborativo e iper-governativo sulle riforme istituzionali, sebbene non rispondano alla strategia e forse alla convenienza elettorale di Fi; e nettamente all’opposizione, invece, sulla politica economica. Berlusconi avrebbe delegato ufficialmente il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, come critico del governo su questi temi. In realtà, è tutta FI a martellare sulla mancata ripresa, sulle promesse non mantenute dal presidente del Consiglio, e su presunti contrasti col presidente della Bce, Mario Draghi, convinto che non basti la flessibilità chiesta dall’Italia all’Ue per rilanciare l’economia.
Gli attacchi a Renzi, però, suonano come tentativi di bilanciare la collaborazione sulle riforme; e di cancellare la sensazione che l’opposizione stia diventando un monopolio del Movimento 5 Stelle. L’ex ministro Corrado Passera, fondatore di Italia Unica, ritiene «sbagliato lasciare a Grillo una strumentale difesa del sistema democratico mentre FI, per motivi di convenienza, appoggia Renzi». Certamente, Beppe Grillo si trova di fronte ampi spazi per la sua offensiva. E li sfrutta per lanciare segnali a intermittenza dialoganti e insultanti: a tutti. Ieri, alla vigilia dell’incontro tra M5S e Renzi, ha detto che col Pd non si può parlare «se diventa P2». Resta da capire se l’attacco non sia un paletto per frenare i mediatori del movimento.

Il Sole 16.7.14
Dietro l’astuzia del doppio binario, il sostegno di Forza Italia A Renzi
di Stefano Folli


È un gioco di prestigio, o almeno un tentativo. Quel che resta di Forza Italia è tenuto insieme da Berlusconi con una certa frettolosa determinazione, risolvendo le contraddizioni nella classica strategia del doppio binario.
Da un lato si chiede ai gruppi di sostenere il "patto del Nazareno", il famoso accordo sulle riforme istituzionali con Renzi (leggi trasformazione del Senato e legge elettorale). Dall'altro si garantisce che sulla politica economica non si concederà nulla al governo: linea dura nel solco delle indicazioni quotidiane di Brunetta. Ma si tratta, appunto, di una sorta di gioco di specchi.
Né Berlusconi né Forza Italia oggi sono in grado di esprimere in modo credibile una posizione duplice: "padri costituenti" per un verso, strenui combattenti parlamentari per l'altro. Per riuscirci servirebbero altre percentuali elettorali, un diverso contesto e forse l'antico carisma del leader. Ma il Berlusconi di oggi e il suo gruppo dirigente non sono in grado di offrire di meglio. Per cui ecco l'apparente doppio binario: utile a impedire più gravi lacerazioni interne al partito, dividendo il tema delle "regole" da quello delle politiche economiche.
In realtà la linea, allo stato delle cose, è una sola e si riassume nel sostanziale sostegno a Renzi. Forse la ragione è quella descritta da Salvatore Merlo sul "Foglio": l'attuale premier è «l'erede indicibile», l'unico personaggio su cui Berlusconi si sente davvero di puntare per salvare il salvabile, fra i processi in corso e il patrimonio aziendale da proteggere. Il vero continuatore possibile fra i tanti che si sono affacciati in questi anni sulla scena e sono stati via via scartati. Il "figlio politico" del quale, dice il senatore del Pd Mucchetti, il "padre" farebbe bene a non fidarsi troppo.
Il fatto che Renzi sia il capo dello schieramento avverso a questo punto non è un ostacolo. Occorre adattarsi alle circostanze e da tempo Berlusconi ha preso atto della realtà. Di qui il sostegno privo di incrinature sulla vera questione che oggi conta: la riforma di Palazzo Madama e subito dopo l'Italicum, ossia la legge elettorale nella versione concordata con il premier. Parliamo di "regole", certo, ma si tratta di scelte tutte politiche, in grado di cambiare il volto istituzionale del paese e di consegnarlo al centrosinistra "renziano", in cambio però di uno "status" riconosciuto in Parlamento e nel paese ai berlusconiani.
È qui che l'anziano leader chiede ai suoi - senza tanti fronzoli - di dargli fiducia ancora una volta. Ed è una richiesta a cui ovviamente molti risponderanno «sì», senza però che la fronda dei dissidenti sia riassorbita. Al contrario: il gruppo di Fitto non si è piegato e gli sviluppi sono tutti da seguire. Si può prevedere che la riforma del Senato passerà, ma quasi certamente senza raggiungere la soglia dei due terzi, il che renderà necessario il referendum confermativo.
Quanto alla politica economica, le analisi pungenti di Brunetta continueranno. Tuttavia è un terreno su cui Palazzo Chigi non ha per adesso granché da temere, dal momento che i problemi sono, sì, drammatici, ma la maggioranza è solida. Il vero campo di gioco era ed è quello istituzionale. Se Berlusconi avesse raccolto i dubbi che serpeggiano a destra come a sinistra sul progetto renziano, il premier sarebbe stato messo in grave difficoltà.
Invece ha prevalso la linea dell'intesa sempre difesa sul piano politico da Denis Verdini e interpretata in Parlamento da Paolo Romani. Il doppio binario è più che altro una copertura.

La Stampa 16.7.14
Forza Italia, Verdini rinviato a giudizio
“Associazione a delinquere e bancarotta”

qui

il Fatto 16.7.14
I ricattati
Verdini lo scandalo di Renzi
di Antonello Caporale


Il Senato sta per essere dismesso ed è anzi già trasformato in un detrito, in un luogo perduto e inutile della Repubblica. Al suo posto nascerà un punto di ritrovo provvisorio, sede del nulla, crocevia di minuscoli potentati regionali. Il popolo è sovrano e il Parlamento è la sua espressione, dice la nostra Costituzione. E invece non sarà più così. Una Camera eletta e l’altra nominata, una che decide e l’altra che fa ornamento, corona, se non cestino delle vergogne. Qui non è più Matteo Renzi a dover essere giudicato ma il senso dello Stato di coloro che in nome del popolo sovrano sono stati chiamati a esprimere in libertà e coscienza il proprio giudizio. Possibile che Sergio Zavoli, il decano dei senatori, valuti come spaventosa questa riforma facendola derivare da un ricatto politico e nulla accade?
E perché mai il premier ritiene di poter dire che il testo è “inemendabile” quale emergenza nazionale suggerisce una statuizione così definitiva? Si può convenire sulla necessità di superare il bicameralismo perfetto, concordare anche sulla urgenza di ridurre il numero dei parlamentari, le indennità e i privilegi e comunque affrontare la questione attraverso un atteggiamento meno compulsivo. Se dovrà essere il Senato delle autonomie quale scandalo sarebbe accogliere la proposta, da ultimo presentata su questo giornale dal professor Zagrebelsky, di eleggere i cento senatori attraverso un suffragio a base regionale? Cosa toglierebbe alla velocità di Renzi una riforma che rielaborasse le funzioni del Parlamento, concedendo a una Camera ciò che non sarà nei poteri della seconda, lasciando però che l’espressione della volontà popolare venga dispiegata? Chi tradirebbe il presidente del Senato se oggi comunicasse la sua decisione di dimettersi invece di accettare una riforma che è un pasticcio di rara perfezione?

il Fatto 16.7.14
Verdini entra ed esce quando vuole da Palazzo Chigi
Il potente fiorentino di Forza Italia è stato rinviato a giudizio. Ma è suo il dossier che il premier studia per cambiare Palazzo Madama e legge elettorale
di Fabrizio d’Esposito


Se questo è un padre della patria, novello costituente. Associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato. Il gup del tribunale di Firenze, Fabio Frangini, ieri ha rinviato a giudizio 47 persone per il crac del Credito cooperativo fiorentino (Ccf). Tra queste l’imputato numero uno è Denis Verdini, che per oltre vent’anni ha gestito la banca. Non è il primo guaio giudiziario per lo sherpa berlusconiano delle riforme. Verdini è lambito da tante altre inchieste: la cricca del G8 dell’Aquila, gli affari dell’eolico in Sardegna, le riunioni della P3 per salvare B. dai processi (e altre intercettazioni nel processo P4), truffa per fondi pubblici dell’editoria. Il buco della banca di Verdini sarebbe di oltre 100 milioni di euro. Prestiti facili e distrazioni a gogò. Coinvolto anche un altro parlamentare azzurro, Massimo Parisi, mentre la posizione di Marcello Dell’Utri (un prestito da 3,2 milioni di euro senza garanzie) è stata stralciata.
L’eroe dei due Palazzi e le simulazioni elettorali
Verdini è stato rinviato a giudizio subito dopo aver consegnato a Matteo Renzi un prezioso dossier sulle simulazioni elettorali che vedono il premier arrivare primo con ogni sistema elettorale. Questo dettaglio del dossier è stato rivelato domenica scorsa dal Corriere della Sera e ha fatto impazzire moltissimi deputati democrat e forzisti. “Com’è possibile che il principale consigliere di
B. fornisca i sondaggi al capo del partito avversario?”. Il punto è che ormai non c’è più distinzione tra “Matteo” e “Denis”. Verdini partecipa ai consigli di guerra del Condannato a Palazzo Grazioli (insieme con Ghedini, Gianni Letta, Confalonieri) e allo stesso tempo ha un accesso pressoché libero a Palazzo Chigi. Circostanza questa confermata al Fatto da fonti bipartisan, sia renziane sia berlusconiane. È l’eroe dei due Palazzi. E se non s’incontrano di persona durante la settimana il loro contatto preferito è Luca Lotti, il giovane sottosegretario della presidenza del Consiglio che si occupa dei fondi per l’editoria. Verdini scrive a Lotti e Lotti rigira a Renzi. Telefonate a parte, sempre quotidiane tra i due, “Matteo” e “Denis”, un’altra occasione d’incontro sono poi i fine settimana a Firenze, la città di entrambi. Il loro rapporto, infatti, è profondamente “fiorentino”. In questi mesi la letteratura sui due è stata ampia, fino ad includere un legame massonico mai provato. In ogni caso è antico. Risale al papà di Renzi e risale al primo assalto di “Matteo” al Comune, assecondato con benevolenza consociativa da Verdini, diciamo pure così. Ecco come viene aggiornato il rapporto oggi da un parlamentare renziano: “I due si fidano ciecamente l’uno dell’altro”.
Quella minaccia: “Se il patto salta io lascio Fi”
In fondo è così che è cominciata la storia del patto del Nazareno, quando lo Spregiudicato vide il Pregiudicato e si appartò pure da solo con lui, per sette lunghi minuti. La storia, appunto , iniziò con una telefonata di “Denis” a “Matteo”: “Noi due ci si deve vedere”. È in quel momento che Verdini ha realizzato che poteva costruirsi una doppia polizza sulla vita (politica) e non solo. Da un lato Berlusconi, dall’altro Renzi. Non a caso, quando settimane fa Berlusconi sembrava sensibile ai richiami dei falchi azzurri anti-Nazareno, Verdini ha rotto la sua proverbiale riservatezza (ha rilasciato pochissime interviste in questi anni) e ha fatto trapelare una clamorosa indiscrezione: “Se si rompe il patto me ne vado da Forza Italia e mi ritiro”. Non è successo, ma ci è andato vicinissimo. Anche perché, Verdini, prima ha litigato poi ha ricucito con il fatidico cerchio magico del Condannato: la fidanzata Francesca Pascale , la badante Mariarosaria Rossi, il barboncino Dudù, il consigliere Toti e, in seconda battuta, Paolo Romani e Mariastella Gelmini.
La profezia di Mucchetti
Proprio l’altro giorno, dopo il dettaglio rivelato dal Corsera e prima del rinvio a giudizio di ieri, il senatore del Pd Massimo Mucchetti, da giornalista di razza, ha insinuato un dubbio profetico, sotto forma di avvertimento-consiglio a Berlusconi: “Verdini deve rispondere della bancarotta del Ccf e di altre imputazioni. Qui la politica non c’entra. Si tratta di affarucoli da strapaese, ma con una conseguenza grave come la liquidazione coatta amministrativa della banca decretata dalla Banca d’Italia. Senonché per Verdini i processi non sono ancora entrati nel vivo. E qui diventa interessante vedere se lo Stato e le istituzioni si costituiranno parte civile laddove fosse possibile o se chiuderanno un occhio e, ove lo facessero, se troveranno i migliori avvocati o se troveranno il Giovanni Galli della situazione per giocare o perdere come accadde alle elezioni amministrative fiorentine. Verdini ha maggiori possibilità di ottenere vantaggi dalla benevolenza del Principe”. Verdini gioca in proprio la partita delle riforme? Risponde una fonte del cerchio magico: “Mucchetti ha ragione”.

il Fatto 16.7.14
Apartheid Castel Volturno: bianchi e neri, stesso ghetto
Il sindaco: “Siamo una grande discarica sociale con il consenso dello Stato”
di Enrico Fierro


inviato a Castel Volturno. Dimitri Russo, giovane sindaco di Castel Volturno, sta elaborando grafici, tabelle, numeri che porterà all’incontro di oggi col ministro dell’Interno. E forse, finalmente, Angelino Alfano, titolare del Vi-minale a tempo perso, capirà che tra Roma e Napoli lungo l’antica via Domitiana, tra villette sgarrupate, cumuli di monnezza e coste bagnate da un mare fetente, c’è una bomba pronta a esplodere. Un Sudafrica d’altri tempi che si ripropone qui: i bianchi da una parte, i neri dall’altra, facce feroci che si guardano con odio. Il rancore che impedisce a tutti di vedere lo schifo in cui sono stati precipitati. La scintilla c’è già stata domenica sera, quando due ivoriani sono stati gambizzati da due bianchi, Pasquale Cipriani e suo figlio Cesare. Due vigilantes che hanno fermato i neri accusandoli del furto di una bombola di gas. Quelli, due trentenni, uno dei quali richiedente asilo politico, hanno reagito aggredendo il più anziano. “Tenevano i bastoni in mano, volevano uccidere. Hanno fatto bene a sparargli rint’e cosce”, ti racconta chi c’era e ha visto.
LA SPARATORIA fa scattare la reazione. In un colpo esplode la rivolta degli africani. Cattiva, rabbiosa, feroce , senza limiti. Tre auto bruciate, l’assalto alla casa del vigilantes, il fuoco che ha rischiato di uccidere una ragazza di quindici anni. Il giorno dopo, è la controrivolta dei “bianchi”. Un inferno, fiamme sulle quali sono in tanti a soffiare. Anche la camorra, o quel che resta di clan allo sbando. Perché basta chiedere in giro e ti raccontano che qui, tra Castel Volturno e Mondragone, la ‘guardianìa’ delle villette e dei parchi abitativi è un vero affare, da anni nelle mani della famiglia Cipriani, con Lorenzo, fratello di Pasquale, nei guai per associazione camorristica perché ritenuto vicino al clan La Torre. Ma anche i neri non scherzano. In mezzo alla massa di gente onesta che tira avanti la vita spaccandosi la schiena raccogliendo pomodori nei campi, o arrampicandosi sulle impalcature nei cantieri edili senza alcuna tutela e per quattro soldi, ci sono i boss. Quelli che gestiscono le piazze di spaccio della droga e quelli che sono padroni del fiorente business della prostituzione. La Domitiana è il più grande bordello a cielo aperto d’Italia: di giorno carne bianca e dell’Est, di notte carni nere. “Quanti immigrati ci sono? Impossibile dare un numero esatto”. Il sindaco di Castel Volturno fa due conti. “Siamo 25 mila residenti ma produciamo monnezza come se fossimo in 80 mila, la media in Campania di produzione pro capite di spazzatura è di 150 chili, da noi di 900. Penso che qui ci siano non meno di 15mila immigrati, tra regolari e irregolari. Questa zona è diventata una sorta di grande discarica sociale con il consenso dello Stato. I neri non sono la causa del degrado, ma l’effetto dell’abbandono di queste terre”. Fino agli anni Novanta qui si viveva di turismo, almeno 300 mila presenze l’anno, una villetta ad agosto costava sui 5 milioni di lire. Poi il degrado, la grande truffa del risanamento dei Regi Lagni (i vecchi canali di scolo borbonici) che oggi scaricano liquami e fetenzie direttamente a mare, le illusioni del villaggio Coppola Pinetamare, il porto turistico e la nuova darsena. Ora le seconde case sono abbandonate , i proprietari le affittano in nero: cento euro per un posto letto. Le altre vengono occupate, non c’è acqua, né elettricità, ma ci vivono centinaia di immigrati. “Lo Stato non c’è, dove sono i progetti, le politiche di integrazione? Se il governo mi propone altri poliziotti o addirittura i militari mi infurio. Amministriamo un comune che ha una estensione di 72 chilometri quadrati con 15 vigili urbani e non abbiamo neppure le divise, per non parlare delle macchine, ormai ridotte a rottami ambulanti”. “Lunedì – ci dice Rosalba Scafuro, insegnante e vicesindaco – ho visto la foto della nostra solitudine. I bianchi da una parte, i neri dall’altra pronti a scannarsi. In mezzo noi e le forze dell’ordine”.
QUI È UNA GUERRA senza fine, il nemico è subdolo, ha mille volti e radici antiche. Il suo nome è degrado, brutture, schifo partorito dall’abbandono e da una politica che ha disegnato e promesso piani di rinascita, risanamento e ritorno al turismo, ma solo per depredare risorse pubbliche. E come nelle zone di guerra c’è l’ospedale di Emergency. Un bus granturismo rosso fuoco è parcheggiato a pochi metri dall’ingresso di uno stabilimento balneare. È un clinica mobile, rinfrescata bene e attrezzata meglio: l’unico punto di bellezza in questa grande bruttezza. “Qui facciamo medicina di prossimità – ci racconta Michele Iacoviello, il coordinatore – vengono immigrati ma anche italiani, tutta gente esclusa dal diritto alle cure”. “Arrivano giovani immigrati ipertesi, vittime di alimentazioni approssimative, pieni di dolori articolari, distrutti dallo stress e dalla fatica. Ma la maggior parte ti confessa di avere il dolore dell’anima, chiedono pasticche, ma la vera cura sarebbe l’ascolto”.
La dottoressa Susanna Mai-netti ha poco tempo da sprecare con noi. Fuori, sotto il sole, c’è già la fila di gente che ha bisogno di un dottore. E sono bianchi e neri.

Repubblica 16.7.14
Castel Volturno, il prete di frontiera “Scontri figli del degrado, non è razzismo”


INVIATO CASTEL VOLTURNO. È il ventre nero d’Italia, questa lingua di terra che oggi come vent’anni fa sembra sul punto di esplodere definitivamente come una santabarbara di conflitti sociali. Dopo il sangue e la rivolta, è tornata la calma a Pescopagano. Ma è una quiete solo apparente perché, nelle strade presidiate quasi ad ogni angolo da polizia e carabinieri, la tensione resta altissima. «Da troppo tempo qui si vive in un clima di coprifuoco coatto. Questa terra è abbandonata da più di trent’anni », avverte don Guido Cumerlato, da dodici anni parroco a Pescopagano, il quartiere diviso fra i comuni di Castel Volturno e Mondragone teatro della guerriglia esplosa dopo il ferimento a colpi di arma da fuoco di due cittadini ivoriani. I sindaci Dimitri Russo e Giovanni Schioppa saranno oggi al Viminale per incontrare il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Più o meno nelle stesse ore il giudice deciderà sulla convalida del fermo di Pasquale Cipriani e del figlio Cesare, accusati di tentato omicidio per aver sparato ai due immigrati ritenendo che avessero rubato una bombola di gas. Gianluca Petruzzo, portavoce dell’associazione antirazzista 3 Febbraio invita all’impegno «per la verità e la giustizia e perché questo ennesimo crimine razzista non rimanga impunito». Ma don Guido, veneto trapiantato a Gomorra come il fratello Vittorio, parroco nella vicina Casapesenna, invita alla cautela. «Attenti alle semplificazioni. Non è una lotta fra bianchi e neri, non è una questione di razzismo».
Ma allora come si spiega quanto accaduto domenica sera a Pescopagano, don Guido?
«Gli atti di violenza non sono mai giustificabili né giustificati, sia chiaro. I fatti tragici di queste ore sono però un segno del male che sta divorando questa terra. Mancano fogne, luci, strade. Molte case sono abbandonate o dissestate. È in questo abbandono che proliferano la delinquenza e lo spaccio. Sa cosa mi dicono spesso i cittadini?».
Cosa?
«Non c’è casa che non sia stata visitata, svaligiata, derubata. Chi vive a Pescopagano è costretto notte e giorno a vegliare sui propri beni. Così le relazioni diventano sospettose, la convivenza difficile. I bambini restano chiusi nelle case. Le forze dell’ordine non riescono ad affrontare tutte le esigenze. Ecco perché il recupero di quest’area è un caso nazionale».
Intanto due immigrati sono rimasti feriti e due italiani sono in carcere.
«Conosco Cesare come tanti che erano in strada domenica, da una parte e dall’altra. Io stesso ho mediato fra le parti, come i comboniani che svolgono uno straordinario lavoro sul ter- ritorio. Ha compiuto un gesto riprovevole ma sono sicuro che ha capito subito di aver sbagliato».
È così difficile l’integrazione fra bianchi e neri in questo territorio?
«La popolazione, pur composta da etnie diverse, ha sempre accolto tutti. Non ci sono discriminazioni, ma solo la richiesta di una presenza e di un controllo costante da parte delle istituzioni. C’è una comunità ghanese, ad esempio, che lavora ogni giorno onestamente e non deve essere confusa con altre situazioni. Ma quando mancano i servizi e le risposte alle esigenze primarie della popolazione, chi ha voce grida, chi non sa gridare rischia di compiere qualche gesto sconsiderato. E poi si è aggiunta la crisi economica. Molte famiglie non sanno come tirare avanti. Alla mensa della Caritas diamo assistenza a 900 persone, e solo un centinaio sono immigrati».
Come si esce da questo tunnel, don Guido?
«Pescopagano è ferita, ma non è ancora morta. È una terra malata, ma dove c’è vita. Il nostro vescovo, Francesco Piazza, è pronto ad organizzare una tavola rotonda con tutte le istituzioni. Il popolo deve agire, tutti però devono comprendere che il caso Pescopagano è il segnale fotte di un malessere che riguarda tutto il Paese»

Corriere 16.7.14
Quel tragico contrappasso sui migranti
Che cosa lega Castel Volturno e Lampedusa
di Goffredo Buccini


Un doppio filo sembra collegare drammi e tensioni tra Castel Volturno e Lampedusa. Il primo legame pare molto materiale: numerosi migranti sbarcati nel nostro avamposto mediterraneo stringerebbero un foglietto su cui qualcuno ha scarabocchiato il nome del paesone casertano dove — mancando quasi del tutto il controllo dello Stato — sarebbe più facile scomparire nella folla di irregolari: lo racconta, proprio da Castel Volturno, il sindaco Russo che in queste ore sta avendo il suo da fare per evitare che le tensioni tra i suoi concittadini e la comunità africana finiscano in un nuovo bagno di sangue. Il secondo legame parrebbe invece di tipo ideale, quasi culturale. Nei confronti della tragedia ricorrente di Castel Volturno (strage di ghanesi e liberiani nel 2008 firmata dai casalesi, reazione degli immigrati con scontri di piazza, temporanea militarizzazione della zona, pace apparente per coprire spartizioni e successioni nel narcotraffico, infine l’altro ieri nuovi spari e altro sangue) lo Stato italiano ha un atteggiamento simile a quello che l’Unione Europea mantiene verso l’Italia sulla non meno ricorrente tragedia di Lampedusa (qui intesa come simbolo della nostra solitudine).
In soldoni, ci si gira dall’altra parte, lieti che la rogna tocchi a qualcun altro. Il sindaco Russo ha spiegato ai cronisti che governa senza mezzi (zero vigili urbani, zero servizi sociali) una comunità di 25 mila cittadini censiti e di 15 mila neri quasi tutti irregolari. È persino superfluo dire che lo Stato, pur con le sue scarse risorse, deve correre di nuovo accanto a Russo come accanto ai sindaci di altre realtà locali a rischio (viene in mente Rosarno, gli scontri del 2010): con una risposta militare, certo, un censimento dei migranti, eventuali espulsioni, una più ragionevole distribuzione dei carichi con le altre regioni; ma anche con regolarizzazioni, assistenza a chi ne ha diritto, emersione del lavoro clandestino, stop al caporalato e agli sceriffi alle vongole che proliferano in certi ambiti.
Con uno sgangherato contrappasso, noi rendiamo alle nostre comunità locali ciò che l’Europa ci infligge. Ma, allo stesso modo, l’Europa non può continuare a girarsi dall’altra parte. Persino il Financial Times ha notato di recente che «l’Italia merita l’aiuto dell’Unione Europea per la crisi dei migranti». Le regole di Dublino sul diritto d’asilo penalizzano fortemente Paesi come il nostro, la Grecia o la Spagna, frontiere di mare dell’Europa meridionale. Il nostro semestre di presidenza è l’occasione per riaprire la partita. Ma la partita non può riaprirsi con la semplice chiusura di Mare No strum , come buona parte della destra italiana invoca. In nove mesi i nostri straordinari marinai hanno raccolto sulle navi di pattuglia nel Mediterraneo circa sessantamila migranti. I morti sarebbero stati migliaia, chi straparla dovrebbe ricordare i naufragi dell’ottobre 2013. Si dice: fermiamoli sulle loro spiagge. Già, ma in buona parte costoro sono profughi che fuggono da conflitti e carestie, dunque hanno pieno diritto alla protezione internazionale. Inoltre l’unico blocco efficace riuscì a operarlo un boia come Gheddafi che rinchiuse quest’umanità dolente nei lager e divenne, ricordiamolo, partner d’affari coccolato dall’Italia berlusconiana.
Dunque? Si tratta forse di spostare più a sud l’asse dell’operazione Mare Nostrum , per aprire un corridoio umanitario e legale. I migranti vanno sottratti a scafisti e carrette del mare, e imbarcati sui nostri traghetti. Ma questo significa distinguere, in loco, tra profughi e no, bloccare laggiù delinquenti e (come dice Alfano) infiltrati terroristi. Coi rischi che comporta, in uno Stato dissolto come la Libia, si tratta di stabilire un avamposto di civiltà europea. Perché questo non può essere solo un fardello italiano, anche i pesi dell’accoglienza vanno riequilibrati. Questa migrazione epocale, se non gestita da tutti gli europei, marchierà la storia d’Europa come un secondo Olocausto. A una vicenda umana straordinaria non si risponde con gli angusti battibecchi di Frontex ma con una straordinaria visione del futuro comune e dell’eredità imposta dal nostro passato. Servono politici veri. Su quelle coste, l’Europa dei banchieri davvero non può arrivare.

Il Sole 16.7.14
Così lo ius soli ha aiutato la Germania a vincere
di Maria Luisa Colledani


Chissà che cosa avrà pensato Helmut Kohl domenica sera davanti alla tv quando Philipp Lahm ha alzato al cielo di Rio la quarta coppa del mondo nella storia della Germania. Il cancelliere della Germania unita, sulle macerie del Muro di Berlino, perentoriamente aveva affermato: «Il nostro Paese non è e non potrà più essere in futuro terra di immigrazione».
Mai sentenza fu più fuori luogo, dopo il successo della squadra di Joachim Löw, in cui il calcio è sinfonia di un'orchestra - i giocatori - con lingue e provenienze diverse. Ci sono turchi (Mesut Özil), tunisini (Sami Khedira), ghanesi (Jérôme Boateng), polacchi (Miroslav Klose e Lukas Podolski, e lo è anche il cancelliere Merkel alla lontana), albanesi (Shkodran Mustafi), tutti vestiti di giallo-rosso-nero e tutti nati in Germania intorno al 1990, così giovani da aprire un'era calcistica. È vero, non tutti cantano l'inno, ma questa nazionale è come quei palazzi di Potsdamer Platz che, fasciati di vetri ovunque, sono specchio fedele delle strade della capitale. Un mondo, quello tedesco, che ha lasciato il patriottismo e ha elaborato una storia drammatica per farsi modernità, frontiera del vivere globalizzato: a Berlino, la Grande Mela d'Europa, si parlano decine di lingue, la Germania nel 2013 è diventata la seconda destinazione al mondo per immigrati permanenti (dati Ocse: 400mila i nuovi arrivi soprattutto dai Paesi periferici della Ue, una persona su cinque viene da un qualche altrove). E il Paese, come da Dna, non si è fatto trovare impreparato. Conscio dell'invecchiamento della propria popolazione (entro il 2050 spariranno 12-14 milioni di persone) si è dotato, dopo decenni trascinati fra accordi bilaterali, di una legge sull'immigrazione d'avanguardia. In vigore dal 2005, la norma prevede che per qualsiasi tipo di permesso si deve dimostrare di essere in regola con il passaporto, di possedere mezzi di sussistenza, una situazione abitativa adeguata, di avere contributi pensionistici per almeno 60 mesi e di non avere subito condanne. Poche regole, ben chiare, che si affiancano alla possibilità per i bambini nati dopo il 1° gennaio 2000 su suolo tedesco da genitori non tedeschi di acquisire la nazionalità se almeno uno dei due genitori ha il permesso di soggiorno permanente da tre anni (è lo ius soli, grande sogno del presidente Napolitano).
Anche nelle pieghe delle norme volute dal Bundestag nasce la Germania multietnica e vincente di Löw. Certo, la Federcalcio tedesca ci ha messo del suo: esaurita la leva calcistica di Brehme, Klinsmann e Matthäus, si è ristrutturata dall'interno: prima ha cavalcato il Mondiale in casa per ammodernare gli stadi, poi ha costruito venti centri federali e investito 600 milioni di euro in dieci anni nei vivai. Il risultato, prima o dopo, doveva arrivare, d'altra parte la Germania, nel 2009, aveva vinto tre Europei: Under 21, Under 19 e Under 17. E in quelle squadre giocavano già i vari Özil, Boateng e Khedira. Dopo tanti tiri in porta, Rio è solo il gol vincente, il risultato di un progetto, giocato di sponda fra calcio e politica, cogliendo tutte le occasioni, compresa la fame di successo, di conquista sociale che possono avere occhi non proprio teutonici.
I tempi dei Gastarbeiter, i "lavoratori ospiti" che la Germania accolse a partire dagli anni 50, sono finiti, e pure quel tipo di immigrazione. Ora a Berlino, Monaco, Francoforte e Amburgo arrivano ingegneri, web designer, artisti, attratti dai posti di lavoro, da un'economia in movimento, dalla certezza delle regole e da un melting pot avviato al successo. Che in un Paese senza passato coloniale è un triplo salto carpiato riuscito di cui i calciatori sono la fotografia che la Germania ha mostrato al mondo nella notte di Rio.
Una Nazionale non si giudica da un calcio di rigore, non ne ha neppure avuto bisogno contro un'Argentina senza troppa fame. Una Nazionale si giudica dalla fantasia, che è anche scegliere come campo per l'ultimo allenamento prima della finale non il Maracanã ma il Sâo Januário, lo stadio del Vasco da Gama, primo club brasiliano a reclutare i giocatori senza distinzione di razza e di ceto sociale. Un piccolo particolare, solo un particolare; la grandezza e la storia si costruiscono anche così. E Löw lo sa meglio di chiunque altro.

l’Unità 16.7.14
Editoria, c’è solo il segno meno Agcom: «Cambiare par condicio»
L’Agenzia: nel 2013 ricavi dai quotidiani a -7% periodici -13%
Per la prima volta cala la pubblicità sul web
Lotti: «È crisi ma col Fondo straordinario nuova occupazione»
di Giuseppe Vittori


Tra contenziosi in crescita, ricavi a picco e calo della pubblicità, per la prima volta anche sul web, il 2013 è stato un anno orribile per il settore delle comunicazioni italiano (tlc, radio e tv, editoria e internet, servizi postali). Parole, sconfortanti, della relazione annuale dell’Agcom, l’Autorità garante delle telecomunicazioni, che il presidente Angelo Cardani ha presentato ieri alla Camera, unitamente a un appello a modificare la legge sulla par condicio. E che vengono così commentati dal sottosegretario con delega all’editoria Luca Lotti: «I dati sull’editoria che emergono dalla relazione Agcom sono preoccupanti. Siamo tutti consapevoli che il settore ormai da tempo soffre una crisi che pone delle difficoltà oggettive al sistema nel suo complesso; tuttavia, eravamo a conoscenza della situazione ed è su questa base che abbiamo costruito il decreto sul Fondo straordinario per l’editoria». Che, assicura Lotti, sarà «un provvedimento articolato e con caratteristiche assolutamente innovative, che vanno tutte nella direzione di creare nuova occupazione ». Ma intanto sono i dati a parlare. Meno 9% dei ricavi sul 2012 e ora a quota 56,1 miliardi di euro.
In perdita anche il settore internet: - 2,5% (peggio delle pay tv). Mentre si riduce il distacco tra il duo Rai-Mediaset e le altre tv. Il mercato vive una fase difficile. A rischio anche il ruolo stesso dell’Autorità: il decreto legge di riforma della Pubblica Amministrazione obbliga alla «razionalizzazione delle autorità indipendenti». E Agcom teme che i risparmi di spesa a cui mira lo Stato ne mineranno le funzioni e il ruolo di garanzia.
Cala tutto il settore comunicazioni: l’editoria, quotidiana e periodica, ha perso nel 2013 quasi 700 milioni di ricavi. Quelli dei quotidiani passano da 2,5 miliardi del 2012 a 2,3 miliardi del 2013. I periodici da 2,8 miliardi a 2,3 miliardi. Il fatturato dei quotidiani è sceso del 7%, quello dei periodici il 17,2%. Cifre ormai lontane dai 3,1 miliardi del 2009: nel 2012 restano stabili i ricavi da vendita di copie (-0,48% a quota 1 miliardo 162 milioni), a pesare è il calo della pubblicità (-13,17% a quota 983 milioni). I ricavi da collaterali perdono il 16,53%, ora a quota 107 milioni. Per quanto riguarda i periodici dal 2010 è andato in fumo oltre un miliardo di ricavi (da 3,4 miliardi a 2,3 miliardi). L’anno scorso i ricavi da vendita di copie sono scesi del 13% (1,6 miliardi a 1,4 miliardi), la pubblicità del 24,1% (da 1miliardo a 766 milioni), i collaterali del 21,3% (da 167 a 131 milioni).
Anno negativo, come si è detto, anche per la pubblicità: il calo dei ricavi complessivi rispetto all’anno precedente è stato del 10,9%, da 8,3 miliardi a 7,4 miliardi. Crollano periodici (-24,1%) e quotidiani (-13,2%), ma vanno male anche tv (-10,1%) e cinema (-7%). La radio perde il 6,4%. Scende per il primo anno anche Internet (-2,5%). Forte calo anche per le telecomunicazioni: meno 8,79%. Fa peggio la rete mobile (meno 11,2%). A picco il traffico voce.
Il solo segnale positivo resta il mobile internet: le sim che hanno navigato sono salite a 32,7 milioni (primo trimestre 2014), contro i 31,3 milioni dell’anno scorso.
Cardani è critico anche sulla par condicio, che andrebbe cambiata: «La legge ha sempre maggiori e evidenti criticità applicative, specie nei periodi elettorali. È certamente auspicabile un nuovo intervento del legislatore» per coniugare la tutela del pluralismo con «l’evoluzione del panorama mediatico e politico».

il Fatto 16.7.14
Rapporto Agcom
2013, l’anno nero dell’editoria italiana: bruciati 700 milioni
La stampa è sempre più in crisi, pesa il crollo della pubblicità. Tv: Rai sorpassa Mediaset
di Chiara Ingrosso


Che l’editoria italiana non navigasse in acque serene si sapeva da tempo. Il rapporto annuale dell’Autorità Garante per le Telecomunicazioni (Agcom) presentato ieri al Parlamento, però, racconta di un mare sempre più burrascoso.
I numeri sono drammatici: solo nel 2013 l’editoria nel suo complesso ha perso quasi 700 milioni di euro di ricavi. Per i quotidiani italiani, il fatturato da 3,1 miliardi del 2009 è un lontano ricordo: oggi si fermano a 2,3 miliardi, con una perdita del 7 per cento solo nell’ultimo anno. La maglia nera è assegnata ai periodici, con oltre un miliardo di euro perso dal 2010 e il 13 per cento delle vendite andato in fumo nel 2013. Il problema, almeno per i quotidiani, non è tanto il numero di copie vendute, che registra una flessione solo dello 0,48 per cento, quanto il netto calo degli investimenti pubblicitari, che scendono del 13,17 per cento rispetto al 2012, fermandosi a quota 983 milioni.
L’anno nero dei media è soprattutto l’anno nero della pubblicità: gli investimenti complessivi nel 2013 sono crollati a picco: da 8,3 a 7,4 miliardi. Non solo nella carta stampata-rollano, ma anche in televisione (-10,1 per cento) e cinema (-7 per cento). E per la prima volta diminuiscono anche gli investimenti pubblicitari su Internet, in flessione del 2,5 per cento.
PER QUANTO riguarda il piccolo schermo, Mediaset è l’azienda che risente maggiormente della contrazione degli investimenti pubblicitari: il Biscione in un anno perde l’8 per cento dei ricavi e assiste allo storico sorpasso della Rai, che invece, nonostante il lieve calo della pubblicità, tira un sospiro di sollievo grazie all’aumento delle risorse provenienti dal canone. Seguono Cairo Communication, società la cui perla è La7, che nel 2013 incassa 136 milioni di euro e il network Discovery, che guadagna 125 milioni. Sky si conferma leader nella sezione pay tv, detenendo il 77,8 per cento dei clienti rispetto al 19,1 di Mediaset.
“L’Italia mostra segnali di debolezza nello sviluppo e penetrazione di reti digitali di nuova generazione e di accesso ai servizi più innovativi” ha commentato il presidente dell’Agcom, Angelo Cardani, sebbene “rispetto agli anni precedenti si sia parzialmente ridotto il divario digitale tra l’Italia e la media europea”.

l’Unità 16.7.14
Lorenzin scrive a l’Unità: presto decisioni sull’eterologa


Questa è la risposta dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, all’appello di Maria Antonietta Farina Coscioni pubblicato su l’Unità di ieri a pagina 16 dal titolo «Ministra, sull’eterologa serve più trasparenza».
Condivido con Maria Antonietta Farina Coscioni l’idea che il dibattito sulla fecondazione eterologa necessiti di informazione e trasparenza. Per questa ragione, dopo la decisione della Corte Costituzionale, ho pensato che fosse opportuno riunire in un tavolo tecnico informale una rappresentanza delle principali società scientifiche, dei centri che operano nel settore, giuristi ed esperti di diverso orientamento culturale. Il tavolo tecnico dovrà affrontare, entro il 28 luglio, le problematiche e le questioni lasciate aperte dalla sentenza, che l’applicazione della fecondazione eterologa ci pone, per dare la massima garanzia ai genitori e ai nascituri. Problemi come la gratuità delle donazioni, il limite alle stesse, le garanzie che pubblico e privato dovranno assicurare ai pazienti, i controlli, l’anagrafe dei donatori, il diritto o meno del figlio di conoscere il nome del genitore naturale e tante altre ancora. Dal tavolo dovranno emergere indicazioni e possibili soluzioni che metteremo a disposizione del dibattito pubblico, con la speranza che esso possa essere affrontato con equilibrio, con l’obiettivo, che per prima mi pongo, di varare regole efficaci e di buon senso. Il Parlamento è il luogo ideale per un confronto autenticamente democratico, libero e rappresentativo della cittadinanza italiana.

il Fatto 16.7.14
L’Europa deve liberarsi degli egoismi nazionali
L’unica strada Il peso degli Stati, Germania su tutti, ha trasformato le politiche in estenuanti negoziati. Ecco cosa bisogna fare per riportare la democrazia nell’Unione
di Diego Valiante


Un progetto federalista europeo fondato sulle regioni e non sui governi nazionali può coniugare rigore e sviluppo, facendo della diversità un vantaggio competitivo.
In questi giorni sono stati pronunciati tanti discorsi solenni sull’inadeguatezza delle istituzioni europee a fronteggiare la crisi. Nulla di nuovo. È ampiamente riconosciuto che l’attuale assetto istituzionale dell’Unione europea sia inadeguato per il livello d’integrazione economico-finanziario dell’area euro in particolare. L’Europa però sembra allo sbando, senza una vera guida politica, mentre la scena è tristemente dominata da futili discussioni sulla germanizzazione o meno dell’Europa. La banca centrale europea di Mario Draghi è stata l’unica istituzione europea a giocare, di fatto, un ruolo politico importante con il whatever it takes per l’euro. Ma la Bce non può risolvere i problemi strutturali che affliggono alcune economie europee. Quest’Europa dei governi nazionali, che esercitano un controllo asfissiante sulle decisioni importanti, ha trasformato le politiche europee in una serie di estenuanti negoziazioni intergovernative che Commissione e Parlamento molto spesso subiscono. Seppure le ultime due riforme dei trattati europei abbiano accresciuto il peso del Parlamento, i governi influenzano pesantemente il processo legislativo e la Commissione con dei metodi scarsamente democratici, come l’opaca procedura legislativa chiamata trilogo o il metodo per la scelta del presidente e i commissari della Commissione (vedi Juncker). È in questo contesto politico intergovernativo che il potere contrattuale di alcuni paesi, come la Germania, riesce a imporsi anche contro l’interesse generale.
Modello States o valorizzare le diversità?
Non c’è alcuna ricetta magica per riformare le istituzioni europee. Ci sono tante forme di federalismo verso cui si potrebbe convergere per garantire quelle politiche fiscali europee minime che mantengano la coesione sociale ed economica, garantendo allo stesso tempo una convergenza al rialzo del tenore di vita dei cittadini europei. Ovviamente convergenza non vuol dire stessi livelli di competitività e modelli di sviluppo. Gli Stati Uniti non sono il modello giusto per l’Europa. Un modello federalista che da un lato ridimensioni il ruolo dei governi nazionali da un lato e dall’altro offra un collegamento diretto tra aree omogenee (per ora individuabili con le regioni) e le istituzioni europee preposte a un controllo d’indirizzo delle politiche regionali meriterebbe maggiore attenzione. È, infatti, proprio la diversità dei modelli di sviluppo che rende l’Europa unica. Quella diversità che da troppo tempo soffre dell’inadeguatezza di politiche regionali definite da governi spinti a ricercare la sintesi in confini geografici che non rappresentano più i confini dei mercati, della comunicazione e sempre più di tanti aspetti della nostra società. È anche questo un risultato della globalizzazione e sarebbe fuori da ogni logica tentare di fermare uno tsunami con dei sacchetti di sabbia. La Catalogna, le Fiandre, la Scozia, dove aleggia da mesi aria di referendum sull’indipendenza dai rispettivi governi nazionali, ma anche il malumore del nord-est e sud d’Italia, sono solo alcune testimonianze del fallimento negli anni di politiche regionali nazionali che calpestano la diversità dei modelli di sviluppo locale. L’Europa potrebbe invece interpretare questo cambiamento interagendo direttamente con aree regionali con caratteristiche economiche e sociali omogenee. Il malessere di tante regioni d’Europa potrebbe pertanto diventare un’opportunità per le stesse e per le istituzioni europee di costruire un legame diretto più vicino ai cittadini, senza l’asfissiante e costosa interferenza di un centralismo nazionale incapace di gestire la diversità. È proprio la necessità di fare un buon uso del vantaggio competitivo che l’Europa ha in molte sparse regioni del continente che richiede un governo comune guidato dai propri cittadini e non da sbiaditi interessi nazionali.
Il compito dell’Italia nel semestre
Il semestre italiano ovviamente non potrà fare le riforme necessarie ad aprire uno scenario nuovo, ma potrebbe rilanciare una discussione europea vera sul futuro delle istituzioni e sul rinnovamento di un progetto politico oramai del secolo scorso. Rilanciare l’idea di una convenzione internazionale che riunisca collegi di parlamentari e leaders politici nazionali ed europei, policy makers, accademici, rappresentanti del mercato (industria e lavoratori) e della società civile potrebbe essere lo strumento per rinnovare il progetto politico tenendo conto di questa diversità, allo stesso tempo sensibilizzando l’opinione pubblica sulle politiche europee, prima di chiedergli l’espressione di un voto guidato da una scarsa conoscenza di questi temi. Poi dovranno essere proprio loro a decidere se vorranno un’Europa dei cittadini o ancora un’Europa dei governi nazionali.
(Responsabile della ricerca sui mercati finanziari al Centre for European Policy
Studies di Bruxelles)

l’Unità 16.7.14
Proposte per una medicina umanistica
Un libro di Flamigni e Mengarelli apre la via alla costruzione di un’alleanza tra medico e malato
di Cristina Pulcinelli


QUANTA PAZIENZA HA UN PAZIENTE? TANTA, MA COMUNQUE MENO DI QUANTA NE SERVIREBBE PER AVER A CHE FARE CON LA SANITÀ. Cosicché, visto che la pazienza sembra in via di esaurimento, forse è il caso di cominciare ad usare un altro termine al posto di «paziente», ad esempio quello di «cittadino malato», come propongono Carlo Flamigni e Marina Mengarelli nel loro nuovo libro Nelle mani del dottore? Il racconto e il possibile futuro di una relazione difficile (pagine 205, euro 25,00, Franco Angeli Editore). Flamigni è un medico che si occupa di salute femminile e di bioetica, Mengarelli una sociologa che si occupa di comunicazione della scienza e dell’impatto sulla società dell’innovazione scientifica. Insieme, cercano di analizzare perché la relazione tra operatori sanitari e cittadini malati si sia così deteriorata nel corso del tempo, soprattutto nel nostro Paese, e lo fanno sia affrontando questioni più teoriche, sia analizzando molti esempi tratti dalla quotidianità: il caso Stamina, l’obiezione di coscienza per l’interruzione di gravidanza, la sperimentazione sugli animali.
Ma il punto di partenza del libro è che la medicina sta vivendo una fase di transizione. Ne è un segno il fatto che nascono nuovi modelli della relazione di cura che però hanno in comune «stili contrattuali freddi, distaccati, tecnicamente validi, ma vagamente disumani», mentre i pazienti «di fronte a un aumento teorico delle offerte di salute, pretendono di poter avere a disposizione tutto e subito». Il vecchio paternalismo (il medico pensa di essere il solo ad essere capace di decisioni razionali e che vanno nell’interesse del malato) non è ancora morto, ma subisce colpi da un nuovo modello, quello contrattuale (il medico, esperto di alcune tecniche, le mette sul mercato per chi vuole avvalersene, stipulando un contratto professionale col paziente). Il primo modello non tiene affatto conto dei diritti e dell’autodeterminazione del cittadino malato. Il secondo, al contrario, ha rispetto assoluto dei diritti e attenzione all’autonomia e all’importanza dell’informazione, ma, secondo alcuni, rischia di diventare un’esecuzione acritica dei desideri del paziente. Entrambe strade pericolose, dunque. Eppure, esiste un’altra via, dicono gli autori. La via della costruzione di un’alleanza tra medico e cittadino malato. Anche Carlo Flamigni e Marina Mengarelli, come altri in questi stessi tempi e in altre parti del mondo, stanno pensando a un modello della medicina meno tecnico e più umanistico, o meglio che coniughi tecnica e formazione umanistica.
La terza via, però, deve necessariamente fondarsi su un rapporto di fiducia, quel rapporto che oggi, purtroppo, è fortemente minato. La fiducia nei confronti delle istituzioni, anche quelle mediche, è stata sostituita da sentimenti opposti come il sospetto e la diffidenza. Ma «senza la fiducia (che ai giorni nostri non può che essere critica, informata e meritata) si vive peggio». Come ricostruire questo rapporto, quindi? Gli autori chiedono a questo scopo ad entrambe le parti di esercitarsi in alcune piccole virtù. Piccole ma grandi. Per il medico sono la chiarezza, l’onestà intellettuale, l’attenzione, la disponibilità all’ascolto, l’empatia, la compassione; per il cittadino malato «l’impegno ad accettare per intero, senza ambiguità ed inutili astuzie, la responsabilità dell’autodeterminazione ». E, alla fine del libro, ci scappa anche qualche consiglio per trovare una via d’uscita da questo impasse. Ne citiamo solo qualcuno.
«Ci piacerebbe che la selezione per essere ammessi alle scuole di medicina fosse diversamente orientata in modo da scegliere le persone realmente motivate e adatte alla professione.
Ci piacerebbe che le scuole di medicina dedicassero più tempo allo studio dell’etica medica e dei modelli di medicina. Ci piacerebbe un clima di reale e concreta meritocrazia.
(...) Ci piacerebbe maggiore trasparenza, maggiore compassione, maggiore disponibilità e attenzione.
(...)Ci piacerebbe però anche che, da un lato, i cittadini malati comprendessero la responsabilità che hanno nel processo che porta alla loro autodeterminazione perché si tratta di un cammino e di un lavoro che contempla la presa di coscienza della necessità del loro impegno e dall’altro fossero più consapevoli dei limiti del sapere medico, della finitezza e anche della fragilità di una disciplina empirica basata sulle probabilità, realizzata da esseri umani fallibili.
E, infine, ci piacerebbe che quando siamo costretti a farci ricoverare in un Ospedale, gli operatori ci dessero del Lei».
Come non essere d’accordo?

La Stampa TuttoScienze 16.7.14
Lucio Moderato
“Il cortocircuito dei sette geni nella mente dei bambini autistici”
intervista di Monica Mazzotto

Lucio Moderato è direttore dei servizi territoriali della Fondazione Istituto Sacra Famiglia dell’Università Cattolica di Milano

Andrea deve far suonare, con le nocche, ogni oggetto che incontra, Paolo non parla e, quando cammina, vuole svuotare e riempire i bidoni della spazzatura. Davide urla senza apparente motivo e si nasconde sotto il letto. Poi, però, c’è Francesco che parla e riesce a spiegarti cosa vede e come funzionano i suoi sensi con un video di sua realizzazione.
Ragazzi diversi, che in comune hanno l’autismo, un disturbo poco conosciuto, ma sempre più diffuso. «Negli Anni 70 c’era un autistico ogni 100 mila abitanti, oggi un bambino su 100 è autistico. E ci sono picchi come la Corea, dove si arriva a uno su 80 abitanti». A spiegarlo è Lucio Moderato, direttore dei servizi territoriali della Fondazione Istituto Sacra Famiglia, docente all’Università Cattolica di Milano e direttore scientifico dell’associazione «Autismo e Società»: è uno dei massimi esperti italiani, autore di un centinaio di pubblicazioni e padre di «Superability», un metodo terapeutico per chi soffre di disabilità intellettive.
Professore, da 30 anni lavora in questo campo e ha incontrato migliaia di soggetti autistici: pensa che questi dati allarmanti siano dovuti anche alla maggiore accuratezza delle diagnosi?
«Le diagnosi sono più precise e tante forme di autismo, un tempo, non venivano riconosciute o venivano scambiate per altri disturbi, come la schizofrenia. Ma l’aumento dei casi c’è ed è reale».
Da uno studio sul «Journal of the American Medical Association» emerge che il rischio di soffrire della sindrome sia al 50% genetico e al 50% ambientale. È così?
«E’ vero, esiste un’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali, ma l’interazione è particolare. Il rapporto tra i primi e i secondi è simile a quello tra una bomba e una spoletta. Se c’è la bomba e non c’è la spoletta, la bomba non esplode, e viceversa. Deve esserci l’occasione e la predisposizione. Ma sostenere che, in media, il rapporto sia di 50 e 50 è semplicistico, perché, essendo una media, vuol dire che in tanti casi per il 70% sarà genetico e per il 30% ambientale o viceversa».
Solo il 60% degli italiani pensa di sapere che cos’è l’autismo e, di questo, il 70% crede che gli autistici possiedano forme di genialità. Che cos’è l’autismo?
«Non è una malattia, ma un disturbo generalizzato dello sviluppo. L’elevata frequenza di disabilità intellettiva e di epilessia avvalora l’ipotesi che l’autismo derivi da un’anomalia dello sviluppo cerebrale che ha avuto un altro tipo di evoluzione. Infatti, non esiste un solo tipo di autismo, ma infiniti, e oggi si parla di sindrome dello spettro autistico. Immaginate due linee parallele: la prima rappresenta l’intensità dell’autismo e l’altra l’intelligenza. Provate a congiungere due degli infiniti punti di queste linee: avrete infinite combinazioni. Ci può essere il bambino con un alto livello di autismo e alti livelli di intelligenza o un basso livello di autismo e un basso livello di intelligenza. E tra questi casi limite ci sono infinite combinazioni».
Perché questa variabilità?
«Perché allo stato della ricerca entrano in gioco almeno sette geni che si incrociano e che interagiscono con l’ambiente. Questi geni hanno una diversa influenza su diverse aree di sviluppo: alcuni sugli aspetti sensoriali, altri su quelli intestinali, altri su quelli neurologici. Per far capire quanto può essere vasta la combinazione dei sette geni si può pensare alle note: quanti brani sono stati composti con sette note? Infiniti. E questo è il problema dell’autismo. Anche se li racchiudiamo sotto la stessa etichetta, non c’è un caso uguale a un altro. Sono tutti complessi e atipici. Questa è la sfida e nel mio lavoro devo sempre cercare la strada “su misura”».
Ma gli autistici possiedono anche dei punti in comune?
«Sì. Hanno un pensiero che funziona prevalentemente per immagini e processano le immagini in modo seriale, una alla volta. Immaginate la nostra mente come una botte aperta e le informazioni come l’acqua. Come si riempie una botte? Con facilità, visto che il foro di ingresso è ampio. Non dobbiamo prendere la mira. La mente degli autistici, invece, è come una damigiana, con il foro d’entrata piccolo. La damigiana la puoi riempire solo se stai attento. Se butti secchiate, la maggior parte dell’acqua andrà fuori. Questo è il sistema di apprendimento dell’autistico. In più i neuroni non sono collegati da opportuni legami sinaptici. Per questo non creano circuiti funzionali utili. In pratica non generano categorie, ma connessioni singole, come se ogni oggetto fosse a sé stante».
Per esempio?
«Il nome “mela” viene associato a una singola mela, ogni volta ex novo. Non si crea la categoria “mela” grazie alla quale ogni mela, indipendentemente dalla forma o colore, viene riconosciuta».
Se manca la categorizzazione, è anche un problema ripescare dalla memoria le informazioni assimilate?
«Sì. Mancando le categorie e i collegamenti tra neuroni, è come se entrassimo in una biblioteca e per cercare un libro fossimo costretti a guardare un volume alla volta. A complicare i processi di apprendimento, poi, si deve aggiungere l’ipersensorialità».
Cosa intende?
«Le informazioni utili per l’apprendimento arrivano al cervello grazie ai sensi. Gli autistici li hanno alterati, ma non come si credeva un tempo, quando li si considerava come individui chiusi in se stessi. Al contrario sono “troppo” aperti. Non sentono poco, ma troppo. Possiedono una sensibilità incredibile alla luce e ai rumori. Anche la percezione cutanea è elevata: noi non sentiamo l’aria che si muove, loro sì e sentono spesso dei pruriti insopportabili. Il mondo è troppo intenso per loro. Pensate di avere sempre un faro piantato negli occhi, di non riuscire a stare seduti e di sentire un rumore costante. E ora provate a leggere un libro».
Un lavoro all’Università del Connecticut sostiene che ci siano comunque possibilità di guarigione: lei cosa pensa?
«Purtroppo la cattiva informazione si occupa spesso di autismo. Credo che non ci sia nulla di più dannoso delle illusioni. I genitori spesso si affidano ad informazioni ottenute su Internet e diventano vittime di abili illusionisti. Purtroppo, al momento, non c’è possibilità di guarire, ma c’è tanto che può essere fatto. In molti casi possiamo rendere questi bambini in grado di affrontare le sfide della vita. Ci vuole tecnica e soprattutto pazienza».
In che modo?
«I bimbi autistici sono difficili: piangono e non capisci cos’anno, ridono e non sai perché. A volte ridono quando sono tristi e piangono quando sono allegri. Fanno cose “strane”. Ma questi comportamenti “hanno un senso”. Siamo noi che dobbiamo capire ciò che non va».
Quali gli interventi più opportuni?
«Per esempio è importante capire che le terapie vanno fatte a casa, anche se pochi lo fanno. E’ inutile che il bambino faccia psicomotricità e logopedia e poi non sappia lavarsi i capelli. Dobbiamo fare ciò che in termini tecnici si chiama “Net”, “Natural environment treatment”: trattamenti in ambienti di vita naturali, in sinergia con insegnanti, educatori, terapisti e genitori. Dobbiamo cercare di insegnare loro tutte le attività quotidiane che permettano di avere una vita sociale accettabile».
Che cosa ha imparato dalle persone con autismo?
«Sono i miei docenti! In un mondo troppo veloce ci dicono che è con la lentezza e con la dedizione che si impara ed è con il sacrificio che si diventa grandi».

l’Unità 16.7.14
Botte a bimbi autistici Ascoli, cinque arresti
di Pino Stoppon

Ascoli Piceno Strattonati, denudati, chiusi a chiave in una stanza buia, o nella stanza azzurra che di quieto ha solo il nome, un bugigattolo stretto e lungo, senza finestre, senza luce. È il trattamento riservato dagli educatori del centro «Casa di Alice» di Grottammare, Ascoli Piceno, un istituto affidato dal Comune a una cooperativa esterna per la riabilitazione di ragazzi autistici. Peggio di una prigione dove l’uso di mezzi di contenzione, vietati dalla legge italiana, era prassi giornaliera. E lo si vede bene dal filmato girato dal comando dei carabinieri grazie alle telecamere nascoste: ci sono ragazzini tra gli otto e i 13 anni che vengono trascinati malamente nelle celle punitive e c’è la loro disperazione mentre cercano di aprire quella porta e poi si gettano a terra, sul pavimento, in attesa che qualcuno torni, che qualcuno si faccia vivo.
In manette sono finiti in cinque. Roberto Colucci, 47 anni, coordinatore del centro e gli operatori Rossana Raponi, 53 anni, Maria Romana Bastiani, 46, Susan Caccioni, 43, Luciana D’Amario, 53. Per tutti l’accusa è di maltrattamenti e sequestro di persona. Il provvedimento è stato firmato dal gip del Tribunale di Fermo.
Sono stati mesi di indagini. Ma i carabinieri non hanno voluto rivelare come è partita l’inchiesta. Certo qualcuno che ha visto o accertato le violenze e che scandalizzato si è rivolto subito alle forze dell’ordine. I militari hanno posizionato telecamere e cimici. Ed è soprattutto anche dalle intercettazioni audio che si è palesato l’orrore: i ragazzi erano terrorizzati all’idea di venire rinchiusi nella stanza azzurra, un locale di sette metri quadrati chiamato così per il colore alle pareti. L’inchiesta, coordinata dal pm Domenico Seccia e dal tenente Mario Loiacono ha potuto accertare le aggressioni e la violenza psicologica subita dai ragazzi autistici ospiti del centro. Venivano denudati, costretti a urinarsi addosso, venivano presi a schiaffi e spintonati.
Il tutto - spiegano gli investigatori - per punire e reprimere l’ipotetica vivacità purtroppo tipica di chi soffre di questa sindrome ma che in questo caso nemmeno le telecamere dei carabinieri hanno registrato. «Tra questi disabili - ha spiegato il pm - c’era una totale assenza di comportamenti violenti o di azioni che giustificassero l’uso di mezzi di contenimento, come avveniva abitualmente, anche per svariate ore». Senza contare che i mezzi di contenzione previsti nei manicomi come da regolamento del 1909 sono stati aboliti con la riforma psichiatrica del 1978. Nessuna legge, oggi, autorizza l’uso di tali procedure nei confronti dei disabili psichici.
Il sindaco di Grottammare, Enrico Piergallini, ha accolto con sconcerto la notizia dei ragazzini autistici maltrattati: «Siamo sconvolti». Le indagini proseguono. I carabinieri vogliono accertare tutti gli altri episodi di violenza che si sarebbero verificati all’interno del centro prima delle telecamere nascoste.

La Stampa TuttoScienze 16.7.14
Meglio una scossa elettrica che soli con i propri pensieri
di Gabriele Beccaria


Meglio una scossa elettrica (moderata) che la tortura di restare da soli, in balìa dei propri pensieri. È questa la sconcertante scoperta di uno studio made in Usa su un gruppo di studenti.
Quando il professor Timothy Wilson della University of Virginia ha dato il via alla sua ricerca era curioso di esplorare gli incerti confini tra noia e creatività e per questo ha chiesto a numerosi giovani volontari di sottoporsi a due test, della durata tra sei e 15 minuti. Ai partecipanti, ospitati in confortevoli stanze, ma privati di smartphone e tablet, è stato chiesto di lasciare libera la mente e di pensare a ciò che volevano. In alternativa potevano pianificare mentalmente un compito specifico, come uscire a pranzo o fare il proprio sport preferito. Sembrava tutto facile e piacevole, di sicuro rilassante, e invece, quando è stato chiesto di compilare un questionario sulla gradevolezza dell’esperienza appena vissuta, il 50% dei ragazzi e delle ragazze ha confessato di aver provato un’insopportabile fastidio.
A questo punto è scattato il test successivo. Di fronte all’alternativa di starsene seduti a pensare o di distrarsi con un pulsante che infliggeva una piccola scarica elettrica, rendendo così più vario il tempo trascorso in laboratorio, il 67% dei maschi e il 25% delle femmine ha scelto la seconda opzione. Per quanto un po’ dolorosa, è stata giudicata più «entertaining» dell’immobilità, in attesa che si consumasse l’interminabile quarto d’ora dell’esperimento.
«Eravamo convinti che non fosse difficile distrarsi. Il nostro è un grande cervello, pieno di ricordi e ognuno di noi ha la capacità di costruire fantasie ed elaborare storie. Credevamo che il thinking time - il tempo del pensiero - sarebbe piaciuto». Sbagliato. A prevalere è stato il fastidio, spesso ingestibile, prossimo a un peso angoscioso. « È evidente che pensare a comando - è stata la prudente conclusione del professore - sia sgradevole tanto quanto piacevole può essere fantasticare in libertà». Ma siamo sicuri che sia davvero così semplice?

La Stampa TuttoScienze 16.7.14
Contro i pensieri negativi e ribelli c’è la “mindfulness”
di Nadia Ferrigo


Una dolce domenica di inizio giugno, una passeggiata al parco baciato dal primo sole. L’aria è fresca, nessun impegno in programma, se non una cena tra amici. E a un tratto ti viene in mente: «Che cosa posso portare per cena?». Pensando a che scegliere, non puoi fare a meno di ricordare che in casa non c’è nulla di pronto, e avresti dovuto preoccupartene prima. Ma il tempo non c’è, come sempre il lavoro occupa gran parte della tua giornata. E l’aumento promesso tarda ancora ad arrivare... Ecco che il sole, il parco e la tranquillità svaniscono, soffocati dalle solite preoccupazioni: il nostro cervello inserisce una sorta di pilota automatico, che lo porta a rincorrere senza tregua gli stessi pensieri.
Così la mattina, mentre ci prepariamo a uscire, già pensiamo ai problemi che incontreremo al lavoro e, quando siamo in ufficio, non possiamo fare a meno di riflettere su quello che abbiamo lasciato a casa, in un vortice di ansia e stress che non può che abbassare drasticamente la nostra qualità della vita.
In altre parole, viviamo sempre sospesi tra il futuro e il passato, mentre dovremmo imparare a radicarci nel presente, nel «qui e ora», anche se il nostro cervello è molto più propenso a perdersi in un chiacchiericcio mentale che a cogliere l’attimo. Che si può fare?
La «mindfulness» - la meditazione consapevole - non è psicoterapia e nemmeno una tecnica di rilassamento. Anzi. Stimola la concentrazione. Affonda le radici nella meditazione orientale e la sua diffusione nel mondo occidentale si deve a Jon Kanat-Zinn, medico americano che studiò biologia molecolare al Massachusetts Institute of Technology di Boston con il Premio Nobel Salvatore Luria. Kanat-Zinn cominciò a utilizzarla come trattamento contro il dolore cronico, lo stress e la depressione, poi a partire dal 2005 l’Nih - sigla che sta per «National Institutes of Health», il principale finanziatore della scienza negli Stati Uniti - ha deciso di destinare una linea di ricerca proprio a questa disciplina.
«L’obiettivo degli incontri, che possono essere sia individuali sia di gruppo, è acquisire consapevolezza del presente, senza farsi ammorbare dal passato né angosciare dal futuro - spiega Viviana Fabiani, istruttore di mindfulness a Milano -. Con esercizi di meditazione, pensati a seconda dei pazienti e delle loro problematiche, si impara a concentrarsi sul presente e su se stessi, focalizzando l’attenzione su respiro, profumi, rumori ed emozioni, così da imparare a gestirle al meglio. Se, per esempio, proviamo rabbia, tendiamo a identificarci con quello stato mentale, senza riuscire più a giudicare la realtà con oggettività».
La mindfulness vende ormai milioni di libri e applicazioni, compare sulla copertina delle più importanti riviste internazionali e viene seguita da persone di tutti i tipi: manager, medici, sportivi, professionisti e chiunque si trovi ad avere a che fare con situazioni stressanti. «Questa disciplina può essere d’aiuto anche a chi si trova a gestire situazioni molto difficili, come una malattia degenerativa. Prima di formare un gruppo di lavoro, però, viene escluso chi soffre di psicopatologie importanti, come per esempio la schizofrenia, o chi segue una cura con psicofarmaci, tutti soggetti che di regola vengono dirottati da altri specialisti - continua Fabiani -. La maggior parte di chi si rivolge a noi ha problemi di ansia o di stress dovuti al lavoro oppure a un evento molto negativo».
Così, se negli Usa i lavoratori di Google sono stati i primi a sperimentarne i benefici, in Italia un esempio all’avanguardia è Telecom, che negli anni scorsi ha organizzato incontri mirati nel suo servizio «People Caring» per la salute e l’ascolto del disagio dei dipendenti. «Il nostro compito è aiutare a vedere la realtà con oggettività e non da un punto di vista esclusivo e soggettivo. La realtà non si può cambiare a nostro piacere, però la possiamo guardare con la mente aperta e con un approccio creativo, così da trovare in noi le risorse per modificare quello che non va - conclude Fabiani -. La nostra mente è portata a essere abitudinaria, a replicare sempre gli stessi schemi, ma questo non è un bene: tutto intorno a noi è in continuo cambiamento e per vivere bene dobbiamo imparare a recuperare pazienza e fiducia, lasciando andare tutto ciò che è superfluo. E dobbiamo avere la forza di accettare quello che accade e che non possiamo impedire in alcun modo».

Il Sole 16.7.14
Nella mente del leader: i segreti nel cervello di chi è al comando
di Chiara Di Cristofaro

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Repubblica 16.7.14
Al via la riforma: venti strutture tra cui gli Uffizi saranno affidate a direttori esterni, anche stranieri. Ma gli storici dell’arte si ribellano
Rivoluzione ai Beni culturali via i soprintendenti dai grandi musei
di Francesco Erbani


MUSEI affidati a direttori esterni all’amministrazione. Soprintendenze storico-artistiche che spariscono, accorpate a quelle architettoniche. Cambia pelle il ministero per i Beni culturali. E forse anche qualcosa dello scheletro che ha retto per molti decenni la tutela del patrimonio storico, artistico, architettonico, archeologico e di paesaggio in Italia. Quanto gli effetti saranno benefici su un organismo assai debilitato a causa dei tagli di bilancio e dell’assenza di turn over , lo dirà il tempo. Ma intanto la rivoluzione che verrà annunciata oggi da Dario Franceschini non è indolore. Nella bozza di riforma, pressoché definitiva, si conferma l’intenzione del ministro di unificare le soprintendenze storico-artistiche con quelle architettoniche, creando delle strutture miste (salve, invece, saranno le soprintendenze archeologiche).
Contro questo provvedimento si sono pronunciati, qualche settimana fa, quasi tutti i soprintendenti storico-artistici i quali hanno scritto una lettera-appello al ministro. In questo stesso documento viene presa di mira l’altra norma anticipata da Franceschini e ora introdotta: l’attribuzione di una marcatissima autonomia a una ventina di musei statali. Si fanno alcune ipotesi in attesa della conferma, oggi, del ministro: gli Uffizi, la Galleria dell’Accademia a Firenze, la Galleria Borghese, il Cenacolo Vinciano... Ma potrebbero essere inclusi anche siti o musei archeologici. Alla guida di questi luoghi d’arte potranno andare, con un bando, dirigenti dell’amministrazione pubblica, ma anche personale esterno. E forse, auspica il ministro, personalità internazionali. Fino a che punto questi siti resteranno agganciati al sistema delle soprintendenze? Nella bozza si assicura che il legame sopravviverà. Ma il timore che si vada verso uno sganciamento è diffuso.
La sensazione dei soprintendenti storico-artistici - condivisa anche negli ambienti dell’archeologia - è che si voglia spingere molto sulle politiche di valorizzazione, più che su quelle di tutela, alle quali loro hanno sempre ispirato il proprio lavoro, fatto, appunto, di salvaguardia del patrimonio e insieme di gestione museale. Una delle caratteristiche distintive del nostro rispetto agli altri paesi, si sottolineava nella lettera-appello a Franceschini, è il rapporto fra musei e territorio: un fondamentale nesso, storico e operativo, fatto di studio e di ricerca, «che ha da sempre collegato i musei italiani alle soprintendenze storico-artistiche di territorio: collezioni dinastiche, patrimonio artistico ecclesiastico, beni monumentali e cultura materiale nel nostro Paese rappresentano l’eredità imponente di una complessa e quanto mai variegata storia della produzione artistica come grande vicenda sociale». Ma proprio prendendo il posto della Direzione generale per la valorizzazione nascerà una Direzione generale per i musei, che detterà «le linee guida per le tariffe, gli ingressi e i servizi».
Di riforma del ministero si parla da alcuni anni. E nel corso del tempo non si contano le modifiche, anche solo parziali, che hanno messo in subbuglio l’amministrazione, spesso smentendo quelle precedenti. Il ministro Massimo Bray aveva istituito una commissione, che aveva prodotto una lunga relazione. Diverso è lo schema alla base della riforma di Franceschini. Il punto di partenza è il taglio dei posti dirigenziali dettato dalla spending review : dovrebbero saltare 6 poltrone di dirigenti di prima fascia (direttori generali), 31 di seconda (soprintendenti). Altra questione rilevante, secondo il ministro: una più stretta integrazione fra cultura e turismo. Viene rafforzato il ruolo del segretario generale. Una direzione per arte e architettura contemporanea si occuperà anche di periferie. Spuntano poli museali regionali per favorire i rapporti fra siti pubblici e privati.
Le direzioni regionali verranno però declassate, perché saranno rette da dirigenti non più di prima, ma di seconda fascia. Cambierà qualcosa in queste strutture il cui ruolo è stato spesso contestato? Dove verranno ricollocati gli attuali direttori regionali? I nuovi direttori regionali saranno comunque presenti nelle commissioni che dovranno riesaminare i provvedimenti presi da un soprintendente. Alle commissioni, istituite dalla legge appena approvata dalla Camera (l’Art bonus), si potranno rivolgere le amministrazioni pubbliche che si sono viste negate un’autorizzazione. Secondo alcuni, fra i quali il ministro, è un rafforzamento della tutela. Secondo altri, un limite alla salva- guardia di un paesaggio o di un’area archeologica.
Contro gli accorpamenti delle soprintendenze si sono espressi quasi tutti i soprintendenti storico- artistici. Fra gli altri: Maria Vittoria Marini Clarelli della Galleria d’arte moderna di Roma, Maura Picciau dell’Istituto centrale per la Demoetnoantropologia, Lucia Arbace (Abruzzo), Luca Caburlotto (Friuli Venezia Giulia), Marta Ragozzino (Basilicata), Cristina Acidini, Fabrizio Vona, Giovanna Damiani, Daniela Porro (soprintendenti dei poli museali di Firenze, Napoli, Venezia e Roma), Marica Mercalli (province di Venezia, Treviso, Belluno e Padova), Stefano Casciu (Modena e Reggio Emilia). Il loro timore è che alla guida delle future soprintendenze miste, come già accade nelle sette esistenti, ci vada un architetto. Il quale, d’altronde, è l’unico a possedere una qualifica professionale in grado di reggere un organismo che si occupa anche del paesaggio. Che ne sarà quindi della specificità storico-artistica, così presente nella lunga vicenda della tutela in Italia? I soprintendenti chiedevano che venisse salvata almeno una struttura storico-artistica in ogni regione. Ma il ministro non ha accolto la richiesta.
Alla protesta dei soprintendenti si è aggiunta quella della sezione italiana del Comité International d’Histoire de l’Art, che chiede venga rafforzato e non marginalizzato il ruolo delle soprintendenze storico-artistiche e di una disciplina «imprescindibile garanzia di una corretta tutela del patrimonio italiano ». Un appello analogo è stato sottoscritto dalla Cunsta, la consulta degli storici dell’arte universitari. Franceschini ha i documenti sulla sua scrivania. E oggi annuncerà se tirerà dritto o se terrà conto delle obiezioni avanzate alla riforma.

Repubblica 16.7.14
anti, posseduti, cori greci nella terra dove la tela di Aracne non si è spezzata
Medea salvata dal Dioniso dei cristiani
di Marino Niola


IL SALENTO è terra di incantesimi. Stretta tra il morso della tarantola e il rimorso di Medea. Dèi e demoni si fronteggiano da sempre in questa penisola sospesa tra due mari. Proprio come Ottavia, la città-ragnatela di Calvino, è sospesa tra due abissi. Le sue strade si congiungono, si separano e si attraversano senza mai spezzare quella linea nera che striscia in tutte le direzioni, come un’inesauribile bava di ragno. Ciascun paese è collegato a tutti gli altri in una tela infinita che si estende tra l’Adriatico e lo Ionio. Sopra arenili incastonati in trasparenze cristalline si levano cattedrali di roccia rose dalla salsedine e rovine calcinate dal sole.
Torri costiere che il tempo ha tagliato letteralmente in quattro spicchi, come cocomeri di tufo ingiallito. Questi fossili di una storia in stato di ossidazione sono l’ultimo rifugio di dèi in esilio. Acquattati nei simulacri androgini di vescovi rococò. O nascosti negli occhi senza fondo di Addolorate nerovestite come Demetra in lutto. Mimetizzati nel candore abbagliante di chiese seicentesche su cui piroettano statue di santi ballerini. Sopra tutti sta San Paolo. Il signore delle tarantole, l’apostolo ambiguo di questa regione di estri smarriti e di tormenti ritmici. Lu santu governa da sempre i tremori e i furori dei tarantolati. E li guarisce facendoli ballare, come baccanti invasati da un Dioniso cristiano. Scatenati dalle spirali sinuose del violino e dal battito ostinato del tamburello che intonano l’antidoto ritmico al male oscuro di una terra in trance. Contro il quale non c’era altra cura se non la pizzica, un ballo sfrenato, circolare che durava giorni e giorni, finché San Paolo non concedeva la grazia della guarigione. Fino al nuovo morso, che arrivava puntuale a un anno dal primo. Come un’irresistibile recidiva coreutica. Una invitation à la danse cui non si poteva che obbedire.
Morso e rimorso. Era questo l’inesorabile algoritmo del tarantismo. Che all’inizio degli anni Sessanta il grande antropologo Ernesto De Martino raccontò in La terra del rimorso , un libro destinato a iconizzare il Salento, facendone il simbolo di una faglia meridiana che divideva la nazione in due. Per l’Italia del miracolo economico fu uno shock culturale. In quegli anni il Belpaese, in piena euforia da benessere, scoprì scandalizzato l’esistenza delle spose di San Paolo - così venivano soprannominate le donne morse dal ragno - che, vestite di bianco, roteavano freneticamente come dervisci sull’asse smarrito della loro vita. O saltavano come menadi sulle note ossessive di una tarantella suonata da musicisti sciamani. O si arrampicavano sull’altare della cappella di San Paolo a Galatina con l’agilità spiritata di ragni equilibristi.
Oggi, per fortuna, in pellegrinaggio nella barocchissima Galatina non ci vanno più i tarantati ma i turisti in cerca di buone vibrazioni. Perché l’ombra dell’Aracne mediterranea non ha mai abbandonato questi luoghi. Resta tra le spighe del grano e le foglie del tabacco come una cifra nascosta, che si rivela nei bagliori visionari della campagna abbacinata dal sole. E risorge nel riverbero bizantino del tramonto, quando il cielo diventa un’iperbole scarlatta sospesa sopra un orizzonte di assoluti. O risuona nelle notti di tempesta a Punta Ristola, all’estremità del sacro finisterre di Leuca, dove i pescatori dicono di sentire il pianto dei figli di Medea - Mermero e Fere - fatti a pezzi e gettati in quel tratto di mare dalla crudelissima madre. I due innocenti si trasformarono in pietre. Gli scogli dannati. Li chiamano così le donne, che ti raccontano ancora questa terribile storia in grico, il melodioso dialetto greco che si parla da queste parti. E quando le loro voci acute e concitate si accavallano sembrano lamentatrici uscite da un coro tragico.
Proprio a due passi da questo tacco d’Italia, nella chiesa di Santa Maria del Vereto a Patù, si trova ancora un affresco sbiadito che rappresenta Santu Paulu de le tarante con in mano una spada intorno alla quale sono attorcigliati due serpenti. Mentre ai suoi piedi sta uno scorpione sormontato da due serpi intrecciati a forma di caduceo. Quello che gli antichi identificavano con il magico scettro di Hermes. Ma anche con il taumaturgico colubro di Esculapio, il dio medico. Quel bastone miracoloso è come un testimone che passa dalle mani degli antichi numi della medicina a quelle dell’Apostolo delle Genti che ne ereditò i poteri. E a Giurdignano, a due passi dallo scenario mediorientale di Otranto, c’è una minuscola cripta bizantina scavata sotto un menhir. Molti ci vanno nottetempo ad accendere lumini davanti a un affresco che raffigura San Paolo sullo sfondo di una ragnatela. È la fotografia di una storia andata in polvere, che lascia il posto a una sorta di archeologia vivente, o piuttosto sopravvivente.
In realtà il sottile filo del ragno non si è mai spezzato e anche oggi la taranta continua a tessere la sua tela. La differenza è che ora quello che fu il simbolo di un Mezzogiorno dell’anima, stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione, è diventato un attrattore turistico. Ispirando negli anni Novanta la politica di giovani amministratori locali che invece di vergognarsi di quell’eredità e di seppellire il ricordo della tarantola hanno rovesciato il senso di quel passato trasformandolo in una chance di futuro. Un esempio per tutti. La Notte della Taranta, che ha fatto del ragno un simbolo positivo. Il logo antico di una nuova economia sostenibile. E la pizzica, che fu l’emblema del ritardo storico del Sud, è diventata il motore di un distretto culturale e produttivo capace di coniugare tradizione e innovazione, identità locale e marketing territoriale. Ecologia e benessere. La taranta insomma pizzica ancora. Ma adesso il suo morso fa fare salti di gioia. E finalmente in Salento si balla senza rimorso.

Il fondatore di Comunione e Liberazione
Corriere 16.7.14
Don Giussani: Cristo è «comunità» ma le scelte politiche sono personali
Rileggere oggi le sue parole per sorprendersi della loro ricchezza
di Juliàn Carròn

teologo da 25 anni alla guida di Comunione e Liberazione

Riandare alla storia è sempre utile per chi non voglia rimanere in balia delle circostanze, prigioniero di un presente senza radici. Per chi partecipa dell’esperienza cristiana, poi, è ancora più decisivo, e non per una sterile rievocazione, ma per prendere costantemente coscienza dei fattori originali dell’avvenimento cristiano che devono diventare nostri.
Benedetto XVI ci ricorda che nell’ambito dell’esperienza umana non è possibile «un progresso addizionabile […] per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri — in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Spe salvi , 24).
La fedeltà all’inizio è decisiva se non si vuole smarrire la strada. Infatti, come scrive papa Francesco, «quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale , quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi […], in tutte le sue tappe e i suoi momenti» (Evangelii Gaudium , 164).
Mentre vivevamo i momenti della storia di Cl, avevamo una certa capacità di coglierne i fattori decisivi, legata alla autocoscienza che avevamo venti, trenta o quarant’anni fa. Per questo ritornare oggi a quella storia vedendo come l’ha vissuta e giudicata don Giussani — mettendosi dal suo punto di vista —, può farci capire cose che non avevamo colto o che nel tempo avevamo lasciato per strada.
Il libro di conversazioni di Ronza con don Giussani, Il movimento di Comunione e liberazione (1954-1986) , che ripercorre la storia di Cl dal suo inizio nel 1954 fino al 1986, e che viene ora ripubblicato, ci consente di riandare alla storia del movimento (prima Gioventù studentesca e poi Comunione e liberazione) mettendoci dal punto di vista di don Giussani, per vedere come affrontava le urgenze della vita e chi era Cristo per lui; potremo anche vedere come ci correggeva quando ci spostavamo dalla strada segnata, quella della vita cristiana autentica che lui aveva incontrato nell’alveo della Chiesa ambrosiana.
«Per me la storia è tutto; io ho imparato dalla storia», diceva don Giussani. Anche noi dovremmo avere sempre la sua semplicità e la lealtà di metterci in ascolto per potere imparare — o imparare di nuovo — dalla storia. Sarebbe un esercizio di purificazione della memoria che è fondamentale per continuare a camminare.
Quante volte in questi anni, rileggendo alcuni testi di don Giussani alla luce delle sfide e delle domande che urgevano nella nostra vita, le sue parole (anche quando le conoscevamo bene) hanno acquistato una luce diversa, davanti ai nostri occhi si sono dimostrate più pertinenti di quando le avevamo lette la prima volta. Ci sono momenti in cui vediamo che don Giussani parla di più alla nostra vita oggi, addirittura di più di quando quelle stesse parole le ascoltavamo dalla sua viva voce.
Per quanto mi riguarda, ricordo la sorpresa nel rileggere alcune pagine di questo libro all’inizio del 2013, in un momento in cui Cl era al centro dell’attenzione dei media per il suo rapporto con la politica. Rispondendo a Ronza che lo interrogava proprio sulla natura della presenza del movimento nella società, alla fine del 1975 don Giussani diceva: «Il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la sua stessa esistenza, in quanto questa implica uno spazio e delle possibilità espressive, e perciò presuppone una gestione autenticamente democratica del potere pubblico e della realtà politica e statuale in cui si situa. L’esistenza della comunità cristiana, per propria natura, non chiede la libertà di vita e di espressione come solitario privilegio, ma piuttosto di riconoscimento a tutti del diritto di tale libertà. Quindi, per il solo fatto di esistere, se sono autentiche, le comunità cristiane sono appunto garanti e promotrici di democrazia sostanziale». Continuava don Giussani: «Una comunità cristiana autentica vive in costante rapporto con il resto degli uomini, di cui condivide totalmente i bisogni, e insieme coi quali sente i problemi. Per la profonda esperienza fraterna che in essa si sviluppa, la comunità cristiana non può non tendere ad avere una sua idea e un suo metodo d’affronto dei problemi comuni, sia pratici che teorici, da offrire come sua specifica collaborazione a tutto il resto della società in cui è situata». Infine, «quando dalla fase della sollecitazione e dell’animazione politico-culturale si giunge a quella della militanza politica vera e propria, non è più la comunità in quanto tale a impegnarsi, ma sono le singole persone che a responsabilità propria, anche se formate dalla vita concreta della comunità medesima, si impegnano alla ricerca di strumenti ulteriori di incidenza politica sia teorici che pratici. […] C’è fra noi tutti in quanto Cl, e i nostri amici impegnati nel Movimento popolare e nella Dc, un’irrevocabile distanza critica . […] E a questa distanza critica noi non rinunceremo mai. […] Del resto, se non fosse così, se cioè qualsiasi realizzazione per il solo fatto di essere stata promossa da persone di Cl — sia pur note e rappresentative — diventasse meccanicamente “del movimento”, l’esperienza ecclesiale finirebbe per essere strumentalizzata, e le comunità si trasformerebbero in piedistalli e in coperture di decisioni e di rischi che invece non possono che essere personali».
Come abbiamo visto leggendo la Vita di don Giussani (di Alberto Savorana, Rizzoli, 2013), tanti che credevano di conoscerlo si sorprendono nello scoprire che è di più di quello che pensavano. Noi per primi. Perché? Perché da una vita non si finisce mai di imparare, perché una vita non si può ridurre a «discorso» o «schema», è come un’acqua che non si riesce a contenere.
Proviamo a riascoltare oggi, a sessant’anni esatti di distanza, quale giudizio mosse don Giussani nel suo tentativo tra i giovani e quale fosse per lui il contenuto essenziale da comunicare: «Il fatto che più mi colpiva era che quasi tutti erano battezzati, molti di loro andavano in chiesa ogni domenica, ma nella loro giornata era come se il cristianesimo non avesse alcuno spazio, come se appartenesse a un altro livello dell’esistenza. Un livello che non aveva nulla a che vedere con la vita e tutte le sue urgenze più significative; con la concezione e il sentimento del reale; con la necessità di giudicare, di rendersi ragione di tutto quello che arricchisce e fa diventare l’uomo più umano, e che gli permette di costruire la sua personalità come centro di rapporti. Con tutte queste realtà la fede non c’entrava; quindi in pratica non c’entrava con nulla che fosse di qualche effettivo rilievo nella vita della persona. Come mai — mi domandavo — la fede non è presente in un ambito, come quello giovanile studentesco, nel quale la sensibilità ai valori dovrebbe essere più immediata e chiara? Probabilmente — mi rispondevo — ciò si doveva al fatto che mancava la consapevolezza e il coraggio di annunciare la proposta cristiana ed ecclesiale nella sua specifica sostanza, […] l’essenza del fatto cristiano non costituiva proposta di vita. Dal momento che la maggior parte delle persone (comprese quelle che andavano ancora in chiesa) era ormai psicologicamente e culturalmente lontana dal cristianesimo, ritenevo che si dovesse sfrondare l’annuncio da tutto ciò che poteva avere di contingente e di secondario per farlo emergere invece nella sua essenzialità. Miriamo innanzitutto — dicevo — a ciò che Cristo ci ha portato, e non a quello che altri hanno sovraggiunto; probabilmente il nostro richiamo sarà anche più efficace». E qual è, allora, l’essenza del fatto cristiano? Don Giussani ce lo testimonia fin dall’inizio: «È l’annuncio di Cristo: questo è il centro di tutta la vita dell’uomo e della storia. E questo si vive mettendosi insieme, vivendo una vita di comunità perché Cristo nella storia prosegue dentro il segno della grande comunità che è la Chiesa». Questa consapevolezza gli ha consentito di dare vita a un tentativo che dura tuttora: «Abbiamo cominciato così: parlando di Cristo» e «cercando di affrontare tutti i problemi a partire da un punto di vista cristiano, da quello che ci sembrava essere il punto di vista della parola di Cristo autenticata dalla tradizione e dal magistero ecclesiastico; mettendoci insieme in vista di tale progetto. Dunque niente di élitario né di intellettualistico, ma piuttosto una preoccupazione innanzitutto esistenziale».
Altrettanto prezioso sarà rileggere le pagine nelle quali don Giussani descrive il metodo che da subito cercò di comunicare ai primi studenti che si coinvolsero con lui in un’amicizia che andava al di là delle ore di lezione nel liceo Berchet di Milano. È lo stesso metodo che cerchiamo di seguire anche oggi — ben coscienti dei nostri limiti e della necessaria correzione —, «spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via» (Cori da «La Rocca », di T.S. Eliot, Bur, 2010). Da sessant’anni mai seguendo un’altra via.
E qual è per don Giussani la condizione per rimanere su questa via, quale il metodo della sua proposta educativa? «I ragazzi di Gs erano sollecitati a puntare sull’esperienza come sul luogo dove può essere adeguatamente verificata la validità dei criteri che la persona si vede proporre da chi incontra e dall’ambiente che la circonda. Il luogo di tale verifica — noi affermiamo — non è infatti la dialettica quanto l’esperienza. Mi sembra che questo modo di procedere si possa ultimamente ricollegare alla definizione di verità che è propria di san Tommaso d’Aquino: la verità come adaequatio rei et intellectus , ossia come corrispondenza di quanto viene proposto (sia esso un evento o un’affermazione) con la propria vita, con la coscienza di sé in quanto implica esigenze ed evidenze originarie. Da ciò deriva la priorità del fatto , di cui l’uomo è costituito, rispetto a ogni possibile a priori teorico elaborato dal pensiero umano». Per lui, «il vero a priori , da cui partire per valutare se stessi e il mondo cristiano circostante, è il fatto della propria natura percepita in actu exercito (come esistente in azione)». Per questo don Giussani ricorda a Ronza che «in quegli anni dicevamo sempre che la proposta cristiana non bara perché si affida tutta quanta a un giudizio che nasce dal confronto fra essa e le evidenze originarie, nonché le strutture di bisogno in tutti i sensi che sono nell’uomo. Ma è anche vero che la proposta cristiana esige che pure l’interlocutore non bari. Questi deve prenderla sul serio, paragonandola con tutta la propria vita e le proprie esigenze naturali. Una delle formule che usavo molto allora era questa: “Se, diventando adulti, non volete alienarvi e diventare schiavi di coloro che hanno il potere, dovete abituarvi subito a paragonare alla vostra esperienza ogni cosa che io vi dirò, ma anche ogni cosa che altri vi diranno”. E spiegavo poi che per esperienza elementare intendevo la consapevolezza di quell’insieme di esigenze e di evidenze originarie di cui sono costituiti l’animo e il cuore dell’uomo».
Siamo rimessi davanti a un uomo che non si è sottratto al rapporto con la realtà, anche quando essa assumeva un volto problematico e drammatico, sostenuto da un’unica certezza: «L’inizio è una presenza che s’impone. L’inizio è la provocazione di una promessa alla nostra vita da seguire, è partecipare a una esperienza viva che si vede davanti a sé» (Un’esperienza viva che si vede , Tracce-Litterae communionis, di Luigi Giussani, gennaio 2004). Chi sarà disponibile a seguirlo, chi cioè vorrà rifare un tratto di strada con don Giussani attraverso le pagine de Il movimento di Comunione e liberazione (1954-1986) , con il desiderio di rivivere l’esperienza che lui ha vissuto, vedrà una volta di più che quello di don Giussani è un cammino storico lungo il quale ha dovuto affrontare le nostre stesse sfide e urgenze, sempre con gli occhi puntati sull’essenziale, fino a scoprire la portata della fede nella sua vita: «Solo Cristo si prende tutto a cuore della mia umanità. È lo stupore di Dionigi l’Areopagita (V secolo): “Chi ci potrà mai parlare dell’amore all’uomo proprio di Cristo, traboccante di pace?”. Mi ripeto queste parole da più di cinquant’anni!» (Roma, 30 maggio 1998). È questa certezza che gli fa rispondere a Ronza — che domanda: «Don Giussani, la stampa l’ha definita in molti modi; e lei chi crede di essere?» — con queste semplici parole: «Sono un gran poveraccio. Capisco che Dio mi ha fatto tanti favori nella vita: mi ha fatto vedere, sentire e incontrare una vivezza di fede, e di vita di Chiesa, che è veramente grande; e alla luce di tutto questo, mi avvedo di esser stato incoerente e ingeneroso. Ma non riesco a non essere entusiasta di ciò che Dio m’ha fatto pensare, sentire e incontrare».

il manifesto 15.7.14
Quelle notizie su Cl che nessun giornale vuole pubblicare
Verso il meeting di Rimini. Crema, Padova e Venezia: tre storie seminascoste dai grandi media che fanno tremare la Compagnia delle opere
di Ernesto Milanesi


A poco più di un mese dall’inaugurazione del Mee­ting di Rimini 2014, la fra­ter­nità reli­giosa di Comu­nione e libe­ra­zione con la Com­pa­gnia delle Opere e la Fon­da­zione per la sus­si­dia­rietà sono impe­gnate nel mar­ke­ting dell’evento che non deve essere oscu­rato nem­meno dal for­fait del pre­mier Mat­teo Renzi.
Grandi quo­ti­diani, tele­vi­sioni pub­bli­che e non, comu­ni­ca­zione isti­tu­zio­nale sem­brano ade­guarsi pre­ven­ti­va­mente. Almeno tre rile­vanti noti­zie non hanno tro­vato eco nei media, anche se man­ten­gono l’interesse di social net­work e web…
La prima riguarda il reve­rendo mon­si­gnor Mauro Inzoli per cui il 9 dicem­bre 2012 il vescovo di Crema aveva dispo­sto «la dimis­sione dallo stato cle­ri­cale», con­fer­mata il 12 giu­gno scorso dal prov­ve­di­mento ema­nato dalla Con­gre­ga­zione per la dot­trina della fede. Com­por­ta­menti scan­da­losi, pedo­fi­lia, abuso su minori: lo si legge chiaro e tondo nel comu­ni­cato uffi­ciale della Dio­cesi. E – finora — sol­tanto nelle cro­na­che della Pro­vin­cia di Cre­mona e nella pun­tuale, docu­men­tata e costante «cam­pa­gna di con­tro­in­for­ma­zione» di Wu Ming Foun­da­tion. Si tratta dell’ex vice­pre­si­dente della CdO, fon­da­tore del Banco Ali­men­tare, ex ret­tore dell’Istituto Santa Doro­tea di Napoli, ma soprat­tutto fin dal 1984 pre­si­dente dell’associazione ciel­lina che a Crema rice­veva in affi­da­mento minori in dif­fi­coltà. Noti­zia, di fatto, cen­su­rata a livello nazio­nale da sem­pre. Un caso cla­mo­roso «rego­lato» solo dal Vati­cano. Ma Franco Bordo (depu­tato Sel) non si accon­tenta e ha fir­mato un sin­to­ma­tico espo­sto alla locale Pro­cura della Repubblica…
La seconda noti­zia è la sen­tenza del Tri­bu­nale civile di Padova. Ha con­dan­nato Gra­ziano Debel­lini, lea­der cari­sma­tico di Cl a Nord Est, a risar­cire con 25.405 euro Luigi De Magi­stris, attuale sin­daco di Napoli. Un duello per­so­nale che risale al 2008 quando i ver­tici ciel­lini fini­scono nell’occhio del ciclone per l’inchiesta della Guar­dia di finanza e della magi­stra­tura sull’utilizzo dei fondi euro­pei. Era la «Why Not veneta» che ha rimesso in discus­sione l’anima can­dida dei seguaci di don Gius­sani. In primo grado, con rito abbre­viato, quat­tro con­danne per truffa aggra­vata e con­ti­nuata: spicca il nome di Alberto Raf­faelli, che fra il fal­li­mento di K Com­mu­ni­ca­tion Srl e la let­te­ra­tura locale si è anche pre­oc­cu­pato dell’immagine del sin­daco leghi­sta Fla­vio Tosi. Per l’imputato Debel­lini, invece, era scat­tata la pre­scri­zione. Ora la con­danna a causa delle dichia­ra­zioni rila­sciate nel 2010, al momento del rin­vio a giu­di­zio: «Que­sta è una deci­sione figlia della cul­tura alla De Magi­stris. L’atteggiamento dei pm è frutto di cat­ti­ve­ria, pre­giu­dizi e teo­rie ideo­lo­gi­che, appunto alla De Magi­stris. L’inchiesta su di noi è nata per­ché qual­cuno voleva imi­tare l’inchiesta Why Not. C’erano degli sce­riffi che ave­vano pen­sato che fosse la loro grande occa­sione di visibilità».
Infine, la dra­stica deci­sione del patriarca di Vene­zia Fran­ce­sco Mora­glia appena annun­ciata con un inter­vento nel set­ti­ma­nale dio­ce­sano Gente Veneta. «È pre­ciso con­vin­ci­mento del Patriarca — che è anche Gran Can­cel­liere della Fon­da­zione Stu­dium Gene­rale Mar­cia­num — che il con­te­sto attuale richieda segni di novità nell’intendere e vivere i rap­porti tra le isti­tu­zioni civili e quelle eccle­siali. In tal senso, si ritiene neces­sa­rio che vada ripen­sato e giunga ormai a ter­mine il rap­porto esi­stente tra la Fon­da­zione e il Con­sor­zio Vene­zia Nuova». Parole ine­qui­vo­ca­bili, rispetto anche alle «inter­lo­cu­zioni» fra i can­ni­bali del Mose e il ciel­lino Angelo Scola docu­men­tate nei fal­doni della Procura.
È l’inizio della fine per la Chiesa nella Chiesa? Non è arri­vato il momento giu­sto per rompere anche il muro di omertà media­tica sul Mee­ting di Rimini?

Corriere 16.7.14
I cinque talenti di Ada Gobetti
di Arturo Colombo


Ada Gobetti, nonostante sia (ancor oggi) «offuscata» dalla nomea di suo marito Piero Gobetti, continua a avere meritori riconoscimenti da parte di quanti conoscono il suo itinerario culturale, politico e civile. Ne offre adesso un’efficace conferma il volume di Emmanuela Banfo e Piera Egidi Bouchard, Ada Gobetti e i suoi cinque talenti , (ed. Claudiana, Torino, pagine 136, e 14,90), che ricostruisce oltre mezzo secolo della sua vita, trascorsa dal 1902 al 1968. C’è l’Ada «musicista» e poi, come «custode e trasmettitrice dell’eredità di Piero», l’Ada «dirigente politica» specie negli anni drammatici della Resistenza, quando fonda i «Gruppi di difesa della donna»; e ancora l’Ada «pedagogista» che nel ’55 entra nella redazione del periodico «La riforma della scuola» e nel ‘59 fonda «Il Giornale dei Genitori», che dirigerà fino al giorno della sua scomparsa, nel marzo del ’68. Senza dimenticare altri due suoi «talenti», ossia l’Ada «giornalista», che esordisce sedicenne sulla rivista gobettiana «Energie nove», e l’Ada «scrittrice», che nel ’56 dà alle stampe il Diario partigiano.
A proposito del notevole contributo dato da Ada durante il periodo resistenziale nella divisione partigiana «Stellina», in cui assumerà il ruolo di «commissaria politica», c’è un’altra sua lettera molto significativa: «Sono una donna. Una piccola donna — scrive —, che ha rivoluzionato la sua vita privata, quella tradizionalmente femminile, i cui emblemi erano l’ago e la scopa, per trasformarsi… in una bandita. Partigiani! Non sono sola. Ci sono con me mille e mille donne, ne sono certa, con la mia fede, il mio entusiasmo, il mio coraggio, la mia sete d’agire». Ricavo questa eloquente citazione da un libro, che va messo a fianco di quello su Ada Gobetti e i suoi cinque talenti; è dedicato a illustrare il tema «donne e questione femminile in Giustizia e Libertà e nel Partito d’azione». L’autrice è una studiosa svizzera, Noemi Crain Merz, e il suo saggio si intitola L’illusione della parità (ed. FrancoAngeli, pagine 171, e 23).

Corriere 16.7.14
Storia di una famiglia ebrea nella Germania Nazista
risponde Sergio Romano


Ho appena letto l’ottimo e inquietante libro di Lion Feuchtwanger, I fratelli Oppermann, scritto e pubblicato nel 1933, e ora finalmente ripresentato in italiano grazie alla casa editrice Skira, dopo l’unica pubblicazione del 1946 nella Medusa Mondadori. Il volume — che narra le vicissitudini di una famiglia ebrea a Berlino — fu immediatamente pubblicato in una decina di lingue. La mia domanda è semplice. Quel grido di dolore di Feuchtwanger volto ad allertare l’opinione pubblica occidentale sulla mostruosità di quanto andava realmente accadendo nella Germania delle camicie brune (ancora ben poca cosa in confronto a ciò che avvenne negli anni successivi!) come mai non fu raccolto dai governi democratici occidentali?
Per indolenza, per sottovalutazione, per paura di ritorsioni, per timore
del pericolo comunista...
perché?
Clelia Ginetti

Cara Signora,
Il libro fu straordinariamente profetico. In Germania non esistevano ancora le leggi razziali, annunciate a Norimberga nel 1935, ma le persecuzioni erano cominciate sin dalla vittoria dei nazisti nelle elezioni del 1933. Non ci sorprende oggi che Primo Levi, nel Sistema periodico , abbia scritto: «Avevamo letto I Fratelli Oppermann di Feuchtwanger, importato nascostamente dalla Francia, e un Libro Bianco inglese, arrivato dalla Palestina, in cui si descrivevano le “atrocità naziste”; ne avevamo creduto una metà, ma bastava». Eppure è certamente vero che il libro, benché tradotto e pubblicato rapidamente in molti Paesi, non provocò una diffusa indignazione e non ebbe alcuna influenza sulla politica dei governi. Credo che le ragioni siano almeno tre.
In primo luogo, gli ebrei erano vittime, soprattutto nel periodo fra le due guerre, di un doppio pregiudizio. A sinistra erano visti come i principali esponenti di un capitalismo finanziario avido e spregiudicato, arricchito a spese della classe operaia. A destra erano considerati pericolosi rivoluzionari, anima e mente di tutte le rivoluzioni scoppiate in Europa, da quella bolscevica del 1917 a quelle rapidamente abortite della Germania e dell’Ungheria nell’immediato dopoguerra. Non giovava alla loro immagine, nei ceti moderati e borghesi, il fatto che la percentuale degli ebrei nei comitati centrali del partito comunista sovietico e di quello ungherese fosse molto elevata. Le due generalizzazioni erano altrettanto ingiuste, ma ebbero, negli anni difficili fra le due guerre, una notevole importanza.
In secondo luogo, società e governi, dopo l’avvento di Hitler al potere, erano preoccupati soprattutto dalla ricerca di soluzioni politiche che evitassero un nuovo conflitto mondiale. Finché durò quella speranza, nessun governo era disposto a minacciare sanzioni contro il governo tedesco.
Il terzo fattore, cara Signora, fu l’incredulità. Era difficile immaginare che un Paese colto e civile, ricco di straordinari successi nel mondo dell’industria e delle scienze, potesse macchiarsi di una tale colpa. Erano increduli soprattutto i Fratelli Oppermann. Avevano creato un’azienda fiorente, erano rispettati e onorati, amavano la loro patria e ne avevano dato la prova combattendo con onore nelle file dell’esercito imperiale durante la Grande guerra. Gustav, l’intellettuale della famiglia, voleva scrivere una biografia di Gotthold Ephraim Lessing, l’amico protestante di Moses Mendelssohn, il maggiore rappresentante dell’illuminismo ebraico (Haskalah) alla fine del Settecento. Come altri ebrei tedeschi gli Oppermann sperarono a lungo che l’incubo si sarebbe dissolto, che la Germania non li avrebbe traditi.

Il Sole 16.7.14
Alcuni timori dei Lincei sull'Anvur
Come si valuta la ricerca umanistica


La classe di Scienze morali, storiche e filologiche della Accademia Nazionale dei Lincei con una Mozione approvata alla unanimità il 26 giugno scorso è ritornata sui «Criteri di valutazione della ricerca scientifica e delle università in Italia» a due anni dalla sua precedente mozione dell'aprile 2012 («Criteri di valutazione delle ricerca scientifica nelle "scienze morali" con riferimento all'attività dell'Anvur»).
Le due mozioni, presenti sul sito dei Lincei (www.lincei.it), esprimono in modo critico-costruttivo alcune preoccupazioni con particolare riferimento alle Scienze morali dette anche Scienze umanistiche. Si tratta del crescente centralismo (statale o locale) unito a un meccanicismo di valutazione della ricerca e delle università (nell'ambito delle cosiddette VQR, valutazione della qualità della ricerca, e ASN, abilitazione scientifica nazionale) in base ai soli criteri bibliometrici; delle continue riforme senza evidenti nessi di continuità; della svalutazione dei docenti e dei ricercatori italiani laddove gli stessi non rispondano a requisiti importati da altri sistemi accademici e applicati precipitosamente; della composizione di gruppi di valutatori con decisioni verticistiche e autoreferenziali senza tenere in debito conto le diverse correnti di pensiero; della svalutazione dell'attività didattica che, invece, continua a laureare qualificate professionalità. La classe di Scienze morali, storiche e filosofiche approva ogni misura equa e razionale, efficiente ed efficace per migliorare l'Università e la ricerca italiane nella quale vi sono aree di assenteismo molto gravi. Nel contempo ritiene che tutto ciò debba essere fatto in piena collaborazione con la Crui, il Cun e le associazioni scientifiche settoriali dalle quali sono invece state segnale gravi preoccupazioni (e per quanto si sappia in gran parte disattese) lungo le linee prima indicate.
In conclusione la classe SMSF dei Lincei richiama l'importanza di tenere conto nelle Scienze morali o Scienze umanistiche delle prospettive storiche che caratterizzano la cultura italiana nei suoi pluralismi che si riagganciano ad altri importanti pluralismi presenti nella cultura europea. La vicenda plurisecolare della Accademia nazionale di lincei, il cui prestigio è tuttora riconosciuto tra le grandi Accademie di altri Paesi, suggerisce di non svalutare mai le visioni di prospettiva culturale e interdisciplinare.

Lettera 43 3.8.13
Femminicidio, emergenza mondiale
La violenza sulle donne non ha confini. Né classi sociali. Nel Sud Est asiatico 37,7% di abusi. Caso di Brescia: un fermo.
di Giovanna Faggionato

qui segnalazione di Loredana Riccio

L’Huffington Post
Femminicidi, Istat: "Smettiamola di contare solo le donne uccise". Intervista a Linda Laura Sabbadini
di Laura Eduati

qui segnalazione di Loredana Riccio

All'ONU il Vaticano è presente come Stato, e non come associazione non governativa, come invece accate nel caso di altre religioni rappresentate
C'é una petizione per provare a cambiare questo stato di cose

qui si ringrazia Maria Letizia Riccio

Premio di laurea UAAR
L'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti assegna, già a partire dal 2007, premi di laurea a studenti meritevoli che si siano laureati con un elaborato finale di particolare pregio coerente con gli scopi sociali dell’UAAR.

Chi fosse interessato può leggere qui e qui
si ringrazia Maria Letizia Riccio