martedì 5 agosto 2014

La Stampa 5.8.14
I nostri destini sono intrecciati. Serve un dialogo fra “nemici”
Ricostruire e risanare le ferite della Striscia non è sufficiente Israele deve favorire la fine dell’isolamento dei palestinesi
di Abraham B. Yehoshua


Mio figlio minore ha 40 anni, è padre di tre figli e, in quanto ufficiale dell’esercito, è stato richiamato al fronte. E mentre la guerra a Gaza continua, scrivo queste parole in preda a una profonda ansia per la sua sicurezza e con la preghiera che i combattimenti cessino. Subito dopo lo scoppio delle ostilità ho pubblicato articoli, in Israele e all’estero, in cui sostenevo che Hamas andrebbe visto come un nemico, non come un’organizzazione terroristica.
Pertanto si dovrebbe cercare un dialogo diretto con i suoi rappresentanti, analogamente a quanto abbiamo fatto con i nostri nemici in passato. Dei cari amici mi hanno fatto notare che alcuni articoli della piattaforma politica di Hamas parlano della necessità non solo di combattere Israele, ma di uccidere indiscriminatamente tutti gli ebrei.
Nonostante questa terribile e folle dottrina ideologica, che riporta alla memoria punti simili del programma del partito nazista in Germania, rimango fermamente convinto che si debba cercare con tenacia di avviare una qualche forma di dialogo con gli esponenti di Hamas perché si convincano ad abbandonare la strada della follia suicida. E, in effetti, delegazioni ufficiali di Israele e di Hamas hanno discusso al Cairo, seppur non in maniera diretta e con la mediazione dell’Egitto, un accordo per il cessate il fuoco e forse un’intesa di maggior respiro.
Se Hamas combattesse Israele e gli ebrei lontano dai nostri territori potremmo anche accettare il principio di non avviare nessun negoziato con questa organizzazione fino a che non cambierà completamente le sue posizioni ideologiche. Ma Hamas agisce molto vicino a noi, fra il milione e ottocentomila abitanti di Gaza che lo hanno eletto e che il suo governo controlla con il pugno di ferro. Questa gente sarà per sempre nostra vicina (come ho già ricordato, Gaza dista solo 70 km da Tel Aviv), e fa parte del popolo palestinese. Un milione e mezzo di palestinesi sono cittadini israeliani, nostri associati (almeno in linea di principio), e con gli stessi diritti di tutti gli altri residenti dello Stato ebraico. Altri tre milioni vivono in Cisgiordania, alcuni sotto il controllo dell’Autorità palestinese, con la quale Israele mantiene costanti contatti, e altri sotto quello dell’esercito israeliano. Ne consegue che tutti questi palestinesi, anche chi non approva l’ideologia di Hamas, sono strettamente legati a noi e, per solidarietà con la popolazione di Gaza, si aspettano che ne miglioriamo la sorte e la salviamo dall’isolamento. Abbiamo quindi il dovere di fare tutto il possibile per aiutare questo popolo il cui destino è intrecciato al nostro e, se questo significa avviare un dialogo con Hamas, non possiamo rifiutare di intraprendere questa strada.
Alla radice dell’integralismo di Hamas c’è infatti la lunga storia che ho cercato di illustrare nei miei articoli precedenti. Una storia di emarginazione, di repressione, di blocco economico (iniziato durante il governo egiziano della Striscia), di profughi senza speranze e dell’errore degli insediamenti israeliani che hanno portato via ai palestinesi una parte del loro ristretto e povero territorio fino a che, in forza della resistenza di Hamas, Israele è stato costretto a smantellarli e a ritirare l’esercito. Ed è a quel punto che è cominciato l’isolamento degli abitanti di Gaza dal resto del loro popolo. Ed è nel sopraccitato contesto che è nato il sentimento di ostilità che si è inasprito nel tempo, fino alle sempre più pericolose missioni suicide. Chi avrebbe mai potuto immaginare, venti o trent’anni fa, che gli abitanti della Striscia, poveri e privi di mezzi, sarebbero riusciti a paralizzare con il lancio di razzi la vita quotidiana del forte e progredito Israele? E, proseguendo la guerra, c’è il pericolo che i miliziani di Gaza siano di esempio per Iran, Siria e Hezbollah, dimostrando loro che, sparando missili, si può scombussolare e anche paralizzare la vita di Israele senza che quest’ultimo possa davvero impedirlo.
Il distacco della Striscia di Gaza da una parte del mondo arabo e dai loro fratelli oltreconfine da un lato spinge la sua popolazione all’indifferenza verso le numerose vittime e l’entità della distruzione e dall’altro a commettere azioni suicide, il più grande pericolo per Israele.
Per far uscire gli abitanti di Gaza da questo vicolo cieco, o dal tunnel in cui si sono trincerati (per usare una metafora pertinente) e nel quale vogliono trascinare anche noi, occorre predisporre un piano effettivo e ingegnoso dopo il cessate il fuoco che preveda non solo la ricostruzione e il risanamento delle ferite della Striscia ma, in primis, la fine del disperato isolamento dei suoi abitanti mediante il ripristino dei legami con i loro fratelli in Cisgiordania e in Israele. E questo ripristino deve coinvolgere Hamas, l’autorità ufficiale della Striscia, e il governo palestinese di unità nazionale istituito qualche mese fa e con il quale Israele ha poco saggiamente interrotto i rapporti.
Alla base della differenza fra una visione del mondo di destra e una di sinistra è la convinzione che gli esseri umani possono cambiare. Mentre la destra parla di mentalità, di destino, di carattere nazionale immutabile, la sinistra crede che uomini e nazioni possano trasformarsi. E questa era anche la convinzione alla base del sionismo, che confidava nella possibilità di cambiare gli ebrei e di renderli sovrani nella loro madrepatria.
Dopo la distruzione e le morti, a Gaza e in Israele, lo Stato ebraico non deve accontentarsi di accordi provvisori o di intese parziali, come al termine di scontri precedenti, ma deve prendere l’iniziativa e, con l’aiuto dell’Egitto e di altri Stati, ricostruire Gaza - il figliastro amareggiato e incollerito -, smantellarne i missili, distruggerne i tunnel ma, al tempo stesso, interromperne l’isolamento e ripristinare i legami col suo popolo mediante un «corridoio sicuro» che colleghi la Striscia alla Cisgiordania, come previsto negli accordi di Oslo. Un tunnel legittimo e ben strutturato di circa 30 chilometri, sotto la supervisione congiunta del governo di unità nazionale palestinese e di Israele.
[3- fine]

Corriere 5.8.14
Il pessimismo di Amos Oz
«Più palestinesi uccidiamo e più vincerà Hamas»
Lo scrittore: «Sharon si è ritirato dalla Striscia, ci hanno sommerso di razzi: chi crederà più alla pace?»
di Davide Frattini


GERUSALEMME — Ha trascorso gran parte dei ventotto giorni di guerra in ospedale, bloccato a letto da un’operazione al ginocchio. Bloccato anche quando le sirene risuonavano a Tel Aviv: Amos Oz avrebbe avuto 90 secondi per correre dentro al rifugio. «Non ci sarei riuscito e non ci ho provato. Ho combattuto in due conflitti, ci vuole più di un allarme razzi per spaventarmi». Adesso è tornato nella casa di Tel Aviv, sta ancora recuperando, non gli manca l’energia per riaffermare quello che ha sempre ripetuto: «Non ho una soluzione per le prossime ventiquattro ore. Posso dire quale sia la via d’uscita da qui a un anno e mezzo: negoziare con il presidente Abu Mazen un accordo che porti alla nascita dello Stato palestinese, smilitarizzato, con la rimozione di quasi tutte le colonie ebraiche. La libertà e la prosperità, Ramallah e Nablus che fioriscono, spingeranno i palestinesi di Gaza a rivoltarsi e a eliminare Hamas come i rumeni hanno eliminato Nicolae Ceasescu».
Quello che potrebbe accadere nelle prossime ventiquattro ore lo ha annunciato Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano: finita la distruzione dei tunnel scavati dai miliziani, il governo è pronto a ritirare le truppe dalla Striscia senza trattare il cessate il fuoco e a rispondere con i raid dell’aviazione se i lanci di razzi dovessero andare avanti. Lo scrittore, 75 anni, preferisce le intese negoziate, in questo caso dice: «Qualunque scelta riduca immediatamente la violenza, anche senza una mediazione, sarebbe una benedizione per fermare il disastro umanitario a Gaza e la sofferenza quotidiana di milioni di israeliani costretti a scappare nei rifugi».
Avigdor Liberman, il ministro degli Esteri, ha rappresentato nel governo le posizioni più oltranziste, premeva sul premier, almeno a parole, perché desse l’ordine all’esercito di rioccupare Gaza. Adesso lancia l’idea di mettere quel corridoio stretto tra Israele, l’Egitto e il mare sotto il controllo di una forza internazionale. «Affiderei la Striscia a chiunque — dice Amos Oz — anche ai marziani. Non capisco perché Netanyahu non abbia proposto di togliere l’assedio economico imposto dagli israeliani e di legare alla smilitarizzazione la raccolta internazionale di fondi per la ricostruzione. Se Hamas respinge il piano, saranno loro (e solo loro) a dover essere biasimati».
La figlia Fania — docente di Storia all’università di Haifa, con la quale ha scritto «Gli ebrei e le parole» (Feltrinelli) — gli ha offerto una metafora per descrivere la strategia di Hamas: «Un vicino di casa che si siede sul balcone con il figlio in braccio e comincia a sparare contro il tuo asilo». Amos Oz chiede comunque a Israele «un uso più cauto della forza militare»: «I miliziani operano da dentro o molto vicino a scuole e ospedali. Così raggiungono due obiettivi: più israeliani uccidono, più vincono; più palestinesi uccidiamo noi, più vincono loro. Non è solo la questione dell’immagine internazionale del Paese, mi preoccupano i nostri standard morali. Sono abbastanza vecchio da ricordare la guerra del 1967, i combattimenti nella parte est di Gerusalemme: i giordani colpivano dalle case, si muovevano tra i civili, eppure l’esercito israeliano non ha voluto bombardare, ha scelto di combattere strada per strada, l’unico modo di evitare le vittime innocenti».
Novanta secondi, un nome arabo dopo l’altro, l’età: sono i bambini palestinesi uccisi nell’offensiva israeliana. B’Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, avrebbe voluto trasmettere l’annuncio a pagamento sulle radio locali, è stata bloccata dall’autorità governativa per le emittenti. La cantante Noa riceve minacce di morte dopo aver espresso compassione e dolore per i morti palestinesi. La sinistra si sente sotto assedio, zittita dalla violenza degli ultranazionalisti. «In tempo di guerra l’atmosfera in qualunque Paese — commenta Oz — diventa militarista. Ero a Londra durante il conflitto per le Falkland e le manifestazioni di sostegno al conflitto erano massicce, anche se la maggior parte dei partecipanti non sarebbe stata in grado di trovare quelle isole, e forse l’Argentina, sulla mappa.
Non vedo lo stesso clima di odio che ha portato all’omicidio di Yizthak Rabin, come altri avvertono. I fanatici, i razzisti, non sono solo un fenomeno israeliano, stanno crescendo in Europa, in Russia, in tutto il mondo».
La sinistra resta in difficoltà, sembra incapace di far passare il suo messaggio. «Per quasi un cinquantennio il movimento pacifista ha sostenuto il progetto di scambiare i territori per ottenere la pace. Otto anni fa l’allora premier Ariel Sharon ha lasciato Gaza, ha evacuato le colonie, ritirato tutte le truppe. Invece della pace e della coesistenza abbiamo ricevuto una pioggia di razzi. Adesso è difficile convincere la gente che terra per pace è un’idea ancora valida».

Repubblica 5.7.14
Zygmunt Bauman.
L’amarezza dell’intellettuale polacco di origini ebraiche
Sfuggito all’Olocausto, non risparmia critiche ad Hamas e a Netanyahu: “Pensano alla vendetta, non alla coabitazione
Purtroppo sta accadendo ciò che era ampiamente previsto”
“Gaza è diventata un ghetto Israele con l’apartheid non costruirà mai la pace”
intervista di Antonella Guerrera


«CIÒ A cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto ». A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all’Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939. Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l’aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell’abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest’intervista a Repubblica .
Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all’offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili?
«Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell’apartheid — nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi — che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l’ 8 luglio, prima dell’invasione di Gaza, Israele pratica l’apartheid ricorrendo a “due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi ‘fuorilegge’. Del resto, quando l’esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell’omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi”. E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri».
Come anche lei sottolinea, tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C’è chi, come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma necessaria. Chi la giudica eccessiva e “sproporzionata”. Lei che ne pensa?
«E come sarebbe una reazione violenta “proporzionata”? La violenza frena la violenza come la benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide l’impegno di non spegnere l’incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è accecata dalle passioni) ci ricorda: “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione. Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le parti del conflitto fa comodo la violenza dell’avversario per rinvigorire le proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano, avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero avere entrambi ragione».
Cosa pensa, nello specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo?
Ha commesso errori?
«Netanyahu e i suoi sodali, e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché temono che l’odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non sono “errori”. I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l’arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. L’insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull’odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire».
Lei in passato è stato critico nei confronti del sionismo e dell’uso che Israele fa della tragedia dell’Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
«Raramente la vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso, invece, provoca un’unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele, nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un’eccezione. Quello a cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni). Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro».
A questo proposito, cosa pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso a Gaza?
«Innanzitutto, non esiste la “comunità internazionale” di cui parlano americani ed europei. In gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il centenario dell’inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente che “un’eccessiva” reazione come quella all’omicidio di Francesco Ferdinando ha portato alla catastrofe “che nessuno voleva o si aspettava”».
Lei ha scritto in passato che la società moderna non ha imparato l’agghiacciante lezione dell’Olocausto. Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
«Le lezioni dell’Olocausto sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in considerazione. E ancor meno sono state apprese — per non parlare di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è: l’Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad altri umani in nome dei propri interessi. Un’altra lezione è: non mettere un freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali. Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente multicentrico, ricopre ancora un’importanza universale, applicabile a ogni antagonismo locale. Ma non c’è una soluzione a breve termine per lo stallo attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che dietro alle due categorie di “aggressori” e “vittime” della violenza c’è un’umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz, l’ultima ondata di violenza nell’area “ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica».

sabato 2 agosto 2014

Corriere 2.8.14
Un’altra generazione di giovani in guerra: la nostra colpa di padri
di Anshel Pfeffer


Martedì sono andato verso sud, in compagnia di un collega giornalista, con la scusa di un reportage, ma per entrambi non si trattava di un incarico come un altro: volevamo essere vicini ai nostri figli.
Senza dire una parola, sapevamo di attraversare il peggior periodo della nostra vita, i giorni della preoccupazione e della vergogna. Se sei cresciuto in Israele, porti sempre davanti agli occhi l’immagine del primo soldato caduto. Qualcuno che conosci, un parente, un vecchio amico. Quando avevo 10 anni, quel destino toccò a un ragazzo della mia scuola ucciso in Libano. Commemorato nelle esequie, nelle foto appese ai muri della scuola, il primo che riuscivo a immaginare con chiarezza: abitava nella mia stessa strada, fantasticava nelle stesse aule e giocava a basketball come me.
Man mano che diventi grande queste figure si moltiplicano, ed ecco che cominci a salire sul monte Herzl per partecipare ai funerali di ragazzi che conoscevi bene. Di colpo ti ritrovi nella seconda fase della vita di un israeliano, quando tocca a te. Per i successivi vent’anni, i tuoi amici, colleghi e conoscenti vengono spediti su tutti i fronti. Il fardello della guerra ricade sulle spalle della tua generazione, poi all’improvviso compi 40 anni e ti arriva la lettera di ringraziamento per gli anni di servizio. Cominci a pensare se non sia il caso di spostare lo zaino zeppo di uniformi, cinture, per far spazio nell’armadio, ma non lo fai. Potrebbe servire a qualcun altro.
Nulla ti prepara a quel momento, quando la guerra successiva si profila all’orizzonte, e tu sei padre. In ebraico moderno la parola horim ha un significato speciale quando si riferisce ai genitori dei soldati, che si intensifica quando si è genitori di soldati feriti per salire in un crescendo emotivo e approdare a horim shakulim — i genitori affranti dei soldati caduti. E non parlo soltanto del terrore indicibile di quel colpo alla porta e la vista degli ufficiali sulla soglia di casa che ti presentano la chiamata alla leva, no, è la consapevolezza di una profonda e tremenda responsabilità: andare in guerra e uccidere in tuo nome. Per quanto ti senta invadere da sgomento, orgoglio o senso di protezione, sai che hai fallito nel tuo compito di genitore. Anche tu fai parte dell’ennesima generazione di israeliani che non è riuscita a consegnare a quella successiva un Paese in pace con i vicini.
Quando mi sono arruolato, nutrivo ancora idee romantiche sul mio ruolo nel gigantesco rovesciamento della storia ebraica, che dopo duemila anni di morte e persecuzione era approdata alla generazione redenta, capace di combattere per la propria sopravvivenza anziché lasciarsi sterminare in qualche pogrom in Bielorussia. Toccò a mio nonno, scampato all’Olocausto e mai trasferitosi in Israele, a rovinare le mie fantasie quando, alla prima visita, fece un passo indietro vedendomi apparire in uniforme. Mi ci vollero anni per capire che la sua era stata una reazione «normale», che un nonno normale non si esalta alla vista del nipote con le armi in pugno. Anche a me ci sono voluti anni, come giornalista, come padre e riservista, per comprendere fino a che punto la vista di un soldato possa riempire la stragrande maggioranza di ebrei israeliani di fiducioso orgoglio, mentre in tanti altri scatena sentimenti opposti. Oggi, guardando i nostri figli, ci aggrappiamo a quell’orgoglio e cerchiamo di nascondere la paura, per mettere a tacere i sensi di colpa.
Israele ha vinto questa guerra contro Hamas. L’ha vinta ancor prima che l’operazione «Margine protettivo» avesse inizio, perché per quanto Hamas inciti i suoi alla distruzione dello Stato di Israele, è chiaro che non sarà mai in grado di portarla a compimento. Anzi, sono state le prime due generazioni di israeliani a riportare la vittoria definitiva, nel 1967 e nel 1973, dimostrando che i nostri vicini non avrebbero mai potuto farci sloggiare.
Non c’entra la politica, non si tratta di decidere se il miglior modo per tutelare la sicurezza di Israele sia quella di fare concessioni ai palestinesi, o di colpirli così duramente che non si azzarderanno mai più a sparare razzi o a scatenare una nuova Intifada. Si tratta di riconoscere un’amara sconfitta, abbiamo tradito i nostri figli. Possiamo gettare la colpa addosso ai palestinesi, agli arabi e a tutta la comunità internazionale finché vogliamo, resta il fatto che era nostra responsabilità evitare che andassero ad ammazzare e a farsi ammazzare. E questa colpa è solo nostra.
*editorialista del quotidiano
israeliano «Haaretz»
(traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 2.8.14
“Stavolta il dibattito interno è più intollerante che mai”, dice lo scrittore Gavron “E per il mondo siamo tutti parte del male”
Noi minoranza crediamo nella pace ma il nostro Paese non ci ascolta
di Assaf Gavron


Siamo tra l’incudine e il martello Anche da noi si vive la tragedia ma non viene riconosciuta

LA SETTIMANA scorsa sono stato invitato dai residenti di Tekoa, un insediamento in Cisgiordania, a parlare del mio romanzo Hagiva ( La Collina, ndr), la storia immaginaria di un insediamento ebraico non diverso dal loro. Alcuni hanno espresso critiche su ciò che hanno visto come una rappresentazione stereotipata dei “coloni di destra” da parte di un “autore della sinistra di Tel Aviv”, ma la maggior parte ha trovato il romanzo onesto. L’ospite mi ha chiesto la mia opinione sugli insediamenti. «Credo che siano un problema », ho detto. «Aspetta ancora qualche razzo su Tel Aviv», ha detto qualcuno tra il pubblico, «e tutti saranno convinti ». «Il problema è proprio questo», ho risposto. «Nessuno si convince mai. Qualunque cosa accada, ognuno crede ancora di più in ciò che già pensava. Voi dite: “Non possiamo fidarci dei palestinesi, vogliono ucciderci, non possiamo lasciare che si gestiscano da soli perché non fanno altro che accumulare armi e preparare degli attacchi”. E noi diciamo: “Siamo noi i responsabili, perché siamo la parte più forte, quella che occupa. Continuiamo a togliere ogni speranza ai palestinesi e non gli diamo altra scelta se non quella di usare la violenza. Dobbiamo raggiungere un accordo perché la guerra non è mai la soluzione”». Non so che cosa sia più deprimente, se la situazione attuale con questo orribile spettacolo di morte e distruzione e di morti che si accumulano, o il fatto che non sembra esserci un modo per spezzare questo cerchio senza fine. Se osservo la mia società, vedo solo una ripetizione senza fine delle stesse opinioni, un auto- convincimento infinito senza che si intraveda una svolta.
Ero un soldato a Gaza 25 anni fa, nella prima Intifada. Ci trovavamo davanti ad adolescenti arrabbiati che ci lanciavano sassi. Rispondevamo con gas lacrimogeni e sparando in aria proiettili di gomma. Ora quei giorni sembrano bei vecchi tempi innocenti. Le pietre sono state sostituite da pistole e da bombe suicide, e ora da razzi. Per me è facile da spiegare: Israele non si è sforzata di raggiungere un accordo equo e ha trovato una resistenza sempre più intensa.
La cosa ancor più deprimente della situazione attuale è la natura che stavolta ha assunto la discussione interna nella società israeliana. È la più intollerante e intransigente che abbia mai visto. Ho notato questa tendenza già nel 2008, ma diventa sempre più forte: sembra che ci sia una sola voce, orchestrata dal governo e dall’esercito, e questa voce riecheggia in tutti gli angoli del Paese. I tentativi di rappresentare una posizione diversa da quella del consenso generale sono ridicolizzati e trattati con sufficienza nei migliori dei casi, altre volte sono denigrati e attaccati. Chi non «sostiene le nostre truppe» è visto come un traditore.
Forse ciò che rende tutto molto più aggressivo è la prevalenza di Facebook. Qui non ci sono più limiti: qualsiasi sentimento di sinistra che non sia allineato con il presunto consenso (per esempio, chiedere un accordo diplomatico o esprimere compassione per le vittime civili a Gaza), viene accolto da una raffica di risposte razziste e piene di odio. Tutto ciò sta avendo conseguenze. Conosco gente che ha paura di andare alle manifestazioni. I politici all’opposizione si allineano dietro al governo e raramente contraddicono le sue iniziative. La sinistra sta diventando più debole, più piccola e inefficace. Non mi sono ancora arreso, però, perché c’è ancora un altro gradino nell’escalation della depressione ed è qui che voi entrate in gioco. Perché quando ci rivolgiamo al mondo — noi, questa minoranza di sinistra che crede nei diritti umani, nel mutuo accordo, nella pace — non otteniamo appoggio. Siamo messi insieme alla maggioranza; facciamo tutti parte del male. Siamo boicottati. Stiamo cercando di presentare una voce sana, diversa, ma la nostra voce non è ascoltata. Vediamo che la simpatia è rivolta a una sola parte e abbiamo poca simpatia per coloro che sono ciechi per le sofferenze degli altri. Sono inorridito dal migliaio e oltre di morti palestinesi e dai tanti israeliani che non sono disposti a riflettere su questo. Ma sono anche profondamente rattristato dalle decine di bambini israeliani che perdono la vita e da tutti quelli nel mondo che non riconoscono la tragedia che si vive anche dalla nostra parte. Siamo tra l’incudine e il martello.
La settimana prossima partirò con la mia famiglia per andare a vivere e insegnare negli Stati Uniti, per un anno, o forse due. Non è una fuga, era in programma da molto tempo. Tuttavia, mia moglie ed io programmiamo spesso queste pause. Abbiamo bisogno di respirare aria fresca per un po’ ogni tot anni, ma poi torniamo sempre, perché questa è casa nostra, la nostra lingua, la nostra gente. Spero di tornare dopo questo viaggio, in un posto dove sia più tollerabile vivere, con meno minacce da fuori e da dentro. Ma non ci conto.
(Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 2.8.14
Gli occhi di Farah sulla guerra
di Alix Van Buren


FARAH Baker ha 16 anni, due occhi turchesi, la pelle d’alabastro e ben 125mila iscritti al suo profilo Twitter sul quale campeggia un “selfie” di lei a occhi sgranati, a Gaza. Col nome di @Farah-Gazan è la nuova “star” dei social media. Un seguito di adolescenti, giornalisti, musicisti, le scrive dal mondo in segno di solidarietà. Lei digita pensieri semplici di una bambina che segue la guerra appostata alla finestra con lo smartphone: «Chissà cosa sono quelle strane luci», fa vedere delle curiose palle luminose che paiono lune appese al cielo. Viene da sporgersi per capire se siano razzi, illuminanti, traccianti, e attivando il volume se ne ascolta anche il suono. «Sentite una delle bombe, adesso», twitta; a dire la verità il rimbombo arriva ovattato online; però, quando lei registra un’esplosione ogni minuto la notte del martellamento di Gaza, l’inquadratura fissa sul palazzo dirimpetto, un sussulto nell’attimo della deflagrazione, il suo “candido obiettivo” — tale almeno all’apparenza — fa un certo effetto. Quando poi lei racchiude in 140 caratteri il terrore d’adolescente: «Colpiscono la mia zona. Non riesco a smettere di piangere. Stanotte potrei morire», un musicista come Gilles Zimmermann, viola da gamba, dalla Francia si dice «commosso» e le regala il download gratuito delle sue composizioni.
Tuttavia il tweet forse più efficace è una riflessione derivata da un semplice calcolo matematico: «A 16 anni ho conosciuto già 3 guerre»: 2008-2009, 2012, infine oggi. Un’indicibile tragedia in poche battute.
Qualcuno si arrischia a definire Farah “la nuova Anna Frank”, fissa alla finestra ad annotare la guerra. Qualcun altro dubita dell’innocenza. Il fatto che i suoi aggiornamenti non segnalino la posizione insinua il sospetto d’un falso. Questo finché i network televisivi, da Cnn alla Bbc a Nbc, l’hanno scovata e intervistata. Altri infine la tacciano di protagonismo: «grida lo spavento per aumentare i follower». Ed è vero che a ogni nuovo allarme, quelli crescono. Resta che lei, da ieri, non si fa sentire. Alle 16: 00 ha scritto: «Minacciano di bombardare un edificio davanti all’ospedale Shifa (vicino al suo palazzo, ndr.), stiamo evacuando da casa». Il tempo di scrivere questo articolo, e ai suoi follower se ne sono aggiunti altri mille.

La Stampa 2.8.14
Quella Striscia che l’Egitto trattava come corpo estraneo
Creata 64 anni fa, era abitata da profughi fuggiti dopo la guerra del ’48
Ma il governo del Cairo non concesse mai la cittadinanza ai residenti
di Abraham B. Yehoshua


La creazione di una striscia costiera intorno alla città di Gaza, lunga 40 chilometri e larga una decina per un’area complessiva di 365 chilometri quadrati, risale alla fine della guerra del 1948, 64 anni fa. La guerra scoppiò subito dopo l’approvazione della risoluzione dell’Onu che sanciva la creazione di due stati nell’allora Palestina, uno ebraico e l’altro arabo, di dimensioni uguali.
I palestinesi e gli stati arabi non accettarono questa risoluzione e si preparano a distruggere il neonato stato ebraico. Al termine del mandato britannico, il 15 maggio 1948, gli eserciti di tre paesi arabi invasero la Palestina: quello giordano a Est, il siriano a Nord e l’egiziano a Sud, per cercare di annientare lo stato di Israele. Dopo aspre battaglie gli israeliani riuscirono a respingere l’attacco giordano (che aveva messo sotto assedio Gerusalemme), a cacciare quello siriano dalla Galilea e a fermare quello egiziano a soli 78 chilometri da Tel Aviv. Al termine degli scontri, nelle mani dei palestinesi rimase solo metà del territorio loro assegnato dalla risoluzione Onu. In quel territorio non venne fondato un nuovo stato palestinese ma rimase sotto il controllo di due paesi: la Giordania in Cisgiordania, e l’Egitto nella Striscia di Gaza. I giordani, che consideravano la Cisgiordania una possibile parte del loro regno, conferirono la cittadinanza ai profughi palestinesi stabilitisi a est del Giordano e protessero i luoghi santi di Gerusalemme est. Poiché si sentivano vicini ai palestinesi da un punto di vista etnico mantennero con loro rapporti relativamente buoni e ne garantirono il libero transito verso altri paesi arabi.
Ma la situazione era diversa nella Striscia di Gaza. Gli egiziani trattarono con durezza i palestinesi della Striscia, isolati dai loro fratelli e dal loro popolo in Cisgiordania. Li consideravano un inutile peso, un grattacapo piombato loro addosso a causa della sconfitta subita contro Israele, del quale continuavano a non riconoscere la legittimità e con il quale avevano concordato una tregua incerta. I numerosi profughi palestinesi, cacciati o fuggiti dai loro villaggi durante la guerra del 1948 e affollatisi nella Striscia, venivano considerati dagli egiziani un popolo problematico e distaccato dalle sue radici. Va inoltre detto che la Striscia di Gaza è lontana dalle città egiziane, dalla quali è separata dal Canale di Suez e dal deserto del Sinai. Gli egiziani, quindi, non concessero mai la cittadinanza ai residenti di Gaza e, in pratica, rimasero in attesa del momento in cui si sarebbero potuti sbarazzare di questa regione che ricordava loro la sconfitta militare subita nella guerra del 1948.
La crudeltà degli egiziani contro la popolazione di Gaza risvegliò l’ostilità di quest’ultima ed echi di questo sentimento sono tuttora visibili nella guerra in corso. Nonostante infatti le melliflue parole di solidarietà, tra egiziani e palestinesi di Gaza c’è una costante tensione che oggi si manifesta con tutta la sua forza. I primi accusano i secondi di intromettersi negli affari interni del loro paese e partecipano quindi attivamente al blocco brutale a loro imposto negli ultimi anni.
La Striscia di Gaza rimase sotto il controllo dell’Egitto fino al giugno del 1967, a eccezione di un brevissimo periodo - qualche mese - dopo la campagna del Sinai, nell’ottobre 1956. Allora Israele sconfisse l’esercito egiziano e conquistò l’intero deserto del Sinai e, nell’impeto dell’avanzata, senza difficoltà e in un solo giorno, anche la Striscia di Gaza. Al termine di quella breve guerra, alla quale presero parte anche Francia e Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica imposero, congiuntamente ed esplicitamente, a Israele di arretrare entro le linee dell’armistizio del 1948. Lo stato ebraico si ritirò dal deserto del Sinai nel giro di pochi mesi. Per un brevissimo periodo esitò se ritirarsi dalla Striscia di Gaza, che in ogni caso fa parte della Terra d’Israele/Palestina, ma, obbedendo all’ordine delle due potenze e incerto su come gestire quella regione affollata di campi profughi, retrocesse e Gaza fu riconsegnata all’Egitto che non ebbe altra scelta che quella di riprenderla sotto il suo patrocinio.
Nel 1967 scoppiò la Guerra dei Sei Giorni a causa dell’incontrollata e irresponsabile provocazione del dittatore egiziano Abdul Nasser. Per sei giorni Israele combatté con successo su tre fronti: a nord, contro i siriani, dove conquistò le alture del Golan, a est, contro i giordani, dove conquistò la Cisgiordania, e a sud, contro gli egiziani, dove occupò tutto il deserto del Sinai. E, ancora una volta, nell’impeto dell’avanzata, riconquistò in un solo giorno la Striscia di Gaza.
L’incredibile facilità con cui venne conquistata la piccola Striscia nel 1956 e nel 1967, malgrado la presenza di carri armati e dell’artiglieria egiziana, si contrappone all’attuale paura e difficoltà di penetrarvi dell’esercito israeliano (diventato molto più forte negli anni trascorsi da allora) e indica principalmente l’immenso cambiamento avvenuto nella determinazione, nella forza, nell’ingegno, nell’audacia e nella disponibilità al sacrificio dei discendenti dei profughi rispetto all’atteggiamento di sottomissione dei loro padri in passato.
Non è un caso che nel trattato di pace firmato con Israele nel 1979 gli egiziani rifiutarono di riprendersi la Striscia. Accettarono con gioia il deserto del Sinai ma lasciarono questa problematica regione nelle mani di Israele. Gaza è parte della Palestina, così stabilì chiaramente il presidente egiziano Anwar Sadat, e da ora in poi sarà un problema di voi israeliani come gestirla e come ricongiungere i suoi residenti ai loro fratelli in Cisgiordania per creare un’unica entità. Dopo tutto, nell’accordo di pace, vi siete impegnati a risolvere il problema palestinese, pur non avendo spiegato come.
[1- continua]


il manifesto 30.7.14
Perché Gaza è sola?
di Luciana Castellina


Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, così vilmente attaccata — poveretta — dai terroristi. ( I palestinesi non sono mai «militari» come gli israeliani, loro sono sem- pre e comunque terroristi, gli altri mai).
Ieri ho sentito a radio Tre, che ricordavo meglio delle altre emittenti, una trasmissione cui parteci- pavano commentatori davvero indecenti, un giornalista (Meucci o Meotti, non ricordo) che conte- ggiava le vittime palestinesi: che mascalzonata le menzogne degli antistraeliani, tutti dimentichi dell’Olocausto – protestava. Perchè non è vero che i civili morti ammazzati siano due terzi, tutt’al più un terzo.
E poi il «Foglio» che promuove una manifestazione di solidarietà con le vere vittime: gli israeliani, per l’appunto.
Si può non essere d’accordo con la linea politica di Hamas – e io lo sono — ma chi la critica dovrebbe poi spiegare perché allora né Netanyahu, né alcuno dei suoi predecessori, si sia accordato con l’Olp ( e anzi abbia sempre insidiato ogni tentativo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per mandarla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo profughi della Palestina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mortificazioni, di violazione di diritti umani e delle decisioni dell’Onu, dopo decine di accordi regolarmente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pretesa di rendere la Palestina tutt’al più un bantustan a macchia di leopardo dove milioni di coloro che vi sono nati non possono tornare, i tanti cui sono state rubate le case dove avevano per secoli vissuto le loro famiglie, dopo tutto questo: che cosa penserei e farei? Io temo che avrei finito per diventare terrorista.
Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perché è così insopportabile ormai la cond- izione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l’ingiustizia storica di cui sono vittime; così filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l’oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso.
Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l’altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri.
Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobil- itare centinaia di migliaia di persone? È forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Per- ché noi — il più forte movimento pacifista d’Europa – non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato per- ché l’obiettivo non è prevalere ma intendersi? O perché – piuttosto — non c’è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell’autorevolezza necessaria ad una mobil- itazione adeguata? O perché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del
passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza? Un silenzio agghiacciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a differenza dei vecchi politici, è umano e naturale? Privo di emo- zioni, di capacità di indignazione, almeno quel tanto per farsi sfuggire una frase, un moto di comm- ozione per quei bambini di Gaza massacrati, nei suoi tanti accattivanti virtuali colloqui con il pub- blico? È perché non prova niente, o perché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipendano dal fatto che la muta Mogherini assurga al posto di ministro degli esteri dell’Unione Europea? E se sì, per far che?
Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall’estero, sento dire: «O diomio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.
Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia gener- azione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla belli- ssima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un’iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto
a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfrutt- amento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall’est, l’appoggio umano sociale e politico necessario.
Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio.
E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?
Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza della politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell’impotenza, per non abituarsi alla rass- egnazione, per aiutarci l’un l’altro «a cercare ancora».

Internazionale 1.8.14
Francesca Spinelli
“Israele non parla a nome di tutti noi”


“Sa che nella rete di cui facciamo parte ci sono anche degli italiani?”. Mi accoglie così Serge Simon, togliendomi la prima domanda di bocca. La rete, European jews for a just peace, è stata creata nel 2002 dall’Union juive française pour la paix e oggi riunisce undici organizzazioni di dieci paesi europei. In Italia ha aderito la Rete-Eco (Ebrei contro l’occupazione), anche se finora sono state soprattutto singole personalità, da Gad Lerner a Moni Ovadia, ad alimentare il dibattito sull’adesione della maggior parte delle comunità ebraiche europee alle posizioni di Israele.
Mercoledì, sul manifesto, Luciana Castellina s’interrogava sul “silenzio del movimento pacifista” in Italia intitolando il suo editoriale “Perché Gaza è sola?”. In Belgio, invece, il movimento si fa sentire de settimane, e tra le voci presenti c’è quella dell’Union des progressistes juifs de Belgique (Upjb), voce di minoranza all’interno della comunità ebraica locale, ma con decenni di impegno alle spalle. Serge Simon rappresenta l’Upjb presso la rete European jews for a just peace.
L’Upjb è nata nel 1939 per venire in aiuto agli immigrati ebrei in Belgio, poi, dal 1967, ha preso posizione sul conflitto in Palestina. Come si spiega questo impegno di lunga data, soprattutto se paragonato a quello di altre associazioni di ebrei progressisti in Europa?
Alcune figure importanti, come quella di Marcel Liebman, professore all’Université libre de Bruxelles e autore di numerosi testi sul conflitto, hanno fortemente influenzato la nostra associazione. Inoltre l’Upjb in origine era legata al Partito comunista belga, da cui si allontanò nel 1969 rimanendo però fedele ai valori della sinistra.
Quante persone riunisce l’Upjb e in che rapporti è con le altre comunità ebraiche belghe?
L’associazione ha circa duecento membri, mentre i sostenitori sono varie migliaia. Siamo considerati i “diversi” della comunità ebraica belga. Molti degli attacchi, spesso violenti, che riceviamo via Facebook o email arrivano da ebrei. Non abbiamo mai voluto far parte del Ccojb (Comité de coordination des organisations juives de Belgique) per via del loro allineamento automatico sulle posizioni d’Israele. Noi riconosciamo il popolo ebraico, le sue radici, la sua storia, ma non la centralità di Israele. Non auspichiamo nemmeno la scomparsa di Israele. La nostra associazione riunisce sensibilità diverse, ma siamo tutti a favore del rispetto del diritto internazionale, contro la colonizzazione, contro le politiche dell’attuale governo israeliano. Come Upjb non saremo mai a favore di Hamas, perché siamo contrari alla violenza, ma riconosciamo che i razzi di Hamas nascono dalla disperazione causata da un embargo illegale e da decenni di occupazione.
Domenica scorsa avete partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Palestina che si è svolta a Bruxelles. Molti mezzi d’informazione hanno messo in primo piano i disordini. Quel è stata la sua impressione?
Ero nel servizio d’ordine dell’Upjb e ho visto che c’erano dei provocatori: dieci, venti persone davvero decise a fare casino e qualche decina di adolescenti che gli andavano appresso. Erano comunque pochi rispetto all’insieme dei manifestanti. È un peccato che i mezzi d’informazione si siano soffermati su questo aspetto. Non tutti, però: la principale emittente pubblica, la Rtbf, si è mostrata più equilibrata.
In Francia le autorità hanno vietato le manifestazioni a sostegno della Palestina dopo gli scontri scatenati – come si è scoperto in seguito – da alcuni esponenti della Lega di difesa ebraica. Questo movimento è presente anche in Belgio?
C’è qualche membro, ma sono davvero pochi. Non penso che oserebbero fare nulla, per una semplice questione di numeri. Detto ciò, siamo convinti che la comunità ebraica debba fare pulizia nelle proprie fila. Va bene dire “non importiamo il conflitto, è importante dialogare”, ma bisogna anche esortare alla calma. Il Ccojb lo fa, ma non sistematicamente.
Negli ultimi comunicati sembra soprattutto preoccupato dall’aumento dell’antisemitismo.
Sì, e ovviamente la cosa preoccupa anche noi. Pensi all’attentato del 24 maggio al Museo ebraico di Bruxelles… Mia madre esponeva lì e si trovava nel museo proprio in quel momento, in un’altra sala. Ma per noi è chiaro che è spesso lo stato di Israele a favorire l’amalgama tra antisionismo e antisemitismo.
Come altri paesi europei, il Belgio ha recentemente sconsigliato a imprese e cittadini di “partecipare ad attività economiche e finanziarie nelle colonie israeliane”. L’Upjb, però, insieme ad altre organizzazioni, chiede un passo ulteriore.
L’adozione di queste linee guida è una buona notizia, ma non basta, perché si tratta di misure non vincolanti. Altro esempio: questa settimana il ministro dell’economia Johan Vande Lanotte ha annunciato che d’ora in poi l’origine dei prodotti alimentari provenienti dalle colonie potrà essere indicata sulle etichette. Non essendo obbligatoria, la misura sarà sicuramente aggirata. Con altre organizzazioni abbiamo quindi lanciato una campagna, Made in illegality, per chiedere al Belgio e al resto dell’Unione europea d’interrompere tutti i rapporti economici e commerciali con le colonie israeliane. Allo stesso modo abbiamo aderito alla campagna Boycott Désinvestissement Sanctions, anche se su un punto rimaniamo divisi al nostro interno, quello del boicottaggio accademico.
Avete molti contatti con i movimenti progressisti in Israele?
Sì, con organizzazioni come Breaking the silence, B’Teselem, Women in black e altre ancora. Cerchiamo di aumentare la loro visibilità invitando i loro rappresentanti in Belgio. A settembre, per esempio, parteciperemo a una settimana di eventi organizzata dalla piattaforma Watermael-Boitsfort Palestine. I progressisti in Israele subiscono pressioni terribili in un clima di isteria collettiva, frutto di una politica di estrema destra che dura da dieci anni. Le persone ormai hanno interiorizzato i Leitmotiv del governo.
Siete in contatto anche con i progressisti ebrei negli Stati Uniti?
Molti di noi sono membri o sostenitori di Jewish voice for peace. Personalmente mi piacerebbe provare a lanciare un Jewish voice for peace Europe, perché lo considero un movimento molto efficace.
Sul piano politico che soluzione auspicate al conflitto israelo-palestinese? In un articolo del 2006 un altro membro dell’Upjb, Michel Staszewski, si diceva a favore della soluzione di uno stato unico ricollegandola al movimento Brit Shalom, che negli anni venti e trenta del novecento difendeva il principio dell’uguaglianza completa tra arabi ed ebrei in Palestina.
Anche su questo punto siamo divisi tra chi appoggia la soluzione a due stati e chi la soluzione dello stato binazionale. La politica di colonizzazione d’Israele oggi rende sempre più improbabile la soluzione a due stati, a meno di chiedere lo smantellamento totale delle colonie, cosa che Israele difficilmente accetterebbe. In ogni caso non sta a noi decidere il quadro delle negoziazioni, il nostro obiettivo è far rispettare il diritto internazionale e ricordare che Israele non parla a nome di tutti gli ebrei. Inoltre rifiutiamo di presentare questo conflitto come una guerra di civiltà. Per noi è un conflitto classico, territoriale. È evidente che Israele non è interessato alla sicurezza, è solo un pretesto, e infatti il governo ha rifiutato la tregua di dieci anni proposta da Hamas. Non è un caso se l’attacco è cominciato quando si annunciava un principio di riconciliazione tra Hamas e Al Fatah. Un governo di unità nazionale è proprio quello che Israele non vuole, come non vuole che la Cisgiordania si militarizzi e che i palestinesi facciano ricorso alla Corte penale internazionale.
Qualche giorno fa l’avvocato francese ebreo Arié Alimi ha difeso sul sito Mediapart la sua decisione di difendere due ragazzi accusati di “violenze antisemite”. A chi lo considera un esempio di “odio di sé ebraico” risponde: “Forse. Ma allora è odio di quel sé sconsideratamente collettivo, tribale”.
Sì, l’ho letta, è una bella lettera. È un tema complesso, di cui si possono analizzare diversi aspetti. Per alcuni sarà il genocidio, per altri la diaspora, per altri ancora – è il mio caso – il fenomeno che potremmo chiamare di “simmetrizzazione”: gli israeliani cominciano ad adottare metodi simili a quelli che hanno portato al ghetto di Varsavia.
Un’attivista che ho intervistato al suo ritorno da Israele mi raccontava che nei centri per richiedenti asilo le persone sono identificate con un numero.
Già, i numeri non sono ancora tatuati, ma è una somiglianza che fa paura.
L’8 luglio European jews for a just peace ha inviato una lettera a Catherine Ashton, affermando, tra le altre cose: “Non ci si può aspettare che tutti i palestinesi si comportino sempre come Gandhi o Martin Luther King di fronte alle continue provocazioni” [di Israele]. A dodici anni dalla nascita di questa rete europea, qual è il bilancio della vostra azione?
Abbiamo creato la coalizione per mostrare che gli ebrei progressisti in Europa non sono isolati. Non è stato semplice, perché i movimenti nei vari paesi non hanno esattamente le stesse posizioni. Siamo d’accordo sugli obiettivi, è sul metodo che discutiamo. Ma la cosa evolve in modo positivo, come dimostra la lettera a Catherine Ashton. Ora vorremmo portare la nostra azione a un livello superiore, magari aprendo un ufficio qui a Bruxelles.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin


il manifesto 1.8.14Israele. Il boom dell’industria bellica: già in vendita le armi testate su Gaza
Intervista all'economista israeliano Shir Hever: «L'esercito detta le scelte del governo, ma manca una strategia di lungo periodo. Come ogni impero, anche Tel Aviv è vicino alla fine»
intervista di Chiara Cruciati


Nessuna tregua, l’offensiva continua. L’industria bellica israeliana pubblica e privata ha già scaldato i motori: la nuova sanguinosa operazione contro Gaza porterà con sé un’impennata delle vendite di armi. Successe con Piombo Fuso e con Colonna di Difesa. Alcune aziende firmano già contratti milio- nari. Come sempre, Israele prima testa e poi vende. Ne abbiamo parlato con Shir Hever, economista israeliano e esperto degli aspetti economici dell’occupazione.
Israele è uno dei primi esportatori di armi nel mondo. Dopo l’operazione del 2012, le ven- dite toccarono i 7 miliardi di dollari. Sarà lo stesso per Margine Protettivo?
L’industria militare israeliana è uno dei settori più significativi, il 3,5% del Pil a cui va aggiunto un altro 2% di vendite interne. Israele non è il più grande esportatore di armi al mondo, ma è il primo in termini di numero di armi vendute per cittadino, procapite. L’industria militare ha un’enorme influenza sulle scelte governative. Dopo ogni attacco contro Gaza, si organizzano fiere durante le quali le compagnie private e pubbliche presentano i prodotti utilizzati e testati sulla popolazione gazawi. Gli acquirenti si fidano perché hanno dimostrato la loro efficacia. Anche questa guerra aumenterà significativamente i profitti dell’industria militare. Basti pensare che pochi giorni fa l’Industria Aerospaziale Israeliana ha lanciato un appello agli investitori privati per la produzione di una nuova bomba. Hanno già raccolto 150 milioni di dollari, 100mila per ogni palestinese ucciso: si inizia a vendere ad operazione ancora in corso.
Se l’industria militare cresce, quella civile però subisce consistenti perdite.
I costi civili dell’attacco sono tre. Primo, quelli pagati dal sistema pubblico: l’aumento del budget per l’esercito va a spese dei servizi pubblici. Ogni attacco produce sempre tagli all’educazione, la salute, i trasporti. Prima che questo round di violenza cominciasse, fazioni politiche di centro hanno tentato di tagliare il budget dell’esercito a favore dei servizi sociali. E guarda caso, poco tempo dopo è par- tita l’operazione, per l’enorme influenza che il sistema militare ha sulle politiche del governo. A ciò si aggiungono i costi diretti e indiretti all’economia civile. I missili hanno danneggiato proprietà e le persone hanno paura ad andare al lavoro, numerose fabbriche hanno sospeso le attività e le aziende agricole sono ferme. E, infine, i costi indiretti, come quelli al settore turistico. Molte compagnie avrebbero dovuto ospitare delegazioni di imprenditori stranieri che hanno cancellato le visite e sono andati a fare affari in altri paesi.
Gaza è un mercato prigioniero, costretto all’acquisto di prodotti israeliani. L’offensiva dan- neggia chi vende nella Striscia?
In realtà no. Gaza è sì un mercato prigioniero, ma garantiva molti più profitti prima dell’inizio dell’assedio nel 2007. Prima dell’embargo era molto più facile per le compagnie israeliane inviare
i propri prodotti nei supermercati di Gaza e sfruttare manodopera a basso costo. Se l’assedio venisse allentato, l’economia israeliana ne gioverebbe perché potrebbe sfruttare ancora di più un milione
e 800mila persone, una comunità che non può produrre abbastanza ma che consuma.
Questo nuovo attacco potrebbe invece rafforzare la campagna di boicottaggio?
C’è stato un incremento significativo della campagna BDS nel mondo e lo si percepisce dalle reazioni di certi politici. Il ministro dell’Economia, il colono Naftali Bennett, cerca di incrementare gli scambi commerciali con Cina, Giappone, India, e liberarsi dalla dipendenza dall’Europa, dove il boicottaggio
attecchisce di più. Eppure due giorni fa l’Istituto Israeliano di Statistica ha registrato un calo signif- icativo del valore delle esportazioni, prima che questa operazione cominciasse: all’inizio del 2014, il valore è calato del 7% e del 10% verso i paesi asiatici. Molte compagnie esportatrici hanno chiesto un meeting d’emergenza del governo per trattare questa crisi.
Molti ritengono che questo attacco sia dovuto anche al controllo delle risorse energetiche lungo la costa di Gaza.
Non credo che ci sia un collegamento diretto: Israele ha già cominciato a sfruttare i propri giac- imenti e firmato accordi di vendita con Turchia, Cipro e Grecia. Se un giorno i palestinesi saranno in grado di sfruttare il proprio gas, non troveranno mercato perché Israele si sarà accaparrato l’area mediterranea e sarà capace di vendere a prezzi inferiori. Il mondo, che in questi giorni assiste
a massacri e distruzione di infrastrutture, non immagina neanche il momento in cui i palestinesi potranno sviluppare la propria economia interna.
Da fuori sembra che il governo israeliano non abbia in mente una strategia di lungo periodo, ma tenti di mantenere lo status quo dell’occupazione.
È così. L’attuale governo non ha una strategia politica, cammina in una strada senza uscita. Sa che Abu Mazen è l’unico con cui negoziare, ma allo stesso tempo ne mina la legittimità. Nella storia tutti gli imperi hanno finito per ragionare solo nel breve periodo, per poi collassare. Dalla Seconda Inti- fada la politica non è quella di porre fine al “conflitto” ma di gestirlo. Molti israeliani pensano che non ci sia futuro e si spostano verso destra. Il livello di razzismo e violenza attuale è terribile, ma allo stesso è segno di estrema debolezza. Questo mi regala un po’ di speranza