martedì 2 settembre 2014

il Fatto 2.9.14
Davanti a 30 persone...
Festa dell’Unità, la diva è Maria Elena
Boschi dibatte con Quagliariello, Guerini e Toti difendono il patto del Nazareno

di Luca De Carolis

Bologna come Cannes, la festa dell’Unità come un red carpet. Alle 21 della sera arriva Maria Elena Boschi, e la manifestazione finora soporifera si anima dei flash dei fotografi. Decine, tutti a inseguire il sorriso del ministro alla sua prima festa nazionale del Pd, per un dibattito sulle riforme con Gaetano Quagliariello. “Ma è la prima solo come politica, ci sono sempre andata alle feste del partito” assicura subito la renziana, impermeabile chiaro, vestito blu e ballerine.
UNA DIVA, con i volontari a guardarla con gli occhi spalancati dalla curiosità e il signore che la rincorre nella calca per invocare un selfie di coppia. È lei l’attrazione di una giornata iniziata con un dibattito da larghe intese. Sul palco, di fronte a 30 persone, Lorenzo Guerini, Giovanni Toti, Maurizio Lupi e Riccardo Nencini. Toti è il primo ad arrivare, due ore prima: “Credevo l’incontro fosse alle 16”. Il vicesegretario nonché reggente del Pd Guerini risponde al Bersani che dalla festa aveva invocato distinzione tra le figure di segretario e premier: “La coincidenza è prevista dallo statuto. È finito il tempo dei caminetti, ora la discussione si fa nelle sedi proprie: dall’inizio dell’anno abbiamo fatto 11 direzioni. In autunno ci sarà un approfondimento sul partito”.
Chiedono a Lupi delle critiche degli ambientalisti allo sblocca Italia. Risposta surreale: “Noi dipendiamo energeticamente dagli altri, ora potremo finalmente aumentare le estrazioni petrolifere in Basilicata e nelle altre regioni”. Dal palco Guerini difende il patto del Nazareno: “Ci ha fatto superare tanti veti, rivendico la brutalità dell’inizio. E poi non ha postille segrete, tocca solo legge elettorale e riforma costituzionale”. In un fiorire di “Giovanni, Maurizio, Lorenzo”, Toti cinguetta: “Sono molto affezionato al metodo Nazareno, si sta tutti attorno a un tavolo”. Essendo anche “opposizione”, come ricorda ai distratti, aggiunge che “gli 80 euro non hanno rilanciato i consumi” e che le riforme di Renzi sono “poco coraggiose”. Segue dibattito sulla green economy. Dovrebbe esserci anche Simona Bonafé, ma l’europarlamentare marca visita (contrattempo dell’ultimo minuto, raccontano). E allora la serata è tutta dell’altra renziana doc, la Boschi. Arriva dalla festa dell’Unità di Ravenna. Scesa dall’auto blu, saluta uno a uno i poliziotti con stretta di mano. Trova il muro umano di fotografi e telecamere, e per un attimo si spaventa. Le chiedono delle primarie in Emilia Romagna, con i renziani Bonaccini e Richetti l’uno contro l’altro. Schiva: “Il nostro è un partito di persone in gamba, decideranno le primarie chi è il candidato”. Celebra: “Siamo un governo che mantiene gli impegni, diamo scadenze verificabili”. Sul palco si toglie l’impermeabile. E apre a lievi correzioni sulla riforma costituzionale: “Alla Camera si potrà discutere delle modalità di elezione del presidente della Repubblica, c’è chi chiede modifiche sul Titolo V. Ma l’impianto generale non cambierà”. E il dissenso, anche dentro il Pd? “Non mi preoccupa, abbiamo i numeri. Non cederemo all’ostruzionismo e ai ricatti di chi vuole lasciare le cose così come sono”. Applausi.

Repubblica 2.9.14
A Bologna la ministra difende i diritti dei gay
Selfie con i militanti e sfida per averla a cena Boschi star alla festa pd
di Giovanna Casadio


BOLOGNA «Un selfie? Sì ma dopo…». Maria Elena Boschi, custode del programma dei mille giorni del governo, è accolta alla festa dell’Unità come una celebrità da red carpet. Fotografi schierati a muraglia, ressa dei volontari e contesa tra i ristoratori per accaparrarsela nei ristoranti della Festa. Per Maria Elena è un debutto. Emozionata? «Sì, è la prima volta sul palco perché alle feste ovviamente sono sempre andata».
E’ la “giornata Boschi”. Renzi le ha affidato il compito di monitorare, comunicare, tenere la contabilità delle riforme. «Con tutte le riforme rimetteremo a posto il paese, abbiamo la benzina del 41% del Pd per raggiungere i risultati», esordisce lei rispondendo ai cronisti che le chiedono di deficit, deflazione, recessione. Maria Elena sorride rassicurante. Prende le distanze sull’articolo 18 da Gaetano Quagliariello, l’alleato dell’Ncd, ma senza litigare, mentre il direttore del Tg1 Mario Orfeo deve faticare per fare allontanare fotografi e cameramen che la vogliono riprendere a figura intera nell’attillato tubino azzurro elettrico e ballerine. Il volontario Emo del ristorante “I Castelli”, anni 80, dice che è una gran bella figliola e anche brava. Ma il volontario Loris è convinto che andrà a cena in un’osteria da vip, e non da loro che rappresentano la tradizione e che sono stati prescelti da Epifani e da Fassino ma Boschi chissà.
Il ministro arriva e si scusa del ritardo: era alla festa dell’Unità di Ravenna. Ringrazia a uno a uno i poliziotti. Dal palco annuncia qualche modifica della riforma del Senato che è approdata alla Camera dopo un’approvazione lacrime e sangue a Palazzo Madama: «I punti fermi non verranno rimessi in discussione alla Camera, perché sono stati approfonditi». E poi si conquista il primo applauso aggiungendo: «Noi non cediamo all’ostruzionismo né ai ricatti di chi vuole lasciare le cose come sono». Il secondo arriva con la difesa di diritti civili per le coppie gay e le adozioni: «Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia ». E qui con l’alleato Quagliariello la distanza è massima.
Vero è che le riforme istituzionali non sono proprio la priorità degli italiani, ma il dibattito con Boschi è affollato e partecipato. Curiosità tra i pubblico: «È meglio dal vivo che sulle foto sui giornali». «Ecco arriva la fanciulla… », la accolgono. Lei intigna sulle riforme e sul countdown già annunciato a Palazzo Chigi. «Sulla legge elettorale si riprende subito» dice. Ci saranno cambiamenti sulle soglie, la rappresentanza di genere e anche le liste bloccate: «Ma l’Italicum è un buon testo, votato alla Camera anche da una parte dell’opposizione ».
Ma saranno giorni difficili anche su questo. Sull’Italicum infatti il braccio di ferro è alle porte. Forza Italia frena, ma gli stessi dem al Senato preferirebbero il passo del maratoneta e una trattativa che porti a un accordo preliminare. Luigi Zanda, capogruppo pd, oggi sentirà Renzi. Raccomanderà al premier il massimo della cautela perché un altro Vietnam questa volta sulla legge elettorale, il Pd non se lo può permettere. Prima di Boschi, il vicesegretario democratico Lorenzo Guerini è sul palco con il forzista Toti, con il ministro Lupi, con il socialista Nencini. «Entro fine anno avremo la nuova legge elettorale», promette.

il Fatto 2.9.14
Matteo Renzi ordina ai gufi di scusarsi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, qualcosa non torna. Secondo Renzi tutti coloro che hanno detto che la Mogherini era inadatta sia a fare il ministro degli Esteri, sia in Italia sia in Europa, adesso dovrebbero chiedere scusa. Perché?
Massimo

INFATTI c’è qualcosa di profondamente distorto, nella logica, ma anche nella percezione della realtà del nostro presidente del Consiglio se è vero che ha detto, subito dopo la nomina di Federica Mogherini: “Quanta gente in Italia dovrebbe chiedere scusa per quello che ha detto o scritto sull’operazione Mogherini, con la convinzione che non sarebbe andata in porto”. Cito da il “Corriere della Sera” (Maria Teresa Meli, 31 agosto) dunque le parole virgolettate dovrebbero essere proprio quelle di Renzi. E questo è il problema. Si sa che i giudizi sono discordi. Uno pensa che la Mogherini sia la fine del mondo, e che sbaraglierà i grandi diplomatici di tutte le tradizioni e di tutte le nazioni. Altri la vedono solo come una attiva, efficiente segretaria di direzione che conosce bene il capo, ma non la materia. Le cose potevano andare in un modo o nell’altro, come in ogni trattativa politica. A meno di dover credere che, se una cosa la dice Renzi, è vera prima di accadere. Ma è impossibile che ci sia qualcuno che la pensa così, persino nel campo molto eccitato del premier. Dunque si tratta di “convinzioni”. È chiaro che Mogherini restava grande per i suoi sostenitori anche se bocciata. È chiaro che appare simpatica e irrilevante, anche dopo la nomina, a coloro che avrebbero preferito il nome di uno o una competente per una missione difficile ai limiti dell’impossibile. Ma chiedere scusa a chi? Si trattava, e si tratta, di una valutazione sulla base, per esempio, di un silenzio lungo quanto una ignota carriera politica cominciata da un po’ di anni (anche i giovani hanno un passato, come dico ai miei nipotini che, come Renzi, credono il contrario perché non hanno ancora 10 anni). Si trattava di un giudizio, come i voti a scuola. A Renzi e alla Mogherini farà piacere sapere che Einstein ha avuto brutti voti nella scuola media. Forse gli insegnanti si erano sbagliati, forse il ragazzo è maturato dopo (c’è tempo anche per Mogherini). Ma nessuno ha chiesto scusa a nessuno, neppure dopo il Nobel. Applicando il criterio di Renzi, ci sarebbe un via vai di scuse incrociate, perché se lui dice che, ogni volta che va in porto una sua idea fissa che tu avevi giudicato senza entusiasmo, gli devi chiedere scusa, allora lui deve chiedere scusa, nell’ordine, quando la riforma della Pubblica amministrazione (ovvero il nuovo disegno dello Stato) si limita a spostare di 50 km i dipendenti; quando un’epocale riforma della scuola, con assunzione immediata di centomila insegnanti, scompare senza spiegazione; quando il benevolo capo dello Stato, dopo avere dato un’occhiata al brogliaccio, dice “ragazzi, troppa carne al fuoco” che vuol dire che ha visto una gran confusione e prega di rifare il lavoro da capo. Beh in tutti quei casi (l’elenco è limitato dallo spazio di questa pagina) Renzi o qualcuno dei suoi giovani esploratori non dovrebbero chiedere scusa? Meglio di no, naturalmente, la confusione è già abbastanza grande ed è noto che Renzi non sopravviverebbe al riconoscimento di un solo errore. Allora perché non facciamo che, come in una buona democrazia, ognuno si tiene la sua opinione sui lunghi silenzi e le giudiziose astensioni della Mogherini, che c’erano e ci saranno, e restiamo amici come prima?

il Fatto 2.9.14
“Fondatori” del Pd
Quando Togliatti stroncò De Gasperi


Adesso vengono accomunati in quanto, senza volerlo, sono divenuti “padri fondatori” del Partito democratico. Ma Palmiro Togliatti non era propriamente un estimatore di Alcide De Gasperi. Così sul prossimo numero della rivista Critica marxista, in uscita a settembre, sarà pubblicato il dossier speciale “Palmiro Togliatti a 50 anni dalla morte”, contenente una lettera inedita scritta da Palmiro Togliatti al dirigente comunista Fausto Gullo immediatamente dopo la morte di Alcide De Gasperi, nell’agosto del 1954. L’annuncio in una nota della casa editrice pugliese Dedalo chiarisce: “La lettera contiene giudizi molto duri nei confronti del leader democristiano e aggiunge un tassello prezioso alle polemiche culturali e politiche di queste settimane seguite alla proposta di dedicare a De Gasperi la Festa nazionale dell’Unità. Un documento prezioso che racconta la storia del nostro Paese”. Un po’ di memoria, anche in un partito che si ispira alle due storie della Dc e del Pci, non guasta.

il Fatto 2.9.14
Renzi alla prova delle pensioni. Salva mamma o papà?
Aumentare i soldi per padre e nonna 1, o diminuire quelli per madre e nonna 2?
Questo è il problema
di Davide Vecchi


Comunque vada la pensione della mamma del premier è salva. Laura Bovoli è una baby pensionata con poco più di 18 anni di anzianità scampata per un pelo alla riforma Dini che nel 1995 abbandonò il sistema retributivo, che riconosceva con il calcolo degli interessi maturati, per quello contributivo, decisamente più misero. E per quell’alchimia creata dai continui ritocchi delle norme in Italia, la signora Renzi ha potuto poi creare delle società, diventarne amministratrice e percepire utili senza vedersi rimodulare l’importo della pensione. Che non supera i due mila euro. Quindi, anche se l’esecutivo dovesse adottare la proposta del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che prevede di intervenire sopra i 2 mila euro, la baby pensionata Bovoli non avrebbe alcuna ripercussione. Il premier ha già bocciato il testo Poletti, spiegando che colpirebbe troppi italiani e che semmai l’intervento coinvolgerà quanti percepiscono più di 3.500 euro.
METTERE mano a una riforma delle pensioni non è cosa facile perché si va a incidere sull’equilibrio economico già instabile delle famiglie. In più c’è il rischio di creare nuovi paradossi tra le figure previdenziali. Il sistema pensionistico è già caratterizzato da numerosi squilibri. Molti se ne trovano proprio in casa Renzi. La mamma del premier venerdì ha compiuto 64 anni. Di cui oltre venti da pensionata. Ha lasciato il lavoro poco dopo aver spento la 40esima candelina. Nel 1995 la riforma contributiva del governo Dini introduce un nuovo metodo di determinazione della pensione di vecchiaia basato sul calcolo contributivo e non più retributivo. Ma prevede per chi matura almeno 18 anni di anzianità nel 1996 di lasciare il lavoro con una indennità superiore a quanto versato. La signora Renzi, insegnante alle scuole medie pubbliche, fa due conti rapidi e si arruola nei baby pensionati. Ha versato quanto basta per rimanere nel vecchio sistema. Ed è così beneficiaria di una norma che Renzi sosteneva di voler rimodulare. Quando era un rottamatore. Se venisse rivisto il sistema previdenziale e ridistribuito equamente, la mamma ne sarebbe penalizzata, ma ne gioverebbe il padre Tiziano, che vive invece nel limbo delle categorie di settore. Renzi senior ha 63 anni, lavora da 40. Prima come supplente di educazione fisica, per i cinque anni in cui si è iscritto all’Isef dopo la prima laurea in Lettere, poi diventa agente di commercio e amministratore. Versa i contributi all’Enasarco che a sua volta li gira all’Inps. Quando nel dicembre 2011 il governo Monti sforna la legge Fornero, a Tiziano converrebbe lasciare ma scopre che gli mancano ancora tre anni di contributi perché nel frattempo l’esecutivo Berlusconi, tra il 2009 e il 2010, cambia il conteggio Inps per gli agenti di commercio, trasformandolo in quote. Ogni governo, si sa, ha i propri ministri ombra alla complicazione. Per capire come riequilibrare la previdenza a Renzi basterebbe guardare in casa. Dove, oltre ai genitori, anche le nonne incarnano altre due tipologie pensionistiche agli antipodi. Anna Maria, la nonna paterna, percepisce il minimo sindacale da casalinga riconosciuto quando è rimasta vedova: 400 euro, circa. La nonna materna, invece, prende quasi dieci volte di più. Maria ha 94 anni, ha perso il marito 42 anni fa vedendosi riconoscere la pensione di reversibilità che nel frattempo ha superato i 3 mila euro al mese. Al caso della nonna Maria, già un anno fa, Renzi aveva fatto riferimento per rimodulare il sistema contributivo. Nel novembre 2013 a Servizio Pubblico si chiese: “È giusto che continui a prendere ancora oggi quella pensione da 3 mila euro al mese? ”. In casa ci fu una mezza rivolta. Lo zio, Nicola Bovoli, tirò le orecchie al nipote ancora rottamatore: “Avrebbe avuto meno soldini anche Matteo senza la pensione di reversibilità di papà”, disse. E la signora ha sei figli, 24 nipoti, 43 bisnipoti.
GUARDANDO al futuro, in casa Renzi c’è un altro squilibrio, che riguarda il premier: lui è stato assunto dall’azienda di famiglia prima di essere eletto e così i contributi li ha versati prima la Provincia poi il Comune di Firenze, benefici della politica. Anche la sorella lavora nell’azienda di famiglia, ma come il padre è destinata al limbo dei liberi professionisti. In casa Renzi, dunque, andrebbero ridotte le pensioni della madre e della nonna materna e aumentate quelle del padre e della nonna paterna. Ma il premier ha anche un’altra scelta: non toccare nulla.

il Fatto 2.9.14
La lettera
La svolta di Landini: dal fianco dei deboli al salotto di Renzi
di Luisella Costamagna


Caro segretario della Fiom Maurizio Landini, è un allarmante ritorno dalle vacanze quello di quest’anno (per chi ha potuto permettersele).
L’Italia è in recessione (Pil negativo anche nel secondo trimestre 2014), ed è entrata pure in deflazione (prezzi in calo ad agosto, senza crescita dei consumi) per la prima volta da oltre 50 anni, quando però la nostra economia era in ripresa.
Dati macroeconomici che, come lei sa bene, nascondono i drammi di molte, troppe famiglie italiane, cui, via via da quando è iniziata la crisi, Berlusconi, Monti, Letta hanno chiesto sacrifici. Li hanno fatti, ma nonostante ciò e nonostante il nuovo accecante sogno renziano, oggi si ritrovano così, senza sapere a che santo votarsi.
Mentre l’Istat ci comunica i freddi numeri, e ci dice che a luglio la disoccupazione è tornata a salire al 12,6% e in un solo mese si sono persi 35 mila posti di lavoro (oltre mille al giorno), lei concede un’intervista al Corriere della Sera. Ci si aspetterebbe fuoco e fiamme contro il governo che, invece di affrontare tutto questo, si fa dettare agenda e contenuti da Berlusconi preoccupandosi di legge elettorale, Senato, giustizia (intercettazioni!), e che quando ha messo mano al problema lavoro ha aumentato la precarietà dei contratti a termine (senza contare quello che dice di sindacati e art. 18). Sì, da lei che si è sempre speso per i lavoratori e non solo, ci si sarebbe aspettati quella ventata di realismo (e di indignazione) per la situazione agghiacciante in cui ci troviamo, che manca ai tweet, alle slide, alle promesse pubblicitarie del presidente del Consiglio.
INVECE NO. La fiducia dei consumatori e delle imprese è in calo, mentre la sua nel premier appare intatta e dopo un incontro a Palazzo Chigi parla di Renzi come neanche più la Bonafè o la Moretti: “Matteo un interlocutore attento”, “la forza di Renzi sta nel consenso che ha saputo cogliere perché, dopo 20 anni di governi che non hanno affrontato i veri problemi, lui ha incarnato per la gente il cambiamento”. Poi promuove (solitario) gli 80 euro elettorali che nessuno ha sentito, e conclude il suo peana rimandando Renzi a settembre: “Il vero banco di prova sarà nei prossimi mesi: dal lavoro alla lotta all’evasione. Staremo a vedere”.
Caro Landini, non crede che se questo governo avesse affrontato “i veri problemi”, forse non ci ritroveremmo così? Che dopo questi primi sei mesi e i miseri risultati ottenuti, si potrebbe essere un po’ meno indulgenti? Renzi potrà pure aspettare l’autunno, ma quei 35 mila italiani che a giugno avevano un lavoro e a luglio non più, sicuramente no. Mi perdoni se glielo dico con la mia solita franchezza, ma il “cambiamento” mi sembra che oggi lo incarni più lei di Renzi, però nel senso di mutazione genetica: da sincero paladino dei più deboli e riferimento per la sinistra, che non aveva paura neanche di sfidare il feroce Marchionne (il quale ora si dice “non geloso” della vostra “liaison”), lei oggi pare pensare più che altro a smarcarsi dalla Ca-musso, alle beghe con la Cgil, ad accreditarsi nel salotto del potere. Mi sbaglio? Possibile. “Staremo a vedere”, a questo punto, lo dico io a lei.
Un cordiale saluto.

Corriere 2.9.14
L’attivismo di Renzi copre un’economia tuttora in affanno
di Massimo Franco


L’idea che quello di ieri sia il «giorno zero» del programma triennale del governo vuole dare solennità alla ripresa autunnale. E nelle intenzioni, dovrebbe servire a rendere più tonda la vittoria d’immagine che Matteo Renzi ha conseguito facendo nominare Federica Mogherini «ministro degli esteri» dell’Europa. La sicurezza con la quale in conferenza stampa il premier ha ribadito tutti gli obiettivi e ne annunciati altri, conferma il piglio di chi apparentemente è privo di dubbi. La difesa degli 80 euro dati a chi ha redditi bassi è totale. «Non si tratta di una mancia ma di una scommessa politica». Quei soldi sarebbero addirittura «la più grande riduzione di tasse mai fatta e di aiuto al ceto medio».
Il fatto che tutti gli indicatori dicano che gli 80 euro non hanno avuto nessun effetto sul piano economico sembra secondario. La narrativa è quella di un cambio d’epoca affidato alla velocità, alla certezza dei tempi, e alla determinazione a bollare negativamente le critiche e le perplessità. Quelle sempre più ricorrenti riguardano la tendenza di Renzi ad annunciare quotidianamente novità. «Nel momento in cui sei accusato di “annuncite”», è la replica, «rispondiamo con l’elenco di date a cui siamo auto-costretti». È una strategia che può dare un leggero senso di vertigine.
Eppure, per il momento una larga porzione di opinione pubblica appare frastornata ma non ostile al turbinio di riforme messe in cantiere da palazzo Chigi. L’attivismo copre e vela una stagnazione economica preoccupante, confermata ieri dalla diminuzione dell’attività manifatturiera sotto la soglia-simbolo del 50 per cento: lo spartiacque tra espansione e contrazione. L’opposizione di Movimento 5 Stelle e Lega attacca frontalmente il governo. E Forza Italia promette che farà le bucce all’attività di palazzo Chigi, imputando a Renzi l’«annuncite acuta».
È caustico soprattutto il gruppo parlamentare del partito di Silvio Berlusconi. Ma il consigliere di FI Giuseppe Toti, pur critico col cosiddetto «sblocca Italia», ammette di vedere più serietà in un programma articolato su mille giorni, rispetto alle promesse iniziali del premier di cambiare le cose in cento. Anche perché di giorni ne sono passati 191, e nessuno è ancora in grado di sapere se il governo ce la farà davvero. Fanno notare a Renzi che la luna di miele con l’Italia è finita; ma lui risponde che si diceva così anche prima delle europee di maggio: un trionfo per il Pd e per lui.
Insomma, la rincorsa non rallenta; e sfida un’economia debole, contando sull’asse con la Francia che condivide i problemi italiani, ma rischia di sommare due debolezze. L’intenzione è di ottenere dall’Europa il massimo di flessibilità, senza superare i limiti imposti dal Patto di Stabilità. Lo sfondo, tuttavia, è così complicato da far dire al ministro dell’Economia tedesco, Wolfgang Schäuble, che «l’eurozona non ha ancora superato il momento peggiore» a causa di uno scenario geopolitico turbolento. «L’Italia la cambiamo, piaccia o non piaccia ai soliti esperti di palude. Mille giorni e l’Italia tornerà leader», assicura Renzi, con un atto di fede che si vorrebbe che si vorrebbe condividere ma non cancella un alone di scetticismo.

Il Sole 2.9.14
I mille giorni: un colpo d'ala mediatico e un sentiero che si restringe
di Stefano Folli


Finita l'estate, Renzi rilancia il governo ma il consenso non potrà essere l'unica bussola
Vedremo presto quanto sarà efficace la nuova strategia dei mille giorni e lo slogan autunnale del "passo dopo passo". Il presidente del Consiglio ha illustrato i suoi propositi con la consueta capacità di "marketing", ma un punto sembra certo: la magia si è interrotta. E per magia s'intende quella speciale atmosfera, fatta di speranza, di fiducia e di ottimismo, nella quale Renzi aveva inaugurato il suo mandato alla fine di febbraio. Allora era la rivoluzione, annunciata con spavalderia: una grande rivoluzione al mese per sei mesi e l'Italia sarebbe cambiata. Oggi è la prudenza dei mille giorni e la richiesta di essere giudicato non prima del maggio 2017.
Non ci sarebbe da sorprendersi per questo cambio di tattica, se la strategia fosse confermata; se cioè il programma riformatore riproposto ieri si rivelasse davvero in grado di trasformare il Paese in poco meno di tre anni. Sarebbe invece drammatico se il volontarismo renziano fosse fine a se stesso: un modo dinamico, anzi frenetico, di restare più o meno immobili. Non c'è che attendere i prossimi mesi per scoprirlo. Fin d'ora però sembra chiaro che Renzi non può fare affidamento solo su se stesso e sul carisma personale, come è stato nel primo semestre. Ora che l'estate è passata, occorre qualcosa di più concreto per rinsaldare il patto con i cittadini.
In fondo il 41 per cento delle europee era stato il prodotto dello slancio iniziale. Adesso la ricerca del consenso diventa una partita più complicata e richiede tempi lunghi. Per meglio dire, è quasi inevitabile, almeno a breve termine, la contraddizione fra interventi riformatori efficaci e gradimento popolare ai massimi livelli. La tentazione di ricorrere all'arma letale, ossia al populismo per aggirare il contrasto è sempre incombente. Ma sarebbe un errore fatale che segnerebbe la degenerazione dell'esperimento renziano. E infatti il premier evita di farvi ricorso in modo massiccio, se non per gli attacchi alle "rendite di posizione" dei "privilegiati", rendite che ovviamente devono essere smantellate.
In realtà il problema di cui il premier è consapevole consiste nell'attuare le riforme che l'Europa pretende dall'Italia. Riforme fondamentali nel campo del lavoro, della competitività, della giustizia civile. L'agenda ormai la conoscono tutti. Ma tali trasformazioni sono spesso socialmente dolorose. Non solo. Esse colpiscono feudi politici che quasi sempre coincidono con serbatoi elettorali a cui è molto difficile rinunciare. Quanto alle decisioni che non presentano costi ma solo benefici (dalle assunzioni dei precari della scuola ai mille nuovi asili), è ovvio che non si tratta di riforme, bensì di nuove spese in un momento in cui le risorse non ci sono, ovvero – quando ci sono – andrebbero destinate a ridurre il deficit e a contenere il debito.
Sono questioni ben note dalle parti di Palazzo Chigi. D'altra parte, Renzi è un politico che non intende commettere un suicidio politico. Si rende conto che la Germania non rinuncerà alla religione del rigore, tanto meno adesso che il partito anti-euro tedesco ha preso il 10 per cento in Sassonia. Al tempo stesso, la sua stessa retorica gli impone di continuare a nutrire l'immaginario collettivo con lo scenario consolatorio di riforme che non fanno male, tranne che alla "casta" dei privilegiati. La sfida fra realismo e illusione non è dunque risolta: è solo spostata in avanti.

Corriere 2.9.14
Cinque Regioni seguono la Toscana
Via all’Eterologa senza la Legge
Sì di governatori e assessori di Emilia Romagna, Liguria, Piemonte, Umbria e Veneto
di Margherita De Bac


Nel dichiarare illegittimo il divieto di eterologa, la Corte Costituzionale aveva motivato la sua decisione con la necessità di eliminare la discriminazione tra le coppie infertili. La diseguaglianza rischia di permanere in mancanza di una disciplina organizzativa che renda uniformi anche nei tempi l’attività dei centri. Le Regioni, in assenza di linee guida nazionali, si preparano a partire da sole, con modalità e date differenti. La situazione a «macchia di leopardo» che tutti scongiuravano.
La prima ad allungare il passo è stata la Toscana, molti altri assessori e presidenti dichiarano di essere determinati a seguirla. Come Emilia Romagna, Liguria, Piemonte, Umbria e Veneto. Mentre Lombardia e Campania frenano: «Una legge è necessaria per garantire la massima tutela a donne e embrioni. Altrimenti rischiamo un secondo caso Stamina», afferma l’assessore alla Sanità Mario Mantovani respingendo ogni ipotesi di scavalcare il Parlamento. E Raffaele Calabrò, consulente del governatore campano Stefano Caldoro, aggiunge: «Muoversi in autonomia non è corretto».
Il vertice
Domani mattina iniziano gli incontri per costruire un indirizzo comune. I tecnici regionali si riuniscono a Roma seguiti nel pomeriggio dagli assessori coordinati da Lucio Coletto, del Veneto. Il giorno dopo sarà il turno dei governatori. Il presidente Sergio Chiamparino ha convocato una seduta straordinaria della Conferenza delle Regioni: «Dobbiamo evitare che un terreno così difficile si trasformi in una giungla, che favorirebbe la fortuna di un mercato parallelo. È una materia delicata, tanti criteri da definire tra i quali la selezione e l’età massima e minima dei donatori di gameti e ovociti, numero massimo di donazioni, l’anonimato, il costo del ciclo di trattamenti che la Lorenzin prevedeva sarebbe stato coperto in ospedale dal servizio sanitario, fatto salvo il ticket».
«Ci sono le premesse per raggiungere un accordo, il riferimento è il decreto scritto dal ministro», sostiene con ottimismo Carlo Lusenti, assessore alla Sanità in Emilia Romagna che da urologo si occupava di infertilità maschile a Reggio Emilia in uno dei migliori centri pubblici italiani. Se però non si troverà un punto di incontro, aggiunge, «è chiaro che noi andremo per conto nostro, in autonomia. Lo dobbiamo ai cittadini e non vogliamo aspettare all’infinito. Se la strada comune non sarà perseguibile entro metà settembre noi deliberiamo. Ma nel frattempo il Parlamento cosa fa?».
Alle Camere
Fallito ad inizio agosto il tentativo del ministro della Salute Beatrice Lorenzin di far approvare un decreto, la materia è passata alle Camere. I capigruppo hanno ricevuto il testo preparato per l’esame di Palazzo Chigi. Il lavoro di deputati e senatori é ripreso ieri: «È un tema che richiede una riflessione — dice Luigi Zanda, pd, che non scommette sulla rapidità —. Noi chiederemo una calendarizzazione immediata. Immagino che queste norme dovrebbero entrare a far parte di un provvedimento già avviato, non credo sarà materia a se stante».
C’è chi prevede che alla legge non si arriverà mai, un tema che suscita troppe allergie politiche. Ecco perché gran parte delle Regioni intendono agire per conto proprio tanto più che la Corte Costituzionale nella sentenza ha affermato che «non c’è vuoto normativo» e l’eterologa può essere di immediata esecuzione, principio ribadito da due decisioni-gemelle di due Tribunali.
La delibera toscana
La Toscana non se lo è fatto ripetere. Già a fine luglio, dunque prima che la Lorenzin fosse pronta col decreto, la giunta presieduta da Enrico Rossi ha approvato una delibera per dare il via all’eterologa: «Abbiamo fatto bene ad andare avanti — si dice convinto l’assessore Luigi Marroni —. Al centralino di Careggi sono piovute richieste, appuntamenti fissati fino a dicembre. Noi non ci siamo inventati nulla. Tutto era già stabilito da linee guida di società scientifiche e dal ministero». Al Careggi dal 18 agosto ad oggi sono arrivate oltre 150 prenotazioni, la metà riguardano coppie che risiedono in altre Regioni e alle quali le Asl dovranno rimborsare alla sanità toscana la prestazione con tariffe maggiorate. Insomma, la fuga in avanti è anche un investimento .
I rimborsi
Luca Zaia, governatore del Veneto, è determinato a fare come i toscani: «Se un governo non decide, ci pensiamo noi. È una questione di civiltà. Noi siamo all’avanguardia. I primi ad aver riconosciuto il rimborso delle cure a donne fino a 50 anni (in Toscana il limite è 40) con un massimo di tre tentativi». In Liguria il vicepresidente Claudio Montaldo esprime lo stesso orientamento: «Ci eravamo preparati a cominciare subito, vista la buona volontà di trovare un accordo regionale aspettiamo purché i tempi non siano biblici. Il pericolo è che si crei una disparità tra i cittadini. C’è il settore privato in gran movimento. Se poi il Parlamento interverrà con una legge rispetteremo le regole superiori».
Dall’Umbria il presidente Catiuscia Marini è dello stesso avviso: «Il Parlamento potrebbe impiegare un anno a decidere. Noi dobbiamo disciplinare il settore. La Toscana ha agito correttamente ma il primo obiettivo deve essere l’unitarietà». Nel Lazio è tutto in alto mare. La fase di accreditamento é ancora indietro malgrado le promesse del presidente Nicola Zingaretti. C’è un unico centro pubblico in funzione, al Sant’Anna con lunghe liste di attesa per la fecondazione omologa, senza donatori. Di eterologa non si parla.
E i privati non stanno a guardare. I clienti dell’eterologa fanno gola. Alcune cliniche straniere dopo aver perso la clientela italiana, che a causa del divieto tentava di avere figli all’estero, stanno organizzando succursali di appoggio in Italia e potrebbero approfittare della confusione .

il Sole 2.9.14
Domani le linee guida
Scuola, un miliardo per le assunzioni del piano Giannini
di Claudio Tucci


ROMA Rilancio dell'autonomia scolastica. Decollo dell'organico funzionale (professori in più da assegnare a reti di scuole). Valutazione degli istituti e quindi dei docenti (con premi a chi si impegna di più).
Il governo pubblicherà domani sul sito dei «Millegiorni» (passodopopasso.italia.it) le linee guida di riforma della scuola. Non ci sarà un Consiglio dei ministri ad hoc, ha reso noto il premier Renzi, che nel tardo pomeriggio di ieri ha incontrato il ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, per discutere degli ultimi nodi. Soprattutto il capitolo "docenti", dopo le anticipazioni su questo giornale di un piano per assumere 100mila insegnanti dal 2015, e lo slittamento dell'intero pacchetto venerdì scorso per approfondire le fonti di copertura economica dell'operazione (fino ad allora portata avanti senza interlocuzione con il ministero dell'Economia).
Il piano dell'esecutivo è la copertura di tutti gli "spezzoni" di cattedre intere (docenti in servizio fino al termine delle attività didattiche - in tutto 12/13mila posti), del turn-over (circa 20mila posti l'anno), delle supplenze annuali (circa 40mila), degli insegnanti di sostegno utilizzati in organico di fatto (circa 20mila), oltre a dotare le reti di scuole di un cospicuo contingente di professori (l'organico funzionale) da utilizzare per tutte le esigenze della didattica. Una manovra che, complessivamente, potrebbe portare all'assunzione stabile, dal 2015, anche di più dei 100mila docenti originariamente previsti. Per un costo stimato di oltre un miliardo di euro.
Il faccia a faccia tra Renzi e Giannini, e - subito dopo - tra il premier e il ministro dell'Economia, Padoan è servito ad avere contezza dell'ambiziosissimo piano, e ad abbozzare le prime ipotesi di coperture (trattandosi di linee guida e non ancora provvedimenti normativi). Padoan, a quanto si apprende, avrebbe dato un assenso di massima alla maxi tornata di assunzioni. Quanto alle coperture si starebbe ragionando su una novità assoluta: un intervento sugli scatti d'anzianità dei neo assunti (non varrebbe quindi per chi è già in servizio) per rendere meno onerosa la ricostruzione di carriera (che, a legislazione vigente, è la voce di costo più salata perché chi viene immesso in ruolo ha già tanti anni di precariato e quindi di servizio alle spalle). Altri fondi potrebbero arrivare rimodulando il piano triennale di assunzioni in atto previsto dal decreto Carrozza. E, solo se ci fosse ancora bisogno di risorse, si utilizzerebbero i risparmi della spending review. In ogni caso, i tempi non si annunciano brevi. Infatti, pubblicate le linee guida, seguirà una consultazione pubblica, e al termine si definiranno i provvedimenti normativi. Solo allora saranno messe nero su bianco le coperture definitive, che saranno poi "vistate" dalla Ragioneria generale dello Stato.
«Vogliamo un cambiamento radicale - spiega al Sole24Ore, Davide Faraone, responsabile Scuola e Welfare del Pd -. Daremo attuazione all'autonomia scolastica, fortemente voluta dal centro-sinistra. Punteremo su flessibilità curriculare e, per la prima volta in Italia, presenteremo un progetto organico sull'alternanza scuola-lavoro per avvicinarci al modello duale tedesco». Oltre al capitolo "docenti" infatti le misure sulla scuola disegnano un piano articolato di interventi: dalle "competenze" dei ragazzi con più storia dell'arte nei licei, un rafforzamento dell'inglese e dell'informatica già alle scuole primarie. Si punta poi ad avvicinare istruzione e mondo del lavoro, con il raddoppio delle ore di formazione in azienda, più apprendistato a scuola, e incentivi fiscali per i privati che investono negli istituti scolastici, in particolare nei laboratori. Ambizioso anche il cambiamento sui presidi: saranno sempre più "manager", con un ridisegno degli organi collegiali per distinguere tra potere di indirizzo e potere di gestione (quest'ultimo saldamente in mano ai dirigenti).

il Fatto 2.9.14
Roma spreca i soldi del museo della Shoah
di Alessandro Ferrucci


DOPO TANTI INVESTIMENTI, L’OPERA ATTESA DAI TEMPI DI VELTRONI NON SI FARÀ A VILLA TORLONIA, MA NEL QUARTIERE COSTRUITO DAL DUCE

In silenzio, piano piano, durante agosto, amministratori in vacanza, uffici chiusi, la distrazione impera. È in questo ultimo mese che l’amministrazione capitolina ha pensato (secondo fonti interne al Campidoglio “ha già deciso”) di spostare la sede assegnata per il museo della Shoah, previsto a villa Torlonia, e di predisporre una location nuova e ancora imprecisata nel quartiere dell’Eur. La motivazione è nascosta dietro il fattore “tempo”. Tradotto: così lo inauguriamo in pochi mesi, anzi a gennaio, il 27 gennaio 2015, in occasione dei 70 anni dalla liberazione di Auschwitz. Per questo motivo, parte della comunità ebraica, in primis l’86enne Piero Terracina, si dichiara entusiasta, ha dato il suo avallo, vede davanti a sé la possibilità di chiudere una vicenda partita nel 2006 con la gestione Veltroni. Peccato ci siano i dubbi di altri, mondo ebraico e non, dubbi non piccoli che passano dalla sfera economica, a quella logistica, fino a toccare delle corde storiche.
Andiamo per punti. Il Comune di Roma ha già acquistato l’area di villa Torlonia, 15 milioni l’esborso, con tanto di delibera secondo la quale quei fondi sono destinati al Museo e non ad altro. Inoltre il governo di Mario Monti ha escluso 21,7 milioni dal Patto di stabilità che la Cassa depositi e prestiti è pronta a erogare a Roma Capitale per coprire i costi di costruzione. Questi 21,7 milioni non potrebbero essere più utilizzabili, nel caso di altra location.
LOGISTICA. Pierluigi Borghini, presidente di Eur spa, ha dichiarato a Repubblica di aver dato la disponibilità per 3 mila metri quadri anche se dal Comune pensano di arrivare a seimila (“oltre il doppio di villa Torlonia”, dicono in Campidoglio”). “Non è così – interviene l’architetto Luca Zevi, responsabile del progetto museo della Shoah –, nelle nostre carte abbiamo ragionato su 2.500 metri quadri espositivi, più altri 2.500 dedicati a bookshop, sala conferenze e il resto. È tutto pronto e se assegnano gli appalti, in due anni chiudiamo tutto”.
Terzo punto, la storia. L’Eur è stato inaugurato dal Duce nel 1942 in occasione dell’Esposizione Internazionale, colpo di coda di un Regime alla fine, di un dittatore alla fine, quindi il Museo dovrebbe collocarsi in quei locali, realizzati negli anni in cui si consuma lo sterminio.
“Ma il punto è uno – spiega Fabio Perugia, portavoce della Comunità ebraica capitolina – la maggior parte di noi è felice per l’ipotesi di poter far partecipare i sopravvissuti della Shoah all’inaugurazione del museo. Quindi, se dobbiamo scegliere tra un progetto bellissimo come quello di Zevi, ma senza data fissata, e uno meno bello ma certo nella consegna, preferiamo il secondo”. Nella scelta, esiste anche la terza via, indicata da Terracina al Corriere: “Inauguriamo il 27 all’Eur e aspettiamo la sede definitiva a villa Torlonia”. Nel frattempo resta il fattore tempo, e dopo anni e anni di attesa, di polemiche, di promesse, diventa determinante per molti, nonostante i soldi già spesi e altri finanziamenti che andranno persi.

Corriere 2.9.14
Quei sorpassi subiti in rete
di Gian Antonio Stella


Ci ha spezzato le reni, per dirla ironicamente col Duce, anche la Grecia. Da ieri, sentenzia il sito netindex.com che misura la velocità di download domestica sulla base di cinque milioni di test al giorno, siamo novantottesimi al mondo. Dopo l’amata e malmessa Ellade e davanti al Kenya. Nel dicembre 2010 eravamo al 70º posto. Nel dicembre 2012 all’84º. Sempre più giù, giù, giù...
Coi nostri mediocri 8,51 megabyte mediamente scaricabili al secondo siamo ultimi tra i Paesi del G8 (penultimo è il Canada che svetta dal 23,09: il triplo), penultimi tra quelli europei davanti alla Croazia e ultimissimi tra i 34 dell’Ocse. Abissalmente lontani dalla velocità con cui scaricano dal Web i cinesi di Hong Kong, quasi undici volte la nostra, ma anche i sudcoreani, gli svedesi, gli svizzeri. C’è chi dirà: si tratta di realtà disomogenee e in qualche modo eccentriche rispetto alle realtà economiche, tanto da vedere ai primi posti per eccellenza della Rete la Romania, dove però i cittadini dialogano ancor peggio di noi con gli sportelli informatici pubblici.
Vero. Resta il fatto che in classifica siamo staccati di 58 gradini dalla Cina, 65 dalla Spagna, 69 dalla Germania, 71 dalla Gran Bretagna, 76 dalla Francia con la quale fino a una dozzina di anni fa eravamo sostanzialmente alla pari. Per non dire della velocità di upload, cioè del tempo che si impiega per caricare un documento in Rete: quattro anni fa eravamo ottantaseiesimi. Oggi siamo al 157º posto. Molto ma molto più distanti dalla Francia che dal Congo o dal Burkina Faso.
Ora, se il Web servisse solo ai ragazzini per dibattere dei tatuaggi preferiti o alle amanti della tisana per consigliare la menta piperita, poco male. Il nodo, come dimostra un’analisi di MM-One Group su dati Eurostat, è che la Rete è sempre più un volano per l’economia. Il fatturato delle imprese europee ricavato dal Web nel 2013 è stato in media del 14%. Ma la Gran Bretagna e la Slovacchia sono già al 18, la Repubblica ceca al 26, l’Irlanda al 31%: quasi un euro su tre, a Dublino e dintorni, arriva via Internet. Noi siamo al 7%: la metà o meno delle altre europotenze. Per non dire del turismo, che vive un boom spropositato a livello planetario ma che solo parzialmente ci sfiora nonostante il nostro immenso patrimonio culturale, paesaggistico ed enogastronomico.
Il business vacanziero europeo dipende per un quarto dal Web ma la quota si impenna fino al 39% nel Regno Unito. Noi siamo al 17%: nettamente sotto la Francia e la Spagna, le concorrenti dirette. Quanto al rapporto fra cittadini e pubblici sportelli, un’altra ricerca MM-One sui Paesi che sfruttano meglio le potenzialità della Rete dice che, se la Danimarca sta a 100, noi siamo a 9. Umiliante. Come se mancasse la consapevolezza, al centro e in periferia, di quanto il settore sia centrale. Come se nessuno si fosse accorto che perfino qui da noi, negli ultimi anni, come spiega l’Agenda digitale italiana, il Web ha creato 700 mila posti di lavoro: sei volte più degli addetti di un settore storico quale la chimica.
Eppure, davanti a un quadro così, lo stesso governo del primo premier incessantemente affaccendato tra Facebook e Twitter, WhatsApp ed Instagram pare aver deciso, stando alle bozze dello Sblocca Italia, di limitare gli aiuti per l’estensione della banda larga, sulla quale siamo in angoscioso ritardo sulla tabella di marcia europea, agli sgravi fiscali (sostanziosi o meno non si sa) per chi investirà sulle «aree a fallimento di mercato», quelle dove gli operatori non mettono soldi per paura di perderci. Che dire? #inboccaallupo .

Repubblica 2.9.14
I dossier segreti della Farnesina
Ecco le carte della verità sulla strage di Ustica
di Enrico Bellavia e Alberto Custodero


Sul nostro sito il “Memorandum” preparato nel 2000 per D’Alema e Amato. Quindi le denunce del Sismi a Gheddafi
DISSIDENTI libici accusano Gheddafi di aver abbattuto il Dc9 Itavia. Il leader libico accusa gli americani. E gli americani prima negano di avere portaerei nel Tirreno. Salvo poi essere smentiti e contraddetti.

LE PRIME carte desecretate dal decreto Renzi sulle stragi sono del ministero degli Affari Esteri. Consultabili da ieri presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, svelano risvolti inediti della diplomazia segreta internazionale sviluppatasi attorno al caso Ustica. Migliaia di fascicoli sui quali i timbri «segreto » e «segretissimo» si sprecano in un affastellarsi di protocolli riservati, dal Sismi che si lamenta «della attività criminali » di Gheddafi che invia i killer ad uccidere i dissidenti riparati all’estero. Alle richieste dai toni ricattatori che Tripoli avanza a Roma per ottenere il risarcimento dei danni per le mine disseminate in Libia dagli italiani durante la Seconda Guerra. Da queste prime carte desecretate s’intravede quel “Muro di gomma” - di cui ha parlato il regista Marco Risi nel 1991 - contro il quale per così tanto tempo è rimbalzata la verità sulla strage di Ustica. Ma il mistero di quel volo tirato giù da un missile nel cielo di Ustica il 27 giugno del 1980, con 81 persone a bordo, resta.
BACCOUCH E LA PISTA LIBICA
Il 3 maggio 1992, dodici anni dopo la strage, nel 1992, l’ambasciata del Cairo informa il ministero degli Esteri che il giudice Rosario Priore ha chiesto e ottenuto che venga interrogato dagli egiziani l’ex primo ministro libico Abdel Hamid Baccouch. Quest’ultimo conferma che «il bombardamento dell’aereo dell’Itavia » è opera «di un aereo libico per or- dine diretto di Gheddafi». Secondo Baccouch, «il presidente libico, da lui considerato elemento mentalmente squilibrato avrebbe personalmente diretto una serie di attentati terroristici di cui la strage di Ustica rappresenta solo un episodio anti-italiano organizzato come reazione all’azione italiana di garanzia della neutralità di Malta che annullava il controllo esclusivo da lui tentato sul primo ministro maltese Dom Mintoff».
LA CONFUSIONE SUI ROTTAMI
L’ambasciatore di Tripoli, Alessandro Quaroni, invia decine di telex classificati “segreto” ricostruendo nei dettagli l’escalation delle versioni libiche prima sull’abbattimento dell’Itavia, poi sul misterioso incidente del Mig libico schiantatosi sui monti della Sila in quei giorni. Ecco una sintesi delle sue relazioni top secret. Per la verità ufficiale, scrive Quaroni, l’aereo è caduto un mese dopo la strage di Ustica, a luglio. Ma dai documenti ora disponibili emerge con tutta evidenza quanta disponibilità e fretta le autorità italiane abbiano messo nello sbarazzarsi del corpo del pilota, reclamato dai libici che sostengono trattarsi di un aviatore esperto rimasto vittima di un improvviso malore che lo avrebbe portato fuori rotta. Il carteggio custodito e coperto finora da massima segretezza è tutto un susseguirsi di raccomandazioni alla «sollecitudine» e di inviti ad assecondare la richiesta dei libici di una propria commissione ispettiva che viene accolta in Italia e dalla quale si riceverà poi la verità su quell’incidente.
IL GIALLO DEI VOLI
In un inedito e scottante “Memorandum” del 2000 redatto dai consiglieri diplomatici della Farnesina e dall’intelligence, c’è tutta la storia delle relazioni tra i nostri governi e quelli del resto del mondo. I presidenti del Consiglio Massimo D’Alema e Giuliano Amato, in particolare, si rivolgono alle più alte autorità francesi, americane e libiche per chiedere di fare luce sulla strage. Buona parte del documento è dedicato al balletto di verità e smentite circa l’esistenza di una intensa attività di traffico militare nel Tirreno nella note del 27 giugno 1980.
LE RESISTENZE DEGLI USA
È ancora il “Memorandum” a ricostruire la cronistoria delle bugie e delle mezze verità degli Usa. In un documento del 3 luglio 1980, infatti, gli americano affermavano che «nell’area dell’incidente non vi era alcuna nave né aereo statunitense, ivi compresi quelli della sesta flotta». Risulta al contrario non solo il movimento di aerei americani ma anche di altri non identificati perché privi di sigla ma decollati da portaerei americani o francesi. Gli Usa, tuttavia, continueranno a sostenere il fermo diniego anche negli anni successivi, anche di fronte all’evidenza fino a negare l’esistenza di registrazioni radar. A smentirli era però il comandante della loro portaerei Saratoga che sosteneva di aver notato «un traffico aereo molto sostenuto nell’area di Napoli soprattutto in quella meridionale: sul radar abbiamo visto passare molti aerei».
IL MISTERO DEL CASCO
Una informativa declassificata della Farnesina inviata al ministro degli Esteri, rivela che un casco con la scritta John Drake, ritrovato in mare, vicino al luogo in cui precipitò il Dc 9, era da attribuire a un pilota americano che, decollato da un mezzo navale, aveva dovuto lanciarsi in mare «qualche tempo» prima dell’incidente di Ustica. Il casco era finito all’aeroporto palermitano di Boccadifalco insieme con altri reperti ripescati in mare a Ustica. Ma è sorprendente quel che accadde dopo: il casco seguì gli altri reperti quando furono trasferiti da Palermo a Napoli «ma è andato smarrito o con più probabilità è stato fatto sparire».
L’ITALIA E IL COLONNELLO
A febbraio del 1980, di fronte alle autorità nordafricane che premono per una visita in Italia di Gheddafi, il ministero degli Esteri frena, imbarazzato. Tuttavia sono passi felpati e dinieghi attendisti per non urtare la suscettibilità del Colonnello. L’allora ministro degli Esteri Franco Malfatti raccomanda «prudenza» ai diplomatici che trattano con i libici.

Repubblica 2.9.14
Se il Caos domina il mondo
di Thomas L. Friedman


GLI Stati Uniti sono sommersi da bambini profughi, in arrivo dai paesi in pieno tracollo dell’America centrale; gli sforzi volti a contenere la grave epidemia di Ebola in Africa occidentale stanno mettendo a dura prova i governi locali; all’interno di Iraq e Siriagli jihadisti si sono ritagliati un califfato assetato di sangue; dopo aver già inghiottito la Crimea, la Russia cerca di smangiucchiare qualche altro pezzo di Ucraina; e l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha appena annunciato che “per la prima volta dal secondo dopoguerra a oggi il numero dei profughi, dei richiedenti asilo e degli sfollati interni ai paesi in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone”. Se vi sembra che il mondo del disordine si stia espandendo a spese del mondo dell’ordine, non rimproverate la vostra immaginazione. Dietro a tutto ciò è in atto una logica infausta.
Tre grandi trend stanno per convergere. Il primo è quello che uno dei miei maestri, Dov Seidman, definisce il crescente numero nel mondo di persone “non libere”, milioni di esseri umani che «si sono garantiti un certo tipo di libertà, ma nonostante ciò si sentono “non liberi”, perché ormai sono consapevoli di non avere il tipo di libertà che più conta».
Seidman, autore del libro “How” e direttore esecutivo di Lrn, un servizio di consulenza per le multinazionali sulla governance, sottolinea che se da un lato si è data un bel po’ di ben motivata attenzione agli effetti destabilizzanti delle disparità di reddito, dall’altro sta emergendo una nuova disparità, altrettanto destabilizzante: “Parlo della disparità di libertà, tale da provocare ancora più caos”.
Questa affermazione potrebbe risultare stravagante. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la destituzione dei dittatori nelle primavere arabe, come è possibile che più persone rispetto a prima si sentano “non libere”? Seidman osserva il mondo attraverso la duplice lente della “libertà da” e della “libertà di”, e sostiene che negli ultimi anni «sempre più persone si sono garantite la loro “libertà da”, affrancandosi da vari dittatori in molti paesi». Tanto per citarne alcuni, tunisini, egiziani, iracheni, libici, yemeniti. “Molto poche, però, sono le persone che hanno raggiunto la possibilità di accedere a quel tipo di libertà che a noi sta veramente a cuore” ha continuato. «E non parlo soltanto della “libertà da”, ma della “libertà di”». La ‘libertà di’ è la libertà di poter vivere la propria vita, esprimere la propria opinione, fondare il proprio partito o la propria azienda, votare per il proprio candidato preferito, ricercare la felicità ed essere sé stessi, a prescindere dal proprio orientamento sessuale, religioso o politico. “Per tutelare e rendere possibili tutte queste libertà” dice Seidman, “sono indispensabili quelle leggi, quelle regole, quelle normative, quella reciproca fiducia e quelle istituzioni che si possono creare soltanto a partire da valori pienamente condivisi e per opera di persone che credono di essere incamminate tutte insieme lungo un medesimo itinerario che va dritto al progresso e al benessere”.
Queste istituzioni e questi sistemi giuridici fondati su valori sono proprio ciò a cui molte società non sono riuscite a dar vita dopo aver rovesciato i loro regimi autocratici. Questo fenomeno spiega perché oggi il mondo può essere diviso quindi in tre tipologie di luoghi: paesi con quello che Seidman chiama “l’ordine sostenibile”, ovvero l’ordine basato su valori condivisi, istituzioni stabili e politiche concordate; paesi ai quali l’ordine è imposto, e quindi paesi in cui l’ordine, imposto dall’alto, dipende da una leadership dal pugno di ferro oppure si regge in piedi grazie agli introiti derivanti dal petrolio, o ancora a una combinazione di entrambe le cose, ma in ogni caso non scaturisce da valori o istituzioni condivise; e infine intere regioni nelle quali regna il disordine, come Iraq, Siria, America centrale, e aree sempre più vaste dell’Africa settentrionale e centrale, dove a tenere uniti gli stati non sono più né un pugno di ferro dall’alto né valori condivisi dal basso.
L’ordine imposto, dice ancora Seidman, “deriva dal fatto di avere potere sul popolo e l’autorità formale di costringerlo alla fedeltà e forzarlo all’obbedienza”, ma entrambe queste cose sono molto più difficili da mantenere oggi, in que- sta nostra epoca di cittadini e subordinati sempre più in grado di appropriarsi del potere, informarsi e connettersi, sempre più capaci di collegarsi e collaborare tutti insieme per allontanare l’autorità che reputano illegittima. “Esercitare il potere formale su una popolazione” aggiunge Saidman, “sta diventando sempre più elusivo e oneroso”, sia in termini di numero di persone che si devono eliminare, uccidendole o rinchiudendole in prigione, sia in termini di soldi da spendere per anestetizzare il popolo e costringerlo a sottomettersi o all’indifferenza — “e in definitiva non è sostenibile”. L’unico potere sostenibile in un mondo nel quale sempre più persone avranno la “libertà da”, sostiene Seidman, “sarà il potere che si basa su un dialogo vero con il popolo, il potere che si regge sull’autorità morale che ispira una cittadinanza costruttiva e crea il contesto giusto per creare la ‘libertà di’”. Tuttavia, tenuto conto che dar vita a leadership e istituzioni a tal punto sostenibili è complesso e richiede molto tempo, nel mondo di oggi ci troviamo molti più vuoti, vuoti fatti di disordine, vuoti nei quali la gente ha conquistato sì la “libertà da”, ma senza conseguire la “libertà di”.
La più grande sfida per il mondo dell’ordine, oggi, è dunque collaborare per contenere questi vuoti e riempirli di ordine. Questo è quanto il presidente americano Barack Obama sta cercando di fare in Iraq, chiedendo agli iracheni di dar vita a un governo inclusivo e sostenibile, e di collaborare con ogni ti- po di intervento militare degli Stati Uniti contro gli jihadisti locali. In caso contrario, in Iraq non ci sarà mai un ordine in grado di automantenersi, e gli iracheni non saranno mai liberi davvero. Contenere i vuoti e restringere il mondo del disordine è un compito immane, proprio perché comporta un enorme processo di “nation-building”, che va ben oltre le capacità effettive di qualsiasi paese. E questo ci porta al secondo preoccupante trend odierno: la debolezza e la disgregazione del mondo dell’ordine. L’Unione europea è impantanata in una recessione economica e nella disoccupazione. La Cina si comporta come se fosse su un altro pianeta, ben felice di fare l’opportunista nel sistema internazionale. Il presidente russo Vladimir Putin in Ucraina sta dando vita a una fantasia zarista paranoide, mentre il mondo jihadista del disordine sta espugnando sempre più terreno nel sud del pianeta.
Se adesso aggiungiamo il terzo trend, non si può fare a meno di inquietarsi davvero: l’America è una specie di paletto che regge in piedi l’intero mondo dell’ordine. La nostra incapacità, però, di metterci d’accordo su politiche in grado di garantire il nostro dinamismo a lungo termine — una legge per l’immigrazione che spiani la strada a immigrati volenterosi e di talento; una carbon tax compensata da altri tagli alle imposte in sostituzione delle imposte sui redditi e sulle società; un governo che contragga prestiti a tassi bassi per ricostruire le nostre infrastrutture e creare posti di lavoro, e al contempo scaglioni sul lungo periodo il riequilibrio fiscale — è l’incarnazione stessa della mancanza di lungimiranza.
“Se non avremo successo nel difficile compito di costruire alleanze in patria” dice David Rothkopf, autore del libro di prossima uscita “National Insecurity: American Leadership in an Age of Fear”, “non avremo mai la forza o la capacità di costruirle in giro per il mondo”.
La Guerra Fredda interessò due visioni opposte di ordine, il che significa che entrambi i versanti vivevano in un mondo di ordine e tutto ciò che dovevamo fare noi, in Occidente, era collaborare quanto bastava a contenere il Comunismo/l’Est. Oggi le cose stanno diversamente. Questo è un mondo di ordine contrapposto a un mondo di disordine, e quel disordine può essere arginato soltanto dal mondo dell’ordine, collaborando con i popoli in disordine per dar vita alla loro “libertà di”. “Costruire”, però, è di gran lunga più complesso che “contenere”: richiede molte più energie e risorse. Dobbiamo quindi smetterla di cincischiare in patria come se la nostra epoca fosse sempre quella, quella di sempre — e i nostri alleati, reali o segreti, farebbero bene a svegliarsi anche loro. Proteggere e ampliare il mondo dell’ordine sostenibile è la sfida della vera leadership della nostra epoca.
Traduzione di Anna Bissanti © 2-014 New York Times News Service

Corriere 2.9.14
Il manifesto: non si ripeta un’altra Danzica


Donetsk 2014 come Danzica 1939? Il fantasma della città polacca, dell’inerzia dell’Europa, riassunta in quel «Morire per Danzica?» che portò allo scoppio della Seconda guerra mondiale (sotto, soldati tedeschi alla frontiera tedesco-polacca il 1° settembre 1939 ), aleggia sulla crisi ucraina. Ieri è arrivato il monito di intellettuali e politici polacchi perché non si ripetano gli stessi tragici errori. Un appello pubblicato sui quotidiani polacchi, tedeschi ed ucraini e sottoscritto, tra gli altri, dal regista Andrzej Wajda e dal ministro degli Esteri polacco, lo storico Wladyslaw Bartoszewski che accusano la «Russia, Stato aggressivo» e i Paesi europei di rimanere passivi per tutelare i propri interessi commerciali. Nessun riferimento al Cremlino dal primo ministro di Varsavia, e appena nominato presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk che, parlando, a Westerplatte, vicino a Danzica, in occasione del settantacinquesimo anniversario dell’invasione tedesca della Polonia, ha messo in guardia dalla guerra in Ucraina e da atteggiamenti di «ingenuo ottimismo» in Europa. Con lui il presidente tedesco Joachim Gauck che ha parlato di «rottura» tra Russia ed Europa.

Corriere 2.9.14
Kiev chiama l’Europa: se non intervenite sarà la grande guerra
Governativi in ritirata anche da Luhansk
di Fabrizio Dragosei

MOSCA — Mentre la situazione militare si fa sempre più difficile per il governo ucraino, si alzano i toni: Kiev parla apertamente di stato di guerra con la Russia e prevede decine di migliaia di morti se non si interverrà. Ma allo stesso tempo anche la diplomazia fa passi avanti e per la prima volta i ribelli filorussi sembrano accettare l’idea di rimanere all’interno dell’Ucraina in uno Stato federale. Per capirci, la proposta che Vladimir Putin appoggia da settimane.
Il gruppo di contatto che si è riunito a Minsk si vedrà nuovamente venerdì, ma intanto c’è il pericolo che la situazione sfugga di mano. L’offensiva dei separatisti, che secondo l’Europa sono appoggiati direttamente da più di mille soldati russi (una presenza che il premier britannico Cameron definisce «ingiustificata e inaccettabile»), va avanti e i regolari hanno dovuto sgombrare ieri un importante aeroporto vicino Luhansk. Una nave di Kiev è stata poi affondata con un bombardamento da terra.
Entro fine settimana, se non interverranno fatti nuovi, potrebbero scattare nuove sanzioni dell’Ue nei confronti della Russia. Lo ha ripetuto ieri anche Angela Merkel che sembra aver abbandonato la prudenza dei primi tempi: «Accettare il comportamento della Russia non è più un’opzione».
A soffiare sul fuoco sono in molti, a cominciare dai Paesi baltici e dalla Polonia che parlano di «Stato di guerra della Russia nei confronti dell’Europa» (Lituania), di «Una guerra non dichiarata» (Estonia), e di «Ripetizione del 1939» (il premier polacco e nuovo presidente del Consiglio europeo Donald Tusk).
Ma è chiaro che senza trattative non si può arrivare a un cessate il fuoco e a bloccare il bagno di sangue. Il governo di Petro Poroshenko sostiene che i russi sono in Ucraina con almeno quattro battaglioni e, addirittura, che informalmente hanno minacciato il ricorso a bombe atomiche tattiche (di potenza limitata). Comunque Poroshenko non vuole trattare con i separatisti mentre questi hanno in mano una fetta di Ucraina.
Ma vista la situazione sul terreno, a questo punto non sembrano esserci alternative. L’ipotesi di un intervento europeo, anche se solo per armare gli ucraini, non c’è; come non c’è l’ipotesi ventilata da qualcuno in America di un sostegno aperto di Washington. Allora il cessate il fuoco sembra l’unica via percorribile. Kiev dovrebbe sospendere i bombardamenti e la Russia ritirare gli uomini che «non» sono in Ucraina. A quel punto si potrebbe parlare del futuro del Paese e anche del suo collocamento nello scacchiere internazionale.
L’attuale leadership preme per un riallineamento totalmente a Occidente e lo scioglimento del Parlamento con nuove elezioni dovrebbe portare proprio a una decisione in questo senso.
Ma questo non sarebbe accettato dai filorussi e, probabilmente, non sarebbe nemmeno nell’interesse dell’Europa. Non a caso ieri il nostro ministro degli Esteri Federica Mogherini ha lodato la strada scelta dalla Moldova: «Andare verso Ovest ma anche mantenere buone relazioni con l’Est». Anche Putin ha nuovamente insistito perché i combattimenti vengano sospesi. Ha poi aggiunto che la controffensiva dei ribelli punta soprattutto ad allontanare dai centri abitati le basi dalle quali l’esercito ucraino bombarda le città. Un appoggio alla Russia è venuto dal ministero degli Esteri cinese, contrario a nuove sanzioni: «Non aiutano. L’unica via di uscita è una soluzione politica».

il Fatto 2.9.14
L’internazionale fascio-comunista
di Rob. Zun.


A Yalta, il fine settimana scorso, è avvenuto un piccolo ma intenso capovolgimento della storia, passato inosservato a molti media occidentali. Proprio per il suo valore simbolico, il Cremlino, anche se non direttamente, bensì “attraverso strutture parastatali” – come ha spiegato il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, unico italiano invitato – ha organizzato qui una due giorni intitolata “Russia, Ucraina, Nuova Russia: problemi e sfide globali”.
Nonostante i numerosi ammiratori di sinistra, Vladimir Vladimorovic Putin all’incontro ha voluto solo gli esponenti dei separatisti filo-russi, i leader dei partiti nazional bolscevichi russi (che uniscono istanze comuniste a quelle naziste) e i leader di partiti e movimenti di estrema destra e ultra-nazionalisti europei, che sono dall’inizio della crisi ucraina al suo fianco.
IN UNA CRIMEA che sta vivendo una crisi economica e un calo drammatico del turismo dopo l’annessione unilaterale da parte della Russia lo scorso marzo, quello appena trascorso è stato un week-end animato. A rappresentare Putin c’era uno dei suoi più stretti consiglieri, quel Sergey Glazyev finito nella lista dei funzionari russi colpiti dalle sanzioni economiche. “Ciò che Forza Nuova voleva sottolineare e che ci ha visti tutti d’accordo è che la crisi ucraina è stata concepita dagli Stai Uniti per interrompere quel legame che si era creato negli ultimi anni tra la Russia e l’Europa. E infatti abbiamo presentato una lista di nomi di agricoltori italiani che chiedono a Putin di sollevarli dall’embargo che li sta penalizzando”. Ma Fiore, così come i rappresentanti dei movimenti ultranazionalisti europei presenti concorda anche sul fatto che i separatisti hanno tutte le ragioni per combattere contro Kiev, che la vulgata rossa e rosso nera accusa dall’inizio di Maidan di fascismo. Sembrerebbe quindi una contraddizione che l’estrema destra europea stia dalla parte di Putin. Eppure la situazione è questa, al netto della propaganda. A discutere con i separatisti Glazyev c’era il presidente del British National party, noto per la violenza e razzismo dei suoi militanti dalle teste rasate, Pavel Chernev del Partito neonazista bulgaro, Bartosz Bekier della Falange anti-semita polacca, il gruppo conservatore euroscettico di Vlaams Belang, cioè i separatisti fiamminghi di estrema destra del Belgio. Ospite di riguardo anche lo scrittore svedese Israel Shamir, uno dei più convinti negazionisti dell’Olocausto. Sul campo invece i volontari europei che continuano ad arrivare nel Donbass per combattere a fianco dei separatisti vengono dai movimenti di estrema sinistra, mentre quelli a fianco dell’esercito ucraino, arruolati nel battaglione Azov sono di estrema destra. I separatisti hanno dunque l’estrema destra e l’estrema sinistra europea dalla loro parte.

La Stampa 2.9.14
Quelle minoranze protette da Mosca
Il collasso dell’Urssha lasciato un mosaico di Staticon molte etnie e confini improvvisati Putin vuole riunire il “grande popolo russo”. Baltici e moldavi temono di finire nel mirino
di Anna Zafesova


Vladimir Putin avanza a Ovest, ma intanto gli si apre un fronte alle spalle: Nursultan Nazarbaev, il presidente del Kazakhstan, ha detto che il suo Paese potrebbe anche uscire dalla Unione Euroasiatica che Mosca ha cercato di mettere in piedi con tanta fatica per ricostituire sulle ceneri dell’ex Urss una sorta di anti-Ue.
Il monito del primo e unico leader di Astana, al potere ininterrottamente dal 1989, fa seguito alle incaute parole di Putin sul fatto che ha «costruito uno Stato laddove non è mai esistito». Voleva essere un complimento, ma visto il corso degli eventi in Ucraina Nazarbaev, che mantiene buoni rapporti sia con gli Usa che con la Cina, ha preferito rispondere con durezza. Anche perché i russi etnici sono più di un quinto della popolazione, e il Nord del Paese – abitato soprattutto da russi etnici, molti dei quali venuti a colonizzarlo due secoli fa – è stato più volte rivendicato dai nazionalisti russi, a cominciare da Solzhenitsyn.
È uno dei tanti punti vulnerabili in un’Est pieno di paure, dove il collasso dell’impero «internazionalista» sovietico ha lasciato un mosaico di etnie e Stati con identità e confini improvvisati. E da quando Putin ha proclamato che i russi sono «il più grande popolo diviso» e che la sua missione è proteggere il «mondo russo», la paura di pretese e pretesti aumenta. Qualche mese fa Mosca ha varato una legge che semplifica l’ottenimento della cittadinanza per tutti i sudditi ex sovietici o dell’impero dei Romanov, una mossa funzionale alla creazione di «quinte colonne» negli ex satelliti russi.
Il Baltico è il primo a temere la ripetizione di questo scenario collaudato. In Lettonia e in Estonia i russi – per non aumentare la confusione post-sovietica spesso si parla di «russofoni», in quanto anche altre minoranze come gli ebrei usano il russo – sono un quarto, e occupano posizioni rilevanti nell’economia. E molti di loro ricordano senza troppo piacere le umiliazioni per ottenere il diritto di cittadinanza. Anche se le nuove generazioni preferiscono godere dei privilegi europei, la «quinta colonna» di filo-russi resta cospicua. E l’appartenenza di alcuni territori di confine, come Narva, potrebbe venire facilmente rimessa in discussione.
L’incubo che nessuno vuole rivivere si chiama Transnistria, enclave a maggioranza russa ribellatasi alla Moldova già 25 anni fa e da allora oscura nazione non riconosciuta che oggi manda i suoi uomini addestrati a Mosca a Donetsk. Ad aprile, dopo l’annessione della Crimea, la Transnistria ha chiesto di unirsi alla Russia, ma non ha mai ricevuto risposta. Ma oggi, se si realizzassero i piani dei separatisti di scavarsi un «corridoio» nel Sud-Est ucraino, potrebbe congiungersi con la «Nuova Russia» che il Cremlino vorrebbe disegnare in quella regione.
Ma a preoccuparsi non sono solo gli ex satelliti di Mosca che oggi guardano all’Europa, ma anche i fedelissimi come Alexandr Lukashenko. L’«ultimo dittatore d’Europa» è stato molto cerchiobottista nella crisi ucraina, e si è rifiutato di aderire all’embargo sui prodotti occidentali imposto da Putin, meritandosi qualche giorno fa rimproveri pubblici di «contrabbando» (a Mosca si segnalano già apparizioni di «autentico parmigiano bielorusso» con etichette cambiate a Minsk). I sudditi russi di Lukashenko sono l’8%, ma il russo è lingua ufficiale e l’identità nazionale (come l’economia) è talmente fragile da poter soccombere facilmente a eventuali pressioni di Mosca.
Le schegge del «mondo russo» meno a rischio di venire sfruttate come «quinte colonne» sono anche quelle che più avrebbero voluto la protezione di Mosca: i russi nell’Asia Centrale, costretti negli ultimi 20 anni a emigrare o a venire abbandonati sotto il giogo dei nuovi khan post-comunisti. Ma è improbabile che Mosca guardi a Oriente, sia perché il suo braccio di ferro è con l’Europa, sia perché gli emirati del gas e del petrolio, dall’Uzbekistan alla Turkmenia, sentono ormai «l’ombrello» della Cina più vicino di quello russo.

Repubblica 2.9.14
Spagnoli, francesi, italiani ecco la “legione straniera” schierata nel fronte orientale
di Paolo G. Brera

MOSCA I RUSSI , certo. Ma tra i calcinacci e le barricate della «Nuova Russia » devastata dai bombardamenti dell’esercito di Kiev ci sono guerriglieri arrivati da tutto il mondo, per combattere al fronte nell’Est ucraino. E lo fanno in entrambi gli schieramenti, filo-russi e lealisti. Nella carneficina che ha già fatto scavare quasi tremila tombe, Angel lo spagnolo e Viktor il francese sono a Donetsk con la tedesca Margherita, disposti a morire insieme a decine di stranieri per difendere una terra cui non appartengono. Francesco, italiano con una lunga militanza tra i neofascisti di Casa Pound, sta dall’altra parte della barricata, coi filo-governativi, insieme a Mikael lo svedese. Con centinaia di polacchi e combattenti arrivati da mezzo mondo per arruolarsi nei battaglioni volontari, si affiancano in battaglie altrui al demoralizzato esercito di Kiev.
Oltre ai francesi e agli spagnoli che ha intervistato, Paula Slier di Russia Today dice che tra le file dei ribelli separatisti a Donetsk ci sono anche «serbi e polacchi, britannici, israeliani e tedeschi». Mentre i leader del mondo occidentale pianificano e varano sanzioni per punire Putin della “invasione” russa, un’altra invasione strisciante di ragazzi è in corso proprio dai loro stessi Paesi. «Siamo qui per difendere i civili: per favore, salvate la gente del Donbass », dicono Angel Davilla Rivas e Munoz Perez, spagnoli poco più che ventenni, alla telecamera a Donetsk. Mostrano orgogliosi tatuaggi di Lenin e Stalin: «Non sono e non siamo terroristi né mercenari, sono gente che difende la propria casa. Le televisioni occidentali non dicono la verità, questa gente non vuole attaccare Kiev ma solo difendersi, e non capisce perché il governo ucraino li attacca e li uccide. Vogliono solo vivere in pace, chiedono che sia rispettata la volontà che hanno espresso con il referendum, in cui all’80 per cento hanno detto sì all’indipendenza ».
«Io a Putin non mi inchino», dice sul fronte opposto filo-governativo il ceceno Ruslan Arsayev al freelance Oliver Carroll, che lo intervista per Mashable News.
Armato fino ai denti, ha un gattino sulla spalla e una storia di guerra e guerriglia che affonda le radici nella sua famiglia: un fratello, dice, era coinvolto nel dirottamente di un aereo russo in Turchia, costato la vita a due perso- ne; l’altro era un dirigente nel governo clandestino ceceno nella terribile guerra con Mosca. Ora combatte contro i separatisti nel battaglione volontario Aidar in cui militano, secondo quanto riferiscono a Carroll, anche ucraini e bielorussi, e «fino a poco tempo fa anche due canadesi, o forse svedesi ». Svedese è per certo Mikael Skillt, uno che combatte «per la sopravvivenza dei bianchi» nel famigerato battaglione Azov, pesantemente infiltrato dai neonazisti ucraini di Pravi Sektor. Alla Bbc ha detto di essere pronto a combattere anche per Assad, che è contro il «sionismo internazionale », e nelle arcane ragioni della passione politica estrema, in Siria potrebbe trovarsi dalla stessa parte dei francesi Viktor Lenta e Nikola Perovic (di origine serba), oggi in prima linea tra i ribelli del Donbass: intervistati da Le Monde , spiegano che «la Russia è l’ultimo baluardo alla globalizzazione », ma in Francia avevano fondato un movimento di supporto proprio ad Assad.
Da un tetto della povera Donetsk, la deliziosa capitale del Donbass svuotata sotto i colpi di artiglieria sparati dall’esercito di Kiev e dai battaglioni volontari che combattono al suo fianco, la giovane e bella tedesca Margherita Zeider dice che non poteva «rimanere a guardare come i nazisti ucraini ammazzano i civili», e per questo ora è lì a difendere il Donbass casa per casa. Ma sono stranieri anche le «molte decine di polacchi» catturati dai ribelli all’aeroporto di Donetsk. Dalla Serbia erano invece arrivati 205 volontari: «Si uniranno alla brigata “Sevic”», annunciava a luglio Igor Strelkov, l’ex “ministro della Difesa” del Donbass. Secondo il nuovo leader dei ribelli, Aleksandr Zakharchenko, anche turchi e romeni aiutano la causa.
Accanto al neonazista svedese Skillt, nel battaglione Azov combattono il 47enne francese Gaston Besson e l’ultracinquantenne italiano Francesco Saverio Fontana, nome di battaglia “Stan”, fascista militante dagli Anni Settanta, amico di Gabriele Adinolfi e del fondatore di Casa Pound, Gianluca Iannone. Su Twitter affronta una giovane appassionata militante “tedesca e socialista”, Steiner1776: «Sei morta», le dice.

Il Sole 2.9.14
Se la Nato ritrova il senso della sua missione
di Mario Platero


La casa è molto grande, stile Old America. Un cottage nella South Fork di Long Island, con colonne doriche, alberi secolari, una grande tenda che ospita un centinaio di persone venute al tramonto di una delle più belle giornate estive per ascoltare due celebrità della politica internazionale. L'America festeggia anche così il Labor Day Weekend che chiude la stagione: facendo un bilancio di una delle estati più turbolente che si ricordi.
Sotto la tenda ci sono personaggi con importanti ramificazioni economiche e politiche. Molti di loro hanno un patrimonio personale valutato in svariati miliardi di dollari, controllano interi settori, hanno interessi in grandi multinazionali. E molti di loro non sono tranquilli. Anzi, sono decisamente preoccupati per la piega che ha preso l'estate, dalla crisi ucraina a quella siriano-irachena. «Non abbiamo reagito con durezza quando il Califfato ci ha mostrato di che cosa è capace tagliando la testa di un americano - dice uno di loro -. E il Presidente che ha fatto? Ha detto: faremo partire dei capi d'accusa per i colpevoli. Doveva annunciare invece di aver inviato la Settima Flotta sul posto e di aver ordinato 90 attacchi aerei consecutivi». «Abbiamo disordine e instabilità - osserva un altro - due ingredienti deleteri per le prospettive di crescita dell'economia globale nel medio termine. Qui si dà peso all'occupazione che forse non è al massimo del suo potenziale. Ma se non rientriamo da queste crisi parallele il rischio da qui a pochi anni è quello di un nuovo crollo dell'economia».
Insomma, le classi dirigenti americane chiedono un ritorno di leaderhsip. E i due speaker, Strobe Talbot, presidente della Brookings Institution e uno dei maggiori esperti di Russia (è stato inviato di Bill Clinton a Mosca e numero due al Dipartimento di Stato) e Martin Indyk (negoziatore in Medio Oriente per varie amministrazioni) lo confermano: Obama, in partenza per una delle sue più importanti missioni in Europa, dovrà recuperare la sua leadership personale e affermare quella degli Stati Uniti.
Obama parte questa sera per l'Estonia per un vertice con i Paesi baltici e poi volerà in Galles per un summit della Nato che dovrà ridefinire il ruolo dell'Alleanza Atlantica ora che le grandi missioni militari, dall'Afghanistan al Kosovo, stanno per terminare. Il messaggio comune che si percepisce è semplice: senza una forte leadership americana prevale il disordine.
Talbot e Indyk danno un quadro molto preciso delle dinamiche che hanno portato a queste molteplici crisi. Il primo respinge con fermezza le ipotesi di un compromesso con Mosca per la cessione di territori ucraini o le tesi di John Mearsheimer secondo cui Mosca si sta solo difendendo dall'aggressività occidentale che ha spinto i confini della Nato troppo a ridosso della Superpotenza. La logica di Talbot è chiara: la Russia non ha da temere nulla dall'Occidente, è Putin ad essere espansionista seguendo un programma che aveva messo a punto già molti molti anni fa. Ma quel che preoccupa Talbot è il significato dall'oltranzismo russo inpunito per altri Paesi che vogliono procedere con la forza ad annettere territori, proprio come sta facendo l'Isis in Iraq e Siria o come potrebbe fare la Cina con le isole giapponesi. L'ordine va dunque ricostituito e dagli incontri della Nato di giovedì e venerdì non potrà che esserci un messaggio coeso per mettere Putin in guardia. Lo stesso vale per il Medio Oriente.
Barack Obama sta partendo per una delle sue più delicate missioni in Europa. A Tallin riaffermerà la solidarietà della Nato e garantirà l'aiuto diretto dell'America per tutti i Paesi baltici; a Newport, in Galles, avrà l'appoggio di 60 capi di stato e di governo inclusi i 28 membri della Nato per condannare l'azione della Russia e lanciare la nuova missione. Questo vertice Nato doveva essere celebrativo della fine di due missioni militari della Nato, quella in Kosovo e quella in Afganistan. Prima dell'avvitamento delle crisi in Ucraina e in Medio Oriente altre agende avevano la priorità. Si formulerà un impegno comune per agire contro il cyberterrorismo: un attacco cybernetico contro uno stato sarà un attacco contro tutti. Ma durante l'estate l'agenda è cambiata. Non c'è più bisogno di identificare nuove missioni: quella della Nato resta chiarissima, difendere la stabilità dell'Occidente anche al di fuori dei propri confini.

il Fatto 2.9.14
L’Islam dei massacri e l’Islam del petrolio
di Maurizio Chierici


DIECI, venti profughi fra i mille ripescati ogni giorno in mare sono tagliagole senza pietà, cellule feroci alla conquista dell’Europa. Italia e Vaticano in pericolo. Per difendere la democrazia aiutiamo le polizie a catturare le ombre dell’Islam. Siate egoisti, fatevi del bene. Allarme in un certo senso raccolto dai parà della Folgore. Nel cortile della caserma di Siena cantano una vecchia preghiera fascista: “Veniamo dall’inferno/ e andremo in paradiso/ bombe a man/ le carezze col pugnal“. Caccia senza respiro ai terroristi di orribile volontà. Con qualche dubbio. Ogni parola rappresenta mondi complessi e la fermezza che li rassicura può condannare ingiustamente realtà trascurate dall’emergenza. Settant’anni fa marciavano gli stivali di Hitler, la parola “ebreo“ richiamava il delirio del distruggere un popolo. Oggi l’Islam dei califfi apre un problema di coscienza che fa slittare il linguaggio nella sfera delle condanne senza appello. Gli strumenti sono lì: rete globale dei social network, giornali, radio, Tv. Si imbuca e via. Esistono vari modi per spogliare la dignità delle persone, il peggiore è associare popoli e religioni alla criminalità dei rabbiosi. E centomila assassini marchiano un miliardo e mezzo di musulmani. L’integralismo sunnita separa la religione dal potere; l’integralismo sciita la riunisce nella promessa dell’eternità anche se qualche emiro non rinuncia alle convenienze del diventare socio Alitalia e finanziare le stragi degli irriducibili. Dopo l’assassinio del giornalista James Foley, il pericolo jihadista suona l’allarme sulla manipolazione dei giovani musulmani nei suburbi delle nostre città.
FAMIGLIE destrutturate, emarginazione culturale, lavori precari, diffidenza che avvolge abitudini incivili per la nostra civiltà. Senza contare la stravaganza dei problemi che le migrazioni di chi scappa da fame e paura possono suscitare. Anni fa, gli operai della Renault – algerini, pachistani, iracheni – erano ferocemente divisi sul giorno d’inizio del Ramadan: sincronizzarlo al fuso del paese di provenienza o unificarlo nell’ora di Parigi? Intanto le analisi sfumano sulle responsabilità dell’Occidente e l’impunità delle guerre ispirate agli affari. Se il controllo del petrolio impone silenzi che nessun G8 o G10 o G20 ha mai pensato di smascherare, l’impadronirsi delle risorse indispensabili alla buona salute delle Borse si traveste da esportazione di un tipo di democrazia che interpreta in modo bizzarro i così detti diritti umani. Democrazia in Vietnam, diossina che brucia boschi e città. Nelle urne trasparenti di un museo di Saigon galleggiano piccoli mostri, due teste, quattro gambe, effetto dell’agente orange. Deforma i figli dei bambini che l’hanno respirato 40 anni fa. Non solo Usa e capitalismo: Cina e comunismo pompano petrolio nel Sudan, alleati economici del dittatore Al Bashir, accolto a Pechino con onori da regina Elisabetta, non importa l’ordine di cattura internazionale per il massacro di 250 mila oppositori. Dopo mesi di allarmi, Obama condanna il genocidio delle bandiere nere solo quando si avvicinano al petrolio del Kurdistan. Prima non se n’era accorto, strategia che accomuna le economie avanzate all’immensità dell’Islam. Poche voci musulmane hanno condannato lo sterminio. E dopo il tiro al bersaglio di Gaza, Netanyahu dichiara “terra di Stato“ 400 ettari espropriati ai palestinesi attorno a Betlemme. Costruirà una città per sistemare i coloni arrivati dalla Russia. L’Onu non metta naso. Immagino la reazione indignata degli amici ebrei d’Europa e delle Americhe. O si nascondono nel silenzio musulmano?

Repubblica 2.9.14
La storia
I pavimenti sprofondano nella sabbia, la giungla si riprende il “Gulag tropicale”
ma il carcere per i super-jihadisti resta aperto Un monumento alla fallita Guerra al Terrore
Tra celle in rovina e detenuti invecchiati a Guantanamo tramonta la promessa di Obama
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON CORROTTO dal tempo, dalla politica e dal clima tropicale, tra pavimenti di truciolato che sprofondano nella sabbia e ratti che rosicchiano le pareti, Guantanamo resiste ancora, monumento alle mancate promesse di Barack Obama e al fallimento morale della “Guerra al Terrore” di George W. Bush. Settantaquattro uomini vi restano detenuti, senza futuro, vestiti in quelle tute arancione che oggi sono divenute la bandiera simbolica degli orrori perpetrati dai macellai del Califfato dell’Is. Guantanamo vive e lotta per loro.
Dodici anni di inettitudine e di palleggio di responsabilità burocratiche, hanno lasciato il “Gulag Tropicale”, come fu definito da Amnesty International, in uno stato di decomposizione materiale che rappresenta perfettamente il disastro di una strategia che ha prodotto un nemico ancora più feroce, e molto più organizzato, di Al Qaeda. Gli inviati del New York Times lo hanno visitato e hanno trovato «una colonia penale fatiscente che costa 443 milioni di dollari all’anno ai contribuenti», senza chiusura in vista.
Eppure «chiudere Guantanamo», una sconfitta morale e d’immagine che, insieme con le foto di Abu Grahib, gli interrogatori «avanzati » e la consegna di prigionieri ad altre nazioni per torture segrete, è costata all’America più di una battaglia perduta, era stata una delle promesse fatte da Barack Obama nel 2008. Un impegno preso senza fare i conti con l’oste, in questo caso quel Parlamento americano e quei Governatori degli Stati che respinsero, e ancora respingono, l’idea di accogliere sul territorio degli Stati Uniti e nei penitenziari di massima sicurezza i resti di quei 779 «combattenti nemici» che, dall’apertura nel gennaio del 2002, vi sono passati.
Sei anni dopo quell’impegno, e nell’imminenza del ritiro definitivo anche dall’Afghanistan entro il 2016, la semplice realtà è che nessuno, non la Casa Bianca, non il Pentagono, dal quale dipende la base navale nel territorio cubano, non la Cia, non il Dipartimento di Stato e non il Congresso sanno che fare di “Gitmo”, come divenne conosciuto. Milioni di dollari sono stati rovesciati sui resti del gulag tropicale, come acqua nella sabbia. Il più famigerato dei campi, “Camp X-Ray” è stato chiuso e il Tropico se lo è ripreso, invadendolo di vegetazione, sabbia, iguana e robusti «topi delle banane».
Non c’è un ospedale, un centro medico attrezzato per emergenza né per cure di lungo periodo, perché il Congresso ha bloccato nuovi fondi per Gitmo. Paramedici militari provvedono al nutrimento forzato dei detenuti che periodicamente lanciano scioperi della fame e il Pentagono ha designato un numero di medici generalisti e di specialisti negli Stati Uniti a disposizione 24 ore su 24 per essere trasportati nella base. Un processo che comunque richiederebbe molte ore, probabilmente troppe, in casi di urgenze, progressivamente più probabili in una popolazione carceraria che sta invecchiando: l’età media dei detenuti è ormai oltre i 40 anni, con qualche anziano vicino ai 70.
Il governo tenta di negoziare trasferimenti verso nazioni disposte ad accoglierli promettendo, per quel che valgono queste promesse, di tenerli sotto controllo. Il vice presidente Joe Biden aveva personalmente negoziato con il presidente uruguayano Josè Mujica l’invio di sei prigionieri in agosto e un cargo militare era atterrato per caricarli. Ma all’ultimo momento, Mujica, inquieto per l’effetto della notizia sulla sue possibilità di rielezione, ha rinnegato la promessa. Il C17 della Air Force è ripartito vuoto.
La Corte Suprema degli Stati Uniti, attraverso il giudice Stephen Breyer, uno degli ultimi magistrati “liberal” nominato da Clinton 20 anni or sono, ha dato segni di inquietudine e di agitazione, per la continua, evidente violazione del principio fondamentale del diritto anglo-americano, lo “Habeas Corpus”, il divieto di detenere segretamente persone senza incriminazione e senza accesso legale. Ma ancora la Suprema Corte, dopo avere riconosciuto ai sequestrati di Gitmo almeno il diritto alla rappresentazione legale, non ha sciolto la matassa di sentenze, appelli, ricorsi, petizione ingarbugliati da 12 anni di incertezze. I difensori del Gulag nella sabbia fanno notare come una dozzina dei detenuti liberati si siano rituffati in pieno nella guerra e siano ricomparsi in Afghanistan, in Libia, in Siria tra le file delle nuove organizzazioni terroristiche.
Gli oppositori rispondono che proprio quel campo di concentramento è un formidabile strumento di propaganda e di reclutamento per i gruppi del fanatismo anti occidentale e il possibile ritorno di qualche ex detenuto nelle file del terrorismo è ben poca cosa rispetto alle schiere crescenti della jihad violenta.
I campi ancora in funzione, tre sui cinque iniziali, hanno visto introdurre condizioni più umane, per coloro che si comportino bene per un periodo di 90 giorni. Sono state formate zone comuni, nelle quali possono incontrarsi, parlare, pregare insieme. Un monitor di PC protetto da una gabbietta di ferro e collegato in Rete permette di comunicare via Skype con famiglie e amici lontani, ma il numero di suicidi, già tre in questo 2014, resta alto. Come altissime sono le richieste di trasferimento dei Marines — Gitmo è una base della US Navy — costretti a fare da carcerieri, spesso in condizioni materiali non molto migliori di quelle dei loro sorvegliati. «Sei in una piccola stanza», dice uno di loro ai giornalisti. «Non ci siamo arruolati per fare la guardie carcerarie» Obama e il suo ministro della Giustiza, Holder, promettono e si contraddicono, anche loro condizionati dalla imminenza di elezioni, con sondaggi che danno una maggioranza schiacciante, il 70%, di americani favorevoli a lasciare in funzione Guantanamo. Dunque Gitmo rimane, intrappolato da dodici anni in quella zona crepuscolare, in quella equivoca Twilight Zone legale e morale che la Costituzione americana, e il buon senso, dovrebbero avere chiuso da tempo.

il Sole 2.9.14
Tokyo. Sicurezza ed economia al centro della visita del premier indiano Modi
Asse India-Giappone contro l'espansionismo cinese
di Stefano Carrer


TOKYO «Il XXI secolo appartiene all'Asia: il mondo lo riconosce. Come sarà questo secolo, dipenderà dalla forza dei legami tra India e Giappone»: il primo ministro indiano Narendra Modi ha delineato nel suo viaggio a Tokyo una possibile svolta negli equilibri geopolitici, concordando sui piani di un'alleanza strategica tra la seconda e la terza economia asiatica che comporterà un forte rafforzamento delle relazioni politiche, economiche e militari. Il convitato di pietra della nuova partnership India-Giappone è senza dubbio la Cina, Paese con il quale entrambi hanno pericolosi contenziosi territoriali: Modi non l'ha mai citata esplicitamente, ma le chiare allusioni non sono mancate, quando ha parlato di «visibilità attuale» di situazioni di espansionismo in stile 18esimo secolo.
Piuttosto esplicito anche il comunicato emesso dopo l'incontro ufficiale con Shinzo Abe: i due primi ministri «affermano il loro comune impegno verso la sicurezza marittima, la libertà di navigazione e sorvolo, la sicurezza dell'aviazione civile, il commercio legittimo senza restrizioni, e la risoluzione pacifica delle dispute secondo il diritto internazionale». La prima traduzione concreta di questo commitment sta nella riaffermazione dell'«importanza delle relazioni nella difesa tra Giappone e India nella loro partnership strategica e nella decisione di rafforzarle». In proposito, i vertici bilaterali 2+2 saranno elevati a livello di ministri degli Esteri e della Difesa, verranno istituite commissioni per promuovere scambi tecnologici e trasferimenti di attrezzature militari, mentre le esercitazioni marittime congiunte avranno base regolare. Abe ha poi promesso a Modi investimenti giapponesi pubblici e privati per un ammontare di quasi 34 miliardi di dollari in 5 anni, compresi aiuti per lo sviluppo di infrastrutture. Parlando agli imprenditori giapponesi, Modi ha assicurato che il contesto per gli investimenti stranieri in India sarà molto migliorato, anche attraverso una maggiore assunzione di responsabilità da parte di un governo centrale legittimato dal voto come mai lo era stato negli ultimi 30 anni.
I segnali di una svolta - cercata da entrambi - tra i due Paesi sono arrivati anche da contorni e modalità inediti del primo viaggio bilaterale all'estero di Modi, allungato fino a ben 5 giorni. I due leader hanno twittato e il premier indiano ha passato la prima giornata a Kyoto, dove ha visitato il tempio Toji con Abe a fargli da guida. Fattosi accompagnare da un'ampia delegazione di businessmen, Modi nondimeno ha trovato varie occasioni per lanciarsi in una offensiva di simpatia: ha persino suonato il flauto o tirato scherzosamente le orecchie a un bambino. Non è riuscito, però, a portare a casa il tanto desiderato accordo di partnership sull'energia nucleare sul modello di quello concluso nel 2008 con gli Usa (e poi scarsamente decollato): in proposito le parti hanno concordato di accelerare le trattative, dichiarando che ci sono già stati «significativi progressi». Il Giappone appare in imbarazzo nel supportare un Paese proliferatore e desidera garanzie contro i test atomici militari, oltre che maggiori possibilità di ispezione internazionale alle centrali indiane e chiarezza sui limiti ai risarcimenti in caso di eventuali disastri.

il Sole 2.9.14
Cina. Dopo le proteste di piazza per chiedere di avere elezioni a suffragio universale
Hong Kong e Pechino ritrovano unità nella finanza
di Rita Fatiguso


PECHINO C'è voluta una frazione di secondo ai giornalisti presenti domenica pomeriggio nella Great Hall of People per intuire l'imminente naufragio della speranza di una Hong Kong governata da poteri eletti democraticamente.
Fine della corsa per gli illusi della Regione amministrativa speciale. In 12 fitte paginette Li Fei, vice segretario generale dello Standing committee del Congresso nazionale del popolo, seduto tra Lou Jiwei, potente ministro delle Finanze e Wang Chao Ying, altro nume tutelare dell'economia, ha comunicato urbi et orbi che, a 17 anni dal ritorno di Hong Kong alla Cina, le cose rimarranno, in buona sostanza, tali e quali. Il suffragio universale è, spiega Li Fei, un concetto da rivedere alla luce delle attuali necessità della Cina, i cambiamenti devono essere mossi da prudenza e costanza. Anche gli abitanti di Hong Kong sono divisi, tra chi vorrebbe cambiamenti drastici e chi ne teme le conseguenze, ma la semplice introduzione nella Draft decision dello standing committee dell'espressione "suffragio universale", di per sé, è un'enorme novità. Entro il 2016 il successore di Leung Chun-ying, chief executive di Hong Kong, sarà scelto tra due-tre candidati che a loro volta abbiano ricevuto oltre il 50% dei voti del comitato elettorale composto da 1.200 persone rappresentative di quattro settori diversi della società. Nel 2017 si voterà.
Nell'articolata spiegazione in più frasi si colgono elementi di disappunto. Ciononostante, Li Fei ieri è volato a Hong Kong per spiegare ulteriormente, in un'ennesima conferenza stampa, la decisione di Pechino, ma è stato accolto da manifestazioni di protesta che la polizia ha domato in maniera spiccia, ricorrendo anche all'uso di peperoncino urticante. Ma in contemporanea è successo ben altro. Si è realizzata la prova generale del grande progetto varato dal premier Li Keqiang in aprile: realizzare un collegamento cross border, un ponte stabile tra le due borse di Hong Kong e di Shanghai. Con 500mila yuan in conto titoli si potrà investire a Hong Kong da Shanghai e viceversa, superando anche il sistema delle quote assegnate ad operatori qualificati.
Mainland China e Hong Kong separate dalla politica trovano magicamente l'unità nella finanza, l'obiettivo comune, cementato da una buona dose di nazionalismo, è quello di creare in Asia il più grande centro finanziario capace di offuscare tutte le altre borse, in testa quella giapponese, grazie a un volume di 23,5 miliardi di yuan (3,8 miliardi dollari) di acquisti giornalieri tra grandi mercati azionari.
C'è da crederci. Il test simulato su una decina di titoli è stato seguito da 97 intermediari che hanno lavorato senza sosta e che da soli totalizzano l'80% delle transazioni.
Mentre le tensioni tra Regione speciale e casa madre si acutizzano, il movimento Occupy Central trova linfa per nuove proteste di massa, la differenza di valore tra le azioni cinesi quotate a Hong Kong e Shanghai in tre mesi si è ridotta ai minimi. Segno di una convergenza di interessi, ben più forte delle ragioni della buona politica, che toccherà l'acme a ottobre, in occasione del matrimonio vero e proprio tra le due piazze finanziarie.

Corriere 2.9.14
Einstein nemico della guerra. La sua speranza era Gandhi
Sin dal 1914 il grande fisico si oppose al nazionalismo
di Paolo Mieli


La più grande idea del Novecento deve tutto alla coerenza e all’ostinazione di intellettuali che seppero sottrarsi ai forti condizionamenti dei tempi in cui vissero. Proprio nel 1914, anno d’inizio del primo conflitto mondiale, l’ebreo svizzero Albert Einstein, dopo una vita tutt’altro che coronata da successi, ebbe qualche primo importante riconoscimento: fu chiamato a Berlino a dirigere il neonato Kaiser Wilhelm Institut per la fisica e fu nominato membro della prestigiosa Accademia prussiana delle scienze. Sua moglie Mileva aveva voluto rimanere a Zurigo con i figli: sarebbero rimasti separati per cinque anni, poi nel 1919 avrebbero divorziato e lui si sarebbe risposato con Elsa Loewenthal, sua cugina. Lì a Berlino Einstein avrebbe trovato amici tra alcuni eminenti colleghi come Max Planck e Walther Nernst. Forse ne avrebbe avuti di più, se non si fosse messo di traverso all’onda nazionalista che contraddistinse l’ingresso del Paese nella Prima guerra mondiale. Un clima, quello interventista, che l’inventore della teoria della relatività definì «da manicomio».
Nell’ottobre del 1914 fu dato alle stampe il celebre manifesto nazionalista dal titolo «Un appello al mondo della cultura», sottoscritto da 93 scienziati, scrittori, artisti e intellettuali che si proponevano di difendere il governo tedesco e «controbattere alla disinformazione sulla Germania». Disinformazione che a loro avviso stava dilagando in tutto il mondo e che meritava adeguate messe a punto. Il manifesto sosteneva che i tedeschi non erano responsabili dello scoppio del conflitto, sorvolando del tutto sul fatto che la Germania aveva da poco invaso il Belgio, devastando per di più la città di Lovanio: neghiamo, dicevano — non senza una certa improntitudine — i 93, che «i nostri soldati abbiano attentato alla vita o ai beni di un solo cittadino belga».
Fu questo un frangente di grande rilievo nella vita di Einstein, peraltro dedicata interamente alla scienza. È quel che sostiene Pedro G. Ferreira nel libro La teoria perfetta, che la Rizzoli si accinge a pubblicare nell’impeccabile traduzione di Carlo Capararo e Andrea Zucchetti. Einstein, scrive Ferreira, «era scioccato da quel che avveniva intorno a lui»; da pacifista e internazionalista qual era, scese in campo con un contromanifesto, «Un appello agli europei», nel quale, assieme a un pugno di colleghi, prendeva le distanze dal «Manifesto dei 93», criticandone duramente i firmatari e sollecitando gli «uomini colti di tutti gli Stati» a «lottare contro quella guerra distruttiva». Ma quell’appello fu bellamente ignorato, tant’è che in Inghilterra nessuno ritenne di fare distinzioni tra i firmatari dei due appelli. Nessuno, tranne lo studioso Arthur Eddington, grandissimo astronomo nonché direttore dell’osservatorio di Cambridge. Allo scoppio della Grande guerra, racconta Ferreira, Eddington fu una delle poche voci che si levarono contro l’ondata di acceso nazionalismo che riguardava non soltanto il suo Paese, ma anche moltissimi suoi colleghi. La situazione che si era creata al momento dell’entrata in guerra della Gran Bretagna «lo aveva gettato nello sconforto». Soprattutto per quel che riguardava le future relazioni tra uomini di pensiero e di scienza.
In una serie di furibondi articoli su «The Observatory», l’organo ufficiale degli astronomi britannici, «le argomentazioni contro la collaborazione con gli scienziati tedeschi» furono sostenute con forza da un gran numero di studiosi. Era come se i loro colleghi tedeschi fossero diventati all’improvviso non degni di essere considerati dei veri scienziati. I rapporti tra i loro mondi d’un tratto si fecero gelidi. L’eminente professore di astronomia di Oxford Herbert Turner non ebbe esitazioni a dire cose senza senso: «Possiamo riammettere la Germania nella comunità internazionale e abbassare gli standard della legge internazionale al suo livello, oppure possiamo escluderla e innalzarli; non esiste una terza alternativa». Tale «era l’animosità nei confronti di tutto quanto era tedesco che al presidente della Royal Astronomical Society, il quale aveva trascorsi tedeschi, venne chiesto di rassegnare le dimissioni». Incredibile.
Eddington «la pensava diversamente e si comportava di conseguenza». Come quacchero era profondamente contrario all’uso delle armi (si rifiutò anche di andare a combattere, ma il governo lo avrebbe dispensato, come vedremo, dal compiere i suoi doveri militari in quanto «persona di importanza per la nazione») ed espresse pubblicamente il proprio dissenso nei confronti dell’insofferenza dei suoi connazionali verso l’intellighenzia tedesca: «Non pensate a un tedesco simbolico», disse, «ma a uno specifico vostro ex amico, per esempio. Chiamatelo crucco, pirata, infanticida e provate a infuriarvi; il tentativo fallirà, tanto è ridicolo».
Eddington, a dispetto della guerra e delle esortazioni all’odio da parte dei suoi colleghi, si tenne in costante rapporto con Einstein. Riceveva, sia pure con «esasperante lentezza», i suoi scritti da Praga, Zurigo, Berlino, tramite un amico astronomo, Willem de Sitter, il quale glieli spediva dall’Olanda. Finché nel 1918 l’Inghilterra, sentendosi in grave pericolo, avviò una nuova ondata di coscrizioni e richiamò anche lui alle armi. Ancora una volta Eddington rifiutò di arruolarsi, adducendo il motivo che doveva prepararsi ad assistere a un’eclissi di sole, quella del 1919, proprio per verificare le teorie del «tedesco» Einstein. Ciò che gli provocò antipatie e insinuazioni da parte di molti colleghi. Uno di loro disse: «Abbiamo provato a pensare che le affermazioni false ed esagerate fatte oggi dai tedeschi fossero dovute a qualche malattia passeggera sviluppatasi di recente; ma un esempio del genere induce a chiedersi se la triste verità non vada cercata più a fondo».
Eddington, in altre parole, sarebbe stato infettato dal contagio del «male germanico». Il tribunale di Cambridge aprì contro di lui un processo, accusandolo di essersi sottratto alla leva, e i giudici lo trattarono in modo assai poco cordiale. Finché intervenne nel dibattimento il grande astronomo Frank Dyson (notissimo per aver introdotto il segnale orario di Greenwich) e spiegò alla corte che solo Eddington avrebbe potuto osservare con profitto l’eclissi del 1919, dalla quale si sarebbe saputo se Einstein aveva ragione. Se cioè Einstein aveva colto nel segno prevedendo che «la luce emessa dalle stelle lontane era destinata a incurvarsi passando in prossimità di un corpo imponente come il Sole». La corte di Cambridge fu convinta da Dyson; di conseguenza si mostrò clemente con Eddington, che così poté lavorare alla preparazione del suo esperimento. E l’osservazione dell’eclissi del 1919 diede risultati straordinari. Sarebbe dunque toccato a Eddington il compito di conferire ad Einstein il primo riconoscimento pubblico su scala mondiale. Il 6 novembre 1919 l’astronomo inglese si alzò in piedi durante una riunione della Royal Astronomical Society e, «in tono monocorde e solenne», descrisse il suo recente viaggio nella piccola isola di Principe, al largo delle coste occidentali dell’Africa. Lì con un telescopio aveva fotografato l’eclissi totale di sole. Misurando le posizioni di alcune stelle dietro il disco solare, aveva scoperto che «la teoria della gravità concepita dal santo patrono della scienza britannica, Isaac Newton, ritenuta esatta per oltre due secoli, era invece sbagliata». Al suo posto, affermò, doveva essere presa in considerazione quella nuova e corretta proposta da Einstein, conosciuta come «teoria della relatività generale». Lì per lì gli astanti non parvero rendersi conto dell’importanza dell’annuncio. Quando Eddington finì di parlare, un fisico polacco, Ludwik Silberstein, gli si avvicinò per dirgli: «Professore, lei deve essere una delle tre persone al mondo che capiscono la relatività generale». Poi, notando che il suo interlocutore indugiava, aggiunse: «Non faccia il modesto». Questi lo fissò e gli rispose: «Al contrario, sto cercando di pensare chi sia la terza».
Il presidente della Royal Society, J.J. Thomson, definì le misurazioni di Eddington «il risultato più importante ottenuto, per quanto riguarda la teoria della gravitazione, dai tempi di Newton». E aggiunse: «Se verrà confermato che il ragionamento di Einstein è giusto — ed è già sopravvissuto a due verifiche molto severe relative al perielio di Mercurio e alla presente eclissi —, allora tale risultato è una delle più alte conquiste del pensiero umano». Il giorno seguente, 7 novembre 1919, la valutazione di Thomson rimbalzò sul «Times» di Londra con un articolo intitolato: «Rivoluzione nella scienza. Una nuova teoria dell’universo. Rovesciate le idee di Newton». Trascorsero altri tre giorni e la notizia raggiunse l’America, dove il «New York Times» titolò: «Luci oblique nei cieli. Trionfa la teoria di Einstein».
Per Einstein, come dicevamo all’inizio, gli esordi erano stati tutt’altro che facili. Mise a punto la teoria della relatività tra il 1905 e il 1907, mentre lavorava come umile perito nell’ufficio brevetti di Brema. I suoi studi al Politecnico di Zurigo era stati «senza infamia e senza lode». E al momento della laurea, allorché il relatore gli impedì di lavorare su un argomento a sua scelta, consegnò una tesi «piuttosto scialba», abbassando a tal punto il suo punteggio che non riuscì a procurarsi un posto come assistente in nessuna delle università presso cui aveva fatto domanda. Dal conseguimento della laurea, nel 1900, a quando finalmente ottenne l’impiego all’ufficio brevetti, nel 1902, la sua carriera non fu che «una sequela di fallimenti». La tesi di dottorato che sottopose all’università di Zurigo gli fu addirittura respinta.
Se riuscì a restare in carreggiata, fu per merito dell’amico matematico Marcel Grossmann che, pur essendo dotato di un ingegno infinitamente minore del suo, era diventato, poco dopo la laurea, professore di geometria descrittiva. L’amico Marcel lo aveva aiutato a non perdersi d’animo. Si deve oltretutto a una raccomandazione del padre di Grossmann se Einstein ottenne il posto all’ufficio brevetti. E con esso i soldi che gli consentirono di continuare a studiare. Le previsioni del 1907 derivate dalla sua teoria generale furono fatte su quella che Ferreira definisce «una base matematica piuttosto striminzita». In effetti Einstein non aveva grande trasporto — se così si può dire — per la matematica che definiva «erudizione superflua», giungendo a sostenere che, da quando i matematici si erano «avventati sulla teoria della relatività», lui stesso non ci aveva «capito più niente». Si diceva «restio a ricorrere alla matematica astrusa che avrebbe rischiato di oscurare gli eleganti concetti fisici che stava cercando di mettere insieme». Uno dei suoi professori di Zurigo definì la presentazione di un suo lavoro «goffa sotto il profilo matematico».
Solo nel 1911 Einstein aveva cominciato a cambiare idea. E nel 1912, tornato ad insegnare a Zurigo, si recò da Grossmann, e lo implorò: «Mi devi aiutare, altrimenti impazzisco». Sarebbe stato solo l’incontro nel 1915 con un autentico genio della matematica, David Hilbert, all’Università di Gottinga, che gli avrebbe fatto cambiare definitivamente idea sulla materia. Aveva però creduto in lui, già nel 1907, il fisico Johannes Stark (che, come vedremo, ai tempi di Hitler gli sarebbe stato ostile), il quale gli aveva commissionato un articolo Sul principio di relatività e le conclusioni che ne derivano . Fu scrivendo quel saggio che Einstein, pur consacrato dalla pubblicazione, si accorse che la sua teoria era ancora imperfetta e aveva bisogno di approfondirla ulteriormente. Ma quel primo successo e l’apprezzamento di Stark fecero sì che nel 1908 ottenesse la nomina a libero docente all’Università di Berna. Come docente si fece una pessima fama: voleva seguire solo le sue ricerche, gli studenti non gli interessavano. Passò poi all’Università di Zurigo e fu lo stesso. Finché nel 1911 riuscì a ottenere una cattedra «senza obblighi di insegnamento» all’università tedesca di Praga. Proprio quello che cercava per potersi rimettere a studiare. Poi fu la Grande Guerra e — fortunatamente per la scienza — il suo nome e le sue idee erano abbastanza note, sia pure in un ambito ristretto, sicché poté entrare in rapporto con persone che, a dispetto delle divisioni provocate dal conflitto, restarono in proficuo contatto tra loro.
La guerra, come si sa, non finì in tutto e per tutto nel 1918, anzi si protrasse, sia pure in altre forme, per una lunga parte del Novecento. Ma i «partigiani della relatività» rimasero uniti. In particolare un eclettico matematico e meteorologo sovietico, Aleksandr Fridman (che, a differenza di Einstein, era stato volontario nella Prima guerra mondiale), e un sacerdote cattolico belga, Georges Lemaitre (anche lui ex combattente), i quali ebbero intuizioni in un certo senso superiori a quelle del maestro. Einstein e Lemaitre si trovarono nell’inverno del 1933 a trascorrere qualche tempo assieme a Pasadena presso il campus del California Institute of Technology, dove il sacerdote era stato invitato a tenere delle conferenze. I due passeggiavano per ore e ore, chiacchierando animatamente sotto gli sguardi curiosi di professori e studenti; il «Los Angeles Times» li descrisse con «espressioni serie sui volti, a suggerire che stessero discutendo dello stato attuale delle faccende cosmiche». In realtà parlavano anche di altre cose che stavano accadendo in quei primi mesi del 1933, a cominciare dall’ascesa al potere in Germania di Adolf Hitler. Il secolo produceva di continuo ideologie destinate ad entrare in conflitto con questa leva di geniali scienziati. I rapporti di Einstein con il nazismo furono pessimi fin dall’inizio. Le sue teorie furono fin dal 1933 bersaglio della Deutsche Physik, rappresentata da Philipp Lenard e dal primo «scopritore» di Einstein, il Nobel Johannes Stark, che parlavano della «fisica ebraica» come di qualcosa che stava «avvelenando la Germania» e andava immediatamente «sradicata dal sistema». Così Einstein e, dopo di lui, Erwin Schroedinger e Max Born, assieme a molti altri, lasciarono la terra tedesca e gran parte di loro si trasferì negli Stati Uniti, dove alcuni avrebbero dato un apporto fondamentale alla costruzione della bomba atomica.
Da quel momento Einstein divenne un signor nessuno per la cultura tedesca: il principale manuale di fisica, Lehrbuch der Physik , addirittura non menzionava neppure il suo nome. Ma, nonostante questa incredibile campagna di disconoscimento, Stark non riuscì a divenire il fisico di riferimento della Germania hitleriana. Ad insidiarlo per quel ruolo emerse Werner Heisenberg, uno dei padri della moderna teoria dei quanti. Heisenberg non era ebreo, ma questo non fermò Stark, che scatenò anche contro di lui la macchina della denigrazione già sperimentata con Einstein: in un articolo per l’organo ufficiale delle SS lo definì «ebreo bianco» e lo accusò di essersi reso «responsabile del declino della scienza teutonica al pari di tutti gli altri che erano stati cacciati». Ma Heisenberg godeva della protezione di Heinrich Himmler (del quale era stato compagno di scuola): il gerarca nazista riuscì a far interrompere la campagna di Stark e a mettere Heisenberg a capo del programma nucleare tedesco. Con grande sgomento dei fisici scappati dalla Germania, i quali ben conoscevano le sue qualità assai superiori a quelle di Stark. Ciò che spinse gli Stati Uniti ad accelerare i piani per la costruzione dell’atomica.
La cosa più incredibile è che le teorie di Einstein furono avversate anche, sul versante opposto, in Unione Sovietica, dove Stalin aveva fissato nel 1938, con lo scritto Il materialismo dialettico e il materialismo storico , le linee guida per la ricerca scientifica nel suo Paese. Ad Einstein in Urss veniva rimproverato il fatto che la sua teoria «generava un universo assurdo con un’origine ben definita, troppo simile al punto di vista religioso» che il pensiero sovietico era tanto smanioso di «estirpare dalla società». Non aiutava certo il fatto che uno dei principali diffusori delle teorie di Einstein fosse un sacerdote, il già menzionato Georges Lemaitre, uno «straniero corrotto appartenente a una società borghese decadente e agonizzante». A dire il vero, osserva Ferreira, «in questo feroce rifiuto del pensiero non sovietico, si dimenticava che l’ipotesi dell’universo in espansione in realtà era stata avanzata per la prima volta da un brillante fisico russo e sovietico, Aleksandr Fridman».
Nel 1952, Aleksandr Maximov, un influente storico della scienza sovietico, pubblicò un articolo dal titolo Contro l’einsteinismo reazionario nella fisica che, pur essendo apparso su uno sconosciuto giornale della Marina dell’Urss di stanza nell’Artico, «Flotta rossa», ebbe una grande eco. Ma provocò reazioni impreviste e fino a quel momento inimmaginabili. Vladimir Fok, discepolo di quel Fridman che era stato sodale di Einstein, replicò con un testo dal titolo Contro la critica ignorante delle moderne teorie della fisica . Prima che fosse dato alle stampe, Fok, Lev Davidovic Landau (il padre dell’atomica russa) e altri fisici russi fecero appello alla leadership sovietica perché rivedesse il giudizio su Einstein e in una lettera privata indirizzata a Lavrentij Berija, braccio destro di Stalin nonché capo del programma nucleare e termonucleare in Urss, lamentarono la «situazione anomala della fisica sovietica», citando l’articolo di Maximov come esempio dell’aggressiva ignoranza che ostacolava il progresso della scienza sovietica. Fok rivelò poi di aver ottenuto l’appoggio di Berija per questo articolo contro Maximov (e probabilmente era vero), ma quest’ultimo riuscì a ottenere che Fok e Landau rimanessero isolati almeno fino al 1954 quando, dopo la morte di Stalin e la fucilazione di Berija, ottennero la riabilitazione (a distanza) di Einstein.
Nel frattempo Einstein, già dalla fine degli anni Trenta, era diventato buon amico di un genio della matematica Kurt Gödel, che si era allontanato da Vienna riparando a Princeton dopo che i nazisti lo avevano malmenato per il suo «aspetto da ebreo». Lo aiutò a diventare cittadino americano, anche se la cerimonia rischiò di andare a monte allorché Gödel scoprì tra le pagine della Costituzione statunitense quella che gli appariva come un’incongruenza logica «che avrebbe potuto consentire al governo del Paese di degenerare in tirannia». E rifiutò di giurare su quel testo. Sono gli anni in cui spunta l’astro di Robert Oppenheimer (il padre dell’atomica statunitense), che non ha grande considerazione del clima di quel campus: «Princeton è una casa di pazzi», scrive al fratello, «i suoi luminari solipsisti risplendono in una desolazione solitaria e senza speranza; Einstein è completamente rimbambito». Forse anche per questo Einstein si opporrà nel 1947 alla sua nomina a direttore dell’Institute for Advanced Study, cercando di favorire il fisico austriaco Wolfgang Pauli. Dopodiché i due strinsero quello che l’autore definisce «un tenue legame di amicizia, cordiale ma non intima».
Negli anni successivi Einstein e Oppenheimer saranno comunque accomunati dall’ostilità ai programmi nucleari americani del secondo dopoguerra per la costruzione della bomba H. Ostilità che costerà il posto a Oppenheimer, accusato di «grave indifferenza per le esigenze di sicurezza del sistema». Ed è questo loro atteggiamento che probabilmente è all’origine della tardiva riabilitazione sovietica di cui si è detto. Einstein, al quale nel 1948 è stato diagnosticato un aneurisma all’aorta (morirà nel 1955), da quel momento viaggia di meno. In compenso scrive lettere. In una, al «New York Times», sostiene di riuscire a vedere nel contesto dell’epoca «solo la via rivoluzionaria della non collaborazione, nel senso di Gandhi». Interessante approdo di un singolare itinerario politico culturale.

Repubblica 2.9.14
Quello strano erotismo del sapere che lega il maestro all’allievo
Tra ricordi, spunti, riflessioni e analisi, il nuovo libro di Massimo Recalcati affronta da una prospettiva originale il “mistero” dell’insegnamento. Da Platone ai nostri giorni
Quello strano erotismo del sapere che lega il maestro all’allievo
di Simonetta Fiori


“Da bambino ero considerato un idiota, uno lento E ora mi rimproverano di andare troppo veloce”
La tesi è che l’alunno sviluppi un vero transfert verso il docente. Come accade nella psicoanalisi

«ALLORA è giusto quello che ho sentito dire di te», gli disse una volta un vecchio professore di filosofia al termine di una conferenza. «Potresti spiegare Lacan anche ai sassi!». Sì, è vero, pensò allora Massimo Recalcati, mi piace ripetere, sminuzzare, ridurre fino all’osso. Pensieri lungamente corteggiati e fatti danzare dalla psicoanalisi alla letteratura, dalla dimensione più intima a quella pubblica, sciogliendo la noia dei tecnicismi nel vortice della vita. Un rituale che si ripresenta integro nei libri e negli articoli dello studioso. Ma dietro questa pervicace ostinazione si nasconde un piccolo segreto, racchiuso in una nota a pie’ di pagina del nuovo saggio L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento.
«Ero stato un bambino considerato idiota. Fui bocciato in seconda elementare perché giudicato incapace di apprendere. Quando cerco di insegnare qualcosa, è a lui che mi rivolgo».
Una “vite storta”, così era considerato Recalcati, «andavo lento e ora mi rimproverano di andare fin troppo veloce». Una vite che della stortura fa oggi un vanto, perché progredire nella conoscenza non significa raddrizzarsi piuttosto capire quale sia la strada. Inseguire la stella filante del desiderio e nutrirsi del suo riflesso di luce. Ma nel cielo perturbato dell’adolescenza quella stella qualcuno deve pur accenderla. È questo il destino del maestro. Ed è questo il cuore pulsante di un libro originale e bellissimo, che sin dalla titolazione include una parola inedita per la didattica. La parola “erotismo”. «Non esiste insegnamento senza amore. Ogni maestro che sia degno di questo nome sa muovere l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto che in psicoanalisi chiamiamo transfert». La scuola come “sentinella dell’erotismo del sapere”, della possibilità del risveglio. Il luogo che ti conduce altrove, «di fronte al nuovo, all’inaudito, all’imprevisto ». L’urto che ti costringe a pensare.
Un miracolo che può compiersi solo se non c’è sudditanza. Non vi può essere, insiste Recalcati. Ed è questo l’errore in cui precipita l’attuale scuola delle competenze, quella dell’efficienza e della prestazione, che riduce l’apprendimento a plagio, alla pura ripetizione, al calco acritico di un sapere costituito. La metafora dell’amore, spiega lo studioso, consiste nel trasformare chi ascolta in soggetto attivo, da “eromenos” in “erastes”, dallo statuto inerte dell’amato a quello partecipe dell’amante, di colui che cerca. In questo non c’è differenza tra professore e psicoanalista, «che non domanda nulla al paziente se non che diventi un analizzante». All’origine è il gesto scandaloso di Socrate nella scena di apertura del Simposio. Agatone lo vuole vicino a sé per essere “riempito” della sua sapienza, ma il maestro rifiuta il ruolo. Senza ricerca non ci può essere conoscenza. Il sapere si alimenta di vuoti, non di pieni. «E il sapere del maestro non è mai ciò che colma la mancanza quanto ciò che la preserva». Questo in sostanza dice il gesto spiazzante di Socrate. Ed è anche il gesto dirompente di Emilio Vedova, che per liberare gli allievi sporca la tela con un colpo di spazzolone: perché il bianco non è mai un vuoto, ma un carico fin troppo ingombrante di storia e tradizione. Gesti dimenticati, quelli di Socrate e di Vedova. Liquidati come vecchi attrezzi antieconomici, sia a scuola che all’università.
Ecco perché bisogna ripartire dall’ora di lezione. Solo l’incontro misterioso tra allievi e maestri può salvare un’istituzione che rischia il naufragio. Niente può sostituirlo: né computer né slide né pillole tecnologiche. Recalcati non ignora il carico di paradossi che grava sull’insegnante, figura sociale mortificata eppure oggi più che mai investita di attese e responsabilità. Se nella scuola che definisce “Edipo” — quella antica fondata sull’autorità del padre, gerarchica, assai temuta — era integro il patto tra genitori e insegnanti, nell’attuale scuola “Narciso” quel patto s’è frantumato, travolto da una nuova mortifera alleanza tra genitori e figli. Un’alleanza fondata sull’abolizione di ostacoli e limiti, sul “perché no?”, su una coincidenza di narcisismi paterni e filiari che non contempla frustrazioni e ancor meno fallimenti. È questa la solitudine dell’insegnante, «costretto a supplire a famiglie inesistenti o angosciate». Ed è anche la solitudine in cui versa la scuola che, se prima incarnava l’istituzione sorvegliante e punitiva, oggi si trova a essere l’unico baluardo di resistenza «all’iperedonismo acefalo», dunque uno strumento di liberazione piuttosto che di intruppamento ideologico. È un’isola di anticonformismo, ripete giustamente Recalcati, la sola che ponga dei limiti al godimento immediato. La legge della parola contro l’indisciplina del consumo sfrenato: di oggetti tecnologici, di alcol, di fumo, di droghe. E senza legge non c’è neppure desiderio.
Ma come si fa a conciliare norma ed Eros? Come si trasforma un libro in corpo erotico, cosa che permetterà all’allievo di «tradurre ogni corpo che incontra in un libro da leggere»? Qui l’autore non può che evocare gli insegnanti della sua vita. La maestra delle elementari che lo sottrasse dalla “malinconia ebete” del bambino negletto. L’incontro folgorante nel secondo anno dell’istituto agrario, nella periferia povera di Quarto Oggiaro: fu Giulia Terzaghi a rappresentare il taglio, “la ripartenza”, «non sarei più stato l’idiota della famiglia, lo studente storto che gettava i suoi genitori nell’angoscia». E poi i maestri dell’età adulta, nella facoltà di Filosofia di Milano: Mario dal Pra e Riccardo Massa, Carlo Sini e Franco Fergnani, con lui «Heidegger e Sartre diventavano incredibilmente vivi, pulsanti, straripavano dalle loro cornici stabilite per entrarci dentro».
Ogni lettore penserà ai suoi, di maestri, a quelli che hanno acceso le stelle filanti del desiderio. Ne ricorderà la voce, quel particolare timbro, le inflessioni, la particolarità. Perché è vero quel che scrive Recalcati, dei professori si può dimenticare la faccia o il nome ma non la voce. La voce che è corpo, «espressione materiale e spirituale del desiderio di insegnare ». Il desiderio di insegnare, ecco il filo comune. La voce lucida di Severino e quella metallica di Foucault. Il balbettio appassionato di Stoner quando si libera di una filologia morta. La voce del professore di Philip Roth che urla il suo trasporto per il sapere: «Per me non c’è nient’altro nella vita che valga l’ora di lezione ». Una voce che ci portiamo dentro anche inconsapevolmente, ed è per questo che è difficile accettarne la scomparsa. La notizia ti può cogliere di sorpresa, anche a distanza di anni. I maestri sono per sempre, in ciò che sei diventato, in quello che leggi e impari ogni giorno. «Sei una presenza che insiste a vivere in me», scrive Recalcati in una lettera d’amore alla professoressa Giulia. «Impossibile continuare senza di te, ma impossibile non continuare senza di te». Parole di Beckett che resistono. Il potente enigma dell’ora di lezione.
IL LIBRO L’ora di lezione di Massimo Recalcati (Einaudi, pagg. 162, euro 14)

Repubblica 2.9.14
Emmanuel Carrère
“Racconto i vangeli ma nella mia vita non c’è posto per Dio”
I primi cristiani. San Luca e San Paolo. Lo scrittore francese parla di “Le Royaume”, dove mette in scena l’origine di una religione
di Grégoire Leménager


“Il mio legame con la fede non è solo culturale: essa informa il nostro spirito” “La parte più delicata è quella in cui narro di quando andavo a messa tutti i giorni”

Emmanuel Carrére , COME si passa da un diavolo ultracontemporaneo, come il dissidente russo Eduard Limonov, eroe del
suo ultimo romanzo, a personaggi come San Paolo e San Luca?
«In realtà ho cominciato questo libro più di vent’anni fa, quando ho attraversato uno strano periodo di devozione religiosa. Avevo sempre conservato, vagamente, l’idea di utilizzare gli appunti che avevo preso allora. È curioso disporre di archivi così circostanziati su se stessi, su un momento della vita da cui ci si sente così lontani. Ma era una cosa che mi metteva a disagio. Mi sono messo a scrivere questo libro nel 2007, dopo aver pubblicato La vita come un romanzo russo . Questo significa che la sua stesura ha inglobato quella dei miei ultimi libri, Vite che non sono la mia e Limonov. Ho incontrato delle difficoltà, dei dubbi, ma è stato incredibilmente piacevole da scrivere! È come un piatto di lasagne, con più strati alternati».
Il suo interesse iniziale per i primi cristiani è stato come sceneggiatore… «Per un certo periodo ho avuto il progetto di realizzare una serie televisiva su San Paolo. Mi ero detto: “Ma guarda questa piccola setta di Corinto intorno al 50 dopo Cristo, sarebbe un buon soggetto”. E così ho cominciato a redigere un documento sui personaggi e il contesto. Poi, prendendo appunti sulle lettere di Paolo e gli atti degli apostoli, ho ben presto abbandonato l’idea della sceneggiatura ».
Lei ha detto che trova «molto meno impudico» fare «confidenze sessuali» e parlare di pornografia che affrontare «le cose dell’anima, quelle che hanno a che fare con Dio».
Eppure qui lo fa, e per di più di 600 pagine… «La parte più delicata è stata quella più autobiografica, dove cerco di raccontare quel periodo in cui andavo a messa tutti i giorni. Mi sembra strano e non particolarmente glorioso. Non che ci sia qualcosa di cui vergognarsi, non ho commesso cattive azioni, ma quel Carrère giovane non offre un’immagine particolarmente lusinghiera del cristianesimo. Si può pensare che ogni fede faccia leva su un meccanismo di compensazione, un’illusione consolatrice. Nel mio caso, mi sembra assolutamente vero. Ho l’impressione di aver avuto un rapporto totalmente nevrotico con la fede ».
Lei quindi è lontano dal considerare la religione come «l’oppio dei popoli».
«Se non sei credente, la posizione più coerente è quella di trovare nel cristianesimo un interesse puramente culturale e storico. Si può ritenere, come Michel Onfray, che le cantate di Bach e le cattedrali siano cose bellissime, ma che la fede sia fatta di cose false. Non è il mio caso. Io non credo che Gesù sia resuscitato né che sia figlio di una vergine, ma il mio legame con il cristianesimo non è solamente sentimentale o culturale. Per me è qualcosa che informa e irriga il nostro spirito, i nostri comportamenti. Mi sembra addirittura qualcosa di abbastanza auspicabile. Se non credi, è abbastanza complicato da sostenere intellettualmente. Ma voglio spezzare una lancia a favore di una certa incoerenza, del fatto di non essere del tutto logico».
Alla fin fine, ritiene possibile fare a meno di Dio?
«Ah, ma io riesco benissimo a farne a meno… L’idea di Dio non ha nessun posto nella mia vita. Non ho nessun problema con le persone che considerano Dio importante, ma a me non dice niente. E la promessa di un aldilà mi dice poco di più. Invece, l’idea che ci sia una dimensione della vita un po’ più difficile da vedere di quella che salta agli occhi, quella che Gesù chiama “il Regno”, questo sì, mi appare desiderabile e ha un senso per me».
E se bisognasse definirlo, questo Regno?
«La formula centrale per me è “I primi saranno gli ultimi”. E viceversa. È l’inversione, il “chi perde, vince”. Penso che sia il mantra fondamentale del cristianesimo. Continua a essere qualcosa di estremamente stravagante e rivoluzionario ».
Ma come è stato recepito questo messaggio? Lei dimostra che il cristianesimo sarebbe potuto diventare qualcosa di diversissimo, per esempio se avesse preferito la Chiesa di Giacomo alla setta di Paolo.
«Innanzitutto perché quel messaggio è stato completamente tradito. Probabilmente è il messaggio più rivoluzionario mai pronunciato sulla terra, ma il cristianesimo è diventato ben presto un’istituzione. E un’istituzione è il contrario di una rivoluzione. La Chiesa ha i suoi pregi, non lo nego. È una miscela di grandezza storica, errori terribili, crimini, cose magnifiche… Come molte costruzioni umane. Il cristianesimo si fondava sul miglior romanzo possibile! Un romanzo grandioso, che era diventato un bestseller. Uno dei miei desideri era proprio cercare di capire uno dei quattro tizi che lo avevano scritto. Luca è più romanziere degli altri, è una delle ragioni dell’affinità personale che sentivo con lui: sufficiente per farne, se non il protagonista, almeno il filo conduttore del mio libro».
Ve ne appropriate con grande disinvoltura. Non ha la sensazione di essere un iconoclasta?
«È facile appropriarsi di Luca, perché sappiamo pochissime cose su di lui. Immaginare che sia stato il ghostwriter delle lettere attribuite a Giacomo è una provocazione, ma è una provocazione rivolta a una popolazione molto limitata, quella degli esperti delle lettere di Giacomo o del Nuovo Testamento. Detto questo, penso che tanti diranno: “Tu guarda, forse non è una stupidaggine” ».
Lei presenta i primi cristiani come dei mutanti, quasi come degli zombie… «Come dei mutanti, non come degli zombie. In quanto appassionato di letteratura fantastica, ci tengo molto a distinguere… Il cristianesimo teorizzato da San Paolo assomiglia molto a una storia del genere “L’invasione dei profanatori di sepolture”. È una specie di sostituzione surrettizia di un’umanità con un’altra. Racconta una mutazione attraverso l’intermediario del Spirito Santo e della comunione».
Sembra molto riuscito, dal punto di vista della tecnica letteraria, il modo in cui lei attualizza quello che racconta attraverso comparazioni anacronistiche di ogni genere, per esempio quella tra gli inizi di San Paolo e gli inizi di Lenin…
«È il lato fumettistico del libro, ma ho tagliato parecchio su queste cose. Finiva per essere un po’ demagogico. Allo stesso tempo, è assolutamente necessario: è un libro abbastanza impegnativo per il lettore, bisogna accompagnarlo, essere un po’ gentili con lui».
Lei scrive che questo libro è il suo «capolavoro»… «No, non ho scritto proprio questo! Ho detto che era una delle mie fantasticherie durante la stesura dell’opera. Di tanto in tanto, bisogna pensare “Ah, è il mio capolavoro”, oppure “Ah, è un capolavoro che rivoluzionerà la letteratura!”. È una fortuna avere queste ventate di maniacalità quando si scrive, aiuta. D’altra parte, tra i miei libri è quello che ha l’ampiezza maggiore. E se la parola “capolavoro” la intendiamo in senso artigianale, allora la accetto assolutamente. È un libro che spero susciti un interesse reale. Penso che sia piuttosto affidabile. Non è esente da teorie precostituite, ma sono tutte spiegate, nei limiti delle mie possibilità. Il lettore grosso modo sa da dove parla il narratore, anche se parla da posti diversi. Dopo Vite che non sono la mia, dove mi ero lanciato un po’ a casaccio nei problemi che solleva il sovraindebitamento, mi sono accorto che mi piace molto la pedagogia. Non passa per un’ambizione letteraria tra le più nobili, ma a mio parere non è subalterna. Credo che i lettori non perderanno il loro tempo: ne usciranno più istruiti, con le idee un po’ più chiare su domande importanti, che possono farli riflettere. È ambizioso, ma non irragionevole». © 2-014 Le Nouvel Observateur du Monde.
Traduzione di Fabio Galimberti

Corriere 2.9.14
Leopardi il ribelle
Fuga del poeta dai genitori oppressivi: Germano in un’intensa prova d’attore
di Paolo Mereghetti


Fare un film su Giacomo Leopardi è come camminare su un crinale friabile e scivoloso. A ogni passo si rischia di cadere nello schematismo, nell’enfasi gratuita o, peggio, in una logica voyeuristica da «buco della serratura». Mentre sulla testa incombe la slavina del nozionismo scolastico, con i suoi luoghi comuni. Diciamo subito che, con Il giovane favoloso — accolto in sala da dieci minuti di applausi —, Martone ha saputo evitare tutte queste trappole per restituirci un Leopardi veritiero (i dialoghi citano spessissimo le lettere scritte e ricevute) e insieme capace di andare al cuore della sua riflessione poetica e filosofica mentre il film segue un suo percorso interiore di liberazione dalle «catene» della famiglia e dalle convenzioni della società per riappropriarsi della propria vita e di un rigenerante legame con la natura.
La prima parte del film ricostruisce l’educazione familiare, sotto la guida severa del padre Monaldo (Massimo Popolizio), a Recanati, dove Giacomo (Elio Germano) passò «sette anni di studio matto e disperatissimo» insieme al fratello Carlo (Edoardo Natoli) e alla sorella Paolina (Isabella Ragonese): la biblioteca paterna ricca di diecimila volumi, che a volte assomiglia a una prigione; l’inizio delle malattie ossee che gli deformeranno l’aspetto; i primi riconoscimenti letterari, come filologo e come poeta, soprattutto da parte dello scrittore di idee liberali Pietro Giordani (Valerio Binasco); i vani tentativi di lasciare la casa paterna, nonostante l’intercessione dello zio Antici (Paolo Graziosi); le prime, celeberrime poesie («La sera del dì di festa», «L’infinito»).
Dieci anni dopo, nel 1830, lo troviamo a Firenze, legato all’amico Antonio Ranieri (Michele Riondino), apprezzato nei salotti mondani ma guardato con sospetto da quell’intellighenzia che lo vorrebbe più partigiano per le idee liberali e meno malinconico e pessimista. Vive l’ennesima delusione d’amore per la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti (Anna Mouglalis) e poi si trasferisce nella città natale di Ranieri, Napoli. Qui, dal 1833, accudito dalla sorella di Ranieri, Paolina (Federica De Cola), vivrà gli ultimi anni della sua vita, i più liberi e «spensierati» nonostante l’aggravarsi della scoliosi: a contatto con il popolo minuto, rinfrancato dal sole mediterraneo, affascinato dalle antichità romane e dalla forza della natura, capace di darci un ultimo capolavoro come «La ginestra».
Tutta questa materia è raccontata da Martone, che firma la sceneggiatura con Ippolita di Majo, in sottotono, senza voler sottolineare nessun episodio o significato in particolare, ma disegnando l’animo irrequieto di un giovane alle prese con le «gabbie» da cui vuole fuggire. Unica vera libertà il dissonante accompagnamento musicale di Sascha Ring, oltre all’episodio inventato dell’incontro col femminiello nel bordello «felliniano» di Napoli.
Per il resto, la ribellione di Leopardi è fatta di piccoli passi, di un appunto lasciato alle pagine dello Zibaldone , di uno sguardo dalla finestra (verso quella vita che sembra sfuggirgli), di una poesia che fa risuonare la sua sensibilità, accennando a molti accadimenti biografici (chi volesse ritrovarli può leggerne con profitto la vita e le lettere curate da Nico Naldini per Garzanti). E se qualche volta la messa in scena sceglie di mettere l’accento su un elemento, lo fa attraverso la straordinaria fotografia di Renato Berta, capace di sottolineare con la luce i chiaroscuri di un’anima o l’emozione di un paesaggio.
Allo stesso modo la recitazione del cast sceglie un verismo mai troppo sottolineato, a volte giustamente ieratico (Graziosi, Popolizio, la madre affidata a Raffaella Giordano), altre volte più mimetico (Mouglalis, Riondino e tutti gli altri) su cui spicca la prova di Elio Germano, alle prese con un personaggio le cui poesie e le cui deformazione rischiavano di innescare il pilota automatico delle reminiscenze scolastiche, e che invece mostra sullo schermo una misura invidiabile, mai troppo enfatica nella dizione né troppo marcata nell’incedere, capace anche attraverso i toni della voce e le pose delle azioni di restituirci un po’ di verità.