mercoledì 3 settembre 2014

il Fatto 3.9.14
La festa senza l’Unità
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, sono un po’ meravigliato del ripetersi di curiose notizie: interventi alle Festa dell’Unità, dibattiti alla Festa dell’Unità, presenza inaspettata del tale o del talaltro alla Festa del giornale che non c’è più. Già si diffondono voci su chi ci sarà e non ci sarà alla Festa nazionale. Non c’è una notevole faccia tosta nel far finta di niente, mentre i giornalisti di quell’ex quotidiano fondato da Antonio Gramsci sono stati lasciati in cassintegrazione e, da volontari, scrivono in Rete?
Gina

DICIAMO che mi hanno colpito due fatti diversi e connessi. Il primo è che le feste dell’Unità, sia quelle locali che quella nazionale, siano tranquillamente organizzate, vissute e godute senza alcun riferimento al giornale di cui dovrebbero celebrare la testata. Nel migliore dei casi ti distribuiscono (o almeno accadeva a Roma all'inizio dell'estate) copie fresche di “Europa”. Il secondo è che nulla ma proprio nulla (e mai) è dedicato a ciò che è stata l'Unità, e ai suoi giornalisti lasciati soli. Esempio: non dovrebbero essere, quelli dell'ultima pattuglia, partecipanti abituali di dibattiti, confronti, incontri dedicati ad argomenti su cui non possono scrivere più? Forse si può aggiungere una terza perplessità. Considerato che la fine di un giornale è sempre una cattiva notizia, e che il Pd di Renzi, come i quadri di Balla e Boccioni, è tutto un anelito di velocità, di ottimismo e futuro, sarebbe fuori luogo avere ogni settimana di ciascuna “festa” in qualche palchetto secondario, un incontro pubblico per discutere “quale giornale per un partito di oggi” e (oppure) “progetti, grafica e numero zero per una nuova Unità”? Tanto per sognare. Chi va a ciò che resta delle feste dell'Unità, raramente ci va per ascoltare dinosauri (ci sono anche dinosauri giovani). E raramente va per ascoltare Renzi, che parla dovunque, varie volte al giorno, in tutte le televisioni, radio e reti disponibili. Sospetto che ci vada perché il nome di quella testata, “l’Unità”, significa ancora qualcosa, abbastanza per affollare un bel po’ di notti d'estate. Quella folla trova buona cucina (la più raccomandabile era quella kosher di Roma, nella più straordinaria tradizione ebraica romana), buon artigianato e una serie di incontri con la partecipazione straordinaria di Forza Italia e Nuovo Centro Destra (in certe sere “noir” persino la Lega) e una sequenza senza fine di adoratori di Renzi, senza l'ombra dell'obiezione o della critica. È molto se scampano la gara di secchiate. Peccato, no?

il Fatto 3.9.14
Festa Unità, Massimo D’Alema:
“Renzi? Si sforza ma per ora risultati insoddisfacenti”
di David Marceddu

qui

il Fatto 3.9.14
D’Alema picchia Renzi “Risultati insoddisfacenti”
“Non abbiamo una segreteria, il Pd non può essere il movimento del Premier, la politica estera la fa la Merkel”
di Wanda Marra


Il governo “Insoddisfacente”. Il partito? “Un movimento di Renzi”. Ci voleva un Massimo D’Alema in forma smagliante, senza niente da perdere e arrabbiatissimo per sferrare un attacco all’arma bianca a Matteo Renzi. “Diciamocelo, il vero dominus delle nomine europee è stata la Merkel”. Si arriccia i baffi D’Alema sul palco della Festa nazionale dell’Unità di Bologna. Si gratta l’orecchio. Non risparmia la pausa ad effetto. Ed elenca: “Vicino a lei è il presidente della Commissione europea, vicino a lei il presidente del Consiglio europeo, vicino a lei anche il presidente dell’Eurogruppo”. Renzi durante il dibattito pubblico, neanche lo nomina. Accanto a lui Pier Ferdinando Casini non risparmia la battuta: “Sembri invidioso”. E lui: “No, sono oggettivo”. Il fu Lìder Maximo arriva in quella che fu casa sua tre giorni dopo che la nomina di Federica Mogherini a ministro degli Esteri europeo ha certificato la fine delle sue ambizioni internazionali. Per capire quanto gli bruci basta sentire la risposta a chi gli chiede se è vero, come ha scritto Europa (a firma Fabrizio Rondolino, ndr) che è finita la sua carriera politica: “Europa… lei si occupa di stampa clandestina…”. Poi la classica risposta dall’alto: “Sinceramente io continuo a fare quello che facevo prima. Sono presidente di un’istituzione culturale europea (la Feps, ndr) e faccio parte del gruppo dirigente del Partito socialista europeo”. Ma intanto, boccia l’esecutivo: “Il governo fa degli sforzi, ma i risultati sono insoddisfacenti”. Adesso, “vediamo la manovra. A quel punto, comprenderemo meglio: i cittadini aspettano risposte sostanziali”. Guerra apta. Eppure tra il Lìder Maximo e il giovane presidente del Consiglio non è sempre andata così. Neanche sei mesi fa (era il 18 marzo) D’Alema aveva presentato con Renzi il suo libro sull’Europa al Tempio di Adriano. “Manderemo in Europa le nostre personalità più forti”, aveva assicurato Matteo. A molti era sembrata un’investitura in piena regola per D’Alema, che avrebbe fatto carte false per occupare quel posto. Quel giorno, giocando sulla comune passione calcistica, aveva regalato al premier la maglia di Totti. L’altro sembrava gradire o almeno fingeva di farlo. Nel nome della necessità di assicurarsi l’appoggio dei dalemiani. Ma poi Renzi ha usato tutta la sua autorità per portare sulla poltrona di Mr Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) la Mogherini. Fatto sta che D’Alema non si sottrae alle telecamere arrivando. “L’annuncite”? Quel vocabolo “non è un neologismo. Il paragone: “L’Italia ne ha sofferto moltissimo: nel corso dei governi di Berlusconi era un’attività costante”. Poi, ancora, sull’opportunità che Renzi resti segretario del Pd: “Credo che un partito non possa essere il movimento del premier. Il Pd in questo momento non ha una segreteria, ma un gruppo di persone che sono fiduciarie del presidente del Consiglio. In questo modo il partito finisce per avere una vita molto stentata”. Ma come, gli obiettano ancora, se il Pd non ha mai avuto tanto consenso? Ed ecco l’affermazione che pare un augurio (meglio, un malaugurio): “Il consenso è importantissimo, ma i partiti sono delle comunità di persone che durano nel tempo, al di là del consenso che possono avere in un’elezione e, magari, un po’ meno in quella successiva. Il consenso è un dato fluttuante”. Assomiglia alla profezia di una Cassandra speranzosa. Poi si va sul palco. Ride e scherza il Lìder Maximo mentre discetta di politica internazionale. Rivendica l’intervento in Kosovo, ricorda che “sui Balcani ci hanno ascoltato”: perché “gli americani ti ascoltano se hai gli attributi”. Approfitta dei jeans rossi di Casini per prendere le distanze dal “giovanilismo”: “Va di moda, ma io sono uno che non si adegua”. La platea (circa 400 persone) ride e applaude. Lui ci prende gusto. Ecco un altro affondo: “È stato Obama a contestare gli attacchi degli israeliani alle scuole di Gaza. Il nostro governo non l’ha fatto”. Quando arriva la domanda ufficiale sulla Mogherini si mantiene sobrio: “È una persona competente, è cresciuta nel partito, sono anni che si occupa di politica internazionale”. Però, "quello che riuscirà a fare non dipende soltanto da lei”. Insomma, ininfluente. Perché “la politica estera non è una competenza europea, ma nazionale. Francia, Regno Unito, Germania la vogliono fare loro”. Finito il dibattito, stringe le mani, se ne va. Aria rilassata di chi non le ha mandate a dire. I rapporti con Renzi, che per mesi erano stati costanti, sono interrotti da quando è diventato chiaro come sarebbe andata a finire a Bruxelles. Non è diventato Mr Pesc, ma D’Alema non rinuncia ad essere D’Alema.

Corriere 3.9.14
L’altro Pd rialza la testa D’Alema: non siamo il partito del premier
E Fassina: pareggio di bilancio via dalla Carta

di M.Gu.

ROMA — Ora che Renzi ha rottamato il turbo per guidare un motore diesel, meno rombante ma più stabile, la minoranza del Pd frantuma gli indugi. Basta con le timidezze e le cautele, d’ora in avanti l’area riformista si farà sentire. La prima mossa? Spronare Renzi a sforare il tetto del 3% per rimettere in moto la crescita. E sulla scena dell’opposizione interna riappare Massimo D’Alema, dalla Festa dell’Unità di Bologna: «Il governo compie indubbiamente degli sforzi... Poi i risultati, sicuramente, per ora non sono soddisfacenti».
D’Alema spera che il governo reagisca «in modo energico» alla recessione e chiede al Pd di ritrovare la sua «vita democratica», perché i partiti durano più dei loro leader. «Un partito non può essere il movimento del premier — attacca l’ex presidente del Consiglio —. Il Pd sostanzialmente non ha una segreteria, ma un gruppo di persone che sono fiduciarie del premier. In questo modo il partito finisce per avere una vita molto stentata». E sul doppio ruolo di Renzi la pensa come Bersani, che ha chiesto al leader di dimettersi dalla guida del Pd: «Al congresso noi sostenevamo la necessità di evitare il doppio incarico. Il consenso è un dato fluttuante. Per questo occorre una comunità che discute». Infine una battuta, per dire che Renzi fa ombra ai suoi ministri: «È attivo, coraggioso, generoso... Ma i cittadini avrebbero qualche difficoltà a fare l’elenco del governo».
La replica dei renziani arriva con il senatore Andrea Marcucci, che spara via Twitter: «Forse D’Alema pensa ancora alle recenti nomine in Europa». Va giù duro anche Stefano Menichini, dopo che D’Alema ha bollato Europa come «stampa clandestina». Il pezzo di Fabrizio Rondolino in prima pagina sulla fine della carriera politica del già premier? «Mi sa che avevamo ragione — twitta il direttore — non gli è piaciuto com’è finita quella storia del Pesc». Con l’arrivo di settembre, il clima nel Pd cambia di colpo. Brezza autunnale anche tra gli stand di Bologna, dove Gianni Cuperlo non è stato invitato. Pippo Civati ha rifiutato la convocazione last minute: «Nessuna polemica, ma un po’ di pluralismo in più non ci stava male». Renzi ha l’annuncite ? «Non è che uno è un genio la domenica e un pirla il lunedì. Forse non era un genio e non è diventato un pirla e mi impressiona il cambio di rotta di tanti dei nostri. Però occhio, perché l’autunno non è stagione da larghe intese».
La suggestione giornalistica di una «lettizzazione» di Renzi — il cacciavite al posto del caterpillar — ha rianimato la sinistra. I bersaniani vanno alla guerra (fredda) e l’arma è un emendamento al pacchetto riforme per cancellare dalla Costituzione (articolo 81) l’obbligo del pareggio di bilancio introdotto con il Fiscal compact. La proposta di Fassina, D’Attorre e Lauricella (già avanzata in passato da Tremonti), prima ancora di essere depositata alla Camera fa litigare bersaniani e renziani. A parole è in linea con la strategia di Renzi, ma rischia di metterlo in difficoltà in Europa. In Parlamento sarà battaglia. Tonini ricorda che fu proprio Bersani a votare il pareggio in Costituzione e Giachetti sferza Fassina: «Quando fu inserito, tu non ti dimettesti da responsabile economico. Il ritorno dei compagni che sbagliano?».
I bersaniani promettono lealtà, ma intanto organizzano convention e chiedono una direzione per discutere di emergenza economica, senza streaming né clessidre. «Qui non si tratta di disturbare il manovratore perché è in difficoltà — tranquillizza Cesare Damiano — noi vorremmo aiutarlo dicendo la nostra opinione sui temi cruciali». Roberto Speranza ha pranzato con i suoi alla Camera, per fare il punto sull’autunno che sarà. «Solo una chiacchierata informale» racconta D’Attorre, preoccupato per la situazione economica: «Il governo deve cambiare linea anche in Europa. Rischiamo di portare a casa molto poco da questo semestre. Temo che aver ridotto tutto alla nomina della Mogherini sia stato un errore. Se non otteniamo lo scomputo di una dose massiccia di investimenti dalla soglia del 3% rischiamo di fare una manovra recessiva». Dal 26 al 28 settembre a Roma, rione Testaccio, Area riformista terrà la sua festa di fine estate. E a Napoli, il 10 e 11 ottobre, nuova iniziativa per chiedere al governo di occuparsi del mezzogiorno. «Al Sud la disoccupazione giovanile è oltre il 50% e il Pil è calato del 13% in sei anni — fa di conto D’Attorre — Serve una strategia straordinaria. Dire che utilizzeremo in maniera più efficace i fondi europei non basta più».

Repubblica 3.9.14
Pd, D’Alema boccia Renzi “Risultati insoddisfacenti il partito così è a rischio”
“Non c’è una segreteria, solo fiduciari del premier” Renziani al contrattacco: “Ti brucia non andare in Ue”
di Michele Smargiassi


BOLOGNA Mille giorni? A Massimo D’Alema, per giudicare, bastano i duecento già trascorsi. «Il governo fa degli sforzi. I risultati per ora non sono soddisfacenti». Non dice «sforzi ancora insufficienti», che è la formula diplomatica di tutte le opposizioni interne, è proprio sui risultati che l’ex premier boccia il premier in carica: inutilmente volonteroso. Insomma ci prova, ma non ha le doti. Appena sceso dall’auto che lo porta alla Festa dell’Unità di Bologna apre la pagella di Matteo Renzi, ed è piena di insufficienze. «Vedremo quando arriveranno i provvedimenti, i cittadini attendono risposte sostanziali per una situazione molto pesante». I cittadini attendono. D’Alema è scettico. «A parte le modalità comunicative molto brillanti...», infierisce. Non solo sui compiti, ma anche sugli scolaretti. «Abbiamo un presidente del Consiglio molto attivo, coraggioso, generoso», e poi la botta, «per il resto penso che i cittadini avrebbero qualche difficoltà a ricordare l’elenco dei nomi del governo». Risultati insufficienti, ministri invisibili, e poi? Poi, il partito. Inesistente. Il doppio incarico di Renzi premier e segretario vuol dire che il Pd non è retto da una vera classe dirigente, ma da «un gruppo di fiduciari del presidente del Consiglio», insomma è stato ridotto a «movimento del premier». Ma così «avrà una vita molto stentata », perché i partiti non sono solo macchine per il consenso, lasciatelo dire a un uomo dell’era degli apparati solidi, «i partiti devono durare nel tempo, al di là del consenso fluttuante ». Finita la tregua, se mai c’è stata davvero, tra il più celebre dei rottamandi e colui che lo voleva rottamare. Non sembra esserci ancora riuscito. Curiosamente tempestivo, proprio ieri nella sua enews Renzi scriveva: «Non ho fatto il tifo per la rottamazione perchè volevo fare qualcosa di nuovo rispetto a quelli di prima, ma perchè volevo fare qualcosa di meglio ». E sempre ieri qualcuno ha provato a convincere D’Alema stesso che il suo tempo è finito, si rassegni. Uno dei giornali del suo stesso partito lo ha spedito impietosamente in pensione con un titolo in prima pagina: «L’ultimo stop segna la fine della carriera di D’Alema», lo stop sarebbe la sua mancata nomina a commissario europeo, e quel che è peggio, glielo scrive uno dei suoi collaboratori degli anni d’oro, Fabrizio Rondolino. È così, presidente? «Lo ha scritto Europa ... Vedo che lei segue la stampa clandestina, questo le fa onore...», tira fuori gli artigli il D’Alema di sempre.
Ma intanto, i renziani hanno capito che aria tira e imbracciato la contraerea: lo sbeffeggiano «leader Maximo perdente », twittano feroci: «D’Alema attacca Renzi perché pensa ancora alle nomine Ue». Insomma dicono: ti brucia che ti abbiamo preferito la Mogherini? Che Renzi abbia usato il tuo nome solo come spaventapasseri, per farla accettare alla Merkel? Gelido, D’Alema si chiude nella corazza: «Io continuo a fare quel che facevo prima. Presiedo un’istituzione culturale europea, sono un dirigente del Pse. Non è cambiato nulla nella mia vita». Ma poi, sul palco, davanti a trecento persone moderatamente generose di applausi, e un Pierferdinando Casini ben più generoso di lui col governo, la sua lezione di politica internazionale è all’insegna del «quando c’ero io». Libano, Ser- bia, quando l’Italia si assumeva «dolorose responsabilità», agiva, non aspettava, e «cresceva di tanto così nella considerazione internazionale». Mentre oggi? «Due mesi fa stavamo per partecipare al bombardamento di Assad, che avrebbe aperto la strada all’esercito del califfato». Gaza? «Abbiamo sentito la protesta degli Usa, ma io avrei voluto sentire prima quella dell’Italia, che non-c’è-stata», e il ministro era Mogherini. Sulla quale, ovviamente, D’Alema non si scatena. Gli basta dire che conterà poco o nulla: «È una persona preparata, ma ciò che riuscirà a fare non dipenderà solo da lei», conta ben di più la squadra che la cancelliera tedesca, «vero dominus delle nomine», ha piazzato nei posti chiave, «tutti i vertici europei sono in mano a personalità vicine alla Merkel, personalità forti, esperte, autorevoli...». «Lo dici con invidia?», lo interrompe perfido Casini. «... E conservatrici », conclude D’Alema, impassibile.

Repubblica 3.9.14
Pippo Civati
“Convocato per sms, resto fuori dalla Festa”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA . — «In definitiva sono stato trattato meglio di Gianni Cuperlo... ». Pippo Civati, leader della sinistra dem, si è sfogato sul suo blog: «Sono stato invitato alla Festa nazionale di Bologna con un sms alla vigilia e in una data in cui non potevo. Non mi è stata offerta un’alternativa ». E quindi non sarà presente. Racconta che, visto il post, Cuperlo, l’altro leader della sinistra, gli ha mandato un sms: «Almeno a te ti hanno invitato...».
Civati, niente Festa dell’Unità per lei. Colpa di Renzi?
«Spero che abbia cose più importanti di cui occuparsi. Ma la questione è il pluralismo e il Pd: un tema che non mi pare abbia troppo spazio alla Festa dell’Unità».
Comunque saranno stati invitati i civatiani «Non mi risulta. E poi non c’è neppure Cuperlo. Diciamo che io sono stato trattato meglio di Gianni, mi dispiace per lui. Non difendo la corrente nata attorno alla mia mozione per le primarie, non lo faccio per le questioni di governo, figuriamoci se lo faccio per il palco della Festa. Però anche la battuta della Boschi, proprio a Bologna, che dice “non ci faremo bloccare le riforme dai frenatori”, spero non sia ripetuta. Non è che chi non è d’accordo vuole sabotare Renzi».
Lei è arrabbiato?
«Il sentimento che provo è dispiacere. Il mio dispiacere è più generale: appena dissenti sei vissuto come motivo di fastidio».
Però alle altre feste dell’Unità parteciperà?
«Sto facendo moltissime feste del Pd in giro per l’Italia. E giovedì sarò ad Acerra per l’inceneritore, nella Terra dei fuochi dove vado, spero, a nome dei Dem».
Si sente escluso dal partito?
«C’è una propensione a... Del resto questa bolognese è la Festa di Renzi e del governo».
Pensa che il Pd sia appiattito sul governo e evanescente come ha sostenuto D’Alema?
«Mi trovo a difendere Renzi dagli attacchi degli editorialisti ora. Semplicemente ci sono cose da correggere. È vero che Renzi ha i numeri e io sono la minoranza, ma se chiedo maggiore riconoscimento non è per brama di potere. Voglio fare valere una porzione di Pd e l’elettorato che rappresenta ».

Repubblica 3.9.14
Massimo Cacciari
“Annuncite? Matteo non sia generico e basta gelati e secchiate d’acqua”
intervista di Carlo Brambilla


MILANO «Ma cosa significa riforma della scuola? Come deve essere la scuola per Matteo Renzi? Francamente non si capisce. Una riforma si annuncia quando hai nero su bianco un disegno complessivo, un programma di sistema.
Altrimenti rischi di fare annunci a vanvera... » Massimo Cacciari non vuole accusare Matteo Renzi di «annuncite acuta», come fanno in molti. Sottolinea che il Presidente del Consiglio «è pieno di buona volontà, ha molte energie e idee». Solo gli consiglia di «mettere un po’ di ordine tra i suoi vari fini... Essere meno generico e più concreto. E avere uno stile un po’ più da statista. Altro che secchiate d’acqua in testa e gelati in mano... Essere simpatico fa presto a stufare ».
Professor Cacciari, la scuola è una cosa molto seria, che tocca da vicino la vita delle famiglie. Cosa si aspetta lei dal Governo in questo campo?
«Bisogna ridurre drasticamente i tempi dello studio. Arrivare alla fine della scuola a 18 anni, non un secondo dopo. Per l’università puntare tutto sull’autonomia, abbandonando ogni mentalità centralistica. E eliminare il valore legale del titolo di studio».
Cercando di andare piano con gli annunci?
«L’uomo politico si trova spesso per necessità a dover fare annunci. Questo può anche essere un fenomeno positivo. Un modo per indicare i programmi che si hanno in testa. Se ho un fine e lo indico non sono affetto da annuncite».
Quando si scivola, invece, nell’annuncite?
«Quando non esprimo coerenza. E faccio fuochi d’artificio. Se un giorno parlo di Jobs Act, quello dopo di riforma del Senato, l’altro ancora di riforma della scuola, senza un programma di sistema... »
Un po’ quello che sta facendo Renzi?
«Ma no, il suo problema è decidere da che parte cominciare a srotolare il gomitolo. Mettere un po’ di ordine. Avere metodo. Visto che di soldi non ce ne sono molti dovrebbe cominciare col semplificare le procedure. Per esempio semplificare la giustizia amministrativa, il pagamento delle tasse ».
Invece Renzi è partito dalle riforme istituzionali.
«Sì, mi è sembrata un po’ una mentalità alla Berlusconi. Come dire «non mi permettono di decidere».
Professore è decisamente severo con Renzi. Finita anche per lei la luna di miele?
«Renzi va bene. Anche perché, non dimentichiamolo, a lui sembra andare a pennello il soprannome “Tina” che davano al primo ministro inglese Margaret Thatcher ».
L’acronimo di «There is no alternative »(non ci sono alternative).
«Esatto. Ci piaccia a no».
Dica la verità non va matto per lo stile renziano?
«Prima di gettarsi il secchio di acqua gelata in testa avrebbe fatto bene a informarsi se lo avrebbero fatto anche gli altri capi di Stato, come Obama o la Merkel. Cominci ad avere anche lui un po’ di stile da statista».

il Fatto 3.9.14
Riforme, riparte battaglia della sinistra Pd: “Abolire pareggio bilancio in Costituzione”
Fassina: "Proporremo questa modifica per permettere allo Stato di indebitarsi per fare investimenti: è in linea con quanto dice Renzi"

qui

Corriere 3.9.14
Il tramonto della fretta
di Antonio Polito


Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversione del giovane leader «rivoluzionario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazione di hashtag su #lasvoltabuona .
Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttura il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendosi più tempo per realizzarle, e insieme garantisce lunga vita ai parlamentari chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativa di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato. Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.
Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventerebbero millecinquecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizione tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica «normalizzi» un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendogli senso e consenso.
In due campi in particolare le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenziale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziaria. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.
Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata jobs act , non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazione «entro la fine dell’anno» e l’applicazione entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazione retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.
Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibilità mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.

Il premier va avanti tra scetticismo e «fuoco amico» Colpisce che due personaggi distanti tra loro come l’ex premier Mario Monti e il segretario della Cgil, Susanna Camusso, esprimano giudizi taglienti su Matteo Renzi e il suo governo; di fatto, accusandolo di avere messo in cantiere un «piano dei mille giorni» pieno di titoli e vuoto di veri contenuti. Ma forse sorprende ancora di più il silenzio col quale il Pd ha accolto queste critiche. Anzi, arriva il «fuoco amico» di Massimo D’Alema. A replicare a Monti, attaccandolo, per paradosso è un’esponente di FI, Mara Carfagna: soprattutto per difendere la memoria politica di Silvio Berlusconi, spodestato nell’autunno del 2011 dall’esecutivo dei tecnici.
Per il resto, la corsa del presidente del Consiglio verso un futuro che continua a raffigurare radioso appare sempre più solitaria; circondata dal sostegno dei fedelissimi ma anche dalle ombre spesse della crisi economica e da quelle, meno vistose, di chi lo aspetta al varco. I sondaggi continuano a darlo stabilmente in sella, e descrivono gli avversari distanziati nettamente. Sta diventando sempre più chiaro, tuttavia, che le speranze di Palazzo Chigi di agganciare un’Europa in ripresa sono destinate a segnare il passo. Renzi ieri ha voluto sottolineare che i problemi sono continentali, non solo italiani.
«Il nostro dato negativo sulla crescita del secondo trimestre, che tanto ha alimentato il dibattito in casa nostra, è identico al dato tedesco:-0,2 per cento. Mal comune mezzo gaudio? Macché. Mal comune doppio danno», riconosce il premier, perché l’Italia è in condizioni ben peggiori. Su questo sfondo, sentirgli dire che «in mille giorni riportiamo il nostro Paese a fare la locomotiva, non l’ultimo vagone» dell’Europa, suona, a dir poco, azzardato. L’accusa di velleitarismo non è ancora esplicita, ma comincia a serpeggiare. D’altronde, ci sarà qualche ragione se una minoranza del Pd finora afona, adesso rialza la testa.
La richiesta al governo è di cancellare dalla Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio; e pazienza se in questo modo il Pd contraddice il suo voto del 2012. È il sintomo di un malessere che cova, represso; e che riaffiora. D’Alema parla di «risultati insoddisfacenti del governo» e ricorda di essere «sempre stato contrario al doppio incarico di segretario Pd-premier»: tema insidioso e tarato su Renzi. Il fatto che il presidente del Consiglio non smetta di ricordare il trionfo del partito alle europee di maggio costituisce una sorta di ammonimento ai suoi critici. Serve a sottolineare un rapporto diretto con l’opinione pubblica che oltrepassa le lealtà degli apparati del partito.
Il problema è capire se la cosiddetta «luna di miele» si perpetua, come sembra dire Palazzo Chigi additando i risultati che sostiene di avere raggiunto o di poter afferrare; o se l’affanno dell’economia ha cominciato a guastarla, rianimando chi finge di appoggiarlo. Il Movimento 5 Stelle martella sulla tesi dell’Italia che affonda, oberata dalle tasse. FI asseconda e incalza il premier. Ma il timore che le cose possano prendere una piega negativa si avverte nelle parole di Pier Ferdinando Casini, dell’Udc, finora suo difensore. Renzi «ha il pallino in mano, glielo abbiamo dato. Ma ora bisogna passare dalle parole ai fatti», avverte: come se quelli rivendicati finora non fossero tali.

Corriere 3.9.14
La trasparenza asimmetrica di Renzi: pochi i contenuti sul sito del Governo
di Riccardo Puglisi


Un consiglio da gufo: il governo utilizzi il nuovo sito passodopopasso — per ora assai povero di contenuti — anche per pubblicare i 25 documenti finali della spending review di Cottarelli.
Dopo la pausa estiva il presidente del Consiglio Renzi propone ora l’idea dei «mille giorni» per valutare l’azione del governo, e il concetto di «passo dopo passo» per spiegarne il (nuovo) modo di procedere cauto e costruttivo. Già altri hanno rilevato come questa politica dei piccoli passi mostri un interessante grado di somiglianza con il tanto bistrattato lavoro di cacciavite messo in atto da Enrico Letta, predecessore di Renzi a Palazzo Chigi, e di fatto rottamato per eccessiva lentezza e scarso coraggio.
Tant’è. Il governo ha dunque creato il sito web passodopopasso.italia.it , che contiene una descrizione di quanto verrà fatto nei prossimi mille giorni, con annesso contatore dei giorni che separano dalla data finale, cioè il 31 maggio 2017. Al momento il sito, pur di aspetto discreto, non appare molto ricco di contenuti, e le informazioni presenti finora lasciano parecchio a desiderare. Ad esempio, tra le notizie appare il dato Istat sugli occupati, che da febbraio a luglio fa «registrare un aumento dello 0,2%»: non si capisce però per quale ragione non sia stato utilizzato come punto di partenza il dato di marzo, in quanto Renzi è diventato presidente del Consiglio il 22 febbraio. Ma forse una ragione c’è: il confronto tra luglio e marzo si traduce in una diminuzione degli occupati di 34 mila unità, cioè dello 0,15%.
Eppure di materiale da inserire nel sito ve ne sarebbe eccome. Ad esempio, i corposi 25 documenti finali della spending review non sono ancora stati pubblicati: sarebbe cosa gradevole se il governo decidesse di essere trasparente in maniera simmetrica rispetto al futuro ma anche al passato, consentendo a cittadini e addetti ai lavori di sapere quali proposte concrete sono state formulate per ridurre la spesa pubblica. È difficile credere che sui server della Presidenza del Consiglio non vi sia spazio per 25 megabyte di dati (lo spazio occupato da un video di 5/6 minuti). Meno gelati, più Pdf.

Repubblica 3.9.14
La politica dell’audience che logora il premier
di Nadia Urbinati


Costretto a tenere la propria attenzione e quella del governo fissa sul pubblico, rischia di ripetere il paradigma che ha imputato ai suoi avversari: il dire di fare piuttosto del fare
L’audience può dare legittimità emotivamente forte alla persona del leader. Può determinarne l’ingresso prorompente nella politica, ma non garantisce la stabilità nel tempo

LA DEMOCRAZIA del pubblico è tutt’uno con la persona del leader, con la forza attrattiva della sua immagine e del suo linguaggio accattivante, che parla alle emozioni. Essa è in grado di rafforzare, integrare e perfino alterare il verdetto delle urne: tra un’elezione e l’altra l’audience tiene in mano il testimone della rappresentanza e detta il corso e il passo del leader, la direzione e la velocità del suo cammino. Su questa simbiotica relazione tra il pubblico e il leader si incardina la “democrazia personale” della quale alcune domeniche fa ci parlava Eugenio Scalfari su Repubblica. Un ibrido che, secondo Ilvo Diamanti, tiene insieme come in un patchwork forme d’essere della politica che sono diverse, piegate ora sul ruolo del partito ora su quello del leader. Sulla difficoltà a tenere il partito separato dal leader si gioca il rebus della politica italiana.
Vediamo di esplorare la relazione simbiotica del leader e dell’audience, il cuore di questa democrazia ibrida. Le parole di Renzi hanno conquistato il pubblico ben oltre l’investitura elettorale (che del resto non c’è stata, almeno in relazione al governo nazionale). Lo hanno fatto con prevedibile efficacia poiché la condizione economica del paese é da anni così critica da non lasciare larghi margini alle sottili spiegazioni, alle analisi complesse, al discorso articolato, tutte cose che appartengono alla democrazia dei partiti. La terminologia di Renzi é stata ed è da questo punto di vista adatta a questo tempo. La prima coppia di concetti che ha immesso nell’opinione parla di velocità e di movimento, facili da comprendere per chi si trova a patire la stagnazione economica. Scriveva Cartesio nel Discorso sul metodo che il viandante che si trovi in un bosco senza bussola e in una notte senza luna farà bene a non restare paralizzato ma ad andare, poiché da qualche parte prima o poi arriverà. Si tratta comunque di un andare senza piani di lungo periodo perché è il presente che detta le sue regole. La seconda coppia di concetti della terminologia renziana parla di rottamazione e di eliminazione delle rendite di posizione, idee di immediata comprensione poiché la condizione di stagnazione spinge chi vive in condizioni positive o non proprio negative a voler preservare il proprio stato. Chi ha bisogno di cambiare è chi vive una condizione di difficoltà. La terza coppia di concetti che Renzi ha immesso nell’audience riguarda infine il dualismo generazionale, pilastro del suo messaggio politico. Sembra che la dissipazione della politica come progettualità del futuro, che la crisi della democrazia dei partiti ha lasciato, abbia trovato un rimedio fuori dalle categorie sociali. Espulso dalla politica, il futuro ha fatto il suo ingresso nel rapporto tra le generazioni, tra gli italiani di ieri e quelli di oggi (più che quelli di domani); un futuro prossimo, conflittuale e atto a nutrire ingiusti sentimenti divisivi come il risentimento e la volontà punitiva per chi non è più protagonista. Le rappresentazioni sociali e mediatiche hanno accolto con favore questa terminologia, e sviato con successo il luogo del conflitto dalle relazioni sociali o di classe a quelle generazionali o naturali. L’audience che vive in simbiosi con Renzi ha adottato questo canovaccio di narrazioni che iscrive l’agire politico nel ciclo biologico del “corso della vita”: è il turnover naturale a dettare il movimento politico.
Se non che, le difficoltà a realizzare questo piano che abbiamo constatato in questi giorni (e che Renzi ha immediatamente registrato con l’aggiustamento della velocità: dalla “corsa veloce” al “passo dopo passo”) possono rischiare di far deragliare la democrazia dell’audience anche a causa della debolezza insita nel partito ibrido. Ora, l’audience può indubbiamente dare legittimità emotivamente forte alla persona del leader. Può, coil me è successo a Renzi, determinare l’ingresso prorompente del leader nella politica, ma non riesce a garantire stabilità nel tempo. Vi è di più. Le parole che hanno lanciato la leadership di Renzi sono entrate ormai nel linguaggio ordinario. Il rischio è che il leader non riesca a stare al passo delle sue stesse parole, costretto a riconoscere che il principio di realtà non si rottama, pone dei veti non raggirabili, ha una complessità che resiste alle semplificazioni. Insomma, il rischio è che sia proprio la simbiosi di leader e audience a logorare il leader. Il quale, costretto a tenere la propria attenzione e quella del governo fissa sul pubblico e le sue emozioni, rischia di ripetere il paradigma che ha imputato ai suoi avversari di ieri: il dire di fare piuttosto che il fare. Nei tempi critici, la strategia plebiscitaria può dunque essere un problema non da poco – soprattutto se a controbilanciarla non c’è un partito autonomo dal leader, dotato di una sua credibilità e capace di riflessione critica.

L’Huffington Post 3.9.14
Ma Renzi è adatto a governare?
di Lucia Annunziata

qui

L’Huffington Post 3.9.14
E la montagna partorì il topolino. Un primo bilancio politico di Renzi
di Corrado Ocone

qui

Corriere 3.9.14
Statali, spunta la proroga del blocco degli stipendi
«Non si può dare tutto a tutti»
Righetti: vedremo nel Def. La tela europea di Padoan
di Mario Sensini


ROMA — Investimenti, riforme strutturali, risanamento dei bilanci favorevole alla crescita. Avviata lunedì insieme al premier la definizione della legge di Stabilità per il 2015 — per la quale resterebbe in piedi anche l’ipotesi di un ulteriore congelamento dei rinnovi contrattuali per gli statali —, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è rimesso al lavoro sulla tela europea. L’obiettivo è quello di giungere già alla riunione dei ministri delle Finanze di Milano, del 12 e 13 settembre, a indicare le linee guida di una politica economica più favorevole alla crescita, con un uso «più intelligente» delle regole sulla stabilità.
Il vertice è informale, non c’è un’agenda definita, non si prenderanno decisioni e non necessariamente verranno definite delle «conclusioni» del vertice. Ma si avvierà una riflessione che il governo italiano si augura possa portare a passi concreti tra novembre e fine anno, quando si accavalleranno la nomina della nuova Commissione e la messa a punto definitiva delle leggi di bilancio nazionali. Al vertice parteciperanno anche il presidente della nuova Commissione, Jean Claude Juncker, e il presidente della Bce, Mario Draghi, oltre a tutti i ministri delle finanze europei.
L’Ecofin di Milano, in ogni caso, sarà occasione di una prima verifica importante sulla «taratura» delle leggi di bilancio del 2015 che i governi stanno elaborando. Renzi e Padoan hanno ribadito che il deficit dell’Italia resterà comunque sotto il tetto del 3% del prodotto interno lordo, ma hanno lasciato intendere che, per non uccidere la debole crescita dell’economia, sarebbe opportuno prendere tempi un po’ più lunghi per arrivare al pareggio di bilancio. Dando un po’ di respiro all’economia con la conferma del bonus di 80 euro ad una platea forse un po’ più ampia, si pensa ad esempio alle famiglie numerose, e senza tagli insostenibili dal punto di vista sociale.
Anche gli obiettivi di risparmio della spending review, che restano alti, saranno definiti tenendo conto della necessità di non deprimere troppo la crescita dell’economia, ed in particolare i consumi. Anche se, dice il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti, «il governo deve fare delle scelte» e «non si può dare tutto a tutti», a proposito del rinnovo del contratto per i dipendenti pubblici, lasciando presagire un ulteriore congelamento dei contratti per gli statali.
Mantenendo il deficit sempre sotto al 3% il risanamento del bilancio in termini strutturali proseguirebbe, ma con ritmi un po’ più lenti, e comunque senza infrangere le regole europee, che consentono di tener conto delle circostanze eccezionali. L’obiettivo del pareggio potrebbe essere raggiunto più avanti, impostando subito un piano di rientro e un calendario di riforme serrate per spingere il potenziale di crescita dell’economia.

Corriere 3.9.14
La falsa partenza del piano Garanzia Giovani
Meno del 10% degli iscritti avrà un’opportunità
di Fabio Savelli


MILANO — In Veneto cercano un «esperto» contabile rigorosamente a partita Iva. Ricapitoliamo: un esperto (professionista), in regime di consulenza, che sia anche disoccupato e abbia al massimo 29 anni. In Campania vanno per la maggiore gli operatori di call center con contratto di collaborazione. Parasubordinati con i soldi comunitari per ricordarci delle ultime offerte degli operatori di telefonia mobile. Per il Piemonte vengono segnalati diversi avvisi relativi al settore delle pulizie, mentre in Lombardia (tra i profili meno qualificati) spuntano diversi addetti al reparto ortofrutta con contratto a tempo determinato. E poi ci sono i tirocini — perché il programma dello Youth Guarantee prevede anche la possibilità di opportunità formative — come quello da levigatore di legnami (Veneto), estetista (Piemonte), receptionist (Sicilia), commesso di banco (Lazio), barista (sempre Sicilia). Così con lo stage s’impara a fare il caffè, forse anche la granita. A quattro mesi dal lancio del portale governativo Garanzia Giovani le registrazioni sono oltre 169 mila — secondo l’ultimo dato diffuso dal ministero del Lavoro — su un totale (presunto) di oltre due milioni di inattivi. A conti fatti meno del dieci per cento della platea che s’intende raggiungere e con una progressione decrescente delle iscrizioni nelle ultime settimane. Si dirà: bene, forse stiamo sovrastimando la disoccupazione giovanile contabilizzata dall’Istat al 43,7% . Tuttavia sul portale governativo finora campeggiano circa 13 mila opportunità formative/professionali. Così a conti fatti solo uno su tredici potrà avere una chance, fosse anche un tirocinio in un centro estetico, quando il modello originario Youth Guarantee (di estrazione nordica) finanziato da Bruxelles con un assegno da 1,5 miliardi di euro impone che a tutti i candidati venga offerta un’opportunità entro quattro mesi dalla data di registrazione. Il caso vuole gli stessi dalla nascita del portale avvenuta il primo maggio scorso. Il quadro si colora poi di un altro dato interessante: secondo i ricercatori di Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi di diritto del lavoro, oltre il 90% delle offerte di Garanzia Giovani sarebbero già state pubblicate dal portale del ministero del Welfare Cliclavoro e dai siti delle agenzie interinali, tra le quali Adecco, Gi Group, Randstad, Obiettivo Lavoro, Kelly Services, Tempor, Infogroup. L’avrebbero riscontrato attraverso un lavoro certosino fatto di verifiche con le agenzie private che effettivamente avrebbero confermato l’esistenza di selezioni aperte per alcuni profili, esattamente identici a quelli che campeggiano su Garanzia Giovani. Finalmente la riuscita sinergia pubblico/privato auspicata anche dal Jobs act in gestazione alle Camere? Non proprio, visto che i centri per l’impiego finora hanno chiamato per un primo colloquio di orientamento circa 23 mila candidati, cioè un settimo degli iscritti. E la scadenza dei quattro mesi (dal giorno del colloquio, come richiesto dal governo) incombe alla finestra per tutti i candidati con il rischio che il telefono taccia. Per il giuslavorista Michele Tiraboschi è «la conferma del mancato coinvolgimento delle aziende che non hanno previsto alcun piano di inserimento dei giovani nonostante gli incentivi comunitari». Oppure è solo colpa della crisi che impedisce di guardare al di là del proprio naso?

Corriere 3.9.14
«Far West sull’eterologa, Renzi dimostri coraggio»
Fioroni: è urgente regolamentarla senza metterla in discussione
Adozioni gay? Non sono praticabili
intervista di Monica Guerzoni


ROMA — Sui temi etici è ora che il governo batta un colpo. L’onorevole Beppe Fioroni, ex ministro e punto di riferimento per i cattolici del Pd, guarda con preoccupazione crescente alle nuove frontiere della fecondazione eterologa, né sembra fidarsi troppo delle intenzioni del suo partito riguardo alle adozioni gay.
Il «passo dopo passo» è il ritmo giusto per i mille giorni di Renzi?
«Fui io, da ministro dell’Istruzione, a inventare la politica del cacciavite. E ritengo positivo che ci si renda conto che le riforme strutturali necessitano di determinazione, ma anche di tempo. La saggezza popolare del “chi va piano va sano e lontano” ci viene finalmente in aiuto. Adelante Pedro, con juicio... E comunque mille giorni per fare tutto quel programma sono uno sforzo non indifferente, perché è bene avere il Paese dietro fino alla fine».
Camusso, Marchionne, Squinzi... Le voci critiche aumentano.
«Io ritengo che sia necessario valorizzare l’autonomia e il ruolo dei corpi intermedi, anche quando è faticoso, proprio perché non c’è più il collateralismo. Le associazioni datoriali e i sindacati non sono un peso per il Paese, ma la cifra di una democrazia matura. Si devono autoriformare, però guai a ritenerli superflui. Renzi può parlare con Landini, ma non solo con lui. Ed è un errore dire che il segretario della Fiom parla il nostro linguaggio, perché diamo l’idea di una torre di babele che nessuno vuole costruire in Italia».
Si è iscritto al club dei gufi?
«Il Paese si cambia meglio con la condivisione, il che non significa offrire il destro ai frenatori, ma anzi dare vigore alla voglia di cambiare, procedendo assieme verso il futuro. Renzi ha detto che si arriva al maggio del 2017 e che per le riforme ci vuole tempo? Bene, vuol dire che non è ammalato di “annuncite” e che le riforme progressivamente si riempiranno di contenuti e quindi di consenso e di condivisione».
Dal Pil alla produzione industriale i dati economici non sono esaltanti. E c’è chi pensa che il bonus degli 80 euro sia stato un fallimento ...
«Le Monde ha condensato la sua preoccupazione sul futuro in un titolo, “Ma se la crescita non arriva?”. Io sono ottimista per convinzione, ma il nostro percorso è ancora lungo ed è indubbio che, per far crescere l’Italia, serve cambiare l’Europa».
Bersani e D’Alema pensano che Renzi debba lasciare il doppio incarico, rinunciando a guidare il Pd. E lei?
«Mi auguro che Renzi faccia presto la segreteria e le strutture di partito, come più volte ha detto. Chi ha il 41% ha bisogno di operare a pieno regime su tutti i territori per consolidare quel risultato».
Qual è la priorità dei mille giorni?
«L’emergenza economica non può impedire al governo e al Parlamento di affrontare alcuni temi, a cominciare dalla fecondazione assistita. L’Italia per anni fece l’eterologa sulla base di una circolare del ministro Degan nei centri privati e poi, con tutti i suoi limiti, si è arrivati alla legge 40, per evitare il Far West della provetta. Oggi, senza mettere in discussione l’eterologa, è necessario regolamentarla. Scelga il governo lo strumento, ma in tempi rapidi, poiché si rischia di ritornare a quel far west. Renzi dimostri di avere coraggio anche su questi temi».
Quali sono i nodi da sciogliere?
«Quanti figli può generare un donatore? La donazione deve avvenire dietro compenso o gratuitamente? È possibile che un figlio non conosca il padre biologico, in una medicina che è sempre più connessa con la genetica? E come possiamo evitare i matrimoni fra consanguinei, che possono essere causa di malattie genetiche? E ancora, va evitato che la scelta del donatore da parte dei genitori possa sconfinare nell’eugenetica, vista la possibilità con la mappatura genetica di poter scegliere qualunque caratteristica».
Gli embrioni sopranumerari che fine faranno?
«Non possiamo fare più gli struzzi facendo finta che non esistano,dobbiamo evitare che diventino cavie o potenziali pezzi di ricambio per chi può permetterselo».
Lei è da sempre contrario alle adozioni per le coppie gay. O ha cambiato idea?
«Io non ho cambiato idea, né credo che su un tema così delicato si possa ignorare il Parlamento e il volere degli italiani. Ho sostenuto l’idea delle unioni civili sul modello tedesco, che sono una cosa diversa dal matrimonio. E condivido quel che Renzi ha sempre sostenuto, dalla Leopolda in poi, sulla non praticabilità delle adozioni per le coppie gay».
Sui temi etici lei è in minoranza nel Pd...
«Sui temi della vita e della morte non c’è disciplina di partito. Riguardano la coscienza di ciascuno e sono convinto che la maggioranza degli italiani, ma anche molti nel mio partito, credenti e non credenti, condividano il no alle adozioni gay e la necessità di regolamentare l’eterologa».

Corriere 3.9.14
Firenze
Eterologa, prima volta nel pubblico: si parte con otto coppie
di Simona Ravizza


Domani, per la prima volta in Italia, un ospedale pubblico aprirà le porte alle coppie che desiderano sottoporsi alla fecondazione eterologa. Lo farà il Careggi di Firenze ed è un debutto di portata storica: nel nostro Paese, infatti, l’eterologa non ha mai potuto essere eseguita a carico del servizio sanitario, ma solo in cliniche private e a pagamento. Anche prima del 2004 — anno del divieto della donazione di semi e ovociti esterni alla coppia — i centri pubblici non se ne potevano occupare: la tecnica era vietata da una circolare adottata nella metà degli anni Ottanta dall’allora ministro della Sanità, Costante Degan (Dc). Ora le coppie potranno limitarsi al pagamento di un ticket (sui 500 euro). La svolta arriva dopo che la Corte costituzionale ha cancellato il divieto di eterologa sancito dalla legge 40 e dopo che la Toscana ha deciso di procedere anche in assenza di una legge in materia. Scriveva ieri su Facebook il governatore Enrico Rossi (Pd): «Da noi il diritto di provare ad avere un figlio è una realtà».
Domani al Careggi saranno viste otto coppie. È solo l’inizio. Al policlinico fiorentino si è registrato un record di prenotazioni, tanto che i vertici dell’ospedale stanno pensando di raddoppiare le giornate dedicate agli appuntamenti, per ora una a settimana (il giovedì). Finora le prenotazioni sono 184, ma il numero è destinato a crescere di giorno in giorno. «Abbiamo coppie in lista d’attesa fino a febbraio — dice la ginecologa Elisabetta Coccia —. Trovo incredibile che l’eterologa non sia mai stata eseguita in un centro pubblico. La consapevolezza di essere i primi mi emoziona».
Il 75% delle richieste d’aiuto arriva da fuori Toscana, in particolare Lazio e Campania («Ma sono arrivate domande da tutta Italia, anche dalle regioni più lontane come Veneto, Sicilia e Molise», ribadisce Coccia). E, nella maggior parte dei casi, sono le donne ad avere problemi di fertilità. Per il reperimento di ovuli il Careggi ricorrerà, almeno all’inizio, all’egg sharing , ossia alla condivisione di ovociti, in cui la donna che si sottopone al trattamento di procreazione medicalmente assistita per se stessa cede gli ovociti in soprannumero rispetto a quelli che lei utilizzerà. In futuro c’è la speranza di aprire la strada alle donazioni volontarie, in cui le donne sono disposte a sottoporsi al prelievo di ovuli al solo fine di donarli ad altre.
Negli appuntamenti di domani i medici del Careggi inizieranno a esaminare la storia clinica delle coppie, cui seguiranno gli accertamenti clinici. L’eterologa vera e propria verrà effettuata, con ogni probabilità, verso la fine di settembre. Nel frattempo la Regione Toscana definirà anche con esattezza il costo del ticket. «Sarà poco più alto di quello previsto per la fecondazione omologa e dovrebbe aggirarsi intorno ai 500/600 euro per i cittadini residenti — spiega l’assessore alla Salute, Luigi Marroni —. Le coppie provenienti da fuori Toscana? Se ci saranno Regioni disponibili a pagare la prestazione allora i cittadini pagheranno solamente il ticket; altrimenti dovranno pagare l’intero costo, intorno ai 3.000 euro».
Oggi a Roma, invece, c’è un doppio appuntamento. Le Regioni — prima con un tavolo tecnico, poi con uno politico — tenteranno di mettere a punto linee guida comuni che, se approvate in Conferenza Stato-Regioni, potrebbero portare a un’applicazione omogenea a livello nazionale dell’eterologa, dopo lo stop del governo al decreto messo a punto all’inizio agosto dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. L’attesa è forte.

il Fatto 3.9.14
Potenza
Donna uccisa in ospedale, è la potenza dell’omertà
di Antonello Caporale


L’AZIENDA SANITARIA: “SOSPESO IL CARDIOCHIRURGO, STIAMO VALUTANDO LA POSIZIONE DEL PRIMARIO”. VIAGGIO IN UN REGNO DI SILENZIO E FAMILISMO

Potenza è la città silente. Non vede e non sente. Al massimo spettegola. “Ha la sfortuna di essere piccola ma da capoluogo di Regione dover gestire risorse importanti. Ne consegue che ogni provvedimento è costruito attraverso passaggi burocratici che hanno il sapore di riunioni di famiglia. Suocero e nuora, marito e moglie, papà e figlia o figlio o nipote. I nomi si rincorrono e sono uguali. La contiguità produce vizi”, dice il procuratore della Corte dei conti Michele Oricchio.
“Ho lasciato ammazzare una persona”
L’ultimo dei quali è all’ordine del giorno: la confessione rapita da un medico a un altro sulle tecniche di copertura della malasanità. Una paziente in sala operatoria che muore durante una travagliata e all’apparenza assai negligente operazione di cardiochirurgia. Lui vede ma non parla, non denuncia: “Ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona. Non parlo altrimenti mi cacciano... però tengo il primario (coautore dell’operazione) per i coglioni”. Non si era quasi mossa foglia, nel solco dei panni sporchi da lavare obbligatoriamente in famiglia. Poi d’un botto la pubblicazione del nastro e – per conseguenza – l’agitazione. Comunica il direttore generale dell’azienda sanitaria Giampiero Maruggi: “Abbiamo deciso di sospendere un cardiochirurgo (è il medico che confessa e accusa, ndr) e non nego che stiamo valutando una nostra presa di posizione che potrà essere ampliata anche nei confronti del primario (autore dell’intervento considerato negligente) ”.
L’eredità del caso Claps e 21 omicidi irrisolti
Si allarma la politica. Il sottosegretario (lucano) alla Salute Vito De Filippo chiede conto, vuol sapere. Vuol sapere il presidente della giunta regionale Marcello Pittella, vuole approfondire meglio la magistratura, e tutta la città – finora muta – è in attesa di conoscere l’esito di quest’altro scandaletto. Potenza ha sulle spalle l’eredità Claps, la ragazza uccisa, trovata incredibilmente diciassette anni dopo – e dopo una serie di paurose omissioni e defaillances giudiziarie – nel sottotetto di una chiesa. Muta e sorda da una parte, con il vescovo che nemmeno comprende quando il suo parroco gli dice di aver trovato un cranio, cranio che si trasforma in “ucraino”. L’alto prelato verrà chiamato a spiegare ai giudici questa ed altre confusioni di stato e di luogo. Claps è il paradigma di una città che non parla, di una magistratura che ha sulle spalle negli ultimi trent’anni non una catena di successi ma 21 omicidi, alcuni anche molto strani, rimasti senza colpevoli. Tredici anni fa una poliziotta si suicida. La Digos la rinviene impiccata “a una cintura legata a una maniglia di una porta”. Domanda: maniglia della porta?
Città fondata sul cemento per 67 mila abitanti
Potenza è una città fondata sul cemento. Sessantasette mila abitanti in altura (819 metri sul livello del mare) e sepolti dentro un reticolo di palazzoni spropositati nelle misure, proiettati versi il nulla. Il cemento serve alla politica e anche agli ingegneri, al grande partito dei tecnici che gode di un riflesso magico: ogni pezzo di città collegato all’altra da viadotti. L’ultimo dei quali, in fase di tormentata ultimazione, è costato una tombola: 30 milioni di euro più cinque milioni di parcelle. Non per niente si chiama nodo complesso del Gallitello. E anche qui, come nella sala operatoria del San Carlo, si scopre l’inghippo, o quello che appare tale, grazie a una denuncia di un singolo. L’ingegnere Pippo Cancellieri, estraneo alla progettazione, rivela che una porzione di viadotto poggia su basi di argilla: “Sapevo che per un errore marchiano, dovuto a una clamorosa distrazione, era stato messa una quantità di ferro venti volte minore del necessario. Pensavano che dilegiassi, attendevano che mi arrestassero. Il sindaco fece bucare il viadotto e capì che la mia denuncia era fondata”.
Lucania, ciascun potente è parente dell’altro
Ecco, qui è il punto. Non esiste rete di controllo efficiente, organizzata, impermeabile alle pressioni: ciascun dirigente è parente dell’altro. Il giornalista ha la moglie alla Regione, il consigliere regionale è in affari con la Regione, un pm è stato per anni in comunione con la politica attraverso il consorte. Se ogni potere è pervaso all’altro ciascuno si fa i fatti propri. La Lucania è aggrappata alle denunce solitarie, come quella di Giuseppe Di Bello, tenente della polizia provinciale, che rivela come l’invaso del Pertusillo, acqua che serve ai 500mila lucani e ai pugliesi assetati, è divenuto una scia di idrocarburi, un contenitore di veleni. “Mi accusano di procurato allarme, poi di rivelazioni di segreti d’ufficio. Mi processano e mi condannano a tre mesi per il reato di associazione. Ho commesso il reato in concorso con il segretario dei radicali di Basilicata. Ma lui viene assolto. E io perchè sono stato condannato? ”. Il poliziotto è trasferito al museo provinciale, addetto alla sicurezza, a grattarsi i pollici così impara.
L’Eni, l’alga e le carpe morte
L’acqua è perfetta, e le migliaia di carpe trovate morte sono il frutto di un’alga assassina. L’Eni, che qui estrae petrolio, non è imputabile e non sarà imputato. Tutto si chiude sotto il cielo di Potenza. Città infelice, registra un gruppo di psicologi che hanno calcolato l’indice del sorriso delle città italiane. Potenza è la città più infelice d’Italia. “È una terra oscura, senza peccato e senza redenzione – scriveva Carlo Levi – Dove il male non è morale ma è un dolore terreno che sta per sempre nelle cose”. I guai iniziano dal nome. Potenza o Cosenza? “È un cruccio perenne per noi dover sillabare: Po- ten-za. A volte, tristissimo, capita la domanda di rimando: e dove si trova? ”, dice la sociologa Grazia Salvatore. Potenza è il multiplo di un ministero, vive di rendite statali, di pensioni, di rimesse da Bot. Non c’è casa che non abbia il suo impiegato, famiglia che non rappresenti la fedeltà all’idea che la storia passa ma i figli restano. Il governatore Marcello Pittella è fratello di Gianni, capogruppo all’Europarlamento.
Per decenni democristiana e ora all’ombra del Pd
Figli della politica e di un onorevole papà. La Basilicata per decenni è stata democristiana, adesso è del Pd ma sembra la stessa cosa. “Le movenze affettate di Emilio Colombo, pluriministro dc e anche presidente del Consiglio, le sue cautele si ritrovano (anche se sono personalità di diversa statura) nella espressione dorotea di Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera”, dice lo scrittore Andrea Di Consoli. Vero, il sapore democristiano, quell’antichità immobile, è consegnata alle cronache quotidiane. Il nuovo segretario del Pd eletto ieri è Antonio Luongo, già eletto segretario 21 anni fa. Potenza non premia il merito ma la parentela. E il mediocre più che un fesso è colui che poggia la mano alla corda e attende che altri la tirino. Il talentuoso è mobile per necessità, irriverente. Il mediocre invece conserva e sclerotizza. Non fa un passo e se può ostruisce.
Potenza non cambia sé stessa perché è abituata a sostenersi nella cooptazione. Per un incidente elettorale nell’ultima tornata è stato eletto sindaco un esponente di Fratelli d’Italia, Dario De Luca. Doveva cambiare Potenza, ma dai primi passi sembra che Potenza lo abbia già convinto a farsi i fatti suoi.

il Fatto 3.9.14
Deserto umano Ippocrate chi?
Sei nato al Sud. E allora muori
di Enrico Fierro

E allora muori, perché sei nato al Sud e qui ti sei ammalato, qui avevi bisogno di cure, attenzione, professionalità, onestà. E invece hai trovato un medico pavido, che ha fatto scempio del giuramento di Ippocrate (“…regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa”) e di ogni senso di umanità. “Il primario ha amicizie e coperture politiche. Io no”. Così si è sfogato nella confessione, tardiva e inutile, registrata da un suo collega e pubblicata, per fortuna, da Ba  silicata24.it  .
È questo il dramma del Sud, le amicizie politiche, le coperture, il familismo amorale e partitico che in queste lande ha trasformato la sanità pubblica, o quel che ancora ne rimane, in un Far West. Un terra di conquista per partiti famelici, direttori sanitari asserviti, presidenti di aziende sanitarie che non rispondono agli ammalati ma ai loro protettori politici. Un Far West degli sprechi. Se in Europa il 5,6% del budget della sanità pubblica viene assorbito dalla corruzione, nel Sud la percentuale sale, schizza in alto, raggiunge vette vergognose. Sarebbe inutile ricordare i casi di ospedali finiti e chiusi, le sale operatorie completate e abbandonate, le forniture sanitarie che in Calabria, Campania, Puglia e Basilicata, costano dieci volte di più che in altre regioni. Sarebbe pietoso ricordare le tante inchieste aperte e i tantissimi politici coinvolti in scandali che proprio la salute dei cittadini hanno al centro. “Questa è terra vattiata”, avrebbe scritto Leonida Répaci, uno dei tanti, inascoltati cantori dei mali del Sud. Vattiata, maltrattata da politici disonesti e incompetenti.
Basta vedere come dalla Campania alla Sicilia si è proceduto al riordino degli ospedali. I “tagli” sono stati fatti con l’elenco dei collegi elettorali alla mano, e qui pesano più che nelle Regioni del Nord, al punto che in un suo ultimo rapporto il Censis parla di vero “abbandono della sanità pubblica”. Chi può scappa, cerca le cure da Roma in su, turisti sanitari li chiamano.
Anche per questo il Sud si avvia a passi spediti a diventare quel “deserto umano” paventato nell’ultimo rapporto Svimez. Sono dati drammatici che raccontano come metà del Paese è ormai senza futuro, dove aumentano povertà, disoccupazione, emigrazione. Per questa metà dell’Italia abbandonata poco o nulla è previsto nei mirabolanti disegni futuri del governo Renzi.
Qui tra Napoli e Catanzaro, Potenza e Avellino, non contano i diritti, ma le protezioni politiche. E allora muori, e la tua morte in un fredda corsia di ospedale per un errore sanitario sarà coperta dalla più totale omertà. Dopo aver perso da vivo il diritto alla salute, da morto perdi anche quello alla giustizia. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha spedito i carabinieri dei Nas oltre Eboli, presto ci saranno novità, forse si capirà qualcosa e chi deve pagare pagherà. Aspettiamo con scarsa speranza, perché al Sud hanno ucciso anche quella.

il Fatto 3.9.14
Quando la sala operatoria diventa un film horror
di Silvia D’Onghia


I CASI PIÙ DRAMMATICI DA FIRENZE A MODENA, DA BOLOGNA A ROMA E MILANO IN ITALIA OTTO MEDICI SU DIECI SONO STATI SOTTO INCHIESTA ALMENO UNA VOLTA

Da una parte i medici che si difendono, dall’altra i pazienti che si sentono traditi. Scorrendo le cronache e i dossier che si occupano di malasanità, accertata o presunta, sembra che sia in corso da molti anni una vera guerra. Otto medici su dieci con 20 anni di anzianità professionale – stima il Codici, Centro per i diritti del cittadino – sono stati sottoposti a un’inchiesta per un presunto errore, almeno una volta nella loro carriera. Sintomo del fatto che i pazienti non si fidano e che, nel momento in cui sopraggiunge una complicazione, la prima tentazione che viene è quella di dare la colpa al sanitario cui ci si è rivolti. Qualche volta si ha ragione, altre no, o almeno la giustizia penale non riesce ad accertare le reali responsabilità: due cause su tre si concludono, dopo molti anni, con un’assoluzione. La presunta malpractice è al terzo posto tra le segnalazioni che i cittadini hanno fatto lo scorso anno alle 300 sedi italiane del Tribunale per i diritti del malato. Il rapporto PiT Salute 2014 – che sarà presentato alla fine di settembre, ma che il Fatto è in grado di anticipare – evidenzia come su 24.110 segnalazioni, la presunta malasanità è al 15,5 per cento, rappresenta cioè oltre 3.700 denunce. Tra queste, i presunti errori terapeutici sono al 58,5 per cento e quelli diagnostici al 41,5. Le medaglie nere, e questa non è una grande novità rispetto agli ultimi anni, vanno a ortopedia, chirurgia generale, oculistica, ginecologia, odontoiatria e oncologia.
Errori e orrori in tutta Italia negli ultimi anni
Numeri che prendono forma quando si raccontano alcuni dei casi più gravi degli ultimi anni. Nel febbraio 2007 all’ospedale di Careggi, Firenze, per un’errore di trascrizione sono stati impiantati su tre pazienti gli organi espiantati ad una paziente sieropositiva. Sempre nel 2007, annus horribilis, al Sant’Orsola-Malpighi di Bologna una donna è morta dopo l’asportazione di un rene (le era stata attribuita la Tac di un’altra paziente con lo stesso cognome) e al San Paolo di Milano, durante un aborto terapeutico per eliminare un feto malformato in una gravidanza gemellare, è stato soppresso per errore quello sano. La magistratura è chiamata ora ad accertare cosa sia accaduto nel luglio scorso al policlinico Tor Vergata di Roma, dove una bimba affetta da anemia falciforme è morta durante un intervento di posizionamento di un catetere, operazione preliminare al trapianto di midollo considerata di routine. Ed è di pochi mesi fa la notizia che a Modena un uomo si è visto estrarre una garza dall’addome 35 anni dopo essere entrato in sala operatoria.
Il Tribunale per i diritti del malato
“Nel caso di Potenza chiediamo non solo che vengano accertare al più presto le responsabilità e che, nel frattempo, l’equipe venga sospesa – commenta Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato –, ma che quanto accaduto apra una riflessione più seria sulla necessità di dotare le sale operatorie di una sorta di ‘scatola nera’, che rimanga a disposizione di paziente e medico. A tutela di entrambi”. In questa direzione va la decisione del garante della privacy che ha dato ragione a una paziente la quale chiedeva all’ospedale la registrazione del suo intervento.
La difesa dei dottori: “Avvoltoi e allarmisti”
Esiste però l’altro fronte, quello dei medici: secondo i rapporti dell’Unione europea, dicono i membri dell’“Associazione Medici accusati di malpractice ingiustamente”, “il 57 per cento degli italiani teme di subire danni in ospedale, nonostante solo il 13 per cento di loro abbia dichiarato di averlo subito”. Questo perchè, spiegano, esistono gli “avvoltoi della malasanità, pronti a trarre vantaggio dall’allarmismo”. E in effetti basta navigare su internet e cercare “errori sanità” per trovarsi di fronte a un lungo elenco di studi legali pronti a difendere cittadini-presunte-vittime. “Il corporativismo e l’omertà che abbiamo visto a Potenza – prosegue Aceti – dovrebbero far ripensare la normativa sulla responsabilità professionale, e non solo nella direzione di abbreviare i termini di prescrizione per la denuncia”.
Il sistema assicurativo fai-da-te
Ormai le Regioni, da cui dipendono le Asl, non stipulano più contratti assicurativi, troppo onerosi a fronte degli effettivi risarcimenti da erogare. Secondo l’Ania (l’associazione delle imprese assicuratrici), Liguria, Toscana, Puglia e Basilicata hanno adottato un sistema fai-da-te, con fondi accantonati ad hoc. Le altre Regioni, e la Provincia autonoma di Trento, restano assicurate per importi superiori a una certa soglia, che va dai 250 ai 500mila euro. Mentre i privati hanno l’obbligo di assicurarsi, per i medici dipendenti pubblici rispondono appunto le Asl. E, a maggior ragione allora, in sala operatoria il silenzio diventa d’oro.

il Fatto 3.9.14
Scuola, la riforma Renzi-Gelmini
di Salvatore Cannavò


I 100 MILA PRECARI DA ASSUMERE – SENZA SCATTI DI STIPENDIO, COME FECE IL PDL – COPRONO CHI VA IN PENSIONE O POCO PIÙ

La riforma della scuola non sarà una riforma. Questa è la prima certezza che si ricava dalla pubblicazione, prevista per questa mattina alle ore 10 sul sito passodopopas  so.it , del Rapporto sulla scuola pubblica più volte annunciato da Matteo Renzi. Si chiamerà la “Buona scuola” e, appunto, invece di una riforma rappresenta le “Linee guida” che saranno messe a disposizione del mondo degli insegnanti, degli studenti, delle famiglie per l’ennesima consultazione popolare che dovrebbe tenersi dal 15 settembre al 15 novembre. Poi, con calma, si tracceranno i vari provvedimenti. Qualsiasi novità, comunque, non potrà che vedere la luce con il prossimo anno scolastico, quello che prenderà il via a settembre del 2015.
In attesa del piano governativo, le indiscrezioni dei giorni scorsi si sono accumulate l’una sull’altra. Un po’ più di chiarezza, però, l’ha fatta lo stesso Renzi, proprio ieri, pubblicando la sua E-news mensile in cui un passaggio è dedicato proprio alla scuola. Fra vent’anni, scrive Renzi, “l’Italia sarà come l’avranno fatta le maestre elementari, gli insegnanti di scuola superiore, le famiglie che sono innanzitutto comunità educanti”. Per questo, dice il premier, “noi non facciamo l’ennesima riforma della scuola” ma proponiamo “un nuovo patto educativo”. Saranno “proposte” e non dei “diktat prendere o lasciare” scrive ancora Renzi. E qui arrivano i punti salienti: “Proporremo agli insegnanti di superare il meccanismo atroce del precariato permanente e della ‘supplentite’, ma chiederemo loro di accettare che gli scatti di carriera siano basati sul merito e non semplicemente sull’anzianità: sarebbe, sarà, una svolta enorme”.
La frase, incomprensibile per i più, può voler dire una cosa già circolata nelle bozze allo studio. Si tratta di rivedere le piante organiche della scuola pubblica, adeguando l’organico di diritto (più basso) a quello di fatto o funzionale (più alto) in modo da dotare le scuole del personale necessario a svolgere le lezioni. Quindi, sulla carta, fine delle supplenze. Non significa però che tutti i precari oggi in circolazione verranno assunti, come ha più volte sottolineato Renzi. Anzi, è probabile che sfruttando un ampio turn-over offerto dall’andata in pensione di molti insegnanti entrati in servizio negli “anni d’oro” dei 70, si arrivi a una stabilizzazione più o meno consistente - 100 mila? - nel giro di tre anni. Un modo per stare dentro i margini finanziari rispettando in questo modo i tagli mai più recuperati della riforma Gelmini. In cambio, dice Renzi, gli insegnanti devono rinunciare agli scatti automatici progressivi e accettare scatti di stipendio basati sul merito.
Problema spinoso perché nella scuola italiana è difficile capire cosa sia e chi possa stabilire il merito. In ogni caso, una soluzione del genere è stata già applicata nel 2011 con il ministro Gelmini, quando i sindacati, tranne la Cgil, accettarono la soppressione dello scatto nei primi tre anni per portarlo a otto. Ne derivò un risparmio che permise la stabilizzazione di circa 67 mila precari. Oggi si potrebbe produrre uno scambio analogo.
L’OBIETTIVO DI RENZI in ogni caso è di parlare direttamente a “famiglie e studenti” per chiedere loro se “condividono le nostre proposte sui temi oggetto di insegnamento: dalla storia dell’arte alla musica, dall’inglese all’informatica”. L’aspetto mediatico dell’iniziativa consiste anche nella volontà di scavalcare gli insegnanti per parlare direttamente a tutto il resto, famiglie in primis. In questa logica si spiega l’intenzione di ridare centralità alle scuole private con l’ipotesi della defiscalizzazione della spesa per le rette. Misura che potrebbe valere anche diverse centinaia di milioni. Ma anche l’idea di paragonare i presidi ai sindaci, dando loro più ruolo, responsabilità e autonomia. Infine, la centralità, ribadita più volte, della “alleanza scuola-lavoro” anche con l’enfasi posta sulla riforma dello Statuto dei Lavoratori per tendere a quel “modello tedesco” riscoperto ormai come strategico. Ieri, non a caso, Renzi ha visto a lungo anche il ministro Poletti per mettere a punto il piano sulla delega-lavoro la cui discussione riprende domani al Senato. E che al premier non dispiacerebbe appaiare al dibattito sulla scuola pubblica.
La consultazione popolare, dunque, scatta dal 15 settembre al 15 novembre, poi, nella legge di stabilità, “ci saranno le prime risorse e da gennaio gli atti normativi conseguenti”. Come si vede, non si va più di corsa ma “passo dopo passo” perché, dice lo stesso Renzi, “la scuola non si cambia con un decreto”. Forse nemmeno con due.

La Stampa 3.9.14
Mogherini: «Italia pronta a intervenire in Ucraina. Colpa di Mosca se non è più partner»”
Prime esercitazioni dell’Alleanza Atlantica nei Paesi dell’Est Europa
Il Cremlino: «Pronti a reagire. Rivedremo la nostra strategia militare»

qui

La Stampa 3.9.14
Anche i parà della Folgore alle grandi manovre nell’Est
di Alberto Simoni


Circa 90 italiani alle nuove esercitazioni lungo il confine con la Russia

Il messaggio a Putin arriva puntuale a poche ore dall’inizio del vertice della Nato domani in Galles. Le truppe dell’Alleanza si schierano a Est; esercitazioni in grande stile, migliaia di uomini, centinaia di mezzi e aerei schierati fra Germania, Estonia, Polonia, Lettonia e Lituania. Una mobilitazione evidente secondo il desiderio di Rasmussen, segretario uscente della Nato che da settimane ripete: «Saremo più visibili a Est».
E così è stato. Baltici (e non solo) ringraziano; il timore che Putin dia corpo al sogno di riunire «il grande popolo russo», refrain che torna sempre più spesso nei suoi discorsi, a quelle latitudini è percepito come minaccia reale, tutt’altro che una boutade. Certo, le esercitazioni erano in programma da tempo, da prima che scattasse l’invasione della Crimea. Nessuna inversione di rotta. Lo dicono al Comando dell’Alleanza, e lo confermano fonti della Difesa italiana. Già perché fra i nove Paesi che hanno mobilitato i soldati ci sono anche circa 90 uomini di un reparto del 186° Reggimento paracadutisti della Brigata Folgore. Il loro compito «è addestrarsi - spiegano ancora alla Difesa – alla pianificazione e alla condotta di varie tipologie di operazioni terrestri».
L’obiettivo - nota un comunicato della Nato - è facilitare l’addestramento di una forza multinazionale di oltre duemila uomini per le azioni di terra. Eppure se la Nato parla di «normale amministrazione», è vero che nelle ultime settimane vi è stato un ampliamento degli obiettivi delle esercitazioni. Quelle di ieri, battezzate «Steadfast Javelin II», sono state esplicitamente designate per rassicurare i paesi confinanti con la Russia tanto che fra le manovre ve ne sono di specifiche per lo scenario di risposta in caso di attacco ai Paesi baltici. «Steadfast Javelin II» è ora « un’esercitazione multinazionale su larga scala».
I test anti-Russia proseguiranno poi secondo il calendario già fissato; dal 13 al 20 settembre ci sarà «Rapid Trident» con dodici Paesi coinvolti; teatro delle operazioni sarà Lviv in Ucraina. Quindi dal 15 al 27 in Germania e Norvegia ci sarà «Noble Ledger» per testare anzitutto la componente di terra della Forza di reazione rapida, quella «punta di lancia» che sarà il punto nevralgico della dottrina tattica e strategica dell’Alleanza atlantica.
Il messaggio a Putin arriva puntuale a poche ore dall’inizio del vertice della Nato domani in Galles. Le truppe dell’Alleanza si schierano a Est; esercitazioni in grande stile, migliaia di uomini, centinaia di mezzi e aerei schierati fra Germania, Estonia, Polonia, Lettonia e Lituania. Una mobilitazione evidente secondo il desiderio di Rasmussen, segretario uscente della Nato che da settimane ripete: «Saremo più visibili a Est».
E così è stato. Baltici (e non solo) ringraziano; il timore che Putin dia corpo al sogno di riunire «il grande popolo russo», refrain che torna sempre più spesso nei suoi discorsi, a quelle latitudini è percepito come minaccia reale, tutt’altro che una boutade. Certo, le esercitazioni erano in programma da tempo, da prima che scattasse l’invasione della Crimea. Nessuna inversione di rotta. Lo dicono al Comando dell’Alleanza, e lo confermano fonti della Difesa italiana. Già perché fra i nove Paesi che hanno mobilitato i soldati ci sono anche circa 90 uomini di un reparto del 186° Reggimento paracadutisti della Brigata Folgore. Il loro compito «è addestrarsi - spiegano ancora alla Difesa – alla pianificazione e alla condotta di varie tipologie di operazioni terrestri».
L’obiettivo - nota un comunicato della Nato - è facilitare l’addestramento di una forza multinazionale di oltre duemila uomini per le azioni di terra. Eppure se la Nato parla di «normale amministrazione», è vero che nelle ultime settimane vi è stato un ampliamento degli obiettivi delle esercitazioni. Quelle di ieri, battezzate «Steadfast Javelin II», sono state esplicitamente designate per rassicurare i paesi confinanti con la Russia tanto che fra le manovre ve ne sono di specifiche per lo scenario di risposta in caso di attacco ai Paesi baltici. «Steadfast Javelin II» è ora « un’esercitazione multinazionale su larga scala».
I test anti-Russia proseguiranno poi secondo il calendario già fissato; dal 13 al 20 settembre ci sarà «Rapid Trident» con dodici Paesi coinvolti; teatro delle operazioni sarà Lviv in Ucraina. Quindi dal 15 al 27 in Germania e Norvegia ci sarà «Noble Ledger» per testare anzitutto la componente di terra della Forza di reazione rapida, quella «punta di lancia» che sarà il punto nevralgico della dottrina tattica e strategica dell’Alleanza atlantica.

Corriere 3.9.14
Quel viaggio ad Auschwitz annullato dalla scuola palestinese aperta al dialogo
di Davide Frattini


Il ritratto di Mohammed Abu Khdeir sta appeso sulla lavagna, la sua sedia resta vuota. Il ragazzino palestinese ucciso all’inizio di luglio da tre estremisti ebrei non è tornato a scuola. Una scuola che da oltre trent’anni prova a insegnare la coesistenza agli allievi arabi. A differenza degli altri istituti a Gerusalemme Est, non segue il corso di studi dell’Autorità palestinese, il preside Fawzi Abu Gosh ha scelto quello israeliano. Ripete che la democrazia, il rispetto degli altri sono al centro dei suoi insegnamenti.
Mohammed, 16 anni, è stato ucciso nel primo giorno delle vacanze scolastiche, lunedì è stata la prima volta che gli studenti e i professori si sono ritrovati a parlare di lui dentro la scuola, a discutere dell’odio che lo ha ammazzato: è stato portato via vicino a casa e bruciato vivo per vendicare l’uccisione di tre giovani israeliani. Altri ragazzi palestinesi sono stati arrestati durante gli scontri di questa estate di guerra (protestavano per la morte di Mohammed, protestavano per i morti di Gaza), altri non escono la sera perché i padri e le madri hanno paura che vengano attaccati.
Il preside Abu Gosh non ha perso la speranza di trasmettere il senso della convivenza, è stato costretto però a cancellare la visita in Polonia, la sua è una delle pochissime scuole arabe a portare gli allievi nel campo di Auschwitz, perché «devono imparare a sentire e capire il dolore dell’altra parte». Abu Gosh è stato criticato e accusato dai palestinesi di accettare «la versione sionista», mostrare l’orrore dell’Olocausto è considerata una forma di tradimento ideologico. «I genitori dei ragazzi questa volta non ce l’avrebbero permesso», dice al quotidiano Haaretz. La violenza di questi tre mesi ha zittito ancor di più le voci aperte al dialogo, succede anche per la sinistra israeliana, minacciata e malmenata in casa dagli ultrà della destra. Sarebbe stata proprio la classe di Mohammed Abu Khdeir a dover partire per Auschwitz, per un viaggio verso gli altri che per ora non sembra possibile.

La Stampa 3.9.14
“Boicottate gli artisti israeliani”
Nel mirino MiTo e Torino Danza
La protesta contro Tel Aviv tocca i concerti. Manifestazione davanti alle biglietterie
di Massimo Numa

Non erano tanti, ma è l’idea che li ha mossi a essere inquietante. Gli attivisti del «Comitato boycott Israel» di Torino, più alcuni militanti dei centri sociali torinesi, si sono ritrovati ieri pomeriggio in via Rossini, davanti alla biglietteria di Torino Danza per protestare contro il ruolo degli artisti israeliani nelle manifestazioni in programma per tutto settembre.
Un’azione che preoccupa non poco la comunità ebraica, che già lamenta minacce di boicottaggio contro i negozi. «La cultura è dialogo: attaccare gli artisti è una forma grave di antisemitismo», dice Beppe Segre, presidente della Comunità torinese.
Quattro nel mirino
La protesta ha portato alla scrittura di un documento-appello, che invita a boicottare «quattro spettacoli con artisti israeliani». Quelli di MiTo, dove il 12 settembre è atteso il trio jazz guidato dal contrabbassista Avishai Cohen, il 19 il pianista Omri Mor, il 21 la cantante Noa. Quelli di Torino Danza, dove al Carignano si esibirà la Kibbutz Contemporary Dance Company nello spettacolo Aide-Memoire. «In conformità con la campagna internazionale di boicottaggio - prosegue il documento -, disinvestimento e sanzioni verso Israele, è importante che tutte le persone e le associazioni sensibili si mobilitino per l’annullamento di questi eventi, come forma di protesta per il regime di apartheid vigente da 66 anni in Palestina e per i terribili massacri perpetrati a Gaza In particolare s’invita a costruire una forte mobilitazione contro l’evento del Torino Danza Festival del 27-28 settembre, in quanto direttamente sponsorizzato dall’Ambasciata israeliana. La rassegna Torino Danza - continua il documento - sembra essere particolarmente permeabile alle pressioni della “Israel lobby»: due anni fa ospitò la Batsheva Dance Company e, di fronte agli appelli che chiedevano l’annullamento dell’evento il direttore del Festival, tuttora in carica, criticò il boicottaggio definendolo una “censura violenta”».
A proposito di «Aide Memoire», uno spettacolo dedicato allo sterminio degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale, si arriva ad accusare gli israeliani di «strumentalizzare» la storia «per giustificare l’esistenza di «Israele e i suoi crimini».
L’attacco
Conclusione: «Si invitano singoli e associazioni a costruire una forte campagna di iniziative, dal 2 fino al 28 settembre, per il boicottaggio degli eventi culturali sopracitati, come forma di solidarietà concreta con la quotidiana Resistenza del popolo palestinese». Infine due lettere aperte, inviate ai musicisti Cohen e Mor, in cui gli artisti sono invitati a prendere posizione esplicita contro Israele confidando in una loro non «neutralità».
Campagna d’odio
Da mesi ormai sui siti antagonisti e sui profili dei social network legati ai centri sociali,alle frange estreme del movimento No Tav e ad alcuni settori dell’area anarchica, è in atto una massiccia campagna d’odio contro Israele.
Un crescendo senza soste, culminato con la pubblicazione dei prodotti israeliani da boicottare; non solo multinazionali ma anche piccole aziende che hanno quote di partecipazione in società di medie o piccole dimensioni. Gli elenchi vengono aggiornati continuamente e il boicottaggio si riflette anche sulle aziende italiane che vendono armi, tecnologia e altro a Tel Aviv.
Anche a Torino sono comparsi volantini davanti ai negozi gestiti da membri della comunità ebraica, per invitare i clienti a non entrare.

La Stampa 3.9.14
Barbarie come armi da guerra
Così gli islamisti fanno proseliti
Impossibili le trattative, con la brutalità creano terrore e consensi
di Maurizio Molinari

Giovano a terrorizzare i nemici, attirano volontari jihadisti ed aiutano il Califfo a consolidare il potere: sono gli aspetti delle decapitazioni che ne fanno un’arma efficace nelle mani dello Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi, obbligando i Paesi che hanno dei cittadini in ostaggio ad affrontare le crisi in maniera assai diversa da quanto avvenuto finora.
Ad affermare che «le decapitazioni giovano ai terroristi che le praticano» è Aaron Zelin, esperto di gruppi jihadisti del «Washington Institute», secondo il quale «Isis ha conquistato Mosul, con 500 mila abitanti, perché i soldati iracheni che la proteggevano sono fuggiti alla vista delle sue bandiere nere, temendo crocifissioni, amputazioni, esecuzioni di massa ed ogni altro tipo di violenza brutale che distingue le milizie di al-Baghdadi». Il secondo aspetto delle decapitazioni è, secondo un recente rapporto d’intelligence britannica, «l’effetto sul reclutamento dei volontari stranieri». Fra i circa 12 mila combattenti di Isis almeno 3000 sono occidentali e monitorando quanto scrivono e postano sul web, gli 007 cybernetici britannici hanno trovato frequenti riferimenti alle decapitazioni. In un caso un jihadista inglese ha postato su Instagram la foto di un miliziano di Isis circondato da teste mozzate con a fianco un falso scheletro, scrivendo a commento: «Il nostro fratello Abu B di Isis posa con i trofei dell’operazione di ieri, ma lo scheletro è falso».
Timothy Furnish, islamista dell’Università della Georgia autore del volume «Mahdi islamici, le loro Jihad e Bin Laden», parla di «effetto-choc» per descrivere «ciò che i terroristi cercano sin dagli Anni Settanta ed Ottanta» spiegando che «iniziarono con il dirottamento degli aerei, hanno continuato con gli attacchi kamikaze ed ora hanno trovato le decapitazioni» riuscendo a «massimizzare lo choc fra i nemici e il sostegno nelle regioni dove si trovano ad operare». «La natura grafica della decapitazione, con il focus sull’individuo, ha un impatto dissacrante e violento assai più agghiacciante di un’autobomba» concorda Shashank Joshi del «Royal United Services Institute» di Londra. A differenza degli «effetti-choc» precedenti però le decapitazioni, continua Furnish, «si richiamano alle origini dell’Islam perché nella Sura 47 del Corano è scritto «quando incontri gli infedeli colpisci i loro colli» e nella Sura 8:12 si legge «colpirò nel cuore degli infedeli, levagli le teste e le punte delle dita». «È su queste basi che nell’Impero Ottomano le esecuzioni erano molto frequenti - aggiunge Fred Donner, storico dell’Islam all’Università di Chicago - così come ancor oggi l’Arabia Saudita pratica la decapitazione per le esecuzioni capitali, rifacendosi alla Sharia».
Il richiamo alle origini dell’Islam ha un valore particolare nel caso di al-Baghdadi, sottolinea Donner, perché «scegliendo per sé il titolo di Califfo si è autoindicato come successore di Maometto» lasciando intendere di voler combattere come si faceva allora.
Se questa è la cornice nella quale Al Baghdadi opera, la conseguenza per gli Stati a cui appartengono i suoi ostaggi - come nel caso della Gran Bretagna con David Cawthorne Haines - è l’«impossibilità di trattare» riassume Zelin. Se finora nei sequestri avvenuti in Afghanistan o in Iraq molti governi trattavano, magari anche pagando, ora Isis appare non interessato a tali esiti, obbligando gli Stati a esplorare «un terreno sconosciuto» conclude Zelin.

Repubblica 3.9.14
Il  califfato e la duplice catastrofe per l’Occidente
Sotto i colpi di Al Baghdadi giungono a compimento due dei fondamenti della cultura politica occidentale: lo Stato nazione e la forma-partito
di Renzo Guolo

L’AFFERMAZIONE dello Stato Islamico in Mesopotamia costituisce una duplice catastrofe per l’Occidente. Sul piano geopolitico e culturale. Sotto i colpi di maglio dell’organizzazione di Al Baghdadi giungono, infatti, a compimento due dei fondamenti della cultura politica occidentale: lo Stato-nazione e la forma-partito. Il primo, prodotto nella sua versione locale dal tracollo dell’impero Ottomano e dal neocolonialismo, cede sotto il peso di dottrine transnazionali come il radicalismo islamista. Esito in linea con lo spirito del tempo, caratterizzato prevalentemente dalla scala globale/ locale. Nell’era della fine dei confini anche in quella regione perde di efficacia, e legittimità, ciò che sta in mezzo. Il radicalismo islamista intercetta sia il malessere nei confronti dello Stato-nazionale, rifiutato in nome di principi di aggregazione più estesi, come l’appartenenza confessionale; sia la “voglia di co- munità” che premia i legami di prossimità capaci di generare un ordine condiviso: quelli clanici e tribali.
Insomma, nella sua totalizzante e devastante ideologia, lo Stato Islamico appare come un fenomeno molto meno estraneo alla dialettica della fase della Modernità che stiamo vivendo. Certo, lo Stato nazionale che fallisce è quello tracciato in modo assai superficiale dai geografi militari occidentali, indifferenti al fatto che un territorio fosse o meno culturalmente omogeneo. Laddove vi è gruppo etnoconfessionale marcatamente dominante e un sistema politico che garantisce, sotto varie forme, rappresentatività il fenomeno è meno evidente. Ma anche questo è significativo. Perché gli Stati nazionali in questione quella rappresentatività non sembrano più in grado di garantirla. Da qui la ritrovata legittimità dell’utopia totalitaria dello Stato religioso in versione islamista, come il Califfato; o la rivitalizzazione dei mai sopiti ‘ asabiyya, i legami tradizionali che non necessariamente trovano un contenitore nello Stato moderno. Dimensioni, appunto, transnazionali o locali. Significativo è anche il parallelo crollo del- la forma-partito che ha sin qui sorretto lo Stato nazionale. Sia in Siria, sia in Iraq, l’attore dominante, sino a trasformarsi in partito-Stato, è rimasto a lungo il Baath. Arabista e più o meno socialisteggiante, o nazionalsocialisteggiante a seconda dell’epoca e dei leader, il Baath si è trasformato in entrambi i paesi da organizzazione interconfessionale e interetnica in formazione che riproduceva e garantiva uno specifico particolarismo. Così in Siria, Assad padre ne ha fatto l’espressione del potere alauita e in Iraq Saddam Hussein il perno del dominio sunnita. A testimonianza della scarsa fiducia nelle moderne forme di solidarietà, entrambi gli autocrati ritenevano che solo i legami pre-politici potessero garantire lealtà e mantenimento del potere. Partiti di massa che tenevano originariamente insieme sunniti e sciiti, cristiani e yazidi, drusi e arabi, curdi e turcomanni, sono divenuti strutture omogenee. Producendo per reazione, da parte di quanti ne erano esclusi, ostilità sulla medesima base particolaristica. Il sequestro etnoconfessionale dello Stato è diventato, così, il volano del settarismo.
L’Iraq esplode quando, nel 2003, il “governatore” americano dell’Iraq Bremer scioglie il Baath, ormai espressione dei soli sunniti che, dopo quella fatale decisione, si ritrovano senza rappresentanza. In Siria la deflagrazione è scatenata, oltre che dall’autoritarismo degli Assad, dalla progressiva presa di potere nel partito della minoranza alauita, che si protegge dal sunnismo maggioritario mettendolo ai margini. È questa duplice crisi, del partito che non riesce più a essere pluriconfessionale e plurietnico, e dello Stato nazionale identificato come base esclusivista di potere dell’Altro, che prepara l’implosione mesopotamica, alimentata poi dalla duplice guerra, esterna e interna. Una crisi determinata, dunque, anche dal fallimento in loco delle categorie della politica occidentale, come del resto dimostra l’impasse dell’esportazione della democrazia in versione hard o soft power.
Se non si prende atto di questa duplice catastrofe, che attiene anche alla questione del dopo, difficilmente si comprendono le dinamiche endogene di un conflitto che interroga drammaticamente l’Occidente e va oltre le questioni, pur decisive, della stabilità e della sicurezza.

Il Sole 3.9.14
Smentiti i catastrofismi
La Cina non si ferma ma ha bisogno di riforme
Yu Yongding

All'inizio dell'anno, le voci di un'imminente catastrofe finanziaria in Cina dilagavano. Negli ultimi mesi, invece, l'economia si è stabilizzata, lasciando pochi dubbi sulla capacità della Cina di crescere nel 2014 di oltre il 7 per cento. Tenuto conto che il governo ha avuto ampio campo d'azione per un intervento politico, questa svolta risolutiva non dovrebbe stupire più di tanto. Restano irrisolti, però, i problemi che avevano fatto squillare i campanelli d'allarme, tra i quali le bolle del settore immobiliare, l'indebitamento dei governi locali, una rapida crescita nell'attività del sistema bancario ombra e coefficienti in espansione della leva finanziaria delle società. Il pericolo più immediato è costituito dalla concomitanza degli alti costi degli oneri finanziari, del basso rendimento delle società non finanziarie, e degli altissimi coefficienti del rapporto di indebitamento delle aziende.
Secondo uno studio dell'Accademia cinese delle Scienze Sociali, il rapporto tra indebitamento e Pil delle società non finanziarie era del 113 per cento alla fine del 2012. Standard & Poor's ha riscontrato che a distanza di un anno l'indebitamento di queste aziende ammontava a 14.200 milioni di dollari, una cifra che eclissa il mastodontico indebitamento Usa (13.100 milioni di dollari) e fa della Cina la più grande emittente di titoli di debito societario. Nulla sembra dimostrare che questo coefficiente calerà tanto presto e ciò è preoccupante, se si tiene conto del basso rendimento e degli alti oneri finanziari ai quali devono far fronte le aziende del comparto industriale.
In verità, il rendimento delle imprese cinesi l'anno scorso è arrivato poco al di sopra del 6 per cento, e nel 2012 gli utili delle 500 aziende più importanti (per lo più statali) avevano superato a stento il 2 per cento. Nel frattempo, i tassi di interesse sui prestiti bancari alle società non finanziarie restano vicini al 7 per cento, sebbene l'anno scorso siano leggermente diminuiti. E nel secondo trimestre di quest'anno, il tasso di interesse su base annua sui prestiti alle piccole società non finanziarie ha superato il 25 per cento.
Dati gli scarsi guadagni, insufficienti per gli investire, le società non finanziarie dipenderanno sempre più dai finanziamenti dall'estero.
Quando aumenteranno i coefficienti di leva finanziaria, aumenteranno di conseguenza i premi, e ciò provocherà un innalzamento degli oneri finanziari e pregiudicherà ancor più la redditività. Il ciclo distruttivo sarà difficile da spezzare. Se per esempio le aziende diminuiranno gli investimenti, influiranno negativamente sulla crescita indebolendola e daranno una spinta maggiore al loro coefficiente di leva finanziaria.
Certo, tra il 1998 e il 2001 la Cina ha superato una sfida simile nel suo settore pubblico. Ha perseguito investimenti nelle infrastrutture finalizzati a potenziare la crescita e lo sviluppo del settore immobiliare per debellare la deflazione, mantenendo al contempo artificialmente bassi i tassi di interesse per contenere l'aumento del debito pubblico. Da allora, però, sono cambiate molte cose. Il modello di crescita trainato dagli investimenti ha aggravato le debolezze strutturali, che ora devono essere risolte. La Cina deve frenare il ritmo degli investimenti nel settore immobiliare, al quale si deve oltre il 13 per cento del Pil degli ultimi anni: la mossa indubbiamente porterà a una crescita economica più lenta e, a sua volta, inciderà maggiormente sulla redditività delle società non finanziarie.
Nonostante questi rischi, è prematuro scommettere su una crisi del debito delle società in Cina. Tanto per cominciare, nessuno sa con certezza a quale livello di leva finanziaria si potrebbe innescare una crisi. La Cina non ha ancora portato a compimento l'iter di riforme orientate al mercato, che potrebbero innescare un potenziale di crescita enorme. La leadership cinese dovrebbe sfruttare il momento per intensificare i propri sforzi riformistici.
(Traduzione di Anna Bissanti)
© Project Syndicate, 2014 -

La Stampa 3.9.14
Nord Corea, dove la dissidenza è “genetica” e la fame rallenta lo sviluppo dei bambini
Una serie di visite internazionali ha portato sulle pagine dei giornali una “Corea del Nord diversa dai soliti cliché”
Qualche dato: l’aspettativa di vita degli abitanti è di 11 anni inferiore a quella dei sud coreani, e 50 anni di politiche agricole autarchiche hanno portato il Paese a un alto tasso di malnutrizione
di Ilaria Maria Sala

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La Stampa 3.9.14
Salvini: “Ha ragione Razzi, la Corea è come la Svizzera”
Il leghista dopo la missione: “È pulita e non c’è criminalità”
di Alberto Mattioli
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La Stampa 3.9.14
Il “Padre nostro” di Chavez
Un «altarino»: “E liberaci dal capitalismo”

«Chavez nostro che sei nei cieli, in terra, in mare e in noi, i delegati di partito, sia santificato il tuo nome e venga la tua parola per portarla ai popoli»
di Filippo Fiorini


Quando Maria Uribe ha letto la preghiera che il partito socialista venezuelano ha composto per lo scomparso presidente Hugo Chavez, la platea non sapeva bene come reagire. C’era il premier Nicolas Maduro, molti ministri e innumerevoli camicie rosse, che si dividevano tra chi applaudiva, chi chinava il capo e chi invece aveva un sorriso ambiguo, nel caso si trattasse di uno scherzo. Quando però la delegata ha concluso con un «amen» e un «viva Chavez!», tutti hanno capito che era arrivato il momento di gridare: «Viva!», e alzare il pugno verso il cielo.
La donna aveva appena recitato una versione del Padre nostro, in cui il nome del Comandante morto di cancro l’anno scorso sostituiva quello di Dio e dove anche i mali peggiori che la rivoluzione bolivariana vede nella storia, prendevano il posto di quelli da cui mette in guardia la famosa preghiera.
«Chavez nostro che sei nei cieli, in terra, in mare e in noi, i delegati di partito - dice il salmo - sia santificato il tuo nome e venga la tua parola per portarla ai popoli».
Dopo i primi versi, però, e poco prima di chiedere di «non indurci nella tentazione del capitalismo», la parafrasi dell’orazione che, secondo i vangeli, Gesù insegnò personalmente agli apostoli, incappa in un episodio imbarazzante. «Dacci oggi la tua luce, perché ci illumini ogni giorno», ha detto infatti la compagna Uribe, glissando su quel «pane quotidiano», che in Venezuela è diventato difficile da trovare, perché le politiche protezioniste stanno causando ripetute crisi nei beni di prima necessità.
Cittadini di un Paese cattolico e petrolifero, i venezuelani hanno eletto lo stesso governo socialista dal 1999 a oggi. Col passare degli anni, l’iniziale benessere che questo ha portato ai più poveri, ha ceduto il terreno alla corruzione, al disagio e alla distruzione dell’industria. Tutti problemi che il carisma di Chavez aiutava a tenere in secondo piano. Per questo, dopo la sua morte, l’uomo è stato trasformato in divinità: il suo successore, Maduro, dice che lo spirito del Comandante lo guida e gli appare sotto mille forme, tra cui la più bizzarra è stata certamente quella di un uccellino. Le città sono piene di gigantografie degli occhi dell’ex presidente. Osservano tutta la vita, comprese le manifestazioni che da più di sei mesi infiammano la nazione e chiedono la fine di un’amministrazione sempre più isolata, autoritaria e surreale.

il manifesto 3.9.14
La fisica è un campo unificato di tempo e spazio
«La realtà non è come ci appare» di Carlo Rovelli per Raffaello Cortina Editore. Dalla filosofia greca alla fisica quantistica alla ricerca della struttura elementare delle cose
di Alberto Giovanni Biuso

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La Stampa 3.9.14
Quando Dio scende in guerra
«Beato chi sfracellerà i tuoi bambini sulla roccia», recita il Salmo 136
Violenza e pacifismo nelle religioni del libro al centro del Convegno Ecumenico di Bose
di Silvia Ronchey


«Beato chi sfracellerà i tuoi bambini sulla roccia», recita il Salmo 136. E vengono in mente i giovani coloni israeliani uccisi o i bambini palestinesi di Gaza sterminati o i cristiani perseguitati in Siria o in Iraq. Se il cosiddetto scontro di civiltà ha meno a che fare con le religioni che con la geoeconomia, e anzi la religione vi è usata spesso a copertura di altri interessi, va anche detto che per i seguaci delle religioni del libro - ebraica, cristiana, islamica - la guerra in ogni suo senso è connaturata all’insegnamento religioso a partire dai sacri testi. 
A Bose, dove si apre oggi il XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa (fino al 6 settembre), prelati e teologi di tutto il mondo si interrogheranno anzitutto sui testi sacri cristiani. È vero che Cristo, avverando la profezia, è venuto secondo san Paolo a proclamare la pace ai lontani e ai vicini, come ricorda Enzo Bianchi nel discorso introduttivo, e il Vangelo stesso, nellaLettera agli Efesini, è la «buona notizia (euangelion) della pace», che esorta all’inoffensività e celebra i «beati pacifici» da cui il convegno di Bose prende il titolo. Ma è anche vero che nei sinottici Cristo non è venuto a portare la pace ma una spada (Mt 10, 34), non la pace sulla terra ma la divisione (Lc 12, 51), ed esorta chi non ha la spada a vendere il mantello e a comprarne una (Lc 22, 37).
Storicamente il cristianesimo nasce, se non bellicoso, militante, se non intollerante, intransigente. I primi martiri cristiani si proclamavano milites Christi e nei dialoghi tra quei «testimoni di verità» e i loro inquisitori pagani la ricerca di conciliazione appare molto più spiccata nei secondi che nei primi. 
«Quando leggiamo certi Salmi, l’odio avvampa gli occhi come il calore da una stufa», scriveva Clive Staple Lewis nelle sue Riflessioni sui Salmi. «Molto di più che in qualsiasi opera dell’antichità classica cosiddetta pagana», argomenterà a Bose il teologo russo Michail Seleznëv in un dotto e provocatorio intervento. Il Salterio è centrale nello stato d’animo cristiano quanto il Nuovo Testamento. Non è un caso che all’epoca delle guerre di religione in Francia i Salmi siano stati adottati come inni di battaglia. 
Né è un caso che i recenti dibattiti degli storici americani sulla violenza nelle religioni del libro, e in particolare la nuova corrente relativista che sottrae all’Islam non solo l’appannaggio ideologico della violenza religiosa ma anche il primato storico nella jihad, abbiano introdotto per il cristianesimo, così come per l’ebraismo, la nozione di un’antica «teologia dell’odio». Secondo i teorici della «sacra amnesia», la Bibbia trabocca di «testi del terrore», per usare la definizione della teologa femminista americana Phyllis Trible. Secondo Philip Jenkins, lo storico del gruppo di First Things, «la Bibbia contiene molti più versetti che esaltano il massacro o esortano a compierlo di quanti non ne contenga il Corano».
Nonostante questo, o anzi, possiamo credere, proprio per questo, il cristianesimo fin dal III secolo ha cercato di disinnescare la sacra violenza dei suoi testi. Del Salmo136 Origene dava un’interpretazione allegorica secondo cui «beato chi sfracellerà i tuoi bambini sulla roccia» significa che bisogna spezzare le proprie inclinazioni al male contro la pietra della ragione. Tutta la letteratura dei Padri della Chiesa bizantini è tesa al difficile compito di neutralizzare la violenta letteralità delle Sacre Scritture in vista di una conciliazione dapprima tra cristianesimo e paganesimo, poi tra cristianesimo e altre religioni. 
Ma sarà nel XIII secolo Francesco, il santo da cui l’attuale Papa ha preso il nome, a costruire una dottrina della pace che dall’imperturbabilità interiore e dalla quiete mistica teorizzate dalla letteratura spirituale di Bisanzio si estenderà all’esterno verso la sfera sociale e politica, costituendo una trama unica su cui tessere il comportamento cristiano. In questa sintesi tra spiritualità occidentale e orientale, ampiamente recepita dagli ortodossi, come illustrerà a Bose la relazione del teologo greco Panaghiotis Yfantis, il pensiero del massimo mistico dell’Occidente offre oltre al vertice storico della teorizzazione cristiana sulla pace anche la base per un nuovo ecumenismo. Non a caso sarà nel nome di Francesco che la ricerca della pace tra le Chiese svilupperà le sue strategie e sinergie, da Bessarione fino a Bergoglio.
Perché poi principalmente questo significa pace per il cristianesimo contemporeaneo, come dimostrano i temi di discussione sul tavolo a Bose: pace tra le religioni e pace tra le Chiese tuttora divise all’interno della religione cristiana. Almeno è questo il primo impegno che deve assumersi, ammonisce Enzo Bianchi, chi nella Chiesa ricerca una più ampia condizione evangelica di pace.

Corriere 3.9.14
Storie di guerra nella Jugoslavia del 1945
risponde Sergio Romano

Con molto interesse ho letto Slovenia 1945 di John Corsellis e Marcus Ferrar (Libreria Editrice Goriziana) e appreso il dramma, a me sconosciuto, sofferto dai domobranci: civili e militari quasi tutti cattolici. Circa 18.000 di queste persone erano in fuga, in quanto oppositori del progetto rivoluzionario di Tito, cercando rifugio nell’Austria occupata dall’VIII Corpo d’armata britannico per sfuggire e sottrarsi, se fatti prigionieri dall’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, a morte certa. Va ricordato che i domobranci erano stati collaboratori delle forze di occupazione italiane e tedesche nella prima fase del conflitto. Chiedo il suo parere sulla responsabilità dei britannici che fecero rientrare nella costituenda Federazione Jugoslava questi profughi, pur sapendo che Tito li avrebbe eliminati. Infatti solo 6.000 riuscirono a salvarsi, mentre gli altri 12.000 furono rimpatriati e al loro rientro subirono pestaggi, torture e alla fine vennero infoibati. Anche i cosacchi, che si erano insediati in Carnia, subirono la stessa sorte a opera di Stalin, così come tanti ucraini, polacchi, ungheresi e chissà quanti altri. I responsabili di questi rimpatri hanno sempre affermato che eseguivano ordini dettati dagli accordi e trattati internazionali.
Paolo Tempo

Caro Tempo.
I domobranci erano membri di una Guardia territoriale slovena costituita dalle forze tedesche quando subentrarono a quelle italiane dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ma questa Guardia territoriale, a sua volta, era l’erede di una Milizia volontaria anticomunista (Mvac) creata dall’amministrazione italiana nel periodo precedente con il compito di difendere i presidi e perlustrare il territorio. Ricordo ai lettori che dopo la disintegrazione della Jugoslavia nel 1941, anche la Slovenia era stata divisa in tre parti: Lubiana e le regioni meridionali all’Italia, il Nord alla Carinzia (divenuta dopo l’Anschluss un land del Terzo Reich) e una parte più piccola all’Ungheria.
Nel suo libro su L’Italia e il confine orientale , edito dal Mulino nel 2007, Marina Cattaruzza ricorda che la Mvac, nel febbraio del 1943, era integrata nell’XI corpo d’armata italiano e comprendeva 5.153 uomini. I domobranci della Guardia territoriale slovena, invece, furono più del doppio ed ebbero una parte maggiore nelle operazioni militari contro i partigiani di Tito. Entrambe le organizzazioni, comunque, furono espressione di quel cattolicesimo anticomunista che considerava Tito, per le connotazioni ideologiche del suo movimento, molto più minaccioso di Hitler e Mussolini. Occorre ricordare, caro Tempo, che la Jugoslavia, durante la Seconda guerra mondiale, non fu soltanto teatro di una guerra fra l’Armata di Tito e quelle di due potenze occupanti (Germania e Italia). Fu anche teatro di altri conflitti: fra Tito e il generale Mihailovic, comandante delle formazioni monarchiche, fra i serbi e quei popoli (croati e sloveni) che avevano mal tollerato il primato dei serbi sorto dalla sconfitta dell’Impero austro-ungarico alla fine della Prima guerra mondiale.
La consegna dei domobranci a Tito, come quella dei cosacchi e altri militari all’Armata Rossa, è uno degli episodi più discussi e controversi della Seconda guerra mondiale. Non so se i britannici fossero consapevoli della sorte che sarebbe toccata ai loro prigionieri. Ma posso immaginare che non fosse facile negare a un importante alleato, decisivo per le sorti della guerra, la consegna di coloro che dal suo punto di vista potevano essere considerati traditori. Sarebbe stato necessario pretendere garanzie sull’equità del giudizio a cui i «traditori» sarebbero stati sottoposti. Ma i rapporti con Tito, nel caso dei domobranci, sembrarono evidentemente più importanti di qualsiasi considerazione umanitaria.

il Fatto 3.9.14
Comunisti e non
Togliatti e De Gasperi, i “santi” del Pd se le davano sul serio
di Fabrizio d’Esposito


Alla luce del patto segreto del Nazareno, supponiamo che un giorno Matteo Renzi possa esprimersi su Silvio Berlusconi in questi termini: “Le sue asprezze e i suoi attacchi avevano sempre qualcosa di torbido e di ottuso. Sembravano mossi non da una passione grande, ma da una cattiveria piccina”. Sembra plausibile? No, assolutamente. Il premier egoarca, non solo in questi tempi di neoinciucio, non ha mai attaccato seriamente l’ex Cavaliere, né lo ha mai indicato pubblicamente nel suo attuale status: pregiudicato o condannato o detenuto ai servizi sociali. Anzi, il rapporto è intimo e cordiale da molto tempo, da quando Renzi, ancora sindaco di Firenze, andò a pranzo ad Arcore.
Allora di chi sono le presunte asprezze torbide e ottuse già citate? Sono attribuite al democristiano Alcide De Gasperi dal comunista Palmiro Togliatti in una lettera rimasta sinora inedita e scoperta dalla gloriosa Critica Marxista, che la pubblica nel suo numero in uscita per le edizioni Dedalo di Bari. Era il 25 agosto 1954 e lo statista dc era morto da pochi giorni. Il segretario generale del Pci si trovava in vacanza nella valdostana Champoluc e scrisse a Fausto Gullo, vicecapogruppo comunista alla Camera. Il Migliore temeva di essere stato troppo blando nel giudizio sul suo avversario (e comunque non andò ai funerali) e confidò a Gullo: “Se avessi avuto agio di correggere, avrei calcato un po’ più la mano sui momenti negativi”. Ma al di là degli ulteriori dettagli, il merito maggiore dello scoop storico della rivista diretta oggi da Aldo Tortorella e Aldo Zanardo è quello di aver collocato nella giusta dimensione il rapporto tutt’altro che idilliaco tra Togliatti e De Gasperi. Siamo reduci, infatti, da un’estate pazza non solamente per la questione climatica. Il revival generato dalla triade di anniversari nell’era del Nazareno, cioè il trentesimo della morte di Berlinguer, il sessantesimo di quella di De Gasperi, infine il cinquantesimo di quella di Togliatti, ha favorito la trasfigurazione dei tre leader politici in santini buoni per tutte le stagioni. Tipica operazione di chi nell’uso politico della storia trova le ragioni per giustificare il presente. Parafrasando Giovanni Spadolini, che era repubblicano e terzista, siamo di fronte all’ennesimo “giulebbe storiografico”, giulebbe sta per sciroppo, in cui si minimizzano le differenze e si amplificano le convergenze. Non a caso il rapporto tra Togliatti e De Gasperi (con tanto di dibattito sull’intitolazione allo statista dc delle feste dell’Unità) è stato scolorito al punto da additarlo come modello imperituro di concordia per superare il famigerato bipolarismo muscolare che imprigionerebbe l’Italia del berlusconismo e della Seconda Repubblica. Balle. De Gasperi e Togliatti si detestavano e dopo la comune esperienza di governo nata con la svolta di Salerno del 1944 arrivarono alle elezioni del 1948 in un clima d’odio puro. In quella campagna elettorale, De Gasperi definì Togliatti “un agnello dal piede caprino”, cioè il diavolo, e questi rispose nel comizio finale di piazza San Giovanni a Roma rivelando che si era fatto applicare due file di chiodi alle suole delle scarpe per dare un calcio nel sedere all’avversario.
Semmai oggi è l’esatto contrario. L’inciucio tra Renzi e Berlusconi è talmente soffice e soave che non ha bisogno di trovare finte ragioni nella nostra storia. Anche perché i partiti e le ideologie non esistono più e De Gasperi e Togliatti furono i chierici maggiori (stavolta la citazione è di Curzio Malaparte) di due chiese che si fecero la guerra in modo aspro. Oggi l’unica opposizione percepita come tale, che piaccia o no, è il Movimento 5 Stelle, tenuto fuori dal nuovo arco costituzionale, guarda caso, anche e soprattutto per la durezza del linguaggio politico. Invece tutti i forzisti di ogni ordine e grado stanno girando indisturbati e applauditi per le feste dell’Unità di ogni livello, da quella nazionale di Bologna alle locali. E prima di Renzi, fu Veltroni nel 2008 a non citare mai Berlusconi nella campagna per le politiche di quell’anno. Da allora è tutto un giulebbe politico, non storiografico.

Corriere 3.9.14
Croce e Gentile amici di penna
«Mi dia consigli teorici». «E lei mi aiuti a trovare un impiego»

di Ernesto Galli della Loggia

Aveva solo ventun anni Giovanni Gentile, nel 1896, quando si rivolse per la prima volta a Benedetto Croce, allora trentenne, per fargli omaggio di un suo estratto: ricevendone in risposta un caloroso biglietto di apprezzamento («La sua erudizione è sobria e calzante. Ella rifugge dalle generalità e le conclusioni cui giunge mi paiono esattissime»). Fu l’inizio di uno scambio epistolare a un dipresso trentennale, già pubblicato separatamente, del quale solo ora però vede la luce l’edizione unitaria per iniziativa dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici e la cura di Cinzia Cassani e Cecilia Castellani ( Benedetto Croce-Giovanni Gentile, Carteggio 1896-1900 , Nino Aragno editore, pp. 499, e 30).
Un volume che interessa chi scrive e probabilmente il pubblico colto in generale non tanto per i suoi contenuti di carattere filosofico — di cui personalmente sono digiuno e circa i quali rimando perciò alle lucide considerazioni che si leggono nell’introduzione di Gennaro Sasso — ma vuoi per la luce che le sue pagine gettano sulle due maggiori figure della cultura italiana della prima metà del Novecento, vuoi anche per ciò che indirettamente esse ci dicono circa il mondo culturale italiano di quella fine secolo, il modo d’essere dei suoi intellettuali.
Nonostante l’immediata e fortissima comunanza di interessi e di intenti che si stabilisce tra i due corrispondenti (già dopo pochissimo si rivolgono l’un all’altro con un «egregio amico»), subito però emerge dalle lettere anche la grande differenza tra le due personalità intellettuali così come tra i loro caratteri. Tra Gentile, dotato di una fortissima vocazione teoretica, incline sempre a un «intrepido “unizzare”» e pur con qualche cautela mai timido nel correggere e illuminare il suo più anziano e affermato interlocutore sul terreno della pura disamina filosofica; e Croce, attirato invece da interessi più ampi, che confessa come «da letterato mi vado avviando a diventare filosofo», disposto ad accettare consigli e critiche dall’altro sul terreno teoretico («Aiutatemi un po’ perché temo di errare»), e che appare assai più di lui legato a un istanza di realismo e a un prezioso buon senso.
Tra i due più che la differenza di età e di avanzamento negli studi si sente, e molto — intrecciata a questa — la differenza di condizione sociale. Croce infatti è un borghese agiato, può comprare i libri che gli servono, è abbonato a tutte le riviste che vuole, ha una vasta rete di relazioni importanti, può fare lunghe vacanze, se gli aggrada «una corsa a Venezia», ovvero andare «visitando pezzo a pezzo l’Italia meridionale» come semplice preparazione a una Storia dell’Italia meridionale che intende scrivere. Al contrario di Gentile, a cui è gran fortuna vincere una cattedra di filosofia in un liceo di Campobasso (in vista del quale s’indovinano dalle sue lettere graduatorie studiate e ristudiate, curricula spulciati riga per riga, strategie di trasferimenti, posti tenuti sotto osservazione per anni); Gentile che tira avanti facendo ripetizioni ed è costretto di continuo a chiedere all’altro volumi in prestito, indirizzi di studiosi stranieri, biglietti di presentazione per chiunque, raccomandazioni per quasi ogni cosa («oso sperare nelle vostre estese e alte aderenze»); indotto a cercarne l’aiuto perfino per «ottenere un impiego», «qualunque specie di impieghi», per un fratello semifallito (ricevendo dall’altro una scoraggiante quanto sempre attualissima risposta: «Napoli è un paese pienissimo di spostati… Il minimo posticino è spiato, e preso d’assalto da centinaia di concorrenti»). Croce arriverà perfino a far pubblicare a proprie spese un libro di Gentile.
S’intuisce infatti che è un’ Italia povera, molto povera, quella sul cui sfondo prende vita il carteggio Croce-Gentile. Dove la vita culturale si svolge tra continue ristrettezze, tra tirature limitatissime, dove viaggiare o acquistare un libro è un lusso. Ma dove tuttavia gli intellettuali parlano poco di politica, si direbbe: se è vero che nel biennio più agitato della storia italiana post risorgimentale il carteggio in questione — e tra due personalità simili! — non registra neppure il minimo accenno alle cannonate di Bava Beccaris o ai tentativi di fine secolo di mettere il morso al Parlamento. Forse — si potrebbe fantasticare — quasi l’inconsapevole premonizione che proprio la politica era destinata a spezzare quell’amicizia che allora nasceva, e che a lungo sarebbe apparsa inscalfibile.

Repubblica 3.9.14
Eutanasia
La scelta di Hans Küng “Io, teologo cattolico voglio decidere da solo quando e come morire”
Il nuovo libro dello studioso riapre il dibattito sulla “dolce morte”
“Dal diritto alla vita non deriva affatto il dovere alla vita e l’autodeterminazione fa parte della dignità umana”
di Andrea Tarquini


È legata alla mia fede nella vita eterna la scelta di non protrarre a tempo indeterminato la mia vita terrena
L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere. Quel che vale è l’autonomia della persona
Se e quando verrà il momento vorrei avere il diritto di stabilire l’ora e le modalità della mia dipartita
Ottantasei anni, Hans Küng è considerato uno dei maggiori teologi contemporanei

BERLINO SE la vita è un dono di Dio, perché non accettare la possibilità di restituire gentilmente il dono? È da tempo l’argomento- chiave di chi chiede di legalizzare l’aiuto a chi vuole morire, oggi possibile quasi solo in Svizzera e in Olanda. Ma adesso uno dei massimi teologi cattolici del nostro tempo, il grande ribelle (ma esegeta di Papa Francesco) Hans Küng, a suo modo la fa propria. In un libro appena uscito in Germania. Gluecklich sterben?
(“ Morire felici?”) s’intitola il volume di 160 pagine per i tipi del Piper Verlag, cui la Sueddeutsche Zeitung ieri ha dedicato una megarecensione con richiamo in prima pagina. Una presa di posizione destinata a smuovere le acque nel grande dibattito — tra cristiani e non solo — sul tema sofferto della liceità o meno di scegliere da soli quando passare dalla vita alla morte.
«È parte del mio modo di concepire la vita, ed è legata alla mia fede nella Vita Eterna, la scelta di non protrarre a tempo indeterminato la mia vita terrena», scrive Hans Küng nel libro recensito ieri da Matthias Drobinski, forse il più autorevole vaticanista tedesco. È la prima volta che un grande teologo cattolico si esprime in favore della “dolce morte”. Continua Küng: «Se e quando giunge il momento, io vorrei avere il diritto, se potrò ancora farlo, di decidere con la mia responsabilità sul momento e il modo della mia morte». E poi: «È conseguenza del principio della dignità umana il principio del diritto all’autodeterminazione, anche per l’ultima tappa, la morte. Dal diritto alla vita non deriva in nessun caso il dovere della vita, o il dovere di continuare a vivere in ogni circostanza. L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere. Anche in questo tema non dovrebbe regnare alcuna eteronomia , bensì l’autonomia della persona, che per i credenti ha il suo fondamento nella Teonomia» (decisione di Dio o ispirata dai dettami divini, ndr).
Hans Küng, ricorda l’articolo, soffre di morbo di Parkinson. È ricoverato in Svizzera, ha già fatto capire di voler porre fine alla sua vita quando saranno percepibili i sintomi di degrado spirituale e fisico grave. Da tempo è membro di “Exit”, l’associazione elvetica, forse la più nota organizzazione al mondo che aiuta chi, perché malato inguaribile esposto al degrado e declino di ogni facoltà fisica e mentale e a sofferenze insopportabili, desidera essere aiutato a morire sereno.
Già nel 1994 il teologo aveva enunciato il concetto del «morire con dignità». Due tragiche esperienze, ricorda l’articolo ripreso da siti e agenzie di stampa del mondo globale, hanno segnato la sua vita. Prima la morte di suo fratello, che a 23 anni, nel 1955, fu ucciso da un tumore cerebrale: mese dopo mese, l’atletico ragazzo soffrì del rapido decadere d’ogni facoltà mentale e fisica, alla crisi funzionale terminale d’ogni organo vitale, alla fine morì soffocato dall’acqua che gli saliva dai polmoni. Cinquant’anni dopo, morì per un processo di demenza il suo amico, il grande intellettuale Walter Jens. Esperienze che segnano e fanno riflettere, tanto più se credi in Dio e se hai passato una tua vita a chiedere al mondo di riflettere sul ruolo della Chiesa, della vita, dell’Onnipotente.
Non sempre, ricorda Hans Küng nel suo libro appena uscito, i cristiani hanno condannato la scelta di morire. Per primo fu Sant’Agostino a condannare il suicidio, ma durante la persecuzione dei cristiani per opera del pagano e decadente Impero romano, chi credeva in Cristo preferiva morire piuttosto che tradire altri fedeli parlando sotto tortura. Perché allora vedere nel suicidio la via verso l’Inferno, perché non accettare l’aiuto a chi vuole morire?
Bene sarebbe, suggerisce il libro, liberalizzare ampiamente l’attività delle associazioni che aiutano a morire, anche accettando che lo facciano a pagamento, così come parroci chiese e autorità si fanno pagare per i funerali. Bene sarebbe accettare che le persone decise a non sopportare più dolori tremendi e a non continuare a vivere possano decidere sovrane. Tesi provocatoria. «Non voglio esaltare il suicidio», precisa Küng. Ma per la prima volta chi è a favore dell’aiuto alla dolce morte per libera scelta ha un teologo cattolico dalla sua parte.

Repubblica 3.9.14
Un documentario presentato oggi alla Mostra di Venezia racconta le follie linguistiche del fascismo dal “voi” alle parole bandite
Quell’Italia costretta a darsi del “lei” di nascosto
di Simonetta Fiori


C’ERA una volta un’Italia in cui si andava non a Courmayeur ma a “Cormaiore”, i vestiti con le pajellettes si chiamavano “allucciolati” e per aperitivo al posto del cocktail si beveva l’“arlecchino”. Nelle riviste teatrali cantavano “Vanda Osiri” e “Renato Rascelle”. E in platea applaudiva la “clacche”, sicuramente più energica della vezzosa claque. Era il paese di Mussolini, artefice di un folle progetto di autarchia linguistica. Via le parole straniere da insegne e pubblicità, al bando gli esotismi a scuola e nei dizionari. Vietati anche i dialetti e le parlate delle minoranze. Ammesso in pubblico soltanto un italiano virile, meglio se muscolare, il vigoroso “voi” invece del più effeminato “lei”, insomma lo stile del Me ne frego!, come recita una celebre canzonetta dell’epoca, «non so se ben mi spiego, me ne frego, ho quel che piace a me».
Me ne frego! è anche il titolo del bel documentario dell’Istituto Luce a cura della linguista Valeria Della Valle e del regista Vanni Gandolfo, che sarà presentato questa mattina alla Mostra del Cinema di Venezia.
Un efficace viaggio nel tempo, il recupero di un’Italia dimenticata, ridicola nel suo purismo nazionalistico e anche drammatica per la violenza dei divieti, grottesca nelle sue liste di proscrizione e insieme terribile, lunarmente lontana nelle maestose coreografie littorie eppure paradossalmente vicina, perché c’è ancora chi invoca provvedimenti legislativi a tutela dell’italiano.
Durò vent’anni, quell’esperimento. Dall’anno in cui Mussolini prese il potere a quando fu costretto a lasciarlo, nel luglio del 1943. E furono molti gli intellettuali italiani che misero il proprio estro al suo servizio, studiosi della lingua e giornalisti, scrittori e poeti, romanzieri e accademici di Italia. Da Marinetti a Savinio, da Monelli alla Sarfatti, fino a Pavolini e Federzoni. Tutti prodighi di suggerimenti stilistici, perché «non c’è più posto per i cianciugliatori alla balcanica di parolette forestiere», come scrisse nel 1933 Paolo Monelli nel suo Barbaro dominio, un libro che raccoglieva cinquecento esotismi da bandire.
Tra i giornali era partita la gara per i lettori più inventivi. Cominciò la Scena Illustrata inaugurando la rubrica “Difendiamo la lingua italiana”. Poi intervenne la Tribuna e infine la Gazzetta del Popolo con “Una parola al giorno”. L’Accademia d’Italia, organo ufficiale della cultura di regime, fu incaricata di redigere l’elenco delle parole straniere con la sostituzione italiana. Trionfava lo “slancio” al posto dello swing , il “consumato” subentrava al consommé, e non si poteva più dire shock, ma “urto” di nervi. C’era anche chi non censurava, come Alfredo Panzini, che accolse imparzialmente nel suo Dizionario termini italiani e stranieri. E all’illuminato Bruno Migliorini si devono due parole poi entrare nell’uso comune: regista al posto di regisseur e autista invece di chauffeur. A proposito di Migliorini, fu il primo a ricoprire la cattedra di Storia della lingua, istituita nel 1939 da Giovanni Gentile: l’unica cosa buona nel delirio di una bonifica totalitaria.
E sono le imponenti scenografie ducesche a trasportarci in quel delirio imperiale che abbiamo ormai rimosso, immense scolaresche mineralizzate in maestose “M” o in forma di “DUX”, oppure fatte sciamare in piazza Bernini a Torino tra gli allestimenti della “Mostra anti-Lei”, le cui immagini scovate al Luce rappresentano una vera rarità: caricature, vignette, disegni satirici che riducono il pronome allocutivo a un bubbone da estirpare, severamente bandito dalla lingua perché considerato “femmineo” e “straniero”. In realtà «era una forma italianissima in uso fin dal Cinquecento », corregge Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana alla Sapienza e direttrice scientifica dell’ultima edizione del Vocabolario Treccani. L’impazzimento era tale che il settimanale di Rizzoli Lei dovette rinunciare al suo nome. Invano tentarono di spiegare a Mussolini che in quel caso era sinonimo di ella o essa, insomma di donna. Achille Starace, infiammato artefice dei “fogli di disposizioni”, ne impose la correzione in Annabella: sempre meglio di Voi, devono aver pensato al giornale. Anche il cinema dovette conformarsi al nuovo costume, ma qualche volta gli attori inciampavano nel “lei” interdetto, prontamente corretto nella più maschia allocuzione. A teatro per fortuna c’era Totò che ironizzava sfigurando Galileo Galilei in Galileo Gali voi. Una volta incappò in un gerarca seduto in prima fila, che mostrando uno humour squisito decise di denunciarlo. Ma il procedimento fu bloccato da Mussolini. «Fesserie!», liquidò. E non se ne parlò più.
In realtà gli italiani nel privato continuarono a usare il “lei” e molti, pur di non darsi il “voi”, si buttarono sul confidenziale “tu”. E mentre il duce e i suoi gerarchi inseguivano il purismo nazionalistico, il novanta per cento della popolazione parlava ancora dialetto. I materiali del Luce mostrano questo “italiano nascosto”, il parlato vero della presa diretta, che proprio perché non in linea con le direttive ufficiali venne occultato dietro voci narranti ufficiali, asettiche e impostate. Inutile aggiungere che la bonifica mussoliniana non aiutò affatto l’alfabetizzazione degli italiani, che rimase tragicamente arretrata nel dopoguerra. «E in un certo senso», aggiunge Della Valle, «scontiamo ancora quei vent’anni persi dietro inutili miti nazionalistici». Di quell’esperimento linguistico oggi è rimasto poco, quasi nulla. «Le parole straniere non sono state debellate da decreti legge», dice la studiosa. «Le minoranze linguistiche hanno reagito con insofferenza ai provvedimenti del regime, mettendo anche in atto tentativi di separatismo. I dialetti continuano a essere usati come lingua degli affetti e delle origini famigliari: nei film, nelle canzoni e nella poesia. E il pronome “lei” ha ripreso il suo posto, mentre il “voi” è usato solo nell’italiano regionale del Mezzogiorno». Resta come ricordo il Vocabolario della Reale Accademia d’Italia, rimasto interrotto per sempre alla lettera C: quanto basta per leggere sotto alcuni lemmi il nome di Mussolini accostato ad Ariosto, Machiavelli e Petrarca. E restano pochissime formule care al duce come “colli fatali”, “bagnasciuga” e “colpo di spugna”, tra tutte la più fortunata.
Un’Italia troppo lontana nel tempo? Non del tutto. E fa bene la Mostra del Cinema a rilanciarla per più ampie platee. Già indagata dai libri di Sergio Raffaelli ed Enzo Golino, grazie al documentario del Luce quella pagina di storia dovrebbe circolare nelle scuole e all’università. Anche perché la volontà di bonifica linguistica si potrebbe presentare in nuove forme, seppur più morbide rispetto all’antica xenofobia. Di fronte alla crisi dell’italiano – che ha perso il suo status di lingua di cultura internazionale, scivolando al ventiduesimo posto per l’ampiezza del bacino di parlanti – perfino tra gli studiosi c’è chi rimpiange una robusta politica in sua difesa. «Sì, è vero», risponde Della Valle. «Ci sono dei nostalgici che invocano provvedimenti legislativi. Di tanto in tanto viene riproposto qualche consiglio superiore della lingua italiana che dovrebbe difenderla dal barbaro dominio delle parole straniere. Ma per fortuna a occuparsi della nostra lingua ci sono istituzioni solide come l’Accademia della Crusca, l’Enciclopedia Italiana e la Dante Alighieri, del tutto estranee a queste nostalgie». La lingua è uno strumento in continua evoluzione, nessuna politica dovrebbe mai pensare di imbrigliarla. Me ne frego! serve a ricordarcelo.

La Stampa TuttoScienze 3.9.14
Quando uomini e dei parlavano nella lingua degli eroi Achei
Decifrata una tavoletta di bronzo che è un pezzo unico “Così è riemersa dall’antico santuario di Kaulonia”
di Gabriele Beccaria


Tutto è fragile, fragilissimo, nella città perduta di Kaulonia. Come la tavoletta riemersa da quasi 25 secoli di sonno a pezzi e pezzettini e che ora, ricomposta, ripulita e in via di decifrazione, ha ricominciato a diffondere un enigmatico messaggio di orgoglio e devozione, in cui uomini e dei intrecciano i propri destini.
Carmine Ampolo, professore di storia greca alla Scuola Normale Superiore di Pisa, racconta che questa voce congelata su una tavoletta di bronzo - alta 12 centimetri e mezzo e larga 25 - è straordinaria. Un esemplare unico e che quindi ha del miracoloso. «E’ una dedica votiva, che contiene il testo greco più lungo in alfabeto acheo mai ritrovato in tutta la Magna Grecia».
Kaulonia si trova in un angolo di Calabria, a Monasterace, e, nonostante le pietre che affiorano abbondanti, mantiene le sembianze di un miraggio. Affacciata sul mare, scavata un secolo fa da un padre dell’archeologia italiana, Paolo Orsi, oggi il suo santuario - quello di Punta Stilo - è pericolosamente in bilico e rischia di essere divorato dai crolli e dalle mareggiate, nonostante gli scavi che il team di Ampolo conduce dal 1999 (e le promesse d’intervento del ministero). Qui, con la collega Maria Cecilia Parra, professoressa di Archeologia della Magna Grecia all’Università di Pisa, ha concentrato tutto l’high tech disponibile per gli archeologi del XXI secolo. Un drone con cui mappare la colonia che gli Achei del Peloponneso fondarono sullo Ionio, non lontano da altre città come Metaponto, Sibari e Crotone, e le immagini ad altissima risoluzione ottenute con il microscopio elettronico e tecniche di retroilluminazione, quelle che hanno fatto riemergere le 18 righe dell’iscrizione.
Diciotto righe, dove le lettere sono disposte in ordine geometrico, in senso sia orizzontale sia verticale, creando una scacchiera che gli addetti ai lavori definiscono «stoichedon» e in cui sono racchiuse tante sorprese. A cominciare dai personaggi citati. «Il committente fu Pythokritos, “figlio di Euxenos, figlio di nobile padre”, e conosciamo perfino l’autore di una statua collocata nell’agorà (o di una sua riproduzione in scala ridotta nel santuario), che si è firmato: è l’artista Apollodotos». Una forma di protagonismo che, per la Magna Grecia e l’epoca, è un evento quasi senza precedenti.
«All’inizio - spiega Ampolo - si legge l’invocazione alla divinità e segue il riferimento alla statua di Zeus eretta nell’agorà, “di cui tu, o Signore, sii lieto e concedi buona salute a Pythokritos”. Si continua poi con versi con riferimenti alle Grazie, ad Artemide, ad Apollo e alle Muse e all’accoglimento del dono e del monumento di Zeus, entrambi ricordati più volte». Uno spaccato di politeismo in un testo - aggiunge il professore - complesso e ancora da indagare, «che ci restituisce, tra l’altro, forme di devozione dell’aristocrazia di Kaulonia, a cui Pythokritos, di certo, appartenne».
Ma, mentre Kaulonia vibra con i contorni del miraggio, che cosa si potrebbe intravedere se, viaggiando nel tempo, si tornasse al 470 a.C., quando presumibilmente furono incise le 18 righe? Si passeggerebbe per una città in espansione grazie a una fitta rete di scambi commerciali (disponeva non a caso di un doppio porto) e ci si ritroverebbe davanti a un imponente tempio dorico, forse dedicato a Zeus o forse no. La tavoletta delle meraviglie era lì vicino, affissa su un sostegno, come rivelano due buchi per i chiodi alle estremità superiori. Difficile, fantasticando ma non troppo, non immaginare altre dediche e oggetti votivi in bronzo o in terracotta, uno accanto all’altro, in un’area di devozione coperta da una struttura piuttosto ricercata: si deduce - dice Ampolo - che fosse una specie di baldacchino di legno, con un tetto decorato da gocciolatoi modellati come teste di leoni.
Sotto la copertura si svolgevano riti e si deponevano offerte. Tra queste, tante armi: pezzi privilegiati, dato che nel tempo è stato ritrovato un campionario di elmi, scudi, schinieri, spallacci e spade corte, oltre a punte di lancia e di freccia. Un luogo di vita e morte, di preghiera e sangue che oggi appare come l’incrocio multicolore (secondo una perfetta logica pagana) tra la raccolta di reliquie e il museo e in cui si affollavano microstorie individuali e grande storia collettiva. La terra, purtroppo, ha riassorbito la catastrofe e digerito quasi tutto, quando intorno al IV sec. a.C. l’area di culto fu schiacciata dal crollo del tempio, abbattuto - si suppone - da un terremoto. Ma, sebbene strappata e schiacciata, la tavoletta è tra i «sopravvissuti».
Un’ulteriore sorpresa - aggiunge Ampolo - è che 16 delle 18 linee sono versi (esametri e pentametri, vale a dire una serie di distici), legati ad almeno due composizioni poetiche: «Un caso senza confronti nelle iscrizioni della Magna Grecia». E da lì emergono altri dettagli sulla religiosità degli abitanti di Kaulonia: devoti a Zeus, invocato come «Olimpio» e «Basileus», dedicavano un culto speciale anche ad Apollo (che infatti compare sulle monete cittadine). Ma - conclude l’archeologo - decifrazione e interpretazione non si possono considerare concluse. E a Kaulonia l’area da scavare resta enorme. Riemergerà prima o poi la statua di Zeus, ordinata dal misterioso Pythokritos e realizzata dall’altrettanto misterioso Apollodotos?

Corriere 3.9.14
Esplora il significato del termine:
Stonehenge: il cerchio di pietre era completo, affiorate le prove
Con l’estate secca, l’erba che ricopre il sito non è cresciuta e si sono potute le vedere le tracce dove erano posizionati i megaliti «mancanti»
di Elmar Burchia

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Repubblica 3.9.14
L'arte astratta? L'ha inventata il Neanderthal
Incisioni rupestri rinvenute in una grotta nei pressi di Gibilterra sarebbero state prodotte con la tecnologia tipica dell'ominide che visse in Europa prima del Sapiens. Smentendo definitivamente l'ipotesi sulla sua inferiorità intellettivo-cognitiva

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Repubblica 3.9.14
Poche righe incise in una grotta 39 mila anni fa: è la prova che i nostri antenati erano capaci di pensare “per simboli”
Neanderthal, l’ultima verità “Quel disegno è arte astratta”
di Cinzia Dal Maso


SONO poche righe incise nel pavimento di una grotta, lunghe più o meno venti centimetri, e s’incrociano a formare quello che noi chiamiamo “cancelletto”. È insomma un disegno astratto, forse un gioco o un messaggio o una forma d’arte, e lo incisero gli uomini di Neanderthal nella grotta di Gorham, a Gibilterra, 39mila anni fa o forse più. La datazione è certa e incontrovertibile, e per questo la notizia sta facendo il giro del mondo dopo che Clive Finlayson, direttore del Gibraltar Museum, l’ha pubblicata ieri nella rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences .
Sopra il pavimento dov’è inciso il disegno c’era uno strato di terreno ricco di oggetti appartenuti sicuramente a Neanderthaliani, datati per l’appunto a 39 mila anni fa, e dunque il graffito è contemporaneo o addirittura più antico.
È il primo disegno astratto dei Neanderthal a noi noto. D’ora in poi sarà difficile dubitare della capacità dei Neanderthal di «pensare simbolicamente», cioè trasmettere informazioni attraverso i simboli, pensare concetti astratti, avere un codice condiviso. Non si potrà più pensare, insomma, che i nostri “cugini” fossero dei “bruti” come abbiamo creduto per molto tempo, ma si dovrà affermare che erano culturalmente e cognitivamente molto vicini a noi. Fratelli più che cugini.
Le scoperte in tal senso non sono mancate, specie negli ultimi anni: sepolture, conchiglie ornamentali, pigmenti per dipingere il corpo. Ma erano generalmente testimonianze di datazione incerta o poco affidabili, e per questo hanno animato un dibattito scientifico molto acceso. Molti studiosi hanno infatti continuato a credere che i Neanderthal abbiano cominciato a usare questi oggetti solo dopo essere entrati in contatto col più sofisticato uomo moderno, e che dunque non possedevano le nostre stesse capacità cognitive.
Ma nel 2011, nella grotta di Fumane sui monti Lessini (Verona), sono state scoperte ossa di ali di uccelli rapaci staccate deliberatamente dal corpo, e datate con certezza a 44mila anni fa quando la grotta era occupata solo da Neanderthal. I rapaci non si mangiano e dunque le loro penne potevano essere usate solo a scopo ornamentale. Si è immaginato un Neanderthal simile a un capo indiano, che esibiva le penne come simbolo del proprio potere e della propria autorità, ma invero non potremo mai sapere come venivano utilizzate quelle penne. Mentre tutti noi possiamo vedere il graffito di Gibilterra.
È stato analizzato in ogni modo, dopo la sua scoperta nell’estate scorsa, e ora siamo certi che è stato realizzato deliberatamente. Infatti l’archeologo Francesco D’Errico del Cnrs di Bordeaux ha provato a riprodurre le medesime incisioni sullo stesso tipo di roccia (dolomia) usando diversi utensili. Innanzitutto ha provato a tagliarvi sopra carni o pellami per capire se le incisione fossero prodotte da un’azione utilitaria, ma con tali tagli non si realizzano incisioni così profonde. Ha dunque concluso che un disegno simile si può ottenere solo passando ripetutamente una punta di pietra molto robusta sullo stesso solco, lavorando sempre nella medesima direzione. «L’autore ha lavorato per più di un’ora battendo la roccia tra le due e le trecento volte» ha spiegato a Repubblica. «È un lavoro molto duro e sicuramente si è ferito la mano, se non ha provveduto a proteggerla con della pelle. Non c’è dubbio, ha voluto deliberatamente produrre una forma astratta». Possiamo però solo speculare sulla finalità di tale opera, anche se D’Errico ha un’idea molto precisa. «È stata realizzata in un punto della grotta molto particolare, proprio dove questa fa una curva di circa 90 gradi e c’è una sorta di piattaforma naturale, mentre altrove il pavimento è tutto scosceso. Sono convinto che il disegno serviva a indicare ad altri gruppi che la grotta era già occupata. I Neanderthal insomma marcavano il loro spazio abitativo in modo stabile, ed è la prima volta che troviamo traccia di ciò. Quel disegno è importante perché è un primo, rudimentale, segno di proprietà».

L’Huffington Post 3.9.14
Venezia

Salvatores: "Italy in a Day è una seduta di psicoanalisi collettiva"
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