giovedì 4 settembre 2014

il Fatto 4.9.14
Renzi taglia come Tremonti
“Occorrono 20 miliardi”. Ma spera di trovarli con i tagli lineari come l’ex ministro Pdl: ogni dicastero rinunci al 3% delle spese
Statali e professori, ecco chi paga il conto
La Madia smentisce se stessa: “Blocco degli stipendi pubblici anche nel 2015”
La Cgil fa i conti: “In quattro anni gli statali hanno perso in media 4.200 euro a testa
E il prossimo anno ne perderanno altri 600
E i prof si pagano il costo della riforma da soli
di Carlo Di Foggia


Anche nell’era renziana l’avvicinarsi dell’autunno impone una revisione delle promesse: “I contratti del pubblico impiego verranno sbloccati con la riforma della Pa”. Eravamo a maggio, e Marianna Madia rassicurava i sindacati inferociti. Ironia della sorte, ieri è toccato proprio al ministro della Funzione Pubblica smentire se stessa, Matteo Renzi e il governo: il blocco ci sarà anche il prossimo anno. “C’è la crisi”, “le risorse non ci sono”, e per questo “tutti, governo e parti sociali, devono lavorare per il Paese”, ha spiegato ieri Madia in commissione Affari Costituzionali del Senato: “Pensiamo a chi più ne ha bisogno, quindi confermiamo gli 80 euro, che vanno anche a molti dipendenti pubblici”. I sindacati annunciano mobilitazioni. Secondo il segretario della Fiom, Maurizio Landini, un nuovo blocco vorrebbe dire che “i contratti nazionali non esistono più”.
Coincidenza ha voluto che il triste annuncio per 3,3 milioni di statali che dal 2010 aspettano di vedere rivalutato il loro stipendio arrivasse nelle stesse ore dell’annuncio dei “150 mila precari della scuola assunti da settembre 2015”. Tra le pieghe delle slide, però, si fa strada un sospetto. Per gli insegnanti, infatti, è previsto il
blocco degli scatti di anzianità per il periodo 2015-2018: verranno sostituiti da quelli “di competenza” basati sul merito, che però partiranno solo dal 2018 “perché così ne potranno beneficiare anche i precari neoassunti”. E fino ad allora? Nessun aumento per tutti. In questo modo si ricaveranno risorse per gli incentivi al merito togliendole per tre anni dagli stipendi dei docenti.
IL CONGELAMENTO dei contratti è storia che va avanti ormai da una decade dalle manovre “lacrime e sangue” di Giulio Tremonti (anno 2010) e ha permesso finora allo Stato di risparmiare circa 12 miliardi di euro (stime della Ragioneria) grazie alle proroghe di volta in volta approvate. Quella annunciata ieri per il 2015 ne vale altri 2-3. A dicembre scorso, la legge di stabilità targata Letta-Saccomanni aveva confermato anche per il 2014 il blocco dei rinnovi contrattuali e degli stipendi individuali compreso il comparto sanitario. A queste si aggiungeva un’ulteriore diluizione dei tempi per incassare le buonuscite (il Tfr), con importi erogati in più tranche e più piccole. Cosa cambia? Che nel frattempo i soldi tenuti in caldo dallo Stato non si rivalutano, e questo comporta una perdita per il dipendente fino al 6-7 per cento del totale, e che solo la deflazione (i prezzi che scendono) può rendere meno dolorosa. Il risparmio dello Stato fa da contraltare al salasso pagato dagli statali. A fronte di una retribuzione pro capite di 34.576 euro, secondo la Cgil il mancato adeguamento dei contratti è costato in media ai lavoratori pubblici 4.800 euro, 600 dei quali solo per il 2015. Calcoli generosi se si considera che la Uil e il sindacato di base stimano una perdita media di 3000 euro l’anno. Secondo il Sole 24 Ore, gli insegnanti hanno perso 3.300 euro, i docenti universitari 9.500 (4.598 i ricercatori) e i medici 7.500. Questo se si parla di impiegati. Ma l’austerità è costata anche ai dirigenti, da quelli di prima fascia della presidenza del Consiglio (11.661 euro) a quelli degli Enti non economici (21.203 euro). Soldi che non torneranno mai più, e che ovviamente avranno un riflesso negativo anche sulla condizione previdenziale (con minori contributi versati e quindi, pensioni più basse). Negli ultimi cinque anni le buste paga sono rimaste praticamente ferme grazie al congelamento delle retribuzioni individuali, con alcune eccezioni (Regioni autonome e magistratura).
IL PRIMO campanello d’allarme per il 2015 era arrivato ad aprile: nel Documento di economia e finanza non erano previsti soldi per il rinnovo, ma veniva assicurata solo fino al 2017 “l’indennità di vacanza contrattuale”, basata però sui valori in vigore al 2013. Entro la fine dell’anno potrebbe essere fissata la prima udienza della Consulta per valutare i ricorsi avanzati nell’ultimo anno dai sindacati. Lo scenario che si aprirebbe per il governo Renzi in caso di sentenza positiva sarebbe catastrofico.

Corriere 4.9.14
Cigl sul piede di guerra

«Se il Governo Renzi pensa di umiliare ulteriormente i dipendenti pubblici» allora «la nostra risposta non potrà essere che la mobilitazione». Così Rossana Dettori, segretario generale Fp-Cgil, che giudica «intollerabile» la «prosecuzione del blocco della contrattazione». E «senza un passo indietro del Governo», avverte, «torneremo nelle piazze». Il sindacato calcola che a causa del blocco dei contratti fino al 2015, i dipendenti pubblici perderanno in media 4.800 euro, 600 dei quali nel prossimo anno. Fino al 2014 i mancati aumenti valgono invece 4.200 euro.

La Stampa 4.9.14
“Superiamo l’articolo 18”
L’affondo del premier riapre lo scontro con la Cgil
L’Ocse: in 7 anni raddoppiati i giovani senza un posto
di Roberto Giovannini


Il superamento dell’articolo 18 e del reintegro obbligatorio per i licenziamenti anche per i lavoratori assunti con un contratto a tempo indeterminato? «Quella è la direzione di marcia, mi sembra ovvio. Sarà possibile solo se si cambierà il sistema delle tutele». Parole molto nette, quelle del premier Matteo Renzi intervistato dal «Sole 24 Ore». Finora Renzi non aveva mai dato una risposta diretta sul tema dei licenziamenti, limitandosi a dire che «il problema è un altro» o che l’art.18 «riguarda 3000 persone». Come ovvio, visto che è dal 1998 (governo d’Alema...) che il tema agita passioni grandissime, la questione invece è importante. Vedremo in che modo l’intenzione di Renzi verrà concretizzata nella delega lavoro (il cosiddetto «jobs act»), che comincia il suo iter al Senato. Testo in cui, a dire il vero, di licenziamenti non si parla, se non indirettamente per i futuri (per ora c’è solo il titolo...) «contratti a tutela crescente».
Certo è che le parole del presidente del Consiglio - che ha ribadito anche la sua preferenza per il «modello tedesco» del mercato del lavoro - hanno sollevato prevedibili, aspre, reazioni. In un’intervista all’«Unità.it», il leader Cgil Susanna Camusso afferma che l’articolo 18 «riguarda i diritti fondamentali dei cittadini e dei lavoratori, diritti che non possono essere soppressi». E chiede chiarimenti su cosa intende il premier per «modello tedesco»: «se vuol dire lavoro povero e dequalificato, come i mini job, precarizzazione a vita, competizione sul lato dei costi non va bene, ci opporremo». Sulla stessa lunghezza d’onda c’è anche il numero uno della Fiom, Maurizio Landini, l’unico sindacalista formalmente ricevuto a Palazzo Chigi. «Si vuol cancellare l’art. 18? - si chiede Landini, che annuncia iniziative di mobilitazione contro la crisi industriale - Si aprirà un conflitto molto pesante non solo con la Fiom ma con tutti i lavoratori».
Secondo alcuni, in realtà il governo non ha intenzione di arrivare a tanto: si vorrebbe al massimo stabilire una moratoria delle regole sui licenziamenti per i «contratti a tutele crescenti». Ma bisogna capire se questa moratoria sarà temporanea (e andrebbe bene a Cgil e sinistra Pd) oppure no. Il Nuovo Centrodestra, con Maurizio Sacconi, chiede invece che «la delega al governo sia ampia e senza inibizioni, tale da consentire di riformare le tutele del lavoratore nel complesso del mercato del lavoro quale contesto per cambiare le tutele specifiche nel singolo rapporto di lavoro».
Che qualcosa si debba fare, però, questo è chiaro. Lo ha ribadito ieri l’Ocse, nel suo Employment Outlook. Il rapporto fotografa tutte le difficoltà: dal 2007 al 2014 la disoccupazione giovanile in Italia è più che raddoppiata, aumentano «sfiduciati» e «Neet. E tra gli under 25 (pochi) che lavorano oltre il 52,5% ha un contratto precario, l’80% di loro non conquisterà un contratto stabile, e meno di due terzi sarà riuscito a conservare lo stesso posto tra 12 mesi. Anche se l’Ocse denuncia un abuso dei contratti a termine (potenziati dal decreto del ministro del Lavoro Giuliano Poletti), il diretto interessato dice che la situazione è «figlia di una crisi che ci sta colpendo da oltre sette anni» e «aggravata da cattive politiche del passato». E si dice fiducioso che la riforma possa «creare un mercato del lavoro più semplice ed efficiente, più equo ed inclusivo».

il Fatto 4.9.14
Domenico Pantaleo, sindacalista Cgil
“L’istruzione schiava delle imprese”
intervista di Sa. Can.


Apprezzamento e criticità”. Il giudizio di Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil ricalca il classico “luci e ombre”. Ma le seconde sembrano più importanti delle prime visto che al termine di questa intervista annuncia probabili mobilitazioni.
Il primo giudizio a caldo della Cgil?
Senza dubbio che si tratta di un piano organico con la parte sui precari, sul sistema di reclutamento e sulla stabilizzazione estremamente avanzate. Si tratta di idee da tempo proposte dalla Flc e che, finalmente, offrono un sistema di ingresso nella scuola pubblica semplificato mediante l’ordinarietà dei concorsi. L’organico funzionale dà stabilità alle scuole. Manca forse un’attenzione specifica al Sud che ha bisogno di maggiori investimenti e risorse.
Soddisfatti anche delle risorse complessive stanziate?
In realtà, qui c’è l’incognita maggiore. I 3 miliardi che poi diventano 4 non è chiaro da dove verranno e quindi se verranno.
Il giudizio positivo si estende anche alla riforma della carriera dei docenti con la revisione degli scatti?
No, qui entriamo nella zona problematica. Innanzitutto, non si può rimanere fuori dal contratto e nemmeno si possono ignorare gli Ata che nel testo del governo non vengono mai citati. Ma soprattutto occorre capire quali siano i criteri e i parametri di questi nuovi scatti “di merito”. C’è un’autentica nebulosa. Ad esempio, perché si riferiscono solo al 66% degli insegnanti? Forse perché con il blocco degli scatti 2015-2018 si liberano risorse?
Il sospetto c’è tutto. Non si capisce, infatti, perché i nuovi scatti debbano partire dal 2018 e non da prima. Stiamo parlando di cose delicate che attengono alle retribuzioni e alle carriere dei docenti. Va anche segnalato che in tutta Europa, la valorizzazione professionale avviene tramite l’anzianità.
Nel documento si lascia ampio spazio al rapporto scuola-lavoro e al rapporto con le imprese.
Questo è il punto di maggiore criticità. Anzi, Renzi va oltre rispetto alle forzature del passato, disegnando una subalternità rispetto agli interessi delle imprese e schiacciando la scuola sul lavoro. Ma la scuola è democrazia, cittadinanza, cultura e non solo funzionale alla domanda delle imprese. Quindi vi mobiliterete?
Intanto discuteremo con tutti e dappertutto. Poi aderiamo alle manifestazioni degli studenti del 10 ottobre. Infine, chiederemo il rinnovo del Contratto nazionale. Se non lo avremo siamo pronti alla mobilitazione.

Repubblica 4.9.14
Su MicroMega
Un’altra scuola è possibile

È questo il titolo del nuovo numero di MicroMega in edicola e su iPad da oggi L’idea centrale è quella di una scuola pubblica e laica come fondamento della democrazia. Tra gli autori degli articoli (oltre a Valerio Magrelli, del cui testo qui pubblichiamo una sintesi)Pasi Sahlberg, Marco Rossi-Doria, Nicola Piovani, Piergiorgio Odifreddi, Paolo Zellini, Tomaso Montanari e tanti altri

Repubblica 4.9.14
Landini: “Giusto lo sciopero della Pa Renzi non può gestire le crisi da solo”
Il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha un filo diretto con il premier Matteo Renzi che lo ha ricevuto a Palazzo Chigi mercoledì 27 agosto
di Paolo Griseri


«CAPISCO l’indignazione degli statali, giusto scioperare per certe cose». Anche il leader della Fiom, Maurizio Landini, sembra spiazzato dall’annuncio della Madia. Ma il congelamento dei salari dei travet non guasta più di tanto il filo comunicativo che lo lega al premier Matteo Renzi. Un link rappresentato quasi plasticamente dall’incontro, tra i due, della scorsa settimana a palazzo Chigi. Nello studio del premier la discussione è diventata accesa solo quando si è sfiorata la questione dell’articolo 18: «Se volete aprire un conflitto della Madonna — le parole del sindacalista a Renzi — mettete mano a quella norma. È già stata modificata una volta, non mi sembra che i risultati siano stati grandiosi». Mercoledì 27 agosto, otto giorni fa. Renzi prepara i provvedimenti di un autunno che si annuncia inevitabilmente caldo sul piano sociale. L’invito a Palazzo Chigi è per Maurizio Landini, numero uno della Fiom, dipinto come il sindacalista più ideologico d’Italia. Il vertice stupisce chi non conosce i due interlocutori. È invece la naturale evoluzione di uno scambio frequente di punti di vista e messaggi telefonici. «Sono qui in visita dai compagni vietnamiti, hai delle richieste da rivolgergli?», sfotte il premier in primavera. «I compagni vietnamiti? Compagni una sega», risponde il sindacalista. Anche questo è uno sfottò. Un rimando ai giorni immediatamente successivi all’elezione di Renzi a Palazzo Chigi. Il sindacalista lo incontra casualmente sul treno: «Buongiorno compagno presidente». «Compagno una sega», risponde il premier in fiorentino stretto. Il terreno di incontro tra il leader del Pd meno amato dalla Cgil e il capo delle tute blu di corso d’Italia è il pragmatismo. Landini ha più libertà di manovra di Camusso, Bonanni e Angeletti, spesso ingessati nelle compatibilità interne di confederazioni con milioni di iscritti. E nel corso degli ultimi anni la Fiom è stata costretta anche dagli avvenimenti (basta pensare all’esclusione dalle fabbriche subita alla Fiat) a inventarsi una forma nuova di organizzazione, metà sindacato e metà movimento. Che cosa vuole sapere il premier dal sindacalista? Vuole capire il clima sociale dell’autunno che verrà. Il sindacalista spiega che «le crisi sul tavolo stanno aumentando a centinaia». Servirebbe un sistema di tutele universale, una cassa integrazione estesa a tutti i lavoratori dipendenti e non solo a quelli delle aziende con più di 15 addetti. «Estendere? Certo, se tutti i datori di lavoro e i lavoratori pagassero la loro quota, si potrebbe fare», risponde Landini. Ma sarebbe una strada difficilissima da percorrere. Perché artigiani e commercianti si rivolterebbero all’idea di pagare una quota al fondo della cassa integrazione, come da decenni fanno le grandi imprese. Dunque sarà un autunno caldo con molte crisi e scarse novità sul piano degli ammortizzatori sociali. «Quel che si può fare — dice Landini — è provare ad utilizzare meglio i contratti di solidarietà, come abbiamo fatto alla Electrolux». E siccome «la maggior parte delle crisi industriali in atto sono del settore metalmeccanico», ecco un altro motivo per convocare il segretario della Fiom. Che avvisa il premier: «Con l’autunno che si prepara anche Renzi sa che non può governare la crisi da solo». Sul tavolo ci sono la storia infinita di Termini Imerese, il dramma dell’Ilva, la crisi della Thyssen di Terni, le chiusure nel settore delle telecomunicazioni. E c’è l’Europa che preme per la fine dell’articolo 18. Landini ha buon gioco a rispondere che sarebbe molto difficile spiegare agli italiani perché si tolgono dalla precarietà 150 mila supplenti nella scuola pubblica e contemporaneamente si gettano nella precarietà milioni di dipendenti delle aziende private. Ecco perché è meglio introdurre il contratto a tutele progressive proposto da Boeri e Garibaldi, e non toccare più l’articolo 18. E magari «ridurre a meno di una decina i 46 tipi diversi di contratto oggi esistenti», suggerisce il sindacalista. Il tempo è terminato. Landini esce dal portone principale: «Non vedo che cosa ci sia di strano. Un anno fa, era agosto anche allora, avevo incontrato Il premier Letta senza che nessuno si scandalizzasse». Questa volta invece le invidie montano. In corso d’Italia si leggono con gusto i ritratti al vetriolo sul sindacalista della Fiom che entra «nel salotto di Matteo Renzi». Chi dice di non rosicare è Sergio Marchionne, acerrimo sponsor del premier e acerrimo nemico di Landini: «I due si sono incontrati? Buona fortuna, io non sono geloso». Come dicono tutti i gelosi di questo mondo.

il Fatto 4.9.14
Bologna. D’Alema e Bersani la festa la fanno a Renzi
Poca Unità all’appuntamento nazionale del Pd
I maggiori applausi sono andati a chi ha contestato il premier
Le riforme non tirano
D’Alema: Noi ci chiamiamo Partito democratico... Poi uno dice una cosa e subito viene coperto di insulti da quattro energumeni su Twitter
Con l’Italicum e la riforma del Senato i cittadini non scelgono nessun parlamentare, essendo i senatori scelti dai consigli regionali e i deputati dai partiti
di Wanda Marra


Se perfino con un’osservazione garbata, banale, dando atto al Governo dei suoi
sforzi, se persino citando dati Istat si corre il rischio di essere insultati, non è facile avere una discussione democratica in un grande partito”. Massimo D’Alema in diretta al Tg3 ha il sorrisetto a mezza bocca delle grandi occasioni e lo sguardo brillante di chi è pronto a rimettersi in gioco.
ALLA FESTA nazionale di Bologna l’altroieri al governo e a Matteo Renzi non le ha mandate a dire. Alzata di scudi dei renziani, che hanno attribuito la sua vis polemica più che altro alla mancata nomina a Mr Pesc (il ministro degli esteri europeo) a favore di Federica Mogherini . A Bologna la platea, piena, ha riso e applaudito. Mentre lui, che ormai non ha più niente da perdere, si toglieva qualche sassolino dalla scarpa. “Le principali funzioni in Europa, la presidenza della Commissione, la presidenza del Consiglio Ue e la presidenza dell'Eurogruppo sono finite nelle mani dei conervatori. La cancelliera Merkel ha ancora una volta conquistato una posizione dominante in Europa, questo non è un grande risultato per i socialisti”. L’aveva detto a Bologna e lo ripete in tv. Palcoscenico più ampio: bisogna sfruttare la ribalta. O battere il ferro finché è caldo o fino a farlo diventare tale. La Festa nazionale ha da sempre fornito un trend, un’indicazione all’anno che verrà. E quella che arriva da Bologna per ora è chiara: grande accoglienza per Pier Luigi Bersani, che da qui ci ha tenuto a ribadire che se lui fosse diventato premier si sarebbe dimesso da segretario.
CALORE SINCERO per D’Alema. Dibattito semi-deserto per l’asse del Nazareno, nelle persone di Lorenzo Guerini e Giovanni Toti. Dibattito semi-deserto pure ieri per Dario Nardella, renzianissimo sindaco di Firenze, Virginio Merola, renziano delle ultime ore, sindaco di Bologna, Maria Carmela Lanzetta, ministro per gli Affari regionali. È il Pd che fu quello che infiamma i militanti. Non a caso, Renzi quest’anno la Festa l’ha ribattezzata non “democratica” ma”dell’Unità” (mentre il giornale chiudeva). Non a caso ha cercato fino all’ultimo di evitare le primarie per la presidenza dell’Emilia Romagna, pronto pure a cedere alle richieste di Vasco Errani e Bersani e imporre un candidato in continuità con la Giunta uscente, Daniele Manca, sindaco di Imola. Non ci è riuscito e nella contesa tra Stefano Bonaccini, ora nella sua segreteria nazionale, ma fino a ieri bersaniano, e Matteo Richetti, con lui fin dall’inizio, non si schiera: il primo ha dalla sua l’apparato del partito, proprio quello a cui il premier non può rinunciare, il secondo batte sulle parole d’ordine che hanno portato avanti la corsa della rottamazione, dal cambiamento in poi. Problemi. A Bologna è stata accolta da folle deliranti la Boschi, tailleurino blu elettrico e passeggiata da tappeto rosso. Renziana o no l’impressione è che con la politica l’entusiasmo c’entri poco. E il pieno l’ha fatto Oscar Farinetti, patron di Eataly, che ora si accinge a varare il consorzio Fico, una sorta di Disneyland del cibo, insieme alle Coop. Contestato all’esterno, dentro l’hanno ascoltato in molti. Pubblico variegato, ma nel quale non mancavano rappresentanti di punta delle cooperative. Tanto per restare al mondo precedente a Renzi, che questi non si può inimicare. Farinetti peraltro ha liquidato i problemi dei suoi dipendenti: “Lo sciopero? Lo hanno fatto in 3 su 100. E comunque, sono disposto a incontrare i lavoratori”. Con un
autunno più che caldo alle porte, il dubbio sorge spontaneo: D’Alema e Bersani riusciranno di nuovo a intestarsi la battaglia contro il premier? I gruppi parlamentari sono quelli portati dall’ex segretario.
PER ORA, le minoranze marciano divise, più occupate da questioni di leadership interne che da battaglie comuni. Stefano Fassina ha capitanato un gruppetto di persone che ha presentato un emendamento per togliere il pareggio di bilancio dalla Costutuzione. E D’Alema? “Noi parliamo di temi concreti”, dice. Lo stesso Lìder Maximo così ha liquidato l’iniziativa: “Altro che Costituzione, cominciamo ad allentare i vincoli di bilancio”. In Senato è in arrivo l’Italicum, alla Camera, la riforma costituzionale. La battaglia è assicurata. Fino a dove si spingerà? Difficile prevederlo oggi, molto dipenderà da come va l’economia. Se dovesse peggiorare ancora, tutto è possibile. “Per ora, Renzi lo lavoriamo ai fianchi spiega una cuperliananon ci sono le condizioni per rompere. Per ora, però”.

Repubblica 4.9.14
D’Alema parla dei renziani come di “4 energumeni su Twitter”
Riparte il vecchio scontro fra i due big democratici
Tra insulti e abbracci Massimo e Matteo mettono in scena la recita in famiglia
di Filippo Ceccarelli


HADETTOi eri D’Alema a Renzi, e a quanti ancora lo stanno a sentire, che lui è “abituato a dire quello che penso, l’ho sempre fatto. I partiti fondati sul culto della personalità, sulla fedeltà al capo, sono partiti che funzionano male. Vorrei ricordare che noi ci chiamiamo Partito democratico. Se uno dice una cosa e subito viene coperto di insulti da quattro energumeni su Twitter...».
Ha poi aggiunto — e questo un po’ non si sapeva, ma un altro po’ lo si era capito — che a un certo punto Renzi gli aveva “proposto” di “servire il Paese in modo diverso”, cioè diventare lui Mr Pesc. Ma poi niente: “E’ stata cambiata idea? — ha risposto all’Unità on line con un’interrogazione retorica — Benissimo. Non parlo di carriera politica, quella l’ho già fatta. Parlo della battaglia politica, delle mie idee. La farò. E si sentirà».
Ma su quest’ultima icastica promessa — dulcis in fundo e in cauda venenum che sia — ci si riserva comunque un supplemento di scetticismo. Dipende, se si sentirà. E dipende anche quanto, si sentirà, e quando, e secondo quali intenti e attraverso quali modalità.
E’ uno scetticismo che trascende il merito della questione, i successi e le magagne del governo, la scelta della Mogherini, la rottamazione renziana e il ruolo che D’Alema assegna ai partiti. Ma per quanto possa dispiacere a tutti e due i contendenti, lo scontro di settembre evoca, aggiorna e rappresenta come meglio non si potrebbe quella che tanti anni orsono uno straordinario giornalista politico, Enzo Forcella, in un suo formidabile e triste saggio (“Millecinquecento lettori”, ripubblicato da Donzelli nel 2004) definisce: “l’atmosfera delle recite in famiglia”.
Nel senso che in un circuito politico e mediatico dove tutti non solo cambiano opinione di continuo, ma pure si impossessano delle altrui posizioni per scagliarle addosso agli originari detentori, negli ultimi due o tre anni, con una frequenza e una regolarità da algoritmo, un normale giornalista politico si è già occupato della tenzone Renzi-D’Alema dalle quattro alle cinque volte. E se pure l’altalenante relazione fra i due non procura più tanti brividi, anzi a dirla tutta trasmette una stracca indifferenza, beh, forse l’unico modo è di acchiapparla alla luce dei criteri di Forcella.
Per cui i due galli — gallo giovane e gallo vecchio, galletto e gallinaccio — si conoscono troppo bene; si offrono ormai spunti, battute e occasioni; e soprattutto — ecco l’inconfessabile arcano — anche quando si detestano, si vogliono bene.
Vero è che la rivalità politica e giornalistica fra D’Alema e Veltroni può vantare, al confronto, la durata di un ventennio. Ma sul piano dell’intensità spettacolare, che consuma più attenzione, basta digitare i due cognomi su YouTube per essere subissati dalla più invadente e stucchevole visione di scene, scenette, sorrisi, sorrisetti, battute, battutine con cui i carissimi nemici si ringraziano, civettano, si lodano e si fanno i complimenti a vicenda; come pure si può assistere a un’interminabile filastrocca di espressioni gravi, di parole astiose e solenni, di interviste e dichiarazioni in cui ciascuno, dinanzi a una selva di microfoni o in qualche studio esprime a qualche beato conduttore la propria beffarda superiorità sull’altro.
Alimentata spesso dai rispettivi seguaci anche in forma polemica, — ecco cosa diceva D’Alema quando venne a Firenze a fare la campagna elettorale di Matteo! — questa specie di video-schizofrenia comincia nel tempo in cui Renzi è cicciottello e ha ancora il ciuffone, ma alla lunga finisce per scoraggiare chiunque si provi a rintracciare una logica che non sia quella del puro scontro, come del puro incontro di potere per il potere.
Così ci si risparmierebbe volentieri di ripercorrerne le tappe. La proiezione dell’immagine del rottamando leader come bersaglio iconografico nei comizi delle primarie; come anche, addirittura, lo scherzo di piazzare e far girare la foto di un militante con la maschera di D’Alema sotto il camper “Adesso”; e le maliziose rivelazioni su Renzi che si muove per l’Italia con l’aereo privato e poi entra nel camper per arrivare sulle piazze. Indi accuse sui servizi segreti, prendi e porta a casa.
Ma poi anche l’incontro amichevole di Palazzo Vecchio — giusto a pochi giorni, sembra di ricordare, dal cecchinaggio di Prodi. E D’Alema che prima di imbucarsi nell’auto blu si meravigliava della meraviglia, occhi al cielo, timbro annoiato, sopportazione per quei cronisti, poveri scemi, che non capiscono mai quant’è bella la politica se la fanno i professionisti. Come me, come lui, come noi.
E pazienza se Renzi fa lo spiritoso e dice che quando Max va al talkshow ha in serbo i pop-corn. Stesse attento con i pop-corn, risponde quello, che sta ingrassando. Ma di lì a poco il giovanotto gli presenta il libro, vuoi mettere, e allora quell’altro in un turbine di flash e smancerie gli regala la maglietta di Totti. “Un grande partito non può nascondere la verità” ha detto ieri D’Alema. E neanche un governo, in teoria. Nella pratica è sempre tutto più complicato — specie se il potere obbliga chi lo agogna a prendersi troppo sul serio.

Repubblica 4.9.14
Matteo Orfini, presidente Pd
“Il governo non ha deluso, e pochi sono d’accordo con D’Alema”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «D’Alema ha detto la sua...». Matteo Orfini è stato portavoce del lìder Massimo. È oggi presidente del Pd di Renzi e non porta traccia di dalemismo. Ritiene isolata la critica di D’Alema.
Orfini, ricominciano le ostilità nel Pd con l’attacco di D’Alema a Renzi e al “partito renziano degli energumeni”?
«Non condivido l’opinione di D’Alema. Per la prima volta si è messa in campo una politica di redistribuzione della ricchezza con l’operazione degli 80 euro; si cerca di dare una soluzione al problema della precarietà nella scuola; si assume l’impegno ad estendere i diritti come la maternità e la malattia ai lavoratori che non li hanno riconosciuti. Non è poco. Soprattutto se si guarda alla subalternità alla destra dei precedenti governi di centrosinistra».
Il Pd si è trasformato in un partito dove c’è il culto della personalità del leader? Non la preoccupa?
«Basta fare una breve ricerca d’archivio per vedere che a Renzi ne ho dette di tutti i colori, e tanti altri con me: è la dimostrazione che non c’è alcun culto della personalità nel Pd. Abbiamo fatto un congresso, che è finito. Renzi è il segretario democratico e il premier; in campo c’è un gruppo dirigente rinnovato, emerso non per cooptazione ma nel fuoco della battaglia politica. Siamo un gruppo dirigente plurale ma che sta facendo lo sforzo di tenere insieme il Pd e rafforzare l’azione di governo».
D’Alema è in pratica il passato rottamato?
«Ha espresso una legittima opinione, ha chiesto si discuta di più nel Pd e avrà occasione di farlo»
Secondo lei c’è rimasto male per non essere diventato Mister Pesc?
«Non credo che la sua valutazione politica sia frutto di rancore».
Ma rappresenta un problema il fatto che Renzi sia al tempo stesso premier e segretario?
«In tempi non sospetti ho detto che la debolezza dei precedenti governi del centrosinistra è stata anche provocata dal fatto che premiership e leadership fossero separate. La coincidenza rafforza l’azione del governo. Però il Pd deve essere all’altezza del 41% dei consensi».
Come?
«Rivoluzionando il partito, aprendolo a idee nuove, a pezzi di società, a Led di Gennaro Migliore, ai delusi dal montismo... Ci vuole un Pd più estroverso, invece siamo introversi».
Il Pd è appiattito sul governo?
«Il Pd esprime il premier e buona parte del ministri di questo governo, quindi il destino dem è legato al successo del governo. È chiaro che serve un partito che sia più in grado di stare nella società evitando il rischio di stare chiusi nel Palazzo della politica».
Però la segreteria non è ancora completa.
«In effetti ci vuole una nuova segreteria che coinvolga tutti».
Altre critiche a Renzi da Fassina: per lui premier sta rispolverando l’agenda Monti.
«È una valutazione sbagliata. Per la prima volta si è aperto un fronte contro l’austerità. Le politiche dell’ex ministro dell’Economia Saccomanni, di cui Stefano era disciplinato vice ministro, erano assai più austere di quelle oggi del ministro Padoan».

Corriere 4.9.14
Debora Serracchiani
«Non devono intralciarci le debolezze di chi pensa che non arrivi mai l’ora della pensione»
intervista di Tommaso Labate


ROMA — «Che cosa vuole che le dica? Magari D’Alema sta attraversando un momento di... di...».
Di distrazione? Di rabbia?
«Ma no, non mi faccia usare queste parole. Ecco, di sofferenza personale. Magari di sofferenza personale».
Intanto ha detto che il governo Renzi sta ottenendo risultati insufficienti.
«Sostenere che il governo stia ottenendo risultati insufficienti mi pare un tantino offensivo nei confronti dei cittadini che invece guardano a quello che l’esecutivo ha già fatto, al punto che premiano il Pd con quel 40,8 per cento mai raggiunto prima. Basta mettere in fila le cose. È stata fatta una gigantesca operazione di redistribuzione del reddito, con gli 80 euro. Poi c’è stato il taglio del 10 per cento dell’Irap, la tassa che grava sulle imprese. Senza dimenticare che Renzi sta mettendo in discussione delle rendite di posizione che nessuno, e neanche il centrosinistra precedente, aveva mai avuto il coraggio di toccare».
Debora Serracchiani vola da una festa dell’Unità a un’altra. Scende da un treno, sale su una macchina, poi su un palco, poi su un’altra macchina, poi su un altro palco. In uno dei pochissimi tempi morti di questa giornata, però, uno dei vicesegretari del Pd (l’altro è Lorenzo Guerini) trova il modo di rispondere a Massimo D’Alema, che da due giorni sta sferzando il governo Renzi e il partito di Renzi.
Dica la verità, anche lei pensa che D’Alema sia risentito per la mancata nomina in Europa?
«I tempi delle sue accuse lo lascerebbero pensare. Ma io voglio credere che no, che non sia così. Primo, perché D’Alema ha senz’altro fatto molto per la storia del centrosinistra, ma sa bene che questo “molto” non dev’essere per forza ripagato in termini di poltrone. Secondo, perché Renzi aveva chiarito sin da subito, sia in Italia che in Ue, che il suo obiettivo era promuovere una nuova classe dirigente».
D’Alema dice anche che il Pd è una specie di «movimento del premier» che rischia di avere una vita stentata. Cosa risponde il vicesegretario, e cioè lei?
«Mi lasci tornare per un attimo al 40,8 preso alle Europee. E mi lasci dire che, in virtù di quel risultato, servirebbe maggior rispetto. E per il partito che l’ha preso, e per i cittadini che l’hanno votato. Detto questo, D’Alema ci dà l’occasione per ricordare che, da quanto Renzi è premier, il partito ha organizzato centinaia di feste dell’Unità, celebrato undici direzioni, discusso anche nelle assemblee nazionali. Impossibile dire che le decisioni calano dall’alto. Qua c’è una squadra che lavora a stretto contatto con l’esecutivo. Il governo si occupa di infrastrutture? Intervengo io, che sono la responsabile Infrastrutture. C’è la riforma della scuola? Ecco Faraone, responsabile Scuola. Parliamo di un metodo nuovo».
Be’, D’Alema sarà libero di criticare senza essere insultato, come lui stesso ha detto, dagli «energumeni di Twitter»?
«Sinceramente non vedo energumeni nel Pd. Io, di certo, non lo sono. Forse D’Alema s’è sentito poco coinvolto nelle scelte degli ultimi tempi? Che dire, lo faremo più partecipe. Ma la responsabilità di collaborare col governo, e questo dev’essere chiaro, sta in capo a tutti noi. Così come quella di rispettare i consensi che milioni di italiani ci hanno riconosciuto».
Pensa che D’Alema, come qualcuno ha scritto, sia pronto per la pensione?
«Quando uno ha fatto politica al livello in cui l’ha fatta D’Alema forse si aspetta che il momento della pensione non arrivi mai. Ma c’è bisogno dell’aiuto di tutti, adesso. Con la consapevolezza che siamo tutti fondamentali e nessuno indispensabile».
Scusi, e delle critiche al combinato disposto tra riforma del Senato e Italicum, che nella lettura dalemiana toglierebbe ai cittadini la facoltà di scegliere gli eletti?
«Ah, guardi, su questo penso a una dimenticanza. Forse D’Alema dimentica che già in passato, con Bersani segretario, il Pd s’era nettamente schierato contro le preferenze. Comunque sia, il governo sta lavorando per cambiare questo Paese. Che sia difficile lo riconoscono tutti. Ma non possiamo lasciare che questa impresa venga complicata dalle nostre debolezze personali...».

Corriere 4.9.14
Il premier va avanti  tra scetticismo e «fuoco amico»
Arrivano attacchi da fronti diversi a cominciare dai democratici
di Massimo Franco

qui

Il Sole 4.9.14
Il dilemma irrisolto di Renzi: tenersi il consenso o trasformare il paese?
di Stefano Folli


Lo sfondo politico del «piano scuola» e un percorso ancora ricco di ambiguità
In un colloquio pubblicato dal "Foglio" il sindaco di Firenze, Dario Nardella, coglie un punto centrale del "renzismo" oggi: la necessità di scegliere fra consenso popolare ed efficacia del progetto riformatore. Nardella ricorda il ben noto caso Schroeder, il cancelliere socialdemocratico tedesco che negli anni Novanta trasformò la Germania e venne poi sconfitto alle elezioni. Come dire che un leader deve mettere in conto il rischio dell'impopolarità se davvero vuole lasciare il segno nella storia.
Qui è quasi d'obbligo la citazione di una celebre frase di De Gasperi: «Il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni». E a cosa pensa Matteo Renzi: ai voti da prendere o al paese da salvare? L'impressione è che il presidente del Consiglio abbia privilegiato a lungo gli elettori, ma che adesso sia tentato di imboccare la strada che potrebbe fare di lui uno statista. Tuttavia è incerto. Davanti a lui si divarica il bivio cruciale senza che sia emersa nella sua mente una decisione chiara su quale dei due sentieri imboccare. Lo scenario dei mille giorni evoca un lungo cammino che implica una plausibile perdita di popolarità. Il ricorso ai consueti fuochi artificiali mediatici indica la volontà di non perdere contatto con l'elettorato del 41%.
In altri termini la tentazione di tenere insieme i due corni del dilemma (il consenso e le riforme) è ancora molto forte per il premier. Forse la speranza segreta è di riuscirci attraverso qualche gioco di prestigio verbale, in attesa che un po' di fortuna e qualche circostanza favorevole spinga la carovana italiana fuori dalla stagnazione economica. Al tempo stesso Renzi si rende conto che la sua missione potrebbe essere quella di spezzare le ingessature che imprigionano il paese anche a costo di compromettere un destino personale (e per lui non ci sarebbe nemmeno un contratto d'oro con Gazprom, come fu per il suo omologo tedesco).
L'esperimento politico più innovativo degli ultimi anni vive ormai di questa ambiguità che presto dovrà essere sciolta. Del resto, l'immagine del presidente del Consiglio che tira dritto per la sua strada è compatibile con emtrambe le ipotesi. Il nemico dell'"establishment", l'uomo che non va nemmeno al convegno di Cernobbio perché preferisce stare a Roma a lavorare, l'avversario degli interessi organizzati è in grado di incarnare le due parti principali della commedia. Può diventare il leader che si affida direttamente al popolo saltando tutte le mediazioni e preparandosi - appena possibile - a raccogliere il plebiscito elettorale. Ovvero può trasformarsi nel premier che sacrifica se stesso guidando il paese verso le più radicali e dolorose riforme. Difficile sapere oggi quale sarà l'esito finale di un tormento che è visibile nei provvedimenti che il governo sta varando.
Si promettono tagli di spesa per 15 miliardi nel 2015, ma si confermano i 10 miliardi per garantire gli 80 euro a una vasta platea elettorale. Si lancia la riforma della scuola in nome del merito, ma il dato concreto riguarda l'assunzione di 150mila precari, mentre al tempo stesso si bloccano gli stipendi degli statali. Insomma, la direzione di marcia non è ancora chiara. Renzi non vuole essere la versione italiana della Thatcher (lo ha già detto più volte), ma potrebbe decidere di rappresentare la replica mediterranea di Schroeder. Vincitore per la storia ma sconfitto sul piano del consenso.

il Fatto 4.9.14
Nando dalla Chiesa
“Quel giorno la mafia non uccise da sola”
intervista di Alessandro Ferrucci


Questa storia mi puzza, mi puzza come escono queste rivelazioni, gli atteggiamenti, la ricostruzione di Riina”. Nando dalla Chiesa risponde calmo, lucido, riflessivo, ha la voce e il tono di chi sa, di chi ha studiato le carte. E da una vita, anzi da 32 anni.
In particolare cosa non la convince?
La sua presenza nel commando che ha eseguito l’omicidio: il pentito Francesco Paolo Anzelmo non ha mai fatto il nome di Riina, mai. Eppure lo conosceva, e non aveva motivo per tacerlo.
Riina definisce suo padre come un nemico storico della mafia.
Ed è vero, nel 1949 era a Corleone, poi dal 1966 al 1973 capo della caserma dei Carabinieri: i mafiosi saranno stati anche privi di istruzione, ma sapevano capire le persone molto prima delle istituzioni e dello Stato (silenzio). Mi viene alla mente l’ultima intervista rilasciata da mio padre e scritta da Bocca...
Quale passaggio in particolare?
Quando il giornalista gli ha chiesto: ‘Perché è stato ucciso il comunista Pio La Torre’, lui ha risposto ‘per quello che ha fatto durante tutta la sua vita’. Ecco, è la stessa cosa accaduta poi a lui. Cosa vorrebbe sapere da Riina?
I nomi di quelli che sono entrati in casa di mio padre subito dopo l’omicidio, in quel caso sono intervenuti pezzi delle istituzioni e dello Stato.
Sono scomparsi documenti importanti.
Eccome. Sa una cosa? Subito dopo la notizia dell’omicidio, mio zio è corso a casa, ma gli è stato impedito di entrare perché sotto sequestro, solo uomini delle istituzioni e dello Stato potevano varcare quella soglia, e hanno ripulito.
Riina si vanta di avergli sparato anche da morto.
E la dice lunga sul coraggio dei mafiosi, è un perfetto ritratto da offrire ai ragazzi più giovani, per fargli capire di chi stiamo parlando. Ci ha consegnato una grande immagine di sé, un bel regalo per i posteri.
Quindi non crede a un suo intervento diretto nel gruppo di fuoco.
Non ho detto questo, ma che la verità giudiziaria è un’altra. Comunque Vito Ciancimino definiva Riina come ‘un uomo dal cervello a forma di pistola’.
Intanto continuano a uscire notizie sul boss.
E ribadisco, non mi piace, io vorrei capire come un uomo del genere abbia potuto tenere in mano un pezzo di politica e di economia. Ha citato sua sorella Rita.
Ed è molto interessante, salta anche quella retorica mafiosa a buon mercato secondo la quale i figli non debbano pagare per i genitori, ma basta! E poi penso a fiction come il Capo dei Capi, dove esce un uomo anti-Stato, tenace nel tenere testa alle istituzioni, osannato e protetto dai suoi uomini. La realtà è un’altra, e mi pare chiaro.

La Stampa 4.9.14
Blitz delle Regioni: “Eterologa gratis”
L’accordo: stesso colore della pelle per bimbo e coppia, a 25 anni si potrà conoscere il genitore biologico
di Grazia Longo


Raramente la nostra classe politica si è rivelata trasversalmente coesa, come ieri, per risolvere un problema dei cittadini.
Un importante passo avanti verso la fecondazione eterologa arriva dal documento firmato ieri da tutti gli assessori regionali della Sanità. Un’intesa che oggi sarà al vaglio, decisivo, dei governatori.
Una scelta politica in concomitanza con l’avvio, stamattina all’ospedale Careggi di Firenze, delle pratiche cliniche di otto coppie che a fine mese potranno sottoporsi alla procreazione assistita grazie a donatori di semi e ovociti esterni. «Un momento storico - afferma la direttrice della ginecologia del Careggi, la professoressa Maria Elisabetta Cocci - perché mai prima d’ora un centro pubblico ha realizzato l’eterologa».
A Roma, intanto, i presidenti delle Regioni si incontreranno per rendere valide le linee guida stabilite ieri per disciplinare in tutta Italia la fecondazione eterologa. E nonostante il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ribadisca «l’esigenza di una legge», l’ottimismo è dilagante.
A partire dal presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, Pd: «Sono fiducioso nell’esito positivo di un iter che renderà effettivo l’esercizio di un diritto di tutti i cittadini. Incontrerò il ministro Lorenzin per affrontare il tema economico. Per sollecitare cioè la possibilità della gratuità o al massimo di un ticket nazionale. Altrimenti sarà necessario il pagamento da parte delle coppie interessate o da parte delle Regioni che dovranno attingere dal bilancio extrasanitario». Fiducia condivisa dal governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, e dalla presidente dell’Umbria Catiuscia Marini. «C’è una sentenza dettagliata della Consulta - ribadisce quest’ultima - e abbiamo l’obbligo di varare linee guida, il rischio altrimenti è che partano i centri privati ma non possano farlo quelli pubblici. Il che è assurdo e grave».
Ma ecco i binari su cui si dovrebbe sviluppare l’eterologa. Innanzitutto la gratuità o il pagamento di un ticket. Viene poi stabilito che il bimbo abbia lo stesso colore di pelle della coppia ricevente. Per mantenere cioè il fenotipo della coppia ricevente in relazione al colore della pelle, dei capelli e al gruppo sanguigno. Il nato avrà la possibilità di chiedere di conoscere l’identità del padre o della madre genetici solo dopo aver compiuto 25 anni di età. E il donatore, se lo vorrà, potrà a quel punto rivelare la propria identità. Limite massimo di 10 nati per ogni donatore, mentre la coppia che ha già avuto un figlio da eterologa potrà chiederne altri con lo stesso donatore. E ancora: i donatori potranno avere tra i 20 e i 35 anni le donne e 18-40 per gli uomini.

La Stampa 4.9.14
“Abbiamo eliminato il rischio Far West e garantito un diritto”
L’assessore toscano: oggi partiamo
di Gra. Lon.


L’orgoglio dell’assessore regionale alla Sanità della Toscana, Luigi Marroni, è inevitabile. Il documento delle Regioni è stato confezionato sulla bozza di quello fiorentino.
Qual è l’aspetto più rilevante del vostro ruolo «apripista»?
«Sicuramente quello di aver contribuito ad eliminare equivoci e disordine. Sin dall’inizio, pur rivendicando la legittimità della fecondazione eterologa, ci siamo attivamente battuti contro il clima da Far West. E ora finalmente esistono dei principi guida, da tutti condivisi, che aspettano solo l’imprimatur dei presidenti delle Regioni».
Il ministro Lorenzin rimarca, tuttavia, la necessità di una legge. In che modo avete affrontato questa necessità?
«Abbiamo dato assoluta priorità agli aspetti tecnico-sanitari, rimandando le questioni etiche al Parlamento. L’aspetto legislativo compete esclusivamente ai parlamentari, ma questo non significa che occorre attendere una legge ad hoc per iniziare con gli interventi di fecondazione eterologa. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale e noi ora stiamo provvedendo a disciplinare l’attività dei centri».
Uno stop arriva però anche dalla Chiesa. Il vescovo di Torino, monsignor Nosiglia, ad esempio, insiste sulla considerazione che avere un figlio «non è un diritto, ma un dono e che si deve evitare e l’instaurarsi di un subdolo mercato procreativo animato dalla patologia del desiderio e dalla logica del figlio a tutti i costi». Lei come replica?
«Quelle sono riflessioni religiose, rispettabili e legittime, ma noi siamo amministratori pubblici. Ed è nostro dovere garantire alle coppie che desiderano diventare genitori l’opportunità di coronare il loro sogno. Anche perché se l’eterologa non diventa un diritto per tutti, si limiterà ad essere un privilegio esclusivo per chi ha i soldi necessari a pagarsi l’operazione nei centri del resto del mondo».
A proposito di denaro, contate di spuntarla con la gratuità?
«L’iscrizione dell’eterologa nei Lea (Livelli essenziali di assistenza, ndr) è il nostro primo obiettivo. Al massimo si può prevedere un ticket nazionale. Ma la decisione spetta al governo. Per ora non ci sono direttive: in Toscana abbiamo applicato un ticket di circa 500 euro contro i 4 mila del costo effettivo dell’intervento».

Repubblica 4.9.14
Enrico Rossi, governatore della Toscana
“Noi abbiamo fatto bene ad applicare la sentenza della Corte Costituzionale”
intervista di L. M.


AVEVAMO visto giusto». Parole misurate, niente trionfalismi. Così Enrico Rossi, governatore della Toscana: «La giornata importante è stata quella del pronunciamento della Corte Costituzionale, noi abbiamo solo letto e applicato la sentenza».
Le altre Regioni vi seguiranno sulla stessa strada.
«Segno che avevamo preso la direzione buona nel redigere le linee guida, nel preoccuparci di sicurezza e regole chiare per i centri. Non c’era vuoto legislativo, se non l’avessimo adottata saremmo andati avanti nella discussione all’infinito».
Eppure quella scelta di fare da “apripista” le è costato uno scontro con il ministro Lorenzin...
«Sì, minacciava di mandare i Nas a fare i controlli e ho detto che avremmo aperto loro la porta, mostrando cosa stavamo facendo. Ma gli istituti privati si erano già sintonizzati offrendo l’eterologa a pagamento».
All’ospedale fiorentino di Careggi oggi ci sono le visite per le coppie in lista d’attesa. È la prima volta per un ospedale pubblico in Italia, lo ritiene un momento importante?
«Non è una corsa a chi arriva primo. Penso che sarà bene far parlare le donne, capire le sofferenze di chi era costretto ad andare all’estero per sottoporsi alla fecondazione eterologa».

Corriere 4.9.14
Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei
«È solo un giro di valzer per giustificare una selezione genetica»
intervista di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO — Che ne dice, eccellenza?
«Sul piano strettamente logico, direi che si vuole giustificare una selezione — perché è inutile dire che questa non sia una selezione, c’è poco da fare — attraverso una distinzione che trovo assolutamente ingiustificata: quella tra coppie che adottano e coppie che chiedono l’eterologa...». Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, affronta il tema senza anatemi ma argomentando. La Chiesa è contraria all’eterologa e lui lo aveva già ricordato: «Nessuno è padrone di nessuno, nemmeno i genitori sono padroni dei loro figli». Ora si aggiunge la faccenda del colore della pelle, degli occhi. Le linee guida delle Regioni dicono che un centro deve «ragionevolmente garantire, nei limiti del possibile» che il donatore abbia le stesse «principali caratteristiche fenotipiche». E questo perché l’eterologa «si pone per la coppia come un progetto riproduttivo di genitorialità» mentre invece l’adozione sarebbe «ben diversamente» un «progetto di genitorialità a finalità assistenziali e solidaristiche». Galantino scuote la testa: «Mi pare una forzatura».
Perché?
«Non è corretto definire l’adozione solo come un atto di solidarietà verso un bimbo abbandonato. Chi conosce le coppie che desiderano adottare, sa che le cose non stanno così. Mi preoccupa la certezza con cui si decide che esistano motivazioni diverse in chi chiede l’eterologa e chi invece l’adozione».
Come se la spiega?
«Mi pare un giro di valzer concettuale per trovare una giustificazione a questa selezione. C’è una selezione eugenetica estrema, sui bimbi portatori di una eventuale malattia. Ma è selezione anche quella che si consuma sulle caratteristiche esteriori. Si vuole un figlio o altro? Non mi pare che a definire un figlio siano i colori».
La Chiesa è contraria...
«Il desiderio di un figlio è bello e legittimo. Farlo diventare un diritto è cosa diversa. Un diritto si può cercare di raggiungerlo con ogni mezzo».
Però l’eterologa risponde a un problema reale, no?
«Il discorso si ridimensionerebbe se sviluppassimo una cultura dell’accoglienza e lo Stato mettesse più cuore e testa, fosse più attento e sollecito. Conosco tante coppie desiderose di adottare, che stanno offrendo la loro sofferenza al Moloch della burocrazia. C’è una lentezza esasperante. Se lo Stato mettesse lo stesso impegno a rendere più praticabili le adozioni...».

il Fatto 4.9.14
Csm, il balletto del vicepresidente
Tutto è bloccato perché la politica non ha ancora deciso chi sarà
Ma la Costituzione non parla di “elezione”?
Perché allora è diventata una “ratifica”?
di Bruno Tinti


Che in questi giorni duri, Costituzione, legge e principi fondamentali di democrazia fossero un optional lo sapevamo tutti. Che il popolo sovrano (beh, una piccola parte) si stia svegliando e che protesti come può è una confortante realtà. Che le istituzioni abbiamo smesso di battersene sovranamente e, invece di ignorarlo, abbiano cominciato a prenderlo in giro con la consueta tecnica di cambiare tutto perché nulla cambi (vedi la maggior parte delle riforme di Renzi & C in materia di giustizia) è un fatto irritante. Che l’ultima roccaforte della violazione di legge, dell’abuso di potere, dell’inciucio sfacciato, del clientelismo-procacciatore di quello stesso potere di cui si abusa, sia rimasta il Csm è sconcertante. E disperante. Il 14 agosto ho raccontato alcune delle nequizie dell’O r gano di Autogoverno della Magistratura. Alla fine, sempre più depresso, ho spiegato perché il vecchio Csm è scaduto alla fine di giugno e perché quello nuovo ancora non c’è, pur essendo stati eletti (beh, parola grossa, diciamo nominati dalle correnti) i componenti togati, i magistrati. Il Parlamento ancora non ha trovato l’accordo per nominare i componenti laici, quelli di nomina politica (qui è tutto giusto, questi non devono essere eletti; in teoria dovrebbero essere persone di professionalità, onestà ed esperienza fuori del comune sulle quali i partiti dovrebbero concordare entusiasticamente). Tra i tanti motivi per i quali i partiti stanno ancora litigando (a parte la consueta faziosità) c’è che non solo bisogna individuare le persone “giuste” ma decidere anche chi farà il vicepresidente, carica importantissima perché egemonizza in pratica i tempi e il contenuto dei lavori del Csm. E, naturalmente, la faccenda è complicata.
QUESTO MODO di procedere è in flagrante violazione dell’art. 104 della Costituzione che dice – semplicemente e candidamente – “Il Csm elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento”. “Elegge”, non “ratifica”. Gli 8 laici dovrebbero presentarsi al Plenum del Csm, raccontare, più o meno sinceramente, il loro programma e poi tutti insieme – laici e togati – dovrebbero votare: un maggioritario puro, chi ha più voti è eletto. Vi pare che, di questi tempi, un sistema simile possa essere tollerato dalla politica? Ovviamente no. E quindi c’è una frenetica attività di inciuci, accordi, promesse, scambi, nel più puro stile cui siamo abituati da decenni. Si deve identificare “prima” chi farà il vicepresidente” e “poi” il Plenum lo eleggerà, ergo, “ratificherà”. Pura “nomina” proprio quella che, in ambito legge elettorale, la Corte costituzionale ha detto che non sta bene.
Ora, che le porcherie le facciano quelli che le stanno facendo da decenni disgusta ma non stupisce. Che, insieme a loro, le facciano i magistrati, lascia con gli occhi sbarrati e lo sconforto nel cuore. Perché le fanno anche i magistrati? Perché, ovviamente, per la “ratifica” della nomina decisa dalla politica occorre il loro assenso: alla fine è il Plenum che vota. Quindi c’è tutta la processione dei politici e politicanti che avvicinano i neo eletti (tutti giudici che – si spera – succedesse una cosa così per un processo li manderebbero al diavolo e magari li denuncerebbero) e spiegano, chiedono, implorano, forse promettono. E i neo eletti che, appena varcata la porta di Palazzo dei Marescialli, smettono di essere giudici e si sentono cooptati nel meraviglioso mondo della politica, ascoltano, forse chiedono, certo promettono.
Uno dei componenti del Csm scaduto (ma ancora in funzione per via della prorogatio, tipico istituto italiano che serve a mettere una pezza all’incapacità di decidere quando la legge lo prevede), Antonello Racanelli di Magistratura Indipendente, ha avuto la bontà di leggere il mio articolo e ha pensato bene di proporre una modifica regolamentare che – secondo lui – potrebbe mettere un freno a questa mala prassi: facciamo esporre ai laici (dopo la loro nomina e quindi in qualità di componenti del Csm) il loro programma qui in Plenum e poi votiamo consapevolmente. Non l’hanno defenestrato, semplicemente gli hanno detto che il regolamento non impedisce questa cosa: se il presidente della Repubblica, che è anche il presidente del Csm e che lo presiede per forza fino alla nomina del vicepresidente, lo ritiene opportuno, si farà. Quindi non c’è bisogno di modificare alcunché.
AVETE mai visto l’Orso Yogy che si nasconde dietro un alberello piccolissimo? Ecco, il Csm prorogato ha fatto proprio questo. Ha ragione formalmente; ma sa benissimo che il presidente della Repubblica non ha mai fatto una cosa del genere e non la farà mai. Ce lo vedete Napolitano, che ha sostituito il giudice Gratteri con l’Ammiraglio Orlando perché “non sta bene che il ministro della Giustizia sia un magistrato”, affidare la nomina del vicepresidente del Csm ai giudici? E se poi salta fuori uno che si mette in testa di rispettare la legge tout court invece che le leggi della politica, che si fa? Naturalmente il rimedio ci sarebbe: i magistrati neo eletti potrebbero gentilmente invitare i questuanti a non provocare loro dolorosi disturbi psico-fisici (non ho trovato una parafrasi più delicata). Perfino una voce isolata di Md li ha invitati a “evitare qualsiasi contatto preliminare e informale con i partiti proprio per rimarcare la distinzione dei ruoli e la non contaminazione delle scelte che spettano a ciascuno”. Lo ascolteranno?

il Fatto 4.9.14
Roma. Sgomberato anche il cinema America


L’occupazione non passerà. Dopo il Teatro Valle, anche il cinema America. A Roma si sta sgomberando più con il sindaco Marino che sotto il suo predecessore Alemanno. Ieri mattina le forze di polizia sono entrate nello stabile di via Natale del Grande, nel rione di Trastevere; dentro non c’era quasi nessuno e lo sgombero è stato pacifico. L’America, come il Valle, era luogo di un’occupazione storica nella Capitale. Recentemente il ministro dei Beni culturali aveva richiesto il vincolo di interesse storico-artistico – i cittadini temono una speculazione edilizia – ma negli ultimi giorni la proprietà ha chiesto lo sgombero. “Vigileremo per impedire ogni ipotesi di trasformazione dell’immobile”, ha dichiarato il vicesindaco di Roma, Luigi Nieri.

Il Messaggero 4.9.14
Cinema America, l’occupazione è finita
Dopo il Teatro Valle sgombero anche per la sala di Trastevere Mobilitazione delle star, da Sorrentino a Servillo
Era stata occupata 18 mesi fa da alcuni studenti delle superiori
Il ministro ai Beni culturali: «I vincoli richiesti sono operativi. Non si può cambiare destinazione d’uso»
Paolo Virzì e l’attore Elio Germano: siamo pronti a comprarlo
di Laura Larcan


Il motto degli occupanti era «Hic sunt leones». Ma i leoni (leoncini se si considera l’età media da stu- denti) del Cinema America del rione Trastevere, che occupava- no abusivamente da diciotto me- si (era il 13 novembre del 2012) la sala di proprietà privata, ieri mattina hanno smesso di ruggi- re. Dopo il Teatro Valle, è finita con lo sgombero forzato, ma pa- cifico, l’altra avventura di occu- pazione pseudo-culturale della città che aveva collezionato sim- patie di personalità come Nanni Moretti, Toni Servillo, per “salva- re” la sala dalla ristrutturazione in chiave residenziale. E non fa nulla se la tradizione da grande schermo di questo cinema (che nel 1999 aveva sospeso le proie- zioni) è legata anche ai film har- dcore.
IL BLITZ
Stavolta è toccato al Prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro dispor- re l’intervento della polizia. All' alba le forze dell'ordine sono ar- rivate in via Natale del Grande dopo che la proprietà aveva chie- sto di sgomberare l'America, mi- nacciando la prefettura di una causa per omissione di atti d'uffi- cio per il ritardo. Tra polemiche e paradossi (dilemma chiave, chi ha pagato per 18 mesi le utenze di acqua e luce? «Non certo noi», dicono dalla proprietà). All’inter- no, gli agenti hanno trovato un solo occupante. Solidarietà vip, dal premio Oscar Paolo Sorrenti- no a Elio Germano. Immediata l’invocazione mediatica al mini-
stro per i Beni culturali Dario Franceschini che ad agosto ave- va richiesto il vincolo di interes- se storico per il Cinema America (che conserva anche mosaici rea- lizzate negli anni '50 da Anna Maria Cesarini Sforza e Pietro Cascella). «Gli atti per il vincolo di destinazione sono già avviati e quindi già operativi», twittava al volo Franceschini. Una boccata d’ossigeno. Col vincolo, avverto- no dal Collegio Romano, non si possono avviare lavori che cam- bino o stravolgano la destinazio- ne d’uso dello storico stabile. A poche ore dello sgombero è par- tito il valzer di proposte. Platea glamour, ieri sera, piazza San Co- simato con assemblea all star: «Compriamo il Cinema Ameri- ca, io ci sto - dichiarava Paolo Virzì - è il mio sogno da sempre strappare biglietti e condividere la programmazione di un cine- ma con gli altri». Idea cui hanno aderito Elio Germano, Daniele Vicari e Francesco Bruni. Gli ex occupanti sperano che siano le istituzioni a finanziare l'acqui- sto, ma «siamo anche pronti a farlo noi». Intanto per domani il Campidoglio ha convocato tutti gli “attori” per un incontro.

Il Messaggero 4.9.14
1999: l’anno di chiusura della sala cinematografica di via Natale del Grande costruita negli anni ’50
2003: il cinema America viene acquistato dagli attuali proprietari
Battaglia dei proprietari contro i vincoli: «Pronti a costruire, impugnamo i divieti»
di L. Lar.


«Oggi sembriamo i prevaricatori, ma noi siamo rientrati solo in possesso di un nostro bene legittimo. Non è stato espropriato nessuno. Perché in tutta questa vicenda siamo gli unici che fino ad oggi non hanno fatto alcunché contro la legge. Tutti gli altri soggetti l’hanno violata. E i ragazzi occupanti sono la parte più innocente di questa storia, perché illusa da qualcuno (e non mi faccia fare nomi) di poter rimanere lì in eterno». Massimo Paganini è l’amministratore della società Progetto Uno srl,
proprietaria del Cinema America e ieri sera, dopo una giornata di sgombero, polemiche, assemblea in piazza con tanti vip impegnati, dice la sua. E se il ministro per i beni culturali Dario Franceschini ribadisce che il vincolo sul palazzo è operativo, Paganini commenta: «Attenderemo con serenità l’iter della procedura. Verificheremo se ci sono gli estremi per impugnarla. Se l’apposizione del vincolo sarà confermata ne terremo conto. Una cosa è certa, l’immobile avrà comunque la possibilità di essere usato dai legittimi proprietari, secondo le modalità di un bene vincolato. Sicuro,
non sarà un edificio sociale. Almeno gratuito». Nel dettaglio del progetto, avverte Paganini, il 50% della superficie del cinema (mille metri quadrati circa) è destinata a 20 mini-appartamenti e un piano di garage, mentre l’altra metà avrà una vocazione culturale. Non vuole fare nomi, Paganini, ma lascia intendere tutto il suo rammarico verso la politica della capitale: «La rimozione della nostra occupazione è stata fatta non certo sulla spinta politica, bensì attraverso la procedura di un giudice che ha obbligato il Prefetto. Ma dopo sedici mesi dal provvedimento del giudice, dall’aprile del 2013». Comune? Municipio? «Sa in 18 mesi quante riunioni ci sono state sul cinema America a tutti i livelli? Mai stati invitati. Venerdì prossimo l’assessore all’Urbanistica Caudo ha convocato una riunione con gli occupanti e degli attori, le teste pensanti, Servillo, Germano, Virzì. Noi non siamo stati chiamati. Un paradosso. Il bene è privato e su questo abbiamo continuato a pagare l’Imu». E chiama in causa i pareri favorevoli fioccati sul progetto: «Di ben tre soprintendenze. Con autorizzazioni e inviti alla demolizione per il ripristino della funzione residenziale al centro storico così come il piano regolatore indica come priorità». E rilancia. «Il I Municipio ha spazi alternativi per consentire la stessa socialità vissuta al Cinema America».

Corriere 4.9.14
Cinema occupato, sgombero e proteste
Germano e Virzì: lo compriamo noi
Attori e registi in strada, assemblea con i ragazzi di Trastevere
di Claudia Voltattorni


ROMA — «Ci hanno sgombrato, allora noi rispondiamo: il Cinema America ce lo compriamo noi!». E la piazza esplode in un applauso sentito e allegro. Perché il cinema di Trastevere chiuso e abbandonato per anni e poi occupato nel 2012 da un gruppo di ragazzi che lo ha ristrutturato e riaperto è ormai diventato un punto di riferimento del quartiere romano. Ieri mattina però la polizia ha bussato alla porta della sala di via Natale del Grande: tutti fuori, la proprietà rivuole i locali. Sgomberati i ragazzi, sigillati gli ingressi, camionette e agenti a presidiare. «Occupare è un atto illegale, è vero, ma a volte — spiega Valerio Carocci, anima del Cinema America Occupato — occupare è necessario per salvare degli spazi dalla speculazione». Si dice che al posto della sala trasteverina sorgeranno case di lusso. E allora, dopo lo sgombero, tutti sono invitati all’assemblea all’aperto in piazza San Cosimato: bambini, ragazzi, professionisti, anziani, ma anche attori, registi, gente di cinema (e alcune camionette della polizia che dopo una decina di minuti però si spostano). E lì parte l’idea: «Compriamoci il cinema».
Ci sta Elio Germano appena rientrato da Venezia, indossa la maglietta nera del Cinema America: «Questi ragazzi hanno creato uno spazio che non c’era, ci hanno messo i loro soldi, lo hanno ristrutturato, lo hanno fatto rinascere: e il quartiere ha trovato un luogo di cui aveva bisogno, qui a Trastevere non c’è neanche una biblioteca». Perché, continua l’attore, «Roma e tutte le città devono ritrovare quella vita collettiva che ci è stata rubata: occupazione illegale? Ma questa è la città dove gli spazi collettivi sono chiusi e usati solo da alcuni per speculare, qui è nato un luogo contro la paura, un posto aperto a tutti e cosa fanno? Li buttano fuori: forse preferiscono che stiano davanti alla tv». L’America Occupato, interviene il regista Daniele Vicari, «non è un semplice cinema, ma un posto che per anni ha prodotto e diffuso cultura». Però, aggiunge Francesco Bruni, regista e sceneggiatore (anche lui con la maglietta amaranto del Cinema America), «dico grazie alle istituzioni perché chiudendolo,lo hanno annullato».
E Paolo Virzì sogna ad occhi aperti: «Gestire un cinema? Sarebbe meraviglioso! Non vedo l’ora di staccare i biglietti e di programmare ciò che mi pare per un giorno a settimana: sono qui per dire che ci sto». E ricorda di quando a Roma «il cinema Metropolitan era pieno di gente e però poi hanno preferito venderlo ad una catena di abbigliamento: sembra quasi che il cinema esista solo nei multiplex dei centri commerciali, non è così, andate a vedere Parigi, Barcellona». Riflette: «L’idea di una gestione partecipata ad un cinema potrebbe essere una miniera d’oro, se solo le banche lo capissero: se servisse una cordata per rilevarlo mi piacerebbe farne parte». E da lontano anche i premi Oscar Paolo Sorrentino e Toni Servillo si fanno sentire. «Uno sgombero che fa insospettire — secondo il regista —: lascia pensare che si voglia dare una gestione diversa alla sala perché mancava ancora qualche giorno al vincolo del ministero». E l’attore: «Spero che resti quello spazio di cultura».
La politica risponde con il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini (che già a Venezia aveva citato il Cinema America ad esempio e promesso una tutela dell’immobile) che in un tweet scrive: «La prima battaglia i ragazzi del #cinemamerica l’hanno vinta. Gli atti per il vincolo di destinazione sono già avviati e quindi operativi». E il governatore del Lazio Nicola Zingaretti promette: «Sosterremo le ragioni della cultura per il Cinema America». Intanto Valerio e gli altri ripartiranno «dalle scuole: è lì che il cinema deve rientrare».

il manifesto 4.9.14
Com’è triste la città. Sgomberato l’America
di Valerio Renzi


Con la oramai solita parata di camionette e agenti in tenuta antisommossa, ieri a Roma è calato il sipario sull’esperienza del Cinema America Occupato. La sala di via Natale del Grande, nel cuore di Trastevere, opera negli anni ’50 dell’architetto Angelo Di Castro, era stata riaperta il 14 novembre del 2012 dopo 14 anni di chiusura. Collettivi di studenti e movimenti erano entrati per dare vita
a una tre giorni di discussione sui beni comuni e la città. Poi un gruppo di ragazzi, per lo più giovanissimi, ha deciso di non uscire più e di riaprire il cinema per impedire che venisse abbattuto per realizzare appartamenti di lusso.
La polizia entra forzando la porta al mattino presto con in mano un ordine di sequestro, nel giro di poche ore lì dove c’erano manifesti e murales ci sono solo inferriate e muri per impedire che venga rioccupato. Fuori un capannello di curiosi e gli attivisti che trattano per rientrare in possesso dei materiali rimasti all’interno, ma anche tanti cittadini che a quei ragazzi si erano affezionati e ai quali piaceva che tra i locali della movida ci fosse anche un luogo per la cultura. Dentro l’edificio solo uno degli occupanti, Valerio Carocci, trattenuto poi per diverse ore in commissariato per l’identificazione.
«Io preferisco un cinema e la cultura ad altre cose, questo è un luogo storico per il quartiere che finalmente era stato riattivato — spiega una signora — è un errore che sia finita così». «In quel cinema ho tanti ricordi di quando ero ragazzino, è stato bello poterlo rivivere, poi è stata una boccata d’aria — racconta un altro abitante del rione — Qua eravamo tutti pronti a trattare con le istituzioni, l’importante era che rimanesse un cinema, è venuto pure Franceschini a farsi le foto e a fare promesse, ma poi è arrivata la polizia». Si perché sembrava che l’epilogo dell’occupazione dell’America potesse essere positivo: da una parte l’impegno del ministro della Cultura Dario Franceschini, ribadito alla Mostra del Cinema di Venezia solo alcuni giorni fa, ad apporre il vincolo di «cinema storico» allo stabile evitando così operazioni immobiliari («La prima battaglia i ragazzi del #cinemamerica l’hanno vinta. Gli atti per il vincolo di destinazione sono già avviati e quindi già operativi», ha poi twittato ieri sera il ministro); dall’altra la disponibilità del comitato degli occupanti, ribadita ieri, a continuare le attività altrove, una volta avuta la certezza che l’America sarebbe rimasto uno spazio culturale. Poi l’intervento della proprietà, la Srl Progetto Uno, che ricorda a Questura e Prefettura l’autorizzazione allo sgombero firmata dal gip Orlando Villoni e procede per omissione di atti d’ufficio.
La notizia trapela nei giorni scorsi sulle pagine romane di Repubblica. Gli occupanti, forti degli impegni istituzionali, si appellano al buonsenso per evitare precipitazioni. Ma il prefetto non sente ragioni e ieri mattina interviene la forza pubblica, che a Roma sembra avere sempre l’ultima parola sulla politica.
O forse no. Perché l’esperienza della sala di via Natale del Grande ha appassionato tanti, dagli abitanti del quartiere (le associazioni dei residenti si sono subito mobilitate), compresi i più piccoli (molte le iniziative per i bambini dentro e fuori il cinema) ai premi Oscar. «I ragazzi sono prontissimi a farsi da parte e non rivendicano nulla, purché si mantenga la vera destinazione d’uso di quel posto», dice Paolo Sorrentino. «Spero che l’America resti spazio di cultura per tutto il quartiere», interviene anche Toni Servillo.
In serata, poi, si svolge una partecipatissima assemblea a due passi dal cinema, in piazza San Cosimato. Ci sono anche Elio Germano, Paolo Virzì, Daniele Vicari, Francesco Bruni. Non può esserci ma aderisce a distanza Valerio Mastandrea. E si fa avanti una proposta: la sala venga acquisita da un cartello di addetti ai lavori, giovani e cittadini e restituita alla fruizione comune. «E’ il mio sogno da sempre — dice Virzì — strappare biglietti».

Repubblica 4.9.14
Il Maxxi di Roma entra nella rete di Google Project
Dopo l’intesa con il gigante del web dal 9 settembre si potrà visitare il museo online ad alta definizione
di Stefania Parmeggiani


LA TRAMA morbida, le sfumature di colore. Basta un click per svelare dietro i rapporti di potere del mondo agli inizi degli anni Settanta l’abilità delle ricamatrici afghane. Un click ancora per mettere a fuoco le centinaia di fili dell’ordito e immaginare le diverse mani che su quella base hanno lavorato. Mappa, il grande arazzo che Alighiero Boetti fece realizzare dalle artigiane nel 1971 durante il suo secondo viaggio in Afghanistan, entra nel Google Art Project con una definizione altissima: 7 miliardi di pixel.
Accade perché il Maxxi di Roma dal 9 settembre diventa partner della piattaforma digitale avviata nel 2011 da Google Cultural Institute per accogliere i capolavori di tutto il mondo. Il grande museo di arte contemporanea ha deciso, al pari di altre realtà che lo stesso giorno debutteranno online, di creare un suo doppio virtuale, selezionando cinquantacinque opere dalle collezioni di arte, architettura e fotografia. La visita virtuale comincia con la tecnologia di Google Street View dalla piazza e dalla lobby: un tour tra le architetture di Zaha Hadid e le installazioni di Maurizio Mochetti, Sol LeWitt, Anish Kapoor e Giuseppe Penone. Si continua alla scoperta delle opere di artisti italiani e stranieri, da Gino De Dominicis a Michelangelo Pistoletto, da Yayoi Kusama a Bill Viola, dai progetti di Pier Luigi Nervi e Doriana Fuksas ai site specific degli olandesi West 8 e del libanese Bernard Khoury. Per arrivare alla vera star del museo, la Mappa di Boetti come non si potrà mai vedere a occhio nudo.
Zoomando fino a 7 gigapixel si notano le diverse mani delle ricamatrici a cui l’artista piemontese commissionò il lavoro: una raffigurazione della situazione geopolitica del mondo all’inizio dei Settanta, evidenziando i rapporti di potere tra i diversi stati. La definizione è impressionante. Per intenderci è la stessa che permette di scoprire il dotto lacrimale nell’occhio sinistro della Venere di Botticelli o che fa riconoscere nelle lacrime di No woman No cry di Chris Ofili il volto di Stephen Lawrence, diciottenne di origini giamaicane ucciso a Londra nel 1993 mentre aspettava l’autobus.
Google Art Project l’ha riservata, fino a oggi, a 96 capolavori di arte antica, moderna e contemporanea. Sono le star di una collezione gratuita e sempre disponibile che ha già raggiunto le 63mila opere “liberate” nella Rete da 345 musei e istituzioni del mondo. Dal MoMa di New York alla National Gallery di Londra, dal Museé D’Orsay di Parigi al Reina Sofia di Madrid, dall’Ermitage di San Pietroburgo all’Acropoli di Atene, dal Mam di Sao Paulo agli Uffizi di Firenze, i primi in Italia a diventare partner di una iniziativa che vuole “democratizzare” l’accesso alla cultura. «Portare il museo fuori dal museo – spiega Giovanna Melandri, presidente della Fondazione Maxxi – rendere più accessibile spazi e collezione, attivare una maggiore partecipazione del pubblico sono tra le nostre missioni strategiche». Un semplice click per girare il mondo e scoprire i dettagli più nascosti dei capolavori. Ma senza dimenticare che una visita virtuale non potrà mai sostituire l’emozione di un contatto diretto. «Oggi la sfida per i musei – conclude Hou Hanru, direttore artistico del Maxxi – è come utilizzare la rete e la lingua per “promuovere” l’accesso alle opere che sono essenzialmente “non digitalizzabili” e, quindi, intellettualmente impegnative. L’informazione su Internet può aiutare a ottenere le conoscenze necessarie per comprendere una “mappa” di Boetti meglio dal punto di vista della tradizione culturale, della geopolitica e della biografia dell’artista... Ma il linguaggio dei social media non può mai sostituire la complessità delle forme e il significato di questa opera d’arte. Il piacere di godere la Mappa come opera d’arte, fonte veramente completa di conoscenza, si può provare solo con l’esperienza fisica innanzi all’opera. Questo è il vero piacere, ed è ciò che significa veramente la bellezza».

Corriere 4.9.14
Rifiuti a Roma, la nuova mega discarica arriva sottobanco
A 40 Km dalla capitale è spuntato un progetto di un impianto in grado di accogliere due milioni di metri cubi di immondizia. Eppure nessuno sapeva
di Andrea Palladino

qui

Corriere 4.9.14
Emigrazione nel Mediterraneo: chi sta meglio chi sta peggio
risponde Sergio Romano


Come lei ha scritto, in questi mesi i migranti arrivati in Italia sono oltre centomila. Ma ho ancora tanti dubbi. Quanti sono quelli arrivati negli altri Stati che si affacciano sul Mediterraneo? È possibile che Spagna, Grecia e Francia si comportino come Malta che non li fa nemmeno sbarcare? L’accordo fra il ministro Alfano e l’Europa porterà effettivamente qualche beneficio non solo a noi, ma anche ai tanti poveretti che rischiano la vita per scappare dai loro Paesi? E infine le chiedo: poiché i barconi partono tutti dalla Libia, gli altri Paesi (e in particolare la Tunisia) colpiscono i criminali che organizzano quelle pericolose traversate?
Mirella Casati

Cara Signora,
Posso darle alcuni dati che risalgono peraltro al 2012. Gli stranieri regolari residenti in Italia erano allora 4 milioni e 860.ooo, pari al 9,5% della popolazione. La percentuale in Spagna (prima della crisi) era 14%, in Gran Bretagna 12,4%, in Francia 11,5%. Ho scritto, a proposito della Spagna, «prima della crisi», perché il governo di Madrid, dopo il fallimento di molte imprese edilizie e il rischio default di alcune grandi banche, ha incoraggiato con un sussidio il ritorno in patria dei cittadini comunitari, soprattutto romeni.
Non conosco i dati della Grecia, ma credo che la sua situazione sia particolarmente drammatica. Il Paese ha un confine terrestre con la Turchia (uno Stato che controlla male il proprio territorio) e migliaia di isole facilmente raggiungibili dalla costa anatolica. Mentre i Paesi mediterranei dell’Europa centro-occidentale ricevono soprattutto migranti e profughi provenienti dal Medio Oriente, dal Maghreb e dal Corno d’Africa, la Grecia raccoglie l’immigrazione proveniente dalle aree del Mar Nero, del Caspio, dell’Asia centrale e del sub-continente indiano. Recentemente è stato costruito sulla frontiera terreste un muro lungo 12,5 chilometri; ma i muri possono sempre essere aggirati. Italia e Grecia hanno una caratteristica comune: nell’ottica dei migranti sono Paesi di transito, varchi che consentono al clandestino di entrare nell’area Schengen e da lì spostarsi verso Paesi che hanno una migliore politica d’asilo e uno Stato assistenziale più generoso.
Le rivolte arabe hanno reso il quadro ancora più complicato. La crisi economica esplosa in Tunisia e in Egitto dopo la defenestrazione di Zine Bel Abidine Ben Ali e la caduta del regime di Hosni Mubarak, ha considerevolmente aumentato il fenomeno dell’emigrazione sociale. Le guerre civili in Libia e in Siria hanno creato un popolo di profughi che partono per salvare la vita. Negli anni precedenti i Paesi mediterranei dell’Unione Europea avevano stretto accordi con i governi dell’Africa del Nord e potevano contare, entro certi limiti, sulla loro collaborazione. Oggi, dopo quanto è accaduto dal 2011, le autorità della costa meridionale del Mediterraneo non hanno alcun interesse a trattenere in patria i connazionali che hanno deciso di andarsene. Italia e Spagna sono più o meno nella stessa situazione, ma la geografia delle guerre, in questo momento, nuoce soprattutto all’Italia. La Spagna ha una lunga costa meridionale che dista dall’Africa settentrionale, per lunghi tratti, soltanto qualche decina di chilometri; ma i suoi dirimpettai (Marocco e Tunisia) hanno pur sempre governi a cui è lecito chiedere conto delle loro politiche. Mentre il dirimpettaio dell’Italia, la Libia, non ha un governo. In ultima analisi la chiave per la soluzione del problema non è né a Roma né a Bruxelles. È a Tripoli.

Repubblica 4.9.14
La minaccia
Quello guidato da Al Baghdadi ora è uno Stato che gestisce un esercito e ha i suoi servizi sociali. E che è riuscito persino a superare Al Qaeda
Alle origini del Califfato
Così gli “uomini neri” hanno realizzato il sogno di Osama Bin Laden
di Shiraz Maher


SE OSAMA Bin Laden oggi fosse ancora vivo e vedesse com’è la situazione in Medio Oriente, sicuramente ne sarebbe molto compiaciuto. La realizzazione della sua massima ambizione stringe il Levante nella sua morsa, con l’annuncio di un califfato che abbraccia parte della Siria e dell’Iraq.
GRAZIE al suo controllo su un territorio grande più o meno quanto la Giordania e più vasto di Israele o del Libano, il leader dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghadi, si è conquistato un’attenzione mediatica senza precedenti.
Lo Stato Islamico probabilmente è la forza di invasione più aggressiva che sia vista nella regione dai tempi dei mongoli. E ha mano libera nel ridisegnare i contorni del potere in quella che rimane una delle aree geostrategiche più delicate (e instabili) del pianeta. Non è un caso. L’implosione della Siria e dell’Iraq, abbinata alla riluttanza dell’Occidente a intervenire in quella che viene vista come l’ennesima calamità del mondo arabo, ha alimentato la repentina ascesa della milizia millenaristica di al-Baghdadi.
È esattamente quello che bin Laden aveva sempre immaginato. La sua tesi principale sul fallimento del progetto islamista era che l’interferenza occidentale in Medio Oriente impediva l’ascesa di governi islamici. Se riusciremo a indebolire la sfera di influenza dell’Occidente, sosteneva, potrà emergere un califfato. Gli eventi hanno contribuito a concretizzare questa visione. Poco dopo l’improbabile vittoria dei mujaheddin afghani contro l’Urss, alla fine degli anni 80, Saddam Hussein invase il Kuwait e re Fahd si rivolse agli Stati Uniti per difendere l’Arabia Saudita dal suo vicino baathista. L’esperienza lasciò amareggiato bin Laden: la casata dei Saud aveva vanificato le sue speranze di usare i mujaheddin per cacciare il dittatore iracheno dal Kuwait.
L’umiliazione, per i jihadisti che tornavano nei loro Paesi, non si fermò lì. Molti combattenti provenienti dal Nordafrica e dai Paesi del Golfo furono imprigionati e perseguitati al ritorno in patria. Ben presto divenne chiaro che tornare a casa non era consigliabile e molti dei veterani dell’Afghanistan cominciarono a radunarsi in Sudan sotto il patrocinio del presidente del partito al potere, Hassan al-Turabi, che all’epoca aveva formato un movimento islamista sunnita. Per i combattenti arabi era una grossa frustrazione rispetto alle inebrianti vittorie conseguite sulle montagne dell’Hindu Kush contro una delle grandi superpotenze. In Sudan questi combattenti continuarono in gran parte a perseguire obiettivi islamo-nazionalistici. Gli egiziani si concentrarono sull’Egitto, gli algerini sull’Algeria e i libici sulla Libia. Ma l’Arabia Saudita catturò l’attenzione di tutti. L’arrivo delle truppe Usa nella penisosciato la araba, sede dei luoghi più santi dell’Islam, colpiva violentamente il loro immaginario. Fu in questo momento che avvenne il cambio di marcia, spostando il fulcro dell’ira jihadista dal centro alla periferia.
In un’intervista al quotidiano londinese in lingua araba Al-Quds al-Arabi, nel 1996, bin Laden spiegava: «Noi riteniamo che il governo americano abbia commesso il suo più grande errore quando è entrato in una penisola dove nessuna nazione non musulmana era mai entrata per 14 secoli. È stata un’azione arbitraria e sconsiderata. Sono entrati in conflitto con una nazione che conta un miliardo di musulmani».
Tra il 1994 e il 1995, bin Laden spedì al governo saudita dal suo indirizzo londinese un totale di 14 lettere, in cui esortava le autorità di Riyadh a interrompere la collaborazione con gli Stati Uniti e chiedeva una forma di Islam più isolazionistica e assertiva: un’interpretazione più pura della sharia, la fine dell’influenza economica occidentale e una politica estera più incentrata sul mondo islamico. In un’altra lettera per re Fahd spiegava: «Non è ragionevole tacere sulla trasformazione della nostra nazione in un protettorato americano, profanato dai soldati della Croce con i loro piedi impuri per proteggere il vostro trono traballante e preservare i giacimenti petroliferi».
Anche se l’argomento principale usato da bin Laden per giustificare gli attacchi dell’11 settembre 2001 era la vendetta, il fatto di affrontare a viso aperto gli Stati Uniti secondo il capo di Al Qaeda avrebbe minato e indebolito i regimi arabi. È con lo stesso argomento che l’organizzazione terroristica cercò di attribuirsi il merito delle rivolte del 2011, la cosiddetta Primavera Araba. «L’abbandono, uno a uno, degli alleati dell’America è una delle conseguenze dei colpi inferti al loro orgoglio e alla loro arroganza a New York, Washington e in Pennsylvania», sosteneva Ayman al-Zawahiri, il braccio destro di bin Laden, poco dopo la caduta di Mubarak in Egitto, nel 2011. Gli attacchi dell’11 settembre avevano «provocato direttamente una perdita di influenza dell’America sul popolo [arabo], perché la sua presa sui regimi [arabi] si era indebolita». Per quanto fantasiosa possa apparire, questa visione spiega l’ambiziosa strategia di Al Qaeda per realizzare il cambiamento.
La politica dello scontro diretto con gli Usa ha avuto la sua manifestazione più eclatante in Iraq. Sotto la guida di al-Zarqawi, Al Qaeda in Iraq aveva lanciato una campagna deliberatamente brutale con l’obiettivo di scioccare l’Occidente. Dall’Iraq, Zarqawi cercava di traumatizzare le società occidentali dissuadendole ancora di più dal sostenere l’intervento militare. La sua campagna prese di mira direttamente coloro che avevano sostenuto l’operazione “Libertà per l’Iraq”, uccidendo 4.486 americani e altri 318 soldati alleati. Il bilancio di vittime tra i civili è stato incommensurabilmente più alto. Tutti questi morti hanno rappresentato un trauma, ma sono le ramificazioni culturali più generali del conflitto ad aver la- una cicatrice indelebile sulla nostra società e sui nostri politici. Larghe parti del mondo arabo (non solo quelle già corrose da una diffidenza profonda verso l’Occidente) esplosero in una fiammata di antiamericanismo dopo l’inizio della guerra in Iraq. Ogni morte di un soldato occidentale era festeggiata, ogni attentato suicida veniva applaudito: sugli eccessi di Al Qaeda in Iraq si chiudeva un occhio.
Questa perversione avvolse l’intera regione, dagli eleganti ospiti delle feste in spiaggia in Libano agli intellettualoidi che dibattevano nelle luccicanti hall degli alberghi di Dubai. È stato il disimpegno dell’arabo comune, per il resto lontanissimo dai gruppi jihadisti, la cosa più scioccante. Mentre l’Occidente ha raccolto risultati discontinui in Iraq, per il movimento jihadista globale la campagna in generale è stata un successo. Zarqawi non solo riuscì a radicare in qualche modo i suoi combattenti nel Paese, ma ridisegnò gli equilibri di potere all’interno di Al Qaeda. Nel 2005, la sua brutale campagna di omicidi a tutto campo cominciava ad alienare ad Al Qaeda molte delle simpatie di cui godeva precedentemente nella regione, e questo preoccupava la leadership centrale. Ayman al-Zawahiri scrisse a Zarqawi rimproverandolo per due cose in particolare: l’esecuzione degli ostaggi e il perseguimento di un sanguinoso conflitto settario con gli sciiti. «Molti dei musulmani che la ammirano fra la gente comune si interrogano sui suoi attentati», scriveva il numero due di Al Qaeda. «Non perda di vista l’obiettivo». Le richieste di al-Zawahiri caddero nel vuoto. Zarqawi lo contestò sottolineando che era lui che combatteva sul terreno, e quindi aveva più titolo a decidere la strategia. Questo scontro produsse un cambiamento duraturo nelle dinamiche interne del movimento: ora era la prossimità che conferiva legittimazione. Chi stava ai margini non poteva dettare a Zarqawi la strategia da seguire.
Quel precedente ha alimentato in forma diretta l’ascesa odierna dello Stato islamico. Dopo la morte di Zarqawi, nel 2006, Al Qaeda in Iraq si è avviata verso una maggiore autono- mia, cambiando nome, quello stesso anno, in Stato islamico dell’Iraq (Isi). Anche se nominalmente ancora legato ad Al Qaeda, l’Isi era un gruppo in gran parte indipendente. I rapporti si sono sfilacciati definitivamente con l’inizio della guerra civile in Siria. I combattenti siriani dell’Isi sono tornati nel Paese e hanno fondato Jabhat al-Nusra. Dovevano fungere da rappresentanti ufficiali di Al Qaeda sul terreno, ma l’Isi non ha saputo resistere alla tentazione di intervenire direttamente. Abu Bakr al-Baghdadi alla fine ha ordinato ai suoi uomini di entrare in Siria, ribattezzando la sua organizzazione Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) e ordinando a Jabhat al-Nusra di sciogliersi.
Al-Zawahiri era furioso. Ribadì che al-Baghdadi doveva limitare le sue ambizioni all’Iraq e lasciare la campagna siriana ad al-Jawlani. Illustri ideologi del jihadismo di tutto il mondo fecero eco alle opinioni del numero due di Al Qaeda. Questo disaccordo ha aperto una spaccatura nel movimento jihadista globale. Tanto Al Qaeda quanto i teorici a essa associati avevano esortato al-Baghdadi a rimettersi in riga, ma ne ricevettero un secco rifiuto. Invocando il primato della prossimità, come aveva fatto Zarqawi, i portavoce dell’Isis respinsero con forza le insinuazioni che il gruppo stesse agendo arbitrariamente. «La guerra in Siria e quella in Iraq sono la stessa cosa», spiegò uno dei maggiori portavoce dell’organizzazione: in tutti e due i casi, insisteva l’Isis, si tratta di difendere l’islam sunnita contro forze sciite. È importante il modo in cui lo Stato Islamico cerca di giustificarsi agli occhi della più ampia comunità di sostenitori del jihadismo: sono Al Qaeda e i suoi ideologi ad aver tradito lo spirito autentico di quello che Osama bin Laden aveva sempre immaginato. E l’Is è l’erede legittimo del grande leader, avendo sfruttato il vuoto di potere nel Levante per creare uno Stato islamico. Lo spettro della guerra in Iraq del 2003 continua a gettare un’ombra lunga e avvolgente sulle società occidentali. È esattamente quello che aveva previsto bin Laden.
Sotto molti punti di vista, lo Stato islamico ormai ha superato completamente Al Qaeda. Mentre questa è un’organizzazione terroristica impegnata a combattere l’Occidente con la violenza, lo Stato islamico ha ambizioni più grandi. Da gruppo terrorista si è trasformato in una guerriglia sofisticata e ora gestisce un proprio Stato. L’organizzazione sta anche impegnandosi massicciamente per conquistare il consenso dell’opinione pubblica. Gestisce un’ampia gamma di servizi sociali, garantendo alle persone sottoposte alla sua autorità accesso ai bisogni di base come cure sanitarie, istruzione e carburante, oltre ad altri servizi pubblici. A luglio, durante la festività musulmana dell’Eid, ha organizzato eventi ricreativi, tra cui gare a chi mangia più torte per i bambini e una gara di tiro alla fune per gli adulti.
Nel 1994 fu organizzata a Londra un’importante conferenza internazionale per promuovere il califfato e vi parteciparono religiosi radicali di tutto il mondo. Alcuni dei primi seguaci dell’islamismo andarono addirittura a combattere in Bosnia e in Cecenia. Altri perseguirono scopi più misteriosi in Stati come lo Yemen. È significativo ripercorrere l’evoluzione del dibattito all’interno dell’islamismo britannico durante gli anni 90. Nel 1994, quando fu indetta la conferenza sul califfato, gran parte della discussione era incentrata sulla natura del califfato e se costituisse un obbligo nell’islam. Alla fine del decennio, l’idea del califfato ormai si era consolidata e il dibattito andò oltre: adesso non si discuteva più dell’opportunità di ricreare il califfato, ma del modo esatto in cui farlo. Visto in quest’ottica, è evidente che le radici dell’ideologia islamista sono ben piantate in certi settori della comunità islamica britannica.
Il califfato è un concetto generale legato anche a un altro insieme di idee. Alla base c’è un’identità alternativa, la umma, la comunità dei fedeli, in cui lealtà e fedeltà sono definite dall’affiliazione confessionale e non da ideali civici. È la fede nella umma che ha spinto qualcosa come 500 uomini inglesi (e una manciata di donne) a fare i bagagli ed emigrare in Siria.
I jihadisti britannici non sono in Siria per fare atto di presenza. Partecipano pienamente e appassionatamente al conflitto. Negli ultimi 12 mesi, combattenti britannici si sono offerti volontari per attentati suicidi, hanno giustiziato prigionieri di guerra e hanno torturato detenuti sotto la loro custodia. Combattenti di gruppi diversissimi come Jabhat al-Nusra, Ahrar al-Sham e l’Esercito libero siriano mi hanno manifestato tutti la loro inquietudine per l’estremismo dei jihadisti inglesi. Li consideravano tra i più crudeli ed esaltati. La questione si è imposta all’attenzione dell’opinione pubblica la settimana scorsa con l’omicidio del giornalista americano James Foley, apparentemente per mano di un boia inglese, dall’accento di Londra.
Dissuadere questi giovani uomini dall’unirsi a organizzazioni jihadiste in Siria e in Iraq si sta rivelando un’impresa improba. Se prima si pensava che la minaccia del terrorismo interno fosse sotto controllo, il revival delle fortune jihadiste in Siria ha prolungato la sua vita di un’altra generazione o due. Non è la prima volta che un’organizzazione jihadista riesce a impadronirsi di territori ampi. Era già successo in passato: Al Qaeda e i Talebani hanno controllato ampie parti della Provincia della Frontiera del Nordovest, in Pakistan; in Somalia, gli Shabab si sono insediati in certe zone e recentemente Ansar Dine ha affermato il suo controllo su una vasta area del Nord del Mali.
Quello che distingue lo Stato Islamico dai suoi predecessori è che in ognuno di questi casi c’è stata una forte spinta internazionale per scacciare i jihadisti. Le forze della coalizione occidentale hanno lavorato insieme al Pakistan per sradicare i guerriglieri islamisti dalle aree tribali. I soldati dell’Amison, la missione dell’Unione africana in Somalia, sostenuta dall’Onu, hanno ricacciato indietro gli Shabab. In Mali, i francesi hanno schierato truppe di terra per sconfiggere Ansar Dine e i suoi alleati. Nulla di simile è stato messo in campo contro lo Stato Islamico. Né l’esercito iracheno né quello siriano sono in grado di sconfiggerlo. Le potenze regionali, in testa l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia, non vogliono agire e preferiscono invece armare altri gruppi ribelli, una politica che finora non ha portato nessun risultato significativo.
Il mondo occidentale guarda e vede soltanto un conflitto interno all’Islam — sunniti contro sciiti — e si chiede perché dovremmo intervenire. Le campagne post-11 settembre in Afghanistan e in Iraq non sembrano essere servite a granché. Questa dissonanza cognitiva ha consentito ad Abu Bakr al-Baghdadi di riportare in vita un califfato nel cuore del mondo arabo e islamico. Ma l’opinione pubblica sta cominciando ad accorgersi dello Stato Islamico. Con l’esecuzione di James Foley e la presenza considerevole di combattenti europei (specialmente inglesi) nel conflitto, non è più possibile ignorarlo. E tuttavia, la tardiva risposta delle autorità occidentali ha consentito allo Stato Islamico di diventare un’entità consolidata. È uno Stato in tutti i sensi. Possiede riserve per miliardi di dollari, fornisce servizi sociali e ha un esercito di soldati addestrati, con esperienza di combattimento.
Tutto sembra portare a una conclusione, per quanto deprimente: lo Stato Islamico non potrà essere sconfitto senza una qualche forma di intervento militare dell’Occidente.
© New Statesman (Traduzione di Fabio Galimberti)

Internazionale 1067 5/11.9.14
Netanyahu non vuole la pace
Ha’aretz, Israele


Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non aveva ancora inito di esprimere il suo impe- gno per una “soluzione diplomatica” del conlitto a Gaza che lui e il suo governo erano già tornati alla loro vecchia politica, asservita agli interessi dei coloni e di quelli che riiutano la pace. L’espro- prio di circa 400 ettari di terre in Cisgiordania per creare un insediamento in risposta al sequestro e all’omicidio di tre ragazzi ebrei a giugno toglie qualunque valore alle parole di Netanyahu.
La condotta del premier ha sempre smentito le sue dichiarazioni sulla soluzione a due stati. I ripetuti annunci di nuovi insediamenti durante i negoziati con l’Autorità Nazionale Palestinese hanno determinato la ine dei colloqui. Netanyahu continua a dare ragione ai palestinesi con- vinti che Israele non voglia la fine del conflitto. È diicile capire perché ogni tanto il primo ministro alimenti le speranze di pace, quando il suo governo continua a costruire insediamenti impedendo qualsiasi accordo. All’inizio dell’ultimo cessate il
fuoco Netanyahu sembrava essersi liberato dalla fissazione di non voler trattare con nessuno, e aver “scoperto” il presidente palestinese Abu Mazen, che durante i combattimenti nella Striscia di Gaza ha impedito lo scoppio di un’intifada in Cisgiordania. Ma ora sta distruggendo le nuove opportunità che sosteneva di voler cercare.
Netanyahu è condizionato dai partiti religiosi che appoggiano il suo governo e cerca d’ingraziarsi l’estrema destra che lo ha abbandonato durante l’operazione Margine protettivo. Ma l’“appropriata risposta sionista” all’omicidio dei tre ragazzi non è affatto sionista. Trasforma Israele in uno stato paria boicottato dalla comunità internazionale, che sacrifica ogni possibilità di pace alle sue aspirazioni imperialiste e prolunga un conflitto sanguinoso. L’operazione Margine protettivo, costata 2.200 vittime, lo ha dimostrato. La “risposta” ha fatto cadere Israele dalla padella alla brace, e potrebbe portare alla ine dello stesso progetto sionista. u bt

Internazionale 1067 5/11.9.14
L’esproprio dopo il cessate il fuoco
Dalia Hatuqa, Al Jazeera, Qatar


Israele vuole prendersi 400 ettari di terreni nei dintorni di Wadi Fukin, un villaggio palestinese vicino alla Linea verde. Gli abitanti hanno 45 giorni di tempo per fare ricorso
I 1.200 abitanti di Wadi Fukin sono abituati al rumore dei cantieri. Il vil­laggio, che si trova a ovest di Bet­lemme, vicino alla Linea verde (il confine stabilito con l’armistizio del 1949), è noto per le coltivazioni di rape, cavoli e peperoncini biologici ed è circondato su tre lati da insediamenti israeliani in conti­nuo sviluppo. Uno di questi, Beitar Illit, è così grande che Israele lo classiica come “città”.
Il 31 agosto i palestinesi di Wadi Fukin hanno ricevuto brutte notizie: Israele ha annunciato che un’area di 400 ettari vicino alla Linea verde diventerà “terreno di sta­to”. Questo significa che non apparterrà più ai privati palestinesi e che potrà essere usa­ta per costruire nuovi insediamenti. Secon­do il movimento Peace now, è il più grande esproprio di terra dagli anni ottanta. Costruire in quest’area garantirebbe la conti­nuità territoriale tra la Linea verde e gli in­sediamenti israeliani di Beitar Illit, Kfar Etzion e Gevaot, e faciliterebbe il collega­ mento tra questi e Gerusalemme. “Questi terreni sono un’area strategica”, spiega Ya­ riv Oppenheimer, di Peace now.
Una mossa controproducente
“Abbiamo scoperto con grande sorpresa che l’amministrazione civile e quella mili­tare israeliane stavano distribuendo avvisi e piantando cartelli che annunciavano l’esproprio di più di duemila dunum (circa 200 ettari) di terreni per l’espansione di tre insediamenti che circondano Wadi Fukin”, racconta Ahmad Sukkar, capo del consiglio del villaggio. “Come fanno a considerarlo ‘terreno di stato’?”, chiede Mohammad As­saf, un altro abitante. “Ho ereditato questo pezzo di terra da mio padre, e lui da mio nonno. Viviamo in una prigione e non pos­siamo espanderci quanto ne avremmo bi­sogno”.
Gli Stati Uniti hanno definito la mossa “controproducente” per il processo di pa­ce, sospeso da Israele dopo che i palestinesi avevano sottoscritto quindici trattati internazionali sui diritti umani e dopo il riavvici­namento tra i partiti palestinesi Al Fatah e Hamas. I colloqui sono rimasti bloccati an­che nei cinquanta giorni di offensiva mili­ tare israeliana contro Gaza, in cui sono morti duemila palestinesi e 71 israeliani.
Secondo Peace now, l’esproprio non aiuta le forze palestinesi moderate che si stanno dando da fare per risolvere il conflit­to con mezzi pacifici. “È un enorme errore da parte del primo ministro Benjamin Ne­ tanyahu”, afferma Oppenheimer. “Il mes­saggio sembra essere: se cerchi una solu­zione pacifica, Israele aumenta gli insedia­ menti. Se invece sei Hamas, che lancia razzi contro Israele, allora Israele è dispo­sto a parlare con te”. Per Hanan Ashrawi, del comitato esecutivo dell’Organizzazio­ne per la liberazione della Palestina, “Israe­le, durante l’ultima offensiva contro Gaza, ne ha approittato per portare avanti una campagna di violenza ed espansione degli insediamenti”.
Gli abitanti di Wadi Fukin e dei villaggi vicini hanno 45 giorni di tempo per fare ri­corso. “Nel 1948 avevamo 12mila dunum di terreni agricoli”, dice Sukkar. “Oggi ce ne sono rimasti 2.600. E abbiamo il permesso di coltivarne solo 250. Non resteremo con le mani in mano mentre Israele ci ruba la terra”. u gim

Internazionale 1067 5/11.9.14
Il piano palestinese


Secondo Times of Israel, il presidente palestinese Abu Mazen ha un piano per rilanciare il processo di pace con Israele. Innanzitutto vuole coinvolgere gli Stati Uniti, in modo che tornino a fare da mediatori in vista di un accordo sui conini del futuro stato palestinese (da raggiungere nell’arco di nove mesi). Concluso l’accordo, l’Autorità Nazionale Palestinese chiederà il ritiro di Israele dai territori occupati entro tre anni. Se Israele dovesse opporsi, Abu Mazen potrebbe agire indipendentemente, per esempio denunciando alla Corte penale internazionale le politiche e gli alti funzionari di Israele.
Da Ramallah Amira Hass

Internazionale 1067 5/11.9.14
Il passo falso di Israele


Durante l’ultima guerra a Gaza i mezzi d’informazione israeliani hanno afermato all’unisono che Hamas avrebbe perso la sua popolarità a causa dell’alto numero di vittime palestinesi. Naturalmente la tesi era condivisa dagli esperti di intelligence israeliani, più presuntuosi che mai. In realtà è accaduto l’opposto: come già in passato, la lotta armata e i sorprendenti progressi militari hanno fatto aumentare nettamente i consensi per Hamas.
Lo dimostrano i sondaggi pubblicati dal Centro palestinese per la politica e la ricerca. Hamas, il suo leader Khaled Meshaal e l’ex premier Ismail Haniyeh hanno ottenuto un gradimento altissimo da parte dei 1.270 palestinesi intervistati nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Se le elezioni si svolgessero oggi, Hamas stravincerebbe. Inoltre, per il 79 per cento degli intervistati Hamas ha vinto la guerra. Il dato non stupisce se si considera che le due tv più seguite, Al Aqsa (controllata da Hamas) e Al Jazeera, hanno puntato molto sulla retorica della vittoria. Ma se è vero che Hamas ha sorpreso Israele e ha spaventato gli israeliani, i 2.100 morti e gli undicimila feriti palestinesi dovrebbero suggerire un po’ di prudenza sull’uso del termine “vittoria”. Anche perché l’accordo di cessate il fuoco, di cui il 63 per cento degli intervistati si dichiara soddisfatto, è molto vago a proposito della cancellazione del blocco imposto alla Striscia di Gaza.
Il dato più preoccupante, però, è che il 72 per cento vorrebbe esportare la lotta armata anche in Cisgiordania. u as

Internazionale 1067 5/11.9.14
Rotherham e i limiti della società multiculturale
Bisognerebbe fare un parallelo tra gli avvenimenti di Rotherham e la pedoilia nella chiesa cattolica
In entrambi i casi si tratta di un’attività collettiva organizzata e ritualizzata
di Slavoj Žižek

qui


Il Messaggero 4.9.14

Eichmann era un cinico nazista, non «la banalità del Male»
La filosofa tedesca Bettina Stangneth nel suo libro ribalta la tesi di Hannah Arendt che definiva l’SS un burocrate
di Mario Avagliano


RIVELAZIONI
Adolf Eichmann, ovvero il Male non banale. A 51 anni dalla pubblicazione del libro di Hannah Arendt Eichmann in Jerusalem, proposto in Italia da Feltrinelli con il titolo La banalità del male, una nuova ricerca demolisce le tesi della studiosa tedesca naturalizzata americana, che nel 1961 seguì per la rivista New Yorker le 121 udienze del processo in Israele a uno dei principali responsabili della macchina della soluzione finale, condannato a morte e impiccato l’anno dopo. E capovolge la rappresentazione del criminale di guerra nazista fatta dalla Arendt come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi.
A firmare il saggio, uscito questa settimana negli Stati Uniti per i tipi di Alfred A. Knopf e già recensito con grande rilievo dal New York Times, è una filosofa tedesca che vive ad Amburgo, Bettina Stangneth, che ha lavorato attorno alla figura di Eichmann per oltre un decennio, scavando a fondo sulla sua storia. Ne è venuto fuori un libro provocatoriamente intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, già pubblicato con scalpore in Germania. Se ascoltando Eichmann a Gerusalemme, la Arendt rimase impressionata dalla sua «incapacità di pensare», invece analizzando l’Eichmann capo della sezione ebraica della Gestapo, e poi in clandestinità in Sudamerica, la Stangneth vede all’opera un abile manipolatore della verità, tutt’altro che un “funzionario d’ordine” o «un piccolo ingranaggio dell’enorme macchina di annientamento di Hitler», come si autodefinì nel corso del suo processo. Adolf fu un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla “contaminazione ebraica”. In passato già vari ricercatori avevano seriamente messo in discussione le conclusioni della Arendt. Ma con questo libro la Stangneth le "frantuma" definitivamente, come ha dichiarato Deborah E. Lipstadt, storica alla Emory University e autrice di un libro sul processo Eichmann. La Stangneth sostiene che la Arendt, morta nel 1975, fu ingannata dalla performance quasi teatrale di Eichmann al processo. E aggiunge che forse «per capire uno come Eichmann, è necessario sedersi e pensare con lui. E questo è il lavoro di un filosofo».
LA RICERCA
La filosofa tedesca ha però lavorato come uno storico, rovistando in ben 30 archivi internazionali e consultando migliaia di documenti, come le oltre 1.300 pagine di memorie manoscritte, note e trascrizioni di interviste segrete rilasciate da Eichmann nel 1957 a Willem Sassen, un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
Un libro che rivela tanti dettagli inediti, come la lettera aperta scritta nel 1956 da Eichmann al cancelliere tedesco occidentale, Konrad Adenauer, per proporre di tornare in patria per essere processato e informare i giovani su ciò che era realmente accaduto sotto Hitler (conservata negli archivi di stato tedeschi), oppure la riluttanza dei funzionari dell’intelligence della Germania Ovest che sapevano dove si trovava Eichmann già nel 1952 – ad assicurare lui e altri ex gerarchi nazisti alla giustizia.
Ma il cuore del libro è il ritratto di Eichmann “esule” in Argentina, dove venne scovato e arrestato dagli agenti segreti del Mossad. All’apparenza era diventato un placido allevatore di conigli, con il nome di Ricardo Klement. In realtà l’ex gerarca nazista aveva conservato l’arroganza di un tempo e non era niente affatto pentito, tanto da spiegare la sua “attività” con una tirata che a leggerla lascia inorriditi. «Se 10,3 milioni di questi nemici fossero stati uccisi disse degli ebrei allora avremmo adempiuto il nostro dovere».
Altrettanto interessante è la descrizione del cerchio magico di ex nazisti e simpatizzanti nazisti che lo circondava in Sudamerica. Personaggi che formavano una sorta di perverso club del libro, che s’incontrava quasi ogni settimana a casa di Willem Sassen per lavorare nell’ombra contro la narrazione pubblica emergente della Shoah, discutendo animatamente su ogni libro o articolo che usciva sull’argomento. Con l’obiettivo di fornire materiale per un libro che avrebbe raffigurato l’Olocausto come una esagerazione ebraica, «la menzogna dei sei milioni» di morti.

Repubblica 4.9.14
Appassionare i ragazzi ai grandi della letteratura si può
La ricetta? Dante, il web e un po’ di show
Così i classici si trasformano in un’avventura
di Valerio Magrelli


Bisogna risvegliare l’energia negli studenti mostrare l’Odissea come se fosse L’Isola del tesoro

TUTTO potrebbe partire da una splendida immagine di Montaigne: «Insegnare» — e qui cito a memoria, secondo l’esempio dello stesso autore — «non significa riempire un vaso, ma accendere un fuoco». Ecco, dovendo celebrare e riassumere le mie nozze d’argento con la didattica, non credo potrei trovare motto migliore. Nel giro di poche battute, gli Essais illustrano perfettamente la differenza fra due opposte concezioni del mondo scolastico. Da un lato sta una visione dello studente totalmente passiva; lo vediamo cioè ridotto a puro contenitore, semplice bacile, per quanto prezioso, che il docente dovrà limitarsi a riempire. L’immagine riprende un’idea di cultura primordiale, meccanicistica e unidirezionale (il che significa, purtroppo, anche tragicamente attuale).
Èciòc he il Sessantotto condannava, peraltro in maniera alquanto ambigua, con l’espressione di “arido nozionismo”. Ma come far sì che lo studio di Dante, Manzoni o Leopardi appassioni gli studenti? Tenterò di rispondere unicamente sulla base della mia esperienza personale. Il primo punto consiste nell’evitare di contrapporsi ai nuovi media, ma, al contrario, nell’appropriarsene, allo scopo di puntellare, di spettacolarizzare lo studio. Un buon uso di internet potrebbe trasformare le lezioni in conferenze-spettacolo. Un buon impiego di YouTube concorrerebbe ad approfondire il senso, anzi il sentimento del tempo e dello spazio. Una volta determinati in maniera esaustiva e incontrovertibile i nessi cronologici, verrebbe spontaneo tentare di tracciare una specie di “genealogia del presente”, provando cioè a collegare la cronaca alla storia. Partendo allora dall’elogio leopardiano del suicidio, via Plutarco, Seneca e il solito Montaigne, si potrebbe innescare una discussione intorno a temi scottanti come quelli sulla «morte dolce» o sull’eutanasia.
In ogni caso, una volta deciso come insegnare, dovremmo obbligatoriamente affrontare la questione di insegnare cosa. E qui ci troviamo a trattare un’altra questione centrale, relativa alla definizione di “classico”. A questo proposito, risulta ineludibile il celebre saggio Che cos’è un classico?, di T. S. Eliot. Secondo il poeta e critico angloamericano, il «classico» è il prodotto di una «civiltà matura»; una «civiltà matura» è contrassegnata dalla «consapevolezza della storia»; proprio perciò il «classico» va oltre la storia, e oltre la civiltà che l’ha prodotto. Ma il grande studio appare alquanto datato. Oggi, disancorati come siamo da ogni rapporto mimetico, prescrittivo, normativo con i classici, abbiamo bisogno di ritrovare l’elemento vivifico ed energetico dell’ascolto. Dobbiamo riscoprire il carattere «elettrico» di certe letture classiche. Infatti il rapporto tradizionale con le nostre origini culturali si va perdendo, sia nella scuola, sia nell’intera società. Ad abbandonarci, in una parola, non sono stati gli dèi (secondo la lunga tradizione ripresa e rilanciata da Hölderlin), quanto piuttosto i classici. Grave perdita, certo, che tuttavia, almeno da un punto di vista storico, potrebbe rovesciarsi in una situazione privilegiata.
Per la prima volta, dopo quasi duemila anni, siamo di fronte a una generazione che può dirsi “libera dai Greci e dai Romani”. Malgrado le lacune che si spalancano nella preparazione degli studenti d’oggi, una mancanza simile può offrire loro, per la prima volta nella storia dell’Occidente, la possibilità di stabilire, con i Greci e i Romani, un rapporto finalmente libero, fondato sulla scelta. Occorrerebbe insomma riattivare canali di comunicazione oggi ostruiti, riaccendere fuochi nelle praterie, ovviamente senza far mancare esempi di poesia erotica, di fronte alla quale la reazione degli studenti sarebbe immediata: non sono forse classici, poeti dialettali come Porta o Belli? La curiosità è sempre un ottimo reagente. E se funziona, la si può e la si deve utilizzare come meccanismo di riconoscimento, di empatia. Bisognerebbe — la sto dicendo grossa — leggere l’ Odissea come L’Isola del tesoro , nei limiti funzionali di ciò che vogliamo ottenere da un giovane: la passione. Poter scegliere i grandi classici senza essere costretti a subirli, è un vero regalo, e senza precedenti.
Leggere Dante a uno studente italiano di oggi, è esattamente come spiegarlo a uno straniero. Io cercherei di farlo dicendo che l’essenza della sua poesia consiste nella necessità di massima concentrazione e immagazzinamento sillabico. Dante, cioè, procede a uno stoccaggio del senso. La fatica, la lentezza con cui io ho letto La Divina Commedia dipende proprio da ciò: ogni suo verso ha un peso specifico immenso, dovuto appunto alla spaventosa quantità di senso che contiene. Cosa fare, allora? Per quanto riguarda la mia personale esperienza, la Commedia mi si è dischiusa soltanto dopo l’incontro con Mandel’štam. Non ero mai riuscito a leggere Dante finché non compresi, ed è curioso, quanto mi andava mostrando uno scrittore russo. Io avevo il tipico odio dello studente che, imbattendosi nella barriera delle note a piè di pagina, reagisce come davanti a un impedimento, come a un ostacolo che sbarri l’accesso al testo. Ma ecco la soluzione proposta da Mandel’štam: «Il commento è parte integrante della Commedia.
[…] La Commedia, nave portento, esce dal cantiere con lo scafo già incrostato di conchiglie». La Commedia, insomma, è davvero fra le poche imbarcazioni che, sin dalla nascita, prevedono la presenza di concrezioni, remore, conchiglie, chiamate a ornare lo scafo. Il commento non viene dopo, ma fa tutt’uno con il testo. Quella di Mandel’štam, si sarà capito, è una critica inventiva, visionaria, e però indispensabile per prendere familiarità con questo vero e proprio mostro verbale della nostra lingua.
Ma torno al nostro tema. Per appassionarsi al libro, è indispensabile, nel caso della poesia, imparare dei versi a memoria. A questo punto sento un’obiezione. Ma come? È quello che in Italia si fa da sempre! Proprio così. Ed ecco il colpo di scena. Finora, infatti, ho taciuto la cosa più importante, ossia che molte, se non addirittura tutte le cose che ho detto, in realtà sono già da tempo applicate in quello che resta forse il migliore sistema di insegnamento pubblico esistente al mondo. Da Trento fino a Isernia, potrei citare tanti esempi di «eroi» della didattica — e quanti ce ne sono che io ignoro! Ma mi limiterò al caso di Napoli, dove, con un gruppo di suoi colleghi e amici, una insegnante liceale di italiano e latino ha ideato La pagina che non c’era . Un concorso nazionale per le superiori, che quest’anno ha vinto il primo premio del ministero dei Beni culturali come miglior iniziativa per la diffusione della lettura nella scuole. Un’esperienza che rende onore alla funzione e al senso della scuola pubblica.

Corriere 4.9.14
Ora cancello Pico della Mirandola

«La vera memoria resiste all’inchiostro e al tempo»
di Emilio Isgrò

Quel che sapevo di Giovanni Pico della Mirandola era tutto racchiuso in una nozione scolastica di sapore enigmistico: un personaggio dotato di una memoria così prodigiosa da poter recitare la Divina Commedia a rovescio, cioè dall’ultimo verso al primo, dopo averla letta velocemente una sola volta. E sapevo anche, naturalmente, che tutto questo aveva qualcosa a che fare con il mio gesto del cancellare, giacché una memoria capace di resistere all’usura e agli insulti del tempo è anche in grado di resistere all’inchiostro (Nero di China o acrilico Mars Black) con il quale ho sommerso per tanti anni lo scibile umano.
Sapevo, inoltre, che proprio l’ovvietà aneddotica del personaggio lo rendeva perfettamente adeguato a una di quelle operazioni di transfert con le quali ho affrontato in passato figure straordinarie come Eschilo o l’Alighieri, Bach o Chopin, Lorenzo de’ Medici o Giotto.
È dall’ovvio, infatti, che io parto tutte le volte che devo consegnare al mio pubblico l’immagine rinnovata di personaggi d’alto profilo storico, artistico o letterario.
Quando ho lavorato su Ulisse e sull’Odissea , per esempio, mi è parso quasi scontato, dopo aver letto le traduzioni del Pindemonte o della Calzecchi Onesti, prendere in mano due o tre Odissee illustrate «raccontate ai bambini» per ricrearmi lo spirito e intendere quel che di Omero rimane davvero.
Questo escamotage, oltre tutto, mi è sempre stato di innegabile aiuto per offrire a chi guarda o a chi legge quel «primo livello» di lettura che a volte cozza violentemente con le sofisticherie dottamente concettuali alle quali noi artisti raramente sappiamo rinunciare.
Proprio per questo, credo, un professore privo di pregiudizi come Giulio Busi, ebraista e rinascimentalista insigne, lo scorso aprile ha deciso di muoversi da Berlino, dove insegna alla Freie Universität, per venirmi a parlare del Conte della Concordia.
Devo dire che mi ha preso per il verso giusto, raccontandomi soprattutto di quel Flavio Mitridate, un ebreo siciliano convertito al cristianesimo, che per Giovanni Pico aveva tradotto in latino la Cabala.
Così che, ascoltando Busi, ho cercato di immaginarmi da quali campagne siciliane fosse venuto al Nord il fragile, ambiguo Mitridate, e se queste campagne somigliassero in qualche modo alle terre emiliane nelle quali aveva trascorso l’infanzia il piccolo Giovanni Pico.
Non ho pensato all’evenienza, più che probabile, che Flavio avesse studiato i rotoli della Torah con il padre rabino in una stamberga di Caltabellotta, né tanto meno che il piccolo Giovanni, chiuso nella biblioteca del palazzo di Mirandola, avesse là sfogliato astrusissime carte caldee e incomprensibili manoscritti aramaici.
Non ho pensato a questo. Mi sono domandato piuttosto, per cominciare a scaldare i neuroni del mio cervello, che cosa potevano aver visto dalle loro finestre, più o meno negli stessi anni, il giovane Flavio che ancora si chiamava ebraicamente Shemuel e l’adolescente Giovanni già smanioso di imparare la lingua mosaica.
Certamente il tono dell’erba, sicuramente il colore del cielo avevano visto. Ma forse anche muli, asini e scarafaggi, formiche e lucertole, e poi topi, conigli e cavalli. La flora e la fauna, in altri termini, che ancora non esistevano nei loro libri ma già parlavano da quello che sarà per Galileo il grandioso Libro della Natura.
Non occorre precisare che questo era anche il mio Libro di siciliano che aveva avuto un’infanzia al Sud e una vita da adulto al Nord.
Certo, le stagioni d’Emilia e di Sicilia non coincidono, eppure ci sono mesi, come le estati riarse di stoppie, in cui Flavio e Giovanni avevano visto dalle loro finestre all’incirca le stesse cose che avevo visto io da ragazzo.
Così i muscoli del mio cervello cominciavano veramente a scaldarsi, e pensavo con la massima serietà che avrei popolato di asini e topi le pagine dell’imprendibile Pico.
Se non che c’è sempre un momento in cui la cultura sormonta la natura e la natura smonta la cultura. Finché le cose si saldano e si confondono in un equilibrio tanto fecondo quanto precario; e infatti le Conclusiones pichiane, scampate al rogo papale, venivano giustamente offerte a me per il rito finale del sacrificio. Con una certezza non più sottintesa: che il Rinascimento italiano (come più tardi il Romanticismo tedesco) è stato sublime perché in esso natura e cultura si sono fuse nel medesimo impasto lavico, travolgendo pregiudizi e steccati.
Solo questo ha fatto grande l’Europa.
E tuttavia ora, rileggendo scrupolosamente le pagine mirandolane per cancellarle con arte, e dunque per salvarle una volta per sempre, mi accorgevo che dietro le incalzanti domande che Giovanni Pico rivolgeva a papa Innocenzo c’era tanta fatica umana, e tanta ansietà bisognosa di essere accolta e placata. C’era insomma tanto naturale sudore, e il naturale stormire delle fronde mirandolane con ragli d’asino e grugniti di maiale sparati nel solleone.
Da tutto questo vengono le innumerevoli, ossessive domande di Pico, con le imperdibili citazioni ebraiche o alessandrine, caldamente platoniche o tristemente aristoteliche. È dalla fragilità degli uomini che deriva la forza della cultura.
Questo, il Conte della Mirandola e della Concordia lo sapeva così bene che sentì il bisogno di chiederne conferma al Pontefice, cioè al suo vero nemico. Perché il fascino di Pico è tutto qui: che a un certo punto il filosofo diventa poeta. E non ha più difese.

Corriere 4.9.14
Piketty: «La democrazia deve avere il controllo sul capitale
Secondo lo studioso, evitata l’apocalisse marxista, occorre che le società riprendano potere sull’interesse privato, ma senza protezionismi dal nostro corrispondente

di Stefano Montefiori

L a questione della distribuzione delle ricchezze è oggi una delle più rilevanti e dibattute. Ma che cosa si sa, davvero, del suo sviluppo sul lungo termine? La dinamica dell’accumulazione del capitale privato comporta inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del potere in poche mani, come pensava Marx nel XIX secolo? Oppure le dinamiche equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico determinano, nelle fasi avanzate del processo economico, una riduzione spontanea delle disuguaglianze e un’armonica stabilizzazione dei beni, come pensava Kuznets nel XX secolo? Che cosa sappiamo realmente del processo di distribuzione dei redditi e dei patrimoni dal XVIII secolo in poi, e quali lezioni possiamo trarne per il XXI?
Sono queste le domande alle quali tento di rispondere. Diciamolo subito: le risposte da me suggerite sono imperfette e incomplete. Ma sono fondate su dati storici e comparativi più ampi rispetto a quelli offerti da tutti i lavori precedenti, e trovano posto entro un quadro teorico rinnovato che consente di comprendere meglio le tendenze e i meccanismi messi in campo. La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze hanno permesso di evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno modificato le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze, o non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo del secondo dopoguerra.
Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito — come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI — il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche. Tuttavia, esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse generale riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati, senza peraltro fare ricorso a misure protezionistiche e nazionalistiche. Questo libro tenta di avanzare proposte in tal senso, appellandosi agli insegnamenti che si possono trarre dalle esperienze storiche. Il racconto di tali esperienze costituisce la trama principale dell’opera.
Un dibattito senza fonti?
Per lungo tempo i dibattiti intellettuali e politici sulla distribuzione delle ricchezze sono stati caratterizzati da troppi pregiudizi e pochissimi fatti.
Sarebbe certo sbagliato sottovalutare l’importanza delle conoscenze intuitive che ciascuno, nella propria epoca, in assenza di qualsiasi quadro teorico e di qualsiasi statistica significativa, ha sviluppato in materia di redditi e patrimoni. Vedremo per esempio come il cinema e la letteratura, in particolare il romanzo del XIX secolo, abbondino di informazioni assai precise sui livelli di vita e di ricchezza dei differenti gruppi sociali, e soprattutto sulla struttura profonda delle disuguaglianze. (...)
I romanzi di Jane Austen e di Balzac, in particolare, ci offrono quadri assai esaurienti della distribuzione delle ricchezze nel Regno Unito e in Francia nel periodo 1790-1830. I due narratori dispongono di una conoscenza profonda della gerarchia dei patrimoni in vigore alla loro epoca. Ne sanno cogliere i segreti confini, ne conoscono le implacabili conseguenze sulla vita degli uomini e delle donne di allora. Ne ripercorrono le implicazioni con una potenza evocativa che nessuna statistica, nessuna dotta analisi, saprebbero uguagliare. (...)
Rimettere la questione della distribuzione al centro dell’analisi economica
La questione è importante, e non solo per ragioni storiche. A partire dagli anni Settanta del XX secolo le disuguaglianze all’interno dei Paesi ricchi — in particolare negli Stati Uniti, dove nel primo decennio del XXI secolo la concentrazione dei redditi ha raggiunto, o leggermente superato, il livello record del decennio tra il 1910 e il 1920 — si sono di nuovo accentuate: per cui diventa essenziale comprendere bene perché e come esse siano diminuite la prima volta. È vero che la crescita fortissima dei Paesi poveri ed emergenti, in particolare della Cina, costituisce un notevole potenziale fattore di riduzione delle disuguaglianze a livello mondiale, così com’è accaduto per la crescita dei Paesi ricchi durante i Trente glorieuse .
Ma è anche vero che tale processo solleva forti inquietudini in seno ai Paesi emergenti, e ancor più tra i Paesi ricchi. Tra l’altro, gli squilibri impressionanti osservati negli ultimi decenni sui mercati finanziari, petroliferi e immobiliari possono suscitare comprensibili dubbi circa il carattere ineluttabile del «percorso di crescita equilibrata» descritto da Solow e Kuznets, secondo il quale tutto deve presumibilmente crescere allo stesso ritmo. La domanda che preoccupa è: non sarà che il mondo del 2050 o del 2100 finirà nelle mani dei trader, degli alti dirigenti e dei detentori di patrimoni rilevanti, o dei Paesi produttori di petrolio, o della Banca della Cina, o addirittura dei paradisi fiscali che faranno da copertura, in un modo o nell’altro, a tutti costoro? E secondo noi sarebbe assurdo non porla, continuando a pensare, per principio, che la crescita sia per sua natura a lungo termine «equilibrata».
In un certo modo, oggi, agli inizi del XXI secolo, ci troviamo nella stessa situazione degli osservatori del XIX secolo: assistiamo a trasformazioni impressionanti, ed è ben difficile sapere fin dove potranno portare e come si presenterà la distribuzione delle ricchezze nell’arco di qualche decennio, tra un Paese e l’altro e all’interno del medesimo Paese. Gli economisti del XIX secolo hanno avuto un merito immenso: hanno posto il problema della distribuzione al centro dell’analisi, e hanno cercato di studiarne le tendenze sul lungo periodo. Le loro risposte non sono sempre state soddisfacenti, ma almeno rispondevano a delle buone domande. Invece, oggi, non abbiamo alcuna ragione di credere nel carattere automaticamente equilibrato della crescita.
Oggi è più urgente che mai rimettere la questione delle disuguaglianze al centro dell’analisi economica e tornare a porre le domande lasciate senza adeguata risposta nel XIX secolo. Per troppo tempo il problema della distribuzione delle ricchezze è stato trascurato dagli economisti, in parte a seguito delle conclusioni ottimistiche di Kuznets, in parte a causa di un’eccessiva simpatia della professione per i modelli matematici semplicistici, i cosiddetti modelli «a parametri rappresentativi». E, per rimettere la questione della distribuzione al centro dell’analisi, bisogna cominciare con il raccogliere il massimo numero di dati storici, in modo da capire meglio gli sviluppi del passato e le tendenze del presente. Perché è stabilendo con pazienza fatti e costanti, è confrontando le esperienze dei diversi Paesi, che possiamo sperare di individuare meglio i meccanismi in gioco e chiarirci le idee per il futuro.
(traduzione di Sergio Arecco )
© EDITIONS DU SEUIL, 2013
2014, BOMPIANI/ RCS LIBRI

Corriere 4.9.14

Il libro scomodo che ha diviso i commentatori in Francia e Usa
di Stefano Montefiori


PARIGI — Il successo internazionale del libro dell’economista francese Thomas Piketty non ha precedenti. Le 952 pagine di storia delle diseguaglianze e di critica al capitalismo contemporaneo sono diventate nel corso di quest’anno le più citate (anche se magari non sempre lette) da media, esperti, politici, soprattutto dopo la trionfale tournée dell’autore negli Stati Uniti, quando il columnist del «New York Times» David Brooks gli ha dedicato un editoriale dal titolo The Piketty Phenomenon evocando (con ironia) la Beatlemania. Piketty ha raccolto gli elogi incondizionati dei premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, le critiche del «Wall Street Journal» e del «Financial Times» (quest’ultimo protagonista di una contesa sui dati proposti da Piketty), l’approvazione dell’«Economist». L’accoglienza nel mondo anglosassone ha generato un ritorno di interesse anche in Francia, dove il volume era uscito sei mesi prima suscitando meno clamore. In patria alcune voci a destra sono state severe (Nicolas Bavarez aveva dato a Piketty del «Karl Marx da sotto-prefettura») ma soprattutto Piketty, ex consigliere economico di Ségolène Royal, da sempre schierato a sinistra, è sembrato infastidire i suoi compagni, la gauche di governo, quella del presidente della Repubblica. In campagna elettorale Hollande aveva promesso una «rivoluzione fiscale» ampiamente ispirata agli studi di Piketty sulle diseguaglianze, ma una volta eletto ha abbandonato il progetto. Le ricette — ormai ribattezzate Pikettynomics — prevedevano la trattenuta alla fonte (in Francia si paga dopo) e una tassazione progressiva dei redditi e dei capitali insieme, ma il presidente le ha ben presto accantonate. Anzi, la crisi di governo degli ultimi giorni e la nascita dell’esecutivo Valls II ha reso ancora più distanti le posizioni di Hollande e Piketty, che già non stimava il presidente («vale poco», è il suo giudizio). L’idea di fondo del Capitale nel XXI secolo attira consensi più delle soluzioni che ne discendono: Piketty critica una struttura economica del capitalismo ridiventata ottocentesca, dopo due guerre mondiali che avevano distrutto grandi fortune e creato enormi opportunità. Oggi, secondo Piketty, siamo tornati a un’era in cui non vale la pena lavorare, perché il mondo si fonda sui patrimoni accumulati senza fatica e non sui redditi frutto di merito e talento. Fin qui, l’interesse è grande, in America e in Europa. Quando però si passa ai rimedi concreti proposti da Piketty, le cose si complicano. Specie in Francia, dove il governo potrebbe tenere conto del suo lavoro e non lo fa. Il partito è spaccato, l’ala sinistra responsabile della fronda è stata cacciata dall’esecutivo. Piketty, profeta inascoltato in patria, conferma la sua avversione a Hollande. «Che penso dei deputati socialisti che si sono ribellati? Avrebbero dovuto farlo prima».

Corriere 4.9.14
La lezione di Bloch sulla storia

Chissà quante volte è capitato anche a noi di domandarci che cos’è la storia, a che serve. Adesso, di quel grande storico che è stato Marc Bloch (nato nel 1886 e ucciso dai nazisti nel 1944), esce in italiano il saggio Che cosa chiedere alla storia? (Castelvecchi, pp. 79, € 9). Come spiegano i due prefatori dell’edizione, Grado Giovanni Merlo e Francesco Mores, si tratta del testo di una conferenza, tenuta nel 1937, dove Bloch sostiene che la definizione migliore è una sola: «La storia è la scienza del cambiamento». E quindi chi fa «il mestiere dello storico» (per citare il titolo di un altro suo libro famoso) deve sforzarsi «di scoprire, nel corso della storia, l’apparizione dei cambiamenti e misurarne gli effetti». Per essere ancora più chiaro, Bloch specifica che «solo lo studio del passato è in grado di portarci all’analisi sociale del presente». Insomma, conoscere il mondo di «ieri», per meglio capire  la realtà di «oggi».

Corriere 4.9.14
Raccontare Cartesio in forma di poesia
di Giulio Giorello


«Mi abbandono al mutevole moto / della mente e dei sensi./ Scioglie e rigenera l’affanno vissuto,/ lungo muri sedotti dal chiarore lunare./ S’allontana l’Io Penso,/dubbio della ragione./ Io sento il dubbio, ora, quello del cuore». Roberta Pelachin dedica a Cartesio uno (secondo me il più bello) dei dieci poemetti che costituiscono il suo volume La fiamma della (co)scienza , pubblicato dalle edizioni Leonida (pp. 148, e 13). Roberta si sente profondamente coinvolta nell’intrico tra filosofia, scienza e letteratura: «Il sonno della ragione genera mostri, ma il sonno del sentire ne genera altrettanti. Frammenta il corpo, nostro e del mondo». Chissà, si chiede presentando il suo poemetto cartesiano, se quel grande matematico, fisico e filosofo abbia indicato nell’esercizio del suo dubbio metodico solo una via per dare fondamenti sicuri all’indagine scientifica, o abbia cercato anche di «arginare la fatica di vivere, anche la sua», inevitabilmente intrisa di corporeità. Comunque, è l’inizio della nostra modernità: Cartesio dubita di tutto, dunque pensa, dunque esiste.
Pochi decenni prima l’Amleto di Shakespeare dubita e pensa anche lui, anche se è problematico dire che esista dato che si tratta di una figura da palcoscenico. Ma in entrambi i casi si delinea un teatro della coscienza, anche se la scienza cartesiana mira all’esplorazione dell’universo, la sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte, come amava dire Victor Hugo «nel globo di Shakespeare c’è l’uomo». Ed è proprio la coscienza che «ci trafigge con la violenza di un’arma appuntita, e fa tremare il cuore in petto», aprendo un varco per cui irrompe una marea di perplessità, come dice re Enrico VIII nella tragedia che Shakespeare gli ha dedicato (per curiosa ironia, fu proprio durante la messa in scena di quell’opera, il 29 giugno 1613, che andò in fiamme il Globe, l’edificio che aveva visto i trionfi dell’arte shakespeariana).
La perplessità è al tempo stesso un tormento e un dono. L’ambivalenza è intrinseca alla poesia come alla vita, e questo mi riporta alle «trafitture» di cui pare esperta Roberta nei suoi versi. Scienza e coscienza si fondono insieme, come appare dal gioco di parole del titolo: la ricerca scientifica le appare come l’impresa capace di mediare tra «il mistero esteriore del cosmo» e quello «interiore» dell’anima, senza alcun rigido dualismo («l’errore di Cartesio»).
Non a caso uno dei principali riferimenti di Roberta resta Charles Darwin, il naturalista britannico che, oltre a mandare in pezzi il dogma della fissità delle specie viventi, ha rivendicato le stesse radici animali della coscienza («Là dove Platone dice anima, tu leggi scimmia», aveva annotato nei suoi Taccuini ). E se per Cartesio gli animali erano semplici macchine, create dall’Artefice divino a nostro uso e consumo, per Darwin invece, non diversamente da Homo sapiens, erano dotati di emozioni e sentimenti, sicché noi e loro «potremmo essere tutti legati in un’unica rete». Eppure, osserva Pelachin, anche il superamento di Cartesio operato dalla biologia da Darwin in poi è stato segnato da sofferenza ed emarginazione: dalle peripezie degli uomini – e soprattutto delle donne – che si lasciarono coinvolgere nell’impresa, fino agli stessi animali da laboratorio sacrificati per affermare l’idea di quell’unica rete della vita. Però, al contrario di non pochi poeti (o sedicenti tali), che vedono nella scienza il male, o degli esponenti del cosiddetto animalismo più estremista, che di essa scorgono soltanto il lato sanguinoso, Roberta si rende conto che senza la scienza saremmo ancora dominati dall’aggressività feroce delle nostre origini e che, per correggere il cattivo uso delle scoperte, è ancora alla scienza che bisogna rivolgersi. E la poesia può servire non a sostituire la buona divulgazione scientifica in prosa, ma di nuovo ad aprire un varco al sentimento per la vita. «La mente ghiaccia: tra dubbi e sospiri,/ strazia e consuma», ma talvolta basta un piccolo refolo a innescare il vento del disgelo.

Corriere 4.9.14
La luce cristiana sul Tondo Doni
L’opera del 1504 anticipa la volta della Cappella Sistina
Anche qui Michelangelo racconta la storia della salvezza
di Arturo Carlo Quintavalle


È difficile vedere opere troppo note, quasi consumate dalla riproduzione dei media. Ma, per vedere serve informazione, servono dati, elementi sicuri su cui costruire un discorso. Certo, anche così, la strada non è facile e lo dimostra proprio l’analisi del Tondo Doni il cui significato è da scavare, strato dopo strato. Il dipinto, che conserva la cornice originale, è stato realizzato per il matrimonio di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, 3 gennaio 1504 ma, e qui cominciano i problemi, potrebbe essere stato realizzato per la nascita della figlia nel 1507 (Natali). Dunque come mai la forma tonda? Per via di una tradizione, quella dei «deschi da parto» che, coi cassoni nuziali, sono a Firenze tanto diffusi? No, il dipinto appare proporre un discorso molto più complesso e proprio la cornice, con in alto scolpito il Cristo e, sotto, due Profeti e due Sibille, sembra alludere a un più articolato racconto. Vediamo lo stile, il modo del dipingere. Il blocco delle figure in primo piano, Madonna, Bambino, San Giuseppe, incombe sullo spettatore, quasi sporge dal filo della cornice; dietro, un paesaggio deserto e le rocce semicircolari su cui posano figure maschili e femminili nude; a destra, oltre un striscia netta come un segnale prospettico, il San Giovannino.
Due dipinti ora alla National Gallery di Londra, ambedue incompiuti, sono gli antecedenti di questo: la Madonna Manchester e il Trasporto di Cristo . Il primo pezzo, da confrontare con la Madonna di Bruges scolpita agli inizi del secolo XVI, mostra il dialogo con la scultura antica, fa capire che Michelangelo guarda sì a Luca Signorelli, quello che dipinge attorno al 1490 una forte Sacra Famiglia agli Uffizi, e guarda anche al Botticelli dagli anni 90, ma il dialogo con l’antico è il tema portante. Anche il Trasporto di Cristo , che si data attorno al 1501, mostra il corpo del Redentore riverso come un esangue Meleagro, e anche le due figure che lo reggono mostrano un’attenzione precisa per l’arte romana. Torniamo al tondo degli Uffizi: prima di tutto colpisce la torsione delle figure che non può essere casuale, Cristo scende dall’alto, Giuseppe lo porge alla Madonna protesa, le figure unite dal gesto staccano dai personaggi di fondo. Uno sguardo più attento ci fa capire che il blocco in primo piano è scorciato dal basso, le figure dietro hanno un punto di vista in asse, a mezza altezza: perché? Charles De Tolnay suggerisce il senso del dipinto: confronto fra le due età, quella del Vecchio Testamento, i nudi al fondo, e quella del Nuovo con le tre figure in primo piano e San Giovanni come mediatore fra le due età. Conforta questa tesi la cornice con Profeti e Sibille e, in alto, in asse sulla Sacra Famiglia, la testa del Cristo che, di per sé, suggerisce la rappresentazione di un meta-tempo: Cristo bambino che scende in terra e, proprio sopra, scolpito nella cornice, il Cristo adulto che sceglierà il sacrificio.
Michelangelo ha avuto un periodo di formazione, fino al 1492, sulle raccolte di antichità romane degli Orti Medicei, ma per lui è stata altrettanto importante la scultura di Donatello, come anche quella di Bartolomeo Bellano; significativa poi è stata anche l’attenzione alla pittura di Masaccio, a lungo disegnato alla cappella Brancacci, e la ricerca di Luca Signorelli, con quegli spazi vuoti, quei paesaggi senza storia, gli stessi che vediamo nel tondo Doni e negli altri dipinti. La forma tonda ha un significato particolare per Michelangelo: è una premessa a questa composizione il Tondo Taddei, ora a Londra, incompiuto, datato attorno al 1502: ancora una volta un primo piano della Madonna di profilo, il blocco sporgente, il Bambino che evoca una scultura antica e, a sinistra, il San Giovannino. Certo, Michelangelo evoca spesso lo stiacciato di Donatello ma le sue sculture hanno un significato simbolico più complesso, come la Madonna della Scala di Casa Buonarroti dove la scala rappresenta la salvezza e la prospettiva, ancora una volta, è diversa per la Madonna e Bambino e per la rampa vista di scorcio.
Un quadro è anche colore, ma qui siamo davanti a qualcosa di diverso dalla analitica moltiplicazione dei toni di Botticelli, di Ghirlandaio, o degli altri maestri contemporanei, salvo forse Pollaiolo; qui i colori sono il rossiccio delle carni affocate, l’azzurro del manto della Madonna, il giallo della luce che domina ovunque e il bruno; gli stessi colori che Michelangelo utilizzerà fra breve per la volta della Sistina e che sono probabilmente allusivi ai quattro elementi, terra aria acqua e fuoco. Insomma il dipinto sembra assumere un significato complesso che unisce cornice, forme dipinte, colori. Ma perché queste scelte così articolate e nuove? Secondo la riflessione neoplatonica, mediata a Firenze dalla Teologia Platonica di Marsilio Ficino (1482), il mondo è imperfezione, la Luce divina lo penetra e illumina in gradi diversi, una luce qui diffusa ovunque; anche le espressioni dei volti, il racconto del quotidiano deve essere sublimato; così lo spazio vuoto di eventi pone il segno della venuta del Cristo fuori del tempo.
Michelangelo, con la sua tagliente definizione delle forme, si contrappone allo sfumato leonardesco e, a riprova, si pensi alla distanza dal cartone della Madonna e Sant’Anna del pittore di Vinci (1505 c.). Del resto proprio con Leonardo, a Palazzo Vecchio chiamato a dipingere la Battaglia di Anghiari (1503-1504 c.), si confronterà Michelangelo che sceglie di rappresentare, per la Battaglia di Cascina ,(1504-1506), una proda scoscesa dove i soldati fiorentini si stanno bagnando, una proda che sembra echeggiare proprio questa del Tondo Doni. Raffaello, che nel 1507 dipinge la Deposizione per Malatesta Baglioni, cita nella predella proprio Michelangelo ma, nel quadro, sceglie una messa in scena drammatica, descrivendo analiticamente volti, figure e il naturale. Come Raffaello anche Michelangelo nel 1508 è chiamato da Papa Giulio II a Roma dove dipingerà dal 1508 al 1512 la volta della Sistina continuando il racconto che, nel Tondo Doni, ha prefigurato come cosmico confronto sulla salvezza dell’uomo. Appunto il tondo, simbolo di una salvezza che si pone fuori del tempo e della storia.

La Stampa 4.9.14
La nostra Africa nascosta sotto i cliché
Esotismi e immagini romanzesche coprono una realtà economica in continua espansione
di Remo Bodei


Nel giudicare altri popoli e culture i pregiudizi e i luoghi comuni sono frequenti e quasi inevitabili. Eppure, quelli nel tempo che si sono accumulati sull’Africa, specie sulla sua zona subsahariana, superano di gran lunga quelli che pesano su altre parti del mondo.
Sappiamo generalmente assai poco, a livello di senso comune, di un continente così disomogeneo, esteso su una superficie di trenta milioni di chilometri quadrati, composto da cinquantaquattro Stati, in cui si parlano quasi duemila tra lingue e dialetti, ora abitato da oltre un miliardo di persone, ma che, per effetto del più alto tasso di crescita demografica, raggiungerà entro il 2050 un miliardo e ottocento milioni, un quarto dell’intera popolazione del pianeta. Sebbene l’Africa sia il continente in cui poco meno della metà della popolazione è colpita dalla povertà, grazie all’aumento del prezzo delle materie prime e al ritorno degli investimenti stranieri, conta oggi nella sua parte subsahariana sei dei dieci Paesi che, nel mondo e nel primo decennio di questo secolo, hanno raggiunto i maggiori tassi di crescita.
Nel nostro immaginario occidentale l’Africa possiede sostanzialmente due volti, uno positivo e uno negativo, dove la realtà si intreccia con la fantasia e i racconti degli esploratori, dei colonizzatori, dei missionari e dei mercanti del passato, che hanno forgiato le nostre idee, si scontrano con i dati economici, politici e sociali del presente. Nel primo caso, essa è caratterizzata, fin dall’antichità, dalla presenza dell’oro, dalla varietà e dalla maestosa grandezza degli animali, dai deserti e dalle foreste ostili all’uomo e dall’essere stata per millenni un luogo misterioso, in gran parte inesplorato dagli europei (ha quindi suscitato curiosità, sogni e progetti avventurosi di esplorazione e di ricchezza). Nel secondo caso, essa evoca fame, miseria, siccità, clima insalubre, malattie tropicali, corruzione dei governi, conflitti etnici. Appare spesso, in sostanza, come un continente senza speranza di riscatto.
Fino a non molto tempo fa il ricordo di antichi episodi di barbarie si sommava a stereotipi razzisti di vario tipo, da quelli truci che mostravano il negro come l’anello di congiunzione tra la scimmia e l’uomo a quelli edulcorati in forma di vignette con esploratori bianchi in un pentolone, pronti per essere divorati dai cannibali, indigeni in costume tribale ma con la sveglia al collo oppure di canzonette degli Anni Cinquanta del secolo scorso che oscillavano tra l’irrisione di «Quando io vedere buccia di banana / me venire in mente Africa lontana», le allusioni oscene di «Il tucul è una capanna in cui Bongo fa la nanna» e la condiscendenza paternalistica di Angelitos negros, le cui parole suonavano così in italiano: «Non sono che un povero negro, ma nel Signore io credo / e so che Egli tiene d’accanto tanti negri che hanno pianto» […].
Siamo abituati poi a immaginare l’Africa come soggetta da secoli agli Europei, ma in realtà – si pensi all’impero medioevale del Mali, all’Etiopia o alla Liberia, una piccola nazione fondata nel 1821, voluta dagli Stati Uniti e composta da schiavi liberati – gli Africani, a prescindere da alcune enclaves nelle coste, rimasero sostanzialmente indipendenti dagli Europei fino ai primi decenni dell’Ottocento. Solo alla fine del Settecento cominciò, infatti, l’esplorazione e la penetrazione all’interno del continente. Si può anzi stabilire una data precisa: il 1795, quando lo scozzese Mungo Park raggiunge le foci del Niger. Da allora inizierà la fase dell’esplorazione sistematica e della colonizzazione, con la conquista francese dell’Algeria nel 1830 e la successiva accelerata spartizione del continente con il Congresso di Berlino del 1884-1885, voluto da Bismarck anche come effetto della crisi economica mondiale del 1873, che aveva spinto alla ricerca di nuovi mercati e di materie prime. Tale congresso stabilisce le zone di appartenenza o di influenza della diverse nazioni europee e dà luogo fino al 1914 a una corsa in vista della sistematica occupazione dei territori («scramble for Africa»). La parte del leone, è il caso di dire, la fanno la Francia e l’Inghilterra, ma zone consistenti spettano al Portogallo, al Belgio, alla Germania e all’Italia.
In rapporto alla millenaria storia dell’Africa, il dominio coloniale è relativamente breve: dura sostanzialmente una ottantina d’anni ed è seguito, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, da ondate successive di processi di decolonizzazione […].
La fame e la povertà sono dovute al sovrapporsi di fattori naturali e socio-politici. Il terreno è in gran parte poco fertile (non solo perché è povero nelle savane e negli altipiani, ma anche perché il deserto avanza attualmente a velocità impressionante) e il dominio coloniale ha sostituito le tradizionali colture miranti alla sussistenza con quelle richieste dai mercati di esportazione. Inoltre, le disparità tra nazione e nazione (si va, secondo le stime, dai 26.000 ai 38.000 dollari pro capite della Guinea Equatoriale ai 396 della Repubblica Democratica del Congo) e tra ricchi e poveri sono enormi, anche perché le risorse locali e gli aiuti internazionali vengono intercettati sul piano politico. Non è, infatti, l’economia a dominare, ma la politica, rappresentata da governanti che si impossessano personalmente delle risorse e le distribuiscono alle loro clientele, spesso nelle regioni della loro etnia di provenienza. Se la corruzione è diffusa, va anche aggiunto che ben otto Stati africani (compresi la Namibia, il Ghana e il Rwanda) sono considerati dall’Indice di percezione della corruzione di «Transparence International» meno corrotti dell’Italia.

Repubblica 4.9.14
Ora la via Lattea e il sistema solare sono nel quartiere di galassie Laniakea
La nuova mappa dell’universo dove la Terra cambia indirizzo
di Silvia Bencivelli


UNA nuova mappa dell’Universo, e un nuovo indirizzo per casa nostra. Da oggi, infatti, la Via Lattea (e quindi anche il Sistema solare, la Terra e tutti noi) si trova nel supercluster di galassie chiamato Laniakea: uno dei “quartieri” disegnati dagli astronomi secondo una nuova mappatura dello spazio che ridefinisce il livello intermedio tra singola galassia e intero Universo. Non si tratta solo di una questione di toponomastica, spiega la rivista “Nature”, che alla mappa dedica la copertina di questa settimana, ma di una nuova visione dell’astronomia che ha già permesso di risolvere un paio di questioni chiave sulla nostra posizione nello spazio.
I gruppi di galassie che definiscono i quartieri si chiamano tecnicamente supercluster, cioè superammassi. Sono zone dello spazio in cui è concentrata la maggior parte della materia: tra l’una e l’altra si trovano enormi spazi chiamati “vuoti” che non contengono quasi nulla. È come se in una città i quartieri fossero di forma “filamentosa” e isolati tra loro, separati da grandi parchi verdi con pochissimi edifici. Con la nuova tecnica di mappatura, ci si è concentrati sul nostro quartiere e sui suoi dintorni e così si è potuto prima di tutto identificarne i confini. Non solo: lo studio ha permesso di ricostruire il dettaglio delle strutture cosmiche intorno a noi, caratteristiche legate strettamente ai processi di formazione ed evoluzione delle galassie.
Ma rispetto alla toponomastica di una città, disegnare la mappa dell’Universo propone (almeno) una difficoltà in più, perché l’Universo si espande e i singoli quartieri si allontanano tra loro a gran velocità dall’inizio dei tempi. La nuova mappa è stata così costruita basandosi su un enorme catalogo che descrive il movimento delle galassie e le loro distanze reciproche, chiamato Cosmicflows-2. Si tratta di un insieme di misure, alcune nuove e altre presenti da tempo, che descrivono lo spazio come un intricato groviglio di filamenti di galassie che in certe zone si aggomitolano in cluster e supercluster.
Laniakea, in particolare, è grande circa 160 milioni di parsec, cioè 520 milioni di anni luce, cioè 520 milioni di volte la distanza coperta in un anno dalla luce che percorre il vuoto. Per intendersi, un anno luce equivale circa a diecimila miliardi di chilometri e il Sole è a 8 minuti luce dalla Terra. Insomma, Laniakea è grande. Ed è per questo che è stata battezzata così: lani in hawaiano significa paradiso, mentre akea vuol dire spazioso, incommensurabile. A definirla è stato uno scienziato dell’Università delle Hawaii, l’astronomo Brent Tully, che ha firmato l’articolo su “Nature” insieme a due francesi e a un israeliano. I quattro, spiega l’Università delle Hawaii, hanno voluto omaggiare i navigatori polinesiani che usavano la conoscenza del cielo per navigare nell’immensità dell’Oceano Pacifico. Ma come precisa il loro collega estone Elmo Tempel “questo risultato non segna la fine della mappatura dell’Universo”. Anzi: nuovi dati arriveranno e potremo essere sempre più precisi anche sulle zone più lontane dal nostro quartiere del Paradiso incommensurabile.
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Repubblica 4.9.14
L’intervista
“Questa cartina racconta come tutto si è formato”


NON pensatela come una mappa “normale”, è una grande novità scientifica, come spiega Luigi Guzzo, ricercatore dell’Osservatorio Astronomico di Brera dell’INAF e professore di Cosmologia all’Università di Milano-Bicocca.
Che cosa c’è di straordinario nella nuova mappa ?
«C’è che si sono usate le velocità delle galassie per tracciare la distribuzione della massa nell’universo. E che si va oltre al problema della massa oscura. Quindi non va pensata tanto come una cartina geografica dell’universo, anche perché qui, per ora, le galassie sono poche. La novità è il metodo utilizzato, che estende tecniche degli anni ’90 ed è complementare rispetto a quelle».
E perché è stato così difficile disegnarla?
«Perché la velocità delle galassie dipende dalle disomogeneità dell’Universo. Le disomogeneità sono come picchi e valli nella distribuzione della massa e originano i movimenti delle galassie come se fossero le montagne e le vallate intorno al bacino di un fiume, mentre le galassie rotolano diversamente a seconda della forma del territorio».
Ma a che cosa serve tutto questo?
«È un passo in avanti per capire come la gravità e l’espansione dell’universo modellino la distribuzione della materia intorno a noi. Cioè: oltre a essere mappe visivamente utili, come tutte le mappe, ai nostri occhi raccontano la storia dell’Universo e le condizioni iniziali da cui tutto si è formato. È un quadro, questo, molto diverso da quello che vedevamo anche solo pochi decenni fa».
Quindi non è solo il risultato dei quattro firmatari di oggi?
«È il culmine di un grande lavoro collettivo». ( s. b.)

il manifesto 4.9.14
Charles Wright Mills e il sapere ridotto in frantumi
di Benedetto Vecchi


Quando esce, il suo nome è già noto ed è associato a due saggi che hanno terremotato il paludato mondo delle cosiddette scienze sociali statunitensi. Negli anni Cinquanta, Charles Wright Mills aveva, infatti, messo sotto accusa la formazione e i meccanismi di selezione delle élite al potere e l’ascesa dei «colletti bianchi», quel ceto medio che occupava il centro della scena sociale, spodestando dal podio il self made man, figura mitica attraverso la quale gli Stati Uniti erano presentati il regno delle infinite possibilità di successo. Lo scandalo delle sue opere veniva dal fatto che Wright Mills, in pieno maccartismo, non esitava a citare Karl Marx e a sostenere che negli scritti dell’economista marxista Paul Sweezy ci sono molti elementi utili a differenza di quanto invece si poteva e si può trovare trovare negli scritti degli eredi del liberale John Stuart Mill. Alle accuse di essere un comunista mimetico, Wright Mills rispondeva sarcasticamente che se interrogato non avrebbe avuto remore a definirsi un wobbly, evocando la breve e tuttavia importante esperienza di sindacalismo rivoluzionario che nei primi venti anni del Novecento, prima cioè che intervenisse la politica di annientamento dell’Iww (Industrial workers of world), aveva espresso le posizioni politiche più radicali nella sfera pubblica statunitense. E altrettanto provocatoriamente da lì a pochi anni scriverà una serie di ritratti dei «marxisti» più significativi del Novecento, mentre nel 1960 sosterrà, con un lungo e discusso saggio, la rivoluzione cubana, considerata una possibile alternativa sia al capitalismo che al socialismo di stato di stampo sovietico.
I saggi sulle élite e sui colletti bianchi avevano quindi trasformato un promettente studioso in una figura centrale nella sociologia statunitense. La pubblicazione de L’immaginazione sociologica (ora riproposta dal Saggiatore, pp. 244, euro 13) nel 1959 può quindi essere considerata la parte conclusiva del trittico iniziato con il testo sulle élite. Con questo libro, Wright Mills si dà un obiettivo ambizioso e per raggiungerlo sa che deve misurarsi non solo con «scuole di pensiero» che fanno il cattivo e buon tempo nelle facoltà statunitensi, ma anche con il potere sociale che esprimono grazie al fatto che sono diventate le ancelle del potere economico e politico.
Da una parte c’è il funzionalismo di Talcott Parson – definito ironicamente da Wright Mills la «Grande Teorizzazione» -, dall’altra l’empirismo radicale di Paul Lazarsfeld. Il primo riteneva che le scienze sociali dovessero sviluppare modelli di interpretazioni della realtà astraendosi dai rapporti di forza presenti nella società capitaliste: modelli che dovevano eliminare ogni specificità storica, ogni differenza esistente tra realtà segnate da un alto tasso di eterogeneità per poi essere applicati indifferentemente sia a società capitaliste che quelle stigmatizzate come «sottosviluppate».
Verso la «Grande teorizzazione» Wight Mills usa parole sprezzanti verso lo stile criptico che la contraddistingue, presentando pagine di esilarante lettura laddove propone involuti brani tratti dai libri di Parson per poi sintetizzarli in poche righe. L’oscurità della «Grande teorizzazione» è dunque da considerare un ordine del discorso, direbbe il diligente ammiratore di Michel Foucault, che legittima il potere costituito.
Tra biografia e storia
L’altro bersaglio polemico è l’empirismo radicale Lazarsfeld, il sociologo austriaco coautore di uno dei più importanti analisi sulla disoccupazione — I disoccupati di Marienthal — e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1933, diventando uno delle figure di primo piano della Columbia University (la stessa dove insegnava Wright Mills) e della sociologia americana. Rispetto alla centralità dei fatti
e l’irrilevanza della teoria prospettate da Lazarsfeld, Wright Mills sostiene invece che l’«immaginazione sociologica» è indispensabile, perché consente di cogliere sia le tensioni, i sentimenti individuali, mettendoli però in relazione con lo sviluppo storico e le relazioni allargate che accompagnano il suo stare in società: «l’immaginazione sociologica — scrive Wright Mills — ci permette di afferrare la biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società». Inoltre, per relazioni sociali lo studioso americano intende anche il ruolo che hanno le divisioni in classe nello vita individuale, la «composizione sociale» delle élite, nonché il tipo di lavoro che i singoli svolgono. Anche in questo caso, l’ironia e il sarcasmo la fanno da padrone, in particolare modo quando il lettore è invitato a svolgere un esperimento mentale per cercare come sia possibile definire la totalità di una realtà sociale, elevando a modello generale ciò che accade in una piccola e provinciale cittadina, presentando come un aggregato statistico di comportamenti, ignorandone storia, stratificazione sociale e «razziale», flussi migratori, il ruolo svolto dalla religione come anche dell’amministrazione politica locale e da quella federale. In altri termini, le «scienze sociali» devono operare affinché il «presente si presenti come storia», evocando il titolo di un testo che Paul Sweezy scrisse per contrastare la normalizzazione della produzione culturale statunitense dopo l’impegno pubblico degli intellettuali a favore delle riforme sociali e politiche proposte durante il New Deal.
La centralità assegnata alla storia fa sì che Wright Mills, e siamo nel 1959, parli espressamente dell’avvento del postmoderno — la «Quarta epoca» — visto che ogni formazione sociale prende forma, si sviluppa per poi declinare, lasciando il posto ad un’altra formazione sociale. Da questo punto di vista emerge una inaspettata «attualità» del suo invito a contestualizzare storicamente la realtà sociale, senza nessuna concessione a un relativismo e a un generico pluralismo teorico. Wright Mills è uno studioso del capitalismo, ne vuole cogliere le invarianti ma anche le discontinuità. Ma emerge anche la sua inattualità, laddove considera l’«ethos burocratico» come una caratteristica del postmoderno prossimo a venire, vista invece la centralità che l’individuo proprietario ha assunto nelle società contemporanee. Non una società abitata da «robot docili» affiliati a una organizzazione vincolata a un ethos burocratico, bensì uomini e donne che vedono nella rescissione dei suoi legami sociali il preludio a una libertà radicale. Va però detto che L’immaginazione sociologica, nella sua inattualità, è pur sempre un godibile antidoto verso la retorica retorica individualista del neoliberismo, laddove ne svela il carattere ideologico, performativo dei rapporti sociali.
Autonomie universitarie
È su questo crinale che il volume rivela infine sentieri di ricerca che andrebbero ripresi. La denuncia del ruolo delle «scienze sociali» come discipline volte a costruire il consenso al potere costituito, la denuncia del carattere ottundente della parcellizzazione del sapere che caratterizzava e caratterizza la produzione culturale hanno infatti una forza persuasiva in controtendenza rispetto a quando accade nelle facoltà universitarie al di là e al di qua dell’Atlantico, dove la tendenza a definire «oggettivi» criteri di valutazione e a misurare la qualità della ricerca scientifica e sociale in base al loro utilizzo economico la fanno da padrone. Interessante sono quindi le pagine sull’autonomia dell’università dai poteri economici e politici: elemento tutt’ora indispensabile per garantire l’indipendenza dello studioso e per arginare la tendenza a misurare in base ai profitti derivanti, direttamente come proprietà intellettuale o indirettamente come innovazione, dalla produzione culturale.
Dunque un libro che andrebbe riletto non per cercare lumi sul presente, ma per acquisire un’attitudine critica rispetto la realtà capitalistica, facendo così i conti con le trasformazione che l’hanno caratterizzato. Non per rivendicare una immacolata autonomia dello studioso, ma per sviluppare un’attitudine woobly, partigiana nella produzione culturale. L’unica che consente davvero di conoscere la realtà.

il manifesto 4.9.14
Charles Wright Mills, un classico per trovare il regno della libertà
di Riccardo Mazzeo


È piuttosto raro che libri fondamentali ma esorbitanti dalle mode o da filoni recuperati e rilanciati da particolari editori (come numerosi testi antropologici citati da Edgar Morin ne L’uomo e la morte nel 1951 e ripubblicati, in questi anni, da Adelphi) giungano a una nuova edizione dopo più di mezzo secolo, ed è quindi con grande ammirazione che ho salutato la ripubblicazione da parte de Il Saggiatore di un testo cardinale del pensiero del Novecento come L’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills, che era uscito nel 1959 e che viene ora ripoposto da il Saggiatore.
È degno di nota anche che l’evento non sia dipeso né da un anniversario né da qualche congiuntura favorevole al rilancio del libro. Vero è che Zygmunt Bauman ne ha sottolineato il valore e la forza dirompente nel suo ultimo libro La scienza della libertà, ma le due opere sono uscite di recente in Italia quasi in contemporanea e quindi si può escludere qualunque influenza che non fosse la pregnanza del testo di Wright Mills in sé e per sé.
Cercherò quindi di spiegare perché la riedizione sia preziosa e utile per i lettori di oggi e quali ne siano le motivazioni.
Innanzitutto si tratta di un libro intenso e appassionato di uno «scienziato sociale» che già allora coglieva per un verso la missione fondamentale della sociologia, poiché «non si può comprendere la vita dei singoli se non si comprende quella della società, e viceversa», l’allargamento di prospettiva che sarebbe stato reso esplicito dalla globalizzazione allora solo in nuce («la storia che incide oggi su ogni uomo è storia mondiale»), e i rischi di tradimento della missione dei sociologi che sono oggi sempre più inclini a barattare la nobiltà del compito di allargare la consapevolezza della verità
e della ragione al più vasto numero possibile di persone con i trenta denari di un avanzamento di carriera, dell’immissione nei circuiti finanziariamente proficui delle fondazioni o delle consulenze pagate dai potenti, o semplicemente con la rassicurazione di uno status tanto più solido quanto più sterile offerto dall’autoreferenzialità, dal dialogo tra «pari» in un gergo per iniziati, nella dimensione aridamente «scientifica» dei teorici che discutono fra di loro della gente comune dimenticando che sarebbe loro dovere parlare proprio alla gente comune per migliorare la loro condizione.
Wright Mills, morto a soli 46 anni, è stato una delle voci più critiche delle componenti artefatte
e illusorie della democrazia del suo Paese: «Gli Stati Uniti di oggi sono democratici essenzialmente nella forma e nella retorica dell’aspettativa. Nella sostanza e nella pratica sono molto spesso non democratici, e ciò appare in modo chiarissimo in determinati campi. L’economia delle grandi società non è gestita né sotto forma di assemblee di cittadini né mediante un complesso di poteri responsabili verso coloro che subiscono direttamente le conseguenze della loro attività. Lo stesso può dirsi sempre più per la macchina militare e per lo stato politico». Non era ottimista riguardo alle probabilità che i sociologi potessero «salvare il mondo» ma riteneva che, dato che comunque potrebbe essere possibile riuscirvi, essi avessero in ogni caso il dovere di tentare l’impresa di «risistemare gli affari umani secondo gli ideali di libertà e di ragione».
Ma soprattutto era capace di «antivedere» alcune problematiche allora inimmaginabili, in un tempo che riponeva una fiducia senza riserve nella tecnica di cui si coglievano unicamente le valenze salvifiche: «Non dobbiamo forse, nella nostra epoca, prepararci alla possibilità che la mente umana, come fatto sociale, si deteriori qualitativamente e si abbassi ad un livello culturale inferiore, senza che molti se ne accorgano, sopraffatti come siamo dalla massa delle piccole invenzioni tecnologiche? Non è forse questo uno dei significati della frase “razionalità senza ragione”? Del termine “alienazione umana”? (...)L’accumularsi degli espedienti tecnologici nasconde questo significato: coloro
che se ne servono, non li capiscono; coloro che li inventano, non comprendono molto di più. Ecco
perché non possiamo, se non con molti dubbi e riserve, prendere l’abbondanza tecnologica come indice di qualità umana e di progresso culturale».
La sociologia, per seguire la propria vocazione, deve alzare lo sguardo oltre la «riserva» del proprio territorio e interessarsi alle altre scienze umane: la storia («per molti problemi (...) possiamo ottenere informazioni adeguate soltanto nel passato»), la psicanalisi («Il prossimo passo degli studi psicanalitici sarà di fare largamente e pienamente per le altre zone istituzionali ciò che Freud ha cominciato a fare così splendidamente per le istituzioni di parentado di un tipo scelto») e naturalmente il cinema, l’arte, la letteratura eccetera. Basti pensare che fra il 1940 e il 1950 aveva letto l’opera omnia di Balzac («ed ero stato profondamente colpito dal fatto che si fosse assunto volontariamente il compito di “coprire” tutte le principali classi e tutti i principali tipi della società dell’epoca che voleva far propria».
Forse l’epitome più fedele e acuta di Wright Mills è stata data proprio da Bauman ne La scienza della libertà: «distinse autorevolmente l’immaginazione sociologica dalla sociologia e mostrò come la pratica di quest’ultima non abbia alcuna necessaria connessione con la prima. Wright Mills fornì argomenti irrefutabili a sostegno del perseguimento di un’immaginazione sociologica che cercasse di imbastire una conversazione con le donne e gli uomini (per) mostrare come i “guai personali” siano inestricabilmente legati a “questioni pubbliche”. L’immaginazione sociologica rende ciò che è personale politico [(E), al pari della narrativa e del giornalismo, rende possibile lo sviluppo di una “qualità della mente” che permette alle donne e agli uomini di capire e raccontare ciò che accade loro, ciò che sentono e ciò a cui aspirano».

Il Messaggero 4.9.14
Il restauro
Bellocchio: «Allora era uno slogan, oggi la Cina è davvero vicina»
Nel giorno dei Maestri applaudita la storica pellicola
di Gl. S.


VENEZIA Maestri superstar. Gabriele Salvatores ritira il Premio Bianchi, assegnato dal Sindacato Giornalisti Cinematografici. E Marco Bellocchio accompagna al Lido La Cina è vicina, che nel 1967 alla Mostra vinse il premio speciale della Giuria, nel doppio ruolo di regista e di presidente della Cineteca di Bologna che con Sony ha restaurato il film.
«Il titolo», racconta Bellocchio, affiancato dal direttore della Cineteca di Bologna Gianluca Farinelli, «lo rubai a uno slogan inventato dai gruppuscoli maoisti negli anni Sessanta. Allora la Cina era a una distanza siderale dalle piccole vicende politiche della provincia italiana, dove il film è ambientato. Affermare che fosse vicina era un espediente grottesco e provocatorio per auspicare una ventata rivoluzionaria capace di spazzare via i parassiti politici».
POLITICA
Oggi è tutto cambiato, riflette Bellocchio: «La Cina è talmente vicina che ce l’abbiamo in casa... Nel 1967 il film ebbe un grande successo e io venni accusato di essermi venduto al mercato, ma va detto che erano i tempi in cui i partiti (il Pci, il Psi, la Dc) avevano un grande peso ideologico e si credeva che la politica potesse cambiare il mondo. Dal Partito comunista, pur accusato di revisionismo, ci si aspettava davvero la rivoluzione. Oggi invece le ideologie non rappresentano nulla e nessuno si aspetta cambiamenti».
Nel futuro della Cineteca, che a Venezia ha portato anche Todo modo, Umberto D. e L’Udienza restaurati, Bellocchio vede la produzione: «Accanto ai restauri, mi piacerebbe realizzare film sperimentali», annuncia. Intanto ne ha pronto uno suo, che nessuno ha ancora visto: L’ultimo vampiro, storia in tre episodi ambientata a Bobbio con Filippo Timi, Alba Rohrwacher, Roberto Herlitzka.
ANNIVERSARIO
Nel giorno dei maestri, è stato applaudito 9X10 novanta, il film collettivo realizzato per festeggiare i novant’anni dell’Istituto Luce con il suo sorprendente archivio di immagini. Nove registi (Marco Bonfanti, Claudio Giovannesi, Alina Marazzi, Pietro Marcello e Sara Fgaier, Giovanni Piperno, Costanza Quatriglio, Paola Randi, Alice Rohrwacher, Roland Sejko) hanno “piegato” le immagini del Luce alla loro creatività. E sullo schermo passano guerre, canzoni, paesaggi, superstizioni, sogni, memorie, la condizione delle donne dell’Italia che fu.
E Alexandre Desplat, presidente della giuria di questa 71ma Mostra, ha ricevuto il premio Soundtrack per le colonne sonore. Il musicista francese ha conquistati gli altri giurati: «È fantastico, ci ha messi a nostro agio», dice Carlo Verdone, «in più conosce tutto il cinema italiano, anche quello minore».