venerdì 5 settembre 2014

Il Sole 5.9.14
Il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione
Il bonus non compensa il blocco
Chi riceve gli 80 euro perderà il 4,1% del salario, gli altri il 9%
di Gianni Trovati


Con la sua estensione al 2015 annunciata mercoledì dal governo, il lungo blocco dei contratti pubblici arriverà a costare in media l'anno prossimo il 9% dello stipendio netto; per le fasce di reddito più basse, interessate quindi dal «bonus» di 80 euro introdotto a maggio dal decreto Irpef, il costo cumulato delle manovre non si azzera, ma scende sensibilmente fino ad attestarsi al 4,1 per cento.
Si possono sintetizzare così gli effetti del lungo stop contrattuale, che nel pubblico impiego ha fermato i rinnovi dal 2010, quando la crisi che si era estesa alla finanza pubblica e al debito convinse il Governo Berlusconi-Tremonti a fermare i rinnovi contrattuali: uno stop confermato da Monti e Letta, secondo un filone che ora segue anche Matteo Renzi com'era prevedibile dalla lettura del Def di primavera e soprattutto dallo stato della finanza pubblica italiana.
Per pesare il costo effettivo, calcolato naturalmente in termini di mancati aumenti, che la fila indiana di manovre sul pubblico impiego ha imposto alle buste paga dei dipendenti statali e locali bisogna far riferimento all'Ipca, cioè l'«indice dei prezzi al consumo armonizzato» che l'Istat comunica ogni anno e che avrebbe dovuto misurare dal 2010 gli aumenti di ogni tornata contrattuale. Con la nuova puntata del 2015 (la legge di stabilità si occuperà del triennio, ma vista la temperatura politica sul tema è prematuro ora esplorare orizzonti più ampi del prossimo anno), il congelamento dei rinnovi contrattuali si tradurrebbe in un taglio cumulato dell'11,8% sugli stipendi lordi (l'Ipca 2015 per ora previsto è dell'1,3%). In termini effettivi, cioè al netto delle tasse, la manovra si rivela un po' meno pesante, soprattutto perché la corsa del Fisco regionale e locale avrebbe assorbito una parte degli aumenti contrattuali: tenendo presente questo fattore (i calcoli nella tabella qui a fianco si riferiscono a un lavoratore che risiede a Roma), il costo effettivo si rivela del 9 per cento. In altri termini, se crisi finanziaria e Governi non avessero fermato la macchina contrattuale, lo stipendio 2015 degli statali sarebbe stato mediamente del 9% più alto rispetto a quello che sarà scritto nei cedolini reali. Per i vertici delle agenzie fiscali si tratta in media di quasi 10.100 euro all'anno in meno, per un dirigente medio ministeriale la "perdita" netta si avvicina ai 4.600 euro all'anno mentre per un impiegato con anzianità media di Palazzo Chigi supera di poco i 2.500 euro.
I valori in gioco cambiano però per i tanti dipendenti pubblici che, lontani dalle fasce dirigenziali e soprattutto con poca anzianità, rientrano nel raggio d'azione del «bonus» da 80 euro che il Governo ha intenzione di rendere strutturale con la legge di stabilità. Nel confronto fra «bonus» e rinnovo contrattuale evocato dal ministro della Pa Maria Anna Madia, il primo è sicuramente vincente se si guarda solo al 2014-2015: riavviare la macchina contrattuale, senza ovviamente recuperare gli arretrati anche perché questa ipotesi è esclusa espressamente dalle vecchie manovre, porterebbe a uno stipendio netto da 17.100 euro poco più di 200 euro netti all'anno (275 euro lordi), mentre il bonus ne promette per il prossimo anno 960.
Questa spinta, però, non basta a recuperare tutte le risorse lasciate sul campo negli anni passati: dal 2010 a oggi, con la macchina contrattuale a regime, lo stipendio iniziale da 17mila euro netti di un dipendente a inizio carriera sarebbe salito verso quota 18.800 euro, mentre il «bonus-Renzi» non riesce ad alzarlo oltre quota 18.100. L'effetto-congelamento, insomma, riguarda anche le fasce di reddito basse, anche se fermandosi al 4,1% è più che dimezzato rispetto al 9% "pagato" dagli altri.

il Fatto 5.9.14
Polizia, esercito, marina, forestali, medici, vigili del fuoco
Tutti contro Renzi

Il blocco degli stipendi dei dipendenti pubblici (fino al 2020, dice il Def) scatena la furibonda reazione degli uomini in divisa, che annunciano il primo sciopero della storia repubblicana
Il premier corre ai ripari e li convoca, ma avverte: “Nessun ricatto”
La ministra Madia: “I soldi non ci sono”
Cgil, Cisl e Uil pronti a una manifestazione nazionale
Il mondo sindacale è chiamato  a dimostrare se fa sul serio o no.

il Fatto 5.9.14
La rapina del secolo
Agli statali sottratti 20 miliardi in 5 anni
di Marco Palombi


Qualche giorno fa avevamo scritto che il governo Renzi sembra il Letta bis. L’unica vera notizia uscita finora su come sarà la meravigliosa spending review prossima ventura ci dice che questo esecutivo è in realtà pure il Monti tris e il Berlusconi quater: i contratti dei dipendenti dello Stato, fermi al rinnovo 2008-2009, saranno bloccati anche l’anno prossimo e senza alcuna indennità di “vacanza contrattuale” (lo aveva già deciso fino al 2018 un previdente Enrico Letta). Renzi, insomma, è in perfetta continuità con le politiche di austerità o più correttamente di contrazione della domanda interna imposte dall’Unione europea ai paesi periferici.
NON SOLO, si potrebbe dire che questo è davvero il primo atto del “Jobs act” come lo intendono a Bruxelles e Francoforte: sotto le formule complicate tipo “riallineamento dei salari alla produttività”, c’è infatti un taglio degli stipendi, esattamente quello che i dipendenti del pubblico impiego subiscono dall’anno 2010. Non sono spic-
cioli: lo dimostrano alcuni facili calcoli fatti dall’Unione sindacale di base (Usb) sui numeri dell’Aran (l’agenzia, attualmente inattiva, che si occupa di contratti pubblici) e dell’Istat. Eccoli. Se si prendono gli stipendi tabellari medi (al netto, cioè, di straordinari e eventuali premi di risultato) dei dipendenti dei principali settori dello Stato si scopre che un astratto “travet-massa” guadagna 21.405 euro lordi l’anno. Secondo i dati Istat, poi, la variazione media annua dell’indice Ipca (il livello dei prezzi, simile al tasso di inflazione, su cui si calcolano gli aumenti degli stipendi pubblici) tra il 2009 e il 2014 è stato all’ingrosso dell’1,9%. Il danno inflitto agli statali è dunque facilmente calcolabile: chi guadagnava 21.405 euro nel 2009 oggi solo per recuperare l’inflazione e cioè il potere d’acquisto avrebbe dovuto portare a casa 23.510 euro circa. Tradotto: il blocco degli stipendi ha causato un danno da 2.110 euro allo stipendio medio a fine 2014 (ovviamente, l’anno prossimo sarà ancora peggio).
CALCOLANDO gli aumenti non percepiti anno per anno, invece, il conto fa 6.250 euro a testa in cinque anni. Finita? Macché. Spiega Luigi Romagnoli (Usb Pubblico Impiego): “Queste perdite sono irreversibili ed andranno sommate nel tempo fino alla pensione del singolo lavoratore, arrivando a sfiorare i 30.000 euro nel caso l’uscita dal lavoro dovesse avvenire per esempio nel 2024. E i nostri calcoli sono basati sul blocco dei contratti fino al 2014”. Moltiplicando i dati singoli per i 3,2 milioni
di lavoratori pubblici complessivi il monte complessivo dei mancati guadagni ammonta a circa venti miliardi totali. Come si sa, il calvario non è finito visto che il governo dopo averlo smentito in ogni modo ha annunciato che il congela-
mento dei contratti continuerà anche l’anno prossimo “perché non ci sono risorse per i rinnovi”. Un voltafaccia che da ieri sera è tecnicamente corretto definire dilettantesco e patetico. Quando ad aprile, infatti, i giornali scrissero che gli stipendi pubblici sarebbero stati bloccati anche per i prossimi anni perché così era scritto nel Documento di economia e finanza, il governo smentì sdegnato con apposita nota del sottosegretario Angelo Rughetti alla Funzione pubblica, Pd di rito renziano: il Def si scrive a legislazione vigente e quindi non può contenere il rinnovo dei contratti, quello sarà definito nella Finanziaria.
Ieri sera, però, un’apposita velina di palazzo Chigi ha smentito la smentita: “Il blocco degli stipendi pubblici era già nel Def, non c’è niente di nuovo”. Allora, se è vero, tutti dovrebbero sapere che nel Def è previsto il blocco totale fino al 2018, anno in cui vengono stanziati i soldi per la sola indennità di vacanza contrattuale fino al 2020. In una tabella a pagina 31 è quantificato pure il risparmio: altri 21 miliardi e dispari totali nel quadriennio 2015-2018 (circa due e mezzo l’anno). Il governo, come si sa, s’è impegnato a tagliare 20 miliardi di spesa pubblica strutturale nel 2015 e 32 l’anno dopo: sarà ormai chiaro a tutti che chi non siede al tavolo, è sul menù.
SECONDO il ministro Madia, però, uno statale che con straordinari e tutto il resto guadagna 26mila euro l’anno è ricco, quindi deve pagare un po’ perché il momento è difficile: “#bloccocontratti 80 euro a 1 lavoratore pubblico su 4. Prima chi guadagna meno. Usciamo tutti insieme da crisi #passodopopasso”, ha scritto su Twitter. Il bonus Irpef, alla fine, è l’alfa e l’omega della visione di questo governo: “Noi ha spiegato Madia alla Festa del Pd siamo trasversali ai blocchi sociali ed elettorali tradizionali. L’alleanza è sulle persone. Non sono qui a difendere solo i lavoratori pubblici, sono qui a difendere i lavoratori della Repubblica Italiana”. Vabbè.

il manifesto 5.9.14
Pubblico impiego, ora sappiamo chi è Renzi


Si dice che continui la luna di miele tra il governo e il paese. Renzi se ne vanta, con quella vanità gonfia di vuoto che Musil definiva biblica. Fosse vero, si riproporrebbe un classico problema. Sa que- sto popolo giudicare? O forse ama essere irriso, deriso, abbindolato? Era meglio persino Monti (ci si passi l’iperbole), il nostro cancellier Morte (parola del Financial Times, che ebbe modo di assimilarlo al rigorista che spianò la strada a Hitler). In pochi mesi Monti rase al suolo la parte più indifesa del paese, ma almeno non vestiva panni altrui. Renzi non fa praticamente altro che infinocchiare il pros- simo, con quella sua faccia di bronzo da bambino viziato e prepotente.
Le balle più odiose riguardano ovviamente la riduzione delle tasse (gli 80 euro per i quali si ribloc- cano i salari del pubblico impiego). Nonché la difesa di ceti medi e lavoro dipendente. In realtà il governo colpisce duro entrambi.
Nei diritti (è vero, l’art. 18 è un simbolo: poi c’è la sostanza, come dimostra questa novità del mana- ger scolastico che arbitrerà le carriere dei colleghi a propria discrezione). Nelle tutele (persino l’Ocse segnala che la «riforma» Poletti esagera con la precarietà). Nei già esangui redditi. Tornano
i tagli lineari, vergognosi in sé, e tanto più perché valgono a sostenere l’indifferenza tra bisogni essenziali (la salute, la formazione, la vita stessa) e sprechi veri, a cominciare dalla scandalosa spesa militare. E torna – per la quinta volta – il blocco degli scatti nelle retribuzioni dei dipendenti pubblici. Non una porcheria: un vero e proprio furto.
Hanno lor signori idea di che significhi di questi tempi in Italia per milioni di famiglie, specie al Sud, perdere mille euro l’anno? Certo, per chi ne guadagna quindicimila al mese o più, è una bazzecola. Per molti invece è un dramma, come dimostra quel 5% di famiglie (l’anno scorso era appena l’1%) costrette a indebitarsi con banche e finanziarie per comprare libri e corredo scolastico. Anche di quella che continua a chiamarsi scuola dell’obbligo.
Il peggio è la motivazione fornita cinicamente dalla ministra Madia. «Non ci sono risorse». Il che può tradursi in un solo modo: «Per questo governo sono intangibili rendite e patrimoni, pur in larga misura accumulati con l’illegalità» (leggi: elusione ed evasione fiscale).
Ora finalmente chiediamoci: che razza di governo è mai questo? Chiediamocelo senza guardare alle etichette, badando alle cose che fa e progetta, dalla politica economica alle scelte internazionali, dalla controriforma del lavoro a quella della Costituzione.
Chiediamocelo noi. Ma se lo chiedano prima di tutti seriamente sindacati e politici. La Cgil minaccia mobilitazioni in difesa del pubblico impiego. Vedremo. Parte del Pd mugugna e medita di dar batt- aglia sull’art. 81 della Costituzione. Vedremo. Ma all’una e all’altra suggeriamo di guardarsi final- mente dall’errore che ci ha portati a questo stato.
Non c’è più tempo per traccheggiare. Ne va della loro residua credibilità, ma soprattutto della vita di milioni di persone.

il manifesto 5.9.14
Governo in affanno, Colle in allarme


In attesa di sbloccare l’Italia, come da auspicio dell’ultimo decreto, il governo sta riuscendo a bloc- care le camere. L’allarme per l’ingorgo di provvedimenti all’esame di camera e senato è rosso. Mat- teo Renzi minimizza, nell’ultima conferenza stampa (quella appunto sullo «sblocca Italia») si è per- sino meravigliato in diretta, sentendo descrivere dalla ministra Boschi la fila dei decreti e dei disegni di legge. «Ma come, è tutto al senato?», la sua domanda. Non tutto. Anche la camera ha un’agenda pesante che per essere portata avanti richiederà il costante ricorso alla questione di fiducia. Se il premier minimizza, il presidente della Repubblica non nasconde la preoccupazione. Tanto che ieri ha ricevuto la ministra Boschi (rapporti con il parlamento). Al termine è stato il Quirinale ha comun- icare che la ministra «ha prospettato il quadro della possibile programmazione dei lavori parlam- entari all’indomani della ripresa dell’attività».
Passaggio per nulla rituale. Non è al Quirinale che si scrive il calendario dei lavori del parlamento; Napolitano si è solo informato dando però alla cosa grande enfasi. L’esito del precedente incontro con Renzi, del resto, non lascia dubbi: salito al Colle il 28 agosto con l’ordine del giorno del Consiglio dei ministri dell’indomani già pubblicato, il presidente del Consiglio si è visto costretto a sfilare la riforma della scuola — «c’è troppa carne al fuoco». Anzi, per successivi aggiustamenti, quella riforma è finita al 2015. Prima le emergenze e tra le emergenze al Quirinale sta a cuore soprattutto l’economia. Il decreto sblocca Italia — finito alla camera — è poca cosa, non arriva a 4 miliardi. Assai più attesa la legge di stabilità, che dovrebbe contenere una manovra almeno cinque volte più pesante. Anche questa andrà alla camera, ma dopo la metà di ottobre. Prima, molto prima, toccherà al decreto che dovrebbe velocizzare il processo civile, e che però sta procedendo assai lentamente tra i palazzi romani. Dato per «pronto» ormai sette giorni fa, non è stato ancora recapitato al Colle, dove resterà qualche giorno per le verifiche di competenza del presidente, prima di transitare alla seconda commissione di Montecitorio. Dove, se finalmente vedranno la luce, arriveranno i disegni di legge del pacchetto giustizia.
Non tutti (sono sei). Molti prenderanno la strada del senato, visto che quel ramo del parlamento era già a buon punto su diversi argomenti (responsabilità civile dei magistrati, crimini economici, magi- stratura onoraria). Però palazzo Madama è alle prese con altri due pilastri del «riformismo» renziano, la delega lavoro in 11esima commissione e la pubblica amministrazione, in affari costituzionali. Pro- prio lì, in prima commissione, fa la fila la più urgente delle riforme, quella della legge elettorale (dovrà poi tornare alla camera). Napolitano non vuole che finisca troppo in fondo, e così ieri ha fatto sapere di aver chiesto dettagli proprio su questa come sulla riforma costituzionale, che alla camera dovrà però attendere l’approvazione della legge di stabilità. Se ne parlerà a natale.

il manifesto 5.9.14
Rossana Dettori (Fp Cgil): «La pubblica amministrazione è nel caos più totale, la reazione sarà durissima»
Pubblico impiego. La segretaria generale della Fp Cgil al manifesto: "Dalla ministra Madia solo false promesse e prese in giro. Il governo si contraddice. La mobilitazione sarà durissima, bisogna rinnovare i contratti"
di Massimo Franchi


«Questo governo non ci parla e adesso è arrivato perfino a smentire se stesso. Non ci stiamo più a essere presi in giro: ci mobiliteremo sicuramente, spero unitariamente, diversamente sciope- reremo come sola Cgil». Il giorno dopo l’annuncio della ministra Madia sull’ennesimo blocco del con- tratto degli statali, le sue parole suonano ancora più beffarde. E mentre partono gli scioperi spont- anei, la segretaria generale della Fp Cgil — Rossana Dettori — spiega le ragioni di una risposta che «dovrà essere all’altezza della cattiveria e della superficialità del governo».
Dica la verità: credeva davvero che il governo Renzi avrebbe rinnovato il contratto?
Io ero realmente convinta che questo ministro potesse sbloccarlo. Lo aveva detto in più occasioni:
a noi a primavera nell’unico incontro faccia a faccia avuto con lei, lo aveva ribadito quando l’Istat aveva quantificato il taglio degli stipendi pubblici parlando «di sacrosanto diritto al rinnovo contra- ttuale». Poi invece è partito un balletto di notizie e smentite con il ministero dell’Economia, concluso dalla chiusura totale della Madia che ci ha veramente stupito. False promesse, false rassicurazioni: è troppo chiedere un governo che sia almeno coerente?
Ciò che ha stupito molti è la tempistica dell’annuncio: nel giorno del varo della riforma della scuola, Madia «copre» la notizia di Renzi con un annuncio che di certo non ha fatto piacere a tre milioni di potenziali elettori..
Mi sembra che nel governo le idee non siano molto chiare: da «una riforma al mese» siamo passati al «passo dopo passo», al «giudicateci fra mille giorni». Anzi, sulla riforma della Pa siamo al caos in attesa di 29 decreti attuativi, e al pressappochismo più totale. Basta vedere come è stata gestita la vicenda del taglio dei distacchi. La circolare è arrivata a metà agosto e le persone dovevano tornare al lavoro il primo settembre senza che le amministrazioni fossero state avvertite con problemi gran- dissimi anche per i nostri che al Sud avevano denunciato le amministrazioni in cui dovevano tornare. Il risparmio di 150 milioni si è rivelato una bufala: bene che vada saranno una decina di milioni per gli insegnanti che venivano sostituiti.
Eppure Madia ricorda che gli 80 euro sono andati anche agli statali e che non ce ne fosse un gran bisogno visto che ne hanno usufruito solo un lavoratore su quattro...
Il dato mi sembra sottostimato — gran parte dei lavoratori della sanità e degli enti locali prendono meno di 1.500 euro al mese — ciò che non accetto del ragionamento del ministro è che anche se fosse, questo non la esimia a rinnovare i contratti, diritto sacrosanto dei lavoratori. Allargando a tutti i comparti il ragionamento si arriverebbe all’assurdo: «Visto che abbiamo dato gli 80 euro non rinn- oviamo più nessun contratto». Una follia.
La rabbia è già scoppiata e specie i lavoratori del comparto sicurezza stanno protestando. Chied- erete deroghe per loro?
Per noi tutti i lavoratori hanno diritto al rinnovo del contratto. Il solo corpo di Polizia ha una contra- ttazione specifica e vedremo cosa succederà. Per noi l’obiettivo è il rinnovo per tutti e per questo ci mobiliteremo.
Sarà sciopero unitario con Cisl e Uil o vi mobiliterete assieme a tutta la Cgil?
Ho sempre lavorato per l’unità sindacale perché credo fermamente che sia nell’interesse di tutti i lavoratori. Le prime dichiarazioni di Cisl Fp e Uilpa mi sembra siano per la mobilitazione. Dopo le assemblee sui luoghi di lavoro, la prossima settimana ci incontreremo e vedremo se siamo d’accordo sulle forme di protesta. Se non sarà così, scenderemo in piazza come sola Cgil, non possiamo più permettere di essere presi in giro.
Il ministro Madia ha comunque confermato la volontà di rinnovo della parte normativa del contratto. Non c’è il rischio che, visto il tenore della riforma, si rischi di peggiorare ancora le condizioni dei lavoratori?
Assolutamente sì. Anche perché nel decreto 90 della riforma si sono messe mano a questioni come mobilità e demansionamento che invece sono proprie della contrattazione. La mobilità entro i 50 km per ora può essere applicata a tutti i lavoratori, sul demansionamento per fortuna un emendamento Pd — da noi chiesto — ha precisato che potrà essere solo di un livello: non era specificato.

il manifesto 5.9.14
“Basta Renzi, le forze dell’ordine scioperano”
Contratto. Poliziotti, esercito e carabinieri pronti a mobilitarsi contro il blocco degli aumenti: «Siamo stra-incazzati con il governo». Il premier replica: «Vi incontro ma non accetterò ricatti»
di Antonio Sciotto


«Noi non siamo incazzati con il governo Renzi: siamo stra-incazzati». Se parli con i poliziotti riesci a capire come in poche ore, nel pomeriggio di ieri, sia montata la rabbia di tutto il comparto forze dell’ordine, fino a minacciare – per la prima volta nella storia italiana – uno «sciopero generale» di polizia, carabinieri, vigili del fuoco, esercito, marina, aeronautica e guardia di finanza. Annunciato dai sindacati e dal Cocer interforze.
In serata il premier Renzi ha risposto: «Riceverò gli agenti di polizia, ma non accetterò ricatti», ha detto. È ingiusto, ha aggiunto, scioperare per un aumento di stipendio quando ci sono milioni di disoccupati.
Nel mirino della protesta, il blocco dei contratti del pubblico impiego annunciato dalla ministra Marianna Madia due giorni fa. In realtà, queste forze non hanno il diritto di scioperare, ma assicurano che troveranno delle formule per arrivare al massimo impatto possibile. Perché si parli di loro e delle loro condizioni di lavoro, ormai al limite: la stessa parola «sciopero generale» è stata usata apposta, perché “bucasse” l’informazione.
La protesta ieri è montata improvvisamente, mentre parallelamente si facevano sentire anche gli altri settori del pubblico impiego, che pure annunciano iniziative. Ma forse perché più “compresse” in strette maglie di disciplina, le forze dell’ordine sono esplose: prima hanno annunciato il blocco degli straordinari i poliziotti di Bologna, poi è arrivata la nota nazionale, con l’annuncio di uno «sciopero generale entro fine settembre».
Lo si farà probabilmente nella forma di una grande manifestazione nazionale, o con l’indizione contemporanea e in tutte le città di assemblee sindacali (ma se la polizia ha diritto a farle, i carabinieri ad esempio non possono usufruire di questa possibilità). «Siamo anche disposti a mandare avanti qualcuno e a farci denunciare», dicono i poliziotti in piena arrabbiatura.
«Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica – spiegano nella nota sindacati e Cocer – siamo costretti a dichiarare lo sciopero generale» del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, «verificata la totale chiusura del governo ad ascoltare le esigenze delle donne e degli uomini in uniforme».
«Quando abbiamo scelto di servire il Paese, per garantire Difesa, Sicurezza e Soccorso pubblico – prosegue la nota – eravamo consci di aver intrapreso una missione votata alla totale dedizione alla Patria e ai suoi cittadini con condizioni difficili per mancanza di mezzi e di risorse. Quello che non credevamo è che chi è stato onorato dal popolo italiano a rappresentare le Istituzioni democratiche ai massimi livelli, non avesse nemmeno la riconoscenza per coloro che, per poco più di 1300 euro al mese, sono pronti a sacrificare la propria vita per il Paese».
Daniele Tissone, segretario del Silp Cgil, spiega che la sopportazione della categoria è arrivata al limite, non solo per la mancanza di mezzi e personale, che rende sempre più arduo e rischioso il lavoro, ma per il fatto che gli stipendi sono bloccati da ben cinque anni. E ora si prepara addirittura il sesto.
«Nel 2009 abbiamo avuto l’ultimo aumento contrattuale – afferma Tissone – pari a 130–140 euro lordi in tre anni. Ma a parte il contratto, ci sono stati bloccati, a partire dal 2011, anche gli scatti di anzianità, le promozioni, gli assegni di funzione. In pratica, se sei promosso, assumi ruoli e responsabilità del grado superiore, ma la paga resta ferma». Insomma, negli ultimi quattro anni, per questi ulteriori blocchi, alcuni poliziotti sono arrivati a perdere anche 300 euro netti al mese. Mica bruscolini.
Dalle forze dell’ordine la protesta potrebbe allargarsi all’intero pubblico impiego: ieri la segretaria della Cgil Susanna Camusso ha parlato di «blocco incomprensibile dei contratti», e Raffaele Bonanni (Cisl) ha annunciato «mobilitazioni». L’Usb attuerà invece «una guerriglia, con azioni non convenzionali».

il manifesto 5.9.14
Scuola, Gelmini canta vittoria: “La riforma Renzi è nostra”

Quando la sinistra impone le riforme della destra liberista
L'ex ministro forzitaliota dell'Istruzione rivendica il "patto educativo" presentato dall'attuale presidente del Consiglio
Merito, valutazione, aziendalizzazione e privati, la critica del 68
Valori "berlusconiani" applicati dal Pd
di Roberto Ciccarelli


Chiamatela riforma Renzi-Gelmini. Perché ieri l’ex ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, colei che ha tagliato 8,4 miliardi di euro alla scuola e 1,1 all’università nel 2008, ha assimilato il «patto educativo» proposto dall’attuale presidente del Consiglio e dal suo ministro dell’Istruzione Stefania Giannini alla «tradizione di Forza Italia».
«Alla fine il tempo ci ha dato ragione: dopo anni di battaglie per risollevare un sistema educativo intorbidito dalla coda del ’68, ora anche la sinistra finalmente ha dovuto dare atto ai governi Berlusconi di aver agito nella direzione giusta per riportare la scuola italiana ai fasti che merita — ha detto Gelmini — Parole quali merito, carriera dei docenti, valutazione, premialità, raccordo scuole-impresa, modifica degli organi collegiali della scuola, sono state portate alla ribalta dal centrodestra, seppur subendo le censure e le aspre critiche da parte di sinistra e sindacati».
Gelmini fa torto alla «sinistra» che nel suo linguaggio viene assimilata all’attuale Partito Democratico. Nel 2008, quando presentò la doppia proposta di riforma dell’università e della scuola (la legge Aprea) il centro-sinistra era d’accordo. Ma cambiò idea solo perchè milioni di insegnanti, maestri, studenti scesero in piazza. Stesso discorso vale per la seconda parte di una vicenda che terminò con il voto in Senato del 23 dicembre 2010. Invece di contestare il voto irregolare su alcuni emendamenti, autorizzati da una memorabile Rosi Mauro (Lega Nord) allora in presidenza dell’aula, la capogruppo Pd Anna Finocchiaro si distinse per un lungo discorso auto-critico sul 68. Quello della «sinistra» non è dunque uno «sdoganamento» dell’ideologia del merito e della valutazione, ma il compimento di un lungo percorso iniziato nel 2006 quando a viale Trastevere c’era Fabio Mussi.
Forza Italia resta scettica sulle coperture finanziarie per l’assunzione di 150 mila precari nel 2015, in tempi in cui il governo non riesce a trovare 416 milioni per mandare in pensione i «Quota 96». «Se Renzi pensa di cavare un solo centesimo da nuove tasse — sostiene Gelmini — troverà in Fi un’opposizione irriducibile».
Gelmini riesce anche a identificare una vecchia regola delle politiche dell’istruzione, del lavoro e della conoscenza in Italia. Le “riforme” ci sono quando è la sinistra a stare al governo. Quella “sinistra” che si vanta ancora di avere un rapporto di concertazione o contiguità con i sindacati, o comunque un potere di interdizione. Senza contare — particolare non secondario — che molti degli insegnanti come dei precari continuano a votarla.
Nelle prossime settimane si capirà se reggerà questo legame con le “vestali del ceto medio”, citando il titolo dispregiativo di un’analisi in realtà classica di Marzio Barbagli sulla scuola italiana negli anni Sessanta. Ci sono altri fattori da considerare. Nel 2008 il mondo dell’istruzione insorse, ma c’era al governo Berlusconi (da poco tornato a Palazzo Chigi) e l’anti-berlusconismo (e le campagne anti-casta) stavano diventando la grammatica dell’opposizione.
Oggi c’è Renzi che gode di una buona salute mediatica, sebbene gli editorialisti di tutti i giornali non abbiano nascosto critiche e perplessità sul suo modo di governare. Nel frattempo l’opposizione studentesca e sindacale è stata fiaccata, anche dalla crisi e dalla precarietà dilagante. Elementi problematici che non lascerebbero, al momento, spazio per un movimento paragonabile al 2008 e, ancor più, al 2010. In ogni caso, gli studenti medi confermano la loro prima data di contestazione: il 10 ottobre in centinaia di piazze in tutto il paese.

il Fatto 5.9.14
Piano Buona Scuola: l’inglese non basta a coprire i buchi
di Benedetto Verdecchi


La lettura del piano per la buona scuola (come è stato definito dal governo) mi ha fatto venire in mente che in un progetto complesso è importante ciò che si afferma esplicitamente, ma è altrettanto importante ciò di cui non si fa menzione, o su cui ci si limita a rapidi accenni. Si afferma la volontà (della quale non ci si può non rallegrare) di superare l’annosa questione del precariato del personale insegnante, favorendo il passaggio al tempo indeterminato, ma si sorvola sui profili professionali necessari per dare concretezza alla nuova scuola. Si annuncia che nei prossimi anni l’accesso alla professione avverrà solo per concorso, ma non è chiaro se le condizioni di partenza continueranno a essere definite nell’ambito dell’attuale, penoso percorso di studi universitari. Le previsioni quantitative suppongono una popolazione stabile, ma ignorano la rivoluzione, culturale e demografica, che potrebbe derivare, specie nel caso di una ripresa produttiva, dall’intensificarsi dei flussi migratori. Si lasciano intravedere scenari di cambiamento, ma sembra che l’innovazione possa ridursi alla disponibilità da parte delle scuole di connessioni alla rete.
E che dire delle prospettive culturali della buona scuola? Gli allievi dovranno cimentarsi col coding (una delle tante parole inglesi del testo): basterebbe dire, in buon volgare italiano, programmazione (ovviamente, il riferimento è ai mezzi digitali), si farà spazio alla musica, nelle scuole secondarie assumerà nuova rilevanza la storia dell’arte, sarà potenziata l’educazione fisica. Ricompaiono le tre “i” di memoria berlusconiano-morattiana: questa volta, si parla di un’alfabetizzazione che comprende le lingue straniere, il coding già richiamato e l’economia.
E TUTTO il resto? Gli estensori del piano si sono chiesti che cosa fanno nelle molte ore che trascorrono a scuola gli allievi delle scuole in altri paesi d’Europa o di cultura europea, e nei paesi dell’Estremo Oriente che ormai hanno acquistato una così grande importanza nel mondo contemporaneo? Può anche sembrare un paradosso, ma se si visitano vecchi edifici scolastici nei quali, malgrado le devastazioni degli ultimi decenni, siano ancora evidenti i criteri progettuali, si riconoscono spazi per il teatro, il canto corale, le attività collettive, le esperienze naturalistiche, le dimostrazioni scientifiche, le collezioni zoologiche e mineralogiche e via elencando. Dobbiamo ritenere che il silenzio sulle esperienze da compiere nelle scuole debba essere inteso come la rinuncia a sviluppare pratiche che non rispondano, come quelle delle esperienze da compiere nelle aziende, a esigenze di formazione professionale, peraltro di breve respiro? Nel piano si sostiene, menzionandola in inglese, l’esigenza di stimolare la capacità di risolvere problemi (problem solving). Ma non si considera che tale capacità cresce in un contesto che non riduce i problemi a sequenze procedurali, ma li individua in uno stato di disagio per uscire dal quale occorra una produzione originale di pensiero. Ciò vale per gli allievi, ma vale altrettanto per il sistema educativo nel suo complesso. La sicurezza con la quale si affermano certe linee per l’attività educativa e per la gestione delle scuole lascerebbe pensare a una disponibilità di conoscenza molto maggiore di quella di cui il sistema effettivamente dispone. Ciò non sorprende, se si considera che, al di là di affermazioni accattivanti, si procede a tentoni: nessuno ha sperimentato i modelli di gestione da seguire, nessuno sa come possano essere valutati gli insegnanti (sempre che questo intento sia condiviso), o quali possano essere le conseguenze di pratiche valutative che separano dal complesso un terzo del personale, al quale non sarebbero corrisposti gli aumenti periodici di stipendio.
Nel piano della buona scuola si richiamano personaggi ai quali non si può guardare che con rispetto e riconoscenza, Montessori, don Bosco, don Milani e Malaguzzi: vale la pena di ricordare che, in un modo o nell’altro, hanno seguito tutti linee d’azione contrastanti con quelle più accreditate nei contesti in cui hanno svolto la loro attività educativa. Mi chiedo chi di loro avrebbe fruito dell’aumento di stipendio collegato al merito.

La Stampa 5.9.14
Fassina: venti miliardi in meno avranno un effetto recessivo
“Tagli ai ministeri e articolo 18? Così si torna all’agenda Monti”
intervista di Francesca Schianchi


Onorevole Fassina, con il rientro la minoranza Pd sembra essersi messa d’accordo per attaccare il governo... 
«Ma nooo… Con D’Alema non c’è nessun coordinamento. E l’emendamento per cambiare l’art. 81 della Costituzione (sul pareggio di bilancio, ndr.) alcuni di noi lo avevano presentato già quando la legge costituzionale passò al Senato».
Però adesso voi della «sinistra» Pd lo ripresentate. E in 54 firmate un referendum per abrogare la legge attuativa del Fiscal compact… 
«Ne abbiamo discusso tra colleghi – con Cuperlo, Gotor, Giorgis –: la linea politico-culturale è la stessa che anima l’emendamento, che poi è lo stesso principio di flessibilità che il governo chiede a Bruxelles».
E poi avete presentato una mozione sulle privatizzazioni. 
«Chiediamo che le eventuali entrate non vadano a ridurre il debito ma a finanziare la politica industriale».
Perché, ha detto lei, siamo ancora all’agenda Monti? 
«Abbiamo cambiato 4 governi e applichiamo sempre la stessa agenda. Il premier ha detto cose che o non mette in pratica (e non lo escludo) o, se le fa, avranno un impatto devastante».
A cosa si riferisce? 
«Ha parlato di 20 miliardi di tagli: a mio avviso sono infattibili. Non è che noi, governo Letta, non ci avevamo pensato, ma dove li prendi? Nel 2015 è un obiettivo irraggiungibile, se non a prezzo di effetti pesanti a livello sociale e recessivi a livello macroeconomico».
Come una famiglia risparmia 40/50 euro, spiega Renzi, ogni ministero può tagliare il 3%. 
«Ma tagliare il 3% al ministero del Lavoro significa tagliare 10 miliardi in pensioni! Se a questi tagli si aggiunge il superamento dell’art. 18, di cui Renzi ha parlato, si torna all’agenda Monti».
Per intanto è stato annunciato il blocco degli stipendi degli statali. 
«Ma si sapeva! Era scritto nel Def di aprile, dove si dice che il blocco vale fino al 2018. Certo, però, il governo non avrebbe dovuto alimentare ambiguità».
Tra poco comincerete a discutere la riforma del Senato: oltre all’emendamento sull’art. 81, voi della minoranza ne prevedete altri? 
«Penso ci sia largo interesse per cambiare la platea di elezione del presidente della Repubblica e intervenire su altri istituti di garanzia».
Dica la verità, riparte l’opposizione interna al vostro segretario? 
«Non c’è un’opposizione pregiudiziale, ma il mio segretario aveva indicato altri obiettivi sul lavoro, aveva detto che si poteva andare oltre il 3% (nel rapporto deficit-Pil, ndr…».
Il presidente Orfini dice che lei è stato viceministro in un governo che faceva politiche anche più austere… 
«Orfini non ricorda bene la legge di stabilità del governo Letta: la prima espansiva, seppur moderatamente, dopo anni di manovre restrittive. Piuttosto, vorrei ricordargli che, come presidente dell’Assemblea del Pd, dovrebbe garantire il rispetto del pluralismo interno».
Cosa vuole dire? 
«Alla Festa nazionale dell’Unità sono stati lasciati fuori Cuperlo e Civati, che rappresentano quasi un milione di elettori alle primarie e la maggioranza degli iscritti. E’ un fatto politico gravissimo, che rende vuota retorica gli appelli alla gestione unitaria del partito».

il Fatto 5.9.14
Renzi, gufi di casa sua Ribelli dem in trincea
La minoranza rumoreggia per il partito senza guida e chiede una nuova segreteria
D’Alema: reazioni violente e volgari contro di me
di Wanda Marra


Sono rimasto piuttosto colpito dalla violenza, in qualche caso perfino dalla volgarità delle repliche dei dirigenti del Pd alle mie affermazioni sul governo”. Non a caso si chiama Lìder Maximo, Massimo D’Alema. Non a caso: si è messo l’elmetto e continua a prendere a testate Renzi e l’establishment renziano. Che si compatta e si dilunga in interviste per definire “ingenerose, affrettate e superficiali” le sue affermazioni (Lorenzo Guerini) o per “chiedergli di andare in pensione” (Debora Serracchiani). Pier Luigi Bersani a Roma ieri ha ripetuto che il premier non dovrebbe fare anche il segretario. Ma per carità, lui vuole dare una mano. Cosa che spesso significa cuocere i leader a fuoco lento, riempirgli la strada di ostacoli, metterli in difficoltà, per strappargli brandelli di vittoria politica. Se D’Alema e Bersani hanno iniziato la campagna d’autunno, l’altro padre nobil, Enrico Letta sta saldamente lontano da tutto e da tutti. Fa lezioni di politica in giro per l’Europa, si è rifiutato – seppure invitato – di andare alla Festa nazionale. Tra i suoi ex collaboratori c’è chi è pronto a giurare che non voterà più Pd e la corrente in Parlamento si divide tra truppe d’ausilio ai renziani e dissidenza. L’autunno è caldo.
IN SENATO le riforme costituzionali sono state tutte in salita, per il governo. Che ha proceduto a testate, per portare a casa il risultato contro la dissidenza interna in primo luogo. Adesso tocca all’Italicum. Parla Miguel Gotor, capofila dei bersaniani: “Così non passa. Non si può avere una sola Camera e per di più di nominati”. Erano 16 gli irriducibili contro le riforme costituzionali. Tra bersaniani e lettiani, il dissenso sulla legge elettorale promette di essere molto più ampio. Ma, per carità, “vogliamo dare una mano” (ancora Gotor). A voler “dare un contributo” sui singoli temi sono pure i deputati bersanian-dalemiani a Montecitorio. Fassina ha aperto la partita per la cancellazione del pareggio di bilancio in Costituzione (peraltro votata dal Pd quando lui era responsabile economico). Ed è apparsa un’altra mozione firmata da lui, Cuperlo, D’Attorre insieme ad altri 20 deputati bersaniani per chiedere di reinvestire gli introiti delle privatizzazioni e non destinarli a diminuire il debito. D’Attorre spiega: “Dobbiamo lavorare su delle questioni specifiche”. Poi lo dice: “D’Alema certo non si consulta con nessuno prima di parlare. Però, ci vorrebbe più moderazione nelle risposte”. Una difesa. Certo non enfatica. Perché poi nessuno si dice pronto a rompere con Renzi tra i più giovani e meno nobili tra le correnti di minoranza. Dei gruppi parlamentari originariamente antirenziani quanti lo sono rimasti? Dentro Area Riformista ci sono la De Micheli e Stumpo, Leva e Manciulli. Però, il leader riconosciuto è Roberto Speranza, capogruppo a Montecitorio. Che con Renzi ha costruito un rapporto di ferro.
I GIOVANI aspettano, cercano di capire come va il vento, fino a che punto possono contare con il leader che c’è. I Giovani Turchi sono saldamente alla presidenza del Pd, con Matteo Orfini. Altro quarantenne, che anche ieri a Bologna ha preso le distanze dal suo padre politico, D’Alema, difendendo l’azione del governo. Poi certo, Civati è sempre sulle barricate. E Cuperlo ha fondato Sinistra Dem, una componente che però non si capisce bene da chi sia composta. Le minoranze per ora marciano saldamente divise. Per ora. Perché poi una consapevolezza unisce tutti: “Il partito non esiste, non è gestito, a Renzi non interessa”: lontano dai microfoni lo ammettono tutti e di tutte le correnti. E non a caso la segreteria che doveva essere rifatta a febbraio, viene rimandata di mese in mese. Renzi non ci mette la testa, gli altri si dividono tra loro e fanno richieste più o meno non considerate accettabili. E poi, si parla di gestione unitaria, ma la gestione unitaria con Bersani e D’Alema che sparano così il segretario-premier non la concede. E allora si aspetta: veniva dato per certo che sarebbe stata annunciata domenica alla chiusura della Festa, invece adesso si parla della settimana prossima. Forse. E poi, aleggia una domanda: che senso ha una segreteria con un leader che si rivolge direttamente al “popolo” e – organismi effettivi o no – decide quasi tutto in proprio?

Corriere 5.9.14
Nel Pd la tregua è finita: la sfida dei dissidenti parte dal no all’austerity
Per Bersani: «Avere un segretario-premier è un problema». Parte intanto la raccolta firme per il referendum contro il Fiscal compact. Fassina: «Sarà durissima»
di Monica Guerzoni

qui

Corriere 5.9.14
La partita per la segreteria e quell’invito «in ritardo» per Cuperlo alla festa dem
di M. Gu.


ROMA — Il «giallo» del mancato invito di Gianni Cuperlo alla Festa nazionale del Pd di Bologna rischia di cambiare in corsa il profilo della segreteria, che Renzi sperava unitaria. L’ala sinistra dei «dem» era pronta a deporre le armi per condividere oneri e onori della guida del Nazareno, ma ora minaccia di ripensarci. «Gianni è arrivato secondo alle primarie con mezzo milione di voti — attacca Stefano Fassina —. E a Pippo Civati l’invito è arrivato in ritardo. Una scelta politica precisa e gravissima, un segnale molto preoccupante di arroccamento della segreteria». E se i renziani sottovoce fanno notare che l’ex viceministro è «un caso a sé» e che nessuno ha mai fatto il suo nome per la segreteria, la sua voce non è un assolo. «Ci sto a fatica in un partito a senso unico — protesta Ileana Argentin —. Trovo folle che la politica sia diventata una mera espressione di numeri». Dal Nazareno, in via ufficiosa, fanno sapere che l’invito a Cuperlo è partito a festa iniziata per un disguido e che non c’è, nei confronti dell’ex presidente, nessuna volontà di esclusione. Ma la polemica è ormai innescata e i renziani sospettano che i bersaniani abbiano voglia
di soffiare sul fuoco. Alfredo D’Attorre smentisce strumentalizzazioni e prova
a entrare nel merito: «Il problema non è ottenere due posti per fare tappezzeria, il punto è cosa vogliamo fare. Prima di capire se la gestione sia unitaria o meno, si tratta di capire se c’è la gestione». I contatti con l’area riformista guidata da Roberto Speranza non sono interrotti e i renziani pensano che la minoranza non abbia in realtà interesse a rompere. E che alla fine «si accoderanno», a dispetto dei toni aspri di Fassina. Il quale retoricamente domanda a chi interessi «uno strapuntino» in segreteria: «Non vedo il clima per una gestione unitaria e non mi pare che da parte di Renzi ci sia una disponibilità vera. Si sono arroccati e cercano qualche soprammobile per dire che il partito è plurale». Lettura che il vicesegretario Lorenzo Guerini smentisce, assicurando che l’intenzione di aprire le porte alla minoranza non è mutata: «Si va avanti come si era deciso. Alcuni componenti della minoranza avevano manifestato interesse a entrare e noi andiamo avanti in quella direzione, che le polemiche non mettono in discussione». Girano i nomi di Leva, Amendola, Laforgia e Micaela Campana e il presidente Matteo Orfini spera nell’accordo: «Gestione unitaria non vuol dire diventare tutti renziani, cosa di cui io non sarei capace».

Repubblica 5.9.14
Lavoro, tagli e Italicum sfida della minoranza Pd “Renzi dovrà ascoltarci”
Bersani: discutere nel partito anche se governiamo No al superamento dell’articolo 18: “Roba di destra”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA I venti miliardi di tagli alla spesa pubblica sono «irrealizzabili e dannosi», il superamento dell’articolo 18 è una «ricetta di destra», il nuovo Statuto dei lavoratori «non può essere scritto con una delega in bianco al governo», sulla legge elettorale ci sono tre nodi tutti da sciogliere: premio di maggioranza, quorum per i piccoli partiti e preferenze. La minoranza pd si ricompatta e si riorganizza sui tre fronti che scalderanno i prossimi mesi in Parlamento.
Così, ieri, mentre Pier Luigi Bersani incontrava l’unico dei suoi al governo, il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, al caffè Illy vicino a Montecitorio, gli esponenti di Area riformista (da Roberto Speranza a Stefano Fassina, da Nico Stumpo ad Alfredo D’Attorre) mettevano a punto la strategia delle prossime settimane. Chiedono autonomia e promettono lealtà. Stanno preparando un secondo incontro nazionale per fine mese, dopo quello di inizio estate a Massa Marittima. Vogliono tre o quattro posti nella nuova segreteria (probabile che arrivi per loro Enzo Amendola come responsabile Esteri), ma non perché servano loro degli strapuntini: se si vuole l’impegno di tutti in questa fase nuova - è il ragionamento - noi si siamo, chiediamo però di essere ascoltati.
«La sinistra deve saper discutere, la sinistra è fatta così, in un altro modo rispetto a quel ‘padrone’ che c’è di là» ha detto ieri Pier Luigi Bersani a una festa del Pd alludendo a Berlusconi. «La sinistra non esisterebbe senza discutere, poi sa essere anche leale». L’ex segretario è tornato all’attacco sul doppio ruolo di Renzi: «È un fatto strutturale, quando il tuo segretario è capo del governo devi stare attento a quel che dici. La discussione è un pochino inibita». Questo, secondo Bersani, è «il cuore del problema» per il quale è necessario aprire «una riflessione larga entro fine anno ». Non perdonano, i bersaniani, l’esclusione dalla festa nazionale di Bologna di Gianni Cuperlo e Pippo Civati: «Una scelta politica precisa - dice Fassina - e lo dico con cognizione di causa».
Altrettanto dure, da Ravenna, le parole di Massimo D’Alema: «Sono rimasto colpito dalla violenza, in qualche caso perfino dalla volgarità delle repliche », ha detto riferendosi alle interviste dei vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini che criticavano le sue prese di posizione sul governo in difficoltà. Risposte che - ha aggiunto - «confermano le mie preoccupazioni. Perché se uno dice che è preoccupato perché c’è la disoccupazione, non gli si può rispondere che vuole le poltrone».
Secondo i bersaniani, il ritardo nella formazione della nuova segreteria (che ha perso molte pedine tra ministri e incarichi in Europa) non è dovuto alla riottosità della minoranza sulle riforme, ma a una nuova debolezza della dirigenza: «I rapporti tra Graziano Delrio e Luca Lotti nel governo non sono idilliaci, così come sono esplosi quelli tra Lotti e Guerini nel partito - racconta un deputato -. Ne è la prova il pasticcio delle primarie in Emilia Romagna, dove finiranno per scontrarsi due renziani».
I fedelissimi del premier fanno spallucce. «Fassina ha con sé 50 di noi? - chiede ironico Ernesto Carbone a chi gli ricorda che ci sono 54 democratici a sostegno del referendum anti-fiscal compact -. Io finora ne ho visti solo tre». Ma l’ex viceministro all’Economia non si scompone: «Se per la legge di stabilità i provvedimenti sono quelli annunciati, se si pensa davvero di poter far sopportare a questo Paese altri 20 miliardi di tagli alla spesa pubblica, sono certo che saremo di più».

il Sole 5.9.14
Dem. Da 20 deputati mozione per reinvestire gli introiti delle privatizzazioni
La minoranza Pd attacca il premier Bersani: no a segretario-capo governo


ROMA Dopo Massimo D'Alema ecco Pier Luigi Bersani. Il bersaglio è sempre lo stesso: Matteo Renzi, il premier-segretario. «È un fatto strutturale, quando il tuo segretario è capo del governo la discussione è un pochino inibita», insiste Bersani secondo cui la doppia carica è «cuore del problema» sul quale va fatta «una larga riflessione entro l'anno». Ma le critiche sono anche per il Renzi-premier al quale si chiede «più coraggio» in politica economica mentre in Parlamento la minoranza (Fassina, Cuperlo, D'Attorre ed altri 20 deputati) presenta una mozione in cui si chiede di reinvestire gli introiti delle privatizzazioni e non destinarli a diminuire il debito.
Le frecciate arrivano a pochi giorni dalla scelta della nuova segreteria di Largo del Nazareno. L'ipotesi di allargarla alla minoranza è sempre in piedi anche se non è da escludere che l'acuirsi e il ripetersi degli attacchi possa rimettere in discussione la decisione. In ogni caso sembra escluso che l'annuncio arrivi domenica, in occasione dell'intervento di Renzi alla Festa nazionale dell'Unità di Bologna. Anche perché con l'invito ai leader socialisti europei, il segretario ha dato un'altra proiezione all'evento.
Anche D'Alema torna per il terzo giorno a ribadire le sue critiche e a lamentare la durezza delle reazioni dei renziani. «Sono rimasto piuttosto colpito dalla violenza, in qualche caso perfino dalla volgarità delle repliche», dice l'ex premier dal palco di Ravenna che ribadisce le sue perplessità sugli 80 euro. «C'è bisogno di una svolta più coraggiosa sia a livello italiano che europeo», sostiene D'Alema secondo cui, dopo la partita delle nomine stravinta dal Ppe, è «arduo il cammino per il cambiamento». Critiche che i renziani bollano come una reazione alla mancata nomina di D'Alema a Bruxelles. «I tempi lo farebbero pensare, ma voglio credere di no», dice la vicesegretaria Debora Serracchiani. Mentre l'altro vicesegretario, Lorenzo Guerini, definisce «ingenerose, superficiali e affrettate» le critiche al governo.

Corriere 5.9.14
I vincoli della spesa cominciano a sfidare il premier «popolare»
di Massimo Franco


Più elementi contribuiscono a rendere preoccupante l’annuncio dello sciopero dei sindacati delle forze dell’ordine contro il blocco del tetto degli stipendi deciso dal governo. Il primo, e più vistoso, è che per la prima volta gli uomini e le donne in divisa deciderebbero di incrociare le braccia contro una decisione dell’esecutivo. Sarebbe una scelta grave che però allunga un’ombra sui provvedimenti annunciati nei giorni scorsi: tanto più se fosse vero che a luglio Palazzo Chigi aveva dato assicurazioni opposte ai vertici di polizia e carabinieri. Il secondo aspetto è che non si tratta di un attacco proveniente dalle organizzazioni tradizionali, Cgil in testa, ma da un mondo considerato moderato e percepito come tale.
La somma di questi due aspetti porta a una riflessione più politica: nel senso che Matteo Renzi si trova a fronteggiare la prima protesta «popolare», e tendenzialmente «impopolare» per lui, da quando siede alla presidenza del Consiglio; per di più, da parte di corpi dello Stato per antonomasia. Il paradosso è che appena due giorni fa, dalle colonne del Sole 24 Ore il premier aveva teorizzato una sorta di strategia basata sulla capacità di decidere riscuotendo consensi più che resistenze. «Non credo che chi governa debba necessariamente scontentare», aveva detto. Per questo è legittimo chiedersi se la reazione annunciata dai sindacati «entro settembre», e accompagnata da una «capillare attività di sensibilizzazione» dell’opinione pubblica, fosse stata prevista; o se confermi un errore di giudizio.
Anche perché qui si va oltre lo scontento. Quando in un documento sottoscritto dai rappresentanti di tutti i corpi delegati alla sicurezza dello Stato si chiedono anche le dimissioni dei ministri, magari gli stessi che vengono scortati quotidianamente, si sfiora una rottura pericolosa. Viene messo in mora un rapporto fiduciario che evidentemente è stato dato per acquisito mentre non lo è. Renzi fa sapere che riceverà «volentieri gli agenti di polizia ma non accetterò ricatti»: anche perché «il blocco degli stipendi degli statali era già previsto nel Documento economico-finanziario». La vicenda, però, sta diventando l’emblema di un esecutivo costretto a muoversi in spazi strettissimi.
Deve rispettare il patto di Stabilità europeo ma è ossessionato dall’esigenza di non rompere la luna di miele con l’elettorato. E si trova a compiere scelte non solo dolorose ma dagli effetti imprevisti. Sono le spine della crisi economica. Ieri il presidente della Bce, Mario Draghi, abbassando i tassi di interesse ha avvertito che «non c’è stimolo monetario o di bilancio in grado di rilanciare la crescita senza riforme strutturali ambiziose e forti»: un ammonimento che può offrire appigli a un Renzi determinato ad andare avanti «senza guardare in faccia nessuno». E lo spread , la differenza tra gli interessi pagati per i titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi, è sceso a 138 punti: il livello al quale era prima della crisi. I margini rimangono risicati, comunque. E l’idea di tagliare 20 miliardi di euro continua ad apparire molto ambiziosa.
La protesta seguita ieri all’annuncio del ministro alla Pubblica amministrazione, Marianna Madia, sul blocco dei «tetti» delle retribuzioni, è indicativa, sebbene Palazzo Chigi possa contare tuttora su consensi solidi. Non ha, nonostante i malumori che serpeggiano, una vera opposizione dentro il Pd; e tra gli alleati di governo nessuno è in grado di insidiarlo. Le sue difficoltà, tuttavia, sono evidenti e crescenti. L’asse con Silvio Berlusconi si consolida, sulle riforme istituzionali e sulla politica estera. Ma i ruoli sono più equilibrati di prima, se non invertiti. In precedenza, l’ex premier appariva del tutto subalterno al Pd renziano, e costretto ad assecondarne l’agenda. Ora, sembra sia Berlusconi ad allungare un’ipoteca sull’esecutivo, e a condizionarne l’esistenza. L’impressione è che la userà non per fare cadere Renzi ma per farlo durare il più a lungo possibile. Magari con la segreta speranza che si logori rapidamente.

Repubblica 5.9.14
La svolta di Bertinotti “Sono anche liberale e il Papa è un profeta”
Resto comunista, ma vedo la nostra sconfitta storica
Ora bisogna mescolarsi
Non mi perdonano la crisi di Prodi: ci sono state anche rotture sul piano umano
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA «Dopo la sconfitta, abbiamo gli occhi più liberi per vedere quel che cresce nel campo dell’altro. Il pensiero liberale riesce a fare dell’individuo l’alfa e l’omega della misura del carattere democratico della società, mentre il capitalismo finanziario globale lavora all’annullamento dell’autonomia della persona». Ecco il nuovo Fausto Bertinotti: «A me tutto questo interessa, mentre un tempo lo consideravo come un elemento collaterale perché pensavo che l’eguaglianza stesse sopra. Resto comunista, ma vedo la nostra sconfitta storica».
È il tempo di mescolarsi con liberalismo e cattolicesimo politico?
«Sì, per ritornare sulla scena da protagonisti. Individuando ciò che è rimasto vivo nelle tre culture: nel marxismo l’eguaglianza, nel pensiero liberale il valore dei diritti individuali. Perché i Radicali fanno una battaglia di civiltà sulle carceri e noi no?».
Qualcuno dei tre pensieri ha perso meno degli altri?
«Forse la Chiesa ha perso di meno, è meno malconcia. Ha una leadership all’altezza della sfida. Il Pontefice pronuncia parole profetiche sulla guerra, capitalismo e immigrazione».
A proposito: il suo rapporto con la fede è cambiato?
«L’interesse per il cristianesimo è da sereno non credente».
E nel campo della sinistra c’è qualcuno che ha perso meno?
Il Pd?
«C’è chi ha perso, noi. E chi ha subito una mutazione genetica: così, però, fai finta di perdere e corri in soccorso del vincitore. Non è che l’Urss ha perso e c’è una piccola Urss...».
Non c’è il Pd a riunire gli eredi di queste culture?
«L’incontro può avvenire sul terreno della critica al capitalismo. Il Pd fallisce perché pensa di accompagnare la rivoluzione capitalistica. E sceglie la cultura della governabilità».
A sinistra non le perdonano la
crisi di Prodi. Le pesa?
«Il ‘98 non fu un errore: fummo preveggenti, si andava verso l’Europa di Maastricht. Mi rimprovero però una cosa, il nostro governo aveva una chance: c’era Jospin e agganciarlo sarebbe stato straordinario... Comunque, non me lo perdoneranno: sapevo di mordere nel corpo vivo della sinistra. Fu una vicenda dolorosissima, umanamente alcune rotture sono rimaste».
Prodi l’ha più sentito? E D’Alema?
«Con alcuni ho rapporti di amicizia, con altri no. Ma riguarda il privato».
La scena, in questa fase, è dominata da Renzi.
«È un grande surfista, il primo grande leader post moderno. Ma il renzismo è la piena accettazione di una sovranità di governo della Troika e della Bce».
Allora a che forza guarda chi, oggi, la pensa come lei?
«All’attesa della rivolta. Pacifica. Indignados, Occupy Wall Street, no-Tav, le primavere arabe… L’attesa è dei barbari senza barbarie: l’operaio di Secondigliano, il precario».
Questa visione la conduce all’astensione.
«Non è detto. Alle Europee ho votato Tsipras. Mi conduce a dire che il voto non è più la via maestra, non puoi aspettarti dal voto il cambiamento».
Intervistato dal direttore di Radio Radicale lei critica anche il sindacato.
«La concertazione è diventata la regola, i salari sono tra i più bassi d’Europa. La Fiom e alcune aree del sindacalismo extra confederale sono esperienze importanti, ma non cambiano la direzione di marcia dei confederali. E poi, perché gli 80 euro non sono stati conquistati dal sindacato? E perché non chiedere di estendere a tutti l’articolo 18?».
La provoco: è vero che da sindacalista non firmava contratti?
« Se mi chiedono in punto di morte, rispondo che sono stato un sindacalista. Ho passato una vita a firmare accordi. Anche brutti».

il Fatto 5.9.14
Le adozioni gay sono legittime, rassegnatevi
Secondo la nostra Costituzione, il sesso non consente discriminazioni: perché dovrebbero consentirle le preferenze sessuali?
di Bruno Tinti


NEL GIULIO CESARE di Shakespeare, Antonio infiamma i cuori dei romani con il suo celebre monologo; e quando i cittadini – eccitati dall’abile trasformazione di Bruto e degli altri congiurati da uomini d’onore che sembravano in traditori – si precipitano a farne scempio, lui li ferma dicendo: “Amici, andate a fare ciò che non sapete”. Da allora tante cose sono cambiate, ma gli uomini sono rimasti gli stessi: facili prede di propaganda e disinformazione. E così oggi una critica furiosa investe una sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma, che ha consentito a una lesbica di adottare una bambina, figlia della sua convivente, in realtà sua coniuge a seguito di matrimonio celebrato in Spagna. Se le critiche fossero motivate solo dalla faziosa ideologia dei cattolici, pazienza: il pensiero laico (nel senso di privo di pregiudizi) è come il coraggio di don Abbondio: se uno non ce l’ha non se lo può dare. Ma la critica giuridica (e psico-sociale) è davvero infondata.
L’adozione ordinaria prevede che possano essere adottati i minori “in stato di abbandono” che – prima – devono essere “affidati” per un certo tempo alla coppia adottante e – solamente dopo – possono essere adottati. Se non c’è abbandono non c’è affidamento; quindi non c’è adozione. Esiste però un’adozione cosiddetta speciale (L.184/83, art. 44) che è consentita anche a persona non coniugata (quale è forzatamente – per la nostra bigotta legislazione – il coniuge di una coppia omosessuale). Tra i vari casi previsti, vi è l’adozione di un minore quando “vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”. Il che – ovviamente – si verifica quando questi non è in stato di abbandono. Nel caso di specie la bambina, figlia di una delle due lesbiche, che viveva nella famiglia da loro formata e che dunque non poteva considerarsi abbandonata (il che rendeva impossibile l’affidamento preadottivo), è stata data in adozione all’altra donna, considerata “non coniugata”. Tutto giuridicamente corretto.
I persecutori di Bruto non si acquieteranno certo solo perché la legge consente ciò che loro disapprovano: “I bambini devono stare in una famiglia ‘normale’, non in una coppia di omosessuali”. Ma il più conosciuto degli articoli della Costituzione dice che “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione etc.” Se il sesso non consente discriminazioni, perché dovrebbero consentirle le preferenze sessuali?
n UN VEGETARIANO non ha meno diritti di un onnivoro; e un bruto ignorante può votare esattamente come un informato e consapevole cittadino. Non basta? La Risoluzione del Parlamento europeo 4/2/2014 “condanna con forza qualsiasi forma di discriminazione legale legata all’orientamento sessuale”. Infine la Convenzione sui diritti del fanciullo (L.176/91), prevede che “in tutte le decisioni dei tribunali l’interesse superiore del fanciullo deve essere una condizione preminente”. Sarà interesse della bambina vivere con la mamma e la compagna di lei che – ovviamente – le vogliono un bene dell’anima? O no? E godere dei diritti che le derivano dallo status di figlia di entrambe?
Temo che questa gente non si convinca nemmeno così. Per loro c’è diritto fondamentale e diritto fondamentale: alcuni sono proprio inaccettabili. Resta la risposta a una domanda abbastanza semplice: in casi estremi, quando nessuno volesse occuparsi di un bambino, preferireste abbandonarlo in un orfanotrofio o darlo in adozione a un’amorevole coppia di omosessuali?

Corriere 5.9.14
La «buona morte» diventa un business
di Massimo Gaggi


Come comportarsi coi malati terminali? Lasciare solo al medico la responsabilità di decidere qual è il confine tra un livello ragionevole di cure mediche e l’accanimento terapeutico? Quanto e come coinvolgere il paziente e la sua famiglia in un difficile processo decisionale nel quale confluiscono, in modo spesso tumultuoso, nozioni scientifiche, convincimenti etici e istinti di compassione? Fino a che punto la sofferenza fisica del malato o gli enormi costi delle terapie sperimentali giustificano la rinuncia a tentare cure con poche speranze di riuscita o che possono allungare solo di poco la vita del paziente?
Domande angosciose, argomenti difficili da trattare e non solo per gli steccati che si alzano ogni volta che, a ragione o a torto, si finisce per sfiorare il tema dell’eutanasia. In Italia l’iter della legge sul testamento biologico è in stallo, ma anche laddove non ci sono grossi conflitti a sfondo etico-religioso, discutere di temi come la sospensione dell’alimentazione forzata è difficile: provi un disagio che sicuramente trasmetti anche al lettore. Eppure con l’invecchiamento della popolazione, con la capacità della medicina di cronicizzare malattie un tempo implacabili e con lo sviluppo di tecnologie che consentono di tenere in vita anche pazienti che versano in condizioni gravissime, questi problemi sono destinati a pesare sempre di più nelle nostre vite.
Gli americani, per loro natura pragmatici, si chiedono da tempo se lasciare la questione ai medici, alle scelte del singolo paziente, o se introdurre criteri-guida e percorsi informativi che il personale sanitario può condividere col malato. Quando, però, cinque anni fa, il governo Usa provò a definire qualche criterio nell’ambito della riforma sanitaria di Obama, la dura reazione di Sarah Palin, che accusò il presidente di voler creare dei death panel , comitati di burocrati che decidono quali malati possono essere salvati e quali no, bloccò tutto. Era una forzatura quella della repubblicana radicale, ma fece breccia nell’innata diffidenza degli americani per le interferenze dello Stato nelle loro vite: da allora i politici, di destra come di sinistra, si sono tenuti alla larga da questo problema. Che, però, esiste ed è sempre più pressante.
Così ora sono scesi in campo i privati: l’associazione dei medici ha invitato gli iscritti ad avviare coi pazienti affetti da patologie molto gravi una «conversazione» sulle varie opzioni per il periodo terminale della loro vita: vogliono combattere fino in fondo o, giunti in una condizione irreversibile, preferiranno spegnersi con la minor sofferenza possibile? Dietro i medici si sono mosse le assicurazioni sanitarie che hanno cominciato a pagare le consulenze fornite ai pazienti su questi problemi, al pari delle altre visite o dei test clinici. Nel vuoto di governo, queste iniziative raccolgono molti giudizi positivi. E tuttavia l’intervento dei giganti assicurativi, che hanno un ovvio interesse a minimizzare le spese mediche da coprire, suscita qualche perplessità. Davanti al rischio che anche i consigli sulla «buona morte» divengano un business, gli americani ora si chiedono se un criterio passato attraverso il filtro della politica non sia, dopo tutto, meglio di una scelta basata su logiche di mercato.

Il Sole 5.9.14
Discariche. Le richieste dell'Avvocato generale
Sui rifiuti l'Italia adesso rischia la maxi-condanna
di Marina Castellaneta


Un'inerzia che dura dal 2007 e che deve essere sanzionata. Lo chiede l'Avvocato generale Kokott nelle conclusioni depositate ieri nella causa C-196/13 relativa all'inadempimento dell'Italia nell'esecuzione della sentenza del 2007 (C-135/05) relativa ai rifiuti. In quell'occasione la Corte di giustizia dell'Unione europea aveva accertato l'inadempimento italiano giudicando del tutto inefficace il sistema di smaltimento dei rifiuti. Sono passati 7 anni e l'Italia non ha eseguito la sentenza. Di conseguenza, la Commissione si è rivolta nuovamente alla Corte Ue chiedendo una condanna dell'Italia per mancata esecuzione della pronuncia.
Una posizione che l'Avvocato generale, le cui conclusioni non sono vincolanti ma seguite di frequente dalla Corte, ha condiviso proponendo di condannare l'Italia al pagamento di una penalità giornaliera di 158.200 euro fino all'esecuzione e una somma forfettaria pari a 60 milioni. Una stangata.
La vicenda che si trascina da anni riguarda le discariche illegali presenti in Italia e la mancata bonifica di quelle chiuse. La Corte di giustizia aveva accertato che le modalità con le quali avveniva lo smaltimento in Italia non garantivano la salute dell'uomo e la protezione dell'ambiente, anche a causa dei mancati controlli per selezionare i rifiuti pericolosi e per la mancanza di un adeguato sistema repressivo attestato dalla proliferazione di discariche abusive. Dopo la condanna, la Commissione aveva iniziato una fitta corrispondenza con il Governo, concedendo una proroga per l'esecuzione della sentenza. L'ultima comunicazione trasmessa a Bruxelles nel 2013 non ha convinto la Commissione che ha avviato il nuovo procedimento giudiziario.
L'Italia si è difesa sostenendo che, a seguito della modifica del quadro normativo Ue, non sussisterebbe un obbligo di esecuzione della pronuncia. Una tesi respinta dall'Avvocato generale che ha accertato la persistenza dell'obbligo. Questo perché le direttive che hanno determinato l'originaria pronuncia di condanna sono state modificate, ma gli obblighi sono rimasti inalterati. Non solo. Il legislatore Ue ha richiamato le precedenti direttive confermando gli obblighi già esistenti. Pertanto, osserva l'Avvocato generale, lo Stato in causa è tenuto ad eseguire gli obblighi fissati nella precedente direttiva e nella sentenza.
In particolare, le violazioni riguardano l'utilizzazione di discariche illegali di rifiuti «in parte con l'abbandono di rifiuti pericolosi», la mancata bonifica delle discariche chiuse e la mancanza di una nuova autorizzazione per le discariche rimaste in funzione. Partita dalla segnalazione di ben 422 discariche illegali, la Commissione ha poi indicato che ne erano utilizzate ancora due. La censura della Commissione è, per l'Avvocato generale, fondata, anche se ha delimitato la portata dell'obbligo escludendo che la Corte abbia richiesto provvedimenti legislativi generali o di tipo sistematico. Ciò che conta è che vengano attuate le norme vigenti per evitare il fenomeno delle discariche illegali. L'Italia deve poi eseguire la sentenza nella parte in cui richiede la bonifica delle discariche illegali chiuse.
Accertati i ritardi nell'esecuzione, l'Avvocato generale chiede di condannare l'Italia al pagamento di una penalità consistente nell'irrogazione di una somma decrescente in misura dell'avanzamento dell'esecuzione e non una penalità fissa dando così fiducia all'Italia. Importi, tuttavia, molto elevati pari a una penalità giornaliera di 158.200 euro fino al momento dell'esecuzione della sentenza con alcune riduzioni se l'Italia fornisce la prova della chiusura o della bonifica di alcune discariche e una somma forfettaria di 60 milioni di euro.

Il Sole 5.9.14
La foto di Gaza
Umanità bambina, tragica irrilevanza
Noi e gli 8mila e più fanciulli uccisi nelle guerre
di Sergio Zavoli


Mentre pareva che potessero aprirsi, a Est, nuovi fronti per un altro conflitto, oggi abbiamo qualche buon motivo per non doverci allarmare più di quanto la realtà ci consenta; qualcosa del genere, scrivono i pessimisti, inclini ai presagi, accadde nel 1939, ma non andrà così; la "ragione", ovunque stia, non potrà non farsi ragionevole. C'è da temere, invece, per i fanciulli quasi dimenticati in una sorta di inaudita, inaccettabile irrilevanza: muoiono uccisi a migliaia, senza che la storia, così sembra, li tenga in conto. Sotto un titolo di giornale, Il sangue dei bambini, abbiamo visto l'immagine di quattro fanciulli, tra loro cugini, uccisi mentre giocavano sulla spiaggia a una specie di guerra che, senza la tregua, avrebbe dato alle fiamme, in un solo falò, i decaloghi di tutta l'etica morale vanamente tenuta in vita dai grandi codici religiosi e laici presenti nell'umanità. Quella foto, cui ne seguiranno tante altre, da una parte e dall'altra della contesa, cioè non solo da Gaza, superava i limiti di previdente avvedutezza della diplomazia politica, specie occidentale, avvalorando l'ipotesi che ovunque persista, e addirittura si aggravi, la sbugiardata promessa di una pace finalmente possibile, e quindi reale. Un osservatore luciferino direbbe che l'aula ovattata delle Nazioni Unite a volte sembra un deposito di dinamite a cui fa la guardia un'associazione di esperti in fuochi artificiali. Ma sono più di ottomila i fanciulli uccisi nelle guerre del mondo islamico da un estremismo religioso, ideologico e politico che non esita a chiamare "strategici" quegli eccidi, in quanto "devono provocare il terrore e quindi indurre alla sottomissione". Intanto l'Unicef denuncia il numero crescente delle creature scomparse in una parte del mondo dove "l'orrore ha già esploso la quantità di plastico della prima guerra del Golfo". Sorgono da ogni parte inedite, temerarie domande: i fanciulli hanno forse perduto la predilezione di Gesù, il Dio non solo dei cristiani, sebbene ad essi si volga, oggi, la persecuzione più diffusa? Mai, nell'indifferenza pressoché generale, si era prodotto un orrore così vasto, le cui vittime più innocenti continuano a essere i bambini. Se «siamo nati per vivere, non per morire» - richiamo le parole di papa Giovanni - perché le vestali dei "diritti umani" non dicono che il primo rispetto del suo ordinamento assegna quel "diritto" ai più indifesi? Non avremmo motivo di celebrare, ogni sera, una sorta di lutto universale per i bambini uccisi, complice la nostra inettitudine, aggiungendoli ai "ventiseimila" che tutti i giorni - è ancora l'Unicef a dircelo - muoiono di fame, di malattia e di inedia nel Sud della Terra? Ci si chiede perché i Paesi democratici non rispondono con una solenne, inderogabile condanna al clamoroso silenzio che circonda tanta indifferenza per la sorte dei "figli degli altri", e gli intellettuali non uniscono le loro voci - nelle scuole, nelle università, nelle chiese, nelle televisioni, alla radio, insomma nei tanti luoghi della mente e dell'anima - per ricordarci che il massimo presidio del "vivere insieme" è la vita stessa, cioè il dovere, non soltanto sacro, di rispettarla. Perché ci lascia indifferenti questo morente sentimento dell'indignazione? Se «la politica è uscirne insieme», come diceva don Milani, perché non ci guardiamo intorno per capire con chi uscirne, da che cosa, per andare dove? Siamo certi di poter chiedere, increduli e allarmati, perché non compiamo un atto riparatore - in nome della pace e della democrazia - se non si è ancora in grado di vincere la battaglia contro i fabbricanti di armi? È possibile conciliare una così abnorme contraddizione con il trascorrere indisturbato del nostro "essere per la vita", anziché ripeterci le parole del salmista, più laiche di qualunque ideologia, che dicono: «L'uomo ha il dovere di far nuove, anch'egli, tutte le cose», perché la creazione non è mai conclusa, e anzi ci invita, persino ci esorta, a concepire e indirizzare, responsabilmente, le nostre seminagioni? Sono miliardi le parole che in un minuto vengono pronunciate su questioni di carattere e interessi comuni, ed è il grandioso concerto cui partecipiamo in nome dell'esistenza singola e collettiva; ma perché ci giunge soltanto l'eco di una tragedia quotidiana che dovrebbe colpire la coscienza dell'umanità? L'elenco dei bambini uccisi in nome dello Stato islamico, ma anche in Libia, nel Sahel, nell'Alto Volta, in Sudan - ha raggiunto cifre impressionanti, e ancora più paurosa è la notizia dell'uso che, a fini propagandistici, si fa dei fanciulli ingaggiati per addestrarli all'odio facendoli assistere a torture, decapitazioni, fucilazioni singole e collettive perché imparino come punire un infedele per poi mostrare al "pubblico" la sorte toccatagli. Scrive un inviato del Corriere: «Non si tratta solo dei minorenni (maschi e femmine) rapiti in massa in Iraq, e delle bambine yazide sparite, ma anche dei ragazzini decenni inquadrati insieme con i volontari islamici per formare i futuri battaglioni della "guerra santa". Come all'aeroporto di Raqqa, dove hanno riunito soldati e ufficiali dell'esercito di Assad e fucilato 250 lealisti; mostrando ai bambini, chissà se in un doposcuola del corso di addestramento al terrorismo, almeno trenta vittime del nuovo radicalismo sunnita appese alle cancellate, una continuazione della tragedia toccata alle popolazioni cristiane, yazide, sciite e turcomanne nell'Iraq settentrionale. Il coinvolgimento dei fanciulli ha fini pedagogici, ed è una sorta di delirio assimilabile a quello dei bambini kamikaze imbottiti di esplosivo persino dalle madri, che sacrificano un figlio, spesso il prediletto, perché diventi "martire", e il fanciullo salta in aria insieme con le sue vittime; oppure dei ragazzini combattenti, che nelle lotte addirittura fratricide di alcune etnie africane vengono preparati all'uccisione del "nemico".
Non troviamo le parole per giudicare o è più prudente tacere? La nuova velocità del tempo, e quindi del pensiero, dell'apprendere e del riflettere, della politica e dell'economia, della scienza e della tecnologia, della psicologia e dei sentimenti, cioè della mente e dell'animo, relega sempre più lontano dalle nostre responsabilità la natura, la durata e il costo dell'"essere per la vita". Ciò significa che ai nostri conti provvederanno le risorse di una irresistibile vittoria umana, la modernità, con le parole ancora errabonde del web, nondimeno autorizzato a decidere la qualità e lo scopo del nostro andare incontro al futuro, per giunta immemori degli scempi trascorsi? Aiuteranno a fermare la silenziosa violenza prima che, da ogni parte, continui ad abbattersi anche sui bambini il micidiale strumento della "morte a sorpresa", cioè i razzi, eredi delle V2 lanciate dai tedeschi su Londra nella Seconda guerra mondiale, che sorprendono le loro vittime ovunque, e le madri se li trovano tra le braccia dilaniati da una guerra silenziosa e invisibile? Oppure quando, sfuggiti all'abbraccio delle madri nei barconi ricolmi, prossimi a naufragare, quanti bambini, a volte persino neonati, sono i primi a cadere in mare, dove rimarranno a dondolare nelle culle aperte dalle onde di fronte alle nostre coste?
Forse, tentati dal disperare, occorrerebbe rivolgersi a una nuova natura della speranza. Se ne coglie il senso nelle parole di Elias Canetti, propizie non solo all'utopia: «Certe speranze, quelle che nutriamo non per noi stessi, e il cui adempimento non deve tornare a nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri, che procedono dalla bontà della natura umana, perché anche la bontà è innata, queste speranze bisogna nutrirle, e difenderle, quand'anche non dovesse mai giungere l'istante in cui si compiano. Perché nessun inganno è altrettanto sacro, e da nessun altro inganno dipende, a tal punto, la nostra possibilità di non finire sconfitti».
Si sente riecheggiare la parola di Francesco, pronunciata davanti al mare, a Lampedusa, il luogo di una nuova speranza: «Dov'è il sangue di tuo fratello, che grida fino a me? Quanti di noi, m'includo anch'io, non siamo più capaci di custodirci l'un l'altro?».

La Stampa Medicitalia 5.9.14
Giappone
Hikikomori: la sindrome culturale dell'autoreclusione
di Raffaella Salmoria

Psichiatra, Psicoterapeuta
qui

Corriere 5.9.14
Troppi assalti sessuali nei College
Imbarazzi e proposte degli studenti In America
di Viviana Mazza


Una studentessa su cinque subisce attacchi sessuali al college, secondo uno studio del dipartimento di Giustizia: è un problema che diverse università sono state accusate di aver tenuto nascosto, ma quest’anno — messe sotto pressione dalle famiglie e dall’amministrazione Obama — stanno cercando di affrontarlo. Ma qual è la strategia migliore? App per lanciare l’allarme via smartphone (strada tentata alla Loyola di Chicago)? Punizioni più severe, inclusa l’espulsione (Dartmouth)? L’obbligo di esprimere un «consenso affermativo» prima di ogni rapporto sessuale (California)? Un aspetto importante, in realtà, è coinvolgere gli studenti maschi.
Diversi ragazzi confessano che, in questo clima di allarme, non sanno più nemmeno se possono flirtare o invitare una ragazza a bere una birra. C’è chi vorrebbe contribuire alla prevenzione di stupri e attacchi sessuali (che tra l’altro colpiscono anche uno su 16 maschi) ma non sa come. Quando quattro studenti dell’Università della North Carolina hanno proposto una soluzione «chimica», cioè uno smalto per le unghie che cambia colore a contatto con le droghe da stupro, volevano far qualcosa di utile: quando la ragazza va in discoteca e le viene offerto un drink , può «discretamente» infilare il dito nel bicchiere e mescolare, e dal colore dello smalto capirà se la bevanda è drogata. Ma tante commentatrici — da Jessica Valenti sul Guardian alle autrici del blog Jezebel — li hanno accusati di riportare l’onere sulle vittime (anziché sui responsabili) e sottolineano che quel che serve non è laccarsi le unghie ma è una vera educazione al consenso.
«Molte matricole non hanno idea di cosa sia il consenso — ha spiegato una studentessa che tiene corsi sul tema —. Ho chiesto in classe quanti credono che, se una ragazza è ubriaca o ha perso conoscenza, è ok fare sesso con lei. Il numero di mani alzate era impressionante». Gli psicologi sono d’accordo, ma osservano che i corsi più efficaci di educazione al consenso sono quelli tenuti (già alle superiori) da altri ragazzi: dagli amici con cui ti vanteresti delle prodezze sessuali, da figure ammirate come gli atleti.

Corriere 5.9.14
Relazioni speciali fra India e Giappone con un occhio allo strapotere cinese
di Guido Santevecchi


I cinque giorni di visita sono cominciati a Kyoto con un abbraccio davanti ai fotografi: il premier indiano Narendra Modi e il giapponese Shinzo Abe si stimano e hanno molto in comune, essendo etichettati come riformisti e nazionalisti. Lo scopo della missione del nuovo leader di New Delhi è soprattutto economico: il suo Paese ha bisogno di tecnologia e investimenti nelle infrastrutture, due campi nei quali l’appoggio di Tokyo può essere pesante e vitale. Abe ha subito promesso l’intervento in progetti per 35 miliardi di dollari in cinque anni. Sta nascendo una nuova «relazione speciale» in Asia? Le due democrazie, oltre a interessi economici, potrebbero condividere anche una strategia geopolitica di contrasto alla Cina?
Modi, parlando davanti a una platea di businessmen a Tokyo ha lanciato un monito a Pechino, pur senza citare il potente vicino. «È il momento che le nazioni scelgano tra sviluppo ed espansionismo, non è più il tempo di avventurarsi in sconfinamenti territoriali e intrusioni nei mari di altri Paesi», ha detto. Cina e India sono divise da un contenzioso di frontiera sull’Himalaya e soldati di Pechino sconfinano regolarmente. In mare è acceso il confronto sino-giapponese per le isole Diaoyu/Senkaku. Una relazione speciale indo-giapponese potrebbe effettivamente arginare la nuova aggressività cinese.
Ma anche il presidente cinese Xi Jinping ha già incontrato faccia a faccia Modi a luglio (i due Paesi fanno parte dell’alleanza economica dei Brics con Brasile, Russia e Sud Africa) ed è atteso a New Delhi a fine mese.
La stampa di Pechino ha commentato abbondantemente il vertice Modi-Abe e ha scartato le speculazioni secondo cui India e Giappone potrebbero costituire un blocco per contenere la Cina. Secondo gli analisti cinesi è la stampa di Tokyo che «si è fatta cogliere da questa frenesia». Per la Cina, nei rapporti conta soprattutto il peso economico e quello della Repubblica popolare cinese è enorme. In questi giorni si stanno concludendo accordi per la costruzione di cinque linee ferroviarie ad alta velocità in India: le commesse dovrebbero andare ai cinesi che hanno la tecnologia e i fondi. La diplomazia corre anche sui binari.

Repubblica 5.9.14
L’azionista cinese
Fiat, Generali, Telecom, Eni, Enel, Prysmian, ma anche Snam e Terna
I fondi, guidati dalla banca centrale di Pechino hanno puntato su Piazza Affari circa 5 miliardi
Alleati ingombranti o salvatori? Di certo promettono di rimanere a lungo
di Paolo Griseri


IL SIGNOR Zhou Xiaochuan, figlio di un vice ministro dello Sviluppo degli anni di Mao, ha sposato Li Ling, funzionaria del ministero del Commercio di Pechino, personaggio chiave nelle trattative con Washington al Wto. Cinque anni fa Forbes aveva definito Zhou e Li «la coppia che l’amministrazione Obama dovrà tenere d’occhio quando gli Stati Uniti dovranno difendere il loro ruolo negli scambi mondiali». Quel momento è arrivato. Non solo per gli Stati Uniti.
Negli ultimi giorni di luglio gli uomini di Zhou hanno delegato la filiale torinese di State Street Bank and trust a presentarsi all’assemblea straordinaria Fiat del primo agosto con due distinti pacchetti di azioni: il più piccolo ha votato sì alla fusione con Chrysler. Il pacchetto più grande ha votato no. Soprattutto, la stragrande maggioranza delle azioni Fiat possedute dal signor Zhou non è intervenuta in assemblea. Perché Zhou è un uomo al di sopra delle beghe dell’alta finanza, è una istituzione: è il governatore della People’s Bank of China, la banca più grande del mondo. Da solo possiede il 2% di Fiat. Non solo di Fiat. In Italia l’istituto del governatore è azionista di Telecom, Prysmian, Eni, Enel e Generali. Negli ultimi mesi ha speso circa 3 miliardi di euro e si sta insinuando nei gangli vitali dell’economia della Penisola raccogliendo partecipazioni in quello che un tempo era il salotto buono della finanza nazionale. Non per caso l’istituto guidato dal signor Zhou è entrato nella top ten dei paperoni della Borsa italiana: è all’ottavo posto con 3,116 miliardi di euro investiti, poco sotto la famiglia Agnelli che ha proprietà per 3,456 miliardi.
People’s Bank of China è il principale ma non l’unico grande investitore che si è mosso negli ultimi mesi in Italia. Il 31 luglio scorso State Grid Corporation of China, la più grande compagnia di servizi pubblici del mondo, ha acquistato il 35 per cento di Cdp Reti, la holding della Cassa Depositi e prestiti che controlla il 30% di Snam, la società che distribuisce il gas in Italia e il 29,8% di Terna, l’ente gestore della rete elettrica italiana. I cinesi nomineranno un consigliere di amministrazione nelle due società e due consiglieri su cinque in Cdp Reti. Per l’operazione il colosso di Pechino (un gruppo da 1,5 milioni di dipendenti che gestisce l’88% della rete elettrica cinese) ha speso 2,1 miliardi di euro. Tra pochi mesi la distribuzione di energia in Italia parlerà cinese per un terzo. Qual è l’interesse cinese ad investire in un Paese tanto vituperato, almeno a parole, dagli investitori e i guru delle borse occidentali? «Il rapporto qualità/prezzo», è la prima risposta di Cesare Romiti. L’ex presidente di Fiat è oggi alla guida della Fondazione Italia-Cina: «Il made in Italy è molto apprezzato a Pechino — spiega Romiti — e non stupisce che gli investitori cinesi trovino conveniente investire da noi. Dirò che le operazioni viste in questa estate saranno seguite a breve da altri investimenti molto importanti». Certo, il fascino commerciale del made in Italy può spiegare interventi in campi come la moda o i vini doc. Da maggio la presidente del consiglio di amministrazione di Krizia non è più la fondatrice, Mariuccia Mandelli, ma la signora Zhu Chon Un di Shenzen Marisfrolg Fashion che ha rilevato la casa milanese in aprile. E nel Chianti la cascina Casanova- La Ripintura è stata venduta con 5 ettari di vigneto a una casa farmaceutica di Hong Kong. «Le classi benestanti cinesi — spiega Romiti — cominciano ad apprezzare le bellezze italiane».
Ma che cosa spinge invece i fondi cinesi ad acquistare quote di Eni, Enel, Generali, Telecom? Non si può certo sostenere che si tratti di brand identificati con il fascino del Made in Italy. Giuseppe Berta, professore alla Bocconi e storico dell’industria, invita a non lanciarsi in dietrologie: «Non ci vedrei dietro nessuna strategia particolare. In questo periodo il mercato internazionale offre agli investitori di Pechino occasioni di acquisto migliori di quanto non possa proporre il mercato interno cinese». Insomma, anche se si tratta di investimenti in settori certamente strategici, sono il frutto di scelte finanziare e non i carrarmatini di un risiko.
Tra gli «importanti annunci» a breve di cui parla Cesare Romiti, potrebbe esserci un rilevante investimento nel settore dell’automobile. Il 16 ottobre sarà in Italia il premier cinese, Li Keqiang, che insieme a Matteo Renzi firmerà una serie di accordi commerciali. Sarà l’occasione per discutere dell’offerta della Brilliance, la casa automobilistica che in Cina produce su licenza Bmw. Brilliance ha annunciato di voler produrre auto in Italia. Nella sua recente visita a Termini Imerese Renzi ha ipotizzato che Brilliance possa subentrare a Fiat per far tornare a funzionare le linee di montaggio nello stabilimento siciliano. Altre ipotesi parlano di un interesse del costruttore per rilevare la ex De Tomaso di Torino sfruttando la presenza nell’area piemontese di un vasto indotto dell’automotive che già da tempo lavora per i costruttori di Pechino. In ogni caso potrebbe essere cinese il primo costruttore di automobili a rompere il decennale monopolio della Fiat nella Penisola.
Quel che è comunque evidente è il clamoroso salto di qualità seguito dagli investimenti negli ultimi mesi. Non sempre però l’iniziativa parte da Pechino. Nel caso di Brilliance, ad esempio, è stato Renzi, nel recente viaggio in Cina, a sollecitare l’intervento per risolvere la grave crisi di Termini Imerese. Perché, questa è una delle novità, i capitali cinesi cominciano a funzionare come per decenni hanno funzionato quelli arabi: intervengono approfittando delle situazioni di crisi scambiando liquidità con ruolo nei consigli di amministrazioni. Una strada che aveva iniziato proprio la Fiat, nel 1976, quando aveva accettato i capitali di Gheddafi (salvo poi pagare a peso d’oro la loro uscita di scena nel 1986 per le accuse di terrorismo al governo di Tripoli) e che è proseguita con altri interlocutori fino a questi mesi: l’ultimo esempio è l’alleanza- salvataggio di Alitalia da parte degli sceicchi di Ethiad. Gli stessi che negli anni scorsi entrano entrati in Ferrari quando il Lingotto era in grave crisi. I cavalieri bianchi di domani verranno invece da Pechino? Romiti si mostra prudente: «Non li chiamerei cavalieri bianchi. La strategia dei cinesi è quella di investire a lungo termine, anche approfittando di situazioni vantaggiose dovute magari alle difficoltà di qualche società». Insomma, pare di capire che, una volta arrivati, gli investitori cinesi non se ne andranno tanto presto.

Repubblica 5.9.14
Investimenti cinesi
“Italia ideale per penetrare in Europa”
Prima le infrastrutture, ora la finanza
di Giampaolo Visetti


PECHINO A METÀ ottobre il premier cinese Li Keqiang effettuerà la sua prima visita in Italia e il soggiorno avrà un valore ben diverso da quello del suo predecessore Wen Jiabao. Il leader di Pechino atterrerà a Roma nel ruolo di primo investitore straniero dell’anno nel nostro Paese, pronto a nuovi interventi per rilanciare la crescita italiana e sostenere l’euro.
Sarebbe esagerato dire che la Cina è lo sponsor straniero del premier Renzi, che proprio a Pechino ha riservato in giugno la sua prima visita transcontinentale, ma è corretto affermare che negli ultimi mesi gli aiuti indispensabili per dare ossigeno ai conti italiani sono partiti dall’Asia. Gli Usa e gli altri partner Ue si chiedono dunque perché Pechino abbia abbandonato la posizione attendista, perché accada ora e quali saranno gli effetti di questa novità. Nel giro di poche settimane la Banca centrale cinese ha investito nel nostro Paese quasi 6 miliardi di euro, eleggendo il governatore Zhou Xiaochuan al ruolo di banchiere di Stato extra europeo con il portafoglio più pesante nella Ue. Le acquisizioni di Pechino in Italia sfiorano ora quota 40, il 10% di quelle effettuate nell’intera zona euro. La Banca del popolo cinese è sì l’istituzione finanziaria più ricca del mondo, ma ciò non significa che il partito comunista le consenta di sprecare denaro. Con quote sempre appena superiori al 2% si è seduta di peso nel salotto buono della nostra economia. La novità è questa, perché per la leadership cinese questo è vero solo ufficialmente. L’influenza di una Cina «Miss 2%» sull’Italia ora è tale che la parola di Pechino è destinata a contare quanto quella di un azionista di riferimento. Esponenti del governo cinese rivelano che il via libera agli investimenti è stato dato ora per tre ragioni.
La prima è che i prezzi, rispetto al 2009, in Italia sono crollati, fino a rendere gli interventi convenienti. La seconda è che l’accoglienza politica di soci cinesi, rispetto all’era Tremonti-Berlusconi, è migliorata, mentre Pechino ha bisogno di pulire la propria immagine dopo gli scandali di Prato e della truffa sui pannelli solari. La terza è che la Cina si è convinta che sia oggi l’Italia, non la Grecia, il Portogallo, o la Spagna, il Paese più adatto per penetrare in Europa, fino a condizionare le politiche Ue. Non a caso la Banca centrale cinese ha investito in settori strategici, dall’energia alle comunicazioni, e per la prima volta, attraverso Generali, si è affacciata nella finanza. I prossimi passi, secondo analisti di Pechino, saranno le infrastrutture, porti e aeroporti, e istituti di credito leader e internazionalizzati, da Unicredit ad Intesa, se possibile prima della vetrina globale dell’Expo a Milano, priorità dopo quella di Shanghai. Un netto cambio di strategia, rispetto al decennio Wen Jiabao: dalla pretesa di acquisire la maggioranza di molte aziende, alla disponibilità ad acquistare piccole quote in poche imprese strategiche di prima fascia. Il risultato, a costi inferiori, per la Cina non cambia: ottenere un peso politico ed economico decisivo nel Paese più mediterraneo dell’Europa, mentre detiene la presidenza di turno Ue. Questo spiega perché Pechino ha scelto di stare sempre appena sopra il 2%, livello che rende obbligatorio comunicare il proprio ingresso tra i soci alla Consob e dunque ai mercati. Il valore degli investimenti, per i cinesi, è oggi direttamente proporzionale alla loro pubblicità, perché serve a legittimare il nuovo ruolo leader di Pechino sulla scena internazionale. Il Quotidiano del popolo ha sintetizzato così il senso dello shopping estivo: «Offrire a Roma soldi e tempo per avvicinare alla Cina una nazionechiave per l’euro e per gli Usa».

Repubblica 5.9.14
L’Occidente da difendere
Non sarebbe la fine di un’ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un’identità
di Ezio Mauro


LA TERZA Nato nasce in Galles dopo la prima, figlia della Guerra Fredda e la seconda dell’età di mezzo, quando con la caduta del Muro sembrò aprirsi un secolo lungo senza più nemici per le democrazie che avevano infine riconquistato il Novecento. La guerra di Crimea riporta nel cuore d’Europa, dove sono nate le due guerre mondiali, truppe, missili, carri armati, morti, feriti, aerei abbattuti. Ritorniamo a guardare i nostri cieli e le nostre mappe con quella stessa inquietudine per il futuro dei nostri figli che i nostri padri avevano ben conosciuto, e noi non ancora. E dagli arsenali della politica, della cultura, della diplomazia e della strategia militare rispuntano insieme con vecchie paure i concetti dimenticati delle “zone d’influenza”, dei “blocchi”, delle “esercitazioni”, dei Muri, della frontiera europea tra Occidente e Oriente, con l’Ovest che ritrova il suo Est e il Cremlino fisso nuovamente nella parte del “nemico ereditario”.
MISURIAMO con uguale inquietudine gli sconfinamenti ucraini di Putin e la sua popolarità crescente in patria, nonostante le sanzioni. Scopriamo quel che dovevamo sapere, e cioè che l’anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile, dunque non è una creatura ideologica del sovietismo ma lo precede, lo accompagna e gli sopravvive. Anzi: dopo gli anni di interregno, con il pugno di ferro interno e la spartizione oligarchica del bottino di Stato, l’Oriente russo torna a marcare un’identità forte, una sovranità territoriale e politica che mentre si riprende la Crimea non nasconde velleità su Kiev e tentazioni sui Paesi baltici, come se Mosca si ribellasse alla storia e alla geografia d’inizio secolo, contestandole e impugnandole davanti alla sua ossessione ritrovata: l’Occidente.
Nello stesso momento il Califfato islamista appena proclamato tra Siria e Iraq non ha ancora un vero Stato, una capitale, un sistema di relazioni, ma ha un pugnale puntato alla gola di uomini scelti per simboleggiare nel loro martirio individuale una sorta di sfida universale, che va addirittura oltre lo spettacolo di morte dell’11 settembre. La morte sceneggiata come messaggio estremo alla potenza americana, sotto gli occhi di tutto il mondo, rito primitivo del fanatismo religioso e marketing modernissimo del deserto. Nella sproporzione assoluta tra l’inermità innocente del prigioniero e la potestà totale del suo assassino (uno squilibrio miserabile, che esiste soltanto fuori dallo Stato di diritto, dai tribunali, dalle garanzie e dai diritti) si radunano i simboli e le vendette per la guerra del Kuwait dopo l’invasione di Saddam, la caccia ad Al Qaeda in Afghanistan con la ribellione all’attacco contro le Torri, la guerra in Iraq, l’uccisione di Bin Laden, ma anche la sfida islamista tra ciò che resta di Al Qaeda e l’Is, lo Stato Islamico, una partita aperta per l’egemonia politico-religioso-militare del fanatismo. Costruire sul terrore il Califfato significa soprattutto cancellare ogni rischio di contagio democratico anche parziale nei Paesi islamici, ogni istituto prima ancora di ogni istituzione, in nome di quell’«isolazionismo» che Bin Laden predicava e minacciava per cacciare dalla penisola musulmana «i soldati della croce», con i loro «piedi impuri» sui luoghi sacri. Il nemico definitivo è dunque chiaro: l’Occidente.
Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all’altezza della sfida? Ha almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola, mentre Putin sta rialzando un muro politico e diplomatico che fermi l’America, delimiti l’Europa e blocchi la libertà di destino dei popoli? La risposta della politica è inconcludente, quella della diplomazia non va oltre le sanzioni. Resta la Nato, il vertice del Galles, la polemica sulle spese, il progetto di esercito europeo. Ma la domanda si ripropone oltre la meccanica militare: la Nato può funzionare e avere un significato da protagonista delle due crisi senza una soggettività politica chiara dell’Occidente? In sostanza, il nemico (o meglio: colui che ci elegge a nemico) ha una nozione di noi più chiara di quella che noi abbiamo di noi stessi.
Per tutto il breve spazio “di pace” che va dalla caduta del Muro all’11 settembre abbiamo lasciato deperire nelle nostre stesse mani il concetto di Occidente, mentre altri lavoravano per costruirlo come bersaglio immobile. Lo abbiamo svalutato come un reperto della guerra fredda e non come un elemento della nostra identità culturale, istituzionale e politica, quasi che fossimo definiti soltanto dall’avversario sovietico, e solo per lo spazio della sua durata. Anche gli scossoni geografici nell’Europa di mezzo, seguiti alla caduta del blocco sovietico, e le proposte di allargamento dell’Unione sono stati gestiti con parametri più economici, di mercato e di potenza che ideali. Quel pezzo di Occidente che si chiama Europa è sembrato a lungo incapace di avere un’idea di sé che non nascesse per differenza dal confronto con il comunismo orientale, e quando il sovietismo è caduto è parso in difficoltà a definirsi, a concepirsi come la terra dov’è nata la democrazia delle istituzioni e la democrazia dei diritti. Qui sta la ragione della comunità di destino — e non solo dell’alleanza — con gli Stati Uniti, e stanno anche le ragioni specifiche che l’Europa porta in questa intesa, il rispetto degli organismi internazionali di garanzia e delle regole di legalità internazionale, che per un’alleanza democratica (anche quando è guidata da una Superpotenza) valgono sempre, anche quando è sotto attacco: perché la democrazia ha il diritto di difendersi, ma ha il dovere di farlo rimanendo se stessa.
Oggi noi dobbiamo vedere (se non fosse bastato l’11 settembre) che non è l’America soltanto il bersaglio, ma è questo nostro insieme di valori e questo nostro sistema di vita, fatto di libertà, di istituzioni, di controlli, di regole, di parlamenti, di diritti. E contemporaneamente, certo, di nostre inadeguatezze, miserie, errori, abusi e violenze, perché siamo umani e perché la tentazione del potere è l’abuso della forza. Ma la differenza della democrazia è l’oggetto dell’attacco, il potenziale di liberazione e di dignità e di uguaglianza che porta in sé anche coi nostri tradimenti, e proprio per questo il suo carattere universale, che può parlare ad ogni latitudine ogni volta che siamo capaci di comporre le nostre verità con quelle degli altri rinunciando a pretese di assoluto, ogni volta che dividiamo le fedi dallo Stato, ogni volta che dubitiamo del potere — sia pur riconoscendo la sua legittimità — e coltiviamo la libertà del dubbio.
Hanno il terrore di tutto questo, nonostante la nostra testimonianza infedele della democrazia e il cattivo uso delle nostre libertà. Lo ha Putin, con la sua sovranità oligarchica. E lo ha radicalmente l’Is. Ma noi, siamo in grado di difendere questi nostri principi e di credere alla loro universalità almeno potenziale, oppure siamo disponibili ad ammettere che per realpolitik diritti e libertà devono essere proclamati universali in questa parte del mondo, ma possono essere banditi come relativi altrove? In sostanza, siamo disposti a difendere davvero la democrazia sotto attacco?
La sfida è anche all’interno del nostro mondo. Perché nell’allontanamento dalla politica e dalle istituzioni dei cittadini dell’Occidente c’è la sensazione che siano diventate strumentazioni inutili di fronte alla grande crisi economica e alle crisi locali aperte nel mondo. E che la stessa democrazia oggi valga soltanto per i garantiti, lasciando scoperti dalle sue tutele concrete gli esclusi. La somma delle disuguaglianze sta infatti facendo traboccare il nostro vaso: sono sempre esistite, nella storia dei nostri Paesi, ma erano all’interno di un patto di società che prevedeva mobilità sociale, opportunità, libertà di crescita e questo teneva insieme i vincenti e i perdenti del boom, delle varie congiunture, dello sviluppo, della globalizzazione. Oggi si è rotto il tavolo di compensazione dei conflitti, il legame sociale tra il ricco e il povero, la responsabilità comune di società. Tra i precari fino a quarant’anni e licenziati di 50, produciamo esclusi per i quali la democrazia materiale non produce effetti: e perché per loro dovrebbe produrne la democrazia politica, la partecipazione, il voto?
Contemporaneamente, una parte sempre più larga di popolazione ha la sensazione davanti alle crisi che il mondo sia fuori controllo. E cioè che il sistema di governance che ci siamo dati faticosamente e orgogliosamente nel lungo dopoguerra si sia inceppato, e non produca governo dei fenomeni in atto. Per la prima volta si blocca quello scambio tra il cittadino e lo Stato fatto di libertà e diritti in cambio di sicurezza. Ci si sente cittadini dentro lo Stato nazionale, ma si percepisce che lo Stato-nazione non controlla più nessuno dei fenomeni che contano nella nostra epoca, non ha prodotto istituzioni e democrazia in quello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e informativi dove non per caso la nostra cittadinanza — il nostro esercizio soggettivo di diritti — è puramente formale. Delle istituzioni sovranazionali a noi più vicine — la Ue — sentiamo nitidamente il deficit di rappresentanza e quindi di democrazia. Portiamo in tasca una moneta comune senza sapere qual è la faccia del sovrano che vi è impressa, senza un’autorità capace di spenderla politicamente nelle grandi crisi del mondo, senza un esercito che la difenda. Alla fine dell’Europa sentiamo il vincolo, certo, ma non la sua legittimità.
La stessa America, che doveva essere la Superpotenza superstite al Novecento e dunque egemone, avverte la crisi della sua governance proprio quando l’elezione di Obama aveva dispiegato tutta l’energia democratica di quel Paese, come se quel voto avesse avvertito la coscienza dell’ultimo limite (la differenza razziale come impedimento ad un pieno dispiegamento dei diritti) e la necessità infine di superarlo. Ma nel momento in cui spezzando l’unilateralismo bushista Obama, dopo aver offerto invano il dialogo all’Islam, porta l’America fuori dalle guerre sul terreno, chiudendo un’epoca, la democrazia americana si scopre disarmata e in difficoltà a tradurre la sua forza in politica, e vede Mosca riarmarsi e Pechino lucrare vantaggi competitivi all’ombra delle crisi che investono direttamente Washington.
È come se stessimo testando il confine della democrazia, quasi non riuscisse più a produrre rappresentanza, governo e istituzioni capaci a rispondere alle esigenze dell’epoca. Come se fosse una costruzione del Novecento, giunta esausta a questo pericoloso inizio di secolo. Non sarebbe la fine di un’ideologia, ma di tutto il fondamento dello Stato moderno, di una cultura politica, di un’identità. Per questo l’Occidente oggi va difeso, con ogni mezzo, da chi lo condanna a morte. Anche Vladimir Putin dovrebbe riflettere sulla sfida islamista, domandandosi per chi suona la campana, magari recuperando negli archivi del Cremlino la lettera che l’ayatollah Khomeini scrisse all’ultimo segretario generale del Pcus nel gennaio del 1989: «È chiaro come il cristallo che l’Islam erediterà le Russie».

Corriere 5.9.14
Un esercito dell’Onu per preservare la pace
risponde Sergio Romano


Franco Venturini, ha dimostrato come la sicurezza internazionale (Corriere ,25 agosto) sia «ferma al muro di Berlino» e ha ricordato come il recente messaggio del Papa («sia l’Onu a stabilire il modo per fermare l’aggressore») sia ancora disatteso. Non sarebbe questa l’occasione per rilanciare la necessità di completare la Carta di San Francisco che celebrerà il prossimo anno i suoi controversi 70 anni di vita, finalmente realizzando la costituzione di «forze armate permanenti» e così consentire maggiore effettività e immediatezza alle delibere del Consiglio di sicurezza? Conosco le ragioni e le obiezioni a suo tempo, soprattutto di parte statunitense e sovietica, che non ne hanno permesso la realizzazione. Ma con tutte le sanzioni in corso la Russia di oggi non è l’Unione Sovietica di ieri e forse ritrovarsi permanentemente insieme per garantire la pace nel mondo, potrebbe essere la soluzione per meglio realizzarla con coloro che ci vorranno stare.
Generale Gianalfonso d’Avossa, Roma
Caro d’Avossa,
Alla fine di gennaio del 1992 vi fu a New York un vertice delle Nazioni Unite a cui parteciparono i capi di Stato o di governo di tutti i Paesi allora membri della maggiore organizzazione internazionale. Il clima politico era promettente. La guerra fredda era finita. Il muro di Berlino era stato abbattuto e la Germania si era riunificata. All’invasione irachena del Kuwait era stato risposto con una operazione militare avallata dalle Nazioni Unite. Sembrava giunto finalmente il momento in cui sarebbe stato possibile conferire all’Onu maggiore autorità. Il vertice si concluse con la richiesta al segretario generale dell’organizzazione di preparare una «Agenda della pace» in cui avrebbe offerto ai governi riflessioni e proposte. Il segretario era Boutros Boutros-Ghali, egiziano, copto, ministro degli Esteri per alcuni anni durante le presidenze di Anwar Al Sadat e Hosni Mubarak, uomo di mondo perfettamente a suo agio in francese e in inglese. Boutros-Ghali prese il suo mandato molto seriamente e preparò una trentina di pagine che vennero pubblicate il 17 giugno 1992. Fra molti altri suggerimenti amministrativi e finanziari, il testo faceva la classica distinzione fra le operazioni militari di «peace-making», per la costruzione della pace là dove era minacciata, e di «peace-keeping», per la preservazione della pace là dove era stata pattuita una tregua o era stato concluso un accordo. Ma introduceva il concetto di «spiegamento preventivo» là dove esiste il rischio di un conflitto. Per fare fronte a queste responsabilità con le forze necessarie, l’Onu, secondo Boutros-Ghali, non poteva dipendere dalla maggiore o minore generosità dei singoli Paesi. Occorreva che gli Stati membri prendessero impegni formali per la fornitura di reparti e armamenti immediatamente disponibili nel momento del bisogno. Occorreva, in altre parole, creare un esercito potenziale, pronto ad apparire sulla scena nel momento desiderato. In questa prospettiva, secondo il segretario generale, occorreva rafforzare il ruolo del Comitato militare dell’Onu, un organismo previsto dalla Carta ma sino ad allora non sufficientemente utilizzato.
Tutte queste misure, se adottate, avrebbero considerevolmente aumentato i poteri del segretario generale. Fu questa, probabilmente, la principale ragione che condannò l’Agenda per la pace a restare nei cassetti del ministeri degli Esteri delle maggiori potenze. Mi chiedo, con una punta di scetticismo, se le circostanze oggi sarebbero più favorevoli.

Repubblica 5.9.14
Alla rassegna lezioni di neurolinguistica sulle tracce di Chomsky:
“Il cervello conosce già la sintassi”
Perché ognuno nasce con in testa le regole della grammatica
di Francesco Erbani


MANTOVA COMINCIA tutto con una frase: «Il gulco gianigeva la brala». Poi con un’altra: «Il lappento non tonce mai». Il correttore di Word impazzisce e, inflessibile, sottolinea in rosso. Ma dietro il nonsense si cela una delle più avanzate frontiere della neurolinguistica o della linguistica in senso stretto. E il Festivaletteratura se ne fa veicolo, ospitando tre ricercatori impegnati da anni su queste ricerche e qui nella veste di non banali divulgatori.
Sono Andrea Moro, il caposcuola, autore di Breve storia del verbo essere e di Parlo dunque sono (entrambi editi da Adelphi nel 2010 e nel 2012) e i più giovani Valentina Bambini e Cristiano Chesi. Sono linguisti di formazione, sfoggiano curricula con lunghi soggiorni ad Harvard e alla Normale di Pisa. Lavorano a Pavia, dove Moro dirige il Nets, Centro di Neurocognizione e sintassi teorica (oltre a essere rettore vicario della Scuola Superiore Universitaria). Mercoledì sera Moro, ieri e oggi Bambini, domani Chesi: si parla di sintassi e della sua origine biologica, di Noam Chomsky e di come la combinazione delle parole sembrerebbe dipendere dalla struttura neurobiologica del cervello, di metafore, di parole speciali (esclamazioni, insulti, onomatopee...) e della grammatica delle filastrocche. Un menu denso, sceneggiato intorno a una lavagna d’ardesia, con gessetti e cancellino di fronte all’ingresso della chiesa di sant’Andrea, sulle cui gradinate si assiepa una gran folla. Scienza e linguaggio si specchiano, esperimenti e gioco, l’esposizione è accessibile e il pubblico di Mantova apprezza. L’unica preoccupazione sono i nuvoloni che si addensano neri nel cielo.
«Il gulco gianigeva la brala» è una frase che contiene due articoli, due nomi comuni (forse un soggetto e un complemento oggetto), un verbo (un predicato verbale, apparentemente un imperfetto). Non vuol dire nulla. Eppure è sintatticamente corretta, le parole sono ordinate precisamente. L’esperimento di Moro si chiama brain imaging, neuroimmagine, è praticato con la risonanza magnetica: il linguista smette i panni del filologo e indossa un camice bianco. L’indagine consiste nel sottoporre la frase a un soggetto, del quale si misura l’attività cerebrale, in particolare l’afflusso di sangue al cervello: normale alla lettura che «il gulco gianigeva, ecc, ecc.». Ma se allo stesso soggetto si propone una frase con gli stessi elementi, però scombinati, del tipo «il gulco gianigevano la brala» o, ancora, «gulco il gianigeva brala la» si attivano due punti del cervello, l’area di Broca (dal nome di Paul Broca, neurologo francese della seconda metà dell’Ottocento), e il “nucleo caudato”. «È il segno», spiega Moro, «che se si viola la sintassi si attivano nel cervello reti diverse da quelle in funzione di fronte a una frase che, pur senza senso, la sintassi la rispetta. Noi esseri umani, e solo noi fra gli esseri viventi, siamo progettati in maniera speciale, possediamo un’architettura neurocerebrale, una rete di circuiti che condizionano il codice del linguaggio ».
Moro si muove sulle orme di Chomsky, che dalla fine degli anni Cinquanta ha rivoluzionato la linguistica (poi è diventato celebre anche come ideologo anticapitalista, inflessibile critico della politica americana), scombussolando i suoi assetti e dividendo schiere di studiosi in estimatori e detrattori. Già Chomsky ragionava sulle frasi senza senso, ma sintatticamente ineccepibili. Le infinite possibilità di combinare le parole derivano, dice Chomsky, da un numero finito di regole, innate. Da qui l’ipotesi che, appunto, la sintassi sia biologicamente determinata, non prodotto delle convenzioni o della storia. Moro parte da questi assunti. «Quando ero ancora studente, mandai a Chomsky un mio lavoro. E lui volle incontrarmi. Ma non è vero, come molti sostengono, che le nostre teorie bandiscano esperienze e cultura, riducendo tutto alla biologia. Noi cerchiamo di capire i limiti entro i quali esperienze e cultura possono incidere sulla struttura o possono cambiarla. È un po’ come stabilire cosa il nostro apparato digerente può sopportare: cosa mangiare è un’altra faccenda».
Un fronte sul quale verificare queste ipotesi è quello dei bambini. Spiega Moro: «Il nostro cervello contiene tutte le regole possibili di tutte le lingue, ma solo quelle che l’ambiente esterno sollecita diventano proprie. I bambini possono imparare le lingue con maggiore facilità fintanto che non posseggono operazioni logiche e culturali raffinate. Invece gli adulti lo fanno con più difficoltà. Questo vuol dire che siamo biologicamente progettati per apprenderle».
Le frontiere della neurolinguistica sono mobili e passano dai laboratori alle indagini su alcune forme di disabilità. Servono d’ausilio per alcune diagnosi. Anche se, spiega Valentina Bambini, «un tempo l’unico modo per arrivare a informazioni sui sostrati cerebrali del linguaggio era lo studio di una patologia, mentre oggi è possibile sviluppare ricerche sui soggetti sani, il che apre grandi orizzonti alla scienza». Bambini si è concentrata sullo studio della metafora, che non è prerogativa del linguaggio poetico: «Si calcola che vengano prodotte 5 metafore, 5 usi non letterali di una parola ogni minuto di conversazione. In media si stima che ogni giorno pronunciamo 16 mila parole, 2.600 sono metafore, circa una ogni sei». Ma la metafora serve anche per individuare alcune patologie, insiste Bambini.
La schizofrenia, per esempio: è dimostrato, sulla base di esperimenti condotti sempre con la risonanza magnetica, che chi ne è affetto fatica a riconoscerle. Le usano, ma non le riconoscono. Situazione rovesciata in alcuni casi di afasia. Questi pazienti, racconta Bambini, hanno perso gran parte del lessico, ma conservano l’uso di parole speciali, come le parolacce, le imprecazioni, le bestemmie. E questo perché attingono a una scorciatoia emotiva (di questo Bambini parla oggi, alle 18,30).
Il ciclo mantovano si chiude con Chesi, con la “grammatica della fantasia” sulla quale seriamente giocava Gianni Rodari. E un po’ gioco, un po’ laboratorio è la sua lavagna di domani: com’è fatta una filastrocca? Quanto contiene di grammaticale — cioè di regole, di possibilità più che di prescrizioni — e quanto di invenzione? Si sezionano filastrocche, anticipa Chesi, «ma soprattutto si cerca di capire come funzionano una lingua e il sistema digestivo linguistico». La filastrocca è fatta di ritmo e di rime, che aiutano la memorizzazione, rendono riconoscibile e apprezzabile quel breve testo (Rodari: «C’era un vecchio di palude / Di natura futile e rude / Seduto su un rocchio / Cantava stornelli a un ranocchio…»). Ma

Repubblica 5.9.14
Cambia l’oratorio sempre meno preti più cinema e musica e tra i ragazzi è boom
Crescono le strutture e le presenze in tutta Italia
Perché aggregano (“C’è vita oltre la play-station”), sono economici, creativi e creano posti di lavoro
Come quelli dei giovani animatori che sostituiscono i religiosi
di Jenner Meletti


ASSISI Sono orgogliose, Valentina e Federica. Assieme all’amico Cristian, quest’anno hanno inventato un nuovo gioco, il «Calcetto ramazzato ». «Si gioca col pallone ma invece dei piedi si usa una scopa. E abbiamo organizzato anche la Dama umana». Arrivano da Cerfignano, in Puglia. Età compresa fra i 16 ed i 18 anni. «Nel nostro paese di 1.600 abitanti alla festa organizzata dall’oratorio hanno partecipato quasi in mille, fra piccoli, ragazzi e ragazze e adulti. Insomma, c’erano tutti.
E pensare che fino a cinque anni fa, quando non c’era l’oratorio, l’estate era solo una pausa vuota fra la fine delle scuole e l’inizio del nuovo anno fra i banchi». «L’oratorio — dice il parroco, don Pasquale Fracasso — è diventato il cuore e il motore della parrocchia e non solo. Ci vengono anche le nonne, a preparare i pasti dei bambini. Da noi, se non ti inventi qualcosa, d’estate puoi solo guardare i turisti che vanno verso il mare». Strano mondo, quello degli oratori. Ci trovi ragazzi come Simone, 16 anni, di Tor Bella Monaca a Roma, che ti spiega come «un giovane non può vivere solo di playstation.
Anch’io ci giocavo, da piccolo. Ma poi all’oratorio scopri che il mondo vero è più bello e soprattutto più vivo. Ci trovi amici in carne e ossa, e se giochi a calcio o pallavolo non usi solo i pollici. Io ci sono quasi nato, in un oratorio: sono un utente e poi operatore di terza generazione. Mi diverto, soprattutto, ma mi sento anche utile. In un quartiere difficile come il nostro, c’è bisogno di molte mani, per cambiare le cose».
Non sono casi isolati, Simone e gli altri. Quest’anno i bambini e ragazzi accolti nel Grest (Gruppo estivo) e negli altri oratori sono stati 2 milioni, mezzo milione in più rispetto a due anni fa. Settemila le strutture aperte, 300mila gli animatori. Millecinquecento di loro sono ad Assisi, per il secondo happening nazionale, a discutere di “LabOratori di comunità”. Molte cose sono cambiate, in questi ultimi anni. E non è finita.
«Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa… Ora mi annoio più di allora, nemmeno un prete per chiacchierar». Le parole di “Azzurro” in fondo erano una profezia. «Abbiamo sempre avuto — dice infatti don Marco Mori, presidente del Forum degli oratori — i sacerdoti come responsabili. È forse l’ora di decidere che ci siano anche i laici a fare questa cosa. Ci vogliono figure preparate e responsabili, in grado di portare avanti questa storia che è ancora da scrivere ».
In alcune realtà l’oratorio senza prete è già una realtà. «A Milano, secondo la tradizione — racconta don Samuele Marelli — i sacerdoti giovani non solo seguivano l’oratorio, ma ci abitavano anche. Dopo il Concilio è nata una corresponsabilità fra laici e presbiteri. Ora una fondazione cura la formazione dei “diret- tori laici di oratorio”, che hanno un contratto full time, con stipendi da 1.100, 1.200 euro al mese per 38 ore di lavoro».
Mille gli oratori nella diocesi milanese aperti tutto l’anno, 150 a Roma quelli organizzati almeno d’estate. Nella gran parte del Paese a guidare i ragazzi è però ancora il sacerdote, che non indossa più la talare — doveva tirarla su per tirare due calci al pallone o fare l’arbitro — ma resta guida e responsabile di ogni attività.
«La sua presenza non è più necessaria — dice don Marco Mori — perché l’oratorio è cambiato. Un tempo si pensava che l’educazione dovesse arrivare dall’alto e il sacerdote era il fulcro di tutto. Ora vogliamo invece che gli stessi ragazzi diventino protagonisti, diventando operatori già a 14 o 15 anni. Il segreto del boom dell’oratorio? È diventato simpati- co, fruibile, vicino ai ragazzi che vengono volentieri perché non “usano” un servizio già preparato ma sono chiamati a inventarlo. “Ci interessa il teatro” e allora lo facciamo assieme. Così per lo sport, i giochi, la musica, il cinema… Tutto questo alla luce del sole. Gli oratori sono nel centro dei paesi, le famiglie conoscono programmi e progetti. Certo, nella nostra crescita ha pesato anche la crisi economica. In estate se vai a un centro sportivo ti chiedono 250, 300 euro alla settimana, l’oratorio in media costa 30 euro, quaranta se è previsto anche il pasto».
Per i baby operatori si fanno incontri di formazione. Per i direttori senza tonaca c’è anche un corso di perfezionamento all’università di Perugia, dedicato a “Progettazione, gestione e coordinamento dell’oratorio”. Un anno di studio, riservato ai già laureati. «Tutto cambia», dice Marco Moschini, docente di filosofia teoretica e direttore del corso. «Per insegnare alle elementari un tempo bastavano quattro anni di Magistrali e adesso serve una laurea quinquennale. Se lo guardi da fuori, l’oratorio sembra avere una gerarchia, con il responsabile, gli animatori e sotto ancora i bambini ed i ragazzi. È invece un solo universo, un unico progetto, che deve rapportarsi con esigenze sociali, ecclesiali e territoriali. È un presidio educativo e ha bisogno di figure specializzate. Accoglie gli individui e forma una comunità. Per questo è necessaria una progettazione didattica e serve anche una pedagogia dell’inclusione».
Il corso è iniziato due anni fa, 50 iscritti in media. «Quest’anno abbiamo anche 3 frati e 4 sacerdoti, ovviamente già laureati. Loro sono venuti per fare meglio un lavoro già sicuro, ma anche altri giovani hanno trovato un mestiere e anche uno stipendio». Andrà avanti fino a domenica, l’happening. Canzoni, cori, preghiere, incontri con vescovi e cardinali, caccia alle idee da portare a casa. A salire per primi sul palco del grande teatro Lyrick sono stati i Big, Brother in God, fratelli in Dio.
Cena con due panini e una pesca. Meglio l’oratorio, in cucina resistono ancora le nonne.