lunedì 8 settembre 2014

Il circolo Pd di Marsciano, Perugia, sventola un carrello: «Dio c’è, e Matteo governa ».
da Repubblica

Corriere 8.9.14
Ma l’Unità finisce nel dimenticatoio

«Ci ha sganciato, su di noi nemmeno una parola», si sfoga su Facebook Anna Tarquini, uno dei sessanta redattori dell’Unità ormai a spasso da 40 giorni. «Aveva detto, mi spiace farò di tutto… Che grettezza» aggiunge Ninni Andriolo, firma del politico. Laconico il tweet del vicedirettore Piero Spataro. «Bella giornata a Bologna, bel discorso ma caro @matteorenzi una parola sull’Unità potevi dirla». Duro il Comitato di redazione: «Silenzio inquietante, che delusione». A Roma, dove grazie al lavoro volontario è stato fatto ripartire il sito internet del giornale, ieri i poligrafici appena terminato il discorso del premier hanno smesso di lavorare e se ne sono andati. Tutti aspettavano un annuncio, e invece niente. L’Unità riapre? Non si sa. «Ci sono delle trattative in corso, speriamo a stretto giro di ripartire», ha spiegato Renzi una volta sceso dal palco mentre gli consegnavano le firme pro-Unità raccolte a Bologna. «Non chiamiamole più feste dell’Unità - dice Umberto De Giovannangeli del Cdr -. E visto che ci trattano da desaparecidos per me da domani dovremmo disertare tutti i dibattiti dove ci hanno invitato. Al nostro posto mettano pure delle sedie vuote». [P. BAR.]

Unità on line 8.9.14
Cdr: «La nostra delusione. Nessuna parola su l'Unità»
Avevamo chiesto al segretario impegni concreti, dopo le ripetute esternazioni che parlavano di un rilancio del foglio più importante della sinistra

qui

il Fatto 8.9.14
Renzi si blinda: no ai “tecnici” e ai veti del Pd
di Wanda Marra


Bologna “Sia chiaro che se qualcuno vuole la rivincita deve aspettare il novembre 2017, ma se vuole lavorare lo può fare da domani”. È un crescendo il comizio di chiusura della Festa dell’Unità di Bologna di Matteo Renzi, i toni diventano più duri via via che il discorso s’infiamma. E alla fine, ecco l’avvertimento: il Pd sono io, il sottotitolo. E non c’è spazio per dissenso o battaglie intestine. Tutti avvertiti. Gli stessi leader ringraziati all’inizio, gli ex segretari, Franceschini, Veltroni, Epifani. E Bersani, lui “sa perché”: “Ci ha fatto prendere un bel coccolone l’anno scorso”.
È ABILE RENZI a creare un clima di apparente inclusione, a usare parole “dolci” per gli avversari, che in questi giorni l’hanno ripetutamente attaccato. Anche per Cuperlo e Civati. Ma intanto, sul palco c’è lui da solo. I dirigenti dem, renziani o no, sono tutti ad ascoltarlo da sotto. Gli stessi Bersani, Cuperlo ed Epifani, il presidente del partito Orfini, i ministri (la Mogherini, la Madia, la Boschi, anche Poletti), i vicesegretari Guerini e Serracchiani. Non c’è D’Alema, ma c’è anche Vasco Errani, che “ha messo la sua dignità come elemento non in discussione facendo un passo indietro che non era tenuto a fare. Gli rinnovo la mia stima incommensurabile”, scandisce Renzi. L’interessato si commuove, la platea gli dedica un tributo entusiasta. Sotto al palco ci sono anche Stefano Bonaccini e Matteo Richetti, gli sfidanti alle primarie per la presidenza della Regione, che si faranno il 28 settembre. “Stefano, Matteo e Roberto (Balzani, sindaco di Forlì, ndr) hanno combinato un bel casino”, dice lui. Nessuna soluzione dall’alto, nonostante le ripetute indiscrezioni in questo senso, sono la prima competizione veramente aperta dell’era renziana.
Sa come scaldare la platea dell’Emilia Romagna, la regione più rossa di tutte, Renzi. D’altra parte la giornata di ieri è tutto un lavoro sui simboli, è tutto un inglobare riti e tradizioni.
ARRIVA PRESTO alla Festa il segretario, alle 11,30 di mattina. Marca il territorio. Annuncia che la segreteria la farà venerdì. Sono in corso trattative. Come dirà dal palco, la pensa “unitaria”. A patto che non ci siano né veti, né rivincite. Poi un po’ scherzando: “Siglerò il patto del tortellino con i leader europei”. Lo scippo alla tradizione emilian-bersaniana è compiuto: era l’ex segretario, l’uomo del tortellino magico. Passerella per la Festa. Curiosità ed entusiasmo. “Mi ha stretto la mano, non me la lavo più”. A un certo punto una ragazza attraversa la folla: “I nostri figli adottati in Congo, quando arrivano? ”. Lui si ferma. Ascolta. Chiama Sandro Gozi e Lia Quartapelle e gli affida la pratica. Piglio da statista e costruzione del consenso. Prima tappa dai Giovani Democratici. Poi, pranzo al ristorante “da Bertoldo”. Con lui, oltre ad alcuni dirigenti del Pd, i leader europei. Achim Post (segretario del Partito socialdemocratico tedesco), Diederik Samsom (capo del Partito laburista olandese), Pedro Sanchez (nuova stella del Partito socialista spagnolo) e Manuel Valls, premier francese. Pranzo tradizionale: cappellini in brodo e grigliata di carne. Foto con i militanti. Brindisi. Poi, il primo palco, quello in cui tutti, da Valls a Sanchez, assicurano la loro condivisione della battaglia contro il rigore. Matteo introduce, ringrazia. Da padrone di casa presenta Valls come il nipote dell’autore dell’inno del Barcellona. Pare una via di mezzo tra il capo scout e l’aspirante leader di futuribili Stati Uniti d’Europa.
IL COMIZIO INIZIA verso le cinque e mezza. È il primo da segretario. Non ci sono folle oceaniche, non ci sono la curiosità e l’elettrizzazione dell’anno scorso a Genova o di due anni fa a Reggio Emilia. Folla composta, più che altro speranzosa. L’area è piena, ma c’è chi si aspettava di più. Lui inizia con i ringraziamenti ai volontari, che sono 10mila “più degli anni precedenti”. Discorso a braccio come da copione, sull’importanza delle riforme costituzionali, la scuola e il valore del merito. Attacco ai Cinque Stelle per l’invito a trattare con l’Isis, difesa a spada tratta di “quel grande italiano” che è Giorgio Napolitano. Che però mentre lui parla è al cinema a Roma a vedere Arance e martello di Diego Bianchi. Nessun tema scomodo: né la legge di stabilità, né i provvedimenti sul lavoro. E neanche la questione dell’Unità come nota, deluso, il Cdr del giornale. Alla fine, di nuovo giro delle cucine: è il segretario del Pd adesso e adesso questa è la sua gente. “Non mollo di mezzo centimetro”, ha ribadito, come al solito. E il “popolo” gli serve.

La Stampa 8.9.14
“Merito e talento sono di sinistra”
Così il premier aggiorna i valori
Cade un altro tabù erede della tradizione cattolica e comunista che mette al centro l’uguaglianza
di Federico Geremicca


Citato a ripetizione da Manuel Valls e Pedro Sanchez, definito addirittura «la speranza» dell’Europa e della sinistra europea, Matteo Renzi - magari con sua stessa sorpresa - è ormai assurto a modello per la disastrata e litigiosa «grande famiglia» del socialismo europeo. Effetto, certo, del 40 e passa per cento raccolto alle elezioni del 25 maggio scorso, mentre le altre forze socialiste venivano surclassate da conservatori ed antieuropeisti: ma effetto anche dell’arrembante opera di demolizione e ricostruzione degli obiettivi, dei valori e perfino degli strumenti di una moderna forza di sinistra. Opera alla quale, dal palco della Festa di Bologna, ieri Renzi ha aggiunto un altro tassello.
I più giovani - e magari anche i meno giovani, dopo anni di sconfitte - avranno forse giudicato ovvia l’affermazione con la quale il segretario-presidente, parlando della riforma della scuola, ha sepolto un altro totem, un altro sacro feticcio del socialismo del secolo passato. «Il merito è di sinistra, la qualità è di sinistra, il talento è di sinistra - ha detto -. Io voglio stare dalla parte dell’eguaglianza, non dell’egualitarismo».
Per un partito, il Pd, che ha fuso e cerca di far convivere la cultura cattolica e quella di origine e tradizione comunista, l’affermazione rappresenta invece un piccolo terremoto all’interno di una gerarchia di valori che in testa a tutto - e prima di ogni altra cosa - metteva sempre la solidarietà e l’uguaglianza. Per molti versi, lo «strappo» ricorda quello operato qualche anno fa dai sindaci di sinistra di grandi città (Cofferati a Bologna e Veltroni a Roma, in testa a tutti) che di fronte al dilagare di violenze nei quartieri - spesso a opera di immigrati - affermarono che «la sicurezza (fino a quel punto storico cavallo di battaglia della destra, ndr) non è né di destra né di sinistra».
Tabù dietro tabù, insomma, Matteo Renzi sta cambiando (o cercando di cambiare) il bagaglio politico-culturale di una sinistra accusata da tempo e da più parti di esser rimasta prigioniera di un polveroso armamentario ideale e di valori che affonda le sue radici nel ’900. In realtà, il più giovane premier della storia repubblicana non dice, oggi, cose così diverse da quelle che aveva cominciato a predicare fin dal tempo delle prime primarie contro Bersani per la scelta del candidato premier: parole d’ordine e spinta innovativa evidentemente vincenti, se hanno reso possibili - e probabilmente addirittura determinato - prima la vittoria nella corsa alla segreteria e poi lo stupefacente 41% alle elezioni europee.
Molti ricorderanno, per esempio, la sorta di «processo popolare» cui Matteo Renzi fu sottoposto al tempo della sfida con Bersani con l’accusa di «parlare alla destra» e chiedere i voti di chi stava «dall’altra parte». «Io penso alle elezioni secondarie - si difendeva l’allora sindaco di Firenze - e vorrei ricordare che se non sottraiamo voti alla destra non vinceremo mai». Aveva evidentemente ragione: e il risultato delle elezioni europee, con il grande flusso di voti arrivati al Pd da ex elettori del centrodestra, è lì a dimostrarlo. Quei voti vanno conservati, insiste oggi Renzi: con proposte e politiche, evidentemente, che parlino anche agli elettori che hanno votato Pd per la prima volta.
È anche per questo che l’opera di rinnovamento politico-culturale non può fermarsi. «Nel 41% ottenuto alle europee - ha spiegato ieri Renzi - c’è il voto di tante gente che non viene dalla nostra storia e dalla nostra tradizione, ma che vuol condividere il futuro con noi». È il preannuncio, insomma, del tentativo di stabilizzare quel consenso con idee, suggestioni e perfino un linguaggio che tenga conto dei tanti «nuovi arrivati»: che magari non sono poi così convinti che il merito, la sicurezza dei cittadini, andare ad «Amici» o magari dar torto ogni tanto al sindacato siano, tout court, cose di destra.
E c’è un’altra sorta di mito che il premier-segretario ha preso a picconare con grande vigore: il fascino (consolatoria e talvolta deresponsabilizzante) storicamente esercitato dai «tecnici» sulla sinistra italiana. Tecnici, professoroni e convegnisti d’ogni sorta. «Veniamo da un’ubriacatura da tecnicismo - ha contestato Renzi - che ha fatto passare l’idea che la politica sia inutile. Ma la politica non è una parolaccia: e loro, i tecnici, in 20 anni non hanno saputo leggere sociologicamente e culturalmente Berlusconi e il berlusconismo».
Ce ne è a sufficienza per sostenere che, nella sua prima chiusura da segretario della Festa de l’Unità, Renzi abbia confermato quel che ancora ieri ha ripetuto: nell’opera di cambiar verso all’Italia non arretrerà, non mollerà di un centimetro. «Mettiamoci l’energia dei nostri nonni e la fantasia dei nostri giovani. E smettiamo di vivere il futuro come una minaccia». Una scommessa, una filosofia che - in mancanza di alternative - evidentemente convince e piace, se il consenso verso il premier cresce invece di diminuire, nonostante l’«annuncite» e il pantano in cui ancora si trova il Paese...

Corriere 8.9.14
Un centimetro e Mille Giorni
di Antonio Polito


Pochi primi ministri italiani hanno goduto delle eccezionali circostanze di cui si avvale Matteo Renzi. Più si addensano nubi minacciose sul nostro Paese, sulla sua economia, sulla sua solvibilità, e più la mongolfiera del consenso personale del leader vola in alto. Più gli economisti fanno fosche previsioni, dividendosi tra pessimisti e catastrofisti, e più gli italiani si affidano all’uomo che li chiama gufi, e che ai loro convegni preferisce i rubinettifici. La nostra situazione, un debito così alto con un’inflazione quasi a zero, è pesante e alla lunga insostenibile, ma Renzi rivendica la sostenibile leggerezza dell’essere e del mangiare gelati. In patria non ha alternative né oppositori; in Europa è pieno di imitatori, come la scena dei blues brothers socialisti, tutti in camicia bianca ieri sul palco di Bologna, ha plasticamente dimostrato; e l’apoteosi della Festa dell’Unità (pur senza Unità), derubrica a broncio i mugugni tardivi di un D’Alema.
Ma gli stessi italiani che nei sondaggi premiano Renzi perché gli riconoscono il piglio del vendicatore anti-establishment, del fustigatore dei privilegi e dei vecchi assetti di potere, si dichiarano scettici sulle misure che sta prendendo per l’economia, non ritenendole le mosse giuste. Matteo Renzi è insomma entrato a buon diritto nel cerchio magico dei leader al Teflon, quei politici fatti del materiale delle padelle cui non si attacca lo sporco: ciò non vuol dire che lo sporco non ci sia.
E in effetti finora, nei duecento giorni già passati, l’azione di governo non ha dato i frutti sperati, come lo stesso ministro Padoan ha di recente riconosciuto. Le due misure prescelte, il bonus di 80 euro e la riforma del Senato, comunque le si giudichi, di sicuro non hanno provocato lo choc di cui l’economia ha bisogno. Anzi, l’indice di fiducia delle famiglie, dopo una prima impennata, è da tre mesi in calo.
L’orizzonte è diventato quello dei mille giorni ma la sensazione è di incertezza sulla direzione di marcia. Per quanto il premier annunci che non cederà di un centimetro, non è chiaro da dove. C’è al Senato la madre di tutte le riforme, quella del mercato del lavoro, annunciata ormai da gennaio, che da sola potrebbe cambiare l’appetibilità del nostro Paese per gli investitori. Ma i segnali sono contraddittori, il linguaggio è prudente, non si vede la determinazione necessaria per liberarsi della giungla di rigidità del nostro Statuto dei lavoratori, e rendere finalmente più facile assumere, prima ancora che licenziare. Sulle privatizzazioni c’è stato un alt. Sulle municipalizzate c’è stato un vedremo. Sulla ristrutturazione della spesa c’è stato un faremo. Sulla pubblica amministrazione si alternano messaggi contrastanti, prima si promettono 150 mila precari assunti nella scuola, poi il blocco degli stipendi per tutti gli statali, poi lo sblocco per i soli statali in divisa. E anche quando si fa, come nel caso dello sblocca Italia, si fa così poco da rischiare un effetto boomerang sulle aspettative.
Questa sorta di limbo autorizza, soprattutto all’estero, il sospetto che in Italia ci sia ancora chi prende tempo, nella convinzione che prima o poi ci penserà la Banca centrale europea con un acquisto massiccio di titoli del debito pubblico, nella speranza di risparmiarsi così scelte troppo difficili e impopolari. Ma il guaio è che, come in un circolo vizioso, più questo sospetto si diffonde e meno Draghi avrà le mani libere, e più Renzi le mani legate.

Corriere 8.9.14
Segreteria unitaria per azzerare il passato
Il premier vuole la nuova generazione della minoranza, per un Pd più compatto
di Maria Teresa Meli


ROMA — «C’è un nuovo gruppo dirigente, che non è più quello di un tempo: non c’è nessun uomo solo al comando». Parola di Matteo Renzi, che per dimostrare plasticamente la veridicità di quel che dice si presenta alla festa con i nuovi leader del socialismo europeo: il premier francese Manuel Valls e il leader del Psoe Pedro Sánchez. Con loro ci sono l’olandese Diederik Samsom e il segretario generale del Pse Achim Post. Indossano tutti la camicia bianca e salutano sorridenti. La photo opportunity con loro non è solo un messaggio all’Europa, dove il premier vorrebbe esportare un po’ di rottamazione. Ma è anche un segnale interno, che gli serve proprio per ribadire il concetto: «C’è un nuovo gruppo dirigente». Il che vale anche per l’Italia, e, segnatamente, per il Pd.
Che cos’altro rappresenta se non questo, anche l’altra foto, quella che fa da copertina al libretto sul successo elettorale delle europee, che viene distribuito alla Festa? Lì ci sono tutti i trentenni e i quarantenni del Pd, di qualsiasi corrente, quelli che si presentarono alla conferenza stampa della vittoria. Una nuova generazione, appunto.
Quella foto serve ad azzerare la vecchia classe dirigente del Partito democratico. A cui vanno i più sentiti ringraziamenti, è ovvio. Renzi pronuncia i nomi dei segretari che lo hanno preceduto e dedica un doppio omaggio a Bersani, che pure lo ha criticato e continua a mostrarsi diffidente anche ora lì, sotto il palco. È un grazie, che è un po’ come archiviare una pratica.
Ora c’è un «tempo nuovo». Talmente nuovo che il leader del Pd non nomina nemmeno Massimo D’Alema (assente alla Festa). È il grazie di chi non vuole aprire nuove polemiche o inimicarsi i «vecchi» leader perché intende coinvolgere nella gestione del partito tutti coloro che sono stati (o stanno ancora) con Bersani e D’Alema, ma che appartengono a un’altra generazione. È a loro che il premier propone di entrare in una segreteria unitaria in cui ognuno si «assuma le proprie responsabilità». Lui per primo, ma pure gli altri, perché «il pantano delle correnti non è più possibile». Non è più il momento di perdersi in «beghe interne»: fuori c’è il Paese che ha bisogno del «più grande partito d’Europa». E il leader di quel partito ha vinto le primarie, ha conquistato il 40,8 per cento dopo la «botta elettorale» delle politiche del 2013, e ora non «può sottostare a veti».
Renzi sa bene che con un Pd unito sarà più facile far marciare i provvedimenti lungo il percorso parlamentare impervio del Senato, dove la maggioranza è risicata. E sarà più difficile per gli alleati del Nuovo centrodestra dettare condizioni o per l’opposizione di Forza Italia offrire il «soccorso azzurro» in cambio di un occhio di riguardo per Silvio Berlusconi.
E allora segreteria unitaria sia, che «c’è bisogno di tutti»: quello che Renzi offre ai bersaniani e ai dalemiani è un patto generazionale.
«Non voglio dare spazio alle polemiche», aveva anticipato il leader ai collaboratori prima di salire sul palco per il suo comizio. E così è stato. Anche se la convinzione del premier è che «le polemiche di questi giorni nei miei confronti non hanno fatto altro che rafforzare il nuovo profilo del Pd». Già. Da una parte c’è il vecchio gruppo dirigente, dall’altra c’è Renzi «con chi vorrà starci» e che, intanto incassa gli elogi e gli apprezzamenti degli altri leader del nuovo socialismo europeo.
I nomi degli esponenti della minoranza che potrebbero entrare nella nuova segreteria unitaria circolano già: i bersaniani Danilo Leva e Manuela Campana e il dalemiano Enzo Amendola. Ma in realtà Renzi preferisce tenere le sue carte ancora coperte e lavorare sotto traccia per raggiungere il risultato.
Per il leader del Partito democratico è un obiettivo importante, ma sia chiaro, e Renzi lo dice senza troppi giri di parole, che se vi saranno dei «no» lui andrà avanti lo stesso, perché non è possibile porre veti per impedirgli di fare «ciò che gli hanno chiesto gli elettori delle primarie, prima, e quelli delle europee dopo».
Quel che il presidente del Consiglio non dice, ma che da giorni si vocifera, benché da lui più volte ufficialmente smentito, è che il premier non si farà logorare e che le elezioni anticipate restano lì sullo sfondo, anche se non volute e non cercate. In quel caso quanti ostacolano Renzi otterrebbero solo di non rivedere più, almeno per la maggior parte, il loro scranno parlamentare. Ma non è certo questo quello a cui mira l’inquilino di Palazzo Chigi che anzi, per spronare il partito, ricorda al Pd che le riforme istituzionali e quella elettorale sono state esplicitamente richieste da Giorgio Napolitano come condizione per accettare il bis al Quirinale.
Ora, come da costume, entreranno nel vivo le trattative per la segreteria unitaria e vi sarà chi cercherà di opporsi in tutti i modi. «D’Alema in primis», sostengono i renziani. Ma anche a lui, come alla minoranza interna, è dedicata la kermesse di ieri a Bologna. Una kermesse per dire che il leader e il Partito democratico sono una cosa sola.

Repubblica 8.9.14
Il leader che spara sul quartier generale
di Ilvo Diamanti

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Repubblica 8.9.14
Matteo e i fedelissimi il Giglio magico è sempre più stretto
di Goffredo De Marchis


ROMA Dal palco di Bologna Matteo Renzi dice «io da solo non ce la faccio» ma la natura è quella: non fidarsi, non delegare, non costruire un vero lavoro di squadra e alla fine fare praticamente tutto da solo. Persino con Graziano Delrio il rapporto personale rimane ottimo, «è il mio fratello maggiore» ripete il premier, ma tutti a Palazzo Chigi hanno notato che il sottosegretario ha perso sicurezza. Non si muove con l’autonomia degli inizi, sempre di più i dossier che passano sul suo tavolo devono finire anche su quello di Renzi. Le pratiche si accumulano, la funzionalità dell’ufficio ne esce indebolita. Non è un caso che Delrio un giorno sì e l’altro pure venga dato in uscita. Una volta alla presidenza dell’Emilia, l’altra in un ministero importante quando si metterà mano al rimpasto. Così, passo dopo passo, si rimpicciolisce il Giglio magico dell’ex sindaco di Firenze. Così il suo studio finisce per assomigliare a un fortino dove gli ospiti sono sempre di meno.
Nella sede della presidenza del Consiglio, oggi, non sono più di quattro gli “amici” ascoltati e convocati dal premier. Il “fratello minore” Luca Lotti, il ministro Maria Elena Boschi, il vicesegretario generale di Palazzo Chigi Raffaele Tiscar e il portavoce Filippo Sensi. Durante le loro riunioni, Renzi, indicando Sensi, lo definisce «l’unico genio seduto qui». Il cerchio della fiducia, come lo chiamava l’ossessivo padre della sposa Robert De Niro nella commedia “Ti presento i miei”, è questo. Con l’aggiunta di Antonella Manzione, ex numero uno dei vigili urbani fiorentini, chiamata a ricoprire il ruolo di capo dell’ufficio legislativo al governo. La sua ascesa è prepotente, anche perché la Manzione lavora 18 ore al giorno ed in contatto continuo con Renzi via sms. Ma la difficoltà di Renzi a fidarsi delle persone resta e crea di fatto una “solitudine“ politica e fisica dentro il palazzo. Con i suoi vantaggi e svantaggi.
È una condizione che non dispiace al premier, sia chiaro. Crearsi dei nemici o dei non amici, gli dà sempre un brivido di piacere. Renzi ha il piglio del capo che scontenta e divide. Quando indicò la lista bloccata dei renziani da spedire in Parlamento, escluse tanti della prima ora e infilò inspiegabilmente altri nomi che non avevano lo stesso pedigree. Il fedelissimo Matteo Richetti, che pure era tra i promossi, commentò: «Ha fatto una strage. Stasera Matteo avrebbe problemi a trovare il quinto per giocare a calcetto». Non è del tutto vero che non si fidi dei tecnici di Palazzo Chigi. «Ce ne sono di bravissimi, lo so. Ma le soluzioni che propongono sono sempre le stesse — spiega —. Aumentare le accise sulla benzina, alzare il prezzo delle sigarette. Io cerco aria nuova, idee nuove». Allora Renzi fa di testa sua e si rivolge a consiglieri improvvisati, volanti. Se pensa al mercato del lavoro chiama direttamente l’ex ad di Luxottica Andrea Guerra: «Tu che faresti? ». Se immagina un intervento sulle tasse, si rivolge in via riservata all’ex ministro Vincenzo Visco. Non passa mai dalla segreteria. Impugna l’Iphone e telefona o spedisce messaggini.
Del resto, le segretarie lavorano all’impronta. Da due mesi Renzi ha individuato il capo della segreteria in Giovanni Palumbo, ex capo di gabinetto a Palazzo Vecchio. Uomo di fiducia, dunque. Ma Palumbo non si è ancora affacciato a Palazzo Chigi.
Dietro questo «casino organizzato », lo schema che diceva di usare Eugenio Fascetti lo scopritore di Cassano, il pericolo è in agguato. Nascono scontri e dualismi. Il gruppo di consiglieri economici del premier si sovrappone a Piercarlo Padoan. Il segretario generale Mauro Bonaretti, scelto da Delrio, viene marcato dal fedele (a Renzi) Tiscar e litiga di frequente con Lotti. La Manzione guida i pre-consigli dei ministri e si confronta anche duramente con i tecnici dei dicasteri, compreso il più importante, Roberto Garofoli, capo di gabinetto dell’Economia. Lo fa compulsando in continuazione il telefonino: «Il presidente dice questo, il presidente chiede questo...». Così non nascono rose e fiori. Eppure Renzi sembra aver capito che la “solitudine” di mille giorni non può pagare. Qualche tecnico ha fatto breccia nel suo cuore. Il caso di scuola è il consigliere Ilva Sapora, capo del cerimoniale, appartenente alla vecchia guardia. Lei si farebbe tagliare un braccio per il premier. E pensare che Renzi le ha ridotto lo stipendio di parecchie migliaia di euro. Un altro segnale è il commento che sarebbe sfuggito a Renzi qualche giorno dopo la scena del gelato nel cortile di Palazzo Chigi: «Mi sono pentito». Governare tutto da solo è un’impresa superiore anche alle forze del premier.

Corriere 8.9.14
E Bersani (citato) si commuove in platea
«Però Matteo non ha la bacchetta magica»
di M.Gu.


Alla Festa Da sinistra: Pier Luigi Bersani, il segretario provinciale del Pd bolognese Raffaele Donini e la eurodeputata Simona Bonafé ieri durante il comizio di Renzi (Ansa) ROMA — La commozione di Pier Luigi Bersani placa le inquiete acque del Pd e apre la via alla gestione unitaria. Quando il leader comincia a parlare l’ex segretario è lì, camicia bianca e giacca blu, a conferma che la «ditta» viene prima di tutto. Proprio a lui, che da giorni spedisce consigli non richiesti all’indirizzo di Palazzo Chigi, Renzi dedica «un ringraziamento doppio» e una battuta affettuosa: «A gennaio ci ha fatto prendere un bel coccolone... Ma poi è tornato grintoso, anche troppo! Il Pd è un partito plurale. Si litiga, ma poi si cammina insieme». Bersani alza gli occhi al cielo e si vede che è commosso, anche perché il premier ha sdoganato quella libertà di critica che a lui sta molto a cuore. «Il Paese non può raddrizzarlo una persona sola, fosse anche la più brava — aveva detto arrivando —. Serve un collettivo che funziona». E il governo, funziona? «La partenza è stata incisiva, ma Renzi non ha la bacchetta magica». Quanto alla segreteria plurale Bersani ci scherza su: «La parola unitaria mi piace da matti, poi bisogna vedere cosa significa». Gianni Cuperlo arriva con Pippo Civati per chiudere con una foto a due l’incidente del mancato invito: «La critica e il pluralismo non vengano letti come un reato di lesa maestà. Non c’è stato nessun invito. Ma confido molto nella festa sulla neve». Battute e lacrime. Anche Vasco Errani si commuove quando Renzi lo loda per il passo indietro non richiesto: «Questo popolo, che è il tuo popolo, ha stima e fiducia in te, che non verrà mai meno». Le polemiche dei giorni scorsi finiscono in secondo piano. L’argomento più insidioso, quello dell’uomo solo al comando, lo disinnesca lo stesso Renzi, abile a sminare il terreno su cui cammina. Dice che un segretario in splendida solitudine «non può fare niente», conferma la scelta della gestione unitaria e però ammonisce: «In un partito del 41% nessuno può pensare di fare da solo, ma il diritto di veto non c’è per nessuno. I due paletti sono questi». Il leader apre e conferma l’intenzione di nominare, venerdì, una segreteria unitaria. Ma i gufi democratici chiudano il becco e i dissidenti non intralcino le riforme. Questo il patto che Renzi propone a Bersani, Cuperlo, Speranza e anche Civati, il quale però medita di rifiutare l’abbraccio: «È il Renzi che conosciamo. Non è che uno è irresponsabile se non entra in segreteria, il Paese si può aiutare anche stando in minoranza». Quindi non entra, onorevole? «Se arriva una proposta articolata, la discuteremo». Tra i nomi in corsa Leva, Campana, Amendola. Però i renziani non escludono «sorprese». Dentro Area riformista la riflessione non è chiusa. Roberto Speranza resta convinto che la segreteria unitaria sia «la strada giusta», ma la firma sotto l’accordo ancora non si vede: «C’è bisogno di condividere un modello di partito, perché il Pd non può essere il partito del governo e l’autonomia non è un tema banale». La gestione unitaria si farà? «Chi non ha votato Renzi entra se c’è lo spazio per dare un contributo vero. Non si va a fare gli orpelli».

«civatiani in segreteria ne vedremo sì o no?»
La Stampa 8.9.14
Civati: “Noi ci siamo soltanto se il segretario cambia linea davvero”
intervista di Francesca Schianchi


«Per il momento di nuovo c’è solo un annuncio, che ho sentito come voi dalla piazza della Festa dell’Unità: poi, che sia accompagnato da una vera proposta, non lo so ancora…», commenta le parole del segretario Renzi su una nuova segreteria unitaria il leader di una delle minoranze Pd, Pippo Civati.
In questi giorni non ci sono stati contatti con lei per discuterne?
«Assolutamente no. Io parlai con il vicesegretario Guerini a luglio, e gli dissi che se la linea rimane questa, non ho intenzione di entrare: sono un politico noioso, resto uno dei pochi che non cambia idea ogni cinque minuti…».
Cosa intende dire?
«Che, come si sa, contesto lo schema generale delle larghe intese e non ho condiviso alcune scelte del governo: su Costituzione, lavoro, legge elettorale, ho un sacco di perplessità. Allora, o si può discutere delle cose veramente, o altrimenti non ha molto senso un membro della segreteria con un sacco di perplessità. Da tempo chiedo un’altra cosa».
Cosa?
«Chiedo una rappresentanza nei gruppi parlamentari, tra chi fa parte dell’Ufficio di presidenza, ed è dal congresso che aspetto una risposta».
Rispetto alla linea del partito dovrebbe rassicurarla che Renzi dica che il segretario non fa da sé...
«È un’apprezzabile autocritica, ma non l’ha molto sviluppata: come ha detto lui stesso, ha parlato un po’ per sms… Non ho elementi ora per sapere se la linea cambia davvero: perché sa, quando a luglio parlai con Guerini, il giorno dopo ci fu l’espulsione di Mineo dalla commissione in Senato. Non mi sembra una scelta da gestione unitaria del partito».
Intanto però Renzi dice che nessuno ha diritto di veto…
«Ma quali sono i veti? Esistono semplicemente opinioni su alcuni punti non coincidenti. A volte i gufi sono immaginari, nella sua testa».
Quindi civatiani in segreteria ne vedremo sì o no?
«Solo se sarà possibile discutere questioni per me rilevanti. Se si inaugura una nuova linea più comprensiva delle articolazioni del Pd, allora ne discutiamo, se invece funziona che Renzi dice una cosa e chi non è d’accordo si arrangia, allora no».
Nei giorni scorsi ci sono state polemiche sul suo mancato invito proprio alla Festa dell’Unità, problema risolto?
«Io non volevo fare polemica, ho solo spiegato che non potevo partecipare visto che mi hanno dato una sola opportunità e avevo un altro impegno. Mentre Cuperlo se lo sono proprio dimenticato: forse l’sms per lui è rimasto nelle bozze del telefonino… Ma non è un problema: dico solo che la Festa dell’Unità deve essere un luogo di pluralismo dove tutti possono esprimersi. Se loro pensano di averlo fatto, beh, auguri!».

Repubblica 8.9.14
Nuova protesta al Cie di Ponte Galeria: immigrati sul tetto gridano "Liberi, liberi"
Fuori della struttura una manifestazione di solidarietà. Venerdì scorso alcuni migranti reclusi nel centro di identificazione avevano incendiato i materassi

qui

Corriere 8.9.14
Alfredo Robledo, procuratore di Milano
La politica punta al controllo totale dei magistrati
di Giuseppe Guastella


PIETRASANTA (Lucca) — È in corso «una manovra che tende al controllo totale della magistratura», un’azione a tenaglia del potere politico che minaccia l’indipendenza della magistratura e che approfitterebbe delle mosse del Presidente della Repubblica, mettendo in pericolo la democrazia e la stessa libertà degli italiani. È la tesi di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto di Milano protagonista da mesi di uno scontro al calor bianco senza precedenti con il capo dell’ufficio Edmondo Bruti Liberati. Prepensionamento dei magistrati e aumento del potere nelle mani dei procuratori capo sono a parere di Robledo le due ali di una strategia che vuole limitare l’indipendenza del potere giudiziario sottomettendolo a quello politico. «Sembra quasi che il prepensionamento sia solo una questione sindacale», dice Robledo intervenendo a Marina di Pietrasanta alla festa del Fatto quotidiano . Invece, dietro la decisione di anticipare a 70 anni il limite d’età per i magistrati in servizio, si nasconderebbe una precisa volontà di far «saltare la struttura direttiva della magistratura» italiana per sostituirla con una meno impermeabile alle pressioni della politica. Una scelta che potrebbe incorrere nei rigori della Corte di giustizia europea, che ha già condannato l’Ungheria che nel 2011 fece una cosa analoga che era stata «bocciata anche dalla Corte costituzionale ungherese» perché «contraria al principio di amovibilità dei magistrati e discriminatoria». A selezionare i nuovi capi sarà un Csm in cui i membri togati sono l’espressione della «degenerazione delle correnti» mentre quelli laici, dopo l’accordo del Nazareno Renzi-Berlusconi, «saranno nominati dal potere della maggioranza politica». Robledo è convinto che per ottenere l’incarico i candidati alla guida degli uffici giudiziari dovranno «sottoscrivere una cambiale che poi sarà presentata a pagamento chiedendo conto dell’aiuto che è stato dato loro». A «chiudere il cerchio» c’è la gerarchizzazione delle procure. Non parla della sua vicenda, ma si richiama ad essa quando fa riferimento alla «interpretazione suggerita dal capo dello Stato» sul ruolo guida dei procuratori che sarebbe stata «accolta dal Csm andando contro tre sue disposizioni precedenti». Gli applausi scrosciano quando fa notare che sono stati i giornali a parlare di «pressioni evidenti» sulle «commissioni del Csm che hanno cambiato le loro conclusioni dopo l’intervento fantasmagorico del capo dello Stato».

Corriere 8.9.14
L’Istituto elementare con due classi per soli italiani
di Nicola Catenaro


PRATOLA PELIGNA (L’Aquila) — Aule con soli italiani e aule miste. A Pratola Peligna, comune di circa 8 mila abitanti in provincia dell’Aquila, la campanella dell’istituto comprensivo «Gabriele Tedeschi» rischia di dare l’inizio non solo alle lezioni ma anche alle polemiche sulla nazionalità degli alunni. Basta un’occhiata agli elenchi di nomi che compongono le quattro prime classi delle elementari nei due plessi di piazza Indipendenza e Valle Madonna: in sole due classi (una per plesso), quelle che per una coincidenza sono denominate «B», si trovano ragazzi stranieri. Cognomi di nazionalità diversa da quella italiana sono invece assenti nelle altre due. Lo ammette, con sconcerto, il sindaco Antonio De Crescentiis, dopo le verifiche effettuate a scuola: «È stata la conseguenza di scelte avvenute nelle more del passaggio di consegne tra il preside precedente e l’attuale, che è in servizio dal 1° settembre e ha preso subito le distanze dall’accaduto. Non so se ci siano state pressioni da parte delle famiglie sugli insegnanti per evitare che i figli capitassero in una classe o in un’altra. Sarà il preside a fare chiarezza, certo la cosa preoccupa perché qui finora non abbiamo mai registrato fenomeni di intolleranza». A Pratola Peligna ci sono circa 600 extracomunitari, per il 90% di origini albanesi. Finora mai nessun problema, ripete il sindaco: «Ma se qualcuno dei nostri concittadini la pensa diversamente e ci sono insegnanti disposti a sostenerli dovremo riconsiderare tutto». Già stamattina il preside, Raffaele Santini, dovrebbe intervenire annullando gli elenchi attuali e ricomponendo le classi con sorteggio.

il Fatto 8.9.14
Quando è depressa la società
di Marina Valcarenghi


Recentemente il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelski invitava pubblicamente Napolitano a difendere i principi cardine della nostra Costituzione. Ricordava come nessuna carica dello Stato avesse reagito quando, l’anno scorso, J.P.Morgan, una delle più potenti banche d’affari del mondo, aveva invitato i paesi europei a correggere le loro Costituzioni troppo influenzate dalle idee socialiste che serpeggiavano dopo l’ultima guerra. Come dire: lasciateci fare i nostri affari senza vecchie inutili norme su libertà e giustizia sociale. Nel mio ultimo libro l’anno scorso avevo fatto l’identica allarmata constatazione di Zagrebelski, chiedendomi con quale diritto una banca si permetta di attaccare un Paese nei principi fondamentali del suo patto sociale, e denunciando quell’assordante silenzio istituzionale. Se un pugno di banche d’affari tiene in scacco la politica, è comprensibile che una certa timidezza nel difendere l’autonomia di uno Stato dipenda da questa perversa situazione; ma c’è un limite a tutto e da qualche parte sarà pur necessario ricominciare a difendere da ripugnanti ingerenze i principi fondamentali della convivenza civile. Stiamo assistendo allo sgretolamento delle istituzioni repubblicane nell’indifferenza totale; il governo sta accogliendo le richieste della J.P.Morgan, in assenza di un’opposizione degna di questo nome e di capacità reattiva da parte della gente. Dal punto di vista della psicoanalisi sociale ci troviamo in una fase depressiva che riguarda l’intera collettività italiana, diversamente da quanto accade in altri paesi. Ma una depressione, anche quando colpisce un’aggregazione sociale, la si può superare guardando in faccia il disastro nasce. Il rischio, se no, è un circolo vizioso: più siamo depressi, più distruggono il Paese, più distruggono il Paese e più siamo depressi. È la decadenza.

La Stampa 8.9.14
La (confusa) rivoluzione del divorzio
di Carlo Rimini

Ordinario di diritto privato all’Università di Milano

La lettura delle norme relative alla separazione e al divorzio contenute nel decreto-legge sulla giustizia civile è un’esperienza che suscita, allo stesso tempo, entusiasmo e sconforto.
Partiamo da un dettaglio, nascosto nel corpo dell’art. 19 apparentemente dedicato ad un tema lontano dalla crisi del matrimonio: «Misure per l’efficienza e la semplificazione del processo esecutivo».
Al comma 5, di un articolo lungo alcune pagine, è previsto che l’Archivio dei rapporti finanziari tenuto dall’Agenzia delle Entrate – cioè l’immensa banca dati che contiene gli estremi dei rapporti economici di ciascuno di noi (costruita principalmente con lo scopo di contrastare l’evasione fiscale) – possa essere utilizzata dal giudice nelle cause di separazione e di divorzio. Il giudice potrà accedere alla banca dati direttamente, avvalendosi dell’ufficiale giudiziario. Si tratta di una innovazione importante per il nostro diritto di famiglia: è l’introduzione, anche nel nostro processo, della regola della trasparenza sui redditi e sul patrimonio di ciascuno dei coniugi, principio da anni seguito negli ordinamenti giuridici con cui siamo abituati a confrontarci. Con un semplice accesso informatico alla banca dati, il giudice potrà acquisire informazioni sui beni posseduti e l’elenco dei rapporti bancari e dei depositi intestati ai coniugi; quindi potrà conoscere le operazioni da ciascuno di essi effettuate. L’utilizzazione di questo nuovo strumento, o anche solo la minaccia di utilizzarlo per verificare la rispondenza al vero delle informazioni fornite spontaneamente dalle parti, permetterà di risparmiare le energie infinite attualmente spese per ricostruire i redditi effettivi, il patrimonio e il tenore di vita della famiglia. È però sconfortante che la tecnica legislativa sia quella a cui purtroppo siamo abituati da anni: articoli di legge lunghissimi, illeggibili per chiunque non sia un tecnico (e spesso anche per i tecnici), norme inserite in articoli che, stando al loro titolo, dovrebbero occuparsi di tutt’altro, totale assenza di un disegno organico.
Suscitano stupore anche le norme che riguardano i presupposti della separazione e del divorzio. Gli articoli 7 e 8 del decreto prevedono che, nell’ipotesi in cui non vi sono figli minorenni, la separazione e il divorzio possano essere semplice effetto di un accordo dei coniugi formalizzato davanti a un avvocato o all’ufficiale di stato civile. Si tratta di una riforma epocale, anche se viene confermato che per il divorzio è necessario che siano passati tre anni di separazione (tempo che peraltro il Parlamento si accinge a ridurre in misura consistente). Una riforma che improvvisamente fa dell’Italia uno Stato in cui la procedura per ottenere il divorzio è fra le più sbrigative al mondo: quasi ovunque è infatti necessaria la sentenza di un giudice; nei pochi Stati in cui è possibile ottenere un divorzio «amministrativo» è generalmente richiesta una formalizzazione notarile. Viene demolito per decreto un principio attorno a cui è costruita dal 1970 la nostra legge sul divorzio: la regola per cui lo scioglimento del matrimonio non può essere l’effetto del semplice accordo dei coniugi ma presuppone l’accertamento da parte del giudice della impossibilità di ricostituire l’armonia familiare. Era certamente un principio vecchio – frutto della mediazione di cui la nostra legge sul divorzio è figlia – che andava sostituito da regole nuove. Ma riformare significa costruire principi nuovi e renderli coerenti con il sistema esistente, non demolire senza badare a cosa rimane in piedi e dove finiscono le macerie. Invece la vecchia legge sul divorzio non viene modificata e resta in vigore con l’arcaico tentativo di conciliazione e con la descrizione del divorzio come estremo rimedio concesso dal giudice di fronte all’accertamento dell’impossibilità di ricostituire la comunione spirituale fra i coniugi. La nuova norma si limita ad affiancare la vecchia prevedendo che l’accordo dei coniugi (se non ci sono figli) «produce gli effetti» della sentenza del giudice. È difficile capire come due principi tanto diversi possano stare assieme e quali saranno gli effetti di questa convivenza. Solo la fretta e la mancanza di un disegno organico possono giustificare il risultato.

Repubblica 8.9.14
Gaza, Abu Mazen avverte Hamas: "Non accetteremo potere condiviso"
Il presidente palestinese minaccia di rompere l'accordo di unità nazionale se al governo non sarà consentito di operare adeguatamente

qui

Corriere 8.9.14
Le ambiguità della Francia dalla sconfitta alla vittoria
risponde sergio Romano


Ho trovato molto comprensivo nei riguardi dei francesi il suo commento delle scorse settimane sulle caratteristiche dello Stato di Vichy. Forse con gli Usa non sarebbe stato altrettanto moderato. Che la Francia sia passata alla fine della guerra come un vincitore è un’ingiustizia che andrebbe menzionata. Non solo è inesatta l’affermazione del suo lettore che il governo Pétain sia stato imposto dai tedeschi, ma lo è anche quella che tale governo sia stato instaurato «dopo» l’armistizio, il che potrebbe avvalorare tale inesattezza, ma Pétain fu nominato dal parlamento costituzionale di Bordeaux il 16 giugno 1940, e l’armistizio fu firmato il 22 giugno. È inutile sottilizzare, la Francia, a voler essere buoni, tenne il piede in due scarpe: quella tedesca con Pétain e quella alleata — chissà quanto volontariamente e più tardi — con De Gaulle a Londra. Si comportò come le grandi famiglie le quali, prudentemente, allo scoppiare di una rivoluzione con speranze di successo, inviano il figlio cadetto a fare il rivoluzionario.
Agostino Castiglioni

Caro Castiglioni,
La storia, come scrisse Benedetto Croce, non è «giustiziera», e gli storici, aggiungo, non sono giudici di tribunale, autorizzati a emettere sentenze. Con la risposta da lei ricordata ho cercato di spiegare che la Francia di Vichy non fu soltanto il frutto di una sconfitta. Fu anche il risultato di una lunga crisi che aveva fortemente intaccato l’autorità e la credibilità della democrazia parlamentare. Quanto all’ingiustizia che sarebbe stata commessa trattandola, dopo la guerra, come un Paese vincitore, credo che occorra aggiungere al quadro qualche particolare.
Esiste anzitutto, come nella storia dell’antifascismo italiano, una frontiera temporale. Fino alla seconda metà del 1942 una larga parte della classe dirigente francese si comportò come se la vittoria della Germania fosse molto probabile, e fu preoccupata soprattutto dal desiderio di creare le condizioni affinché il loro Paese, dopo la guerra, avesse col vincitore un rapporto speciale. Il caso di Parigi è particolarmente interessante. Qui l’intellighenzia accettò di convivere con gli occupanti perché era lusingata e sedotta dal rispetto e dall’ammirazione che molti tedeschi sembravano riservare alla capitale francese. Molti sperarono che anche in una Europa tedesca Parigi sarebbe sempre stata Parigi.
Il clima politico cambiò, gradualmente, quando la Germania subì, in Russia e in Africa del Nord, le sue prime sconfitte. I passaggi alla Resistenza divennero sempre più frequenti e le azioni dei partigiani sempre più efficaci. Le autorità di Vichy nelle colonie cominciarono a collaborare con gli Alleati. Il generale De Gaulle acquisì un maggiore valore e la sua crescente popolarità nell’opinione pubblica francese garantì a Londra e a Washington un interlocutore scomodo, ma sicuro. La collaborazione militare francese in Europa, dopo lo sbarco in Normandia, fu limitata, ma non insignificante. Se la Francia fu considerata vincitrice ed ebbe un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza, la ragione, comunque, fu politica. Il presidente americano, a cui De Gaulle non piaceva, sarebbe stato meno generoso, ma Churchill era convinto che un Francia autorevole fosse necessaria, tra l’altro, per tenere a bada la Germania del futuro. Per la sua storia, le sue tradizioni e la sua cultura la Francia era necessaria all’Europa. Infliggerle un’altra umiliazione avrebbe reso la ricostruzione politica ed economica del continente ancora più difficile. Conviene ricordare infine, caro Castiglioni, che la Francia ebbe il merito di concepire e lanciare un ambizioso progetto per l’unificazione dell’Europa. Nessun altro Paese europeo, in quelle circostanze, avrebbe potuto farlo.

il Fatto 8.9.14
Archeologia italiana
Kubilai Khan e la grande tempesta che cambiò la storia
di Marco Merola


Il tifone Halong è passato da pochi giorni ma il cielo, come dicono da queste parti, piange ancora. Da secoli agosto è un mese nero per Takashima. L’isola del sud del Giappone viene travolta da piogge e venti terribili che spazzano via qualunque cosa trovino sul loro cammino. Nel 1281 vi incappò anche la mitica flotta di Kubilai Khan, nipote di Gengis, giunta davanti alla costa con l’obiettivo di penetrare e conquistare l’ultimo paese dell’Asia che ancora mancava al già immenso impero mongolo. Nessuna nave, però, arrivò mai a destinazione e nessun soldato scese mai a terra. I kamikaze (in giapponese “venti divini”) non lo permisero. La vicenda, ben illustrata sugli antichi emakimono (letteralmente “rotoli dipinti”, sorta di lunghe pergamene fatte di carta di riso), fino a ieri ispirava le favole che i papà e le mamme giapponesi raccontavano ai loro piccoli prima di dormire. Nessuno ci credeva veramente e invece… era vera.
UNA MISSIONE archeologica italo-giapponese composta da esperti dell'Asian Research Institute for Underwater Archaeology, dell'International Research Institute for Archaeology and Etnology (IRIAE) di Napoli e della Soprintendenza del mare della Regione Siciliana ha trovato proprio nelle acque di Takashima fasciame delle navi, ancore, armi, oggetti della vita di bordo, mortai, un vero e proprio tesoro sommerso che richiederà anni per essere studiato approfonditamente. Le ricerche della flotta termineranno domani ma saranno riprese l’anno prossimo. Secondo le fonti (di parte mongola, va detto) l’armata del nipote di Gengis era composta da 4500 navi e trasportava 140mila uomini. Se fosse vero ci troveremmo di fronte al più imponente contingente navale della storia dopo quello che sbarcò in Normandia nel 1944 (circa 160mila unità). I numeri, forse, sono stati accresciuti dalla propaganda dell’epoca ma la strategia d’attacco, questo è certo, fu studiata nei minimi particolari. Kubilai, infatti, prendendo come modello una delle tattiche codificate ne “L’arte della guerra” dal filosofo-guerriero cinese Sun Tzu, pensò di aggredire il Giappone con una manovra a tenaglia. I preparativi furono lunghi e complessi. Raccontano le Yuan shi (“cronache degli Yuan”, nome dinastico con cui i mongoli presero a chiamare loro stessi e tutti i popoli sottomessi) che oltre ad assegnare il comando di 100000 uomini a tali Fan e Xindu l’Imperatore abbia chiesto aiuto ai coreani (altro popolo ormai ‘mongolizzato’). Questi risposero fornendo 25000 soldati, 15000 marinai, 900 navi e ingenti riserve di grano. I capi militari organizzarono così un'armata "bicefala" che, cioè, sarebbe dovuta arrivare in Giappone da due direzioni diverse (la tenaglia, appunto), entro il mese di febbraio del 1281.
I quarantamila uomini provenienti da Happo (odierna Pusan), nel sud della Corea, sarebbero approdati sull’isola giapponese di Iki, conquistandola, e lì si sarebbero ricongiunti con i 100000 partiti dal porto di Quanzhou, nella Cina meridionale. Insieme le due flotte avrebbero proseguito il viaggio verso la loro meta finale: la baia di Hakata.
Le truppe sino-mongole, però, a causa di vari problemi tardarono molto all'appuntamento, circa sei mesi. A bordo delle navi di Kubilai, del resto, c'erano pochi marinai esperti (i cinesi) e molti guerrieri 'di terra', cavalieri abituati a percorrere le steppe e arcieri abilissimi negli spazi aperti. La loro inadeguatezza alla missione assegnata era palpabile.
Insomma, i coreani aspettarono un po' i ‘colleghi’ e poi decisero di attaccare da soli. Il 10 giugno 1281 Iki fu presa. Ma quando tentarono di entrare nella baia di Hakata trovarono ad aspettarli i samurai con le spade sguainate e furono ricacciati indietro. E la flotta partita dalla Cina dov’era? Dopo aver arrancato tra le onde per mesi arrivò a 'vedere' le coste giapponesi. Appresa la notizia dell'attacco coreano tentò di raggiungere Hakata per dare manforte agli alleati ma non arrivò mai a destinazione. Mentre transitava di fronte a Takashima, infatti, fu colpita alle spalle da quella che ancora oggi viene chiamata ‘Corrente nera’: il tifone. Era il 15 agosto 1281.
Il gigantesco turbine si abbatté su tutta la regione con la forza di una bomba atomica, sradicando alberi e spazzando via cose e persone. Centinaia di imbarcazioni furono sbattute sulla costa o si scontrarono tra loro e affondarono subito, morirono, si calcola, almeno 50000 guerrieri. La scena dovette essere apocalittica. Passata la tempesta i sopravvissuti si difesero dai giapponesi che li incalzavano usando delle strane armi. Quando gli archeologi hanno capito cos’erano quasi non riuscivano a spiegarlo, tanta era l’emozione… “Sono Tepp, delle bombe esplodenti da lancio composte da un globo di ceramica ripieno di polvere da sparo e schegge di ferro” spiega Daniele Petrella, capo della componente italiana della missione e presidente dell’IRIAE. “Ne abbiamo trovati vari esemplari già esplosi ma uno, per nostra fortuna, era intatto, così abbiamo potuto sottoporlo ai raggi X ed abbiamo capito cosa conteneva”. Queste bombe (che venivano lanciate con delle catapulte a peso) compariranno in Europa solo verso la metà del ‘400.
L'archeologia subacquea ha i suoi tempi e i suoi ritmi (lenti) e questo è tanto più vero in Giappone dove, mancando le tecnologie d’indagine ormai largamente utilizzate in tutto il mondo (il side scan sonar, ad esempio), si procede a piccoli passi. “Meglio i vecchi sistemi” è la frase che ripetono spesso gli studiosi nipponici.
OGNI GIORNO un’imbarcazione messa a disposizione dalla Prefettura di Nagasaki (che ha la competenza amministrativa sul territorio di Takashima) viene a prelevare gli archeologi italiani e giapponesi che attendono al molo già divisi in piccole squadre di ricognizione da 4-5 unità.
Arrivati sui punti prescelti i sub si immergono e stanno giù 40-45 minuti. Al termine della sessione si torna al 'quartier generale', una sala riunioni all'interno del locale Museo archeologico. Nel padiglione principale dell’edificio ci sono delle immense vasche riempite con acqua di mare, al loro interno riposano i legni delle navi mongole. “Esporli all’aria significherebbe condannarli alla distruzione” assicurano gli esperti.
Dopo il pranzo a base di sashimi, il professor Hayashida Kenz, capo della missione giapponese, tiene un briefing sull'andamento della campagna.
Gli italiani sono fieri di sentirsi accettati e rispettati in un paese che non ha permesso a nessun altro archeologo occidentale di venire a scavare entro i propri confini e i giapponesi sono felici di aver dato corpo ad un fantasma, quello di Kubilai. Il povero imperatore, invece, dopo la spedizione nipponica cadde in disgrazia. Gli erano già morti Chabi, moglie e fidata consigliera e il figlio Zhenjin, erede al trono. Il Khan, schiacciato dal peso del dolore e dal crollo della sua politica divenne obeso ed alcolizzato. Avrebbe voluto organizzare un altro assalto al Giappone ma non fu in grado di concretizzare il progetto. Anche se la stella del nipote di Gengis è finita nella polvere alla sua flotta vada l'onore delle armi, ora che la leggenda sta facendo posto alla storia sappiamo che si scontrò con un nemico molto più potente di lei.

il Fatto 8.9.14
Dinastia mongola
La grande innovazione fu introdurre la Costituzione
di M. Mer.


La dinastia Menku (da cui il termine ‘mongoli’ nella versione latinizzata) nacque all’inizio del XII secolo per volere del temuto e famoso Gengis Khan, il quale, per la prima volta nella storia, unificò sotto un unico potere centrale numerose tribù delle steppe sub-siberiane che fino ad allora avevano vissuto in regime nomadico.
LA GRANDE innovazione fu la creazione di una “costituzione”, sorta di raccolta di leggi a cui dovevano sottostare tutti coloro che erano stati cooptati in questa nuova realtà etnica. La stessa elezione del Khan, al contrario di quel che si possa pensare, avveniva con meccanismi quasi democratici. Il re dei re non veniva imposto al popolo, ma proposto e poi votato, anche se non da tutti. Alle urne, infatti, erano chiamati a esprimere la propria preferenza soltanto gli aristocratici che potevano scegliere tra più candidati. Uno di questi era sponsorizzato direttamente dal Gran Khan e, guarda caso, spesso vinceva. Insomma. Una sorta di democrazia vigilata, ma che non è molto distante da metodi che vengono usati ancora oggi.
Kubilai diventò Gran Khan nel 1260 ereditando dal suo predecessore Mongke (figlio di Gengis, lui ne era il nipote) un regno che andava dal confine orientale della Persia alla Cina settentrionale. In seguito, nel 1279, riuscì a conquistare anche il sud del paese raggiungendo un obiettivo sfuggito sempre ai suoi predecessori, riunificare il ‘Regno di Mezzo’ e diventarne Imperatore col nome di Shizong.
Costruì un impero multietnico che aveva alla base un valore incrollabile, la tolleranza verso tutte le culture, religioni e tradizioni. Naturalmente un’attenzione particolare la riservò ai cinesi di cui rispettava profondamente la storia e, soprattutto, il peso politico (rappresentavano circa il 50 per cento della popolazione).
Dopo un periodo di governo relativamente tranquillo in cui non c’erano più guerre di conquista da portare avanti nel continente asiatico, compì un’ultima rivoluzione copernicana, cambiare il nome della sua dinastia. Da Menku in Yuan, un nome cinese. Ma fu da quel momento, più omeno, che iniziarono i problemi che culmineranno in una grande sconfitta con la storia…
I suoi consiglieri mongoli lo accusarono di essersi sinizzato a tal punto da perdere le radici della sua cultura. Kubilai ormai celebrava le festività cinesi, vestiva secondo la moda cinese, insomma si era allontanato da quell’ideale di leader e condottiero mongolo votato alla conquista e all’aggressione di civiltà altre cui imporre il proprio dominio.
I CONSIGLIERI arabi gli contestarono un uso irrazionale e irresponsabile dei fondi - che erano immensi - dell’Impero, sperperati, a loro dire, in più di un’occasione. Prima per il fallimentare tentativo di invasione del Giappone nel 1274, poi per sostenere l’ultima guerra interna contro i Song che portò all’unificazione.
I sudditi cinesi, infine, da loro parte, continuavano a considerarlo il barbaro conquistatore che li aveva sottomessi con la forza.
Così nel 1281 Kubilai fece una scelta radicale: provare di nuovo, e con più determinazione, a conquistare il Giappone. In tal modo, pensò, avrebbe accontentato tutte le componenti del suo Impero. Sarebbe tornato ad essere il guerriero che tutti avevano idealizzato, avrebbe rimpinguato le casse con saccheggi e imposizione di tasse agli sconfitti e avrebbe sottomesso l’unico paese che mai nella storia era diventato tributario della Cina.
Il Khan, a quel punto, come un disperato giocatore d’azzardo giunto all’ultima e decisiva mano di poker, investì tutte le residue finanze sull’impresa nipponica che non andò a buon fine. Fece forgiare armi e cucire armature per decine di migliaia di soldati e rastrellò le provviste e i raccolti di tutti i sudditi. Poi ordinò di restaurare alla meglio alcune navi fluviali sottratte ai Song e armò una delle più grandi flotte della storia antica. Ma proprio come succede in una partita a carte nata sfortunata, la sorte gli girò le spalle, fin da subito. La sua scommessa, il suo sogno e le sue brame di conquista finirono in fondo al Mar del Giappone insieme alla sua credibilità. Il destino della sua dinastia era ormai irrimediabilmente scritto.

Corriere 8.9.14
Ripensare la Germania con Mann e Meinecke
di Luciano Canfora


In un libro pubblicato in Italia da Mondadori nel 1946, La conquista morale della Germania , il pubblicista tedesco, di origine ebraica, Emil Ludwig, suggeriva, tra le misure urgenti: «Non basta che spariscano dalla scena i lavori teatrali dell’èra hitleriana: bisogna anche proibire la Tetralogia di Wagner. Essa ha fatto, con la sua forza suggestiva, più male di tutti i libri nazisti perché in essa si trovano lampi di genio e l’impressione che produce è così potente che anche l’ascoltatore poco versato nella musica si trova incitato a conquistare il mondo, a venir meno ai giuramenti, a commettere tutti i delitti dei quali si sono poi macchiati i nazisti». Il libro si apre con una precisazione: «Il carattere nazionale è una realtà che riassume i tratti distintivi di un popolo considerato nel suo complesso, anche se alcuni degli individui che lo compongono non li possiedono». Poco dopo apparve presso La Nuova Italia, La catastrofe tedesca di Friedrich Meinecke, edito in Germania anch’esso nel 1946. Meno drastico di Ludwig, ugualmente severo con la storia tedesca culminata nella catastrofe del 1945, stabiliva un filo negativo a partire dall’affermarsi del militarismo prussiano. E in uno degli ultimi capitoli si poneva anche il quesito se ci fosse «un avvenire per l’hitlerismo», paventando addirittura che «in virtù della sua superiorità demagogica che gli è conferita dal suo metodo di conquista delle masse, esso non sia destinato a diventare la forma di vita dominante nell’Occidente».
Nei 70 anni che ci separano dalla «catastrofe» analizzata da Meinecke sono intervenuti mutamenti epocali, anche se un osservatore attento non può non essere sensibile alla questione posta dal grande storico, scomparso nel 1954, e soprattutto alla sua intuizione veridica: essere stato cioè il nocciolo dell’hitlerismo la capacità di conquista demagogica delle masse. Chi se la sente di negare che il problema è sempre sul tappeto? In certo senso il liberale Meinecke non si discosta molto (ovviamente senza conoscerla) dalla nota di diario del comunista Bertolt Brecht, scritta durante l’esilio americano: «Un fascismo americano sarebbe democratico» (intendeva dire: eviterebbe di ferire alcune esteriorità dei sistemi rappresentativi). Del resto anche Thomas Mann, nel discorso di Hollywood del 1948, lanciò l’allarme di fronte ai prodromi del maccartismo e non eluse certo il concetto di «fascismo».
Oggi la Germania è il perno dell’Unione Europea e il guardiano delle sue rigide regole economiche. Di queste soltanto, giacché gli altri campi dell’agire umano (dai problemi della guerra e della pace ad altri molto più specifici) non hanno in verità visto svilupparsi alcuna «unione». Perciò la Germania torna ad essere impopolare presso l’opinione pubblica dei Paesi che più patiscono dell’asserita, e vigorosamente presidiata, immodificabilità di «parametri» e «vincoli». Una impopolarità forse non così aspra come quella documentata dal libro di Emil Ludwig, ma certo difficilmente sanabile con le prediche .
Nascono perciò da ultimo libri di due generi: quelli che cercano, affettuosamente argomentando, di attutire quella diffusa avversione e quelli che, invece, mettono in relazione la riacquisita egemonia tedesca sull’Europa con i modi (e i costi) con cui, a partire dal novembre 1990, si attuò la riunificazione tedesca. L’infittirsi stesso della pubblicistica sull’argomento dimostra che un «problema tedesco» esiste oggi più che mai, ben diverso — s’intende — da quello cui vanamente cercavano di dare una soluzione, negli anni della guerra fredda, le periodiche conferenze tra i vincitori sul «problema tedesco». Nel primo gruppo porrei due saggi: Cuore tedesco di Angelo Bolaffi (uscito da Donzelli nel 2013) e il nuovo Europa tedesca, Germania europea di Luigi Reitani (Salerno, pp. 104, e 7,90), in uscita il 17 settembre. Nell’altro gruppo porrei il saggio, molto documentato e illuminante, di Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione: l’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur editore). L’idea dominante di Reitani, il quale, come germanista, ha dedicato molte energie alla teoria e alla pratica della traduzione, è condensata in questa osservazione: «Prima ancora che economica, politica e sociale, la questione europea è oggi in primo luogo una questione culturale. Il vero problema dell’Unione non è il mantenimento del patto di Stabilità o l’alternativa tra una politica di contenimento della spesa pubblica e quella di un incentivo alla crescita, ma il superamento delle barriere che impediscono la reciproca comprensione». Il pensiero verso cui converge il libro di Bolaffi è: «Tocca ai tedeschi assumersi la responsabilità storica di salvare l’Europa, dopo averla affondata due volte in passato. Ed è necessario che esercitino con saggezza e lungimiranza l’egemonia che loro compete».
Merito rilevante del libro di Giacché è di aver ricostruito, con gli strumenti dell’analisi economica, le modalità dell’unificazione o meglio annessione dei Länder dell’ex Germania Est: deindustrializzazione dell’ex Ddr, perdita di posti di lavoro in quei Länder, emigrazione di massa verso Ovest. L’interrogativo, non allegro, che il libro ci propone è se non si stia assestando in modi analoghi l’attuale riunificazione «tedesca» dell’Europa .

il Fatto 8.9.14
Vestfalia, quel parco per guarire
di Maurizio Maggiani

Nel mezzo della Vestfalia c’è un parco che è grande come una grande città e tutto intorno al parco c’è una città non più grande di un qualunque parco di quelli che si trovano ogni tanto in mezzo alle città. Nel parco ci sono boschi di querce, di ontani, di betulle e pini, ci sono torrenti e laghi, ci sono giardini e fontane. Ci sono anche padiglioni in vario stile neogotico, neoclassico e neo-barocco, ambienti arieggiati e luminosi adatti ad ascoltare la musica, a leggere in silenzio e a conversare sottovoce. Qua e là passeggiano cervi e s’involano uccelli.
Il parco è stato progettato un secolo e mezzo fa perché potesse andarci chi non riusciva a guarire delle sue malattie con le medicine e i medici. Ancora oggi è così, infatti la piccola città è fatta tutta di cliniche dove l’unica cura è accompagnare i clienti nel parco se non ci riescono da soli, e di casette abitate per il tempo necessario da chi se la cava per conto suo. Ci arrivano rantolanti, claudicanti, ansimanti, scheletriti, obesi, smemorati, confusi, resecati, amputati, uomini e donne a frotte, da tutta la regione e oltre. Li ho visti. Li ho visti nel parco abbracciare alberi alti come grattacieli, parlare a cervi con corna di due metri, leggere libri di mille pagine almeno, immergersi nelle acque fino alle anche. E li ho visti dalle vetrate delle cliniche la sera affondare pensosamente lo sguardo in colline di salsicce, in foreste di crauti, in cotolette vaste come laghi. Non so se guariscono, ma se è li che vanno a morire, io mi prenoto.

Corriere 8.9.14
Al Festival di Toronto un film ispirato alla lo studioso biografia del  scritto dalla ex moglie
Amori e sfide di un astrofisico: la vita coraggiosa di Hawking
Redmayne: ho studiato ogni gesto segnato dalla malattia
di Giovanna Grassi


Nato a Oxford
Fisico, matematico e astrofisico tra i più importanti del mondo, Stephen Hawking è nato a Oxford l’8 gennaio 1942
I buchi neri
È noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri e l’origine dell’universo. Nel 1988 ha pubblicato il suo capolavoro «Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo»
La sindrome
A 13 anni Hawking è stato colpito da una malattia del motoneurone, una sindrome degenerativa che via via lo ha costretto all’immobilità e a comunicare con un sintetizzatore vocale

TORONTO — Se l’anno scorso il Festival di Toronto segnò l’inizio della corsa verso l’Oscar di 12 anni schiavo, il film di Steve McQueen ispirato all’autobiografia di Solomon Northup, nella 39esima edizione un applauso lungo e commosso ha accolto la fine della proiezione di The Theory of Everything , tratto, secondo una forte tendenza del cinema del nostro tempo, da un’altra biografia. Perché sempre più spesso lo schermo si affida alla realtà, alle fratture, conquiste e perdite, effetti e affetti speciali di vite vere.
Infatti, il film diretto da James Marsh, premio Oscar per il documentario Man on Wire - Un uomo tra le Torri , ricostruisce, tra privato (poco noto) e pubblico, l’esistenza, le passioni e le ricerche dell’astrofisico, matematico e cosmologo britannico Stephen Hawking. E in particolare il suo matrimonio, durato un quarto di secolo (dal 1965 al 1991), con Jane Wilde. Dalle memorie della donna, Travelling to infinity: my life with Stephen , è stato tratto il copione con una documentata sceneggiatura di Anthony McCarten che Felicity Jones ha interpretato con squisita sensibilità e complessità.
«Ci sono affinità tra il mio documentario sul funambolo sospeso nello spazio su una corda d’acciaio — spiega Marsh — e questo film sui rischi, sulle sfide, sui sogni e sulla ricerca di equilibrio di uomini che, in qualche modo, riescono a toccare le nuvole e a entrare nell’infinito». Grandi consensi sono andati all’attore inglese Eddie Redmayne (I Miserabili ) per la sorprendente immedesimazione fisica e psicologica nel ruolo di Hawking, condannato all’immobilità da una malattia del motoneurone, diagnosticatagli quand’era era uno studente universitario di 21 anni. Un male che non ha intaccato le sue capacità intellettuali di astrofisico noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri, la relatività e l’origine dell’universo.
Racconta Redmayne: «Ho dedicato due anni al film, ho studiato ogni movimento segnato dal male di Stephen. Che, mai, però, ha ostacolato i suoi studi così difficili e impegnativi. Mostrare la sua progressiva degenerazione fisica è stato un lavoro sfibrante, ma la tenacia e la forza di Hawking di combattere contro la depressione mi hanno totalmente conquistato. Più che mitizzarlo, volevo restituire al pubblico l’essenza della sua vita, guardare con profondità dentro le sue giornate, il suo essere marito e padre e, contro ogni evento, un eterno ottimista».
«È stata una grande prova fisica e spirituale — sottolinea a sua volta Felicity —. Jane e Stephen si erano conosciuti a Cambridge, contro ogni avversità hanno costruito una vita domestica, una quotidianità di fiducia e coraggio reciproci. Il film è una grande storia d’amore, una analisi del tempo, una sfida a un male inesorabile, progressivo, conosciuto comunemente come morbo di Gehrig. L’anelito alla pienezza dei sentimenti e dei desideri è il cuore del film oltre all’analisi di una mente scientifica aperta a ogni esplorazione di nuove frontiere della fisica e della cosmologia. È stato un privilegio essere chiamata a far parte del cast».
In platea anche altri attori del cast: Emily Watson, David Thewlis e Charlie Cox, ossia Jonathan, il professore di musica diventato il compagno di Jane dopo la separazione da Hawking. Che con l’ex moglie e i loro tre figli è stato spesso presente durante le riprese.
Confessa l’attore protagonista: «Finite le riprese, ho fatto fatica a “staccarmi” dal personaggio. Il viaggio della mente di quest’uomo, contrapposto ai limiti del suo corpo, è diventato per me — e spero lo sia anche per gli spettatori — un microscopio puntato sull’universo e sulle vite che ci sono concesse». Sul set Redmayne diventerà anche un transgender nel film The Danish Girll diretto da Tobe Hopper e ispirato alla vita del pittore Einar Wegener.

Repubblica 8.9.14
L'Oms: al mondo un suicido ogni 40 secondi. "Strage 'nascosta' che può essere evitata"
Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, almeno 800.000 persone si tolgono la vita ogni anno

Ma solo 28 paesi hanno strategie nazionali per prevenire questa emergenza mondiale sulla qualle pesano ancora stigma e tabù
In Italia aumentano i decessi legati alla crisi economica. Il 10 la Giornata mondiale di sensibilizzazione
qui

domenica 7 settembre 2014

L’articolo con il quale tutte le settimane Umberto Galinmberti chiude il supplemento Donna di Repubblica che esce il sabato con il quotidiano, ieri aveva per titolo: “Religione ragione e sentimento”
segnalazione di Nuccio Russo

Corriere 7.9.14
Ipotesi Arpe per il rilancio dell’«Unità» L’addio di Fago
di Al.Ar.


ROMA — Matteo Fago ha gettato la spugna sull’Unità . Lui, l’azionista principale del quotidiano che fu di Antonio Gramsci e che dal primo agosto ha cessato le pubblicazioni, venerdì scorso ha mandato una lettera della sua Editoriale 90 dicendo che ritirava l’offerta per rilevare l’Unità, ovvero per pagare i debiti del giornale e per poterlo quindi far tornare in edicola. Servono almeno 10 milioni per arrivare a un cosiddetto concordato «in bonis» necessario per cancellare i 30 milioni di debiti accumulati dall’Unità . Prima di cessare le pubblicazioni il quotidiano perdeva 800-900 mila euro al mese. Ma le offerte per rilevare il giornale non mancano. Dice infatti Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd: «Vedo spiragli più che positivi perché il mondo dell’economia e dell’editoria hanno dato manifestazioni di interesse». Fra le più concrete sembra esserci l’offerta del banchiere Matteo Arpe in una cordata con il quotidiano online Lettera 43 di Paolo Madron, attraverso la società news3. L’offerta sarebbe già pronta, sostanziata in un piano industriale della durata di tre anni e in un piano editoriale. Tra le prime dichiarazioni d’intento ci sarebbe quella di voler rinunciare ai finanziamenti pubblici. La caratteristica dell’offerta di Arpe è anche pionieristica in Europa: un giornale online che acquista un giornale di carta e di fatto se ne mette a capo, invertendo le priorità. Un altro punto caratterizzante è l’indipendenza del giornale dal partito (il Pd) pur mantenendo sempre un’esplicita vocazione di giornale di sinistra. C’è ancora un po’ di tempo per poter valutare le proposte, visto che il giudice per il concordato non è stato ancora nominato e la nomina ci sarà dal 16 settembre in poi. Intanto molti dei giornalisti (un’ottantina in tutto) in questi giorni stanno lavorando sul sito web dell’Unità, gratuitamente e in maniera volontaria, che è stato riattivato dal 30 agosto. E tutti sperano che oggi il premier Matteo Renzi, in chiusura della Festa dell’Unità a Bologna, dica qualcosa di importante sul futuro del loro giornale.

il Fatto 7.9.14
Renzi va alla guerra
Contro la sinistra e i “salotti buoni”

Il premier, in una fabbrica a Brescia, celebra l’alleanza con Confindustria per attaccare Cernobbio: “Sto con chi si spacca la schiena”. Poi avverte gli statali (“taglieremo, c’è grasso che cola”) e i soliti “gufi”. Oggi sarà a Bologna per asfaltare Bersani e D’Alema. Pronto l’opuscolo autocelebrativo: “Ho preso il 41%”

il Fatto 7.9.14
Quello “scatto” contro D’Alema nel libretto (anti-rossi) di Matteo
Festa dell’Unità di Bologna: un opuscolo per ricordare alla mninoranza il suo 40,8%
di Wanda Marra


Bologna. La foto della notte del 40,8 per cento, la “tortellinata” a pranzo con i dirigenti democratici (Mogherini, Serracchiani, ma anche dalemiani come Amendola), il palco con i leader socialisti (Valls, Sanchez, Diederik Samson), il comizio vecchio stile: Matteo Renzi arriva oggi alla festa dell’Unità di Bologna battagliero, pronto ad appropriarsi della tradizione, a inglobare tutto e ad asfaltare ancora una volta il dissenso di sinistra che, a partire da qui, in questi giorni si è fatto sentire, con Bersani e D’Alema.
IL GIOVANE segretario-premier non ci sta, pronto a rivendicare che il Pd è lui, che non ce n’è un altro. D’altra parte alle critiche di D’Alema sui mancati risultati del governo i suoi hanno replicato dandogli del “vendicativo” e accusandolo di frustrazione a causa della nomina mancata di Mr Pesc (il responsabile esteri della commissione europea). Ieri, anche Pier Carlo Padoan, già segretario della dalemania fondazione Italianieuropei, ha attaccato il Lìder Massimo: “Dice che i risultati non si vedono? Concordo, si vedranno presto”. Oggi la risposta la darà lo stesso Renzi dal palco. Ma c’è già nella foto di copertina di quell’opuscolo, che ritrae la notte della vittoria alle europee. Allora, davanti alle telecamere nella sede del Pd ci andarono tutti, anche giovani che furono oppositori da “sinistra”, da Roberto Speranza a Nico Stumpo. E non a caso in questi giorni in difesa dei vecchi leader non si sono alzate troppe voci dei quarantenni.
Ieri anche il guardasigilli, Andrea Orlando ha preso le distanze, pur ammettendo un problema: “Il punto non è la divisione tra segretario e leader, ma ripensare a cosa dev’essere un partito in questa fase storica”. Alla faccia di Bersani, che aveva lanciato il tema, e che ha ribadito ancora una volta dalla Festa dell’Unità di Milano, “il giaguaro l’ho smacchiato io”.
ANDRÀ AVANTI, Renzi, per la sua strada, diritto come un treno: la strada per lui è giusta, nel partito e nel governo. E questi giorni di opposizione interna, secondo lui, lo rafforzano. Al solito, il fiorentino salta tutti i riti e gli schemi. Si rivolge al “popolo”. Non a caso, la segreteria del partito annunciata, anche per oggi, salterà. A meno di sorprese dell’ultimo minuto.
Per il resto di dissenso e di sinistra alla Festa c’è stato poco. Recuperata in extremis la Ca-musso. A causa di una serie di ritardi aerei (o almeno questa è la motivazione ufficiale) salta il dibattito della leader della Cgil con Padoan. Gli organizzatori erano pronti a cancellare anche il suo dibattito con Filippo Taddei, inserito alle 20, per non far iniziare troppo in ritardo la presentazione del film di Walter Veltroni (sarà un caso che lui è l’ideatore del Pd a vocazione maggioritaria?). La leader della Cgil arriva fuori tempo utile, ma sale sul palco. Durissima contro Renzi: “Non si può continuare a raccontare una cosa per l’altra. Noi siamo stati contentissimi degli 80 euro. Ma non è che se avete fatto quella cosa lì adesso potete fare qualsiasi cosa. Non va bene”. La platea applaude. Ancora: “Il problema non è l’articolo 18, ma dire a 4 milioni di giovani che non saranno a vita precari”. In un’intervista alla Stampa ieri si era scagliata contro l’idea di fare tagli lineari, aveva definito “specchietto per le allodole” gli 80 euro, e denunciato il termine “ricatto” con cui il premier aveva definito lo sciopero dei poliziotti. “Il grasso che cola non è lo stipendio degli agenti”, ha replicato a una battuta di Renzi. Sarebbe stato interessante vederla discutere con Padoan. Ma lui deve andare a Cernobbio. Lo stesso incontro che il premier ha disertato. A Bologna, di dibattiti nel senso vero del termine – ovvero confronti tra posizioni diverse, magari opposte – ce ne sono stati ben pochi. Senza contare i mancati inviti per Ci-vati e Cuperlo. Ad ascoltare Padoan ieri l’area dibattiti era piena. Lui si è lanciato in una difesa della politica del governo, pur con qualche ammissione. Tipo: “La flessibilità dobbiamo guadagnarcela in Europa, con le riforme e non con gli annunci. A quel punto, ce la danno, non dobbiamo chiederla”. E una concessione: “La patrimoniale? C’è già”. Si riferisce alla Tasi. D’altra parte, siamo alla Festa dell’Unità e un po’ di parole di sinistra servono.

La Stampa 7.9.14
Per un nuovo miracolo europeo
Lo scatto del Nazareno, il libro di Renzi in stile Berlusconi
Il premier distribuirà alla festa dell’Unità un libro sulla “scalata” del Pd
sulle orme del tomo con cui il leader FI raccontò i suoi successi
di Alberto Infelise

qui

La Stampa 7.9.14
Svolte, salvataggi e caduteI mille giorni alle spalle di Renzi
Il premier ha annunciato, in tre anni, un piano per far ripartire il Paese La sfida resta impegnativa. Riuscirà dove gli altri hanno fallito?
di Ugo Magri


Si è dato mille giorni per cambiare l’Italia. Ma Renzi non è il primo che ci prova. Lasciare un segno nel Paese era, in fondo, l’ambizione di tutti i predecessori. Anche Enrico Letta e il professor Monti, proprio come l’attuale premier, avevano volato alto. Pure intorno a loro si erano venute creando aspettative giganti. E sarebbe ingeneroso negare che ce l’abbiano messa tutta per essere ricordati nei libri di storia. Eppure, proprio il film degli ultimi mille giorni consiglia di non nutrire aspettative messianiche, quali che siano le promesse del premier. Se la gente comune è speranzosa e scettica nello stesso tempo, con tanti gufi appollaiati sui rami, è perché dal 5 gennaio 2012 a oggi (gli ultimi mille giorni, appunto) le vere riforme si contano sulle dita di una mano, l’economia annega, la res pubblica rimane flagellata da scandali e perfino Berlusconi, che qualcuno credeva di avere cacciato dalla porta, sembra rientrato dalla finestra del Nazareno. Nella constatazione collettiva abbiamo quasi tre anni in più sulle spalle, i capelli imbiancano, ma invece di andare avanti siamo rimasti lì. Sull’orlo del precipizio. 
Parlano i numeri. All’alba del 2012 il debito dello Stato italiano era un mostro da 1935 miliardi, di euro si capisce. Secondo l’ultimo report emesso da Bankitalia, ora è balzato a 2168 miliardi. Ci sono un’infinità di spiegazioni molto serie, dalla congiuntura negativa ai denari dati in prestito alla Grecia. Però il dato è quello. L’economia cresceva di una miseria, per l’esattezza il 2011 aveva chiuso con il Pil più 0,4 per cento, laddove adesso siamo tecnicamente in recessione, segno meno. La disoccupazione, mille giorni fa, metteva paura: era al 9,2 ma strada facendo è arrivata al 12,6. Quella giovanile sta al 43,7 per cento dal 31,1 che era. Ci salva lo spread, precipitato da 522 punti ai 133 di ieri. Avere scansato il default è la vera medaglia al petto da ostentare a Bruxelles. Ma proprio in Europa di progressi ne abbiamo fatti pochi. Mille giorni di moniti, di false carezze e di derisioni. Gennaio 2012: la copertina dell’«Economist» raffigura l’Ue come una zattera di naufraghi disperati su cui sventola la bandiera tricolore, la nostra. Settembre 2014: altra copertina del settimanale britannico, stessa metafora marinaresca, e stavolta sulla barca che affonda ci sono Holland, la Merkel, Draghi più Renzi con il cono gelato in mano... Mai che ci prendano sul serio.
Monti sembrò fare eccezione. Accolto dalla comunità internazionale come castigamatti, cerbero del rigore che allora andava di moda, oggi un po’ meno. Ebbe inizialmente un consenso come mai prima nessuno grazie alle larghe intese imposte da Napolitano. Restò in carica 17 mesi. In quell’arco di tempo realizzò una manovra lacrime e sangue (il «Salva Italia»), introdusse di fatto la patrimoniale (Imu e non solo), fece certe liberalizzazioni (denominate «Cresci Italia»), tentò invano di tagliare le province (la Consulta mise lo stop). Riuscì semmai a infilare nella Costituzione l’obbligo del bilancio in pareggio. Lasciò il segno soprattutto con le due leggi Fornero: quella contestatissima sul lavoro, comprensiva di articolo 18, e l’altra non meno controversa sulle pensioni, con la coda velenosa degli esodati. Come è destino di tutte le riforme più impopolari, sono le uniche a essere ricordate e nemmeno troppo volentieri. Alzi la mano chi ne rammenta altre.
Letta si rimboccò le maniche subito dopo le elezioni politiche, pure lui sospinto dalle larghe intese che ineluttabilmente si sfasciarono sulle vicende giudiziarie del Cav: a fare da detonatore, l’ultima riforma dell’era Monti, l’anticorruzione firmata Severino. Il carnet di Letta è inversamente proporzionale alla sua competenza. In 10 mesi, gli ultimi dei quali vissuti sotto l’assillo di Renzi che gli consigliava di «star sereno», non poteva certo rivoltare l’Italia come un calzino. Firmò il decreto per saldare i debiti della PA, ridisegnò l’Imu, studiò un tot di misure anti-crisi (decreto «del fare»). Mise uno stop al finanziamento pubblico dei partiti, però a partire dal 2017, cosicché ad alcuni parve troppo poco e troppo tardi, con tutti gli scandali al sole degli ultimi mille giorni. Si cominciò con Lusi, tesoriere infedele della Margherita, si proseguì con Fiorito e le abbuffate a base di ostriche, quindi scoppiò il caso Penati, poi nel ciclone finì la famiglia Bossi, da ultimo il Mose veneziano a riprova che sull’etica pubblica siamo ancora alla casella del via.
Da sei mesi è il turno di Renzi. Vuole rovesciare la tesi, gattopardesca, che in Italia il tempo scorre però mai nulla accade. Per dare un segnale potrebbe incominciare dai due marò. A gennaio 2012 erano a bordo della «Enrica Lexie», diretti in India. Mille giorni dopo sono ancora là.

il Fatto 7.9.14
Di lotta e di governo
Boschi, un pugno ai sindacati e una carezza agli agenti
di Sara Nicoli


GRASSO: “RICHIESTE GIUSTE” MA SERVONO 1,5 MILIARDI IL M5S: “PER TROVARLI, TASSARE IL GIOCO D’AZZARDO”

La convinzione del governo è questa. Che gli uomini delle forze dell’ordine non si sentano rappresentati dai propri sindacati. Così la vede la ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi, che ieri ha voluto far vedere la faccia buona del governo, mentre quella cattiva la continuava a mostrare, Renzi sostenendo che “i tagli vanno fatti a ogni costo”.
Davvero tutta colpa dei sindacati? Il premier non ha ancora trovato la chiave per disinnescare una minaccia di sciopero epocale, con tutti i corpi di polizia pronti – per la prima volta nella storia – a scendere in piazza per rivendicare un diritto. Così la Boschi, per quietare gli animi, ha spacciato che il problema dello sblocco di almeno parte dello stipendio delle forze dell’ordine sia da tempo nell’agenda renziana. “Il governo – ha giurato la ministra, stringendo la mano ad alcuni poliziotti – è al lavoro da mesi per trovare una soluzione. Alfano già a luglio aveva incontrato i sindacati. Il confronto non può avere i toni di minaccia usati dai sindacati in questi giorni nei quali, secondo me, non si riconoscono neppure gli stessi esponenti delle forze dell’ordine”. A ricatto, dunque, il governo risponde con un tentativo di delegittimare delle forze sociali con le quali, tuttavia, toccherà trattare. Il Cocer, l’ente di rappresentanza degli agenti, conferma le posizioni di venerdi: se non verrà “eliminato il tetto salariale, non faremo passi indietro”. Intanto dal governo arrivano segnali discordanti. Il ministro Poletti ha azzardato un “ok al confronto”, subito gelato da chi, come Pier Carlo Padoan, tiene in mano i cordini della borsa: “Sarà un discorso generale di revisione della spesa, vedremo se ci saranno margini di trattativa”. Il tutto con Orlando che avvertiva: “Lo sciopero acuirebbe ulteriormente una tensione sociale che è già molta alta. ” Comunque, la trattativa c’è. E l’ha impostata un Angelino Alfano in evidente stato di difficoltà. Perché su questo tavolo e sulla riuscita del confronto a favore del governo, il titolare del Viminale si gioca tutto. A partire dalla poltrona.
IL MINISTERO dell’Interno, infatti, sarà la pedina intorno a cui ruoterà il rimpasto di metà novembre, con l’uscita della Mogherini dalla Farnesina. È noto, infatti, che Renzi vorrebbe promuovere Marco Minniti, e non è detto che il leader Ncd sia destinato agli Esteri. Per Alfano, quella con gli agenti, è una partita che va oltre il problema dell’adeguamento stipendi.
Nel merito, la trattativa riguarderà il possibile sblocco degli scatti di anzianità, misura che costerebbe comunque all’erario, mentre senza adeguamento lo Stato guadagnerebbe un miliardo e mezzo di euro. Dalla parte degli agenti si è schierato il presidente del Senato, Pietro Grasso: “Le richieste delle forze dell’ordine sono legittime”, mentre Luigi Di Maio (M5s) ha proposto di trovare le coperture aumentando le tasse sul gioco d’azzardo.

il Fatto 7.9.14
Gentile ministro Boschi, meno personale e più politico, grazie
di Silvia Truzzi


CINQUE anni fa, era l’alba di questo giornale, nel salotto di Bruno Vespa l’allora premier si rivolgeva a Rosy Bindi – ex ministro della Sanità, ex vicepresidente della Camera e presidente del Pd – con modi eleganti: “È sempre più bella che intelligente”. Manco lui fosse stato un aitante Adone. Lo stesso premier (nel frattempo condannato per frode fiscale e decaduto) qualche anno dopo avrebbe salutato una futura ministra con questo benvenuto: “Lei è troppo bella per essere comunista”, ignorando che la signorina non lo è stata mai (a differenza del suo caro amico Vladimir). Per fortuna Silvio Berlusconi non è il termometro della civiltà, non solo politica, del nostro fu Belpaese. Il guaio è che nella sostanza non abbiamo fatto grandi passi avanti, nonostante il nuovo, scattante governo 8+8 (otto ministri maschi, otto femmine). Rosy Bindi, nel mentre rottamata dal nuovo Cesare di Pontassieve, in un'intervista al Corriere della Sera, dice del nuovo esecutivo paritario: è una “conquista importante”, ma in Italia “siamo ancora alle gentili concessioni”. E poi aggiunge: “Penso che le donne ministro siano state scelte anche perché erano giovani, non solo perché erano brave, ma anche perché erano belle…”. Tanto che l'intervistatrice, Monica Guerzoni, così chiosa: “Nel dibattito che anima le varie anime del Pd piomba la questione femminile”. Che, parlando francamente, ha abbondantemente rotto le scatole. Abbiamo problemi capitali, problemi di sopravvivenza. Troppi per occuparci ancora di queste sciocchezze: le ministre sono lì, dimostrino con i fatti se sono capaci. Sennò andranno a casa, si spera, come i loro colleghi maschi. Non è tempo dei “problemi miei di donna”. E nemmeno delle analisi estetiche. Rosy Bindi ha però ragione quando suggerisce alle signore della nuova classe dirigente di “rifiutare qualche intervista sul personale e farne una in più sul merito del loro lavoro”. Qui casca l’asino (e pure il somaro). In questi mesi in cui il Parlamento è stato impegnato nell’epocale riforma costituzionale, non si ricordano interventi sostanziali del ministro che dà il nome alla suddetta riforma (tra l’altro la più in vista fra le colleghe di governo). Oltre alle foto balneari (di cui la Boschi non è naturalmente responsabile) si ricordano sue interviste in cui parla di weekend a Londra con le amiche e memorabili richieste alla pubblica opinione (“non giudicatemi per le forme ma per le riforme”: battuta infelice, soprattutto nel caso qualcuno avesse voluto prenderla sul serio).
SUL MERITO delle obiezioni – numerose, puntuali, motivate – dei costituzionalisti, il ministro ha ripetuto a pappagallo i dileggi del premier ai professoroni. “Dire che la riforma è autoritaria è una bugia”. Non basta. Vogliamo di più: e non certo perché lei è donna. Per esempio: vogliamo sapere perché l'immunità è rimasta nel Senato dei nominati, perché nessuno ha tenuto conto dei contrappesi, come saranno garantiti pluralismo e minoranze. Deviare la discussione sulla “questione femminile” è sempre un buon modo per buttare la palla fuori dal campo. Studiare è più faticoso che improvvisare sketch? Pazienza. Che abbiano i baffi, la cellulite o un bel décolleté non importa. Se sono carine, l’occhio ci guadagna: ma siccome di occhi non ne abbiamo più nemmeno per piangere, per favore smettetela di baloccarvi.
Ps: In serata il ministro Boschi ha detto: “Saremo giudicati per quanto siamo bravi non belli. Alle polemiche abbiamo già risposto con i fatti”. Ecco, sono esattamente quelli (tipo l’Italicum) che non ci piacciono.

il Fatto 7.9.14
Spot Madia per ritrovare la fiducia
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, è vero che i cittadini pretendono dai politici la verità. Ma è anche vero che chi parla deve saper dare un senso e un contesto a ciò che dice. L'annuncio secco della Madia agli statali (“mancano risorse, nel 2015 non avrete un solo euro in più”) spaventa non solo gli statali tra cui gli insegnanti che, nella pagina accanto del programma di governo, si vedono protagonisti di cambiamenti epocali). Per parafrasare la celebre frase dedicata a Nixon negli anni Sessanta, “comprereste un’auto usata da ministri così?”.
Ruggero

PURTROPPO NON POSSIAMO ridere, neppure dell’intelligente riferimento a Nixon, perché da quando la Fiat è andata in Olanda, in Inghilterra e in America, non abbiamo niente da vendere o da comprare nel settore automobili, che era un orgoglio italiano. Ma certo, l'annuncio Madia crea un grave problema di sfiducia e di paura (la paura inespressa che tanti non dicono ma che induce tutti a spendere sempre di meno, persino coloro che possono) proprio mentre si sta dicendo che i “mille giorni” saranno una cavalcata gloriosa che richiederà, più che la musica di Verdi, quella di Wagner per essere adeguatamente celebrata. In attesa di celebrarla, i cittadini devono credere in qualcosa e non ci riescono. Salvo i colpi di scena di Draghi che, da solo, si pone non solo il problema tecnico del banchiere (che è già immensamente difficile) ma anche quello psicologico di risollevare il morale ai veri protagonisti (banche, imprese e cittadini), tutti gli altri riescono, o col troppo degli annunci esagerati e continui, o con il troppo poco di ciò che viene fuori appena ti comunicano i punti chiave di una riforma (vedere scuola, vedere Pubblica amministrazione) a sfoltire sempre di più il fronte dell'attesa e a consolidare quello del trincerarsi ancora un po' più indietro, nella difesa spaventata. Che senso ha annunciare brutalmente “il congelamento perché non ci sono risorse” invece di incontrare – attraverso le rappresentanze o in ogni altro modo – gli interessati e spiegare che se un governo chiede sacrifici è per una ragione, e quella ragione porterà il compenso giustamente atteso? Il senso è: cittadini, investite con noi e divideremo il frutto del fondo Italia. Non puoi non dare un senso a un annuncio così drastico e sperare in una corsa a lavorare più e meglio per la “ripresa”. Anche perché il tutto avviene lo stesso giorno in cui, dopo docce gelate e gelati anti-Economist sul sagrato di Palazzo Chigi, arriva un altro annuncio secco e brutale: ciascun ministero (e siamo di nuovo ai dipendenti pubblici) dovrà tagliare il 3 per cento della sua spesa. Ovvero l'odioso taglio orizzontale, a chi tocca tocca. E si sa che quando il taglio di spesa pubblica alla cieca ha finito di esercitare il suo effetto negativo sui dipendenti, allora tocca ai cittadini, specialmente se si parla di Scuola, di Sanità, di Trasporti (settore pendolari disperati). Renzi ha certo una faccia più rassicurante di Nixon. Ma gli italiani compreranno sempre meno, per necessità e per paura. E non credo che questa sia la strada.

Corriere 7.9.14
Riforme chiave in Senato, la strategia per evitare trappole Il Jobs act, l’Italicum e il nodo dei frondisti
La cautela del segretario pd sui tempi
di Maria Teresa Meli


ROMA — Quel che dice in pubblico Matteo Renzi lo ripete anche in privato. «Non possiamo fare finta sulle riforme perciò non dovremo guardare in faccia nessuno», è la frase di incitamento che il presidente del Consiglio ripete ai suoi interlocutori in questi giorni. Accompagnata da una constatazione ovvia quanto veritiera: «Ci giochiamo la nostra credibilità in Europa».
Quell’Europa che chiede all’Italia di mandare in porto, tra le tante riforme, il Jobs act. La legge delega sul lavoro è al Senato. Il premier dice che «prevedibilmente sarà approvata entro l’anno». Prevedibilmente, già, perché a palazzo Madama la situazione e quella che è, come si é visto nei giorni convulsi dell’approvazione del disegno di legge che pone fine al bicameralismo perfetto e che rivede il Titolo V della Costituzione. E in quel ramo del Parlamento, dove la maggioranza è quanto mai risicata, approderà anche l’esame dell’Italicum. Due riforme a cui Renzi tiene molto e che una parte dei dissidenti del Partito democratico attende al varco. Renzi è convinto, e non da oggi, che «la vera sfida si gioca tra la gente, nelle fabbriche, nelle scuole...» ( motivo per cui ha preferito andare a Gussago piuttosto che a Cernobbio) e ripete che «il serbatoio del consenso popolare è tale da non prevedere soste ai box». Però sa anche che comunque il passaggio parlamentare è delicato e che in quella sede non incontrerà la gente, ma senatori che non la pensano come lui.
Dalle parti di palazzo Chigi si ritiene che ormai la presenza di frondisti nel Partito democratico sia strutturale. Perciò il presidente del Consiglio per quel che riguarda la legge delega sul lavoro ha preferito non impiccarsi a una data. Non vuole e non cerca il Vietnam. Il Jobs act è atteso in Europa ed è stato sollecitato anche a Cernobbio: la partita è troppo importante per giocarsela male, tanto più che una sconfitta non è prevista.
Lo slogan «la gente sta con me e non con l’establishment» funziona sempre: fa presa sugli italiani. Ma al Senato la storia è diversa e ci vorranno tutta la perizia e l’avvedutezza possibili per superare ostacoli e insidie.
Renzi ha ben presente la situazione, ieri, però ha distolto la sua attenzione per qualche ora da questi problemi per dedicarsi al discorso che terrà oggi alla Festa dell’Unità di Bologna. «Sarà un comizio vecchio stile», sorride il premier. Ma non sarà «vecchio stile» l’antipasto che il capo del governo offrirà al popolo della Festa, con la presenza del primo ministro francese Manuel Valls, del segretario del Psoe Pedro Sanchez e del vicepremier olandese Diederik Samsom. «La loro presenza — sottolinea il presidente del Consiglio — conferma che questo Partito democratico ha una visione strategica europea, non solo nazionale e che la vittoria di Federica Mogherini è frutto di un disegno, non di un caso». Renzi ha fortemente voluto la presenza dei tre, perché, ha spiegato ai collaboratori, «darà l’idea che anche in Europa si sta affacciando una nuova classe dirigente progressista, anche all’insegna del ricambio generazionale».
La formula «vecchio stile» però tornerà a farla da padrona quando i leader europei verranno invitati a una tortellinata insieme ai dirigenti del Pd. Mentre ieri si dedicava al suo intervento alla Festa il presidente del Consiglio spiegava ai suoi che non intende entrare nelle polemiche scatenate in questi giorni da alcuni leader pd della generazione passata. Anche se chi lo conosce bene dubita che Renzi sorvoli del tutto sull’argomento. Senza esagerare però perché il profilo che il premier vuole darsi alla Festa è quello dell’uomo di governo. Anche a Bologna, quindi rivendicherà le cose fatte finora dal suo esecutivo e ritornerà su quelle ancora da fare.
Del resto è stato proprio questo il leitmotiv del suo discorso di ieri in fabbrica. E per dimostrare che il governo sta facendo di tutto, nonostante le accuse di «annuncite», per «rilanciare il Paese», ieri Renzi ha incontrato il gran capo del colosso dell’acciao indiano, Sajian Jindal, sugli investimenti a Piombino.

Corriere 7.9.14
Camusso: no al blocco degli stipendi per gli statali, tetto alle retribuzioni più alte
di Andrea Garibaldi


Alle 21, con tre ore di ritardo sul programma, arriva Susanna Camusso, nella parte dell’ospite scomodo per il Pd: «Noi siamo stati contentissimi degli 80 euro in busta paga, ma non è che in nome di quello potete fare qualunque cosa, come bloccare i contratti nazionali o moltiplicare le tipologie di contratti a termine. Il contratto a tutele crescenti che state per varare va bene se sostituisce altre forme di contratti. Dobbiamo dire a 4 milioni di giovani che non resteranno a vita precari». Con pathos, sempre Taddei invita a cercare «i punti che uniscono Pd e Cgil, non solo quelli che dividono». Taddei insiste che il governo ora sta facendo ciò che si sarebbe dovuto fare dieci anni fa: ridare dignità al lavoro, con il Jobs Act in discussione al Senato. E comunque promette: «Il Pd è l’unico partito che valga la pena che ci sia. A patto che sia capace di scegliere, ciò che la politica dovrebbe fare. Noi siamo qui perché toccheremo interessi particolari. Li toccheremo in nome di un interesse generale». La Camusso non si doma: «Vi voglio bene, ma mettiamoci nell’ordine di idee che le imprese non hanno sempre ragione, che devono ricominciare a investire». E sugli stipendi della Pubblica amministrazione: «Prima di bloccarli mettiamo il tetto a quelli più alti, chiudiamo le società che esistono solo per i consigli di amministrazione, tagliamo le 30 mila stazioni appaltanti. Non vorrei che non si vogliano calpestare i piedini a precisi interessi».

Il Sole 7.9.14
Sindacati. Si allarga il fronte della protesta, in prima fila il pubblico impiego, la scuola, le forze armate, l'industria e i pensionati
Cgil-Cisl-Uil, stagione di mobilitazioni
di Giorgio Pogliotti


ROMA Non sarà un autunno "caldo" nel senso tradizionale del termine, ma anche se i sindacati non hanno in programma uno sciopero generale, stanno preparando una stagione di mobilitazioni per aprire un dialogo con il governo Renzi, sollecitando un radicale cambio di passo nella politica economica. Si allunga l'elenco delle categorie pronte a scendere sul piede di guerra: dai pensionati al pubblico impiego che protesta contro la conferma del blocco contrattuale anche per il 2015 - con in prima fila la scuola -, alle forze armate insieme alle forze dell'ordine che sollecitano lo sblocco del tetto salariale, all'industria dove c'è grande preoccupazione per il futuro di migliaia di lavoratori delle aziende oggetto dei 140 tavoli di crisi aperti al Mise.
In vista della legge di stabilità, Cgil, Cisl e Uil intendono aprire altri due terreni di confronto con il governo: da luglio sono in corso assemblee che coinvolgono lavoratori e pensionati, a fine mese verrà varata dagli esecutivi unitari la piattaforma su pensioni e fisco. Ma il fronte più caldo, per il momento, rimane quello dei dipendenti pubblici. Secondo i calcoli della Cgil, con la proroga del congelamento dei salari pubblici al 2015, i dipendenti subirebbero una perdita da 4.800 euro, 600 per il prossimo anno che si sommano a 4.200 cumulati dal 2010. «Siamo stati contentissimi degli 80 euro – commenta la lader della Cgil, Susanna Camusso – anche per il loro valore simbolico, ma non è che dopo aver dato gli 80 euro, il Governo può fare qualsiasi cosa come bloccare i contratti statali perché questo non è logico». Replicando al premier Renzi («nella Pa c'è troppo grasso che cola») Camusso sostiene che «se il grasso che cola sono le retribuzioni dei carabinieri e dei poliziotti non ci capiamo proprio, si sta ancora cercando di trovare la cosa facile per non calpestare una serie di interessi che vanno difesi». Dal versante della scuola, per il segretario generale della Flc-Cgil, Domenico Pantaleo «non è più rinviabile un'estesa mobilitazione unitaria del pubblico impiego fino allo sciopero generale per rispondere all'ulteriore blocco del contratto nazionale», nella convinzione che si intenda «cancellare il contratto nazionale e rilegificare il rapporto di lavoro nel settore».
Gli stessi toni arrivano dagli altri sindacati. Deluso dalle scelte del governo il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha scritto su twitter che «le forze di polizia e gli statali hanno già dato. Renzi veda il grasso che cola da evasione fiscale, inefficienze e corruzione», ringraziando il presidente del Senato, Pietro Grasso, «per aver ricordato a Cernobbio l'importanza del dialogo sociale.Chi ha buone orecchie intenda». Il numero uno della Cisl-Fp, Giovanni Faverin, è «pronto a tutte le forme di mobilitazione». Dalla Uil, Luigi Angeletti domanda al governo: «Perché non applica i costi standard già definiti da anni? Perché ha rinviato l'accorpamento delle partecipate? Perché non riduce le stazioni appaltanti? È qui che bisogna reperire le risorse e non nelle tasche dei lavoratori». Angeletti conclude con un appello: «Una volta tanto vorremmo non ascoltare racconti, ma vedere fatti».
Dalla sinistra Pd, Cesare Damiano sollecita il governo ad aprire un confronto con il sindacato «fermo restando il suo diritto di prendere le decisioni più opportune», lanciando un monito: «Nell'autunno abbiamo da affrontare crescenti problemi occupazionali: non sommiamo uno scontro per mancanza di dialogo preventivo».

Il Sole 7.9.14
Assicurata la corsia preferenziale rispetto all'Italicum, pesa il nuovo blocco sui contratti
E ora la riforma della Pa riparte in salita
di Davide Colombo


ROMA Questa settimana parte l'iter di approvazione del ddl delega di riorganizzazione della Pa, la "seconda gamba" della riforma Madia. La corsia preferenziale è già stata assicurata in Commissione affari costituzionali, visto che s'è deciso di dare la priorità a questo Ddl lasciando in parcheggio il ddl di riforme della legge elettorale, il famoso Italicum.
Martedì si riunirà l'ufficio di presidenza della commissione che dovrà stabilire il calendario dei lavori con il consueto ciclo di audizioni. Sempre per martedì è prevista una nuova riunione della Commissione. «L'obiettivo - ha affermato il relatore Giorgio Pagliari (Pd) confermando quanto auspicato dalla stessa Marianna Madia - è quello di concludere l'esame entro fine anno».
Il Ddl è perlomeno ambizioso quanto lo fu, al suo debutto, il disegno di legge delega presentato nel 2008 dall'allora ministro Renato Brunetta in materia di «ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, l'efficienza e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni». Oggi come allora il percorso di approvazione della delega non sarà facilitato dal rinnovo del contratto del pubblico impiego. Anzi il contesto si presenta ancor più critico, visto che il "sistema Pa" arriva a questo nuovo appuntamento riformatore dopo 4 anni di blocco dei contratti (che ha prodotto minor spesa per 11,5 miliardi in termini cumulati tra il 2010 e il 2014) e quasi 6 di parziale blocco del turn over (che ha ridotto di circa 300mila unità il numero di dipendenti).
La leva salariale non si è mai rivelata lo strumento più efficace per favorire l'innovazione nelle amministrazioni o premiare il merito e la produttività. Almeno a partire dalla seconda privatizzazione del pubblico impiego, cioè dai contratti siglati per il quadriennio normativo 1998-2001. Un'analisi Aran sul decennio 2000-2009 conferma che gli aumenti retributivi realizzati sono stati solo in minima parte collegati a incrementi delle voci stipendiali legate alle verifiche dei risultati conseguiti dalle amministrazioni. E anche la Corte dei conti ha sempre lamentato l'uso distorto delle risorse destinate ai premi di produttività; fondi sempre usati per elevare i trattamenti fissi e continuativi. Però un conto è sprecare una risorsa nelle disponibilità del Governo di turno e un conto è non averla affatto.
Il ddl delega di Marianna Madia si muoverà in questo difficile contesto. Parte con 16 articoli e la previsione di 10 deleghe da esercitare nei 12 mesi successivi all'approvazione della legge. «È una buona base di partenza - ha osservato nei giorni scorsi il relatore - è scritto in modo apprezzabile e affronta tematiche significative tra cui la riforma complessiva del pubblico impiego».
Gli obiettivi sono noti: innovare la Pa riorganizzando l'amministrazione dello Stato (centrale e periferica), riformare la dirigenza, ridefinire il perimetro pubblico e, tra l'altro, riordinare la disciplina del lavoro alle dipendenze della Pa. Proprio su quest'ultima delega il confronto con i sindacati sarà particolarmente acuto, vista la preannunciata mobilitazione per il contratto.
Il Governo punta soprattutto ad accentrare i concorsi e riprogrammare i meccanismi di assunzione, puntando sul calcolo dei fabbisogni del personale delle amministrazioni con il superamento delle vecchie dotazioni organiche. Altro nodo cruciale sarà la rilevazione delle competenze. In un'intervista recente il sottosegretario Angelo Rughetti ha ricordato che il peso della retribuzione di risultato scenderà dal 30% del totale al 10%. Mentre il 30% della busta paga sarà in futuro legata all'incarico momentaneamente svolto e quel pezzo di stipendio sarà perso in caso di mancata conferma.
Insomma, la partenza in salita è assicurata, vedremo dove si arriverà.

il Fatto 7.9.14
Pd, sinistra si prepara al piano alternativo: “Tagli a ministeri? Renzi pensi all’evasione”La minoranza del partito prova a ricompattarsi e ora fissa 6 punti da discutere con il governo
di Giuseppe Alberto Falci
qui


il Fatto 7.9.14
Quello del “chi?” Stefano Fassina
“Continuerò a lavorare nel Pd Per adesso...”
di Giampiero Calapà


Con i tagli e la cancellazione dell’articolo 18 torniamo all’agenda Monti: stagnazione, debito pubblico alle stelle e disoccupazione peggio ancora. Sono preoccupato. Intendo agire nel Pd per cambiare questa situazione, farò il possibile e per ora non ho un piano B”. Stefano Fassina – quel Fassina chi? dimesso, ai tempi in cui era viceministro del governo Letta, dalla battuta di Renzi – sente addosso tutto il peso di un partito sfuggito di mano sulla via di Pontassieve (residenza di Renzi) verso una terza via, ma pure quarta, che di socialdemocratico e keynesiano per lui ha davvero poco: “Ci sono molti punti da correggere”.
Fassina, oggi sta con Barroso?
Barroso è un disco rotto, farebbe meglio a tacere considerati i risultati economici e sociali ottenuti dalla commissione europea nella sua gestione.
Quindi, sta con Renzi?
Sono molto preoccupato per la legge di stabilità, per le politiche economiche annunciate da questo governo. Vanno nella stessa direzione rigorista di Monti. Dobbiamo fare di tutto per cambiare rotta. E non solo sulle politiche economiche...
Che altro c’è?
La riforma del Senato non dà garanzie democratiche. Lo spazio di azione del Parlamento, il potere legislativo, non può essere limitato, ma la direzione mi pare quella invece.
... e poi la legge elettorale, per Prodi peggiore addirittura della legge truffa del 1953.
Già, il combinato disposto di tutto questo provocherebbe un deficit democratico preoccupante.
Come intende agire, dal Fassina chi? vi siete più parlati con Renzi? Avete rapporti?
Non sono rancoroso, la considero una storia passata ed è capitato di confrontarci. Mi aspetto molta attenzione da parte sua e da parte del governo. Alcune decisioni vanno riviste.
Se così non sarà, come sembra chiaro dalle intenzioni manifeste di Renzi?
Spero che si riconosca che il Partito democratico ha bisogno di tutti. Per ora lavoro a cambiare le cose, per cercare di eliminare quel deficit democratico e migliorare le politiche economiche. Un piano B non ce l’ho, per adesso.

il Fatto 7.9.14
Bersani: “Il giaguaro l’ho smacchiato io”


“Smacchiato da Renzi? No, il giaguaro l’ho smacchiato io”. Dalla festa dell’Unità di Milano, dove è stato ospite venerdì sera, Pier Luigi Bersani precisa alla sua maniera, piccato. Rivendicando un merito mica da poco, quello di aver portato al governo il Pd. E quindi di aver sottratto il controllo del Parlamento a Silvio Berlusconi, alias il giaguaro secondo la stranota ma non fortunata espressione bersaniana, a suo tempo celebrata con tanto di spot elettorali appositi. Tra cui il video girato sul terrazzo del Nazareno, la sede del Pd, a imitazione degli inni da squadra di rugby. La frase dell’ex segretario Pd, immortalata in un video di Repubblica Tv, nasce da una domanda maliziosa quanto puntuale: “Ma ha mai ripensato a quella strategia comunicativa del giaguaro? Alla fine al governo ci è andato Renzi, che ha smacchiato lei e Berlusconi”. Ma il buon Bersani non ci sta: “No, il giaguaro l’ho smacchiato io, neh, perché dal giorno dopo quelle elezioni, pur controverse e dal risultato non soddisfacente, io ho portato il mio partito al governo. Da quel giorno non c’è stata più la maggioranza in Parlamento per fare le leggi ad personam, e da lì è andato in crisi Berlusconi e si è spaccata la destra.” Chiosa bonaria: “Non diciamo che non l’abbiam smacchiato, almeno un po’ sì, dai...”.

Repubblica 7.9.14
Boccia: “Matteo sbaglia, ma ha troppi yes-men attorno”
Nel partito mancano i luoghi di confronto, vero
Non basta un collegamento in streaming, ma discutere e se occorre scontrarsi
intervista di Umberto Rosso


ROMA . «Con Matteo ne avevo anche parlato personalmente ma a questo punto, come dirigente del Pd e come cittadino, ho il dovere di non stare zitto e di prendere pubblicamente posizione: il blocco degli stipendi del pubblico impiego è un errore grande come una casa».
La ricetta di Renzi non funziona, onorevole Boccia?
«Abbiamo l’uomo giusto ma un modello anti-crisi completamente sbagliato».
Sembrerebbe una contraddizione.
«Non lo è. Perché è la conseguenza, il frutto dei tanti, troppi yes-men che girano attorno al nostro premier. Mancano i luoghi di un confronto, vero. Non basta qualche collegamento in streaming, serve la discussione che dura ore, in maniche di camicia, con lo scontro, quando occorre. Come in questo caso. Che invece è stato affrontato con sorprendente superficialità».
Non si discute nel Pd?
«Va bene il rinnovamento, ma non una sorta di pulizia etnica. A gente come D’Alema. Prodi, Veltroni, Bersani, dovremmo almeno rispetto. Ma il problema è più generale, e a tutti i livelli: o pieghi la testa o finisci emarginato. Guerini e Serracchiani sono in gamba ma non possono arrivare in tutti gli angoli del partito».
E senza dibattito arrivano gli errori del governo?
«Siamo in deflazione già da un anno, anche se ufficialmente ci siamo entrati solo da un mese. Ma continuiamo con lo stesso andazzo di Berlusconi, Tremonti, Monti e poi anche di Letta, pure se il suo fu un approccio più soft: insomma, tagli lineari dal 2008. Il risultato? Il debito è cresciuto. Ergo, così non va e io non ci sto».
E gli statali, in questo quadro?
«Premesso che ad un insegnante o a un poliziotto non toccherei un euro di stipendio per principio, per il ruolo sociale che svolgono, se gli blocchi gli aumenti scateni un ulteriore corto circuito: non possono più comprare nulla, le aziende non vendono, la disoccupazione galoppa, altro che crescita».
Per Renzi c’è grasso che cola nell’amministrazione.
«A me, piuttosto, piacerebbe tanto sapere che fine hanno fato le privatizzazioni del ministro Padoan a cui il premier ha dato lo stop».
Che cosa propone?
«Un aumento concordato del debito pubblico di trenta miliardi, per ridurre sul serio le tasse. Come con gli 80 euro».
Concordato con l’Europa?
«Sì, ma se la Merkel ci dice di no, noi non molliamo».
Linea in rotta di collisione con quella di Renzi?
«Sulla scelta degli 80 euro mi ci ritrovo in pieno. E chi la critica tanto, si rivolga ad una chiromante e consulti una sfera di cristallo, perché gli effetti si vedranno solo alla fine del prossimo anno. Su questo a Matteo dico: vai avanti, deciso».
E sulle obiezioni sul resto, Renzi che cosa le ha risposto?
«Faremo. Vedremo. Parleremo. Le stesse risposte che immagino dia anche a tanti altri interlocutori. Alla fine, gli ho scritto una lettera aperta da Chicago, dove adesso mi trovo».
In vacanza?
«Lavoro ad un libro con alcuni economisti dell’Università dell’Illinois sulla web-tax, la tassazione dei giganti del web. In Italia della legge che ho presentato finora è applicata solo una parte. Quella sull’Iva la bloccò proprio Renzi, rinviandola in sede europea. Aspetto che parta».

La Stampa 7.9.14
“La politica del rigore ci espone al rischio di recessione globale”
Tsipras: lo sviluppo si fa con gli investimenti
intervista di Fra. Man.


Ma che ci fa un esponente dell’estrema sinistra europea sul palco del Forum Ambrosetti, peraltro raccogliendo anche un discreto numero di applausi? «Sono venuto nel ventre della bestia - dice scherzando a metà Alexis Tsipras, il leader greco di Syriza - perché è sempre meglio ascoltare qualcuno direttamente, anche se ha opinioni diverse. E sono venuto per dire che la medicina scelta per la crisi - rigore e austerità - non è solo sbagliata, ma dannosa. Dopo cinque anni, la crisi invece di scomparire si è moltiplicata; c’è una metastasi. E adesso rischiamo una recessione globale».
Lei ce l’ha con la Troika che ha imposto la sua regola in Grecia. Ma anche oggi, qui a Cernobbio, le hanno ricordato che la Troika arrivò perché c’era una richiesta di aiuto e in ogni caso la Grecia aveva truccato i conti...
«La Grecia ha le sue responsabilità, ma nel mio Paese è stato applicato il programma più violento mai adottato in Europa. I risultati sono che, in quattro anni, il Pil è sceso del 25%, il tasso di disoccupazione ufficiale è al 28, il debito pubblico è salito dal 126 al 175% del Pil. Sono dati inammissibili per un Paese europeo. Certo, non si può tornare ai grandi deficit di bilancio del passato, ma nessun Paese può avere un debito che è quasi il doppio del Pil, perché solo la spesa per interessi schiaccia qualsiasi possibilità di crescita».
Un prezzo duro che Atene paga per gli errori del passato?
«Questa crisi non è un problema di Grecia, Italia o Spagna, ma è un problema strutturale. Se capiamo questo capiamo anche che dobbiamo affrontarla in termini politici. E farlo con un’Europa che sia più democratica: oggi si discute in 27 ma alla fine si fa sempre quello che vuole la Merkel. È necessario un approccio più radicale: bisogna rompere il quadro attuale di rigore sui bilanci e di austerità che ci sta portando rapidamente verso la stagnazione e la deflazione».
Ci vuol dire che il problema dell’Europa è più la Germania che non la Grecia?
«Penso che la Germania dovrebbe aumentare prezzi e stipendi. Un po’ di inflazione non le farebbe male».
Quali alternative vede alla combinazione tra rigore di bilancio e riforme strutturali, che anche qui a Cernobbio le voci ufficiali dell’Europa indicano come la sola soluzione possibile?
«Lo sviluppo viene dagli investimenti pubblici, per i quali deve aumentare anche il ruolo della Banca europea per gli investimenti, e da un’innovazione che non tagli i posti di lavoro ma ne crei di nuovi. Non si tratta di una ricetta eccezionale, ma di quello che fecero dall’altra parte dell’Atlantico dopo il ’29. Poi bisogna dare tempo alle economie nazionale di riprendersi senza i vincoli del Patto di Stabilità, tenendo presente anche che un debito vicino al 200% del Pil è insostenibile. E serve una soluzione per il debito pubblico, così come nel 1953 si trovò una soluzione - all’insegna della solidarietà europea - per i debiti di guerra tedeschi».
Draghi ha allentato la politica monetaria quanto possibile. Ora chiede ai governi di fare la loro parte con le riforme. Lei che ne pensa?
«Draghi va nella giusta direzione, ma non credo certo che le decisioni della Bce possano portare a una ripresa duratura. Direi che le sue decisioni sono più che altro un messaggio simbolico alla Merkel».
Lei pensa davvero che questo ritorno di politiche keynesiane possa trovare spazio in Europa?
«Penso che giorno dopo giorno sempre più persone, compresi i tedeschi, capiscono che questa è la strada giusta. Ma temo anche che stiamo facendo troppo tardi. Se in Europa continuano stagnazione e deflazione, rischiamo una recessione non solo europea ma globale».

il Fatto 7.9.14
Tsipras: "Fine della sinistra? La base del Pd spingerà Renzi a scelte più radicali"

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Repubblica 7.9.14
Tsipras e Casaleggio, strana coppia al forum
di Andrea Greco


CERNOBBIO La strana coppia di rivoluzionari di Villa d’Este, “nel ventre della bestia capitalista”. Il leader della sinistra greca Alexis Tsipras e il guru del Movimento 5 Stelle Gianfrancesco Casaleggio hanno accolto l’invito del Workshop Ambrosetti, per esporre le loro tesi agli operatori economici e fare proseliti. Il raduno snobbato dal premier di centrosinistra Matteo Renzi (che lo ritiene poco più di un “salotto buono”) loro lo hanno preso di petto. Ma a giudicare dai riscontri, la duplice trasferta in campo ostico non ha avuto esiti memorabili. Con Tsipras in veste di rara avis – e un po’ catturato dalla splendida cornice lacustre – e Casaleggio che ha irritato platea e moderatore (un certo Jean–Claude Trichet, ex presidente della Bce) fino a farsi togliere la parola dopo avere sforato il quarto d’ora previsto dagli interventi dell’intervento sul ritardo tecnologico italiano. «Sono venuto qui, ne, ventre della bestia capitalista, per dire la verità e perché credo nel dibattito», ha esordito scherzando Tsipras, il cui discorso ha avuto l’applauso rispettoso della platea.
Il leader di Syriza, partito antagonista fortissimo in Grecia, è partito dall’esperienza traumatica del suo paese per criticare la troika europea, che per ristrutturare la Grecia l’ha sfiancata. «L’Europa è in una strada senza uscita. Anche in Italia l’austerità senza crescita significa prolungare la crisi del 2008 – ha detto Tsipras – . Non sono sicuro che la Commissione farà del suo meglio per promuovere la crescita. Temo che non vogliano ammettere di avere fatto degli errori e di avere scelto strade sbagliate per sconfiggere la crisi». Mario Monti, sua controparte, gli ha ricordato che la Grecia sui conti pubblici non è stata molto forte, e anzi nel 2004 li ha truccati. Tsipras ha molto criticato l’obbligo di avanzo primario del 5%, che «toglierà i soldi per gli investimenti sociali. Quindi la soluzione non è prendere tempo, ma cambiare queste regole. Ci sono due idee in questa direzione: non includere gli investimenti pubblici nel calcolo del deficit e l’azione congiunta della Bce e della Bei per finanziare la crescita nella periferia dell’Eurozona». In completo d’ordinanza, a colloquio fitto con Enrico Letta e il banchiere Federico Ghizzoni, Tsipras è sembrato trovarsi a suo agio a Villa d’Este, «quasi quanto il suo predecessore di sinistra Fausto Bertinotti», ha sussurrato qualcuno.
Di tutt’altra fatta la rivoluzione di Casaleggio, che lo ha ribadito entrando a Villa D’Este da una porta laterale, dribblando i cameraman e senza rilasciare alcuna dichiarazione ai giornalisti. Nella discussione «Ripensare il sistema educativo per una società migliore», il braccio destro di Beppe Grillo ha lamentato la lentezza della rete web e dell’innovazione in Italia. Con l’aiuto di slide Casaleggio ha illustrato che il paese è passato dal settantesimo al novantesimo posto per velocità di download, ormai peggio della Grecia e prima del Kenya. Ha poi illustrato casi aziendali come Kodak, messa in difficoltà dalla veloce crescita di Instagram. Aiutato dal figlio Davide, Casaleggio azionava le slide, e ha anche scherzato a tratti con il pubblico. Ma forse le slide lo hanno tradito: dopo aver ripetutamente trascurato il richiamo del suo presidente di sessione, è stato da lui rimbrottato: «Qui c’è un presidente, e va rispettato», gli ha detto Trichet, togliendogli il microfono, mentre il pubblico iniziava a rumoreggiare, e accoglieva con un applauso il professor Andrew Ng che raccoglieva il microfono come il testimone della staffetta, con le parole «mi tuffo nella discussione». Casaleggio ha potuto completare l’intervento sul web come fattore di rinnovamento e liberazione di potenzialità inespresse, nella sessione finale di domande e risposte.

il Fatto 7.9.14
Larghe intese
Antiberlusconi “viscerale” Una nuova carica a vita
di Furio Colombo


Non ci saranno più i senatori a vita. Subentra un altro titolo e ruolo che, data la situazione politica italiana, non può finire. È “l’antiberlusconiano viscerale a vita”. Come tutti sanno, “viscerali” sono coloro che non hanno mai rinunciato a denunciare la collezione di reati di Berlusconi, oltre ai continui attentati alla Costituzione. Mossa imprudente, che molti hanno notato in tempo, predisponendosi sempre di più “al dialogo” e inserendo sempre più accenni cordiali. Ma per provare questa affermazione dovrò condurvi in uno strano gioco dell’oca.
Per esempio ogni mattina, oppure ogni sera di ogni giorno, Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd, si incontra con Denis Verdini, un banchiere in bancarotta con qualche imputazione, però molto simpatico e di Firenze. Devono mettere a punto alcune cose, in piena intesa, come sanno fare loro, sia su questa o quella riforma. Sia sulle “nomine”. Ecco la zona calda, le nomine. Sono uno strano rito della nostra Repubblica. Si dividono in nomine dirette del governo ad enti o agenzie. E in liste blindate che, una volta formulate da uomini con il potere di Renzi e Verdini saranno inviate al Parlamento, e mitemente votate.
SI TRATTA di giudici della Corte costituzionale, o di membri del Csm, e di molte altre agenzie e Istituzioni. Non temete, non sto sopravvalutando il fenomeno che è sempre accaduto, in Italia. La ragione è che qui, adesso, stiamo parlando di qualcosa di nuovo. Le nomine avvengono in un periodo politico in cui il Partito democratico è in piena ebollizione di energia e iniziativa. E mentre Berlusconi, nel frattempo, non solo non più ha vinto le elezioni che lo avevano portato a governare e dominare per la maggior parte degli ultimi due decenni, ma è stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione (da scontare con opere di bene) per una grande truffa fiscale (dunque ai danni dello Stato).
Eppure fra il leader Pd e Berlusconi viene stipulato uno strano patto, detto “del Nazareno”, che produce alcune conseguenze. Eccole: a) Berlusconi co-dirige il governo a causa di quel patto che lo lega a Renzi e, attraverso di lui, a ciò che resta della sinistra italiana;
b) Berlusconi non è capo di niente, eletto a nulla, trascina un partito disastrato. Ma gli viene riconosciuta pari dignità e pari autorità. Anzi, diciamo pure che, nelle condizioni descritte, la situazione non è di parità, ma di supervisione e controllo. c) Berlusconi fa le nomine, nel senso che nessuna nomina può essere fatta che non sia sua o di suo gradimento.
Da questo punto cruciale discendono due conseguenze. La prima è che – qualunque cosa si pensi di Renzi, pregi e difetti
– lo Stato si sta riplasmando a immagine e somiglianza di Berlusconi. Perché nessuna figura direttiva può comparire o scomparire senza la sua partecipazione, suggerimento o approvazione, e non si vede alcuna fessura da cui possa infiltrarsi un italiano diverso (fate conto Rodotà, per fare un esempio eccessivo ma efficace). La seconda conseguenza è che l’intero mondo delle nomine, dal giornalismo alle aziende, a cominciare dalle televisioni (chi dirige, chi conduce, chi partecipa) viene determinato restando rigorosamente dentro il recinto tracciato da Renzi e Verdini, a nome e per conto di Berlusconi.
Questo non vuol dire che Renzi non abbia o non possa avere i suoi preferiti. Li ha, e si vedono. L'importante è che adesso, o a suo tempo, abbiano detto e fatto la cosa giusta, ovvero tenersi ben lontani dal fenomeno detto (allora e adesso) “antiberlusconismo viscerale”.
Per meritarlo, fin dall'inizio del regime, bastava un riferimento inequivoco dei rapporti fra il capo del governo e la mafia. Ma a quel tempo nessuno sapeva che “l’antiberlusconismo viscerale” sarebbe diventato un titolo di esclusione a vita, perché si pensava che, prima o poi, Berlusconi sarebbe andato a casa o in prigione. E qui siamo alla scoperta più interessante e più nuova di alcune conseguenze del “Patto del Nazareno” che sarà difficile spiegare in futuro a quelli che non c'erano.
È PER QUESTO che vale la pena di soffermarci un momento sul sistema delle nomine. È qui che si capisce che è giusto ma anche immensamente prudente “essere come tutti”, cioè zitti, come insegna il libro-guida del nostro tempo, autore il bravo scrittore Francesco Piccolo, giustamente vincitore del Premio Strega. Esaminate con cura ogni curriculum di “nominati” nella serie Renzi-Verdini e trovatemi un gesto, un atto, una frase nella vita degli interessati, che sia stata di repulsione del regime, di rivelazione dell'atto illegale, di denuncia delle abituali dichiarazioni false e truffaldine. Poi cercatele nella Rai e in tutte le altre reti, a tutti i livelli. Infine esplorate l'albo di coloro che sono invitati ai talk show anche dieci volte in una settimana. Ma non escludete gli inviti alle feste dell'Unità (che si celebra allegramente senza Unità). E domandatevi se tutto ciò non avrà, per forza, un riverbero sull'intera vita sociale (dalle omesse citazioni dei nomi dei “viscerali” da articoli o libri su eventi che li riguardano, agli omessi inviti a ricordare e discutere fatti e ricorrenze di fatti a cui, nel tempo, sono stati protagonisti o testimoni).
Il punto è: non c'è e non potrà mai esserci un dopo Berlusconi. Infatti, insieme, ma un po’ al di sopra di Renzi e Verdini, Berlusconi governa e nomina, irrorando l'Italia di “gente come tutti”. Ovvero gente come lui. Ci invitano ad apprezzarli perché la guerra è finita. Non sentite che profumo di legalità?

Corriere 7.9.14
La sinistra di governo si scopre superficiale
di Marco Demarco


«Che sarà mai», la sinistra italiana non l’ha mai detto. Lo dice ora con Renzi. Ora che incontra Berlusconi al Nazareno; quando deve commentare le negative variazioni del Pil; o quando c’è da replicare alla copertina dell’ Economist , quella del gelato. Per l’ «unfit» appioppato a Berlusconi venne giù il mondo e l’allora premier dovette impegnarsi in una causa per diffamazione, che poi perse. Ora invece la musica è cambiata. Che sarà mai! «Preferisco rispondere con leggerezza», ha spiegato Renzi citando Calvino e leccando allegramente il suo cono crema e limone. Prima di lui, la sinistra ha sempre drammatizzato, storicizzato, problematizzato, ma mai si è autorappresentata leggera e volutamente superficiale. Buonista, semmai. Ma Veltroni, che pure ha contribuito non poco all’alleggerimento, si è comunque portato dietro un carico pesante di nostalgie. E poi ha aggiunto, più che sottrarre: ha messo dentro i Kennedy e Jovanottini senza mai togliere Berlinguer, tanto per dire. E invece quando Renzi ha fatto entrare quel carretto di gelati nel Palazzo, tutto è cambiato. Col dessert servito ai giornalisti non c’è stata più storia per la polenta classista di Bertolucci o per la crostata all’inciucio di D’Alema. Il quale ora critica il governo e lamenta scarsi risultati? E che sarà mai. «Ha fatto il suo tempo», dice la renziana Serracchiani. Una sinistra che un tempo si vantava di essere laica e progressista, anche se non sempre lo è stata, ora è dunque orgogliosa di dirsi leggera e finanche superficiale. In Il desiderio di essere come Tutti , l’ultimo libro di Francesco Piccolo, «di sinistra» per autodefinizione, ad esempio, la laicità è assente come parola e come concetto. E di progressismo neanche a parlarne. La superficialità, di contro, c’è sempre: dalle prime alle ultime pagine. Ad un certo punto, Piccolo addirittura se la sposa, essendosi essa incarnata in Chesaramai, la sua compagna nella vita reale.
Nel libro, Piccolo la chiama proprio così: Chesaramai. E spiega perché. Perché è un continuo e realistico invito a non prendertela, al «che vuoi che sia». Quello di Chesaramai è un altro modo, più benevolo e indulgente, di vivere la vita. Nulla a che vedere, si direbbe, col galleggiamento qualunquistico o col sugherismo terzista; o con la leggerezza di Italo Calvino, troppo elitaria; o con quella di Milan Kundera, troppo colpevole; piuttosto un omaggio alla «forza delle cose», a quell’idea per niente snob che fu di Goffredo Parise e che Francesco Piccolo fa ora sua. Quando Berlusconi vince le elezioni la prima volta, Chesaramai non drammatizza. «Passerà», dice. Mentre tutti gli altri «di sinistra» già si disperano, perché pensano che la storia sia finita lì, come quando hanno ammazzato Moro, come quando è morto Berlinguer. Ed è finita? Macché.
La laicità implica una distinzione. Come la tolleranza, l’altro da tollerare. E dunque si porta dietro l’impegno, la storia, la nostalgia dei padri e delle generazioni migliori, e tanta, troppa cultura politica. La superficialità, teorizza Piccolo, ti consegna invece al presente. Essa ha tanta legittimità di esistere quanto la profondità. Per certi versi, anzi, ti responsabilizza di più e meglio. L’impegno come opposto della superficialità, si legge ancora nel libro, aveva un suo quid quando la sinistra era parte minoritaria e perdente della società; quando più si impegnava, più si distingueva moralmente e più si isolava politicamente. Ma oggi? Oggi che la sinistra è, se non «Tutti», come il titolo del libro suggerisce, di sicuro più del 40 per cento dei votanti, perché continuare ad avere la puzza al naso? Oggi non è l’avversario che scaraventa la superficialità addosso alla sinistra, perché non tiene conto delle compatibilità o perché insegue chimere o perché non le insegue abbastanza. Oggi è la sinistra che se la prende e se la porta a casa.

Repubblica 7.9.14
Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar
di Eugenio Scalfari


Malgrado la ‘ndrangheta, anche alcuni calabresi sono bravi ragazzi e testardi per natura. Sicché “nessuno li può fermar”. Meno male.
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DA TRE giorni a questa parte i casi nostri si concentrano in un nome, quello di Mario Draghi e sulla sua politica contro la deflazione che sta massacrando l’Europa e l’Italia in particolare.
La strategia di Draghi è stata da lui stesso illustrata in modo molto chiaro e si può riassumere così: ha già ridotto al minimo il tasso di sconto e sotto al minimo quello sui depositi a breve termine delle banche presso la Bce. Metterà a disposizione del sistema bancario europeo una quantità illimitata di liquidità con contratto a quattro anni; sconterà obbligazioni cartolarizzate di imprese europee; se necessario acquisterà titoli di debiti sovrani sui mercati secondari dei paesi in difficoltà.
Questa politica ha un obiettivo primario: rialzare il tasso di inflazione in prossimità al 2 per cento (attualmente in Europa è prossimo allo zero) e un obiettivo secondario ma interconnesso che è quello di abbassare il tasso di cambio dell’euro-dollaro almeno verso l’1,25 ma possibilmente all’1,20 contro dollaro. Questo risultato potrà essere anche attuato con interventi sui mercati di paesi terzi con monete diverse dall’euro, vendendo quote della nostra moneta e deprimendo così il cambio con riflessi sulle quotazioni del dollaro. L’insieme di questi intenti non è di facilissima esecuzione ma la Bce e le Banche centrali nazionali dell’area europea sono perfettamente in grado di effettuarli con rapidità ed efficienza. Ma c’è un aspetto molto problematico: le imprese europee sono parte attiva di questo programma, debbono cioè essere disponibili a indebitarsi con le banche, sia pure a tassi di interesse abbastanza ridotti rispetto a quelli attuali.
SE HANNO progetti di investimenti e se i governi le incentivano a investire, il sistema delle imprese farà quello che ci si aspetta; ma attualmente questa disponibilità non c’è o è comunque insufficiente, sicché questa seconda parte della strategia di Draghi rischia di non dare i risultati attesi.
La motivazione è evidente: la Bce, come tutte le Banche centrali, può agire sulla deflazione, ma gli strumenti per combattere la recessione-depressione non sono nelle sue mani ma in quelle dei governi ai quali non a caso Draghi raccomanda riforme adeguate sul lavoro, sulla competitività e sulla distribuzione più equa della ricchezza. La Banca centrale è perfettamente consapevole di questa situazione e lo è anche la Commissione europea e in particolare la Germania. Di qui l’alternativa (che non consente alibi) ai paesi più colpiti dalla depressione tra i quali al primo posto c’è purtroppo l’Italia: le riforme economiche sui temi che abbiamo prima indicato debbono essere fatte subito; soltanto dopo, quando saranno state varate e rese esecutive l’Italia potrà ottenere quella flessibilità che gli consenta d’avviare un rilancio della domanda e della crescita consistente e duraturo. Perdere tempo in altre iniziative è letale se ritarda questo tipo di riforme. Meglio in tal caso cedere alla Commissione una parte della propria sovranità nazionale affinché sia l’Ue ad avere la possibilità di emettere direttive direttamente applicate in materia di lavoro e di fisco.
Questo è ora il bivio di fronte al quale il nostro governo si trova.
Finora non sembra sia pienamente consapevole della drammaticità della situazione e delle proprie responsabilità. Renzi si sente politicamente forte nel Partito socialista europeo e per conseguenza anche di fronte all’altro partito, quello Popolare, che con i socialisti fa maggioranza nel Parlamento dell’Unione. Pensa — o almeno così dice di pensare — d’essere in grado di fare la voce grossa a Bruxelles e di ottenere così, almeno in parte, quella flessibilità che gli consenta di alleviare il ristagno della nostra economia.
Le riforme le farà ma ci vuole tempo. Il bivio configurato da Draghi è vero solo in parte e non si può bloccare la forza politica di Renzi. La nomina della Mogherini, secondo lui, ne è stata la prova.
A me, osservando i movimenti del nostro presidente del Consiglio, viene in mente quella vecchia canzone americana nota e canticchiata in tutto il mondo occidentale: “Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar”. E l’altra: “Quando i santi marciano tutti insieme a me piacerebbe marciare con loro”.
Ma bisogna essere bravi ragazzi o santi. Francamente non mi pare che siamo né l’una né l’altra cosa e basta guardarsi intorno per capirlo fin dalla prima occhiata.
* * *
Dunque siamo arrivati a Matteo Renzi, al suo governo, alla montagna di problemi che si sono accumulati sulle sue spalle. Debbo dire che li porta molto bene, non perde l’allegria, le battute, la mossa.
La mossa per lui è importante, gli viene spontaneamente e riesce quasi sempre a bucare il video delle tivù e le prime pagine dei giornali. Pensate: sono tre giorni che i media hanno tra gli argomenti principali la decisione di Renzi di non andare al “salotto buono” di Ambrosetti a Cernobbio. Ci saranno cinque dei suoi ministri, due o tre premi Nobel, i principali industriali italiani e la stampa di mezzo mondo ma lui ha deciso che andrà a Brescia per festeggiare la ripresa d’attività d’una azienda che aveva avuto alcuni incidenti di percorso. Tre giorni e ancora se ne parla. Mi sembra incredibile.
Mi piace citare un passo scritto da Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì: «Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all’artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista. Finché non faremo un discorso alla nazione, sorridente quanto si voglia, ma pieno di verità, non ce la caveremo. Renzi ha già metà del piede nella tagliola che in Italia non tarda mai a scattare».
Così Ferrara. Personalmente mi auguro che la tagliola non scatti perché allo stato dei fatti non abbiamo alternative. L’ho scritto più volte. Criticavo Renzi per parecchi errori compiuti ma al tempo stesso dicevo: votate per lui, che altro si può fare? Erano in vista le elezioni europee del 25 maggio dove infatti prese il 40,8 per cento dei voti. Non certo per merito mio, ma ne fui contento sperando che cambiasse. Invece è peggiorato. È un artista della comunicazione come scrive Ferrara, io lo definirei un seduttore come Berlusconi, ma tutti e due si credono statisti e questo è il guaio grosso del paese.
L’ultimo mutamento renziano è stato quello dell’annunciazione (meglio che chiamarla “annuncite”, come dice lui) del programma dei mille giorni che durerà fino alla fine della legislatura.
Vi ricordate la fase dell’annunciazione? Un giorno diceva: nel prossimo giugno faremo la riforma del lavoro e in un mese la porteremo a termine; io ci metto la faccia, se non si fa me ne vado.
Il giorno dopo annunciava per il mese di luglio la semplificazione della pubblica amministrazione con le stesse parole e metteva sempre la faccia in gioco. Il giorno successivo annunciava per settembre la riforma della scuola. Idem come sopra.
La sola volta in cui riuscì fu la prima approvazione della riforma costituzionale del Senato: la voleva per l’8 agosto e l’ot- tenne. Quella era a mio avviso una sciagura e si vedrà nei prossimi mesi se e come finirà, ma la ottenne anche perché ci furono i voti di Berlusconi. Due seduttori uniti insieme possono fare uno statista ma di solito di pessima qualità. * * * Dunque dall’annunciazione ai mille giorni, perché si è capito che in un mese una riforma che mira a cambiare una parte dello Stato non è neppure pensabile. La faccia non ce l’ha messa. È una fortuna perché oggi ci troveremmo senza un governo, senza un programma, schiacciati dalla recessione e della deflazione proprio nel momento in cui spetta all’Italia ancora per tre mesi la presidenza semestrale dell’Unione europea.
È una fortuna, ma anche una sciagura perché il nostro Renzi, che snobba Cernobbio (e chi se ne frega), adesso interferisce anche con Draghi. All’esortazione di fare subito almeno la riforma del lavoro per trattare con la Commissione (e con la Merkel) una dose accettabile di flessibilità, ha risposto: «Subito? Ma che dice Draghi? Ci vuole il tempo che ci vuole per una riforma di quell’importanza». Ma lui non ci aveva messo la faccia per farla in un mese?
Io so in che modo la si può far subito: con i voti di Berlusconi il quale altro non vuole che stare nella maggioranza non solo per le leggi costituzionali ma anche per quelle economiche. Per tutte. E non pretende nemmeno che Renzi glielo chieda. Anzi, Renzi dirà che non chiede niente a nessuno, è un bravo ragazzo e nessuno lo fermerà.
Ma Berlusconi si sente un santo, anzi un padre della Patria che vuole marciare con tutti gli altri fino al 2018. Così poi lo vedremo inserito nell’album della storia d’Italia accanto ai volti di Mazzini, Garibaldi e Cavour.
Uno schifo, ma temo assai che finisca così. * * * Ci sarebbero tante altre cose da trattare, sulle coperture finanziare che non ci sono, sul taglio lineare di tutti i ministeri, sul blocco per il quinto anno agli stipendi degli statali e sul taglio a quelli delle Forze dell’ordine. Ma tralascio. Una notizia però viene dalla Calabria, anzi due. È una delle regioni più povere d’Italia ed anche purtroppo delle più corrotte.
Non a caso la ‘ndrangheta è la mafia più forte d’Europa ed ha ormai i suoi centri più attivi a Milano, Torino, Lione, Amburgo, Bogotà. La prima notizia arriva dal sindaco di Locri che l’ha resa pubblica, l’ha affissa sui muri della città e l’ha comunicata al presidente della Repubblica e anche a papa Francesco: il Comune ha 125 dipendenti e da tre anni quelli in servizio (non sempre gli stessi) sono 25; gli altri cento stanno a casa o in ospedale perché ammalati o perché l’autobus non funzionava o perché la moglie li ha abbandonati o per altre ragioni più o meno comprensibili.
Il sindaco li ha ammoniti, puniti, ne ha proposto il licenziamento ma il consiglio comunale, la segreteria, i partiti, le famiglie, lo hanno di fatto impedito. I 125 ci sono sempre, i 25 al lavoro anche, i cento assenti pure. Il sindaco si chiama Calabrese ed ama la sua terra. Forse papa Francesco farà un miracolo. Speriamo bene.
La seconda notizia riguarda una sentenza del Tar di Catanzaro ottenuta dall’avvocato Gianluigi Pellegrino che a suo tempo ne aveva ottenuta una analoga sul consiglio comunale di Roma presieduto dalla Polverini.
Nel caso di Catanzaro si trattava della Regione, presieduta da Scopelliti. Indagato per malversazioni varie, Scopelliti fu condannato in primo grado e sei mesi dopo la condanna si dimise dalla Regione. Per automatismo anche il consiglio regionale si sciolse ma prima approvò un atto in extremis: tolse al prefetto il potere di indire le elezioni e lo affidò al vicepresidente del consiglio regionale nonostante anche lui fosse dimissionario.
Nel frattempo il Consiglio dimissionario continuò a riunirsi regolarmente, votare progetti, assunzioni, appalti, incarichi, senza che né la destra (che governava il Comune) né i consiglieri Pd si astenessero da comportamenti indebiti.
A quel punto un comitato di cittadini da tempo esistente, che ha per fine quello di combattere i soprusi e gli illeciti della Pubblica amministrazione, incaricò Pellegrino di citare dinanzi al Tar quanto accadeva a Catanzaro. Contemporaneamente il suddetto comitato e il suddetto avvocato informarono di quanto avveniva la presidenza del Consiglio chiedendone l’intervento. La lettera e l’intera pratica furono passate al capo del Dipartimento uffici giudiziari di Palazzo Chigi, diretto da certa Antonella Manzione, già capo dei vigili urbani di Firenze quando il sindaco era Renzi.
Come un capo dei vigili possa assumere la guida dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio è un fatto misterioso. Forse si sperava in un mistero gaudioso ma non sembra che sia così. Infatti di fronte al ricorso contro il consiglio regionale di Catanzaro la Manzione non ha trovato di meglio che rivolgersi al ministero dell’Interno per suggerimenti sul da fare e la pratica è ancora ferma lì.
Per fortuna il Tar ha provveduto: le elezioni sono state indette per il 10 ottobre e il commissario ad acta è di nuovo il prefetto.

Corriere 7.9.14
Da Mani pulite al «chi sbaglia paga»
L’amore infranto tra sinistra e toghe
Caselli: è stata la politica a delegare. Spataro: vedo solo marketing
di Goffredo Buccini

È come l’amore impossibile con la signora della porta accanto, né con te, né senza di te . Intossicato, come le passioni fatali. «Il Pd? La sinistra? Bah, la verità è che nessun partito investe più sulla magistratura: forse perché tutti hanno capito che la legalità non conviene», ridacchia amaro Giuseppe Cascini, pm di punta nella nuova e aggressiva Procura romana di Giuseppe Pignatone, già segretario dell’Anm e voce forte di Magistratura democratica, la corrente «rossa» delle toghe: «C’era comunque un equivoco. In questi vent’anni non era la magistratura a voler far fuori Berlusconi ma la politica che, non riuscendoci, sperava lo facessimo noi. Tutto ciò è finito».
Di sicuro ogni cambio di stagione porta i suoi frutti avvelenati nella lunga storia di attrazione tra sinistra e magistrati che, per alcuni, comincerebbe con la questione morale evocata da Berlinguer nella famosa intervista a Scalfari del luglio 1981. L’idea della diversità comunista — e dunque di un rapporto preferenziale con le toghe, che quella diversità avrebbero certo sancito — prenderebbe le mosse da lì. Anche se appare angusto ridurre così la visione del segretario del Pci (Berlinguer pensava a un’autoriforma dei partiti, alla loro ritirata da enti e istituzioni, non certo a uno tsunami giustizialista).
È però possibile che, oggi, il tramonto del berlusconismo e l’alba del renzismo abbiano davvero rotto un vecchio patto non scritto e tante volte sgualcito. «Chi sbaglia, paga!», ha proclamato il giovane premier del Pd rilanciando il tema spinosissimo della responsabilità civile dei giudici. La voleva Craxi, la chiesero gli italiani con un referendum, l’ha sempre predicata Berlusconi. Renzi ne propone certo una versione light (e indiretta). Tuttavia…
«Chi sbaglia paga è uno slogan, può portare a qualche… apprensione», ammette Donatella Ferranti, doppia militanza Pd e Md, e presidente della commissione Giustizia della Camera: «Ma noi non vogliamo fare una riforma in odio a qualcuno, men che meno ai magistrati».
I grani del rosario però son lì a snocciolarsi. Mica soltanto la responsabilità civile: pure le intercettazioni e perfino le ferie (troppe, secondo Renzi e forse secondo molti cittadini comuni). Dunque c’è chi evoca tempi bui, chi ricorda la Bicamerale di D‘Alema (fallita), la bozza Boato (sepolta), il tentativo della riforma Mastella (azzoppato di lì a poco anche da un’inchiesta giudiziaria). Insomma i momenti in cui il maggiore azionista della sinistra italiana provò a camminare senza stampelle togate.
«Il partito dei giudici? Mai esistito. La sinistra, anche quando governava, con Prodi, soffriva molto la magistratura», sostiene Michele Emiliano, ex sindaco pd di Bari, ex pm. Cosa cambia adesso? «Tutto. Renzi è legittimato a mettere mano a lentezze e inefficienze della categoria». Fine ricreazione. Il ministro Orlando ha parlato di «magistrati ai quali è piaciuto incarnare la funzione di cambiare la società, che è invece politica». Certo era il sogno della toga rossa Ciccio Misiani, intransigente e visionario.
«Ma non della maggioranza di Md», obietta Giancarlo Caselli, che per alcuni fu con Luciano Violante anima dell’alleanza toghe-Pci, soprattutto negli anni del terrorismo: «Nella mia carriera mi hanno dato del fascista, servo sciocco di Dalla Chiesa ai tempi delle Br; e del comunista a Palermo, come Falcone, il che mi onora. L’anomalia del Paese è che quando un magistrato si occupa di un politico viene accusato lui stesso di fare politica. E certo ha ragione Orlando, spetta alla politica la funzione del buon governo: ma — è storia degli ultimi vent’anni — la politica ha delegato problemi gravissimi alla magistratura (per dirne due, mafia e corruzione). Sempre con un’asticella da non superare. Se la si supera, comincia l’attacco: si fa uso distorto del garantismo, nel senso di maggiori chance di farla franca soprattutto per imputati eccellenti. L’interfaccia di tutto questo è la normalizzazione, tagliarci le unghie. A me confezionarono una legge contra personam per avere osato fare il processo Andreotti».
Sergio D’Angelo, pm della pretura nella Milano pre-Tangentopoli, entrò in Md nel ’74, ne uscì nel ’91: da apostata. Oggi è molto richiesto da quei saggisti tesi a dimostrare come nella corrente «rossa» dell’Anm abbia allignato il male assoluto: «Md ha smesso di avere idee proprie quando il Pci se n’è impadronito negli anni Ottanta. Fino ad allora aveva prevalso il garantismo. Adesso è un centro di interesse come un altro, è finita, non ha più ossatura politica». Giudizio duro. Contro cui si oppone chi non t’aspetti, Emanuele Macaluso, uno degli ultimi grandi dirigenti comunisti che sempre contrastò la deriva giustizialista: «Md nacque come reazione al porto delle nebbie, contro una magistratura asservita alla Dc. E talora non solo alla Dc». Negli occhi, le lotte accanto a Li Causi, il blocco criminale di mafiosi e agrari... «Su 36 dirigenti sindacali ammazzati in Sicilia non ci fu nemmeno una sentenza di condanna! Md rovesciò questa situazione. Ma ciò portò alla giustizia di classe, non allo stato di diritto, frontiera su cui eravamo attestati Napolitano, Chiaromonte e io. Il Pci non ebbe la forza per questo passo». Certe storie procedono a balzi. Il più recente conflitto di Giorgio Napolitano, diventato presidente della Repubblica, con Antonio Ingroia e gli altri pm palermitani della trattativa Stato-mafia ha affrettato il distacco del Pd dalle toghe? «Ingroia ha piegato tutta la sua attività giudiziaria a un obiettivo politico, la sua fine sta tutta lì», sorride Macaluso: «Napolitano s’è battuto per un principio. E per il futuro. Anche per il prossimo presidente».
La stagione del collateralismo, oggi, pare pronta per gli archivi. Durò poco più d’un anno al tempo di Mani pulite, giusto l’illusione di Occhetto di veder cadere gli avversari tenendo il partito in salvo. Tutto è ancora vivo nel ricordo di Gherardo Colombo che, nel 1998, in una clamorosa intervista a Giuseppe D’Avanzo sul Corriere, sostenne che la bicamerale di D’Alema fosse figlia della «società del ricatto». «Sedici anni dopo — ragiona Colombo — il non emerso è ancora forte e ancora in grado di condizionare le relazioni politiche. Tuttavia, il rischio adesso non è che si agisca perché si è ricattabili, ma perché si è… convinti. E dire che non sarebbe difficile riformare la giustizia complessivamente, in modo che funzioni».
Armando Spataro, procuratore di Torino, a lungo ha condiviso con lui impegno e inchieste a Milano; è stato tra i fondatori di Movimento per la giustizia, ora alleato di Md nel «cartello» Area: «Rischiamo riforme approvate senza adeguata riflessione. Alcune annunziate con grafici a torta e tecniche da marketing che, specie in assenza di testi, nulla dicono sui contenuti. Esempi? Chi giudica non nomina, chi nomina non giudica , per la riforma del Csm, alludendo ad una giustizia disciplinare corporativa, in realtà smentita dai fatti. Oppure chi sbaglia paga , per introdurre la responsabilità civile dei giudici, ma senza nulla dire sulla realtà internazionale alla quale la nostra è conforme. Insomma slogan o ovvietà assolute. Sembra che sul banco degli imputati vi siano tutti i magistrati, unici responsabili dei guasti». Il clima è questo. «Io però, nonostante tutto, continuo ad aver fiducia nella sensibilità del ministro Orlando».
La Ferranti , dal suo scranno in commissione Giustizia, pare (quasi) categorica: «Autonomia dei magistrati e obbligatorietà dell’azione penale sono principi intoccabili!». Dunque lo farebbe un hashtag #staiserenaAnm ? «Oddio, nooo, scriva “tranquilla”, serena no, dai! Chi sbaglia proprio tanto, beh, alla fine, paga».

Corriere 7.9.14
Bulli e razzismo al liceo francese di Roma
Bufera sulla scuola d’élite per la denuncia della moglie dell’ex console
di Rinaldo Frignani

ROMA — Ha cambiato scuola, ma i segni — fisici e psicologici — dei soprusi subìti per oltre quattro mesi non sono scomparsi. Botte e insulti razzisti fra i banchi esclusivi dello Chateaubriand, il prestigioso istituto francese frequentato soprattutto da figli di intellettuali, giornalisti, facoltosi professionisti, politici, attori, registi. E molti diplomatici, italiani e stranieri. Il top dell’istruzione e dell’apprendimento delle lingue, un’educazione di alto livello per un costo di almeno 7 mila euro all’anno. Ma per un ragazzino di 13 anni, J. M. figlio dell’ex console di Francia nella Capitale, in carica fino ad agosto, sono state invece settimane da incubo: tre compagni di scuola più grandi, quattordicenni, italiani, gli hanno ripetuto «sei un brutto negro», lo hanno preso a schiaffi e calci durante la ricreazione.
Una persecuzione rivelata ora dalla madre e confermata dal preside Joel Lust, che parla di altri episodi di bullismo all’interno dell’istituto. «Nel febbraio scorso — racconta la donna — mio figlio, che aveva 12 anni e da tempo tornava spesso a casa da scuola con segni di contusioni, ha avuto dolori fortissimi all’addome e l’abbiamo portato in ospedale. Abbiamo scoperto che erano l’effetto di una tensione psicologica, prolungata e fortissima: solo a quel punto — prosegue la moglie dell’ex console, dipendente dell’ambasciata francese — ci ha confessato che dalla fine dell’anno precedente tre compagni di classe italiani lo colpivano con schiaffi e calci, insultandolo, almeno due-tre volte a settimana. Lo abbiamo messo in malattia e ad aprile ha cambiato scuola, perdendo l’anno. Ha subìto danni psicologici accertati. E ci sono molti altri casi simili: lì razzismo e violenza sono pratica quotidiana, “brutto negro” e “viva il duce” sono espressioni comuni. E molti lasciano ogni anno la scuola perché non vengono tutelati».
Un’accusa precisa, circostanziata, quella della moglie dell’alto diplomatico francese. Non è chiaro se la donna abbia presentato denuncia anche alle autorità italiane, visto che per il momento a polizia e carabinieri non risultano fatti di questo genere. Ma i genitori degli alunni — sia quelli iscritti all’Ape (Associazione genitori alunni) sia all’Upel (Unione dei genitori) — hanno scritto all’Agenzia dell’insegnamento francese all’estero (Aefe) a Parigi per segnalare questo e altri episodi di bullismo e razzismo allo Chateaubriand, dove il tredicenne non sarebbe l’unica vittima e dove saluti romani, slogan fascisti, botte agli studenti più giovani non sarebbero una novità. «Il fenomeno è molto più diffuso, molti non denunciano per paura e la scuola fa troppo poco», confermano i rappresentanti dei genitori che sui loro siti internet hanno da tempo inserito documenti e relazioni, nonché programmi con iniziative contro i bulli e l’harcelement , ovvero la persecuzione sistematica dei ragazzi.
Una questione molto sentita, quindi, nella scuola che fra gli ex alunni vede il ministro Marianna Madia, i figli di Michele Santoro ed Emilio Fede, dell’ex sindaco Franco Carraro, di Vasco Rossi e del presentatore Jocelyn, e cognomi del calibro di Eco, Comencini e Vanzina, Angela, Cocciante e Mastroianni. Alla scuola della Capitale — che ha conosciuto anche proteste e occupazioni — sono iscritti 1.500 ragazzi, dalle elementari al diploma superiore, di 30 nazionalità, divisi nelle sedi di Villa Borghese e Villa Patrizi (Porta Pia). Gli alunni italiani rappresentano il 60 per cento degli iscritti, i francesi appena il 15. Con il passare degli anni la rivalità è aumentata, con una netta prevalenza di studenti romani. Ed è comparsa la politica, quella di estrema destra, che ha preso il sopravvento sulle comitive rap degli anni Novanta che avevano come punto di ritrovo i bar di piazzale Flaminio. «A quei teppisti la scuola non ha fatto nulla — accusa ancora la madre del tredicenne —, li hanno costretti solo a scrivere un compito sul bullismo». Immediata la replica del preside Lust, in carica da due anni e con un’esperienza di un quarto di secolo nell’insegnamento fra Madagascar e Canada: «Non è vero — ribatte —, sul caso abbiamo istituito una commissione interna, con una psicologa esterna, che all’unanimità ha concluso che si è trattato di episodi di intimidazione fisica e non di persecuzione. I tre sono stati sospesi per mezza giornata e abbiamo fatto incontri formativi in tutte le classi. È vero invece — ammette il preside — che ci sono stati episodi di razzismo e bullismo, ma sono stati limitati, come avviene in tutte le scuole, niente di più. L’anno scorso sono stati 3-4, come quello del figlio del console: uno di razzismo, uno con slogan fascisti, ma siamo sempre intervenuti con l’educazione». Episodi che non sarebbero però usciti dalle mura dello Chateaubriand. «Sarebbe stato utile convocare i quattro ragazzi coinvolti e farli parlare fra loro», chiarisce la psicologa Sara Di Michele, membro esterno della commissione, che aggiunge: «La famiglia del tredicenne non ha voluto».

Repubblica 7.9.14
Il ruolo dell’Iran nella guerra alla Jihad
di Renzo Guolo

LA DECISIONE Nato di far nascere una coalizione contro lo Stato Islamico era inevitabile: troppo grande il rischio prodotto dall’emergere di una realtà politica e ideologica destinata altrimenti a riscrivere la carta del Medioriente e a produrre problemi di sicurezza globali.
Ma l’altrettanto inevitabile scelta di fare una guerra dell’aria pone degli interrogativi. Dal momento che nessun conflitto può essere vinto senza mettere gli scarponi a terra, qualcuno quella guerra tra le sabbie deve pur combatterla. Tutti sanno che non basteranno i peshmerga curdi, pure ben armati. Dunque, altri dovranno marciare sul terreno: ma chi? Washington ritiene che l’Alleanza occidentale possa costruire una coalizione a geometria variabile con i paesi sunniti interessati a mettere fine al radicamento neocaliffale. A partire dall’Arabia Saudita che pure ha svolto il ruolo di apprendista stregone con gli jihadisti impegnati in Siria e Iraq. Il Califfato mette, infatti, in discussione innanzitutto il rivendicato ruolo saudita di guida dell’Islam e custode dei luoghi santi. Oltre che la legittimità della monarchia quale braccio politico del wahhabismo. Un ruolo decisivo avrà anche la Turchia, membro nella Nato, che dopo il tramonto del sogno europeo vede nel nuovo potere in nero un ostacolo alla sua svolta neottomana. Peso rilevante avrà l’Egitto, che si pone ormai come naturale argine al fondamentalismo islamico in tutte le sue versioni.
Ma turchi e sauditi sono in competizione per l’egemonia nel mondo sunnita, così come gli egiziani sono alleati dei sauditi e ostili ai turchi in nome della comune lotta contro i Fratelli Musulmani. I sauditi, poi, hanno un obiettivo che fa premio su tutto e li ha impegnati nella lunga proxy war di cui sono stati protagonisti dal 1979 a oggi: spezzare la corda tesa dell’arco sciita che va da Teheran alla Beirut degli Hezbollah passando per Damasco e ridare profondità strategica alla punta di lancia sunnita. Conficcandola saldamente in Siria e Iraq. Pensare che i sauditi possano limitarsi a contenere o sconfiggere lo Stato Islamico sarebbe ingenuo: il Califfato è solo un incidente di percorso sulla strada della vera partita che conta, quella con l’Iran.
Gli iraniani, e i loro alleati libanesi del Partito di Dio, sono però gli unici a avere già gli scarponi sul terreno in Siria e Iraq. E lo Stato Islamico può essere battuto solo se si aggredisce su quel duplice fronte. L’intervento di Hezbollah ha impedito che il regime di Assad, che oggi fa da barriera all’espansione del Califfato verso il Mediterraneo, crollasse; quello delle brigate Al Qods, corpo d’elite dei Pasdaran, ha evitato che lo Stato islamico sfondasse nel Kurdistan e che il massacro di cristiani, turcomanni e yazidi, giungesse a compimento. In Iraq gli iraniani sono schierati per preservare i luoghi santi sciiti di Kerbala e Najaf dalla promessa distruzione dell’IS. Prospettiva che farebbe scattare, come minacciato dall’ayatollah Khamenei, il diretto e totale intervento iraniano nel conflitto.
Insomma, difficile ignorare il peso dell’Iran nella regione. Obama non è ostile a questo riconoscimento, anche perché deciso a chiudere sulla vicenda del nucleare, ma deve procedere con cautela: per l’opposizione della destra repubblicana e quella di Israele, oltre che per l’ostilità saudita. In ogni caso, Teheran non lascerà che l’alleanza sunnita metta in ombra l’agognato ruolo di potenza regionale decisa a dire la sua sul futuro della Mesopotamia. La collaborazione, sia pure non dichiarata, potrà avvenire solo se lo scambio politico non sarà unilaterale.
La sconfitta di Al Baghdadi passa, dunque, per il coinvolgimento dell’Iran nel sistema, più o meno informale, di alleanze. Se così non fosse, la delega occidentale alle potenze regionali sunnite a combattere il conflitto sul terreno sarebbe destinata a produrre un’instabilità destinata a far impallidire le tensioni attuali. In quel caso dopo la fine del Califfato, l’emergenza sarebbe ben più problematica. È bene che il quadro sia chiaro anche all’Italia, coinvolta a pieno titolo nella coalizione. Perché l’ora delle scelte non lascerà spazio al senno di poi.

Corriere 7.9.14
Migrazioni

La debolezza delle regole
di Ernesto Galli della Loggia


Con la presenza nelle proprie file di un numero rilevante di persone provenienti da Europa e Usa la sfida che il cosiddetto Stato Islamico e il terrorismo jihadista lanciano all’Occidente non è più solo, e tanto, una sfida di carattere militare. È una sfida diretta a quello che forse è stato negli ultimi decenni il principale luogo comune culturale che ha dominato le élite e quindi le opinioni pubbliche di questa parte del mondo.
È una sfida al multiculturalismo. All’idea cioè che debbano (e quindi possano) esistere società con una molteplicità di culture anche diversissime: basta che vi siano regole capaci di assicurarne la pacifica convivenza. Dando così per scontati due assunti che invece non lo sono per nulla: a) che le regole (per esempio la parità dei sessi o l’habeas corpus ) siano in qualche modo neutrali, universalmente accettate e accettabili, e non siano invece, come sono, il prodotto di valori storici propri di certe culture ma non di altre; e b) che le società siano tenute insieme principalmente dalle regole, dai codici e dalle Costituzioni, piuttosto che da legami identitari profondi, dalla condivisone innanzi tutto psicologica ed emotiva dei valori storici di cui sopra. Per capirci: se ogni cittadino di questa parte del mondo ha un soprassalto di repulsa nel vedere un crocifisso fatto a pezzi o una sinagoga data alle fiamme, non è perché ci sia una legge che vieti queste cose, ma per ragioni che con ciò non hanno nulla a che fare, e che semmai sono la premessa necessaria di una tale legge. Le regole, le leggi, funzionano, per l’appunto, solamente se premesse del genere esistono.
Le società occidentali attuali, viceversa, sembrano essersi fatte un punto d’onore nel progressivo indebolimento dei loro valori identitari, del legame con la tradizione culturale, dunque con la storia, sostituiti da una vera e propria fissazione, all’opposto, sulle regole e su chi e come le amministra (dai giudici ai tribunali). Da tempo, in tal modo, esse appaiono sempre più avviate sulla strada dell’astrattezza e del formalismo, in una parola dell’irrealtà. Non a caso: per ambire a qualche consistenza, infatti, il sogno multiculturale ha bisogno di una società senza valori e senza storia, bensì costituita e retta solo da regole universali assurte esse, in quanto tali, al rango di valori supremi. Con le conseguenze sulla dimensione stessa del «politico», nonché sulla consistenza della cultura politica e la capacità di decidere delle loro leadership , che sono sotto gli occhi di tutti.
L’intera politica dell’immigrazione e dell’accoglienza praticate dai Paesi dell’Europa occidentale — un’immigrazione proveniente in prevalenza dalla grande area della cultura islamica — si è ispirata al sogno multiculturale di cui sto dicendo. Un sogno che comporta come primo risultato la convinzione che nulla bisogna fare affinché chi giunge nei nostri Paesi sia indotto a integrarsi assimilandone i tratti culturali, cioè gli unici che possono produrre anche il rispetto delle loro regole (sì da ottenere in tal modo — ma solo in tal modo — anche la piena cittadinanza in un tempo ragionevole).
Il caso limite che indica dove possa portare una prassi del genere è quello della Gran Bretagna, dove alle comunità islamiche è stata riconosciuta senza troppi problemi la cittadinanza, ma insieme, paradossalmente, anche la facoltà di auto amministrarsi dando loro la possibilità di applicare al proprio interno addirittura le regole della sharia . Con la conseguenza, per esempio, di cui si è saputo di recente, di autorità di polizia spinte a chiudere gli occhi su una catena di crimini gravissimi (pedofilia, stupri, avviamento alla prostituzione, traffico di esseri umani), verificatisi all’interno di una di queste comunità, per il timore che perseguirli avrebbe significato tirarsi addosso l’accusa di etnocentrismo, di pregiudizio culturale, magari di islamofobia o chissà cos’altro. Come meravigliarsi allora se proprio dalla Gran Bretagna proviene il maggior numero di persone con passaporto europeo — non necessariamente di origine islamica, ci sono anche dei convertiti — accorse ad arruolarsi nelle schiere del Califfato di Al Baghdadi? Ma la Gran Bretagna è solo la parte di un tutto. La Gran Bretagna siamo noi con le nostre società. Società che ormai credono illegittimo in qualunque ambito non dico imporre, ma neppure suggerire, criteri di comportamento sulla base di ciò che è bene e ciò che è male, e al massimo affidano questo compito solo al codice penale (seppure…); che svalutano sistematicamente qualunque cosa sia considerata parte di una tradizione (dalla fede religiosa all’eredità culturale); che sembrano sempre più convinte che neppure più la natura costituisca un limite per checchessia. Ebbene, i combattenti europei sotto le bandiere dello Stato Islamico, in specie quelli che arrivano dalle nostre società, ci mandano a dire che, declinati a questo modo, i valori di libertà e di tolleranza che noi ci ostiniamo a credere così attraenti e desiderabili da tutti — anche da chi approda tra noi provenendo dai più lontani altrove — a una parte del mondo e alle sue culture, invece, non piacciono per nulla. Anzi, non pochi di coloro che ne fanno parte li considerano quanto di più ostile possa esistere al loro più intimo modo di essere, quanto di più contrario al modo in cui essi concepiscono una collettività umana: fino al punto di impugnare un coltello per sgozzare chi in qualche modo rappresenta quei valori che sono i nostri.
Non è allora venuto il momento di chiederci in quanti altri casi la nostra libertà produca in realtà solo odio e disprezzo? Di domandarci una buona volta perché ciò accade, se per avventura non ci sia qualcosa nel progetto multiculturale che non funziona? Non è per nulla detto, infatti, che le culture siano nate per intendersi. Forse, anzi, è tragicamente vero il contrario; così come sicuramente è vero che a cambiare le cose non bastano né i sogni né tanto meno i buoni sentimenti.

La Stampa 7.9.14
Se va in crisi il «modello francese»
C’era un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui la sinistra italiana guardava al leader del Ps francese come a un oracolo. Parigi, la gauche, la retorica dei diritti, gli intellettuali «engagé». 
di Cesare Martinetti


E poi, ancora, il fascino machiavellico di Mitterrand, la coerenza radicale di Jospin, padre (con Martine Aubry) delle 35 ore. Ma con quale occhio i militanti della Festa dell’Unità di Bologna scruteranno oggi pomeriggio Manuel Valls, il primo ministro che chiuderà la manifestazione insieme a Matteo Renzi? 
Fino a centosessanta giorni fa Manuel Valls era il socialista più popolare di Francia. Oggi è un uomo solo che tenta di salvare capra e cavoli, il governo e la sua personale reputazione. La caduta senza rete e senza fine di François Hollande lo sta trascinando nel gorgo. Domenica scorsa a La Rochelle i militanti lo hanno anche fischiato. I capi delle correnti Ps (che in Francia vengono chiamati «elefanti») tacciono nell’attesa di veder passare sulla Senna davanti a Palais Bourbon, sede dell’Assemblée, il cadavere del suo secondo governo. Potrebbe succedere già il 16 settembre, quando Valls presenterà il suo programma. Il governo è in carica, secondo il sistema francese la sua legittimità discende dall’investitura presidenziale. Ma una sfiducia sarebbe difficile da reggere. Ormai perduti tutti gli altri alleati della sinistra un tempo «plurale», qualche decina di «frondeurs» sono in agguato nel Ps. Il programma di governo largamente social-liberale renderebbe del tutto plausibile qualche voto da destra: ma nella politica francese è inconcepibile un’idea anche pallida di larga coalizione. O di qua o di là.
Se fino a prima della sconvolgente comparsa del feuilleton erotico-politico della sua ex compagna Valérie Trierweiler Hollande sembrava deciso anche a un governo di minoranza per sfidare le resistenze di un paese dov’è più facile far le rivoluzioni che le riforme, ora l’esercizio appare inimmaginabile. E dunque insieme a questo spettacolare dramma nazionale che si sta svolgendo tra l’Eliseo e l’Hotel de Matignon, il palazzo presidenziale e l’ufficio del primo ministro, un’altra crisi epocale si sta aprendo: l’architettura della Quinta Repubblica rischia di sfasciarsi.
Ma come? Non era il sistema più sicuro? Ad ogni discussione italiana su riforme ed elezioni, il «modello» francese appariva come una sicurezza. Alla sinistra piaceva il maggioritario a doppio turno; alla destra il presidenzialismo, pudicamente chiamato «semi presidenzialismo», come per mascherare la natura quasi monarchica del sistema. E ora? Quelle istituzioni, costruite da De Gaulle per superare la rissa continua e inconcludente della Quarta Repubblica – proporzionale e parlamentare – dovevano essere uno scudo anticrisi permanente. E così è stato. Ma tutto questo funziona se il presidente-monarca preserva la sua vita e il suo statuto dalle interferenze esterne. «Camere stagne», diceva De Gaulle. Quello che non era previsto e mai si era verificato è un vaudeville umano e politico come quello di Hollande. Scriveva ieri Le Monde: «La sua legittimità formale è protetta dalla costituzione, ma la sua legittimità personale è a brandelli, quella politica in rovina e la fiducia del Paese vicina allo zero».
È qui che il «modello» francese, com’era abitualmente definito da giornali e politici italiani, entra in una crisi storica: un sistema fortissimo che si sta ora rivelando debolissimo laddove sembrava risiedere la sua forza e cioè nella stabilità assicurata dal presidente eletto dal popolo. Può bastare la vendetta di una donna tradita a mettere in crisi un’architettura istituzionale? È quello che sta accadendo, ora per ora, con una discesa agli inferi che nemmeno il politologo più catastrofista poteva immaginare. 
Manuel Valls farà oggi un discorso «renziano». Lo ha annunciato ieri con uno dei suoi rari tweet: «La gauche européenne unie à Bologne: Matteo ci vediamo domani». La sinistra europea unita a Bologna: il primo ministro è costretto a lanciare la palla in alto e in lungo. Renzi è il suo alleato più naturale contro le rigidità tedesche. Ma Valls ha un altro imperativo: tentare di sganciare l’immagine sua e del governo da François Hollande. Operazione iniziata prima del caso Trierweiler. Il vero regista del blitz che dieci giorni fa ha cambiato il governo e messo fuori tre ministri di sinistra a cominciare da quello dell’economia sostituito con un ex banchiere, sarebbe il primo ministro più che il presidente. L’influente giornale online Mediapart ha parlato del «18 brumaio di Manuel Valls», accusandolo più o meno di colpo di Stato.
È la dura legge del «modello», tutto è già proiettato sulla sfida del 2017, il resto della politica ne discende e si conforma. Hollande difficilmente sarà ricandidato. Valls deve arrivare all’appuntamento con qualche successo politico, a cominciare dall’inversione della curva della disoccupazione. Un sondaggio dell’Express fatto in questi giorni dice che Marine Le Pen vincerebbe contro un socialista e contro tutti i leader della destra ad eccezione di Alain Juppé. La République in mano a una Presidente che appartiene al partito che non hai mai sottoscritto il patto repubblicano? Urge una sesta repubblica, o un Presidente davvero normale, prima che sia troppo tardi.

Times  Sept. 5, 2014
1 in 10 Girls Gets Raped or Sexually Abused Before Age 20, U.N. Report Says
by Rishi Iyengar

qui segnalazione di Luigi De Michele


il Fatto 7.9.14
L’intervista Stefano Rodotà
Quando dissi a Pertini: “Un compagno certe cose non le fa”
di Silvia Truzzi


I DIRITTI SOPRATTUTTO
Professore, deputato, garante della privacy: da studioso e da politico Stefano Rodotà si è occupato molto di garanzie, libertà e tutele
STEFANO RODOTÀ è nato a Cosenza nel 1933. Dopo il diploma di maturità classica, si è iscritto a Giurisprudenza alla Sapienza dove si è laureato nel 1955 con Emilio Betti. Ha insegnato nelle Università di Macerata, Genova e Roma, dove è stato professore ordinario di Diritto civile e dove gli è stato conferito il titolo di professore emerito di Diritto civile. È stato visiting fellow presso l’All Souls College di Oxford e la Stanford School of Law. Ha insegnato presso la facoltà di Giurisprudenza della Sorbonne e ha collaborato con il Collége de France. È eletto per la prima volta deputato nel 1979 come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano. Nel 1989 è nominato ministro della Giustizia nel governo ombra creato dal Pci di Occhetto e successivamente, dopo il XX Congresso del Partito comunista e la svolta della Bolognina, aderisce al Partito Democratico della Sinistra, di cui diventa primo presidente. Rieletto nel 1992 con il Pds, diventa vicepresidente della Camera dei deputati e fa parte della nuova Bicamerale. Nel 1994, al termine della legislatura, decide di non ricandidarsi. Autore di numerosi libri, sia scientifici che divulgativi, collabora con Repubblica dalla sua fondazione.


Orvieto Siccome nell’Eugénie Grandet, Balzac mette in guardia dall’adulazione (“non appartiene alle anime grandi, ma è appannaggio di quelle meschine. L’adulazione presuppone un interesse”), non diremo a Stefano Rodotà che moltissimi rimpiangono la sua mancata elezione al Colle. Ma forse è solo la verità dire che ora, nei tempi delle riforme costituzionali last minute, l’Italia avrebbe bisogno di quel garantismo che è stata la cifra di una lunga esistenza. E che viene da lontano. “L’unico momento in cui mi sono visto riconoscere una sorta di continuità genetica con l’origine arbëreshë dei miei avi, fu quando Cesare Luporini mi disse: ‘Ho capito tutto questo tuo garantismo, vieni da una minoranza oppressa’. Anche se non posso dire di essermi portato dentro un pezzo di quella cultura”. Soprattutto ci sono i libri, nei ricordi del professore. Una casa, quella dei nonni a Cosenza, invasa da volumi catalogati, stanza per stanza, in ordine cronologico. “Da ragazzino, li divoravo, soprattutto quelli di varia letteratura, storia e filosofia. Quelli di diritto invece li snobbavo proprio”.
Poi però ha scelto Giurisprudenza.
Mi domando ancora oggi perché. Gli unici due zii che avevano studiato Legge, si erano laureati ma poi avevano fatto altro. M’interessava il rapporto con la realtà, come si organizza lo Stato. Mi sono convertito al diritto privato per Alberto Asquini, le cui lezioni di diritto commerciale erano apparentemente noiosissime, ma dimostravano dall’interno come funzionava il meccanismo del diritto. Poi mi sono laureato con Emilio Betti, un grandissimo giurista: uomo severissimo e rigorosissimo. C’è un paradosso, perché entrambi erano stati molto legati al Fascismo: Asquini era stato addirittura sottosegretario. Betti si espose durante la Repubblica di Salò, con articoli sul Corriere della Sera in cui giustificava le esecuzioni dei partigiani con argomentazioni giuridiche e formali. Lui era marchigiano, nei giorni della Liberazione, a Giuseppe Ferri – partigiano e docente di Diritto commerciale – dicono: “Hanno preso un professore”. Lui capisce subito che si tratta di Betti, si precipita dal comandate della brigata partigiana e gli dice: ‘Ma è un professore, lasciamolo perdere’. Quello gli dice: ‘il tuo professore ha scritto cose gravissime, adesso lo fuciliamo’. Vanno a parlargli. E Betti ripete le sue tesi, parola per parola. Alla fine questo contadino comandante partigiano dice a Ferri: ‘il professore non ci sta con la testa, portatelo via’. La mia vicenda accademica è stata poi segnata dall’incontro con Rosario Nicolò, uomo generoso e aperto all’innovazione culturale.
Cos’era Roma per un ragazzo che arrivava dalla Calabria negli anni 50?
Per me era la Biblioteca Nazionale, era andare al cinema. Precisamente al circolo del cinema Charlie Chaplin, che era quello di sinistra e dove gli spettacoli erano la domenica mattina al Cinema Rialto in via IV Novembre: tu andavi lì e incontravi Moravia e Pasolini. A Roma c’era un’infinità di cose da fare, da vedere. Sono partito da Cosenza con una certa premeditazione. Non volevo tornare. Poi c’è stato l’incontro con la politica: al terzo anno, non avevo ancora compiuto 21 anni, scopro che esiste l’Ugi, l’Unione goliardica italiana. M’incuriosiva. Allora l’Ugi si trovava a metà di via del Tritone, in un palazzetto dove c’era la sede dell’Associazione italiana per la libertà della cultura presieduta da Ignazio Silone. Arrivo e in fondo alla sala si alza un tipo, piccolino, e mi viene incontro: era Tullio De Mauro. Così entro in questo giro e chi conosco, tra i primi? Marco Pannella. Comincio a frequentare l’Ugi, che nel frattempo si dota di una giunta, presieduta da un cattolico, e io divento vicepresidente degli organismi rappresentativi, cioè del parlamentino. C’erano anche fondi a disposizione: insomma era un piccolo partito universitario. Presiedo l’Unione goliardica romana, quando Togliatti decide di sciogliere l’organizzazione universitaria comunista e di far confluire gli iscritti nell’Ugi, che era molto laica. All’interno dell’Ugi c’erano molte resistenze ad accogliere i comunisti. Ed è proprio l’associazione romana a fare da cavia, per vedere come vengono accolte le domande dei comunisti. I primi ad arrivare sono due ragazzi che si chiamano Alberto ed Enzo. Di cognome Asor Rosa e Siciliano. Marco Pannella invece era liberale, ma a me non interessava. A quel mondo mi sono avvicinato, perché m’interessava molto Ugo La Malfa, che ho conosciuto bene nonostante la differenza d’età. Era un vero politico, di straordinaria vivacità. In realtà nemmeno il Partito repubblicano m’interessava.
Però il partito radicale sì.
Ci arrivai attraverso il Mondo. Marco mi dice: ‘Raimondo Craveri fa una rivista, lo Spettatore italiano, andiamo a trovarlo’. E così andiamo in questa casa bellissima di piazza Santi Apostoli. Lì conosco Elena Croce, figlia di Benedetto e moglie di Craveri: una donna intelligentissima, spiritosa, interessatissima ai giovani. Elena un giorno annuncia a me e Tullio: ‘Voglio presentarvi Pannunzio’. Così andiamo in via di Campo Marzio dove c’era la sede del giornale. Pannunzio era circondato da una fama di grande intransigenza: aveva fatto riscrivere l’articolo sui fratelli Cervi a Einaudi, presidente della Repubblica. Non concedeva niente a nessuno. A un certo punto dell’incontro ci dice: pensate a farmi qualche proposta. Avevo 23 anni. Il Mondo per noi allora era una passione quasi morbosa, un’adorazione per questa impresa straordinaria. Tanto che andavamo alla stazione, la notte prima dell’uscita del giornale, a comprare le copie appena arrivate in edicola.
E fece qualche proposta a Pannunzio?
Certo! Scrivo subito un articolo sulla mia Facoltà, e lo porto in redazione. Due settimane dopo compro il Mondo e in prima pagina di spalla c’è il mio articolo. Titolo: L’ideale dei mediocri. Sono quasi svenuto! A questo punto sono stato ammesso in quel circolo. Non ho scritto tanti articoli, ma moltissimi taccuini, cioè i commenti anonimi ai fatti della settimana che stavano nella seconda pagina. Una cosa che per me era motivo di orgoglio assoluto.
E Silone che tipo era?
Una persona scostante e molto antipatica. A un certo punto lui non voleva noi ragazzi tra i piedi. E allora dovemmo cercare un’altra sede. C’era il centro culturale di comunità, voluto da Adriano Olivetti anche a Roma, in via di Porta Pinciana 6, dove si trasferì l’Ugi e dove io passai veramente un pezzo della mia vita: ci andavo tutte le sere. E ogni tanto faceva una visita Olivetti che mi prese in grandissima simpatia. Facevamo lunghissime chiacchierate. Qualche volta passava Guglielmo Negri, che dirigeva il Centro di Comunità. E diceva: ‘Ingegnere non si faccia incantare da Rodotà. Guardi che qui all’Ugi ogni tanto i libri se li rubano! ’. E lui: ‘Li rubano? Ma allora vuol dire che li leggono’. Aveva un po’ ragione e un po’ no: eravamo tutti senza una lira e qualcuno se li rivendeva pure. Un anno dopo la laurea, vado in Inghilterra. È il 1957. Mi arriva una lettera di mio padre che mi dice: ‘Caro Stefano, ha telefonato l’ingegner Adriano Olivetti. Dice che sei vai alla Barclays Bank di Londra c’è una cosa per te’. In banca c’erano 300 mila lire, un regalo per una persona che lui stimava. Al mio ritorno, Olivetti m’invita a Ivrea. Parto da Roma e viaggio tutta la notte. Arrivo a Ivrea in una giornata di novembre gelida, nebbiosa. Non era certo Ivrea la bella di Gozzano! A ricevermi c’è Ottiero Ottieri, che poi avrebbe raccontato questa sua esperienza di reclutatore in Donnarumma all’assalto. Ottieri invece di invogliarmi, mi fa un discorso sulla tristezza dell’intellettuale chiuso a Ivrea. Alla fine dissi no, anche se l’offerta economica era molto generosa. Avevo deciso che quello che mi piaceva fare era studiare. Ero già assistente, non avevo un incarico fisso, ma allora la carriera universitaria era scandita dai tempi e uno si poteva programmare la vita, non certo come adesso. Ho avuto la fortuna di poter fare quel che più mi piaceva, in primo luogo nella ricerca e nell’insegnamento, con un progetto di reintegrare il diritto in un più largo contesto culturale che mi sono poi portato in giro per il mondo.
La passione per la politica continua.
È stata intensissima negli anni universitari, ed è proseguita nel rapporto col Mondo. Quando il giornale diventa il motore della scissione nella sinistra liberale e della costituzione del partito radicale, io che non avevo mai bazzicato nei partiti, trovo l’esperienza interessante. Il Mondo si schiera fortemente a favore della legge Truffa, su cui mia moglie ha scritto un libretto. Carla ogni tanto mi dice: ‘Ma che cosa ho fatto! Ho trattato così male dei signori perbene. Guardando cosa succede oggi con il Porcellum e tutto il resto, dovrei chiedere scusa! ’. Comunque il Mondo si schiera incondizionatamente a favore della legge Truffa. La frase ‘turatevi il naso e votate i laici alleati con la Dc’ è di Gaetano Salvemini, che la dice in quell’occasione. Ma allora io stavo dalla parte di quelli che si opponevano. Il riferimento per me fu quel raggruppamento creato da Parri, Calamandrei e Jemolo, cioè Unità popolare, che fu importante per impedire che scattasse il 50,1 per cento che avrebbe dato quel tanto vituperato premio di maggioranza che paragonato alle attuali proposte, era un modello di democrazia.
La sua carriera di commentatore comincia allora?
Nella prima fase del partito radicale sono stato molto attivo. Con il caso Piccardi – ex ministro del governo Badoglio, di cui si scoprì la partecipazione a un convegno con i nazisti – il partito si spacca. E Marco ne raccoglie la bandiera con Ernesto Rossi. Ma io non li seguo. In quegli anni comincio a scrivere sui giornali: prima per il Globo, diretto da Antonio Ghirelli e sul quale scriveva mia moglie, poi per il Giorno di Afeltra, poi su Panorama, dove ho tenuto una rubrica settimanale fino all’avvento di Berlusconi. Ogni settimana ricevevo reazioni, molte telefonate dei politici. In quegli anni io ero molto vicino al Partito socialista di De Martino, anche se non sono mai stato iscritto: ho collaborato allora con vecchi amici come Giuliano Amato, Enzo Cheli, Federico Mancini, Gino Giugni, Gianni Ferrara. Ricordo benissimo uno dei primi scioperi della fame di Pannella. Una notte suonò il telefono tardissimo: era De Martino, preoccupatissimo. ‘Rodotà, faccia qualcosa. Quello mi muore’. Una volta scrissi una rubrica per criticare Pertini, allora presidente della Camera, che non convocava il Parlamento in seduta comune per eleggere un giudice costituzionale. La questione riguardava Lelio Basso, sul quale c’era un veto della Dc e soprattutto una fortissima e antica antipatia di Pertini. Un giorno alzo il telefono: ‘Mi dicono che tu sei un compagno’. Era Pertini, che voleva spiegarmi le sue ragioni. E io gli risposi: ‘Anche a me dicono che tu sei un compagno. Ma i compagni certe cose non le fanno’. Da questa furibonda litigata è nata una profondissima amicizia.
Perché decise di accettare la candidatura come indipendente del Pci nel ‘79?
Quando cominciò la fase del terrorismo, io criticai duramente le posizioni incarnate da Ugo Pecchioli. Mi chiamò Pannella e mi offrì la candidatura. Io Marco lo conoscevo molto bene. Gli ho sempre riconosciuto grandi meriti: nelle sue battaglie ci ha messo tutto, anche il corpo. Però era un autocrate, non ha mai permesso che si costruisse nulla. Decise di fare l’operazione di apertura al Movimento sociale, perché riteneva che in quel momento, dopo le battaglie su aborto, divorzio, obiezione di coscienza, il partito potesse avere una capacità attrattiva verso quel mondo: non potevo candidarmi con loro. A questo punto mi chiama Luigi Berlinguer: premetto che io mi ero pubblicamente schierato contro la Legge Reale, su quelle norme ‘a tutela dell’ordine pubblico’. Erano i tardi anni 70, gli anni di piombo, io ero convintamente garantista. Ricordo un articolo di Paolo Mieli sull’Espresso in cui prendeva in giro il partito dei garantisti: ‘Segretario Mancini, vicesegretario Rodotà’. Erano momenti difficili di minacce e accuse, mi dicevano ‘difensore dei terroristi’. Luigi mi dice che l’altro Berlinguer, Enrico, mi vuole vedere per propormi una candidatura. Ma io volevo incontrare Pecchioli, che era esattamente dall’altra parte. Il 6 aprile 1979 entro per la prima volta a Botteghe Oscure. E gli dico: ‘Senta voglio capire i motivi di questa offerta, visto che ho preso posizioni pubbliche molto nette, facendo nomi e cognomi tra cui il suo’. Pecchioli mi dice: ‘In questo momento le tue posizioni su diritti e garanzie ci interessano. Però se tua avessi preso posizioni diverse sul caso Moro, non te avremmo chiesto’. Ero stato anch’io, come Repubblica, sostenitore della linea della fermezza, cioè ero contrario a ogni trattativa con i terroristi. Il che non mi aveva impedito di avere rapporti con la famiglia quando si cercò la via di una trattativa non con lo Stato, ma tramite terzi, come la Croce Rossa. L’idea di andare in Parlamento m’interessava: un giurista ha delle carte da giocarsi. Così decido di candidarmi. Pannella divenne una belva, Gino Giugni e Giuliano Amato erano molto sconcertati.
L’impatto con la Camera?
Ci ho messo quasi un anno a capire dove stavo: c’era un’altissima professionalità parlamentare, non si improvvisava. Si studiava, non si andava a orecchio: bisognava stare al passo. Ho discusso infinite volte con Nilde Iotti. Le dicevo: ‘Nilde la maggioranza si tutela con i numeri che ha, tu devi tutelare le minoranze’. Le minoranze erano le opposizioni, cioè il Pci. Ma lei non voleva dare l’impressione di avere un occhio di riguardo e poi non condivideva alcune forme di lotta parlamentare, come l’ostruzionismo. C’era un’idea del Pci, molto condivisa anche da Giorgio Napolitano, che le istituzioni dovessero funzionare. Ma come presiedeva Nilde Iotti... Aveva un’autorevolezza, qualcuno le imputava perfino un’aurea regale. Entrava in aula spaccando il secondo, non tollerava sbavature. Tutto quello che abbiamo visto in questi anni – cartelloni, magliette, la mortadella, il cappio – con lei non sarebbe potuto accadere.
In quegli anni il capo dello Stato era Francesco Cossiga. O meglio, Kossiga.
I miei rapporti personali con Cossiga fino a un certo punto sono stati eccellenti. Chiamava così spesso a casa, che a volte i miei figli si dimenticavano di riferirmi che mi aveva cercato. Mio padre ogni tanto mi chiamava e diceva: ‘Stefano mi ha telefonato il presidente della Repubblica, dice che ti ha cercato ma tu non lo richiami. Richiamalo’. Lui era così. Certe sere, siccome c’è la regola che nessuno se ne può andare prima del presidente, Carla gli disse: ‘Presidente sono le tre, ho sonno’. Telefonava: ‘Vengo a fare una passeggiata in montagna con voi’. Purtroppo i suoi metodi erano inaccettabili. Minacciava le persone, faceva delle vere mascalzonate. Mi chiamava e mi diceva: ‘Di’ ai tuoi amici di Magistratura democratica che se non la piantano con la storia della massoneria, faccio l’ira di Dio’. Quando andò a occupare il Csm, io ero lì. Disse contro di me: ‘Rodotà pratica l’indipendenza al Csm, ma non nelle piazze della Sardegna’. E citò delle località dove io ero appena stato: più che una coincidenza.
Come sono stati gli anni di Tangentopoli visti dal Parlamento?
Già prima di Mani pulite, il Parlamento diventa un luogo guardato con sospetto, non più con rispetto. La sera in cui si diffonde la notizia che la Camera aveva negato l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, esco dal Parlamento e m’imbatto in gruppi di persone furibonde: ho dovuto dire a tutti che io avevo votato a favore, erano fuori dalla grazia di Dio. Sostenere che la famosa serata delle monetine è stata organizzata è una sciocchezza. La protesta era già montata. Un giorno Vito Laterza mi chiama e mi dice: ‘Gianni Bar-bacetto ed Elio Veltri hanno scritto un libro sugli scandali della politica milanese, faresti la prefazione? Bobbio non ha voluto’. Io lo leggo, lo trovo interessante e scrivo. Apriti cielo: vengo addirittura deferito al collegio dei probiviri del partito, perché in quel libro veniva chiamato in causa anche il Pci milanese. E secondo loro come presidente del Pds non avrei dovuto scrivere la prefazione. Poi la cosa davanti ai probiviri si risolve in niente, e si scopre che il Pci milanese era coinvolto nelle vicende di Tangentopoli. Su questo ho avuto molti scontri con i vertici del Pci.
Ce li racconta?
Io vengo eletto presidente del Pds perché loro sbagliano i conti al congresso di Rimini e Occhetto non viene eletto, perché la maggioranza era troppo alta. Si rinvia tutto e comincia un assedio a me perché io accetti di fare il presidente. D’Alema insiste molto, Ingrao anche. Tant’è che vengo eletto con maggioranza bulgara. Ma non serve a tenere insieme il partito e soprattutto a fare quello che secondo me era implicito nella Bolognina, e cioè l’apertura all’esterno. Mi ostacolano in ogni modo: il cambiamento del nome sì, l’autocritica sì. Ma chi aveva in mano il partito, voleva gestirlo esattamente come prima. Allora il partito discuteva moltissimo. Io proposi che le commissioni di lavoro fossero composte per metà da iscritti e per metà da esterni. Tutti contrari. E dicevo: ma guardate che nessuno vi verrà a chiedere nomine o candidature. La verità è che mi hanno sempre considerato un corpo estraneo.
Già Berlinguer aveva sollevato la questione morale.
In quell’intervista a Eugenio Scalfari parlava anche al suo partito. Per me era assolutamente evidente. Io so, perché negli ultimi anni ebbi rapporti assidui con Enrico, che voleva fare pulizia nel partito, ma anche che voleva valorizzare il contributo esterno. Ricordo il mio ultimo intervento come presidente del Pds: chiesi che il partito convocasse un’ assise sulla corruzione, con gli amministratori locali. C’erano stati casi, non solo a Milano.
Prima ha citato Napolitano. In che rapporti siete?
Ho avuto divergenze e buoni rapporti con Napolitano, fino a ieri. Anche la vicenda della presidenza della Camera nel ‘92, non l’ho mai personalizzata. Sono stato il primo a congratularmi con Napolitano per la sua elezione al Quirinale. Ci sono stati rapporti cordialissimi: è venuto alle nostre nozze d’oro, siamo stati spesso al Quirinale e Castelporziano. Nella questione della mia candidatura al Quirinale, io non ho mai pensato che avrebbe portato alla mia elezione. Però pensavo che potesse dare una scossa, per uscire dalla prigionia delle Larghe intese. Soprattutto, in quel momento, la rielezione di Napolitano non era un’ipotesi. Sulla vicenda delle riforme ho sempre sostenuto la loro necessità, anche in Parlamento, fin dal 1985, a cominciare dall’eliminazione del bicameralismo perfetto. A condizione però di rispettare sempre i principi fondamentali della Costituzione, di cui il presidente della Repubblica dovrebbe sempre ricordare il necessario rispetto.
Secondo lei Renzi avrà la forza di concludere questa riforma?
Spero di no, ma ormai c’è un intreccio d’interessi che va oltre. Capisco che l’espressione ‘autoritarismo’ abbia dato fastidio, ma evidentemente abbiamo toccato un nervo scoperto. Questa parola ha svelato che il re è nudo: quel che si vuole fare è modificare la Costituzione in maniera assolutamente illegittima, per realizzare un accentramento dei poteri mascherato con l’esigenza della governabilità. Se passano l’Italicum e questa riforma costituzionale la democrazia parlamentare è superata. E questo non si può fare. Io vedo un’enorme fragilità di questo governo. La riforma è peggio di quella che aveva voluto Berlusconi.

il Fatto 7.9.14
Storie d’Italia. L’arresto dei capi delle Br
La soffiata per far scappare Curcio e Franceschini
di Gian Carlo Caselli


Quarant’anni fa, l’8 settembre 1974, venivano arrestati a Pinerolo – dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa – due capi storici delle Brigate rosse, due “soci fondatori” dell’organizzazione criminale: Renato Curcio e Alberto Franceschini. L’arresto era stato di poco successivo al sequestro del magistrato genovese Mario Sossi, il primo “attacco al cuore dello Stato” sferrato dai brigatisti. Ed era avvenuto grazie a Silvano Girotto, un personaggio noto come “Frate Mitra”: prima rapinatore, poi legionario, poi frate, infine guerrigliero in Bolivia e in Cile; rientrato in Italia e avvicinato dai carabinieri, aveva accettato di collaborare cercando di infiltrarsi nelle Br. Cosa che gli era riuscita sfruttando i contatti via via procuratigli da un medico di Borgomanero, militante Br “irregolare ” (cioè non clandestino). Alla fine aveva incontrato vari brigatisti “regolari”, aveva superato l’esame di “ammissione” e li aveva convinti a reclutarlo fissando con loro un appuntamento, a Pinerolo – appunto – per l’8 settembre.
PER GLI APPASSIONATI di “misteri” italiani, grandi o piccoli, ce n’è uno non da poco anche in questo caso. “Curcio sarà arrestato domenica a Pinerolo”: è la telefonata che il medico ricevette nel cuore della notte da un ignoto “amico”. Invano il medico cercò di rintracciare Curcio per avvertirlo e così la trappola predisposta dai Carabinieri riuscì a scattare, sia per lui che per Franceschini che l’aveva accompagnato a Pinerolo. Brutta storia, mai chiarita, quella della telefonata, posto che la soffiata poteva averla fatta soltanto qualcuno assai ben informato (persino degli incontri di Girotto con il medico), qualcuno che evidentemente non gradiva che il nucleo di Dalla Chiesa portasse a segno un colpo così importante. Comincia così anche la storia infinita di che cosa fossero in realtà le Br, se un gruppo davvero “rivoluzionario” oppure un gruppo per certi profili collegato con soggetti o strutture esterne. La mia opinione è che sostanzialmente le Br non siano mai state nulla di diverso da quello che conosciamo, anche se il terrorismo è un piatto sporco in cui possono infilarsi le mani più diverse, sicché spazi per dubbi e sospetti non mancano di certo.
Piuttosto bisognerebbe tornare a riflettere sul fatto che il terrorismo brigatista si propose come metodo violento di lotta politica in una fase in cui nel nostro Paese si andavano affermando con le armi della democrazia nuovi spazi, nuovi diritti per le classi sociali tradizionalmente escluse dal potere. Perché gli anni Settanta non furono soltanto “di piombo” ma anche gli anni della legge sul divorzio, dello statuto dei lavoratori, del compromesso storico, dell’alternanza nell’amministrazione di grandi città italiane fin lì “bloccate”.
Tutte novità che le Brigate rosse certamente non favorivano se non addirittura soffocavano. Al punto che si è anche parlato di Br criminalmente efficienti ma politicamente subalterne: non necessariamente nel senso di un’eterodirezione, ma più probabilmente nel senso di una sostanziale incapacità (al di là di tutti i proclami e delle roboanti risoluzioni strategiche) di elaborare una linea politica autonoma, senza “succhiare le ruote” dei movimenti e delle forze che si fronteggiavano democraticamente nel Paese.
TORNANDO ALL’ARRESTO di Curcio e Franceschini, nel primo interrogatorio si dichiararono ambedue prigionieri politici, pur manifestando personalità piuttosto distanti. Curcio cercava di “catechizzare” parlando delle sue letture (Heinrich Böll), mentre Franceschini, autodefinitosi “rivoluzionario di professione”, recitava la sua parte anche provocando con domande sull’appartenenza a “magistratura democratica”, dando a intendere che secondo lui i magistrati che erano di questa corrente avrebbero dovuto essere dalla sua parte... tipica manifestazione dell’incapacità dei brigatisti di capire la realtà italiana, evidentemente troppo complessa per loro. Ma c’era poco da scherzare, perché ancora per una decina di anni avremmo dovuto subire una guerra con una lunghissima scia di sangue e sofferenza. Una guerra unilateralmente dichiarata dal mondo parallelo e cupo della clandestinità: da qualcuno che stabiliva quali “nemici” meritassero di essere sequestrati, quali di morire ammazzati e quali di vivere storpiati dalle gambizzazioni. In attesa che da questa feroce “macelleria” spuntasse l’impossibile sole della rivoluzione...

La Stampa 7.9.14
Vasilij Grossman, il libro venuto dal futuro
Lo scrittore russo moriva 50 anni fa. In Vita e destino ha narrato il Lager e il gulag, ma anche la violenza e l’ipocrisia al potere, la forza degli eroi umiliati, le vittime che diventano carnefici: anticipando temi del nostro secolo
di Gianni Riotta


Alla fine degli Anni Cinquanta, mentre gli intellettuali snob piagnucolano la morte del Romanzo a Milano e New York, un gigante russo, solo, poverissimo, malato, senza salario e editore, stende il capolavoro della letteratura del XX secolo, disperando di vederlo mai stampato. La vita e il destino di Vasilij Semënovic Grossman, autore del romanzo monumentale e leggendario Vita e destino (Adelphi), sarebbero da soli trama struggente e simbolica, ma il suo lavoro titanico, tra persecuzione sovietica e solitudine, testimonia del coraggio morale di un artista.
Nato a Berdicev in Ucraina il 12 dicembre 1905, Grossman muore a 58 anni, il 14 settembre 1964, roso dal cancro allo stomaco, senza cure, senza sostegno, certo che il suo romanzo non vedrà la luce. Glielo assicura il Gran Censore del Pcus, Mikhail Suslov («Il tuo libro non potrà esser pubblicato neppure fra 300 anni…»), e gli agenti del Kgb, apparato di repressione che l’ex agente Vladimir Putin riabilita a Mosca, sequestrano nella dacia, la villetta di Grossman, manoscritti, note, perfino i nastri della macchina da scrivere. Una copia singola è affidata a un amico, occultata in un armadio da Semyon Lipkin, trafugata dallo scrittore satirico Voinovich, microfilmata dal fisico dissidente Andrej Sacharov, contrabbandata in Svizzera per la trascrizione degli attivisti Etkind e Markish.
Nulla nella vita di Grossman lasciava prevedere il destino avventuroso e tormentato. Dall’Ucraina della famiglia ebrea, va a lavorare nel Donbass, l’area industriale teatro della guerra 2014 tra russi e ucraini. Decide però di dedicarsi alla scrittura, i suoi racconti attraggono l’attenzione del patriarca delle lettere Gorky e le lodi di Bulgakov, genio sperimentale del Maestro e Margherita. Il timidissimo scrittore, con gli occhiali di tartaruga e i modi ben educati, viene apprezzato nei circoli della capitale, ma sono gli anni terribili delle purghe, l’era di Yezhov, capo della Nkvd, i cui agenti in giacca di cuoio arrestano milioni di innocenti di notte, finendoli poi, dopo grotteschi processi e torture orrende, con un colpo di pistola alla nuca. Così cadono il poeta Mandel’štam, il figlio della poetessa Akhmatova, lo scrittore Babel’, che pure era amico della moglie di Yezhov, e una generazione di contadini, intellettuali, operai, quadri. Il timido Grossman, quando l’ex marito della sua nuova compagna, Olga Mikhailovna, viene arrestato – e lei con lui secondo tragica usanza russa –, non esita a scrivere a Yezhov, chiedendo la liberazione della donna e facendosi affidare i figli. Bastava molto meno per finire al gulag o nella fossa comune. Grossman la scampa, dando la prima prova di coraggio.
Quando poi Hitler attacca la Russia nel 1941, l’intellettuale che non ha mai imbracciato un fucile si arruola e scrive per il giornale dell’esercito. Sfugge per un soffio all’avanzata tedesca, vede Berdicev cadere nelle mani naziste, saprà dopo che la mamma è stata giustiziata, con migliaia di ebrei, nei pogrom. Dalla ritirata dell’Armata Rossa, all’assedio e la controffensiva di Stalingrado, 1942-1943, fino alla battaglia di Kursk, il più grande duello di carri armati della storia, alla liberazione del Lager di Treblinka e la caduta di Berlino 1945, Grossman è in prima linea l’inviato più amato dai soldati. All’ombra di una tenda, accanto a un falò di campo, tra le barelle degli ospedali, vede i soldati, macilenti, stanchi, leggersi a vicenda gli articoli che firma, senza propaganda, fermandosi su un vecchio profugo fiero, una bambina senza casa, la solidarietà di chi divide il rancio congelato. In una pagina, oggi raccolta da Adelphi, fa la storia del mulo italiano, sopravvissuto alla rotta dell’Armir, che si innamora di una cavallina russa e, tra le risate dei soldati, nitrisce felice nella steppa, fiaba nell’orrore.
Tornata la pace, Stalin perseguita gli ebrei. Il Libro nero di denuncia dei pogrom nazisti, scritto con Il’ja Erenburg (Mondadori), viene censurato e Grossman si vede isolato, ridotto a tradurre dall’armeno il libro di uno scrittorucolo (non conosce la lingua, si fa aiutare da una versione interlineare). Ma non si amareggia, senza livore si impegna su Vita e destino, racconti e reportage, Tutto scorre, La cagnetta, II bene sia con voi! (Adelphi, anche ebook).
Vita e destino è libro del futuro, già del XXI secolo nel contenuto, mentre la forma del romanzo tradizionale tiene testa a Guerra e pace di Tolstoj. Perché nel dar conto della vita del fisico Viktor Štrum, isolato e poi salvato da Stalin con una telefonata, Grossman racconta il totalitarismo, Lager e gulag in un romanzo, Levi con Solzenicyn, ma anche la violenza e l’ipocrisia al potere, la viltà di chi si piega, umano, la forza degli eroi umiliati, i mostri persecutori e le vittime sacrificali, il passaggio repentino, per un caso bizzarro, da un ruolo all’altro. Nel secolo delle masse che cozzano tra loro, Grossman, cronista e scrittore, si ferma sull’individuo dolente e irriducibile, e vive nel nostro tempo, stagione di persone libere, contro l’orrore dell’intolleranza.
Fermatevi, in questo anniversario di mezzo secolo, sulla pagina in cui una mamma, con la sola forza del suo amore, si sforza di levare il figlio caduto in battaglia dall’umile fossa di terra, come Gesù con Lazzaro. La battaglia tra amore e morte, famiglia e mondo terribile, è la morale di Grossman, senza la cadenza solenne di Beethoven che talvolta echeggia in Tolstoj, ma con leggerezza, ironia, sorriso. Dalle ceneri e i roghi del Novecento, con «onore senza gloria» secondo la massima di Benjamin, Vasilij Grossman indica una strada semplice e formidabile: noi persone, la nostra famiglia, la vita domestica, gli amici a cena siamo il luogo profondo delle libertà e delle fedi; nei sentimenti, l’amore, gli affetti, è il vero Sole dell’Avvenire. Augurare il bene al viandante sconosciuto come i contadini in Armenia è manifesto di emancipazione che sopravvive a Lenin, Stalin e ai loro epigoni di un secolo tragico, riscattato dal romanzo che neppure nel 2314 poteva esser pubblicato.

Corriere 7.9.14
L’arte sublime di riconoscersi
Telemaco incontra il padre Ulisse ed esce dall’ignoranza
di Pietro Citati


Telemaco incontra il padre Ulisse ed esce dall’ignoranza Un motivo che unisce Genesi e Pirandello, Roth e Dante Il primo riconoscimento famigliare nell’ Odissea avviene nella capanna di Eumeo, ad Itaca. La capanna di Eumeo è simile a una di quelle locande così frequenti nel romanzo europeo del Settecento e dell’Ottocento: luogo di incontro e di intreccio delle trame, spazio del racconto parlato. I cani scodinzolano senza abbaiare: si sente un rumore di piedi; Telemaco arriva davanti alla porta della stalla. Eumeo si alza stupefatto, e dalle mani gli cadono i vasi del vino. Piangendo va incontro a Telemaco, gli bacia il capo, gli occhi e le mani, lo abbraccia, come un padre accoglie un figlio che torna, il decimo anno, da una terra lontana. Gli dice:
Sei tornato Telemaco, mia dolce luce. Io non credevo / di rivederti, dopoché con la nave partisti per Pilo .
Sono le stesse parole che, fra poco, Penelope dirà al figlio. Che intensità di affetto, che dolcezza del cuore: il servo ama il figlio del padrone come se ne fosse la madre. L’uomo tornato da una terra lontana, Ulisse, è lì, mentre Eumeo piange e abbraccia Telemaco. Tace. Ignoriamo quali sentimenti percorrano il suo cuore, dietro gli occhi di corno.
Mentre Eumeo lascia la stalla, Atena appare nella sua metamorfosi preferita, come una esperta tessitrice. Telemaco non la vede, «perché gli dei non appaiono visibili a tutti». La scorgono i cani, che hanno il dono di percepire il divino più degli uomini: si spaventano, uggiolano e fuggono. Anche Ulisse la vede: la dea gli fa cenno coi sopraccigli; Ulisse esce dalla stalla e le sta di fronte. La dea gli ordina di rivelarsi al figlio, lo tocca con la verga d’oro, ne eleva la statura e il vigore, stende la pelle delle guance, fa ritornare nera la barba, lo ringiovanisce, e gli pone sul corpo un mantello e una tunica.
Quando Ulisse trasformato ritorna nella stalla, Telemaco lo guarda impaurito. Volge altrove lo sguardo, temendo che il padre sia un dio, e gli promette sacrifici e doni d’oro. «Risparmiaci». Quale terrore degli dei si rivela nel cuore di Telemaco: lo stesso terrore che le donne di Eleusi avevano provato davanti a Demetra, Achille davanti ad Atena, Elena davanti ad Afrodite. Ulisse risponde:
Non sono affatto un dio: perché mi eguagli agli dei? / Ma sono tuo padre, per il quale tu soffri / gemendo tanti dolori, subendo gli insulti degli uomini .
Lo bacia e piange. Telemaco non gli crede: «Non sei Ulisse, tu, mio padre, ma un demone m’incanta perché pianga ancora di più, gemendo… Somigli agli dei, che hanno il vasto cielo». Ulisse insiste.
Mai più ti verrà un altro Odisseo qui, / ma sono io quello, che soffrendo sventure e molto vagando / sono tornato al ventesimo anno nella terra dei padri .
Allora i due scoppiano in pianto: singhiozzano più fittamente e acutamente di uccelli, ai quali i contadini tolgono i figli ancora implumi. Il paragone è capovolto: Ulisse e Telemaco si ritrovano, mentre gli uccelli perdono i piccoli. Nel corso di venti anni, Ulisse e Telemaco avevano represso nel cuore tante lacrime, si erano allontanati così completamente l’uno dall’altro, che ora, nel momento di ritrovarsi, tutte le lacrime vengono alla luce, fitte e acute, e danno loro un doloroso senso di perdita, come se si smarrissero per sempre. In questo momento, Telemaco riconosce il padre: non ha bisogno di metterlo alla prova né di segni, in un libro dove tutti — Ulisse, Penelope, Laerte — mettono gli altri alla prova e domandano segni. Telemaco ha visto il padre quando era bambino: dopo venti anni non lo ricorda; eppure lo abbraccia piangendo, perché è giovane e ingenuo, e il viaggio a Pilo e a Sparta ha colmato la sua mente di immagini paterne.
Tra padre e figlio si stabiliscono un’affinità e una complicità strettissime. Ulisse educa Telemaco: gli insegna in poche ore tre aspetti essenziali della sua arte di vivere: la sopportazione, le parole gentili, dolci, di miele, e il segreto, cuore della sapienza. Nessuno, nemmeno Laerte, Penelope ed Eumeo, dovrà sapere che il re nascosto è uscito dall’ombra. Sotto la guida di Ulisse, Telemaco cresce rapidamente. Soltanto lui, nell’Odissea , si trasforma così sotto i nostri occhi, mentre Ulisse non si trasforma, ma si sposta dall’una all’altra delle molte possibilità del suo mondo interiore. Appena arrivato nel palazzo, Telemaco ci sembra un altro uomo: esperto, sicuro di sé, cosciente, tranquillo; capace di osservare con precisione gli uomini e le cose, come chi ha sciolto le incertezze giovanili nell’esattezza dell’età matura. Diventa quello che aveva sempre sognato: ciò che non credeva di poter mai diventare; il figlio del padre. Così il riconoscimento è completo.
***
Il recentissimo, eccellente libro di Piero Boitani Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura (Einaudi) sviluppa uno dei temi fondamentali della Poetica di Aristotele. Secondo Aristotele, «il riconoscimento (anagnorisis ) è un mutamento da ignoranza a conoscenza, che conduce ad amicizia oppure all’ostilità. Mentre l’Iliade è semplice e luttuosa, l’Odissea è complessa, perché dappertutto ci sono riconoscimenti». Nessuna definizione migliore verrà proposta per duemila anni.
Riconoscere è un dio segue questo filo analizzando le opere maggiori della letteratura universale: Le Coefore , l’Elettra di Sofocle e Euripide, Re Lear , Amleto , la Genesi , Il paradiso perduto , Giuseppe e i suoi fratelli , Elena di Euripide, I Vangeli , Il racconto d’inverno , I racconti di Canterbury , la Commedia , La terra desolata , Il conte di Montecristo , Il fu Mattia Pascal , Giobbe di Joseph Roth. Il talento straordinario di Piero Boitani nasce dall’unione di due doni: una incomparabile ricchezza di conoscenze e l’arte sottilissima di cogliere le relazioni che rendono vivo e molteplice un testo, e lo legano a tutte le altre opere passate e future.

Corriere 7.9.14
Elif Shafak e i nuovi feticci: «Troppa paura delle differenze»
di Cristina Taglietti


MANTOVA — Elif Shafak è al Festivaletteratura dove ieri ha presentato il suo nuovo libro, La città ai confini del cielo (Rizzoli), ambientato nella Istanbul del XVI secolo. È qui per parlare di Oriente e Occidente, di secoli di scontri e incomprensioni, ma anche di scambi e di confronti. Ponte credibile tra le due realtà, Elif Shafak (42 anni, nella foto ), autrice di un romanzo, La bastarda di Istanbul , che ha avuto grande successo di pubblico e critica, ma anche suscitato molte polemiche, vive tra Londra e la città sul Bosforo. «Oggi — dice al “Corriere” — mi preoccupa la feticizzazione dell’identico. I razzisti, i fondamentalisti, i terroristi, vogliono tutti la stessa cosa: creare uno spazio dove non ci siano differenze, dove tutti siano uguali. Dove c’è questo tipo di pensiero non c’è vita, non c’è democrazia, non c’è arte, non c’è cultura. Non ci sono libri, spesso, perché lo scrittore ha bisogno di storie e le storie hanno bisogno di diversità». La condizione femminile nel Medio Oriente (e non solo) è uno dei suoi temi: «Bisogna rafforzare una cultura in cui le donne possano essere libere e felici anche fuori di casa. In Turchia siamo ancora al livello che se arriva la notizia di una donna molestata, subito tutti dicono: avrà avuto la minigonna. Questo è il tipo di mentalità». Ma neppure l’opposto le sta bene, come vietare alle donne di indossare il velo islamico: «Noi abbiamo 7 parole per indicarlo, voi una sola, vorrà pur dire qualcosa...». Il problema, dice, è che in Medio Oriente «le energie femminili sono state schiacciate, compresse, le donne sono state messe ai margini. Basta camminare in città per rendersi conto come lo spazio pubblico sia occupato dagli uomini. Come donne abbiamo bisogno di ricostruire la nostra coscienza di genere, acquisire maggior consapevolezza del valore della solidarietà. Una volta in Turchia si diceva sorellanza. Ho sempre creduto nel movimento femminista». Ma questo è un problema di tutti, non soltanto delle donne. «No, certo. Dobbiamo riuscire a parlare più forte degli estremisti. Sono pochi ma urlano, noi siamo di più ma parliamo a voce troppo bassa».

Corriere 7.9.14
Parlarsi solo con la forza della mente
L’eterna ricerca della telepatia
Uomini comunicano tra India e Francia con sensori cerebrali e Rete
di Mario Pappagallo


Trasmettere i propri pensieri, o leggere ciò che passa nella testa altrui, è stato sempre un sogno dell’uomo. Fin dai suoi primi passi nella Storia. Telepatia in amore, ai fini del potere, come potente «arma» in guerra, per leggere le mosse di un nemico o per carpire informazioni a chi non vuole rivelarle, in medicina per comunicare con persone paralizzate o incapaci di parlare. Un sogno che comincia a materializzarsi con la telepatia hi tech, sperimentata con successo il 19 agosto da un gruppo di ricerca internazionale. Forse primo passo (molto embrionale per ora) di una nuova era. Simile a quella che già percorriamo virtualmente nei romanzi o nei film ambientati nello spazio, in universi paralleli, in anni neanche tanto lontani nel futuro (Babylon 5 dove ci sono esseri umani ogm telepatici, per esempio, si svolge nel 2068).
Il 19 agosto, quattro persone, due in Francia (Strasburgo) e due in India, sono riuscite a scambiarsi «buon giorno», «arrivederci», «ciao», solo collegando i loro cervelli via Internet. Niente di scritto, nessuna parola. Seduti a circa 8 mila chilometri di distanza gli uni dagli altri. L’esperimento, pubblicato sulla rivista scientifica PlosOne è stato realizzato utilizzando un casco dotato di elettrodi che registrano i segnali cerebrali di una persona e li trasmettono ad un Pc che, dopo aver convertito i segnali in codice binario, a sua volta li invia via Internet ad un altro computer. Questo, a sua volta, li traduce in impulsi luminosi e li invia al caschetto della persona ricevente. Complicato, ma solo a parole.
«Volevamo vedere se era possibile comunicare direttamente tra due persone leggendo le attività cerebrali della prima e poi trasmettendole a un’altra a grandissima distanza tramite i sistemi di comunicazioni esistenti», spiega Alvaro Pascual-Leone, neurologo della facoltà di medicina della bostoniana università di Harvard, co-autore della ricerca. Allo studio hanno preso parte anche fisici e neurologi dell’università di Barcellona, dell’azienda di robotica e neuroscienze spagnola Starlab e della società francese Axilium Robotics . Quello del 19 agosto è stato un primo passo dopo una decina di anni di tentativi non proprio di successo. Pascual-Leone è anche fondatore dell’azienda Starlab, produttrice di caschi per elettro-encefalografie senza fili o wi-fi, che ha promosso l’esperimento (per questo c’è chi ha paventato un conflitto di interessi). I volontari sono stati posti davanti ad uno schermo su cui si muoveva una palla e invitati a pensare di alzare una mano quando la palla passava sulla parte superiore dello schermo, informazione tradotta dal computer come «1». E a pensare di tracciare un cerchio con il piede quando si muoveva in basso, gesto tradotto con «0». Una serie di 140 bit sono stati inviati dalla sede indiana a quella di Strasburgo e poi trasmessi al cervello, grazie all’utilizzo di robot di stimolazione magnetica transcranica.
Nel 2013, neurobiologi dell’università Duke della Carolina del Nord (Stati Uniti) erano riusciti a trasmettere informazioni tra due ratti tramite una forma di telepatia. Attualmente è anche in sperimentazione per i malati di Sla un prototipo che collega ordini cerebrali a varie tecnologie utili per il malato.
Sigmund Freud, padre della psichiatria, alla telepatia credeva. Nel 1909, insieme con il suo allievo ungherese Ferenczi, fece una serie di esperimenti su una sensitiva berlinese. Nello stesso tempo svolse esperimenti di telepatia con la figlia Anna. In una lettera del 1911 scriveva a Jung: «In fatto di occultismo sono diventato molto umile dopo la grande lezione degli esperimenti di Ferenczi». Occultismo? Sì, perché all’epoca il termine tedesco okkultismus designava scientificamente quell’insieme di fenomeni chiamati in altre lingue parapsicologia, metapsichica, ricerca psichica, telepatia. Anche la telepatia era okkultismus .

Corriere 7.9.14
Ora bisogna sapere quante volte riesce
di Edoardo Boncinelli


Non si tratta di telepatia nel senso tradizionale del termine, ma comunque di qualcosa di fantastico e quasi fantascientifico: trasmettere parole, elementari, da un cervello a un altro a 5.000 miglia di distanza, «senza fili». È possibile? Sì, non facile ma possibile. Il trucco sta nel trasformare onde cerebrali in onde elettromagnetiche, che poi vanno amplificate e trasmesse. All’altro capo del sistema ci sarà un ricevitore all’origine di una serie di operazioni inverse. Occorrerebbe ovviamente avere qualche particolare in più e mettere l’occhio sulla statistica del sistema — quante volte su cento il gioco riesce? 70, 90 o addirittura 100? — ma non vale la pena di prenderla per la classica «bufala estiva». Sappiamo da tempo trasformare segnali cerebrali in segnali elettromagnetici, per aiutare persone gravemente paralizzate e costrette all’immobilità. In questa maniera sappiamo anche muovere con precisione estrema un arto meccanico nei cosiddetti esperimenti di Bci, brain computer interface, interfacciamento di cervello e computer. Quello che c’è in più qui è la trasmissione senza fili e la distanza, ma certo questo non è un problema, dai tempi di... Marconi. Detto che non è impossibile, che scenari si aprono per il futuro sulla base di questa certo non usuale notizia? Pericoli per la «lettura del pensiero» non ce ne sono; se il primo individuo non vuole trasmettere nulla, nulla viene trasmesso. Se però i due soggetti sono consenzienti si potrebbe mettere su una gigantesca comunità di conversanti: un social network globale per tutto e per tutti. Vista la frequenza e l’assiduità con la quale molte persone usano il cellulare, c’è da credere che la cosa prenderebbe piede. Scherzi a parte, tutto ciò potrebbe essere l’avvio di una nuova fase della nostra evoluzione culturale con la formazione di una comunità cerebrale, se non neurale, di soggetti liberamente ma facilmente comunicanti. Chi vede il demonio dappertutto inorridirà, ma chi ha fiducia nell’uomo potrebbe intravedere brillanti opportunità.

Corriere La Lettura 7.9.14
Heidegger anti-web: le cose ci sfuggono se sono troppo vicine
di Giovanni Reale


Viviamo in un’epoca nella quale siamo immersi in una vera tempesta di novità, fra le quali è ben difficile districarsi in modo adeguato. E questo succede soprattutto per il fatto che le novità tecnologiche vengono, per lo più, presentate mettendo in evidenza i loro aspetti positivi con i grandi vantaggi che comportano, senza indicare i loro effetti collaterali negativi. Nelle medicine, troviamo sempre un foglietto illustrativo, che, oltre ai vantaggi del farmaco, illustra anche i danni che può provocare. E per quanto riguarda le varie scoperte tecnologiche, questo sarebbe altrettanto necessario, anche se scomodo e sgradito, sia ai proponenti le novità, sia ai fruitori, ai quali interessano solo i vantaggi che se ne possono trarre.
Noi non vogliamo certo escludere gli enormi vantaggi della tecnica e considerarla il più grande dei mali dell’uomo di oggi, come fanno alcuni che hanno individuato le drammatiche conseguenze che la tecnologia comporta. Vogliamo però ricordare una regola di base che si dovrebbe sempre seguire, ossia che le scoperte tecnologiche andrebbero utilizzate in modo critico, in «giusta misura», e mai in modo predominante.

Uno dei primi studiosi che ha messo in guardia dai pericoli che comportano i nuovi strumenti di comunicazione multimediali è stato proprio uno degli inventori di internet, Clifford Stoll, nel suo celebre libro Confessioni di un eretico high-tech (Garzanti 2001), in cui scrive: «Ho dedicato la mia vita alla scienza e alla tecnologia, ciononostante mi considero uno scettico — la mia perplessità non ha tuttavia origine da un disgusto per l’informatica, ma dall’amore che nutro per i computer. Rimango stupito di fronte alle previsioni iperboliche che li circondano, a certe assurde predizioni che creano eccessi di aspettative e in fin dei conti una perdita di credibilità».
Ed è proprio quello che ora si sta verificando a proposito del grande progetto di Google. Dagli «archivi di dati» si vorrebbe passare ad «archivi di conoscenze», e rendere possibile apprendere notizie selezionate e centrate sulle necessità di chi è interessato a singole conoscenze. Si potrebbero, quindi, avere direttamente dai computer informazioni precise, non solo generali ma anche particolari e private. Entro pochi anni ci potrebbe essere offerta perfino una cartella di posta smart , in grado di selezionare le mail più importanti che via via riceviamo, con il vantaggio di farci trovare tutto ciò che ci interessa, e di sollevarci definitivamente dal sovraccarico delle informazioni che riceviamo. Saranno, di conseguenza, le macchine a fare tutto ciò che in passato faceva l’uomo direttamente, liberandolo sempre di più dalle antiche fatiche.
Ma ecco quali sono gli effetti collaterali negativi, che si accompagnano ai vantaggi offerti dalla tecnologia.
Il filosofo francese Paul Virilio dice che ogni rivoluzione politica è certamente un dramma, ma che la rivoluzione dell’informatica costituisce una «tragedia della conoscenza», ossia genera «una confusione babelica dei saperi individuali e collettivi». L’automatizzazione delle conoscenze e dei saperi, infatti, si sostituisce alla diretta «interazione fra le cose e l’intelligenza degli uomini» e, quindi, elimina i linguaggi delle vive parole e delle cose, e provoca una «dimenticanza della realtà» nel suo spessore ontologico, sostituendola con il virtuale.
Una dimenticanza non solo delle cose, ma anche degli altri uomini.
Già nel 1939 Karl Jaspers parlava del diffondersi di una «responsabilità anonima», che i mezzi di comunicazione multimediali stanno oggi portando alle estreme conseguenze, confermando quello che il filosofo prevedeva: «Noi stessi viviamo in questo mondo della responsabilità anonima, che grazie alla propria arte di organizzazione ha poi portato a un mondo della reciproca estraneità. Chi è il vicino con cui viviamo?». Hans-Georg Gadamer, a sua volta, scriveva: «Già decenni fa si è parlato della atomic age , allorché si era portata in primo piano la liberazione dell’energia atomica e in particolare la minaccia della guerra nucleare. Nel frattempo si comincia a parlare di una computer age , nella convinzione non infondata che l’intero stile di vita fra gli uomini stia cambiando radicalmente. Quando un tocco di bottone rende raggiungibile il vicino, questo sprofonda in una lontananza irraggiungibile ».
Martin Heidegger sosteneva addirittura la tesi che l’eliminazione della «lontananza» con la «vicinanza di tutto», come avviene appunto con i mezzi di comunicazione multimediale, viene a coincidere con l’assenza, ossia con l’assenza delle cose reali, e scriveva: «Tutto si confonde nell’uniforme senza-distacco. Come? Questo compattarsi nel senza-distacco non è forse ancora più inquietante di un frantumarsi di tutto?». E ancora: «Tutto ciò che è reale si stringe nell’uniforme senza-distacco. La vicinanza e la lontananza di ciò che è presente rimangono assenti ».
Herbert Georg Wells nel suo ultimo libro del 1945, dal titolo emblematico Mind at the End of its Tether (che può tradursi con «La mente alla fine della sua corsa»), faceva straordinarie previsioni: «Descrivere la forma delle cose a venire ci è diventato impossibile, perché le scienze hanno preso su di noi un vantaggio di cento anni, e questo scarto aumenterà sempre di più»: tutto ciò sta verificandosi in modo impressionante con la crescita accelerata delle tecnologie degli strumenti di comunicazione multimediali. E concludeva profeticamente: «La specie umana è a fine corsa, non è più in grado di adattarsi abbastanza velocemente a delle condizioni che mutano più rapidamente che mai».
Richiamando le osservazioni di questi grandi pensatori, non intendiamo certo negare l’importanza enorme della tecnologia contemporanea, e metterne in evidenza solo il negativo; ma, come dicevamo, vogliamo mettere in rilievo la grande regola dei Greci, oggi quanto mai necessaria, che l’uomo impari a fare uso in «giusta misura» delle sue creazioni, e a non diventarne schiavo, come in molti casi sta succedendo.

Corriere La Lettura 7.9.14
Popper, il potere sotto controllo
Oltre la polarizzazione tra destra e sinistra
Difendere i diritti dagli abusi dei governanti
di Dario Antiseri


Nel XX secolo «profeti a destra» e «profeti a sinistra» hanno alimentato le seduzioni del totalitarismo di destra e di quello di sinistra. E «furono pochi — scrive Ralf Dahrendorf nel libro Erasmiani — a resistere a entrambe malgrado tutte le tentazioni. Karl Popper è stato uno di questi, un altro Isaiah Berlin, Raymond Aron un terzo».
Karl Popper, prosegue Dahrendorf, «rientrò dall’emigrazione nel 1946 (...). Lì (alla London School of Economics) lavorò fino alla pensione e oltre come professore di logica e di metodo scientifico. Rimase un docente spesso arrabbiato, sempre polemico. A mano a mano che i suoi libri allargarono la loro influenza, in particolare fra i leader politici, questi cominciarono a recarsi da lui — o a invitarlo — per riceverne consigli. Era orgoglioso del fatto che a ricercarlo fossero leader politici di ogni orientamento democratico, e per questa via portò molte delle sue opinioni, spesso intransigenti, fra la gente».
Dunque: un Popper che dà consigli a leader politici di diverso orientamento democratico. Ma Popper, allora, è un liberale o un socialdemocratico? È questo un interrogativo che alimenta una polemica viva ieri come oggi, sulla quale possiamo dire, a vent’anni dalla scomparsa del filosofo austriaco, che l’epistolario tra Carnap e Popper getta una luce decisamente chiarificatrice.
Pochi giorni dopo la pubblicazione del suo capolavoro La società aperta e i suoi nemici , Popper ne invia copia a Rudolf Carnap, allora professore all’università di Chicago. Carnap non tarda a fargli sapere — in una lettera del 9 febbraio 1946 — di trovare l’opera «estremamente interessante e molte sue parti piuttosto affascinanti»; sottolinea i non pochi punti sui quali si trova d’accordo con Popper; gli chiede in quale misura egli ritenga possibile e utile la pianificazione nel campo economico e politico; ed esprime la propria sorpresa nel constatare l’apprezzamento di Popper nei confronti di Hayek, il cui libro La via della schiavitù «negli Stati Uniti è molto letto e discusso, ma viene elogiato principalmente dai difensori della libera impresa e del capitalismo sfrenato, mentre tutte le persone di sinistra lo considerano un libro reazionario».
Un’idea, questa di un Hayek reazionario, che Popper si affretta a respingere. «Hayek — scrive Popper nella sua replica a Carnap — prova certamente a dimostrare i pericoli del “socialismo” e in particolare del tentativo utopistico di far funzionare una società senza mercato. Ma non è certamente un difensore del capitalismo sfrenato. Al contrario, egli insiste sul bisogno di un sistema di “previdenza sociale”, di una politica anticiclica, ecc. Purtroppo è assolutamente vero che tutte le persone di sinistra, o almeno la maggior parte di esse, lo considerano un reazionario. Solo che costoro sono fin troppo disposti a sacrificare ogni controllo democratico sui governanti, a patto che quei governanti siano sufficientemente di sinistra. Che siano scandalizzati dal fatto che qualcuno sottolinei che la democrazia politica è l’unico mezzo conosciuto per impedire ai governanti, benevoli o meno, di fare qualunque cosa desiderino, è una delle cose tristi del nostro tempo antirazionalistico».
Il 17 novembre, sempre del 1946, Carnap torna a insistere sulla questione «socialismo contro capitalismo» e chiede apertamente a Popper da quale parte egli stia. «Ho letto con grandissimo interesse i suoi articoli sullo storicismo. E ora li faccio circolare fra gli amici che sono interessati a questi problemi. Tuttavia da questi articoli, più che dai libri, non riesco a capire chiaramente la sua posizione su un punto che mi interessa moltissimo: ossia se o in quale misura lei si considera ancora un socialista. Da alcune formulazioni negli articoli, sembrerebbe che lei abbia abbandonato il socialismo, ma non è affatto chiaro. Nella sua lettera parla della speranza per una comune base di discussione per socialisti e liberali. A quale dei due gruppi lei appartiene?».
Questa è la domanda di fondo che Carnap pone a Popper, mentre gli fa sapere di aver incontrato e parlato con Hayek a Chicago: «Poiché non conoscevo il suo libro, non ho parlato con lui direttamente di questi problemi, ma gli ho chiesto personalmente di lei e della sua posizione politica. È sembrato piuttosto sorpreso di sapere che lei è stato un socialdemocratico a Vienna; non sembrava credere che ora lei si possa considerare un socialista. Naturalmente mi rendo conto che lei potrebbe trovare difficile descrivere la sua posizione in maniera adeguata in termini di un concetto inesatto come quello di “socialismo”. Di conseguenza, mi lasci porre la domanda in questi termini: sarebbe lei d’accordo con me nel credere che sia necessario trasferire almeno la maggior parte dei mezzi di produzione dalle mani private a quelle pubbliche? Io penso che un tale trasferimento non sia affatto incompatibile con quella che Lei chiama “ingegneria sociale”».
Ebbene, nella risposta a Carnap, datata il 6 gennaio del 1947, Popper elenca quelli che sono i suoi punti di disaccordo con la maggior parte dei socialisti: «Non credo che esista una panacea in politica. Credo che in un’economia socializzata (a) ci potrebbero essere differenze di reddito maggiori di quelle attuali; (b) ci potrebbe essere uno sfruttamento peggiore di quello attuale, dato che lo sfruttamento equivale a un abuso del potere economico e la socializzazione significa accumulazione di potere economico; (c) ci potrebbe tranquillamente essere un’interferenza nella politica, da parte delle persone economicamente potenti, maggiore di quella attuale; (d) ci potrebbe essere una quantità di controllo del pensiero , da parte delle persone economicamente e politicamente potenti, maggiore di quella attuale».
In altri termini, Popper si dichiara convinto che la socializzazione può peggiorare le cose piuttosto che migliorarle; e ciò mentre «pochi socialisti sono sufficientemente critici e distaccati da essere disposti a prendere in considerazione queste possibilità» — possibilità di «pericoli molto reali» e «non solo possibilità astratte». Detto diversamente: «Non sono né a favore della socializzazione né contro. Mi rendo conto che la socializzazione potrebbe migliorare determinate questioni ma potrebbe anche peggiorarle. Tutto dipende da come si affrontano queste cose. Temo che i socialisti, in generale, non si rendano conto di questi pericoli e quindi affrontino queste cose in un modo che può provocare disastri».
Quel che Popper raccomanda a Carnap è, insomma, che, in ambito politico, si deve essere «meno religiosi e più concreti», precisando che il pericolo principale del socialismo è quell’elemento utopico e messianico che «lo spinge così facilmente in una direzione totalitaria». Troppo semplici e troppo ingenue sono, ad avviso di Popper, le filosofie politiche ereditate dal secolo XIX. Ed ecco il punto nodale della sua proposta: «Condivido totalmente (...) le convinzioni dei liberali che la libertà sia la cosa più importante in campo politico. Ma sono convinto che la libertà non possa essere conservata senza migliorare la giustizia distributiva, vale a dire senza aumentare l’uguaglianza economica». Sta qui, dunque, la ragione per cui «dobbiamo abbandonare le credenze dogmatiche e semireligiose in questo campo e dobbiamo provare a raggiungere un atteggiamento più razionale. E questo potrebbe essere condiviso dai liberali e dai socialisti».
Ed è così, allora, dirà Popper qualche anno più tardi in una conferenza tenuta a Siviglia, che «noi dovremmo tentare di occuparci di politica al di fuori della polarizzazione sinistra-destra». Questo il nucleo teorico del suo liberalismo: «Per “liberale” non intendo una persona che simpatizzi per qualche partito politico, ma semplicemente un uomo che dà importanza alla libertà individuale ed è consapevole dei pericoli inerenti a tutte le forme di potere e di autorità».

Corriere La Lettura 7.9.14
Ma quale razionalità! Sono le emozioni a condizionare la politica
di Carlo Bordoni


«Va’ dove ti porta il cuore», esortava Susanna Tamaro negli anni Novanta, anticipando una tendenza destinata a rafforzarsi nella società contemporanea. Non solo nella vita privata, ma anche in quella pubblica: al mercato delle emozioni si decidono gli esiti delle elezioni e la fortuna delle coalizioni governative, come dimostra lo psicologo Drew Westen (La mente politica , il Saggiatore, 2008), mentre Martha Nussbaum rincara la dose nel suo saggio più ambizioso, Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia , pubblicato di recente dal Mulino.
Rabbia, disgusto, empatia e compassione regolano il comportamento pubblico e indirizzano le scelte politiche dei governi. La filosofa americana sfata così la convinzione che le democrazie liberali siano fondate su principi razionali, cui spetta il merito di rendere l’individuo consapevole dei suoi diritti e responsabile delle scelte comuni dello Stato in cui vive.
Uno stravolgimento non da poco, quello della Nussbaum, che incide sull’antica opposizione tra socialismo e capitalismo, tra est e ovest, sorta negli anni immediatamente successivi al Secondo conflitto mondiale. Karl Popper, nello scambio epistolare con Carnap, di cui scrive Dario Antiseri, si rivela preoccupato per la componente emotiva del socialismo, per la sua anima «utopica e messianica», dove le scelte politiche, più dirette dalla passione che dalla ragione, rischiano di cadere nel totalitarismo. Quel totalitarismo di sinistra che, proprio in quegli stessi anni, è apertamente denunciato dai membri della Scuola di Francoforte, al momento di rientrare in Germania dopo l’esilio americano, tanto da mettere in crisi la compattezza del credo marxista che fino ad allora aveva guardato in una sola direzione, verso l’irrazionalismo nazifascista che aveva trascinato il mondo in guerra.
In un’opera destinata a far discutere, la Dialettica dell’illuminismo (1947), Adorno e Horkheimer, infatti, pongono le basi per il superamento del conflitto tra socialismo e capitalismo, che aveva costretto Popper a prendere le distanze dal socialismo e a propendere per una società aperta, sostituendolo con quello meno occasionale (ma più sociologicamente rilevante) tra capitalismo e democrazia, su cui si innesta un vivace dibattito politico destinato a durare fino a oggi. Con significative ripercussioni in campo economico: come ricorda Wolfgang Streeck, lo Stato moderno, per sua stessa funzione, garantiva un equilibrio tra i due fronti, concedendo una discreta libertà alla democrazia e, insieme, contenendo gli interessi aggressivi del capitalismo. Un equilibrio destabilizzato dal crollo del modello keynesiano dell’intervento pubblico nell’economia e dalla sua progressiva sostituzione col neoliberismo di von Hayek, che lo stesso Popper sembra privilegiare.
Ma il pensiero di Adorno sulla sostanziale equivalenza tra totalitarismi di destra e di sinistra — presto confermato da Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo (1951) — oltre a mettere in dubbio, per la prima volta dopo Nietzsche, la legittimità di una fede assoluta nella ragione (l’anima illuminista della modernità), permette di scoprire quanto di razionale si nasconda al fondo di ogni totalitarismo. Società in cui si esaltano l’emozionalità e i sentimenti, sfruttando la disponibilità delle masse a farsi incanalare «là dove le porta il cuore», sono in realtà rette da possenti strutture razionali, il cui fine è l’oppressione dell’individuo e uno stringente controllo sociale.
Le espressioni più tragiche dei totalitarismi, dal nazismo tedesco al comunismo sovietico, non sono che gli apici di un razionalismo cinico e disumano. Solo la razionalità può portare il male alle sue conseguenze estreme, e i campi di sterminio, così come le «purghe» staliniane, sono la dimostrazione di una folle lucidità, perpetrata non certo per passione, ma in funzione di un progetto organizzato scientemente.
Non è un caso che Max Weber, il massimo sociologo della modernità, avesse indicato in epoca non sospetta (i primi del Novecento) il «potere carismatico» quale forma più attuale per risolvere i problemi creati da un’eccessiva burocratizzazione della società industrializzata, rispetto ad altre forme di potere, tradizionali (sacrali o ereditarie) e razionali (elettive e democratiche). Weber riconosce con largo anticipo ciò che avrebbe generato la crescita tumultuosa di una società di massa, cioè di una società composta di un numero crescente di persone che hanno nuovi bisogni, maggiore istruzione e dunque maggiori esigenze rispetto al passato. Che si pongono di fronte allo Stato non come sudditi obbedienti (secondo i dettami di Hobbes), ma come cittadini possessori di diritti.
Oltre a Weber, molti altri si dedicano alla comprensione dei movimenti collettivi (da Pareto a Le Bon, da Sorel a Ortega y Gasset), ma è soprattutto a Elias Canetti, col suo Massa e potere (1960) che si deve l’analisi più accurata di questa concentrazione assolutamente casuale di persone che stanno assieme senza conoscersi, senza toccarsi, senza la consapevolezza della propria volontà, ma forti del numero, pronte a esplodere all’improvviso con una «scarica» (Entladung ) violenta e incontrollabile che solo il buon capo carismatico, facendo leva sulle emozioni, sa eccitare, guidare e far approdare opportunamente contro il nemico di turno. Questi è anche l’unico in grado di contenerne la forza eversiva, ma la sua azione è pur sempre retta da una lucida coscienza razionale: la succube irrazionalità delle masse gestita dalla ragion di Stato del suo leader.
È così che si infrange il pregiudizio che accompagna da sempre le democrazie liberali e le ritiene, a torto, governate dalla ragione: in forza di questo riconoscimento della loro natura passionale, esse appaiono ora più umane, più sensibili alle emozioni collettive, agli umori dell’opinione pubblica, ma anche più fragili e soggette a cadere nell’errore. Forse per questo più portate a soffrire di dolorosi periodi di crisi come quello che stiamo attraversando.

Corriere La Lettura 7.9.14
All’inseguimento dell’invisibilità
Platone, Harry Potter, H. G. Wells: il sogno non è mai finito
Ora un ricercatore italiano immagina un computer «spruzzabile»
di Anna Meldolesi


Provate a chiedere a un bambino cosa farebbe se, per magia, potesse svanire alla vista degli altri. Probabilmente si divertirà a progettare scherzi e dispetti. E noi adulti, come useremmo un simile dono? Male, suggerisce la letteratura. L’invisibilità ci consentirebbe di spiare gli altri e di agire indisturbati, come fossimo divinità, fate o fantasmi. Ci porterebbe un enorme potere, la tentazione di cedere a ogni voglia, l’illusione di restare impuniti.
Se c’è un libro che ha riscritto in chiave moderna il mito dell’invisibilità è L’uomo invisibile di H. G. Wells (1897), autore della Guerra dei mondi . Un personaggio inquietante si aggira per un villaggio del Sussex. Ogni centimetro del suo corpo è coperto, anche la testa è bendata. Chi lo incontra pensa sia malato, si chiede cosa nasconda, nessuno si aspetta di trovare sotto i vestiti il nulla. Il niente è più brutto del brutto, suscita repulsione e la paura di essere braccati da un predatore invisibile. Il personaggio inventato da Wells è un fisico con studi di medicina alle spalle, di nome Griffin. Vuole fondare un Regno del Terrore e in una nota ha scritto: «Questo è il giorno uno dell’anno uno della nuova Epoca: l’Epoca dell’uomo invisibile. Io sono l’Uomo Invisibile Primo». Invece finisce pestato per strada. Con un corpo che torna visibile in punto di morte, nudo e ammaccato.
Ma non si tratta di una parabola sulla tracotanza scientifica, a Wells piace la scienza. Lui è «il realista del fantastico» (la definizione è di Joseph Conrad) e l’invisibilità del suo personaggio è diversa da quella dei miti. Non è il misterioso potere emanato da un talismano, che cancella chi lo indossa con un puff. Wells si ingegna a rendere plausibile l’impossibile, cercando di aprirsi un varco fra le leggi dell’ottica. Il vetro è trasparente perché non assorbe la luce visibile, ma la traiettoria dei raggi viene alterata durante il passaggio dall’aria al vetro, per questo ne distinguiamo i contorni. Un bicchiere diventa più difficile da vedere se è immerso nell’acqua che ha un indice di rifrazione simile al vetro. Nel benzene liquido sparisce. Griffin è albino e ha scoperto un farmaco per far sbiadire il sangue conservandone intatte le funzioni, perciò la sua carne è trasparente. Per abbassare il proprio indice di rifrazione al livello dell’aria usa dinamo e oscillatori che generano una «vibrazione eterea» ancora sconosciuta. Il suo punto debole sono le retine: questi strati di recettori hanno bisogno di pigmenti per percepire le immagini, non può decolorarle o resterebbe cieco. Infatti quando lo scienziato si guarda allo specchio riesce a scorgere solo due macchie in corrispondenza degli occhi. Ma questo è il più piccolo dei suoi problemi: camminare senza vedersi le gambe è difficile, il fango rivela le sue orme, basta una spruzzata di nevischio a tracciare la sua figura. Deve mangiare di nascosto perché in bocca il cibo è visibile e per fuggire deve liberarsi dai vestiti.
L’invisibilità è insieme potere e impotenza, libertà e trappola, sembra offrire tutto ma non lascia godere nulla, tanto che qualche critico ha azzardato un parallelismo con la società dei consumi. Anche nell’antico mito di Gige però il dono del non essere visti porta con sé la dannazione. Il pastore che ha trovato l’anello magico ne approfitta per possedere la regina, uccidere il re, diventare un tiranno. L’invisibilità dunque serve a Platone per parlare della natura degli uomini, che fanno il bene solo quando non hanno i mezzi per compiere il male.
Griffin comunque è diverso da Gige, spiega Philip Ball nel libro Invisible (Random House, 2014). Il primo è sempre stato abietto, ancor prima di diventare invisibile, il secondo lo diventa acquisendo il potere. Il protocollo scientifico dell’invisibilità di Wells è imperfetto ma elaborato, sicuramente più convincente di quelli proposti da Jack London in L’ombra e il bagliore (1903). Qui compare un chimico convinto che basti rendere un oggetto perfettamente nero per assorbire tutta la luce e farlo sparire. Il suo rivale invece cerca la chiave dell’invisibilità nella trasparenza. Il primo è tradito dall’ombra, il secondo da occasionali flash iridescenti. La lotta tra i due è un turbinio di oscurità e bagliori in cui le leggi della fisica non si danno per vinte.
Le vie tecnologiche all’invisibilità testate nei laboratori ai giorni nostri sono più complicate, ma neppure i risultati raggiunti dall’ottica trasformazionale avrebbero consentito a Griffin di realizzare il suo malefico piano. Il primo schermo dell’invisibilità viene presentato al mondo nel 2006 e la stampa lo paragona subito al mantello magico di Harry Potter.
Invece di evitare che la luce cambi strada attraversando un oggetto come immaginava Wells, si lascia che venga deviata e poi si corregge la deviazione. Le radiazioni si comportano come un corso d’acqua che si divide per aggirare una roccia, ricongiungendosi a valle come se nulla fosse accaduto. Il primo congegno è costituito da 10 anelli concentrici di un materiale artificiale, la luce lo colpisce da una parte, ma rilevandola dall’altra sembra che abbia incontrato solo l’aria. Peccato funzioni solo in due dimensioni e solo con le micro-onde, non con la luce visibile. L’idea di beffare la vista ha un fascino così forte e universale che media e pubblico accolgono senza eccepire questa definizione di invisibilità lontana dal senso comune. Si entusiasmano per un oggetto invisibile che ai loro occhi non è tale, come i cortigiani credevano di vedere i vestiti nuovi dell’imperatore, anche se era nudo.
Nel frattempo sono stati costruiti altri schermi usando materiali meno esotici (silicio, cristalli di calcite) e lo spettro delle lunghezze d’onda schermabili si è allargato. Ma questo sogno così grandioso finora ha trovato solo realizzazioni limitanti e macchinose, che secondo Ball assomigliano ai trucchi da palcoscenico dei maghi dell’Ottocento. Allora ci si nascondeva dietro fumo e specchi, adesso ci si mimetizza con prismi e meta-atomi. Si potrà mai superare questo livello? Il più visionario di tutti è l’italiano Franco Zambonelli. Lo scienziato dell’Università di Modena e Reggio Emilia immagina dei microcomputer spruzzabili su un tessuto flessibile, capaci di entrare spontaneamente in rete, di autoalimentarsi, di registrare e proiettare in tempo reale le variazioni dell’ambiente circostante così da riprodurre la parte dello scenario coperta dal corpo. Ogni metro quadrato di tessuto dovrebbe averne 100 mila e il costo, azzarda, potrebbe aggirarsi sul mezzo milione di euro. Per ora resta un traguardo teorico e non è detto che sia realizzabile. Ma è probabile che questo computer spray indossabile sarebbe piaciuto anche all’autore della Guerra dei mondi .

Repubblica 7.9.14
Calligrafi, incisori e restauratori la scure del Vaticano sui maestri d’arte
Che dispiacere questa lenta morte della scrittura manuale
di Stefano Bartezzaghi


Sono tante le benedizioni chieste dai fedeli per matrimoni, comunioni e cresime Ora a vergarle saranno i dipendenti della Santa Sede: papa Francesco ha deciso di tagliare gli esterni

LA SACRA Scrittura e la bella scrittura non vanno più d’accordo? Il Vaticano pare infatti aver deciso di non avvalersi più dell’opera di ben cinquanta maestri calligrafi, addetti alla stesura di pergamene cerimoniali, richieste e ben pagate da fedeli in virtuoso odor di feticismo per matrimoni, cresime, comunioni, battesimi, ordinazioni. Anche nell’enclave spirituale, che poi è anche il cuore, della penisola italiana arrivano i flutti della spending review: si è deciso che i dodici addetti assunti (il numero è apostolico) possono bastare all’ornamentale officio.
Con tutto quello che non solo la Chiesa ma la cultura occidentale in genere deve agli amanuensi e ai miniatori, dispiace certo un po’ che gli ultimi rimasugli di una solennità formale non riescano più a sostenersi economicamente. Simmetricamente, a tanti non comunisti spiacciono le secche in cui si è arenata l’Unità: la nostalgia è una merce così gradevolmente gratuita...
La scrittura manuale è attualmente mortificata, procombe sotto i colpi inesorabili della scrittura digitale. Ma se neppure la religione ne avverte non si dice la necessità ma il fascino vuole dire che i calligrafi — professionisti di un’arte non banale — devono cercare occupazione sul fronte almeno apparentemente opposto: il marketing, dove la loro opera può conferire quella connotazione di natura, di manufatto, di umanità non tecnologizzata tanto desiderata da noi consumatori. Una sorta di marchio bio culturale, insomma.
Peraltro da un Papa che si è presentato a Piazza San Pietro e all’ecumene tutta con un informale «Buonasera» ci si poteva aspettare una certa freddezza per gli esatti ghirigori dei virtuosi del pennino. Però, da profani, dal Vaticano ci si sarebbe aspettato un provvedimento più morbido. Un blocco del turnover, un commiato graduale, e ottimamente calligrafato, verso i lavoratori del calamaio. Quello che colpisce, insomma, non è la rinuncia al fregio: è l’asprezza brusca del frego con cui viene somministrata.

Repubblica 7.9.14
La banalità del male è una banalità
di Angelo Aquaro


“LA banalità del Male”? Una banalità. Adolf Eichmann non fu quel burocrate dell’orrore «che non si rese mai conto di quello che stava facendo». Hannah Arendt sbagliava. Il “capo degli affari ebraici” della Germania nazista partecipò con pieno convincimento alla Shoah: così almeno sostiene Bettina Stangneth in Eichmann before Jerusalem . “Prima di Gerusalemme”. Cioè prima di quel pro- cesso spettacolare che la giovane filosofa Hannah Arendt seguì per il New Yorker e che diventò appunto il libro La Banalità del Male . Stangneth ricostruisce ora le migliaia di pagine di testimonianze di Eichmann prima del processo in Israele. Un signore che pensava che «se 10,3 milioni » di ebrei «fossero stati uccisi solo allora avremo completato il nostro lavoro». Di più. Un signore che argomentava questi orrori discettando sulla filosofia di Immanuel Kant: altro che burocrate «incapace di pensare».
Hannah Arendt sbagliava? Il recensore del New York Times non tira in ballo quella che potremmo definire “la sindrome di Colombo”. Perché davvero Arendt credette di avere trovato una nuova via per l’lndia: mentre in realtà aveva scoperto l’America. «Individuò il problema giusto nel personaggio sbagliato» dice Christopher Browing, l’autore di quegli Ordinary Men, “Uomini comuni” (è il titolo italiano del saggio tradotto da Einaudi) che rivoluzionò la storiografia sul nazismo.
Perché il regime era davvero composto da «tantissime persone che si comportarono come Hanna Arendt pensò si comportasse Eichmann»: ordinari esecutori degli ordini. La banalità del male una banalità?
Che beffa sarebbe pensare – come vorrebbe di sé il diavolo – che non esiste.

Repubblica 7.9.14
Il Platone dimenticato
di Francesca Bolino


Platone e la sapienza antica di Roberto Luca Marsilio pagg. 158, euro 16

SCRIVE Platone nel Fedro: «se chi ascolta ha natura divina e filosofica, vedrà meravigliosa la via indicata e si sforzerà di seguirla...Quelli che, invece, non sono filosofi e che si accontentano solo di una vernice di opinioni, giudicheranno impossibile l’impresa, quando vedranno quante cose occorra imparare, quanta fatica richiedano…». Roberto Luca, studioso del pensiero antico, riporta alla luce in questo prezioso saggio un Platone dimenticato e invita nuovamente alla lettura dell’ Epinomide, il testo che contiene il cuore della filosofia platonica. Per Platone solo attraverso lo studio della matematica, della filosofia e dell’armonia si può giungere al pensiero divino: per afferrare l’armonia del cosmo bisogna conoscere numeri diversi da quelli dei mercanti e degli architetti, basati sulla quantità: è necessaria una matematica differente, qualitativa.

Repubblica 7.9.14
I territori della psiche
a cura di Doriano Fasoli


LA DIAGNOSI IN PSICHIATRIA
Guida completa e al tempo stesso concisa che prende in considerazione i disturbi che più spesso si incontrano nella pratica clinica e aiuta tutti i professionisti della salute mentale a formulare la diagnosi psichiatrica in modo corretto, evitando trappole.
DI ALLEN FRANCES RAFFAELLO CORTINA PAGG. 226, EURO 27

TRA PSICOANALISI E PSICOTERAPIA UN PONTE VERSO L’AVVENIRE Riprendendo gli studi di Ogden, Mitchell, Aron, Jacobs, Ferro, e del Boston Change Process Study Group gli autori mostrano i nuovi concetti della psicoanalisi e il nuovo lessico psicoanalitico al lavoro: “conversare come sognare”, “strutturare una relazione implicita condivisa”, “ rêverie”, enactement, self disclosure e altro.
DI SANDRO PANIZZA, ANNA BASSETTI FRANCO ANGELI PAGG. 256, EURO 31

GLOSSARIO BLEGERIANO
L’intento è quello di offrire una panoramica del pensiero di Bleger che va dalla teoria e clinica psicoanalitica alle teorizzazioni sulla gruppalità, dagli studi sui processi istituzionali a quelli sulle problematiche comunitarie.
DI RAFFAELE ISCHIETTI ARMANDO PAGG. 304, EURO 22

TERAPIA DELL’ESPOSI-ZIONE NARRATIVA Questo manuale è stato scritto con l’obiettivo di integrare la riabilitazione psicologica dei sopravvissuti al trauma, con temi importanti, connessi ai diritti umani e alla dignità, a livello sociale, accademico e politico: un ponte ideale tra scienza e lavoro sul campo.
DI MAGGIE SCHAUER, FRANK NEUNER, THOMAS ELBERT FIORITI PAGG. 212, EURO 26

Il Sole Domenica 7.9.14
Con Mosè e anche con Platone
La cultura ellenica e quella ebraica sembrano inconciliabili: la filosofia greca presuppone verità scopribili, la sapienza ebraica un tesoro privato. Eppure convissero armoniosamente
di Simon Shama


Quale dei due: il nudo o la parola? Dio come bellezza o dio come scrittura? Una divinità invisibile o una sbirciata a un corpo perfetto? Per Matthew Arnold, elleni ed ebrei erano olio e acqua. Entrambi erano qualcosa di «grandioso» e, ognuno a suo modo, «mirabile», ma non si mescolavano. I greci perseguivano l'autorealizzazione; gli ebrei lottavano per l'autoconquista. «L'ubbidienza» era il comando supremo dell'ebraismo; «vedere le cose come esse realmente sono» era ciò che contava per gli elleni. Ma la pretesa di neutralità di Arnold è poco convincente. Chi vorrebbe vivere in attesa del prossimo round di fuoco e zolfo, quando potrebbe mettersi alla ricerca di dolcezza e luce?
A crescere nella tradizione classica ci si convince che l'Europa inizia con la sconfitta degli invasori persiani raccontata da Erodoto. A crescere ebrei, una parte di sé vorrebbe che avessero vinto i persiani. Furono loro, dopotutto, i restauratori di Gerusalemme, ed Ester divenne la loro regina: come potevano essere cattivi? Il cattivo, Aman, che voleva far fuori gli ebrei, era indubbiamente solo un mostro bizzarro, che ebbe la meritata punizione per mano del re persiano. Il re greco seleucide Antioco IV Epifane, invece, che faceva buttare giù i neonati circoncisi dalle mura di Gerusalemme insieme alle madri, sembrava, stando al Primo libro dei Maccabei, fare tutt'uno con la sua cultura. Era l'ellenismo il nemico, non meno del monarca demente. Il Secondo libro dei Maccabei è, nel suo catalogo delle atrocità greche, ancora più sconvolgente. Coloro che osservavano clandestinamente lo shabbat venivano bruciati vivi nelle loro grotte. E lo storico ebreo Giuseppe Flavio ci ammannisce un sadismo più orripilante ancora. Coloro che perseveravano nell'osservanza, scrive, «erano percossi con flagelli» e «mutilati i loro corpi, mentre ancora erano vivi e respiravano, venivano crocifissi».
Ciò che i greci detestavano (in questa visione) era l'ostinazione della differenza ebraica, contrassegnata dal taglio sul membro virile, dalla pausa nella settimana, dalle restrizioni nel regime alimentare, dal l'unicità rivendicata dagli ebrei per la loro divinità senza volto perennemente arrabbiata, dal loro esasperante rifiuto di essere come tutti gli altri. La filosofia greca presupponeva verità scopribili, universali; la sapienza ebraica sembrava il tesoro privato di una cultura chiusa a doppia mandata. I templi greci, eretti secondo i princìpi dell'armonia cosmica, erano fatti per attirare la gente; il tempio di Gerusalemme era off limits per gli «stranieri». Statue e monumenti greci erano intesi a sopravvivere agli stati che li avevano creati; la torah a sopravvivere all'architettura. Per i greci era nel culto della natura, specie della natura selvaggia, che si poteva trovare l'estasi. Per gli ebrei, al contrario, i boschi sacri erano luoghi in cui ci si sarebbe persi fra gli abomini pagani. Al cuore del culto dionisiaco c'era l'euforico scatenarsi dei sensi. Nella tradizione giudaica, quando si beveva forte accadevano brutte cose: Noè si era trovato a giacere intontito e nudo sotto gli occhi irridenti del figlio Cam; gli israeliti disobbedienti s'erano messi a fare piroette attorno al vitello d'oro. E la cosa peggiore di tutte era essere ubriachi in mezzo alla vegetazione: Antioco, nel costringere gli ebrei a celebrare Bacco in processione «portando corone di edera», come scrive l'autore di 2 Maccabei, sostituì il culto greco della natura selvaggia all'obbligo ebraico di dominarla.
Un ebreo ellenizzato, insomma, era un ossimoro. E tuttavia non lo era, non per la moltitudine di ebrei disseminati fra la Cirenaica, in Libia, e la grande metropoli di Alessandria, e poi in Giudea, in Galilea e nelle isole del Mediterraneo orientale. Nei duecento anni circa che separano le conquiste di Alessandro Magno del IV secolo a.C. dalla dominazione romana, l'idea che la cultura greca e quella ebraica si escludessero a vicenda sarebbe parsa sconcertante, se non stravagante. Per quella moltitudine ellenismo ed ebraismo non erano affatto incompatibili. Il loro modo di vivere era l'esempio, anzi, quasi dell'opposto: di una convergenza non forzata, di una convivenza spontanea (se non priva di problemi). Prima della scoperta dei rotoli del Mar Morto nel 1947 e dell'amuleto d'argento di Ketef Hinnom nel 1979, il più antico testo ebraico continuo, rinvenuto nel 1898 e datato ormai con certezza alla metà del II secolo a.C., proveniva dalla regione ellenizzata del Fayyum nel medio Nilo. Sul papiro sono scritti i dieci comandamenti (in un ordine leggermente diverso da quello in cui li conoscono oggi ebrei e cristiani), insieme alla preghiera quotidiana di professione di fede, lo shema. Dal talmud sembra che un tempo fosse usuale leggere il decalogo prima di recitare lo shema; quel papiro, quindi, ha miracolosamente conservato la routine quotidiana di un ebreo d'Egitto osservante che viveva nel cuore di un mondo intensamente ellenizzato e, tuttavia, manteneva senza difficoltà le consuetudini che definivano la sua identità religiosa.

Il Sole Domenica 7.9.14
La Storia degli ebrei di Simon Schama
Storia di una fedeltà all'inglese
di Giulio Busi


Quando si scriveva ancora a mano, si poteva credere che inchiostro e carta impregnassero le parole. In India d'odori indiani, qui da noi d'una certa luce di mediterraneo, in Germania, di vento e di cieli rapidi e nitidi. Un racconto vergato in Inghilterra sentiva d'isola, d'ironia garbata e di distanza.
Benché sia appena stata composta, nel pieno dell'era digitale, la Storia degli ebrei di Simon Schama - di cui vi abbiamo anticipato sopra un brano - tradisce con candore la propria provenienza. Già le prime pagine lasciano intendere ciò che il libro – ampio e ambizioso – mostra poi senz'ombra di dubbio. Ovvero che Schama è inglese, per modi mentali e per quella capacità anglosassone di divulgare con brio, senza annoiare e senza perdere di precisione, pur nello stile scorrevole.
Nell'introduzione a questa sua Storia degli ebrei, che dall'antichità giunge sino all'espulsione dalla Spagna del 1492, Schama si sofferma sulla propria famiglia: «Mio padre era ossessionato in pari misura dalla storia ebraica e da quella britannica, e gli sembrava che andassero a braccetto». E più oltre: «Se mio padre avesse scritto una storia ebraica, si sarebbe chiamata "da Mosè alla Magna Charta"». Oltre al l'aneddoto, questi racconti ci dischiudono il segreto di una certa diaspora europea, capace – nei suoi momenti migliori – di tenersi in equilibrio tra due mondi. Da una parte, l'universo emozionale e identitario dell'ebraismo, un dover essere fatto di religione, coesione di gruppo, irrequietudine. E, dall'altra, il cosmo maggioritario, caldo e confuso, che sta attorno, a volte accattivante, spesso indifferente o addirittura minaccioso e ostile. Il pendolo del giudaismo oscilla, da tre millenni, tra questi due poli, con movimenti ora più larghi ora stretti e nervosi. Dal Vicino Oriente del primo millennio a.C. alla Palestina ellenistica e romana, dai regni barbarici al califfato – quello tollerante e aperto dell'età aurea – e sino alla Penisola iberica della reconquista, Schama accompagna gli ebrei nel loro viaggio tra inclusione ed esclusione.
La lunga consuetudine alla diaspora si trasforma in una sorta di sesto senso culturale. Ovvero nella tendenza a uscire da sé per ritrovarsi e per narrarsi. Schama passa in rassegna le scoperte archeologiche, le fonti letterarie, le testimonianze storiche, ed è come se stesse discutendo in una cerchia ristretta di amici. Ebrei e greci, per esempio, erano davvero così ostili gli uni agli altri come vorrebbero farci credere i libri biblici dei Maccabei? Sì e no, è la risposta, e in questa moneta che, lanciata in aria dalla storia, può cadere su entrambe le facce, sta il senso della lunghissima fedeltà ebraica. Fedeltà, semplice, a un destino complesso.

Simon Schama, La storia degli ebrei. In cerca delle parole. Dalle origini al 1492, Mondadori, Milano, pagg. 582, € 30,00

Il Sole Domenica 7.9.14
Si cresce se ci sono le idee
Un paese povero di materie prime ma ricco di ingegno deve puntare sulle start up, le invenzioni e i progetti di qualità
di Gabriele Galateri


Era il VII secolo a.C. quando Talete per primo iniziò a indagare la natura per comprendere – e governare – le leggi del cosmo. Da allora le nostre conoscenze hanno spostato progressivamente i confini del possibile. Possiamo librarci nello spazio o addentrarci negli abissi, abbiamo azzerato le distanze grazie a un mondo interconnesso, viviamo più a lungo e meglio. Ciò ha comportato però uno sfruttamento progressivo delle risorse del pianeta, con effetti che si ripercuotono nei cambiamenti climatici, nella perdita della biodiversità e nell'inquinamento del terreno e delle acque. Le nuove tecnologie possono giocare un ruolo essenziale per trovare un equilibrio fra sviluppo e salvaguardia dell'ecosistema. Il disegno scientifico dell'Iit – Istituto italiano di tecnologia – va in questa direzione: fare ricerca scientifica di punta e trasferirla verso il mondo produttivo, con una forte attenzione a realizzare tecnologia per l'uomo e intorno all'uomo, che sia compatibile con l'ambiente. A 8 anni dalla sua messa a regime, Iit vanta oltre 4mila pubblicazioni su riviste scientifiche di rilevanza internazionale e 140 invenzioni che hanno originato 301 domande di brevetto. Una conoscenza che ha iniziato a pervadere anche il tessuto produttivo. Il numero complessivo dei progetti contrattualizzati fra Iit e imprese ha superato i 90 milioni di euro dal 2006 a oggi. Nel 2013 i contratti acquisiti riguardano 19 progetti europei, 16 con enti nazionali e internazionali e 44 progetti industriali. Fra questi, quelli maggiormente rilevanti sono la partecipazione alla Flagship europea denominata Grafene (durata di 10 anni) e il progetto con Inail, mirato alla creazione, industrializzazione e diffusione di nuovi dispositivi innovativi nel campo della riabilitazione e della protesica. Un ulteriore riconoscimento è giunto a fine 2013 dall'European Research Council che ha assegnato a 3 ricercatori dell'Iit finanziamenti per i propri progetti.
L'intraprendenza di alcuni ricercatori ha portato alla nascita di una decina di start up in ambiti ad alta tecnologia quali health tech (3brain e Biki tech nell'ambito Med-Tech e Drug Discovery), nuovi materiali (HiQ-Nano e Politronica nella realizzazione di nanomateriali), Energia (Micro-Turbine, Ribes tech nell'ambito del risparmio energetico e delle energie rinnovabili), Robotica (SEM+, Circle Garage, CompAct, DualCam, ViBe, QB Robotics con applicazioni in molteplici comparti industriali). I risultati ottenuti sono frutto di una organizzazione ispirata alle best practices internazionali sul modello di realtà quali Max Planck, Fraunhofer, Weizmann.
Gli scienziati sono selezionati con una "call" internazionale da un Comitato tecnico scientifico che si avvale di un panel di oltre 200 esperti internazionali. Attraverso questo modello – che comprende anche la tenure track – gli scienziati e i progetti entrano in un sistema di valutazione continua che garantisce una forte selettività. L'adozione di questo sistema di reclutamento e valutazione è un elemento essenziale di attrattività per i ricercatori che in questo modo ritrovano un modello comparabile a quello offerto dagli istituti di ricerca che operano nel contesto internazionale. Così è stato possibile attrarre scienziati da oltre 50 Paesi che rappresentano il 44% del personale attivo in Iit (di cui il 17% di italiani rientrati). Il personale complessivo è di 1.250 persone, rappresentato prevalentemente da scienziati (85%), con una struttura amministrativa essenziale. Iit è inserito nel panorama complessivo della ricerca italiana, con l'obiettivo di rappresentare un punto di contatto avanzato con il contesto produttivo. Perché possa competere a livello globale, l'Italia ha bisogno di presidiare i settori tecnologici più avanzati, partendo dalla ricerca di base e applicata per poi raggiungere il tessuto produttivo. L'Italia è un Paese storicamente povero di materie prime ma ricco di ingegno, con una grande tradizione manifatturiera. Questo presidio deve continuare a essere uno dei punti di forza del Paese e uno dei suoi motori di crescita e sviluppo.
Presidente di Assicurazioni Generali e dell'Istituto Italiano di Tecnologia

Il Sole Domenica 7.9.14
Un Bene che acceca
Il bisogno di credere nell'assoluto ci spinge a sposare le idee di un capo carismatico invece di puntare sul nostro sole interiore
di Remo Bodei


L'idea di «splendore» è parte della costellazione della «gloria». Ne ricordo preliminarmente quattro aspetti, senza però soffermarmi su di essi, come farò invece sul quinto, meno evidente, ma assai più pregnante e carico di conseguenze.
In primo luogo, lo splendore è collegato alla radice del nome e del concetto di carisma, termine di origine indoiraniana: Xuarenah, da "sole" (hvar-), che indica l'irradiazione di potere e prestigio che emana da una persona in forma di fluido igneo e vitale. Il Sole, diffuso simbolo del potere, illumina e guida gli uomini nelle tenebre dell'esistenza sociale: lo si può ammirare, ma induce presto a chinare il capo a causa del suo accecante fulgore. La moderna sociologia, a partire da Max Weber e come è noto, ha fatto del carisma una categoria politica chiave per spiegare come le persone seguano spontaneamente un individuo, cui obbediscono, che appare dotato di qualità eccezionali e di fascino.
In secondo luogo, sia l'aureola (diminutivo da aureus), disco d'oro che nell'iconologia cristiana circonda la testa della divinità e dei santi, sia il nimbo (alone o nuvola luminosa che li avvolge) hanno a che fare con lo splendore che ne manifesta la sacrale autorità. Aureola e nimbo costituiscono, insieme, quella che tecnicamente si chiama, appunto, «gloria».
In terzo luogo, molte divinità sono legate al culto della luce, dallo Zoroatro persiano, all'Amon-Ra o Aton egizi, allo Zeus greco (genitivo Dios, luce diurna, come nel latino dies), per non parlare dell'identificazione di Cristo come Sol invictus.
In quarto e ultimo luogo, una lunga tradizione, che risale almeno a Plotino, associa il bello allo splendore, alla luminosità: dall'aglaia greca allo splendor o claritas del latino antico e medioevale. Ancora nel tedesco moderno «bello» si dice schön (parola che condivide il medesimo etimo di schein, brillare, splendere, apparire circonfuso di luce).
Piuttosto che approfondire gli argomenti appena accennati, preferisco riflettere su un problema che, malgrado l'apparente astrattezza, coinvolge intimamente ognuno di noi sul piano personale e politico. Mi riferisco alla natura del buono o del bene (to agathon), presentata da Platone nella Repubblica come premessa al celebre mito della caverna. Si tratta di una delle teorie più enigmatiche e controverse, anche perché siamo fuorviati dall'ambiguità e dall'indeterminatezza di un ormai termine usurato. Agathon indica però la vita buona, compiuta, piena, desiderabile e felice. Riuscire a comprendere questa idea, ciò che vi è di più luminoso (phanotaton), e a metterla in pratica rappresenta la mèta suprema della vita umana, la «massima conoscenza». Il suo conseguimento è però concesso a pochi, giacché il bene si colloca «al limite estremo dell'intelligibile ed è difficile a vedersi».
Alla richiesta di spiegare cosa sia il buono, Socrate rifiuta di addentrarsi in una definizione: non si sente pronto e ha paura di esporsi al ridicolo.
Come accettabile compromesso, suggerisce di illustrarlo attraverso una metafora. Paragona così il buono al sole, suo analogon nel mondo visibile, per cui, sebbene esistano le cose fisiche, coglibili dai sensi, ed esistano i concetti (noemata), coglibili dall'intelletto (vous), se manca la luce naturale o la luce dell'anima non si può vedere o pensare nulla. Dunque, la luce è un tertium tra la vista e il visibile e tra il pensiero e i pensabili. Inoltre, al pari del sole naturale che, emanando luce e calore, permette la vita vegetale e animale, il bene, sole spirituale, è causa del generarsi e rigenerarsi delle idee.
Il mito della caverna, il più celebre nella storia della filosofia, ci aiuta a comprendere meglio quanto appena detto. Vi si immagina, si sa, una caverna in cui degli uomini vedono sulla parete opposta all'ingresso delle ombre che scambiano per cose reali. Tali ombre rappresentano le nostre conoscenze superficiali: le opinioni non sufficientemente esaminate, quelle, appunto, di cui normalmente ci contentiamo. Quando però qualcuno è indotto a uscire dalla caverna e a uscire all'aria aperta, viene dapprima accecato dalla luce del sole e non vede assolutamente nulla. Gradualmente, però, si abitua alla luce e, dopo aver rivolto lo sguardo verso basso lo solleva sempre di più in alto. Solo alla fine, giunto alla fonte della luce, si accorge di non poter fissare a lungo il sole, pena la cecità.
Anche la conoscenza del bene è raggiungibile per gradi, dopo lunghi e faticosi esercizi, poiché il suo sole acceca e scotta quanti pretendano di vederlo e di sottoporvisi senza preparazione: «Chi non è davvero filosofo, e ha solo una patina superficiale di opinioni filosofiche, fa come chi ha preso troppo sole e si è scottato».
Perché – per parafrasare un'espressione giovannea – gli uomini preferiscono le tenebre? Perché ambiscono a surrogati del bene (piacere, ricchezza, potere, gloria, onore) invece di abbandonarsi a una felicità più alta? È vero che anche inseguendo questi simulacri avvertiamo talvolta la nostalgia di un bene più pieno. Sentiamo che qualcosa ci manca, che ogni soddisfazione è insatura e momentanea, che persino le nostre fantasie, i nostri desideri i nostri sogni sono calamitati dalla premonizione di un bene infinito, che si manifesta come sordo bisogno di trovare un centro di gravità intellettuale ed emotivo, che ci sottragga all'esistenza dolorosa o insipida.
Il Cristianesimo, nell'assorbire la filosofia platonica e neoplatonica, ha perciò identificato Dio con il Sole e con il Bene, sbarrandone però la conoscenza alla mente umana. La gloria di Dio è splendore intollerabile ai nostri occhi: oltre l'intelletto, il nous si pone ora la fede, oltre l'ottenimento del bene la speranza di conseguirlo, oltre la conoscenza umana l'insondabile mistero. E se, anche al di fuori della dimensione religiosa, l'idea di un bene assoluto risultasse al di fuori della portata di tutti gli uomini? Se le forme di vita buona sono molteplici e dipendono da scelte personali?
Si può qui toccare lo strato più profondo delle nostre concezioni, dove la verità si scontra con l'opinione, la rousseauiana «volontà generale» con la «volontà di tutti», la ragione con la demagogia. Qui si può constatare come l'assolutezza del possesso del bene da parte di qualcuno o di qualche comunità, qualora diventi strumento della religione o della politica, si trasformi in dogma inconfutabile e in violenza. I monoteismi e le teocrazie hanno a lungo promosso (e in alcuni casi continuino a farlo), l'intolleranza e la guerra.
Come mai tali concezioni hanno trovato e trovano tanto credito? Non sarà forse perché il bisogno di credere all'assoluto attrae gli animi e li fa ruotare attorno al sole carismatico di un capo che spaccia le sue opinioni per verità inconfutabili? E non sta qui uno degli elementi di debolezza nascosti delle democrazie, che si manifesta nei periodi di drammatiche crisi, quando molti, stanchi della pluralità irriducibili delle opinioni, chiedono certezze che non giungono dal loro sole interiore, ma dalla luce riflessa di un capo carismatico?
D'altra parte il dilemma tra l'assoluto e il relativo sembra privo di praticabili vie d'uscita che non siano di compromesso: se il bene fosse davvero quello che pare a ciascuno, avremmo l'anarchia più sfrenata, ma se, al contrario, fosse dichiarato monopolio di qualcuno e si fosse indotti o costretti a obbedire a chi ne proclama il possesso, si avrebbe la sopraffazione o la servitù volontaria. Bisogna perciò trovare una mediazione tra l'oscurità delle opinioni degli abitanti della caverna e la solare luminosità di chi cerca il vero. I modelli dogmatici o totalitari predicano o impongono dall'alto ideologie contrabbandate come verità, ma non possono giustificare la libertà e le opinioni dei cittadini.
A loro volta, i modelli liberali o democratici sono condannati a moderare le pretese e di razionalità e di vita buona e ad accettare l'equivalenza delle opinioni e delle scelte dei cittadini. Sostengono il perseguimento di ciò che sembra bene a individui o gruppi, ma non sanno giustificare a sufficienza le ragioni del bene comune.

Il Sole Domenica 7.9.14
Progettare la propria fama
Così Heidegger costruì la sua fortuna postuma
I «Quaderni Neri» hanno suscitato un grande effetto, non solo per il contenuto ma perché svelano la strategia di pubblicazione decisa in vita per i decenni successivi alla sua morte
di Genot Böhme


Per introdurre il nostro tema scelgo un fatto accaduto di recente nel mondo della filosofia, a cui i media hanno riservato una certa attenzione: la pubblicazione dei cosiddetti Quaderni neri (Schwarze Hefte) di Heidegger, che hanno destato l'interesse tanto dell'opinione pubblica quanto della filosofia accademica. Si tratta di quaderni di lavoro su cui Heidegger ha annotato i suoi pensieri a partire dal 1931 sino all'inizio degli anni Settanta, mettendo nero su bianco, senza filtri, molto di ciò che nelle opere ufficiali si lascia solo indovinare. I Quaderni neri non riportano annotazioni di getto o semplici appunti, bensì formulazioni chiare, ben strutturate dal punto di vista linguistico. È evidente che anche per questi scritti Heidegger aveva in mente una pubblicazione. In ogni caso – e questo è per noi l'elemento decisivo – il filosofo stabilì nel suo testamento che questi quaderni venissero pubblicati solo dopo il completamento della pubblicazione della sua opera omnia.
La pubblicazione dei Quaderni neri ha suscitato grande effetto, avviando una rinnovata discussione sull'uomo Heidegger e sulla sua opera, sul suo antisemitismo e sulla sua critica della modernità, dai toni irrispettosi della dignità umana.
A interessarci qui non è tanto il contenuto dei Quaderni quanto la strategia della loro pubblicazione.
Nel corso degli anni l'opera di Heidegger è stata universalmente innalzata alla dignità di "classico" – o forse potremmo anche dire: è "decaduta" allo status di "classico" –, in quanto manca di attualità, e ciò che in Germania, con la sua tradizione di storia della filosofia, viene ancora definito come un "diventar classico", da un punto di vista globale significa che Heidegger, oggi, può appartenere soltanto alla storia delle idee. Sin dall'inizio, o per meglio dire a partire almeno dal 1945, Heidegger ha dimostrato di possedere un senso spiccato per la comunicazione pubblica e per l'uso dei media.
Ciò può dipendere dal fatto che, proprio in quanto critico della civiltà della tecnica, Heidegger fosse particolarmente sensibile e attento alle possibilità che la civiltà della tecnica aveva da offrire. Ma può anche dipendere dal fatto che, a partire dal 1945, egli non fosse più obbligato a presentarsi in quanto professore universitario.
In ogni caso, come pochi altri filosofi, è riuscito a raggiungere il più vasto pubblico grazie all'uso della radio e del grammofono. E tuttavia, attraverso precise disposizioni consegnate al suo testamento, si è adoperato perché la sua opera non decadesse allo status di uno di quei classici discussi o messi a tacere nell'Accademia, grazie a pubblicazioni postume in grado di tenere sempre desta l'attenzione su di sé.
Il primo atto in questa direzione fu la decisione di far pubblicare la sua cosiddetta seconda opera principale, cioè il secondo volume di Essere e Tempo, L'Evento (in italiano: Contributi alla filosofia. Dall'evento, Milano, Adelphi 2007), frutto dei cambiamenti intervenuti nel suo pensiero dopo la Kehre, la Svolta, solo dopo la sua morte. Stessa cosa per l'intervista rilasciata allo «Spiegel» nel 1966. Heidegger aveva da aspettarsi dai giornalisti, o meglio da temere, domande sul suo passato nazionalsocialista e sul suo distanziamento dal partito. Per questo l'intervista apparve solo dopo la sua morte, e anche con una certa ritrosia,tuttavia, l'attesa per eventuali domande sul nazionalismo andò delusa.
La pubblicazione dei Quaderni neri è oggi un atto ulteriore in questa messa in scena di sé postuma. Nel seguito ci chiederemo in che misura questo atteggiamento possa essere spiegato ricorrendo a determinate caratteristiche della nostra civiltà, più precisamente della nostra economia capitalistica.

Il Sole Domenica 7.9.14
Decostruire Nietzsche
La tragedia di un Super poveruomo
Maurizio Ferraris lo descrive come patetico, geniale e smanioso di diventare famoso. Lo divenne quando impazzì e non potè rendersene conto
di Sebastiano Maffettone


La maggior parte dei filosofi nutrono una sorta di odio-amore per Nietzsche. Da un lato, infatti, mal tollerano il suo "dilettantismo" radicale e lo sprezzo per la filosofia come professione (da parte di uno che chiamava Kant e Hegel "operai della filosofia"). Dall'altro, non riescono a non ammirare le sue geniali intuizioni e i suoi colpi di teatro epistemologici. Pochi filosofi, però, sono in grado di restituire al lettore questo senso di ambigua ammirazione che circonda Nieztsche senza tradire il compito di fornire un quadro ragionevole e fedele della sua personalità e della sua opera.
Maurizio Ferraris, in questo suo Spettri di Nietzsche, riesce invece a pieno in questa missione ardua, offrendo al lettore una decostruzione intelligente, seria e molto ben scritta in italiano della figura del pensatore tedesco. Il Nietzsche di Ferraris è un geniale povero diavolo, in preda a una montante follia, ossessionato dalla voglia di diventare famoso, che girovaga per l'Europa senza fissa dimora (anche se preferisce l'Italia). Questa è la prima idea del libro: nel caso di Nietzsche la vita e il carattere del "personaggio" sono interessanti almeno quanto l'opera. Questo ne fa una sorta di pre-postmoderno, un theorist che ben comprende, come sanno gli esperti dello star system mediatico, che gli effetti sul pubblico sono spesso più importanti delle tesi sostenute. In questa cornice, si muove la dialettica tra l'eros della volontà di potenza e il sapore vagamente mortifero dell'eterno ritorno. Dal punto di vista più schiettamente filosofico, Nietzsche critica in questa ottica il positivismo per il suo dogmatismo troppo fiducioso nei fatti, ma prende altresì le distanze dal razionalismo dei filosofi ritenuto colpevole di ottimismo eccessivo. Questa è la matrice del famoso nichilismo nietzscheano di origine prussiana sicuramente, ma nutrito anche dall'ontologismo austriaco e dal radicalismo franco-russo.
La struttura profonda del nichilismo è da un lato – come è noto – il fallimento percepito della promessa religiosa di redenzione, ma dall'altro, più filosoficamente, un virulento anti-kantismo. Ferraris è bravo a chiarire il significato di quella che Nietzsche riteneva una colossale fallacia trascendentale. La fallacia in questione, che permea tutta la filosofia contemporanea, consiste nel pensare che l'ontologia non abbia una sua vita indipendente dall'epistemologia. Ma questa tesi rischia – sostiene Ferraris – di aprire le porte alle stravaganze post-moderne implicite nel motto «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Credere in qualcosa del genere implicherebbe non riuscire a distinguere il vero dal falso, il possibile dal fantastico e così via. In sostanza, la fallacia trascendentale di kantiana memoria, sottomettendo l'ontologia all'epistemologia, equivarrebbe a quella inesistenza di Dio che rende tutto lecito. Qui, francamente, non sono d'accordo con Ferraris: è difficile credere in un accesso diretto alle cose senza mediare attraverso le teorie. Ma si tratta di questioni di pura filosofia, su cui è davvero difficile dire chi abbia ragione. Invece, Ferraris ha sicuramente ragione nel sostenere che Nietzche era un predecessore non solo di Heidegger ma del Nazismo. Interessante, da questo punto di vista, la ricostruzione dei vari modelli di de-nazificazione di Nietzsche, da quello più teorico alla maniera di Bataille a quello più filologico di Colli-Montinari. In sostanza, Nietzsche appare come un personaggio a metà strada tra Zarathustra e Zelig, tra l'anti-Cristo e Guido Gozzano. Come a dire, un po' eroe e un po' patetico, ma con una straordinaria visione e un'eccellente capacità di mescolare elementi di pop culture e di pensiero alto. Per tutta la vita volle essere famoso, e ci riuscì al fine, ma solo quando la follia lo rese incapace di rendersene conto. Il sarcasmo della storia...

Maurizio Ferraris, Spettri di Nietzsche, Guanda, Milano, pagg. 266, € 18,00. Lezione magistrale dell'autore domenica 14 settembre a Carpi alle ore 15,00

il manifesto 7.9.14
Ecce Nietzsche, dal mito alla storia
Grandi filosofi. Anche gli occhi di Jim Morrison si illuminavano quando parlava di apollineo e dionisiaco: «Spettri di Nietzsche», una storia della fortuna e dei malintesi cui andò incontro il filosofo tedesco, scritta da Maurizio Ferraris. Dagli esordi come critico della cultura alla metafisica dell'Eterno Ritorno e della volontà di potenza
di Stefano Catucci

segnalazione di Nuccio Russo

Scriveva Nietzsche a Lou Salomé in una lettera del 1882: «mia cara Lou, il suo pensiero di una riduzione dei sistemi filosofici agli atti personali dei loro autori è veramente il pensiero di un’anima sorella: io stesso ho spiegato a Basilea la storia della filosofia antica in questo senso e dicevo volentieri ai miei ascoltatori: “Questo sistema è morto e sepolto, ma la persona dietro ad esso è incancellabile, la persona non si può affatto seppellire”». Nel pubblicare un saggio sul pensiero di Nietzsche, più di dieci anni dopo, Lou Salomé avrebbe rinunciato a tener fermo questo principio, finendo anzi per separare la filosofia e l’autore al punto da prendere estremamente sul serio anche le idee di cui aveva riso, quando se le era sentite esporre a voce, prima fra tutte quella dell’Eterno Ritorno.
Il nuovo libro di Maurizio Ferraris, Spettri di Nietzsche (Guanda, pp. 250, euro 18,00) si inoltra invece proprio nello spazio sottile in cui i filosofemi diventano espressione di una personalità e questa, a sua volta, sintomo di un’epoca, così che per sbrogliare la matassa e comprendere l’influenza esercitata da Nietzsche lungo più di un secolo occorre seguire passo dopo passo non solo i movimenti del pensiero, ma anche quelli dell’autore.
Certo, per compiere un’operazione critica di questo tipo non si può rimanere nella cornice accademica di un’osservazione neutrale, «scientifica». Bisogna invece mettersi in gioco in prima persona e farsi carico del valore filosofico di un doppio inseguimento che pone in questione, inevitabilmente, anche una parte di sé. Ferraris affronta questo nodo fornendoci anche la cronaca di un rapporto di lunga data che lo ha portato, nel corso degli anni, non solo all’interno dei testi di Nietzsche e delle grandi costellazioni dei commenti, ma anche nei luoghi nei quali il filosofo tedesco ha vissuto o è passato, a cominciare dalle sue numerose tappe italiane. Per questo il testo si dispiega su più livelli e tiene insieme documenti di carattere molto diverso, tutti accreditati di una identica dignità narrativa e testimoniale: interpretazioni filosofiche, canzoni, poesie, guide turistiche, dichiarazioni politiche, iscrizioni incise sulle targhe che segnalano le case in cui Nietzsche ha dimorato, in un continuo contrappunto fra un pensiero, il suo sfondo esistenziale, la storia delle sue origini e quella dei suoi effetti.
L’argomentazione è tipicamente digressiva, come lo era quella dei romanzi filosofici di Diderot, che in Jacques il fatalista aveva come unico collegamento fra un episodio e un altro la domanda ricorrente che il padrone rivolgeva al suo facondo servitore: «raccontami dei tuoi amori». Qui è Ferraris a raccontarci di un amore filosofico, che ha pedinato lungo tutti i luoghi da cui prendono il titolo
i capitoli del libro: Torino, Sils Maria, Lenzerheide, Nizza, Rapallo, Orta, Silvaplana, Sorrento, Basilea, passando per Berlino, per Röcken e per altre località che occupano ciascuna un proprio rilievo, come Recoaro, stazione termale in cui Nietzsche soggiornò brevemente nel 1881 e che fu teatro, cent’anni dopo, di un grande convegno internazionale organizzato dall’Istituto Gramsci.
Poiché il libro non vuole tessere la trama di una biografia di Nietzsche, ma disegnarne una mappa, l’articolazione dei capitoli non segue un andamento cronologico. Si passa di stazione in stazione attraverso associazioni di idee, risalendo una traccia apparentemente irrilevante, oppure fermandosi a approfondire un tema portante chiamando in causa gran parte della letteratura critica, come se la tecnica della scrittura volesse riprodurre il ritmo di un ipertesto.
Accanto alle pagine che ricostruiscono geografia e idiosincrasie della filosofia di Nietzsche troviamo così analisi magistrali di snodi decisivi: la dipendenza di alcune intuizioni giovanili dalla divulgazione scientifica del suo tempo, a cominciare dalla Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange; la derivazione scientifico-mistica della teoria dell’Eterno Ritorno, nutrita anche dagli studi sulla natura delle comete di Frank Zöllner; l’apologo del Crepuscolo degli idoli sul «mondo vero» ormai ridotto a «favola», ovvero – come osserva Ferraris – «la chiave di volta del postmoderno», quella per cui «la realtà è socialmente costruita, nulla esiste al di fuori del testo, il sapere è solo un effetto di potere, il mondo si guarda da infinite prospettive che corrispondono ai nostri bisogni vitali in conflitto tra loro» e «non ci sono cose in sé, ma solo in relazione a osservatori».
Se si pensa al percorso compiuto da Maurizio Ferraris verso l’approdo al «nuovo realismo», si comprende come questo libro sia soprattutto un gesto di commiato nei confronti di Nietzsche, con l’auspicio che il distacco non sia solo personale, ma corrisponda a una svolta più ampiadella filosofia del nostro tempo. Il titolo ricalca volutamente gli Spettri di Marx che Derrida vide aggirarsi fra le macerie del mondo post-comunista, dopo il fatidico 1989. I fantasmi agitati dal pensiero e dalla personalità di Nietzsche sono però di tutt’altro tipo e sono quasi compensatori rispetto alla frustrazione delle rivoluzioni mancate o tradite. Sono gli spettri «di una insofferenza narcisistica, di un ribellismo antiborghese» e «di un attivismo da biblioteca» che ancora percorre il nostro paesaggio culturale e che un altro teorico del realismo, György Lukács, aveva evidenziato con parole oggi recuperate da Ferraris dopo il lungo periodo di discredito in cui sono state gettate dalla riabilitazione filologica, accademica e politica di Nietzsche cominciata negli anni cinquanta.
La «missione sociale» della filosofia nietzschiana, secondo Lukács, consiste nel rendere superflua ogni rottura nell’ordine sociale delle cose facendo appello a una rivoluzione più profonda, «cosmico-biologica», all’annuncio indeterminato di Zarathustra, che può rendere gradito e seducente anche il senso del proprio essere ribelli. Ferraris, dal canto suo, vede nella filosofia del superuomo e della volontà di potenza una paradossale apologia del conformismo travestito con le maschere dell’aristocrazia e della trasgressione.
Nietzsche tentò di presentare la sua vita così malinconica, solitaria, malata, continuamente in bilico sul limite del crollo psicofisico, come l’espressione universale e necessaria di un destino tragico identico a quello di un’epoca intera.
Ferraris vede al contrario, nell’esigenza di distaccarsi da Nietzsche, un passaggio esemplare per la filosofia di oggi, come rivendica nella Postilla che contiene, di fatto, la chiave di costruzione e di lettura dell’intero libro. Per questo ridiscende dal livello del mito, che ossessionò Nietzsche quale specchio della sua stessa esistenza, all’ambito della historia, dove tutto ciò che appariva tragico e straordinario si rivela umanamente fragile e contingente. «Tutto quello che rimane di Nietzsche», scrive allora Ferraris, «non è che lo stile, un idioma, una individualità, l’unicità di una firma, cioè una imperfezione e un errore, e anche un tentativo di seduzione, che aleggia nella prosa, nei simboli, negli effetti». Eppure, insieme a tutto quanto c’è di idiomatico nella vicenda di un filosofo che ottenne l’agognato successo intellettuale solo quando non era più in grado di intendere e di volere, rimane anche un’eredità da cui non ci si distacca mai del tutto, perché somiglia a un rito di passaggio. È il momento dionisiaco, «universo immaginario» in cui Nietzsche proietta le sue mortificazioni ammantandole «di un’aura arcaica e originaria», ma anche «tonalità emotiva fondamentale» del suo pensiero che scompare alla vista e ricompare come un «fiume carsico» che spesso emerge in modo eccentrico e inaspettato.
Nella sua contrapposizione al momento apollineo, che per Nietzsche si identifica con la filosofia dell’Illuminismo, il motivo dionisiaco ha per Ferraris qualcosa di inguaribilmente superstizioso e di retrivo, è ciò che prepara la distruzione del mondo vero in favore dell’idea per cui «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». Al tempo stesso il suo radicarsi in esperienze immersive e spontaneamente magmatiche – per esempio nella musica, oppure nell’assunzione di sostanze o farmaci che investono quanto aveva chiamato, all’inizio di Umano, troppo umano, «la chimica delle idee e dei sentimenti» – mostra che il dionisiaco è un elemento potenziale di crescita, un impulso al superamento della fase nichilistica dell’esistenza in favore di una stagione più costruttiva e condivisa, che si può conquistare anche grazie all’intervento correttivo del principio socratico per eccellenza, l’ironia, della quale Ferraris fa largo uso in chiave filosofica.
Racconta per esempio, di essersi recato nel 1972, a sedici anni, al cimitero parigino di Père Lachaise per visitare la tomba di Jim Morrison, il leader dei Doors morto l’anno prima, che si era dichiarato lettore di Nietzsche e aveva affermato come per capire davvero la sua musica bisognasse leggere La nascita della tragedia. «Vidi la tomba coperta di spinelli» ricorda Ferraris, «e un distico eptasillabico scritto con lo spray che prometteva una resurrezione lisergica: “Jim est mort, ne nous importe / car un trip nous le remporte” (Jim è morto, ma non c’importa / perché un trip ce lo riporta”)». Un verso memorabile e irriverente che condensa nella sua tragica leggerezza il «passaggio Nietzsche» che Ferraris indica come un rito da attraversare, nel corso di una vita filosofica; ma per andare oltre, superando il rischio di perdersi, di incantarsi o impantanarsi di fronte alla forza incantatrice dei suoi spettri.

Il Sole Domenica 7.9.14
Hans Küng
Riflessioni sul suicidio
di Arnaldo Benini


Nella riflessione più profonda mai scritta sul suicidio, David Hume dice di credere «che nessun uomo abbia mai fatto getto della vita, finché valeva la pena di conservarla. Perché è tale il nostro orrore naturale per la morte, che motivi troppo lievi non potranno mai riconciliarci con essa; e se anche le condizioni di salute o fortuna di un uomo non sembrano richiedere tale rimedio, possiamo essere certi che chi vi abbia fatto ricorso senza ragioni apparenti era affetto da un'incurabile depravazione o tristezza di carattere, che gli avvelenava ogni gioia e lo rendeva infelice come se avesse subito le più gravi disgrazie. Il suicidio non è proibito dalle leggi di natura.». Nelle società secolarizzate, la libertà di uccidersi è indiscussa. Il suicida mancato non è condannato e, se necessario, è curato a spese della collettività. Il filosofo Karl Löwith, in un ampio studio storico-critico del suicidio, scrive che esiste un solo argomento contro il diritto all'autodistruzione, e questo argomento non è morale, bensì religioso.
Per la religione cristiana l'uomo è creatura di Dio, e il rifiuto della vita è il massimo dell'offesa alla divinità. Solo Dio può decidere il momento della morte. Per il non credente la vita può essere giudicata solo da chi la vive, e si ha la libertà di rifiutarla, anche se, come dice Hume, non ci sono ragioni obiettive, come malattie.
Il suicidio assistito è richiesto da chi vuole morire con tranquillità e dignità, senza gettarsi nel vuoto, sotto il treno, spararsi, impiccarsi o annegarsi. In genere si tratta di malati senza possibilità di cura, compresi i sofferenti di depressione grave. In Germania ci sono circa diecimila suicidi ogni anno. Le Chiese cattolica e protestante tedesca, in una dichiarazione comune del 2003, hanno condannato l'assistenza al suicidio come omicidio volontario eticamente intollerabile, anche se desiderato in condizioni normali d'intendere e di volere.
Sia il suicida che chi l'aiuta compiono peccato mortale. Il suicidio assistito è consentito in Olanda, Svizzera, Belgio e Lussemburgo e negli stati americani Oregon e Montana. Nel novembre 2012 il referendum per introdurlo nel Massachusetts fallì per pochi voti. In Germania è proibito, nonostante il favore del 66% della popolazione. Di regola, in sede giudiziaria, al medico sono riconosciute circostanze attenuanti.
Il teologo cattolico svizzero Hans Küng (al quale Papa Giovanni Paolo II nel 1979 ritirò la licenza di insegnare teologia a Tubinga) sostiene da anni che il dovere del medico di alleviare la sofferenza deve prevalere sull'impegno a mantenere in vita chi non l'accetta più. Il 2 settembre è uscito in Germania il suo libro Glücklich sterben (Morire felici), che ha riacceso il dibattito sulla liceità e opportunità del sostegno a chi decide di porre fine alla vita.
Stando ai primi commenti, esso si svolge con rispetto e considerazione delle opinioni altrui. Contrariamente alla convinzione di Löwith, Küng sostiene che nessun principio e nessun sentire religiosi sono contrari al suicidio. Riprendendo un argomento già toccato da Hume, sottolinea che fino alla radicale presa di posizione contraria di Sant'Agostino, «influenzato dalla visione pessimistica della vita», nella Scrittura non c'è testo che condanni il suicidio. Ogni individuo, ribadisce Küng, è responsabile davanti a Dio e all'umanità e ha il diritto di decidere della sua vita e della morte. La facoltà di decidere è per lui teologicamente fondata ed eticamente valida.
Küng si rivolge con parole molto cariche di significato e d'emozione al credente per renderlo partecipe della dimensione religiosa della morte. Se la scelta della morte volontaria avviene nella fiducia in Dio, il credente non deve avere il senso di cadere nel nulla. Sarà una morte felice, egli dice, perché avviene nelle mani di Dio e libera da una condizione atroce e senza rimedio. Küng paragona la tenacia con cui la Chiesa cattolica si oppone al suicidio assistito e al testamento biologico all'errore "catastrofico" dell'enciclica di Paolo VI Humanae vitae del 1968, che considerava peccato mortale ogni forma di contraccezione, precetto che buona parte dei credenti ignora.
Hans Küng ha 86 anni e soffre di un grave Morbo di Parkinson che, racconta nel libro, alla fine dello scorso mese di giugno l'ha portato improvvisamente alla soglia della fine, evitata solo grazie a cure intense e prolungate. Quella fine fu rifiutata perché non stabilita da lui. Il terrore di Küng è di venir colto dalla demenza del morbo di Alzheimer (come il letterato Walter Jens, suo intimo amico), alla quale vuole sottrarsi col suicidio assistito prima che sia troppo tardi.
Küng sembra ignorare che la demenza, come nel caso di Jens, può spegnere la capacità di intendere e di volere prima e senza che la persona colpita se ne accorga, e questa è la regola più che l'eccezione. Ragionando della sua fine, la coscienza è consapevole che la condizione ideale di quell'esperienza che l'attende è la serenità. E di quanto sia difficile raggiungerla. Il libro di Küng, con pregi e difetti, ne è una conferma.
ajb@bluewin.ch
Hans Küng, Glücklich sterben, Piper München Zürich, pagg. 160, € 17,00

Il Sole Domenica 7.9.14
Germania /1
L'avvento del Quarto Reich
I tedeschi hanno ritrovato un'egemonia pacifica quanto netta grazie alla solidità ecocomica e alle politiche rigoriste, mentre gli altri Paesi soffrono una dura recessione
di Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano


È stata Anne Applebaum, in un commento pubblicato sul «Washington Post» nel settembre 2013 e intitolato Angela Merkel, the empress of Europe (Angela Merkel, l'imperatrice d'Europa), a usare l'espressione "Fourt Reich" (Quarto Reich): definizione da brivido, probabilmente esagerata, ma che potrebbe riassumere i sentimenti di molti cittadini europei di fronte a una crisi. La locuzione si è talmente diffusa che compare persino come voce dell'enciclopedia online Wikipedia, dove si legge che «il termine "Quarto Reich" si riferisce alla possibilità di un'ascesa e ritorno al potere in Germania e in Europa» del nazionalsocialismo. Anni fa, nel 1966, l'espressione fu adoperata quando l'esponente cristiano-democratico Kurt Georg Kiesinger, con un passato di militante nel Partito nazionalsocialista, venne eletto cancelliere. Il 31 ottobre 1989 il prestigioso quotidiano «Times» di Londra, a proposito della riunificazione tedesca, titolò Beware, the Reich is reviving.
Per oltre un secolo, da quando alla fine dell'Ottocento conseguì con Bismarck l'unità statale e politica, la Germania ha coltivato una volontà di egemonia nei confronti dell'Europa. Un progetto geopolitico che si è tradotto in due sanguinose guerre, la Prima guerra mondiale condotta dall'esercito imperiale del kaiser e la Seconda, tragica e atroce, scatenata da Hitler.
Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea esso riappare all'orizzonte. Quell'egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata "pacificamente" conseguita con l'arma economica. L'era della moneta unica europea, infatti, è diventata l'epoca della grande egemonia tedesca, dove Berlino prospera e gli altri popoli europei soffrono una recessione senza precedenti. Angelo Bolaffi, filosofo e germanista, ha scritto: «Alla base del risentimento antitedesco che circola oggi in Europa non ci sono più, dunque, (solo) le colpe storiche del passato, ma piuttosto le scelte del presente: la Germania, forte della sua forza, pretende – così pensa un diffuso senso comune – di trasformare la propria ossessione per il rigore finanziario e la stabilità monetaria nella Costituzione materiale dell'Europa, minacciandone in tal modo gli equilibri economici, le conquiste sociali e persino il funzionamento dei sistemi democratici».
Quasi settant'anni fa la Germania usciva da una guerra disastrosa, ridotta in macerie materiali e soprattutto morali, con la responsabilità e l'onta del crimine più grave contro l'umanità, la Shoah. Ora, come ha osservato il sociologo Ulrich Beck, apprezzato docente alla London School of Economics, «si è trasformata da docile scolaretta in maestra dell'Europa».
L'Unione europea nacque, nel pensiero e negli intendimenti di chi la volle, per evitare, dopo due sanguinose guerre, che l'Europa potesse tornare a essere terreno di fratture e di egemonie, che potesse ripetersi una "guerra civile europea". Oggi, invece, l'Europa è percepita come una minaccia alla stabilità economica e sociale di milioni di cittadini del Vecchio Continente. E la Germania, a torto o a ragione, viene identificata con le politiche rigoriste, con l'astrattismo formale e il deficit di democrazia che questa Europa ha espresso. L'Unione appare costruita secondo il modello sociale ed economico del Nord Europa, senza considerare le peculiarità e le caratteristiche storiche dei popoli latini.
Lo storico francese Emmanuel Todd ha affermato che la «Germania ha un genio particolare di smarrirsi nei propri errori e tende a una ostinazione irrazionale». Dopo la caduta del Muro, quando l'allora cancelliere Helmut Kohl cominciò a lavorare alacremente per la riunificazione delle due Germanie, non furono pochi i capi di governo a esprimere perplessità in merito. L'opposizione più manifesta fu quella del leader conservatore britannico Margaret Thatcher, già campione dell'euroscetticismo, che ripeteva che la Germania è «per natura più una forza destabilizzante che un fattore di stabilizzazione». L'affermazione coglieva un sentimento diffuso fra gli inglesi, al punto che l'allora ministro Nicholas Ridley giunse a dichiarare, in maniera decisamente eccessiva, che «tanto valeva allora, senza troppi giri di parole, consegnare tutto nelle mani di Adolf Hitler».
In termini più moderati, anche l'allora presidente della Repubblica francese, François Mitterrand, e il premier italiano, Giulio Andreotti, temevano, non sbagliando, che la riunificazione avrebbe significato uno spostamento dell'equilibrio europeo. Diviso tra l'alleanza democristiana con Kohl e i timori della politica estera italiana, Andreotti affermò che «l'esistenza di una sola nazione in due Stati è un dato di fatto, una realtà che non è in contestazione. Altra cosa sarebbe immaginare gli sviluppi futuri della storia». Qualche anno prima, partecipando a un dibattito al festival dell'Unità, Andreotti aveva ripetuto – destando non poco imbarazzo – una celebre frase di François Mauriac: «Amo tanto la Germania che preferisco averne due».
Il 3 ottobre 1990 avvenne quello che per decenni era parso impossibile e una Germania giustamente in festa celebrò l'agognata riunificazione. Da un punto di vista morale, la Repubblica federale, che aveva avuto come capitale Bonn, ne aveva sempre coltivato la segreta speranza.
Non è un caso se essa non riconobbe mai la Ddr (la Repubblica democratica) e neanche gli Stati che l'avevano a loro volta riconosciuta, secondo quella che fu chiamata "dottrina Hallstein", dal nome del sottosegretario agli Esteri Walter Hallstein che la elaborò e applicò tra il 1957 e il 1971. Il confine delle due Germanie era stato a lungo il fronte della guerra fredda, e solo negli anni Settanta, durante la stagione del cancelliere Willy Brandt, i rapporti fra i due Stati tedeschi si erano un po' normalizzati, anche se mai distesi del tutto, attraverso una serie di accordi bilaterali. Al momento dell'unificazione i Länder dell'Est erano in condizioni di abissale arretratezza rispetto a quelli occidentali.
La Germania federale era una delle più evolute e ricche potenze del pianeta, mentre quella cosiddetta "democratica", che eccelleva solo nello sport attraverso un uso sconsiderato del doping, era stata ridotta in miseria dal comunismo.
Tra i primi atti vi fu l'istituzione di un Fondo per l'unità tedesca (Fonds "Deutsche Einheit"), equamente suddiviso tra governo federale e i Länder occidentali, che soltanto tra il 1990 e il 1994 erogò ai nuovi Länder contributi per la colossale cifra di 82 miliardi di euro. Subito dopo il primo Fondo fu varata, nel 1993, una legge per l'implementazione del programma federale di consolidamento (Gesetzentwurf zur Umsetzung des Föderalen Konsolidierungsprogramms, Fkpg), con l'obiettivo di fornire un costante flusso di finanziamenti per consentire alle nuove regioni di colmare il gap nelle infrastrutture e negli standard vitali con il resto della Germania. La cifra spesa per il "salvataggio" dell'Est è astronomica: «I trasferimenti lordi sarebbero ammontati per il periodo 1991-2003 a 1250-1500 miliardi di euro (pari all'intero debito tedesco), equivalenti a una media di 96-115 miliardi annui». Fu anche istituito l'Erblastentilgungsfonds, un fondo da 40 miliardi di marchi annui per il pagamento di vari debiti residui, tra cui quelli della Ddr.
La riunificazione non sarebbe stata possibile, economicamente e politicamente, se la Germania non fosse stata inserita nel concerto europeo, che fece da garanzia nei confronti dei sospetti e delle reticenze dell'Unione Sovietica. Tuttavia, incassata la riunificazione, con la fine della guerra fredda, la Germania ruppe con le timidezze del lungo dopoguerra per riappropriarsi di un ruolo forte, tendente a creare un'area d'influenza economica e politica al centro dell'Europa, in quella che era la Mitteleuropa.
Nel settembre 1994 l'allora presidente del gruppo parlamentare della Cdu/Csu, Wolfgang Schäuble, oggi potente ministro dell'Economia, e il responsabile della politica estera del partito, Karl Lamers, pubblicarono un documento intitolato Riflessioni sulla politica europea.
Vi indicavano i nuovi obiettivi della politica estera della Germania che, finita la contrapposizione con il patto di Varsavia, doveva riappropriarsi del ruolo di potenza soprattutto nella costruzione di un "nocciolo duro", un ambito di influenza che guardava a Repubblica Ceca, Austria, Olanda, Repubbliche baltiche (da poco uscite dalla sfera russa), Ungheria, Polonia, Croazia, Slovenia, Slovacchia. La Germania voleva approfittare della fine dell'Unione Sovietica, sancita l'8 dicembre 1991, facendo della sua forza economica la testa di ponte di una nuova egemonia.
E ancora di più voleva sovvertire un famoso detto che circolava nelle diplomazie mondiali, secondo cui essa era «un gigante economico, ma un nano politico». Il primo atto di questa strategia era stato, sicuramente, il riconoscimento unilaterale, nel 1991, dell'indipendenza della Croazia, dichiarato dalla Germania nonostante l'invito della Cee a non procedere in maniera separata rispetto a un tema tanto delicato.
La Repubblica federale, invece, volle mettere i partner davanti al fatto compiuto, con una decisione che avrebbe destato non poche polemiche, ritenuta da alcuni storici scatenante, o quantomeno corresponsabile, rispetto alla sanguinosa guerra che avrebbe infiammato l'ex Jugoslavia. Scrive Jože Pirjevec, storico delle guerre iugoslave: «L'impegno con cui lottò a favore della Slovenia e della Croazia non era dettato soltanto dal rispetto di quel principio di autodeterminazione, in virtù del quale la stessa Germania si era recentemente riunita, ma anche dalla volontà di affermare a livello interno e internazionale il ruolo di grande potenza del suo Paese, segnalando al popolo tedesco ... che il tempo della sovranità limitata, tacitamente in vigore dal '45 in poi, era finito».

Il Sole Domenica 7.9.14
Germania /2
L'essenza politica della colpa
di Giuseppe Bedeschi


Karl Jaspers, uno dei più eminenti pensatori tedeschi del Novecento, fu duramente colpito quando il regime hitleriano procedette alla nazificazione delle università. Egli, "ariano", aveva sposato una donna ebrea, e, avendo rifiutato di divorziare, nel 1937 gli venne tolta la cattedra all'università di Heidelberg; nel 1938 gli fu imposto il divieto di pubblicare. Il filosofo si ritirò così fra le quattro mura della sua casa, dedicandosi interamente agli studi. La sua fu per parecchi anni una vita catacombale, interrotta da rare visite di amici. I coniugi Jaspers si salvarono in extremis: la loro deportazione era stata fissata per il 14 aprile 1945, ma il 30 marzo le truppe americane entrarono a Heidelberg.
Ricavo queste notizie dal bellissimo libro di Elena Alessiato, Karl Jaspers e la politica. Dalle origini alla questione della colpa (edito da Orthotes). Il terzo capitolo di questo libro è dedicato, appunto, alla Schuldfrage: un tema che suscitò, nel secondo dopoguerra, discussioni appassionate.
Jaspers tenne il suo primo corso di lezioni a Heidelberg, dopo la caduta del regime nazista, nel semestre invernale 1945-46, e lo dedicò alla «situazione spirituale della Germania». L'uditorio era numerosissimo (c'erano anche molti ex-soldati) e attentissimo, ma non manifestava consenso. Anzi, si percepiva, durante le lezioni, una tensione elevata (come Jaspers scrisse ad Hannah Arendt). Questa tensione era dovuta alle tesi che il filosofo veniva esponendo, e che sarebbero poi confluite nel saggio che egli pubblicò nel 1946, Die Schuldfrage. La colpa che macchiava il popolo tedesco, secondo Jaspers, era soprattutto una colpa politica (che non doveva essere confusa con la colpa giuridica, o con quella morale, o con quella metafisica). «Quando i nostri amici ebrei – egli diceva – furono deportati, noi non siamo scesi nelle strade, non abbiamo gridato fino a farci annientare. Abbiamo preferito rimanere in vita, con la debole, anche se vera giustificazione, che la nostra morte non sarebbe servita a niente. Che noi viviamo, è la nostra colpa».
Le affermazioni del filosofo suscitarono grande scalpore, e vennero interpretate come una criminalizzazione del popolo tedesco: una criminalizzazione indiscriminata, che non teneva conto del fatto che non tutti i tedeschi erano stati nazisti, e che migliaia e migliaia di essi erano stati assassinati o reclusi nei campi di concentramento. Senza contare che alle generazioni più giovani – che nel 1945 avevano vent'anni o poco più – non poteva essere imputato alcunché; e a queste generazioni soprattutto era affidato il futuro della Germania.
Le perplessità che le posizioni di Jaspers suscitarono nel suo paese, furono manifestate anche altrove. In Italia, per esempio, il più illustre esponente della cultura antifascista, Benedetto Croce, liquidò la Schuldfrage in modo sprezzante. «Mi pare un po' stupido credere – scrisse nel 1947, in occasione della edizione italiana del saggio di Jaspers – che un popolo vinto possa avere mai altro desiderio o coltivare altro dovere che di rimettersi in piedi e fronteggiare di nuovo gli altri popoli». Del resto, aggiungeva il vecchio filosofo, anche gli altri popoli avevano commesso le loro «colpe», se così si voleva chiamarle, perché essi erano «società di poveri uomini», come quello tedesco. «Conclusione: non stare a seccare, con inutili e arroganti rimbrotti e consigli moralistici, la Germania che soffre, perché seccare il prossimo, seccarlo a questo modo, è anch'essa una colpa, e delle meno perdonabili, verso l'umanità».
Questo giudizio di Croce appariva però troppo tranchant. Del resto egli stesso, in un bellissimo saggio scritto nel 1943, Il dissidio spirituale della Germania con l'Europa, aveva ravvisato nel nazismo «una crisi terribile che covava nella secolare storia tedesca», il «portato della storia di tutto un popolo». Il che significava che la nazione tedesca doveva compiere un profondo riesame di tutto il proprio passato. E questo fu fatto da illustri storici: dall'anziano, sommo maestro, F. Meinecke (che scrisse nel 1946 La catastrofe della Germania, in cui metteva sotto accusa la cultura politica nazionalista e militarista tedesca, che aveva reso possibile l'ascesa al potere di Hitler), a F. Fischer, a K. Bracher («è l'eredità della coscienza nazionale tedesca nel suo complesso che deve essere messa in questione, se si vuole comprendere come si è arrivati alla catastrofe»); e da illustri scrittori, come H. Boell e G. Grass, per fare solo alcuni nomi.

Elena Alessiato, Karl Jaspers e la politica. Dalle origini alla questione della colpa, Orthotes, Napoli-Salerno, pagg. 262, euro 17,00

Il Sole Domenica 7.9.14
Germania /3
Heine, Marlene e la domenica
un libro in gocce di Giorgio Dell'Arti


Odore. Dopo la caduta del Muro furono ritrovate alcune migliaia di boccette contenenti l'odore dei dissidenti. La Stasi li classificava dopo aver dato alle persone arrestate una garza sterile da infilare fra le cosce per una decina di minuti.
Ideale. Weltanschauung, in genere tradotto con l'insufficiente "visione del mondo". Parola trasferita direttamente in inglese per l'impossibilità di tradurla sul serio. Secondo Freud «un ideale non raggiunto dell'umanità».
Nido. Nestbeschmutzer, l'individuo che insozza il suo nido: la famiglia, la chiesa, la patria.
Heine. Classico Nestbeschmutzer, il poeta Heinrich Heine, ebreo convertito, colpevole soprattutto di essersi fatto beffe della Prussia e delle sue virtù militari, fuggito poi a Parigi per liberarsi del tormento della censura. Problema tedesco: si tratta di un grande poeta e nello stesso tempo di un Nestbeschmutzer. Che fare allora? I nazisti permisero l'insegnamento delle sue poesie ma proibirono ai maestri di rivelare il nome dell'autore. Vari comitati che sorsero per dedicargli un monumento furono rintuzzati. Una statua in bronzo fatta da Lederer nel 1926 fu presto fusa per farne cannoni. Dopo la guerra una statua venne eretta in un parco di Düsseldorf, e sui registri è effettivamente segnata come «dedicata a Heine». Ma sul piedistallo è incisa solo la parola «Armonia».
Marlene. Markus Auer, chef della Maison d'Allemagne a Parigi. A un certo punto arriva una telefonata. «Sono la Dietrich. Sa chi è la Dietrich? Voglio caffè tedesco, pane tedesco e una buona colazione tedesca con affettati». La Dietrich, tipica Nestbeschmutzer, che era scappata dalla Germania e aveva preso la cittadinanza americana nel 1937, aveva in quel momento 87 anni e viveva reclusa per difendere il ricordo della sua bellezza. Auer, semisvenuto al suono della sua voce («solo con quella ti avrebbe spezzato il cuore» aveva detto Hemingway), le portò la colazione in avenue Montaigne e dovette subire una perquisizione preventiva della portiera a caccia di eventuali macchine fotografiche. Marlene soffriva terribilmente di nostalgia, ma alla sua morte (6 maggio 1992) il Comune di Berlino non autorizzò nessuna commemorazione pubblica. Si sentivano frasi come "ha guadagnato in America tutti quei soldi, si faccia seppellire lì" eccetera.
Catene. «Anche quando fanno discorsi sulla libertà, i tedeschi in segreto amano essere in catene» (Heine).
Dualitudine. Einsamkeit, la solitudine. Zweisamkeit, la dualitudine, la solitudine in due, cioè «la coppia, l'amore, l'essere in due, il chiudersi in due in un mondo in cui solo l'altro conta, l'isolamento della coppia dal resto del mondo». Un esempio di Zweisamkeit in una trasmissione televisiva in cui una coppia doveva restare ammanettata per una settimana. «Quando lui si radeva la mattina, lei gli passava il rasoio, quando lei usciva per buttare la spazzatura lui le apriva il bidone, se suonavano la chitarra lei componeva gli accordi mentre lui eseguiva gli arpeggi. I due fidanzati che vinsero il viaggio premio offerto dal canale televisivo hanno giurato che non avrebbero più ripetuto l'esperimento».
Nomi. Hitler impose a un certo punto che tutte le donne ebree si chiamassero Sara e tutti gli uomini Israel.
Domenica. Benché il riposo domenicale sia previsto dalla Costituzione, le panetterie e le pasticcerie sono sempre aperte la domenica pomeriggio per rispetto della Damenkränzchen, una "coroncina di signore" che prendono insieme il caffè con la torta mentre i mariti passeggiano nei boschi o in montagna in onore della Männerfreundschaft o "amicizia tra uomini".
Toscana. Toskana Fraktion è il nome dato a quei deputati socialdemocratici un po' troppo edonisti per gli standard tedeschi, gente che aveva fatto del buon vino, del buon cibo, della casa in Toscana e della moda italiana il suo ideale di vita.

Vanna Vannuccini, Francesca Predazzi, Piccolo viaggio nell'anima tedesca, Feltrinelli, Milano, pagg. 144, € 7,50