martedì 9 settembre 2014

«il segretario del Pd non ha dedicato un cenno, un saluto, una parola al giornale che dal primo agosto non è più in edicola, ma il cui nome, almeno quello, è tornato a comparire in tutte le feste organizzate dal Partito democratico... Un silenzio esplicito che almeno sgombra il campo da possibili equivoci: nel futuro di Renzi, per il momento, non sembra esserci l'Unità».
Unità on line 9.9.14
Il palco del silenzio
di Luca Landò

qui

«...pochi si aspettavano il silenzio di Matteo Renzi nel discorso di chiusura. Anzi, c'era chi, perfino nel suo entourage, era sicuro che avrebbe detto qualcosa. Non l'ha fatto, ed è stato un gesto sbagliato. Problemi di riservatezza perché la fase è delicata, spiegano.  Aveva già detto nella lettera ai volontari che l'Unità tornerà presto a sferzare e sferzarci, aggiungono. Ma il popolo del Pd voleva una frase, una parola di speranza».
Unità on line 9.9.14
Dalle feste una sola voce: riaprire l'Unità
di Pietro Spataro

qui

«ci tengo a ribadire che stiamo lavorando per riportare l'Unità in edicola il prima possibile, così per ridare al partito e al popolo democratico il suo giornale»
Unità on line 9.9.14
Orfini: "Renzi va sostenuto. Basta con il ditino alzato"
intervista di Maria Zegarelli

qui

Repubblica 9.9.14
I giornalisti dell’Unità delusi dal leader
“Silenzio inquietante alla Festa su di noi”

ROMA «La festa de l’Unità si è chiusa senza una parola su l'Unità. Un silenzio inquietante, che mette una pesante ipoteca sul futuro della testata e dei suoi dipendenti». I giornalisti dell’Unità esprimono «profonda delusione» e preoccupazione per il loro futuro sulla versione web del quotidiano. «Avevano chiesto al segretario impegni concreti», scrive il Cdr. Ma «non abbiamo ottenuto nulla di tutto questo. Un vuoto pesante, perché si aggiunge alla totale opacità che circonda questa operazione. Opacità che si nutre di indiscrezioni incontrollate, boatos non verificabili, riportati da altri giornali. Aspettiamo da mesi di conoscere il progetto del Pd per l’Unità».

La Stampa 9.9.14
Renzi a pranzo con Parolin e i neo-cardinali italiani
Domani il premier vede a colazione a Palazzo Borromeo, sede dell'Ambasciata italiana presso la Santa Sede, il Segretario di Stato e gli altri neo-porporati italiani, Baldisseri, Bassetti e Stella
di Andrea Tornielli

qui

il Fatto 9.9.14
Oggi in Vaticano, sabato con Bergoglio a Redipuglia

Impegni religiosi, per così dire, quelli che attendono Matteo Renzi questa settimana. Oggi il presidente del Consiglio sarà infatti a pranzo con il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, all’ambasciata italiana presso la Santa Sede. L’incontro ufficiale è stato organizzato in onore dei nuovi cardinali italiani: il segretario del Sinodo, Lorenzo Baldisseri, l’arcivescovo di Perugia, Gualtiero Bassetti, e il prefetto della Congregazione del clero Beniamino Stella, che come Parolin sono divenuti cardinali al primo concistoro di papa Bergoglio, lo scorso febbraio, e che come vuole la tradizione saranno ricevuti dal premier nella rappresentanza diplomatica italiana. È previsto che all'incontro partecipino anche, tra gli altri, il presidente della Conferenza episcopale italiana, Angelo Bagnasco, e il sostituto della segreteria di Stato, Angelo Becciu. Gli argomenti di cui parlare saranno sicuramente molti, ma un cenno si farà pure alla visita che papa Francesco farà al sacrario di Redipuglia (Friuli Venezia Giulia) per la commemorazione dei caduti della Prima Guerra Mondiale: sul posto troverà anche Matteo Renzi.

Repubblica 9.9.14
Sabato il premier dal Papa a Redipuglia
Primo incontro Renzi-Parolin un pranzo tra due ex scout
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO La prima presa di contatto ufficiale fra i due nuovi premier, Matteo Renzi e Pietro Parolin, quest’ultimo da un anno segretario di Stato vaticano. Entrambi ex scout e, nel proprio lavoro, accomunati dalla medesima spinta innovatrice. È il filo rosso che accompagna l’arrivo, quest’oggi, di Renzi a Palazzo Borromeo per incontrare i vertici della Santa Sede, e che prelude all’incontro privato di sabato a Redipuglia, per la commemorazione dei caduti della Prima Guerra Mondiale, fra lo stesso premier e papa Francesco. Un meeting, quello odierno, all’insegna della politica estera e che costituisce l’esordio con le gerarchie vaticane anche per Federica Mogherini, nella nuova veste di alto rappresentate europeo per gli esteri. Con lei, anche il ministro dell’interno Angelino Alfano e, con ogni probabilità, altri ministri.
Come ricorda il sito specializzato vaticaninsider, l’incontro è di routine. Il pranzo ufficiale all’ambasciata, infatti, è stato organizzato come vuole la tradizione in onore dei nuovi cardinali italiani: il segretario del Sinodo Lorenzo Baldisseri, l’arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti e il prefetto della Congregazione per il clero Beniamino Stella. I tre cardinali, come Parolin, hanno ricevuto la berretta rossa al primo concistoro di papa Bergoglio, lo scorso febbraio, e seguendo una consuetudine oramai acquisita vengono ricevuti dal premier nella sede della rappresentanza diplomatica italiana presso la Santa Sede.
È previsto che all’incontro ci siano anche, tra gli altri, il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco (che sembra confermato fino alla fine del suo mandato che scade nel 2017) e il sostituto della stessa segreteria di Stato monsignor Angelo Becciu. Il presidente della Cei potrà discutere con il premier delle priorità per la Chiesa italiana in questo delicato frangente politico e sociale. Dopo il colloquio avvenuto nel convitto di Santa Marta lo scorso aprile tra Francesco e Renzi con la sua famiglia nel quale il Papa ha discusso soprattutto di giovani e di scuola con la moglie insegnante Agnese, sabato nella cornice solenne del sacrario di Redipuglia andrà in scena il «dialogo a tutto campo» con Francesco sulle questioni che più stanno a cuore ad entrambi: accoglienza, occupa- zione, famiglia. Mentre l’ex segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone aveva avocato a sé, nel 2007, i rapporti con le istituzioni italiane, il suo successore Parolin ha definito «una necessaria cooperazione » il rapporto tra Chiesa e Stato. Insomma, Parolin parlerà con Renzi del mondo, Bagnasco dell’Italia. Ma senza alcuna subalternità.
Oltre l’ufficialità c’è anche il calore. Non è secondaria la comunque radice di Parolin e Renzi nell’Agesci, l’associazione degli scout cattolici italiani. Al punto che quando al primo collaboratore del Papa, pochi giorni dopo il suo insediamento, i cronisti chiesero di Renzi egli rispose: «È probabile che lo abbia già incontrato all’epoca in cui ero assistente spirituale degli scout». A legare i due c’è anche l’approccio da «cattolici adulti» che propugnano una collaborazione fra le due sponde del Tevere senza alcuna subalternità e nessuna deriva clericale. Paradossalmente, è soltanto con questo premier che l’auspicio di papa Ratzinger di politici cattolici impegnati ma non eterodiretti dalla gerarchie trova una sua realizzazione.

Corriere 9.9.14
Il leader e Mogherini a pranzo con i neo cardinali italiani


L’appuntamento è oggi, dopo le 13, a Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede: il presidente del Consiglio Matteo Renzi, con il ministro degli Esteri Federica Mogherini, incontrerà a pranzo i nuovi cardinali italiani, «creati» da Francesco nel concistoro del 22 febbraio, proprio il giorno in cui il premier ha iniziato il suo mandato. Tra di essi c’è il Segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, ed è quindi prevedibile che la conversazione si soffermi in particolare sulle questioni internazionali, dai conflitti in Medio Oriente ai profughi. Del resto non c’è una «agenda», il pranzo è piuttosto una tradizione: l’ultima volta accadde con Mario Monti, il 21 marzo 2012, perché durante il mandato di Enrico Letta non ci furono concistori. Accolti dall’ambasciatore Francesco Maria Greco, gli altri neoporporati presenti oggi saranno Beniamino Stella, prefetto della Congregazione del clero; Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi; e l’arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti. Con loro il presidente della Cei Angelo Bagnasco, il nunzio in Italia Adriano Bernardini e i vertici della Segreteria di Stato, il sostituto Angelo Becciu e il «ministro degli esteri» Dominique Mamberti.

il Fatto 9.9.14
E sotto la camicia? Peones e leader a perdere
A Bologna con il primo ministro figure di secondo piano o capi partito in disarmo
La foto eccita solo la stampa italiana
di Marco Palombi


Se n’è vergognato, l’ha buttata sullo scherzo, ma la battuta giusta l’ha trovata addirittura Gianni Cuperlo (il che, peraltro, è pure una notizia): “Quello che non ho è una camicia bianca”, ha scritto su Facebook citando De André. La nuova sinistra a modino - talmente conservatrice in economia che non ha più nemmeno timore della parola “compagni”, avendo appurato che non significa nulla - è però solo un abbaglio italiano. Forse è colpa del candore del popeline delle cinque camicie sotto le quali, però, non c’è niente: all’estero, come si diceva una volta, giusto qualche citazione in Francia e Spagna, il resto della stampa mondiale non ha voluto nemmeno prendere atto che la nuova mise dell’euro-centro-sinistra è una roba a metà tra la divisa da cameriere (e magari è per evitare equivoci che il premier s’è tenuto lontano da quegli snob di Cernobbio) e quella da aperitivo per avvocati di medio reddito. A parte Matteo Renzi, infatti, che sta a palazzo Chigi e ha pure vinto le Europee, gli altri sono mezze figure o leader a perdere di partiti in disarmo, altro che la “sinistra ganadora” di cui parla Pedro Sànchez (che è bello, sì, più della Merkel, questo s’è capito). Un breve riassunto di chi sono questi nuovi “leader” europei forse aiuterà a chiarire l’equivoco.
ACHIM POST. Classe 1959, sposato, due figli. Entra nella Spd, i socialdemocratici tedeschi, negli anni 70 attratto da Willy Brandt e da allora ha collezionato una placida carriera da portaborse e funzionario di partito. Alle spalle una discreta storia di insuccessi elettorali, è uno dei vicecapigruppo Spd al Bundestag e segretario del Partito socialista europeo. Nota bene: di quella astrazione inesistente in natura che è il Pse, Post non è il leader politico - che semmai è il presidente, il bulgaro Sergei Stanischev - ma il responsabile organizzativo. Insomma, oltre all’assenza dei laburisti inglesi, la presenza tedesca era di basso livello.
DIEDERIK SAMSOM. È l’olandese, quello pelato se è permessa la semplificazione (a suo tempo lui ha dichiarato che rimpiange assai i suoi “molti riccioli” dantan). Samsom, classe 1971, sposato (ha ammesso “uno o forse due” tradimenti) e padre di due figli, oggi è sia capogruppo che segretario del partito laburista del suo paese: il PvdA. Con Renzi ha in comune l’amore per le campagne elettorali all’americana (sfortunate, le sue) e l’aver vinto un quiz in tv (uno più difficile della Ruota della Fortuna, però, grazie anche a Q. I. da 136). I laburisti d’Olanda, però, non riconquisteranno il governo, né cambieranno l’Europa: sono un partito in disarmo che alle Europee ha preso il 9%.
MANUEL VALLS. Ha 52 anni, francese da trentadue (suo padre era un pittore catalano, ha la cittadinanza dal 1982), ammiratore di Michel Rocard, socialista parecchio pendente al centro, e ne ha seguito le orme: non è un caso che il pencolante François Hollande ne abbia fatto il suo Primo ministro dopo la disfatta alle amministrative di marzo e il successo del Front National di Marine Le Pen. Valls ha fama di sceriffo, un socialista talmente stinto che il rosa pallido del Psf può ben essere una camicia bianca nel suo caso: a fine agosto s’è perso per strada il ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, dimessosi in polemica con la politica di rigore tedesco nei conti pubblici che il governo Valls ha accettato senza apprezzabili smarcamenti. È con quest’uomo che Renzi farà cambiare verso all’Europa: il tracollo dei socialisti francesi risolverà l’equivoco in ogni caso.
PEDRO SÀNCHEZ. Il più atteso, il più fotografato, le Marie Barbise democratiche se lo sono spupazzato tutto il giorno, anche se non si sa bene chi sia. Economista, 42enne, moglie e due figlie, deputato due volte (ma solo grazie alla rinuncia di qualcun altro), è il successore del dimenticabile Alfredo Pérez Rubalcaba alla guida del Psoe: Sànchez ha vinto le primarie col 49% dei voti e è stato confermato dal congresso di luglio. Per molti è solo il tizio che deve guidare i socialisti - umiliati dal 23% delle Europee, sfidati a sinistra da “Podemos”, confusi sul modo di fare opposizione a Rajoy visto che fa le stesse politiche del loro Zapatero - fino all’avvento di Susana Díaz, regina del partito nella roccaforte andalusa. Di passaggio, forse, ma tanto bello.

il Fatto 9.9.14
Autogol. Infortuni in Rete
Tutti i selfie e le altre bruttezze del Matteo nostro
di Andrea Scanzi


Probabilmente è un problema di narcisismo ingiustificato, o forse di frustrazione adolescenziale da riscattare ora che è famoso, ma – in ogni caso – qualcuno dovrebbe aiutare Matteo Renzi. Il selfie-tweet postato e poi cancellato dopo tre minuti, convinto che nel frattempo qualcuno non lo avesse eternato, è la prova definitiva di un’autostima inversamente proporzionale all’efficacia. Un autoscatto di bruttezza vivida, viso gonfio e sguardo stralunato, roba che neanche il suo nemico più spietato avrebbe mai potuto immaginare. E invece Renzi, due sere fa, ha avvertito (hacker esclusi) l’urgenza di regalare al mondo uno scatto simile.
POI L’HA rimosso, ma troppo tardi. Sfottò e insulti erano già esplosi: “Questo giocherella col telefono, l’altro giocherellava
con la pompetta”; “Ma questo si è completamente rincoglionito? ”; “Forse mira all’infermità mentale”. E via così. Notevole anche il “testo” del tweet: “Io”. Come se, guardando quella foto, una persona avesse potuto covare il dubbio che cotanta bellezza non fosse appartenuta al figaccione Renzi bensì Einstein, Clooney o (più probabilmente) Mister Bean. Verrebbe da chiedersi: davvero Renzi non ha nessuno che lo consiglia? La discrepanza tra percezione di se stesso ed efficacia fisica oggettiva è sempre più marcata. Matteo Renzi sembra sempre più un Bombolo misteriosamente convinto di essere Johnny Depp. La lista dei suoi harakiri fantozziani, spesso celebrati dai media non meno di quando Mussolini si faceva eternare nelle pose più improbabili, aumenta ogni giorno di più. C’è il Renzi che si versa in testa un secchio d’acqua gelata per la Sla, con effetti estetici raggelanti. C’è il Renzi che continua a usare una taglia di camicie (masochisticamente iper-aderenti) molto più inferiore di quanto potrebbe permettersi, andando così a evidenziare un aumento adiposo inversamente proporzionale alla diminuzione della disoccupazione. C’è il presidente del Consiglio che si rimette la giacca perché gli amici (una volta tanto) gli hanno fatto notare che nello streaming coi 5Stelle sembrava un bombolone sbruffone; c’è il ragazzotto che si strafoga di gelato in un tripudio di tripli menti e pappagorge; c’è il Premier che corre sopra il tapis roulant con agilità da rinoceronte infortunato; c’è il Rottamatore che gioca a tennis come neanche il Ragionier Filini. E tutto questo con l’aria del playboy, del ganzo: del gigolò ipotetico. Come se non bastasse, c’è pure il Renzi democraticamente libidinoso, che (accanto ai tenores del Ppe di bianco vestiti) sbircia le parti pruriginose della Mogherini: i colleghi guardano garbatamente la collega, lui sembra quasi il Fantozzi infoiato. Non ne indovina una, neanche per disgrazia. Renzi potrebbe rispondere che vanta comunque il 64% dei consensi nei sondaggi, e avrebbe ragione. Evidentemente può permettersi di tutto. Ciò nonostante, quel selfie-tweet – e tutto il resto – paiono la dimostrazione che gli specchi in casa sua siano stati tutti creati da Nardella o Farinetti. Qualcuno lo aiuti. Al più presto.

La Stampa 9.9.14
Lavoro, il piano di Renzi
Nuovi assunti licenziabili
Sì anche al demansionamento, ma resta l’articolo 18
di Roberto Giovannini


Niente smantellamento dell’articolo 18, niente revisione globale dello Statuto dei Lavoratori. Via libera al «contratto d’inserimento a tutele crescenti», riservato ai giovani fino a 35 anni e alle persone con più di 50 anni: i loro datori potranno per tre anni licenziarli senza vincoli, ma se li confermeranno riceveranno un bonus fiscale. Sì anche a due significative modifiche dello Statuto: le aziende potranno «demansionare» i loro dipendenti (cioè ridurre la loro mansione, tagliando anche il salario), e potranno usare le tecnologie per controllare la prestazione dei lavoratori. Potrebbero essere questi i termini generali - il condizionale è d’obbligo - per il futuro Jobs Act, ovvero la delega sulla riforma del mercato del lavoro ora all’esame del Senato. I sondaggi di queste ore del ministro del Lavoro Giuliano Poletti sembrano far emergere una soluzione «leggera» per le nuove regole del mercato del lavoro. Scontentando il Nuovo Centrodestra, che punta su una drastica revisione dello Statuto dei Lavoratori e sull’abolizione dell’articolo 18 della legge 300. Ma assicurando una approvazione del provvedimento entro i tempi prefissati dal governo.
Per adesso di ufficiale non c’è nulla. Soprattutto, non c’è mai stata la decisiva riunione dei rappresentanti in Camera e Senato dei partiti di maggioranza, che dovrebbe sancire la soluzione definitiva per un provvedimento su cui il governo punta molto e che rischia di arenarsi sulla solita questione: i licenziamenti e lo Statuto. Su questo il Pd e il Nuovo Centrodestra hanno espresso esigenze difficilmente conciliabili, in qualche modo appellandosi al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che nel merito, in queste settimane, ha espresso posizioni anche molto diverse, pur valorizzando le molte novità contenute nella delega, come il varo di ammortizzatori sociali universali, che spesso vengono poco considerate rispetto al tema rovente dei licenziamenti.
«Confido che prevalga la posizione del Presidente del Consiglio - afferma il presidente della Commissione Lavoro del Senato Maurizio Sacconi, Ncd - noi chiediamo una delega di riforma innovativa dello Statuto dei Lavoratori». «Se vogliamo che la delega venga approvata entro i tempi stabiliti - gli replica Cesare Damiano, Pd, presidente della “Lavoro” a Montecitorio - non bisogna appesantirla con richieste non ricevibili, come l’abolizione dell’articolo 18 e la totale riscrittura dello Statuto».
Difficile mediare tra questi due ex-ministri del Lavoro che non sono d’accordo pressoché su nulla. A sentire Filippo Taddei, responsabile economico del Pd e persona vicina al premier, la scelta di Renzi si baserà soprattutto sull’esigenza di fare presto. «Stiamo spingendo al massimo - spiega Taddei - il nostro obiettivo è quello di “incastrare” l’esame del Jobs Act nei due rami del Parlamento con la discussione della Legge di Stabilità». E per essere veloci bisogna evitare complicazioni eccessive. «Alcuni vorrebbero affermarsi politicamente con ampie revisioni dello Statuto dei Lavoratori nella delega - continua Taddei, parlando chiaramente di Ncd - che sono però tecnicamente impossibili».
Ecco dunque il prevalere di una strategia prudente per la delega. Che - ricordiamo - stabilisce solo le linee generali, i paletti, della (ennesima) riforma delle regole del mercato del lavoro. Una volta approvata la legge dal Parlamento, al governo spetterà il compito di definire i dettagli delle nuove regole rispettando quei paletti. Se prevarrà la linea della «riforma veloce e leggera», sul tema dei licenziamenti e dei nuovi contratti dunque non ci sarà l’abolizione dell’art. 18, ma la nascita di un nuovo «contratto d’inserimento a tutele crescenti» riservato agli under 35 e agli over 50. Prevederebbe la licenziabilità per i tre anni di «prova» e un salario lievemente ridotto. Ma se l’azienda confermerà il lavoratore avrà uno sgravio Irap o contributivo che lo renderà il contratto più conveniente in assoluto. Per andare incontro alle richieste di imprese e Ncd, si aprirà al possibile controllo a distanza dei lavoratori da parte delle imprese. E sarà consentito il demansionamento, limitando però la perdita salariale per il lavoratore. Al Pd piacerebbe inserire anche una riforma delle regole della rappresentanza sindacale in azienda e la definizione di un compenso orario minimo per i lavoratori non contrattualizzati, ma è difficile. E - peraltro - Matteo Renzi potrebbe cambiare idea e stracciare il «quasi-accordo» sulla riforma.

Corriere 9.9.14
Casa, tartassati e maltrattati
di Massimo Fracaro e Nicola Saldutti


Benjamin Franklin, inventore del parafulmine e uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, considerava le tasse come una delle due cose inesorabili della vita. Da noi, quando si parla di tasse, c’è una terza cosa a cui sembra quasi impossibile sottrarsi: la complicazione per pagarle.
I cittadini (non i sudditi, come spesso sono considerati) avrebbero sempre il diritto di sapere l’entità delle imposte da versare. E di conoscere questo dato in tempo sufficiente per poter programmare come distribuire i propri redditi tra i consumi, il risparmio, il rispetto dei doveri verso lo Stato e i Comuni.
Nel caso delle imposte sulla casa di questa pratica, che dovrebbe essere di ordinaria amministrazione in un Paese con rapporti equilibrati tra Fisco e cittadini-contribuenti, sembriamo essercene dimenticati. È successo per l’Imu nel 2012 e nel 2013. È successo per la Tasi — la tassa sui servizi comunali alla collettività nel suo insieme — nell’estate scorsa e sta succedendo anche adesso, alla vigilia dell’autunno. E se tre indizi fanno una prova come diceva Agatha Christie...
A meno di un mese dalla scadenza, 3.100 Comuni su oltre 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota della nuova tassa dovuta dai proprietari immobiliari e, in qualche caso, dagli inquilini. La scadenza per decidere è fissata per domani, mentre la delibera comunale dovrà essere pubblicata sul sito del ministero delle Finanze entro il 18 settembre. Se la delibera viene pubblicata in tempo utile, la prima rata della Tasi andrà versata entro il 16 ottobre (e il saldo a dicembre). Se il Comune non fa in tempo, allora i cittadini interessati dovranno passare alla cassa direttamente a dicembre e pagheranno le aliquote standard e la Tasi in unica soluzione. Ma non è finita. Perché alcuni sindaci, virtuosi, avevano già chiuso la pratica Tasi a maggio e hanno già incassato la prima rata a giugno (a dicembre incamereranno la seconda). Insomma un ginepraio di regole e di scadenze che finisce per disorientare. Un’incertezza tributaria che frena i consumi e fa aumentare il risparmio improduttivo.
Per non parlare, poi, della difficoltà di reperire, sul sito delle Finanze, l’aliquota Tasi, considerato il tono burocratico delle delibere. E la loro mole. Quella del Comune di Milano, relativa a tutte le tasse locali, è di 63 pagine.
Certo anche per i Comuni, alle prese con difficoltà di bilancio, non dev’essere stato facile impostare la politica fiscale, stabilire quali categorie esentare o quali detrazioni immaginare, ma i cittadini non si meritano di dover vivere in una simile Babele delle imposte in versione federal-comunale.
Altro che bollettini precompilati, come promesso. Si è sempre sostenuto che, avvicinando le tasse e gli enti impositori ai cittadini, le cose sarebbero migliorate e la trasparenza complessiva sarebbe aumentata. Purtroppo non sembra sia andata così, almeno finora.
Complicato anche fare i confronti tra Tasi e Imu. E rispondere alla domanda che interessa tutti: pagherò di più? La sensazione è che la Tasi finirà per essere una tassa regressiva: inciderà, in proporzione, di più sugli immobili di minor valore e sulle famiglie con i redditi più bassi perché le detrazioni non sono paragonabili a quelle in vigore con l’Imu.
La tassa regressiva, probabilmente, neanche l’eccelsa mente di Franklin sarebbe riuscito a inventarla.

Corriere 9.9.14
CGIL
Camusso: «Manifestazione a ottobre per il lavoro» entro i primi 10 giorni
La proposta al prossimo direttivo del sindacato. La leader: «Nelle politiche del governo non c’è la centralità del lavoro». Renzi? «Non mi pare che abbia passione per il lavoro»

qui

il Fatto 9.9.14
Riforma della giustizia
Pericolo bavaglio e nuovi modi per bloccare i processi
di Bruno Tinti


Adesso gli “annunci di Renzi & C. sono completi, almeno in tema di giustizia. È in dirittura d’arrivo anche il disegno di legge della riforma penale. Dalla lettura delle bozze che abbiamo potuto visionare si può fare un primo sommario bilancio, che dovrà essere approfondito nei prossimi giorni. Naturalmente meritano particolare attenzione le norme immediatamente operative (in realtà tali diventeranno quando i decreti e i disegni di legge diventeranno legge) perché, degli annunci, molti sono privi di contenuto concreto; altri però sono già sufficienti per preoccuparsi. Andiamo per ordine.
1 – Nel processo civile è stata introdotta una novità importante: l’esternalizzazione del processo. Se le parti sono d’accordo dal giudice non ci vanno proprio. Delegano tutto ai loro avvocati e, presumibilmente dopo molto litigare, arrivano a una transazione. Questa viene messa in bella copia dagli stessi difensori e ha valore di sentenza, il che vuol dire – tra altre cose – che è titolo esecutivo: se chi deve pagare non lo fa si può richiedere l’esecuzione forzata. Questo sistema si applica anche ai processi in corso: le parti si accordano per affidare a un avvocato terzo (cioè a uno che non ha difeso né l’uno né l’altro) la definizione della lite. E la stessa cosa si può fare nei processi di separazione e divorzio: se il processo è in corso lo si lascia perdere e ci si rivolge a un avvocato esterno; se ancora non è iniziato, i coniugi provano a mettersi d’accordo tra loro. Tutto ciò però solo se si tratta di separazione e divorzio consensuali e se non ci sono figli minori. Insomma, si cerca di diminuire il numero dei processi affidati ai giudici: meno processi, più tempo per quelli che restano; e più rapidità. L’idea non sarebbe male ma saranno pochi i litiganti che si avvarranno di questa novità: il motivo principale per cui ci sono tanti processi civili è che chi deve pagare trova più comodo pagare poco di più dopo anni e anni piuttosto che farlo subito. Che si accetti un sistema che smonta questa dilazione sistematica dei debiti, tipicamente italiana, mi pare poco realistico.
2 – Sulla responsabilità civile dei magistrati per danni cagionati nell’esercizio delle loro funzioni stanno ancora litigando. Se prevale il buon senso, se cioè si mantiene il sistema in base al quale chi sostiene di aver subito un danno deve chiedere il risarcimento allo Stato che – in caso di condanna – si rivarrà sul magistrato (sistema in uso in tutti i Paesi civili), cambierà poco. Si parla di aumentare la misura massima della rivalsa alla metà dello stipendio annuo del magistrato invece che al terzo; semplice incremento del premio assicurativo. Se invece prevarranno i trinariciuti (non sono solo i berlusconiani) che vogliono che il magistrato sia citato in giudizio direttamente, si verificheranno danni gravissimi. Per i giudici non cambierebbe nulla: un semplice problema assicurativo, premi maggiorati. Ma per i processi cambierebbe moltissimo: perché il giudice non potrebbe continuare a fare un processo in cui una parte (o un imputato, il problema non cambia) è sua controparte processuale in un altro processo, quello per il risarcimento dei presunti danni da lui cagionati. Si dovrebbe astenere e passare il processo a un collega. E se anche questo venisse citato, il processo dovrebbe passare a un altro collega ancora. Insomma un modo comodo per bloccare i processi.
Nel processo penale le modifiche sono più consistenti.
3 – La prescrizione. Potrebbe avere una disciplina più ragionevole, ma qualcosa è stato fatto. È passato il concetto per cui, dopo una sentenza di condanna in primo grado, ci sono apprezzabili probabilità che l’imputato sia colpevole. Siccome, prima che si riesca a celebrare il processo di appello, passa parecchio tempo (è un problema di notifiche, ci tornerò su), è sembrato ragionevole allungare la prescrizione di 2 anni; che è più o meno il tempo medio che passa tra i due gradi di giudizio. Però, se l’Appello si conclude con una sentenza di assoluzione, le probabilità che l’imputato sia colpevole sono azzerate: 1 a 1 e palla al centro. In questo caso l’allungamento della prescrizione non viene calcolato e, se anche il pm ricorre in Cassazione, i termini di prescrizione restano quelli ordinari. Il che vuol dire che magari la Cassazione darà ragione al pm ma contemporaneamente dichiarerà prescritto il reato. Se invece l’Appello conferma la sentenza di condanna del Tribunale, la prescrizione viene allungata di un altro anno e così, essendo aumentate le probabilità che l’imputato sia effettivamente colpevole, c’è più tempo per arrivare alla sentenza definitiva in Cassazione. Non è proprio il massimo, si poteva “stare al passo con i paesi più progrediti” che bloccano la prescrizione con l’inizio del processo, ma è meglio di niente.
4 – Brilla per la sua assenza ogni previsione quanto al ripristino di un falso in bilancio concretamente punibile. Ma, cosa ci si può aspettare da un patto scellerato se non frutti scellerati? Convincere B. che, senza bloccare la produzione del “nero” a monte, non si potrà mai contrastare a valle corruzione e frode fiscale sarà dura.
5 – Sulle intercettazioni c’è solo il consueto bla bla. L’unica cosa buona è che, pare, non si discute più se si può combattere la delinquenza intercettando: pare che si tratti di un buon sistema che non va abbandonato. Però il problema della conoscibilità all’esterno resta. Il progetto dice solo che si dovrà trovare un sistema per garantire la privacy dei terzi e per impedire la conoscibilità di quelle non aventi rilevanza penale. Con il che pare che Renzi & C. abbiano definitivamente stabilito che le informazioni – anche non penalmente rilevanti – concernenti persone che si sobbarcano il pesante compito di governare e amministrare i cittadini non hanno rilevanza socio-etico-politica. Se sono dei farabutti sotto il profilo morale o civile nessuno lo deve sapere.
6 – Lo smantellamento della sanzione penale pare che proseguirà. Non sono bastati Cancellieri e Severino; adesso ci si mette anche Orlando. Bisognerà “semplificare” le procedure, “facilitare” il ricorso alle misure alternative al carcere, eliminare gli ostacoli che impediscono ai recidivi e ai colpevoli dei più gravi reati di “accedere ai trattamenti rieducativi”. Anche gli ergastolani dovranno godere di questi benefici penitenziari. Insomma tutti fuori nel più breve tempo possibile.
7 – Non una parola sul problema più grave che affligge il processo penale: le notifiche, cioè gli avvisi che bisogna dare all’imputato per ogni attività processuale che lo riguardi. Costano più di 10 milioni all’anno. Sono la causa della maggior parte dei rinvii delle udienze e dunque dell’infinita lunghezza del processo. Sono anche la causa dello sperpero dell’attività di Polizia e Carabinieri, utilizzati per rintracciare gli imputati che non si sa dove sono finiti e che – in genere – chiamandosi Alì ben Mustafà o Radek Semeiovic, non si trovano mai. Però, se non si cercano non si possono dichiarare irreperibili e il processo non si può fare.
Poi, quando lo si fa, non serve a niente perché tanto Alì e Radek a quel punto si chiamano Abdul e Serghei. Insomma, tutto lavoro buttato dalla finestra. Però il tema non è sembrato degno di nota.
Insomma, non un granché come riforma. E mancano ancora tutte le leggi delegate. È probabile che, anche questa volta, non riusciremo a uscire dal buco.

Repubblica 9.9.14
Consulta e Csm, pericolo fumata nera e Grasso minaccia le sedute a oltranza
In corsa per la Corte Violante e Catricalà L’allarme del Colle per l’ipotesi slittamento
di Liana Milella


ROMA Sfidando la collera di Napolitano il Parlamento rischia una nuova fumata nera su Csm e Consulta. Tra Renzi e Berlusconi non c’è stato ancora il colloquio definitivo che sblocca l’intesa. La partita è in alto mare al punto che oggi, quando a palazzo Madama, alle 15, si riunirà la prima conferenza dei capigruppo dopo la pausa estiva, il presidente del Senato Piero Grasso è intenzionato a lanciare un nuovo appello a chiudere il più in fretta possibile l’intesa politica sugli otto nuovi membri laici del Csm, che dovevano essere eletti entro la fine di luglio per consentire l’avvio del nuovo Consiglio, e sui due giudici costituzionali che mancano all’appello dal 28 giugno. Grasso userebbe soprattutto la più potente arma di cui dispone, e cioè la minaccia di sedute a oltranza che, a questo punto però, si svolgerebbero non giovedì, ma la prossima settimana.
Se anche il richiamo di Grasso dovesse cadere nel vuoto e quella di domani alle 9 dovesse essere l’ennesima seduta che si risolve con la mancanza del quorum come le precedenti (sei per la Corte e tre per il Csm), a Napolitano non resterebbe che un nuovo altolà dopo quelli già lanciati una settimana fa e prima delle vacanze. Appelli il cui punto centrale è la funzionalità delle istituzioni, da un lato la Consulta, che lavora con soli 13 dei 15 giudici previsti, e il Csm, che vede al lavoro ancora i 24 consiglieri che avrebbero dovuto lasciare palazzo dei Marescialli il 31 luglio. Un Consiglio che, tra le sue scadenze importanti, vede non solo la definitiva chiusura del caso Milano e dello scontro tra il procuratore Bruti e l’aggiunto Robledo, ma soprattutto la nomina di capiufficio strategici come il procuratore di Palermo. L’assenza di un accordo sui nomi sta diventando grottesca, soprattutto perché, a destra come a sinistra, i magistrati sono stati attaccati per via del correntismo e per i ritardi nella scelta dei vertici dei palazzi di giustizia. Adesso, a essere in mora, è la politica, che si è arenata sui veti incrociati. Da giorni proseguono i contatti telefonici tra gli uomini di Berlusconi (Letta, Verdini e lo stesso Ghedini) e i renziani Guerini, Lotti e Boschi. Da una parte il Pd, vorrebbe mandare l’ex presidente della Camera Luciano Violante alla Consulta, su cui però i berlusconiani nicchiano tant’è che fanno circolare come candidato contrapposto l’avvocato dell’ex premier Niccolò Ghedini, il quale ovviamente si irrita e smentisce, e che il Pd non voterebbe mai. Non solo. Il nome di Ghedini, che pure non è amato nel partito per il suo rapporto stretto con il fondatore, è tornato in auge contro l’ipotesi che Berlusconi punti su Antonio Catricalà, l’ex sottosegretario alla presidenza nel governo Monti ed ex presidente dell’Antitrust, considerato un “estraneo” rispetto alla storia forzista. I mugugni contro una soluzione del genere sono forti al punto da far ipotizzare che comunque Catricalà non ce la farebbe a ottenere i voti necessari per essere eletto, soprattutto perché non sarebbero favorevoli neppure gli alfaniani. Se cadesse l’ipotesi Violante per la Corte si fanno i nomi di Anna Finocchiaro, del costituzionalista Augusto Barbera, di Michele Vietti che, lasciandosi alle spalle la vice presidenza del Csm, andrebbe alla Consulta. Alla Corte aspettano, anche perché l’attuale presidente Giuseppe Tesauro lascia a novembre, con lui scade anche Sabino Cassese, nomine a carico di Napolitano, ma che sommate a quelle del Parlamento cambiano la Corte per un terzo dei giudici, e incideranno sulla scelta del futuro presidente.
Ancora più complicata la partita del Csm, tant’è che una voce circolata ieri ipotizzava che domani potrebbe chiudersi la sola votazione per la Consulta, rinviando l’altra alla prossima settimana. Ma poi l’idea è stata scartata, perché renderebbe ancora più difficile chiudere l’accordo. Per palazzo de Marescialli, nel Pd, molti danno per accreditata e ormai certa la vicepresidenza di Massimo Brutti, ex senatore ed ex Csm, ma soprattutto studioso del diritto (insegna alla Sapienza diritto romano), che però non è ben visto da Fi per i suoi buoni rapporti con le toghe. A danneggiarlo potrebbe essere il fatto che prima vengono votati i giudici della Consulta, e quindi Violante, e poi il Csm. In alternativa c’è il palermitano Giovanni Fiandaca, meno gradito da una parte dei magistrati per via delle sue critiche al processo sulla trattativa Stato-mafia. Ancora tutto da decidere per gli altri sette nomi. I più probabili: per Fi Elisabetta Casellati, per Ncd Antonio Leone, per il Pd Ilaria Pagni, Giuseppe Fanfani, Luca Petrucci, Ferruccio Auletta, Cinzia Capano, per M5S Alessio Zaccaria, 5.021 voti nella consultazione online, docente a Verona di Istituzioni di diritto privato.

il Fatto 9.9.14
Il voto slitta
Csm, Renzi non trova alleati e blocca le nomine
di Sara Nicoli


La partita è ancora aperta, ma l’accordo non c’è. Tanto che domani, quando Camera e Senato si riuniranno in seduta comune per eleggere due giudici della Corte Costituzionale e otto del Csm, la fumata non potrà che essere nera. Nonostante il richiamo di Napolitano dell’altro giorno, che ha convinto i presidenti delle Camere ad organizzare subito la seduta per spronare le parti a trovare un’intesa, ogni sforzo fatto fin qui sembra essere stato vano. Stavolta la partita si intreccia con altri tavoli, considerati dalle parti (soprattutto una, Forza Italia) particolarmente delicati.
Sarà, infatti, il nuovo Csm a trovarsi in carica durante la discussione della riforma delle giustizia, ma soprattutto sarà il nuovo plenum a nominare la nuova tolda di comando di parecchie procure, in totale 26 procuratori e presidenti di Tribunale o Corte d’Appello per altrettanti uffici vacanti alcuni anche dal 2012.
Tra questi, per quanto ultimo in ordine di tempo, la procura di Palermo che il primo agosto ha salutato il procuratore Messineo e lo ha sostituito con un reggente. E la procura di Milano che resterà orfana di Edmondo Bruti Liberati “travolto” con altri 445 procuratori dal decreto Madia.
ECCO PERCHÉ la partita è politicamente molto complessa, tenuta in piedi, nel Pd, da Renzi in persona e – dall’altra parte – da un redivivo Gianni Letta che sta portando avanti il suo luogotenente di sempre, ovvero Antonio Catricalà, in tandem con Luciano Violante per la Corte Costituzionale. È solo che questo duetto non può spiccare il volo se non si incastra anche l’altra partita, quella del Csm, appunto. Che comincia a comporsi, ma a fatica, tanto che si parla ufficialmente di stallo. C’è anche un’altra questione, infatti, di sicuro non meno so-prendente. Nei giorni scorsi, Berlusconi ha fatto sapere, tramite i suoi emissari, di non avere nulla in contrario nella nomina di Massimo Brutti a nuovo vicepresidente del Csm.
È vero, Brutti è senz’altro un “comunista”, ma anche un “garantista”, quindi nulla questio soprattutto se poi questo sarà un viatico positivo per l’altra nomina cara al Cavaliere, quella di Elisabetta Casellati. In questo caso, però, a scompaginare le carte è Renzi. Che vorrebbe, come al solito, puntare sul colpo di teatro. Ovvero sulla nomina a vicepresidente di palazzo dei Marescialli, di Giuseppe Fanfani, sindaco di Arezzo, amico d’infanzia della Boschi e, soprattutto, figlio della Margherita.
In ultimo, per la prima volta potrebbe entrare a palazzo dei Marescialli il Movimento Cinque Stelle con Alessio Zaccaria, professore ordinario di Diritto privato a Verona, ma non è detto. Altri nomi in quota Pd sono quelli dell’avvocato Luca Petrucci (vicino ad Areadem di Franceschini e Veltroni), la docente fiorentina Ilaria Pagni, l’ex deputata Cinzia Capano, il prof. Cesare Pinelli e lavvocato Ferruccio Auletta.
Al Pd, oltre al vicepresidente, spetterebbero altri tre nomi, mentre il quinto della maggioranza sembra appannaggio di Antonio Leone di Ncd. Questo il quadro, ancora molto confuso, tanto che alcuni osservatori, ieri alla Camera, non escludevano un rinvio a novembre sulla Corte Costituzionale, quando scadranno altri due giudici, in questo caso di nomina presidenziale, rinnovando così in contemporanea tutte e quattro le posizioni vacanti. Ma Napolitano ha fatto sapere di non gradire affatto quest’idea.

il Fatto 9.9.14
Davigo: “Provvedimenti sul civile inutili. Troppo forte la lobby degli avvocati”
Da Cernobbio il pm ha bocciato la bozza di riforma del governo. "Dimezzare la durata dei procedimenti va contro gli interessi dei legali che sono tanti e agguerriti, con tutto l'interesse alla proliferazione dei processi. Oltretutto sono ben rappresentati nella classe politica"

qui

La Stampa 9.9.14
Giustizia, ora l’Italia rischia la procedura d’infrazione Ue
Costerebbe 37 milioni. Il taglio alle ferie delle toghe dal 2015
di Francesco Grignetti


La riforma della giustizia, dopo molti annunci, ha iniziato il suo iter formale. Il decreto legge sul processo civile è partito ieri in direzione del Quirinale per la firma del Capo dello Stato. Come annunciato, il decreto prevede i meccanismi di deflazione del contenzioso, l’arbitrato e la negoziazione assistita tramite gli avvocati, il taglio alle ferie dei magistrati. A partire dal 2015 i giudici si vedranno quindi tagliare le ferie da 45 a 30 giorni; i tribunali resteranno chiusi dal 6 al 30 agosto e non più dal 1 agosto al 15 settembre. 
Si annunciano intanto sgravi fiscali per chi vorrà adottare i percorsi alternativi al processo. Una potente spinta verso il nuovo, unitamente a quanto già previsto: l’arbitrato sarà un titolo immediatamente esecutivo; chi perderà un processo tradizionale pagherà sempre le spese legali a chi vince; gli interessi di mora passeranno dall’1 all’8%. Nessuno può prevedere quali saranno gli effetti sulla montagna di processi civili che s’imbastiscono ogni anno, ma il ministro Andrea Orlando, Pd, spera di dare un bel colpo all’arretrato (5 milioni le cause civili pendenti) e all’altissimo indice di litigiosità. 
La riforma si comporrà anche di diversi disegni di legge. Uno di questi modifica i meccanismi della responsabilità civile dei giudici. Pochi sanno che sull’Italia pende l’ennesima sanzione europea. Il viceministro Enrico Costa, Ncd, ha fatto fare alcuni calcoli: dato che dal 24 novembre 2011 il nostro ordinamento (cioè la legge Vassalli del 1988) è stato dichiarato dalla Corte di Strasburgo non conforme al diritto comunitario, e che l’Italia ha ricevuto una lettera di messa in mora dalla commissione europea il 26 settembre 2013, c’è il fondato pericolo che venga aperta una procedura d’infrazione. Ciò significa che rischiamo una sanzione di almeno 37 milioni di euro (e che cresce di altri 36mila euro al dì). «Io sono certo - dice Costa - che il governo si sarebbe mosso anche a prescindere dal rischio della sanzione, in quanto la normativa del 1988 si è dimostrata fragile. Tant’è che nel nostro ddl ci sono alcune innovazioni, quali l’abolizione del filtro, che non sono oggetto di osservazioni». 
E poi c’è la giustizia fatta di incarichi. Si è alla vigilia della seduta del Parlamento per nominare i membri del Csm. Per il ruolo di vicepresidente sono in ballo l’ex sottosegretario Massimo Brutti e l’ex sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani, interpreti di due anime diverse del Pd. Per la Corte costituzionale crescono le quotazioni di Luciano Violante e Antonio Catricalà. 

il Fatto 9.9.14
Adozioni gay
Diritti civili, quanto è timido il “rivoluzionario” Matteo Renzi
di Elisabetta Ambrosi


Italia, 1999: l’allora ministra delle Pari Opportunità del governo D’Alema, Laura Balbo, si dichiara favorevole alle adozioni alle coppie omosessuali e scatena le immediate reazioni del responsabile della Conferenza episcopale monsignor Poletto e del ministro della Sanità Fioroni. Italia, 2014: una sentenza a firma del presidente del Tribunale dei Minorenni di Roma autorizza l’aggiunta del doppio cognome a una bambina figlia di una coppia di donne italiane, suscitando le reazioni di Gasparri (“Fermiamo l’esercito del male”), Giovanardi (“Giudici fuorilegge”) e Fratelli d’Italia.
In mezzo, 15 anni dello stesso, identico schema: proposta di riconoscimento delle coppie di fatto, reazione immediata della destra o dei cattolici (da Buttiglione a Casini, da Mastella ai teodem) e del vescovo o cardinale di turno (da Ruini a Tettamanzi, da Maggiolini a Caffarra), divisioni nel centrosinistra (bastino i nomi di Binetti e Rutelli), infine nulla di fatto. Così, mentre in Europa e nel mondo tutti i Paesi cominciavano a dotarsi di forme di protezione giuridica simili al matrimonio – ultima, a luglio, la Croazia – per poi passare ai matrimoni tra omosessuali e alle adozioni, da noi un mix tra una destra tra le più becere e omofobe al mondo, un centrosinistra terrorizzato di perdere il consenso dei cattolici e una Chiesa che per anni ha ritenuto più importante intervenire a gamba tesa nella politica italiana piuttosto che occuparsi di Vangelo e disperazioni del mondo, bruciavano, in serie: i Pacs a firma di Franco Grillini, i Dico di Rosy Bindi, i Cus di Cesare Salvi, gli asettici Ccs di Rutelli, infine i DiDoRe di Brunetta. Il risultato, a parte i registri comunali, è un livello zero di diritti talmente allucinante da dare talvolta persino l’abbaglio che non possa essere vero. Una palude dove si continua a restare intrappolati, perché – non avendo fatto un passo in avanti – notizie come quelle del Tribunale di Roma suscitano l’ennesima discussione strumentale a che tutto resti fermo (senza che nessuno si premuri di leggere la sentenza, per scoprire che non è stato introdotto in maniera surrettizia alcun nuovo diritto, ma si è ritenuto che il caso potesse rientrare sotto quell’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44 della legge del 1983, che nell’interesse del minore dà la precedenza nell’adozione a figure già a lui vicine).
MA SE ALMENO i giudici riportano un po’ di giustizia – oggi ci sono genitori non biologici che vivono nel terrore di essere separati per sempre dal bambino in caso di morte o separazione dal compagno – la situazione attuale è persino peggiore di quando l’Unione aveva almeno i Dico nel suo programma. Perché un premier che ha fatto del non guardare in faccia a nessuno e dell’abbattimento dei veti incrociati la sua bandiera continua a mantenere sul fronte delle unioni civili un atteggiamento intollerantemente ambiguo: da un lato ha annunciato, in un’intervista ad Avvenire, che il governo interverrà con un suo testo, dall’altro continua a non appoggiare esplicitamente il testo in materia di unioni civili in discussione in Commissione Giustizia al Senato.
E se è vero che quest’ultimo potrebbe essere approvato da un’ampia maggioranza, dai Cinque Stelle a Forza Italia, il silenzio di Renzi testimonia come nel suo dna politico (d’altronde era presente al Family Day del 2007) non ci sia tragicamente traccia della convinzione per cui non può esistere un Paese davvero moderno senza il riconoscimento delle libertà fondamentali, considerate invece non solo più divisive delle scelte economiche – come se le decisioni in materia di lavoro e tagli alla spesa non fossero altrettanto dense di conseguenze – ma proprio per questo accantonabili fino a data da destinarsi (così è accaduto con il decreto Lorenzin sull’eterologa). Così, passo dopo passo, siamo traghettati verso un moderno Medioevo, con meno pastoie burocratiche magari, ma un’identica violazione dei diritti delle persone. Che oggi si trovano di fronte a uno Stato ipocrita che chiede loro il cumulo dei redditi in caso di convivenza, senza restituire nulla in termini di diritti.

il Fatto 9.9.14
Renzi, autunno caldo col Pd
Il rottamatore offre posti in segreteria alla minoranza sperando di non avere troppi grattacapi su finanziaria e Italicum
Ma i sindacati a ottobre sono già in piazza
di Luca De Carolis


Si fa presto a dire “segreteria unitaria”. È bastato il tempo di un tweet a Matteo Renzi, il rottamatore che non deve e non vuole chiedere mai, per invocare da Bologna un partito (ri) unito in vista di un autunno da tremori. Disseminato della legge di stabilità, delle cosiddette riforme e pure delle manifestazioni con scioperi di Cgil e Fiom, annunciate ieri sera. Ma basta sbirciare dietro le camicie bianche, per capire che lungo la strada tra il milionesimo annuncio e una segreteria nuova di zecca si sbatte contro il no di Civati e i dubbi dei bersaniani. Concordi nel sostenere che i nomi sono un dettaglio, perché la posta in gioco è una gestione “finalmente” allargata. Unanimi nel lamentarsi perché “il segretario non apre un confronto”, ovvero non tratta sulla linea politica prima della nomine.
E DIRE che nella domenica del patto del tortellino Renzi lo ha assicurato: “Non c'è tempo per litigare, ci sarà una segreteria unitaria”. Sa bene che le prossime settimane porteranno in dote belle grane, a partire dalla legge di stabilità per arrivare all’Italicum, eterna fonte di discordia. Per giunta, batteranno i tamburi delle piazze rosse. Quella della Cgil, che per ottobre pensa a “una grande mobilitazione per il lavoro”, come ha spiegato ieri Susanna Ca-musso. E quella della Fiom, che programma per il 25 ottobre un corteo nazionale. Ma che medita già iniziative ulteriori, a sentire Maurizio Landini: “Proporremo alla nostra assemblea di definire un primo pacchetto di scioperi di otto ore”. In questo scenario, un partito a ranghi ricompattati serve anche al Renzi autocrate. Perché i tanti mal di pancia del Pd potrebbero trasformarsi facilmente in botole. Così il premier vuole annunciare la nuova segreteria già nella direzione di giovedì. Nell'organismo ora zeppo di renziane di governo (dalla Madia alla Boschi, passando per la Mogherini), potrebbero planare i bersaniani Micaela Campana e Danilo Leva e il dalemiano Enzo Amendola.
GIOVANI DEPUTATI, “inseguiti” non a caso, perché il disegno del leader è anche quello di separare le nuove leve dalla vecchia retroguardia, nella speranza di stimolare parricidi a sinistra. Ma i bersaniani sono pugnaci. Primo della fila, Stefano Fassina: “Se non risolviamo le differenze di fondo non credo sia possibile parlare di segreteria unitaria. Io non sono d’accordo sui 20 miliardi di tagli di cui Renzi ha parlato al Sole 24Ore, e sull’abolizione dell'articolo 18”. Insomma, il sì della minoranza “non è scontato”. Il senatore Miguel Gotor entra nel dettaglio: “Io sono per andare a vedere le carte di Renzi, ma bisogna cambiare passo: finora la segreteria e la direzione sono state solo strumenti di propaganda del leader, una sua appendice. La prima è stata convocata pochissimo e sempre all’alba, la direzione si è svolta ogni volta con la diretta streaming, con la discussione congelata. Credo che Renzi stia capendo che non può fare tutto da solo, e se è così noi siamo disposti a fare la nostra parte”. Poi c’è Giuseppe Civati: “Il problema è la linea politica, il merito, chi se importa dei posti. Ad oggi, con Renzi che continua a ripetere che non si sposta di un centimetro, non vedo proprio la possibilità di entrare in segreteria”. Domanda: ma il premier teme davvero di ballare in autunno? “Non è più così sicuro di sé, sa che lo schema politico su cui si è regge è fragile, e che potrebbe favorire comportamenti strumentali. La partita vera sarà sull'economia”. Sullo sfondo c’è il nodo delle Regionali, finora inestricabile per un partito retto quasi in solitudine dal vice Lorenzo Guerini, dalla filiera slabbrata. Campania e soprattutto Calabria sono nel caos su candidati e alleanze, mentre nelle primarie in Emilia Romagna è battaglia tra i renziani Richetti e Bonaccini (ammesso che non piombi Delrio). “Avete combinato un bel casino” ha commentato sorridendo Renzi a Bologna. Ma il sorriso è forzato, assicura un dalemiano di lungo corso: “La verità è che la partita emiliana gli è scoppiata tra le mani. Lui voleva come candidato unitario Daniele Manca (vicino all’ex governatore Errani), ma alla fine proprio Manca si è dovuto fare da parte. Nessuno poteva garantirgli il pieno appoggio del partito, temeva trappole”.

La Stampa 9.9.14
Nuova segreteria, minoranza già divisa
D’Attore avverte: non faremo tappezzeria
di Francesca Schianchi


Una segreteria molto rinnovata, con qualche membro confermato ma spostato ad altre funzioni (probabile il passaggio del vicesegretario Guerini all’organizzazione) e parecchi volti nuovi. E, soprattutto, nelle intenzioni di Matteo Renzi, come ha annunciato domenica dal palco della Festa dell’Unità di Bologna, la nuova segreteria del Pd dovrà irrobustirsi con l’innesto di esponenti della minoranza del partito. Ammesso però che, dalla minoranza, ci sia disponibilità a partecipare: in questi giorni il segretario-premier deve sentirsi con Roberto Speranza, interlocutore per Area riformista, ma proprio lì, nella corrente più grande della minoranza, già emergono i distinguo. «Dipende cosa vuole dire gestione unitaria: una segreteria politica o semplicemente un allargamento dello staff?», si chiede Alfredo D’Attorre, perché l’offerta non interessa «se si tratta di fare solo tappezzeria». «Molto perplesso» anche Stefano Fassina: «Prima bisogna affrontare i nodi politici, bisogna sciogliere i nodi socio-economici e quelli sulla legge elettorale, perché non si entra in segreteria per poi criticare la manovra…». E forti dubbi, che lo porteranno probabilmente a non aderire all’invito, li esprime anche Pippo Civati.
Nello schema dei renziani, tre sarebbero i posti riservati ad Area riformista, su una segreteria che dovrebbe essere confermata di dodici persone, uno alla componente guidata da Gianni Cuperlo e uno, se volesse, a Civati. Non c’è nessuna richiesta da parte dei cosiddetti «Giovani turchi», visto che il loro leader, Matteo Orfini, è diventato presidente del partito: non si esclude però che uno di loro – o più probabilmente una – possa fare il suo ingresso. Una come Valentina Paris o Chiara Gribaudo, giovani deputate molto attive in Commissione lavoro. In rappresentanza dell’area Cuperlo, si discute del possibile ingresso di Francesco La Forgia o Andrea De Maria. Possibile la nomina di un veltroniano - Vinicio Peluffo o Roberto Morassut -, mentre è improbabile l’ingresso di un esponente dell’area popolare di Fioroni (circolava il nome di Simone Valiante). Mentre i nomi avanzati da Area riformista sono quelli di Enzo Amendola, Micaela Campana, Danilo Leva. E anche Andrea Giorgis, esperto di diritto costituzionale molto stimato dal ministro Boschi.
E poi ci saranno nuovi ingressi renziani. Una potrebbe essere la deputata Lia Quartapelle, giovane esperta di esteri: è milanese, federazione dalla quale è arrivata espressa richiesta di un rappresentante. Che però potrebbe essere Emanuele Fiano. Altro nome in pole position, la deputata sempre più presente in tv Alessia Rotta. Resta qualche giorno per discuterne: la nuova squadra sarà annunciata alla Direzione nazionale convocata per giovedì.

Corriere 9.9.14
Segreteria pd, minoranza divisa
L’ala dura resiste all’offerta di Renzi
D’Attorre: non siamo carta da parati. Fassina: pensi agli struzzi non ai gufi
di Monica Guerzoni


ROMA — Siglare una pace duratura entrando nella segreteria di Renzi oppure restare fuori, continuando a fare il controcanto al governo? È questo il dilemma della minoranza del Pd, che entro poche ore dovrà scegliere se accettare o meno qualche posto nell’organismo che il segretario-premier annuncerà giovedì in direzione. Nell’Area riformista guidata da Roberto Speranza ci sono opinioni discordanti. La gran parte dei bersaniani (e dei dalemiani) preme per accettare gli incarichi lasciati liberi dai ministri Boschi e Madia, dal sottosegretario Lotti e dal responsabile dell’organizzazione Bonaccini, che si è candidato alle primarie dell’Emilia. Ma l’ala dura della corrente resiste e attacca. L’accordo è vicino. Eppure, come sempre nel mondo di Renzi, le sorprese non sono escluse.
«Se non risolviamo le differenze di fondo non credo sia possibile parlare di segreteria unitaria» è la posizione di Stefano Fassina, uno dei più critici a sinistra. L’ex viceministro chiede di conoscere i punti programmatici e conferma che nella minoranza «ci sono delle differenze». Per lui 20 miliardi di tagli alla spesa, liste bloccate e abolizione dell’articolo 18 sono tre punti «inaccettabili». E a Matteo, che da Bologna ha zittito i dissidenti, Fassina risponde: «Renzi più che ai gufi dovrebbe guardare con preoccupazione agli struzzi. A chi mette la testa sotto la sabbia dicendo che va tutto bene».
Ragionamenti che rischiano di innervosire il leader. Che senso ha aprire la segreteria ai «buoni» della minoranza se poi, da fuori, i «duri» continuano a criticare? I renziani chiedono garanzie e, specularmente, le invocano i bersaniani. «Non ci interessa fare da carta da parati — avverte Alfredo D’Attorre —. Le nostre posizioni critiche su austerità, Europa, lavoro e legge elettorale vengono riconosciute, o le si considera come il tentativo di esercitare dei veti?». In soldoni la minoranza vuole una segreteria politica vera e propria e non uno «staff» del segretario allargato, per gentile concessione, agli oppositori interni.
Si tratta a oltranza, non senza incertezze e reciproche diffidenze. «Avremo una nuova segreteria, se sarà unitaria lo vedremo — ha dichiarato all’Unità il presidente Matteo Orfini —. Dipende dal segretario e dalla volontà delle minoranze, se accetteranno la sfida comune». Pippo Civati si è tirato fuori, eppure al Nazareno assicurano che i contatti non sono interrotti. Enrico Letta non chiede nulla per nessuno. Beppe Fioroni scambia sms con il segretario, ma anche lui si va convincendo che gli convenga tenersi le mani libere: «Non siamo interessati né a sgabelli né a ruoli, per noi ha senso entrare se abbiamo il diritto di dire la nostra da cattolici democratici».
La prima questione è il programma. La seconda, altrettanto importante, sono gli incarichi. «Renzi non ha intenzione di concedere granché», ammette un fedelissimo del leader. E i vertici della minoranza hanno capito l’antifona: le caselle chiave dell’organizzazione e degli enti locali resteranno ben salde nelle mani del «capo». L’idea di Renzi è quella di rafforzare la vicesegreteria offrendo a Lorenzo Guerini uno dei due incarichi, il che darebbe all’ex sindaco di Lodi i poteri di un reggente. Ma nulla è ancora deciso, le ultime tessere del puzzle andranno a posto dopo l’incontro di Renzi con Speranza, in agenda per oggi. «Entrare non è obbligatorio. Chi sta in segreteria — spiega la linea Paolo Gentiloni — non lo fa per combattere il premier, ma per condividere responsabilità esecutive». Una nuova segreteria è anche una questione di numeri. I posti che Renzi ha offerto a chi ha perso il congresso sono quattro. I bersaniani ne chiedono tre e i cuperliani due. Il conto dunque non torna e i primi insistono perché Gianni Cuperlo accetti di avere in segreteria un solo esponente della sua area. Un quinto posto, quello di Federica Mogherini, potrebbe andare all’Areadem di Dario Franceschini.

Corriere 9.9.14
La corsa di Amendola: noi dalemiani siamo merce rara
intervista di M.Gu.


ROMA — Napoletano col ciuffo corvino e la battuta pronta, Amendola Vincenzo detto Enzo, classe 1973, risponde al cellulare che è l’ora di pranzo: «Un attimo
per favore, che mia moglie mi sta tirando le chiavi dal balcone». Davvero vuole entrare nella segreteria di Renzi, lei che è dalemiano? «Ormai siamo una merce rara...» ride lui, cui l’ironia partenopea non fa difetto. E poiché a Napoli sono piuttosto scaramantici il deputato rimanda i commenti a giovedì sera, quando (e se) avrà ottenuto l’incarico di responsabile Esteri nella nuova segreteria di Renzi. Tra i nomi in corsa per l’Area Riformista che fa capo a Roberto Speranza — e che riunisce bersaniani, dalemiani e qualche lettiano che alle primarie votarono per Gianni Cuperlo — quello di Amendola ricorre con frequenza maggiore rispetto ad altri: segno che il leader non ha pregiudizi nei suoi confronti e che, anzi, lo stima. Ma si parla molto anche di Micaela Campana, di Danilo Leva (le cui quotazioni alla Giustizia da qualche giorno sono un po’ in calo) e di Andrea Giorgis, nato a Torino 49 anni fa e ordinario di Diritto costituzionale nella sua città. Amendola è in politica da quando aveva 16 anni. Ci tiene a ricordare che è diventato maggiorenne da capogruppo dei Ds a Napoli nella circoscrizione centro storico
e che si occupa di esteri da sempre, da quando scalava
la sinistra giovanile fino a diventarne responsabile nazionale. È un dialogante, che al segretario-premier non ha mai risparmiato critiche: a giugno, intervistato dall’ Espresso , ammetteva che «il Pd ha un problema di partito». Eppure, scriveva ieri Panorama , è ritenuto dai maligni di Montecitorio «il più malleabile degli uomini di Max». Per lui la segreteria nazionale non sarebbe un debutto, visto che nel luglio del 2006 era in quella dei Ds come responsabile delle politiche
sul Mezzogiorno.
Le prove più impegnative Amendola le ha vissute da segretario regionale in Campania, prima con i Ds  e poi, dal 2009, con il Pd. Micaela Campana è l’altro nome che i renziani danno come blindato, per poi cautelarsi con la frase di rito: «Con Matteo però non si sa mai...». Lei, nata a Cisternino
in provincia di Brindisi nel 1977 e diplomata al liceo scientifico, ci spera parecchio e da qualche giorno ha intensificato l’attività oratoria. Tre giorni fa, quando a Roma è scoppiato lo scandalo delle violenze al liceo dei «vip» Chateaubriand, l’ex responsabile organizzazione dei dem nella Capitale ha chiesto di incontrare il preside, visto che sua è la prima firma in calce al disegno di legge contro bullismo e cyberbullismo. A febbraio, quando il Pd si trovò a scegliere tra Letta e Renzi nel corso di una drammatica direzione, Campana (7.000 voti alle parlamentarie) aprì un varco alla staffetta di Palazzo Chigi: «Renzi è il nostro segretario, eletto alle primarie con uno straordinario successo. La sua leadership è fortissima...». Letta e Renzi? «Sono i migliori. Purtroppo si odiano».
Per Danilo Leva la corsa si è fatta un po’ in salita. Nato a Roma nel 1978, il responsabile Giustizia della segreteria Epifani va orgoglioso delle sue radici molisane, che affondano nella terra di Fornelli (Isernia). Il suo modello? L’Enrico Berlinguer della questione morale. Leva è stato segretario regionale del Pd in Molise e poi, dal dicembre 2013, responsabile del Forum Giustizia. Quanto ai cuperliani, l’emiliano Andrea De Maria dovrebbe spuntarla sul milanese Francesco Laforgia per questioni di territorio.

il Sole 9.9.14
Dopo la richiesta di Renzi di segreteria unitaria
La minoranza Pd resiste: nostro ingresso non scontato


Scatta il countdown per la nuova segreteria Pd "rivista e corretta" da Matteo Renzi il quale intende operare degli innesti vitali per lo stesso organismo ma anche, e forse soprattutto, per il suo Governo troppo esposto alle correnti di Ncd e Fi (avide di contropartite in cambio del soccorso). Ma non sarà facile viste le prime reazioni della minoranza.
L'appello lanciato domenica a Bologna dal premier-segretario alle minoranze affinché si convincano di entrare a far parte della segreteria («unitaria»), ha aperto nel Pd un ruvido dibattito. Dalle prime reazioni delle minoranze si comprende che quella di Renzi non sarà una partita facile. Basta sentire ciò che dice il battagliero Pippo Civati: «Se la linea rimane questa, non ho intenzione di entrare: sono un politico noioso, resto uno dei pochi che non cambia idea ogni cinque minuti», ha puntualizzato in una intervista alla Stampa. Ha poi ricordato a chi ha la memoria corta la sua avversione per «lo schema generale delle larghe intese» e la «contrarietà totale» su alcune scelte del governo: «su Costituzione, lavoro, legge elettorale, ho un sacco di perplessità». Parlano lingue diverse Renzi e la minoranza Pd. E all'altolà di Renzi sui veti, Civati ribatte: «Ma quali sono i veti? Esistono semplicemente opinioni su alcuni punti non coincidenti. A volte i gufi sono immaginari, nella sua testa».
Non fa sconti neanche Stefano Fassina che da giorni martella Renzi sul versante economico accusandolo di essersi fotocopiato l'"agenda Monti". «Non è affatto scontato che la minoranza entri nella segreteria» ha messo le mani avanti Fassina che chiede di risolvere prima «le differenze di fondo»: «Per quanto mi riguarda non sono d'accordo a fare 20 miliardi di tagli, a cancellare l'articolo 18 o a lasciare le liste bloccate nella legge elettorale. Se non risolviamo le differenze di fondo non credo sia possibile parlare di segreteria unitaria». Tante resistenze con cui Renzi in queste ore sta facendo i conti in vista della direzione Pd di giovedì. Poche le certezze: nella segreteria entreranno il dalemiano Enzo Amendola e la bersaniana Micaela Campana.
Il leader però parla con tutti ma il dialogo sembra avviato - e bene - soprattutto con Roberto Speranza e "area riformista" e con i "giovani turchi" di Matteo Orfini e Francesco Verducci. Da qui potrebbe arrivare la mediazione per la nuova segreteria.

Repubblica 9.9.14
Renzi stoppa i bersaniani “Segreteria unitaria sì ma niente posti chiave”
C’è l’accordo solo con l’area guidata da Speranza non con l’ala più dura, che chiede un vice
di Goffredo De Marchis


ROMA Niente veti e il rinvio della sfida interna al prossimo congresso, ovvero 2017, significa niente posti chiave nella segreteria unitaria. Questa è l’offerta di Matteo Renzi alle minoranze per gestire insieme il Pd dei prossimi mesi. La richiesta dei bersaniani, dopo la proposta lanciata dal segretario al comizio di chiusura della festa dell’Unità, è stata formalizzata ieri: se si vogliono davvero dividere le responsabilità, all’opposizione interna tocca uno dei dipartimenti “politici”. O una vicesegreteria o l’organizzazione. «Ma siamo matti — commentano i renziani a Largo del Nazareno —. Così torna Stumpo, che conosce la macchina a menadito, e dopo sei mesi si è preso tutto il partito».
La forza di Renzi in questa trattativa, deriva dal 68 per cento conquistato alle primarie e dall’alleanza di ferro con i “giovani turchi” (Orfini e Orlando). L’apertura di Bologna non è una boutade ma riguarda posti di minore rilievo nell’organismo chiamato a guidare il Pd. Non le vicesegreterie, che rimarranno in capo a Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, non l’organizzazione, ovvero il motore del partito. Quello era un posto destinato a Stefano Bonaccini, dopo il trasloco di Luca Lotti al governo. Bonaccini si era meritato sul campo, con ottimi risultati elettorali, la fiducia del premier. Ma adesso corre alle primarie dell’Emilia Romagna contro Matteo Richetti, dunque è fuori gioco. Resta però scontato il fatto che all’organizzazione Renzi inserirà un fedelissimo. Non è facile trovarlo. Infatti nelle ultime ore sta prendendo corpo l’ipotesi di trasferire in quel ruolo lo stesso Guerini, l’uomo del patto del Nazareno.
Con Roberto Speranza, Renzi ha già trovato un accordo di massima. La componente che si richiama al capogruppo ha già pronti alcuni nomi. Enzo Amendola, ex dalemiano, agli Esteri (è stato a lungo ai vertici delle organizzazioni giovanili del Pse), Micaela Campana, Danilo Leva che ha già lavorato alla Giustizia. Gianni Cuperlo ha due candidati: il bolognese Andrea De Maria e il giovane Francesco La Forgia. A tutte le correnti il premier ha chiesto di indicare nuove leve, uomini e donne che possibilmente non abbiano mai fatto parte di organismi dirigenziali. Ma non è questo il problema che, per ora, tiene lontani dall’accordo sia l’ala bersaniana più dura sia il gruppo di Pippo Civati.
Civati ha sintetizzato così la sua posizione: «Deve cambiare la linea del Pd altrimenti non ha senso entrare nella segreteria ». Il gruppo guidato da Stefano Fassina e Alfredo D’Attore, bersaniani, punta a una vera cogestione del partito. «Vogliamo che le nostre posizioni politiche vengano riconosciute. Se tutti gli incarichi più delicati rimangono in capo al segretario gli altri rischiano di fare tappezzeria», dice D’Attorre. Da qui la richiesta di una vicesegreteria o dell’organizzazione o degli enti locali, un altro dipartimento che gestisce i dossier delle elezioni sia locali sia nazionali. Il timore dei bersaniani oltranzisti è che l’organismo diventi «un prolungamento dello staff di Palazzo Chigi». Questo li terrebbe fuori dall’idea unitaria di Renzi creando una spaccatura.
In realtà ci sono altri dipartimenti un peso nelle prossime settimane. Sono l’Economia, il Lavoro, la Comunicazione e le Riforme. Tutte materie che impattano sulle future scelte del governo quando ci sono in gioco la legge di stabilità, il Jobs Act e l’Italicum. «Vediamo che nomi propongono», è lo spiraglio lasciato dal premier nei colloqui di ieri. Sulle riforme D’Attorre ammette l’apertura di Renzi che a Bologna ha parlato di modifiche sostanziali e ha sottolineato la necessità di valutare o preferenze o collegi uninominali. Speranza avrebbe anche proposto un nome per la delega alle questioni istituzionali: Andrea Giorgis, 49 anni, professore di diritto costituzionale e deputato. Ma il premier e i suoi collaboratori hanno preso tempo. Ci sono ancora due giorni prima della direzione di giovedì chiamata a votare la segreteria.
Un eventuale assenza di bersaniani puri e di Civati avrebbe un effetto sulla tenuta del partito. Il premier ha i numeri per governarlo senza problemi ma sa che il Pd va rilanciato e che il nuovo organismo dovrà accompagnare i “mille giorni”. Quindi si tratta, anche con un po’ di bilancino, e si verificano le soluzioni. Però Renzi non cederà sui posti chiave. Quelli restano alla maggioranza, ai vincitori.

Repubblica 9.9.14
“Le riforme di Matteo ancora imballate come i mobili Ikea E basta adulatori”
Cuperlo: non entrerò nella squadra chi critica non è a caccia di poltrone
La soluzione dei deputati nominati non va bene, e sui capilista è peggio la toppa del buco: si deve cambiare
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Renzi non si circondi di “laudatores”...». Gianni Cuperlo, leader della Sinistradem, avvisa il Pd renziano e il governo: «Se vogliamo che le riforme non somiglino a uno scatolone dell’Ikea bisogna osare».
Cuperlo, all’appello di Renzi all’unità del partito cosa risponde?
«Rispondo di sì a condizione che ci sia un patto esplicito per costruire il partito che ancora non c’è e volere una comunità. Non vedo in giro “laudatores temporis acti”. Né rimpianti né rivincite, però Renzi non ha neppure bisogno di “laudatores” del tempo presente: gli servono persone leali, pensanti, prima di tutto nel suo partito».
Anche secondo lei il Pd è un partito fragile e c’è un uomo solo al comando?
«Alle spalle abbiamo mesi marchiati da tragedie, i morti di Gaza, l’incubo dei tagliagole dell’Isis. Davanti a questo colpisce la difficoltà a mobilitare le persone. L’idea che si possa governare togliendo ossigeno a una partecipazione attiva a me pare non funzioni. Attenzione a un partito ridotto a macchina elettorale al servizio dei singoli. A Bologna Renzi ha detto di credere in una funzione autonoma del Pd, alle parole devono seguire i fatti».
Non le piace il doppio incarico di Renzi, di premier-segretario?
«Lo dissi a suo tempo. Oggi rispetto la sua scelta, ma quello che non può consentire è che ogni voce sgradita sia liquidata come la rincorsa di una poltrona. Per ascoltarsi serve rispetto».
Condivide quindi l’attacco D’Alema?
«Sto parlando di un clima che non mi piace e che non fa bene a nessuno».
O si riferisce al fatto di non essere stato invitato alla Festa dell’Unità di Bologna?
«Ma no, mi è spiaciuto, ma confido molto nella festa sulla neve».
Entrerebbe personalmente in segreteria?
«Non sarebbe una scelta saggia ».
Cosa non va nell’azione di governo?
«Il governo ha fatto cose buone ma ha presente l’Ikea? Porti a casa un mobile smontato e devi montarlo. Nell’elenco di quelle riforme molti vedono ancora la scatola imballata e a quelli non puoi dire “abbiamo arredato casa”. Devi spiegare cosa dai oggi e come immagini il paese tra 5 o 10 anni, dove lo porterai. Preferivo lo slogan “adesso”, gliel’ho anche invidiato a Renzi che ora ha scelto il più moderato “passo dopo passo”. Ho l’impressione che bisogna osare».
Insomma iniziative del governo “insufficienti”?
«Io dico che la strada è giusta dagli 80 euro alla giustizia e alla scuola - tuttavia la scossa è anche nel ripensare la funzione dello Stato dopo decenni di cultura che voleva affamare la bestia. Certo bisogna fare scelte conseguenti ma dovrebbe dire qualcosa se la Fiat investe sui motori ibridi ma lo fa negli Usa, dove Obama ha posto quella come condizione per salvare l’auto. La patria del libero mercato indirizza le scelte di politica industriale. Non è che l’America ha scoperto il socialismo, è che dalla crisi devi uscire con una tua idea dello sviluppo e del futuro industriale e non può essere quella di prima. Allora sull’articolo 18 chiedo: la linea è quella della ministra Guidi e di Marchionne o quella di chi dice, ripartiamo da politiche redistributive e dalla creazione di nuovo lavoro?».
Sulle riforme istituzionali la sinistra dem darà battaglia?
«La riforma costituzionale va fatta e va migliorato il testo. Sulla nuova legge elettorale, la soluzione uscita dalla Camera con deputati nominati non va bene. Quanto all’ipotesi di capolista bloccati e preferenze per gli altri, come si dice dalle parti mie “xe peso el tacòn del buso”: non conosco la traduzione toscana ma mi informo”.

La Stampa 9.9.14
“Il Pd diventi un partito plurale e più autonomo”
L’ex segretario: “Deve fare da cerniera tra le scelte del governo e la funzione dei parlamentari”
intervista di Alessandro Barbera

qui

Corriere 9.9.14
Prezzi bassi e qualità «L’Italia diventerà meta per l’eterologa»
Nel privato costi tra 2.500 e 3.000 euro
di Mario Pappagallo


La procreazione medicalmente assistita ha sempre avuto in Italia dei «maestri» internazionalmente riconosciuti, pionieri anche nella fecondazione eterologa. Dieci anni fa però, con l’entrata in vigore della legge 40, questo tipo di percorso è diventato tabù nel nostro Paese. E anche quei «maestri» sono rimasti senza lavoro. Con il conseguente sviluppo di un «turismo da eterologa».
Si calcola che 20 mila coppie italiane, tra quelle abbastanza abbienti da poterselo permettere, abbiano avuto figli negli ultimi anni ricorrendo a centri spagnoli, svizzeri, francesi, inglesi, turchi, bulgari, romeni... Finanche via web, con un kit «fai da te» che ha portato alla luce ben 27 bambini eterologicamente concepiti in un solo anno (2011). Come? In Rete tutto è possibile, alla faccia dei divieti. La «cicogna» arriva anche con il postino. Con selezione delle caratteristiche del futuro pargolo: colore degli occhi e dei capelli, quoziente di intelligenza. Il servizio era offerto dalla filiale danese della Cryos International , la più grande banca del seme del mondo con 600 donatori nel registro. Prezzi bassi, ma sul risultato non c’è certezza. E il postino non suona sempre due volte. I clienti sono per lo più cliniche, ma anche i privati (già con la 40 in vigore) grazie al kit «fai da te». Selezione, ordine e pagamento online. I costi? Non cari: da 240 euro per 0,5 millilitri di seme, se il donatore è anonimo, a 320 se non lo è. La possibilità di selezione si paga. E, in questo caso, è possibile consultare il profilo del donatore in un database, ascoltarne la voce registrata, osservare com’era da bambino e conoscere il suo quoziente di intelligenza. L’età dei donatori varia dai 18 ai 45 anni. Ricevono circa 100 euro a prestazione. Controllati e certificati per salute e vitalità riproduttiva. Lo confermano i risultati: 2 mila gravidanze riuscite in media all’anno, di cui 27 a domicilio in Italia. Con 12 mila euro si acquista l’intera riserva di seme dello stesso uomo che, a gravidanza avvenuta, va in pensione. Questo per evitare concorrenze. Tanto l’offerta non manca. Spiega Ole Schou fondatore e direttore di Cryos: «Prima che il seme sia utilizzato, ci vuole un anno di screening per escludere malattie infettive o genetiche e verificarne la qualità. Di solito solo 8 volontari su cento passano il test. Eppure vi è un boom di donatori: 600 in lista d’attesa, mai accaduto prima». Chissà che non c’entri anche la crisi economica.
Grazie alla sentenza della Consulta, che si è preoccupata soprattutto di chi non poteva permetterselo, il «turismo riproduttivo» dovrebbe fermarsi automaticamente. Più difficile bloccare le banche di seme online, a meno che l’Europa non intervenga limitandone l’utilizzo ai soli centri specializzati. Ferma restando la web eterologa, il «mercato» potrebbe ora volgere a favore dell’Italia. Non lo dice chiaramente, ma lo spera Andrea Borini, presidente della Società italiana di fertilità e sterilità (Sifes): «I nostri prezzi sono in effetti più che competitivi e la qualità dei centri autorizzati è di altissima collocazione a livello internazionale». Già nello stabilire il rimborso per le prime strutture pubbliche (fatto storico) che, gratuitamente o con un ticket, garantiranno agli italiani la fecondazione eterologa si è fissata una cifra di 3.000 euro. E non è al risparmio. Borini, che è anche responsabile clinico e scientifico di Tecnobios Procreazione di Bologna, conferma: «In un centro come il nostro il giusto prezzo è sui 2.500 euro. Tremila al massimo». Tecnobios a fine settembre praticherà i primi transfer frutto di eterologa. Così come il pubblico Careggi nell’anticipatrice Toscana. Sottolinea Borini: «In circa l’80% dei casi si tratta di dono di ovociti, solo il resto è sperma». E i donatori in Italia non si pagano, né si pagheranno. Ecco perché il «mercato» potrebbe diventare favorevole ai nostri centri privati. Soprattutto in tempi bui per l’economia come questi.
A parte il pubblico che effettuerà l’eterologa con ticket (o gratuita) per gli italiani, il privato potrebbe fare bingo. Attirare persone da quegli stessi Paesi nei quali sono finora «emigrate per cura» oltre 20 mila coppie. Si stima che potrebbero arrivarne più del doppio da Svizzera, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Russia... Perfino da Cina e India. Si parla di ricchi ovviamente, che già frequentano l’Italia delle spa e delle città d’arte e moda. Fare una eterologa mentre si visita Roma o si fa shopping in via Montenapoleone non è poi così male. A proposito di Roma, la Regione Lazio deve sbrigarsi ad autorizzare i centri. Non l’ha mai fatto ed esistono strutture nei sottoscala e potenziali situazioni a rischio sicurezza. Vedi lo scambio di embrioni avvenuto al Pertini di Roma.
Tornando al mercato, il nostro Paese offre al momento la qualità massima al minor costo. Molto meno degli 8.000-9.000 euro della Spagna e della Svizzera, dei 10.000 inglesi: dove i donatori hanno un minimo «sindacale» di 900 euro. Meno dei 4.000-4.500 dei Paesi dell’Est e della Turchia: dove ai donatori non si paga nulla. Nettamente meno delle parcelle statunitensi dove il costo medio è di 35.000 dollari (oltre 27 mila euro) con un 10% (come le mance) per i donatori. In Italia si sta anche sviluppando una nuova specialità: una sessuologia esperta in crisi da eterologa. Perché, e questo lo hanno studiato Vito Frugis e Cristina Iannuzzi a Verona, il post può presentare problemi (per fortuna rari) che non si hanno con la fecondazione omologa: dalla «sindrome di Giuseppe», padre putativo, alla rivalità della donna nei confronti della propria madre; dall’importanza di garantire una discendenza al nome della propria famiglia alla svalutazione di femminilità o virilità (rispetto ai donatori).
Intanto il numero delle Regioni in cui si praticherà l’eterologa, anche senza una legge, cresce. Dopo Toscana, Emilia Romagna e Liguria, ieri anche le Marche hanno annunciato il via libera: «Il costo? Decideremo tra gratuità dell’intervento o la previsione di un ticket, anche in base alle altre Regioni», dice l’assessore alla Salute, Almerino Mezzolani. In Liguria l’ipotesi è un ticket da pagare sulla base del reddito; in Toscana uno sui 500 euro; mentre l’Emilia Romagna opta per la gratuità. In Piemonte e Lombardia — dove non c’è ancora nessuna delibera — le ipotesi sono rispettivamente di un ticket da 600 euro e di uno sulla base del reddito.

il Fatto 9.9.14
Della Valle a Marchionne: 'Sei un furbetto
Paga le tasse in Italia prima di offendere'
"Marchionne che vuole dare lezioni a noi italiani su cosa e come dobbiamo fare per sottolineare il suo ‘orgoglio italiano’ è una cosa vergognosa ed offensiva. Se si sente orgoglioso di essere italiano, cominci a pagare le sue tasse personali in Italia dove le pagano i lavoratori Fiat”

qui

il Fatto 9.9.14
Minori stranieri non accompagnati: in Italia sono 11mila. E 3mila irreperibili

qui

il Fatto 9.9.14
Marò, stampa indiana: “Da Latorre e Girone pressioni per coprire loro operato”
Secondo il quotidiano indiano Hindustan Times, che cita un funzionario del ministero dell’Interno, i due fucilieri convinsero il capitano della loro petroliera Enrica Lexie a inviare un rapporto per le organizzazioni internazionali di sicurezza marittima in cui si sosteneva che i pescatori erano armati

qui

il Fatto 9.9.14
Ma è Roma o Disneyland?
Dal Colosseo alla Fontana di Trevi: grandi firme dell’alta moda sponsor dei restauri
È vero mecenatismo?
di Carlo Antonio Biscotto


Non contenti di aver vestito e reso più affascinanti buona parte dei Paperoni, dei vip e delle star di Hollywood, gli stilisti italiani hanno deciso di fare più o meno la stessa operazione con i monumenti che rappresentano il marchio di fabbrica dell’Italia, ma che purtroppo sono spesso in condizioni deplorevoli per mancanza di manutenzione, di cure, di interventi di restauro, di risorse.
Lo Stato italiano ha deciso di rivolgersi a finanziatori privati per ristrutturare e restaurare i suoi più importanti tesori d’arte. Nulla di male, in teoria, ma si sono levate subito vivaci critiche da parte di chi teme che l’arte e la storia possano diventare prodotti commercali e come tali essere pubblicizzati e venduti all’industria del turismo. Che ve ne pare di slogan del tipo “il Colosseo calza Tod’s” o “Oggi Anita Ekberg farebbe il bagno nella Fontana di Trevi con una borsa Fendi a tracolla”?
CHE FOSSE necessario intervenire è una realtà che nessuno contesta. Molti monumenti italiani cadono letteralmente a pezzi e hanno da tempo perso il colore originale. Il Colosseo – un tempo avorio pallido – è diventato quasi nero anche perché al posto delle bighe oggi ci sono le automobili. Certo pensare a interventi di risanamento con denaro pubblico in tempi di crisi economica appare fuori del mondo così come è inutile sperare in donazioni di privati. E qui – come il 7° Cavalleggeri – sono arrivati al galoppo i guru della moda italiana. Le loro però non sono donazioni a fondo perduto. Di Bill Gates – come osserva in un suo pezzo il Washington Post – ne circolano pochini e non solo in Italia. Ai mecenati dell’alta moda andrebbero in cambio una serie di diritti sul cui contenuto e sul cui utilizzo regna un certo riserbo.
A farla breve, c’è – non solamente in Italia – chi teme una disneificazione del patrimonio artistico e culturale del Belpaese con conseguenze di lungo periodo che potrebbero far deperire il valore dell’asset più importante di cui l’Italia dispone.
Moltissimi italiani sono preoccupati e pensano che in tal modo si rischi di vendere l’anima per un pugno di dollari (o di euro) o, peggio ancora, per il classico piatto di lenticchie. Inoltre a restauro finito turisti e residenti sarebbero costretti a leggere cartelli di questo tenore: ”La Fontana di Trevi di Fendi”, “Il Colosseo di Tod’s” o “La scalinata di piazza di Spagna di Bulgari”.
Un tempo il patrimonio artistico era considerato una priorità dallo Stato italiano, ma con la crisi economica, le risorse a disposizione del ministero dei Beni culturali, dei musei, dei soprintendenti alle Belle arti e dei direttori dei principali siti archeologici italiani si sono andati paurosamente assottigliando. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le immagini del muro del Tempio di Venere di Pompei crollato nel marzo scorso dopo alcuni giorni di abbondanti precipitazioni.
Dopo lo scandalo di Pompei, molti sindaci italiani hanno deciso di darsi da fare. Uno dei più attivi è stato finora il sindaco di Roma, il medico Ignazio Marino che, dopo aver concluso un accordo preliminare con l’Arabia Saudita per il finanziamento del restauro del Mausoleo di Augusto, si appresta a volare in California, per la precisione a Silicon Valley, in cerca di donazioni. Nel luogo più rappresentativo della rivoluzione tecnologica e nel santuario della scienza informatica, Marino sosterrà la tesi secondo cui l’Italia ha il dovere di fare del suo meglio, ma trattandosi di un patrimonio importante per l’intera umanità, tutti debbono contribuire alla conservazione di luoghi come il Colosseo, Pompei o Venezia nei quali è custodita la memoria storica della nostra civiltà. Farà breccia nei cuori e nei portafogli dei miliardari del dot.com  ?
FRATTANTO il governo non sta con le mani in mano e sta valutando una svolta che sarebbe storica: la possibilità di dare in appalto ai privati la gestione di piccoli musei e siti archeologici e di aprire al loro interno, negozi di libri e souvenir, ristoranti, bar. Sponsor di questa iniziativa il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Abbiamo un patrimonio enorme, non vedo dove può essere lo scandalo se ne affidiamo una minuscola percentuale alla gestione dei privati”.
Il fatto è che i cittadini non hanno scordato i cartelloni della Coca Cola e di Bulgari intorno ai cantieri per il restauro del Ponte dei Sospiri e del Palazzo Ducale di Venezia. Oggi sembra che i mecenati siano diventati più discreti. In cambio dei quasi 3 milioni spesi da Fendi per il restauro della Fontana di Trevi, la griffe si accontenterà di una placca di metallo grande quanto una scatola di scarpe. Ma l’accordo più discusso e più osteggiato dalla cittadinanza è quello concluso con Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Il noto stilista della calzatura spenderà circa 38 milioni di euro, ma per anni i biglietti di ingresso al sito recheranno bene in vista la pubblicità delle Tod’s. Un ottimo affare per il miliardario toscano, dicono i romani.

Repubblica 9.9.14
Perché quella riforma non mi piace
Continuo a credere che la Costituzione sia stata pensata e scritta da grandi cervelli, con altrettanta personalità e accorta prudenza
di Elena Cattaneo

CARO direttore, in Italia è difficile affrontare le questioni e discuterle usando i dati e gli strumenti migliori che le esperienze del passato e le conoscenze del presente mettono a disposizione. In altre parole, sembra che cercare di illustrare fatti provati faccia scattare in una buona parte della politica la messa in discussione — a volte anche livorosa e irrazionale — dell’utilità e del valore delle competenze, o di una conoscenza e uso dei fatti. Da qualsiasi parte arrivino. E queste modalità si perpetuano su molti argomenti trattati.
D’altronde, da qualche decennio ascoltiamo presidenti del consiglio dire che noi “non abbiamo niente da imparare da nessuno”. Davvero? Eppure basta un po’ d’esperienza in contesti internazionali per capire che non è così. Ho imparato molto dal mio Paese, che amo profondamente, ma mi sono presto resa conto che oltre al molto da insegnare, umilmente, intelligentemente e senza spacconeria, possiamo altrettanto imparare. Ci sono modi migliori di quelli usati da noi per capire cosa serve fare per adeguare le istituzioni politiche, e come si potrebbero realizzare progetti socialmente ed economicamente più validi. Le serie ed efficaci azioni politiche, insegna la Storia, partono da premesse ben individuate, sviluppano ipotesi, cercano prove nel passato o strade nelle esperienze di altri, disegnano strategie del presente e del futuro di un Paese, simulano le opzioni, informano, richiamano e accolgono i cittadini intorno alle discussioni, offrendo tutti i ragionamenti immaginabili, anticipando conseguenze, etc. Ancora. Mettono il Paese a confronto con se stesso e con il mondo, esaltano ogni competenza e affidabilità, sottolineano la necessità di rischiare per raggiungere un obiettivo di valore, per aumentarne il prestigio con ricadute di immagine e di contenuto. E poi riconoscono le debolezze, senza inseguire polemicamente chi le fa notare. Lavorano per superarle partendo sempre e solo dalla realtà. Ragionandoci su fino a sudare. Sono azioni che si arricchiscono delle novità e che sfruttano ogni opportunità per sollecitare le capacità culturali presenti nelle nazioni, puntando ad arricchirne il patrimonio conoscitivo.
Ho capito presto che l’obiettivo della riforma del Senato era diverso da quello dichiarato. Mi è stato chiaro registrando l’amarezza, direi quasi sofferta, di un nutrito numero di Senatori (di tutto l’arco parlamentare) che “l’hanno dovuta votare” nei tempi e con i modi decisi dal Governo. Ora, se non possiamo pensare di avere in Parlamento tanti Matteotti, almeno si sarebbero potute trovare condizioni per provare a volare più alto. Ed ecco perché penso che all’apice di ogni riforma, cioè come premessa per l’agire civile e politico, questo Paese abbia estremo bisogno di verità: “di vero conosciuto nei dettagli”. Per troppo tempo si è andati avanti raccontando storie funzionali, facendo credere che la realtà non esiste, e che non esista conseguentemente alcun metodo per accertare (e accettare) i fatti. Sempre nel nome di un mal interpretato concetto di “primato della politica”.
Rimane, in ogni caso, il fatto che una classe politica davvero qualificata, nel riformare una Costituzione, dovrebbe imparare ad apprezzare e quindi valorizzare i modi in cui è stata scritta quella in vigore. Come si era lavorato, le personalità coinvolte, la dimensione concettuale e non ultima — immagine espressa con una felice e semplice frase da Eugenio Scalfari — con quanta “mancanza di fretta” si arrivò alla formulazione finale. Anzi, quanta ammirevole “sottigliezza, meticolosità, perspicacia e lungimiranza” siano state fondamentali e prioritarie per ogni passaggio e per ogni articolo. Tutto ciò, mi pare evidente, è mancato nei mesi scorsi. Per non dire della sottovalutazione della necessità che siano “chiari” i livelli di controllo (i famosi “pesi e contrappesi”) che, fra l’altro, a questo Paese troppo spesso mancano. Credo che l’Italia non meriti un progetto al momento così pasticciato. Non lo meritano i cittadini ai quali viene sovente somministrata una realtà manipolata. Quante nuove leggi o decreti governativi sono stati prodotti negli ultimi 20 anni? Un numero colossale. Quante leggi non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati? Quante aspettano ancora i decreti attuativi? Ognuna è stata l’occasione di cambiare qualcosa. Di chi è stata la responsabilità se non si è cambiato in meglio? Della Costituzione forse?
Continuo a credere che la Costituzione sia stata pensata e scritta da grandi cervelli, con altrettanta personalità e accorta prudenza. Vi compaiono concetti che per molti (anche allora) sarebbero stati considerati scontati e quindi (col metro di oggi) non meritevoli di essere ribaditi nella Carta più alta che avrebbe regolato l’Italia. Cito un esempio per tutti, l’articolo 9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Sembrerebbe un’idea scontata. Non lo era nel 1948, e infatti non è stata una guida costante per chi ha rappresentato e governato il Paese nel secondo dopoguerra. Nondimeno è, invece, il fondamento ideale che ha portato (anche oggi) una parte del Paese a proporre un Senato semplicemente ribattezzato anche “delle competenze”, che avrebbe potuto dare spazio a una rimodulazione organizzativa del Senato stesso, innovativa e alta, tale da incorporare anche quei saperi specialistici e di frontiera capaci di disegnare le strade del futuro. Invece, la proposta (“aperta” e tutta da discutere su un piano tecnico- istituzionale) è stata presa con totale sufficienza e praticamente cestinata, “in tutta fretta” da una buona parte della classe politica — mi si permetta — che si è dimostrata ancora una volta chiusa nelle sue liturgie.
Fra i nuovi compiti del Senato ci saranno la valutazione e la verifica delle attività delle pubbliche amministrazioni, delle politiche pubbliche, dell’attuazione delle leggi dello Stato. Queste attività di controllo, tutte da precisare per contenuti e modi di esercizio (elemento non secondario e ancora sconosciuto), dovrebbero essere supportate dai saperi specialistici per “immaginare oggi”, con proiezioni attendibili, gli esiti dell’assetto costituzionale futuro e “rinforzare domani” il lavoro del nuovo Parlamento. Sarebbe anche importante capire e quantificare oggi — se esistenti — gli effetti migliorativi attesi rispetto al contenzioso costituzionale derivante dalla riscrittura del Titolo V; oppure di quanto l’iter legislativo così ridisegnato sarà veramente più veloce — se questo è l’obiettivo; quali e quanti sono i costi, in rapporto ai benefici, del nuovo sistema costituzionale; quali i reali risparmi di spesa etc. Se con “metodo scientifico” ci si accostasse anche alla riforma costituzionale, molti equivoci circa la bontà del testo licenziato dal Senato potrebbero essere spiegati razionalmente ai cittadini, venire meno o essere corretti con grande beneficio per il futuro di questo Paese e per “l’amore” che la gente potrebbe avere per la “sua” Costituzione.
Quando si tocca lo Stato, le intenzioni devono essere sostituite da solide premesse per l’agire politico e da una disamina stringente delle conseguenze previste, dalle quali emerga il vantaggio ottenibile scegliendo una certa opzione, come se si dovesse condurre una sperimentazione clinica vitale. E, laddove non sia noto quale possa essere l’esito, si dovrebbe comporre una lista adeguata delle domande e delle incognite per immaginare le risposte e capire quanto più vicino alle attuali necessità del Paese quell’ipotesi ci possa portare. Per dirla con Max Weber, alle intenzioni vanno sostituite le responsabilità.
Penso che tutto questo manchi. Che non sia possibile immaginare e quantificare — senza preconcetti né velleitarismi — se le articolazioni istituzionali proposte saranno in grado di aumentare o peggiorare «le prestazioni » di una democrazia costituzionale come la nostra, rispetto ad un mondo complesso e interdipendente che ci vede ogni giorno più in affanno. Cercando di esorcizzarlo a “coup de théatre” sempre più ravvicinati. l’autrice è senatrice a vita e docente dell’Università degli Studi di Milano

Repubblica 9.9.14
Il lato oscuro dei think tank. Ecco i padroni del pensiero
Esperti delle fondazioni Usa rivelano al “New York Times” che ci sono governi tra i finanziatori
di Federico Rampini


NEW YORK SONO ammirati nel resto del mondo, i think tank americani, questi pensatoi dove lavorano i migliori esperti su ogni materia: geopolitica, strategia, economia, ambiente, tecnologia. Sono talmente venerati, che il resto del mondo se li sta comprando. Letteralmente. Lo rivela un’inchiesta- shock del New York Times. I grandi centri di ricerca sugli affari internazionali, dalla Brookings Institution di Washington all’Atlantic Council, ricevono generosi finanziamenti da governi esteri. E non sono regali disinteressati. Alcuni esperti hanno vuotato il sacco, rivelando di essere stati pesantemente influenzati dalle pressioni delle potenze straniere. Ce n’è per tutti, alleati e rivali economici, potenze amiche o rivali, piccole e grandi: dalla Norvegia al Giappone, dagli Emirati Arabi Uniti al Qatar, da Pechino a Berlino. Tutti sembrano aver capito questo piccolo sporco segreto della politica americana. Se vuoi influenzare le strategie del Dipartimento di Stato, puoi farlo alla luce del sole affidando la difesa dei tuoi interessi ad una società di lobbying. Ma il metodo occulto e indiretto è ben più efficace. Proprio perché l’Amministrazione Usa fa ampio ricorso alle analisi dei think tank, perché non “comprarsi” quelle? Il ministro, il sottosegretario, la commissione parlamentare che riceve un ampio e documentato studio di politica estera non ne sospetta il “mandante”, a differenza di quel che accade se riceve un lobbista. La rivelazione del New York Times è grave, secondo diversi esperti legali questi comportamenti possono violare le leggi federali.
Se un membro del Congresso si informa su un dossier di politica estera usando un rapporto della Brookings Institution, spiega sul New York Times l’ex ricercatore Saleem Ali, «dovrebbero sapere che ricevono un punto di vista parziale, e invece non ne sono consapevoli». Lui sa di cosa parla. Al momento di essere assunto alla Brookings come Visiting Fellow, gli fu detto chiaro e tondo che le sue ricerche non dovevano contenere critiche al governo del Qatar, generoso finanziatore di quel think tank. Il Qatar ha donato alla Brookings 14,8 milioni di dollari per pagare ricerche sui «rapporti tra gli Stati Uniti e il mondo islamico». La scoperta è particolarmente imbarazzante perché coincide con altre rivelazioni: il Qatar ha finanziato anche l’esercito jihadista dello Stato Islamico che partendo dalla Siria e dall’Iraq punta a creare un Grande Califfato.
Il Center for Strategic and International Studies, diretto da John Hamre, ha una lista di 13 governi stranieri tra i suoi finanziatori. Un elenco che va dalla Germania alla Cina. Interpellato dal New York Times , Hamre non ha voluto divulgare gli accordi che regolano questi rapporti di finanziamento, ma ha smentito che si possa equiparare ad un’attività di lobbismo. «Io non vado — ha dichiarato Hamre — da un membro del governo Usa a dirgli che vorrei parlargli del Marocco o degli Emirati o del Giappone». Il problema sta proprio qui: l’agenda d’interessi degli stranieri non viene dichiarata, quindi l’Amministrazione e il Congresso di Washington non sanno “filtrare” certi studi dei think tank depurandoli dell’influenza dei finanziatori esteri. E’ per evitare queste influenze occulte dall’estero, che nel 1938 venne varato il Foreign Agent Registration Act: a quel tempo l’obiettivo primario della legge federale fu d’impedire una propaganda occulta al servizio degli interessi nazisti. Quella legge impone a qualsiasi gruppo che riceva fondi da governi esteri con l’intenzione d’influenzare le politiche governative, il dovere di registrarsi come “agente straniero” presso il Dipartimento di Giustizia.
Questo non ha impedito che i fondi esteri affluissero in America in quantità crescente per finanziare la ricerca. A volte si tratta di donazioni davvero disinteressate. E’ di ieri la notizia di un lascito-record all’università di Harvard, 350 milioni di dollari (la maggiore donazione ricevuta da un singolo nella storia di questa università), ad opera di un magnate di Hong Kong deceduto, T.H. Chan. La totalità dei fondi va alla ricerca medica e non ci sono agende “politiche” dietro. Quando invece la New York University ha raggiunto un accordo con il governo cinese per l’apertura di un campus nella Repubblica Popolare, il prezzo da pagare si è visto: la stessa Nyu ha manovrato per allontanare un noto dissidente cinese che aveva accolto con una borsa di studio. Anche nei think tank l’influenza può essere indiretta. Nel caso della Norvegia, i suoi finanziamenti hanno promosso ricerche che spingono gli Usa ad azioni sul cambiamento climatico su vari fronti... ma non contro gli interessi dell’industria petrolifera, il maggiore business di Oslo.

Corriere 9.9.14
I troppi stati ucraini di una lunga storia europea
risponde Sergio Romano


È ormai fin troppo chiaro che l’Ucraina come la conoscevamo non esiste più e nessuno potrà farla tornare; la Crimea è ormai annessa da mesi alla Russia, e non credo proprio che qualcuno potrà mai chiedere ai russi di cederla; mentre le regioni del Donbass, già ribattezzate con la denominazione dell’epoca zarista «Nuova Russia», sono ormai state sottratte al controllo del governo di Kiev. Per quanto riguarda le future trattative, Vladimir Putin
ha fatto intendere chiaramente che l’Ucraina dovrà per forza accettare una forte autonomia di quelle regioni.
Fabio Todini

Caro Todini,
Lei allude implicitamente a una «vecchia» Ucraina, ma non è facile confrontare l’Ucraina, quella di oggi o quella di domani, con un modello storico preesistente. Intorno all’anno Mille, all’epoca del grande Vladimiro, esisteva in effetti un grande principato di Kiev, terra di passaggio dei mercanti scandinavi verso Bisanzio, provincia ecclesiastica del Patriarcato bizantino di Costantinopoli, culla spirituale di quello che sarebbe divenuto, al di là delle sue regioni orientali, il Ducato di Moscovia e, successivamente, lo Stato zarista dei Romanov. Ma temo che nessuno storico saprebbe dirci con esattezza quali fossero i suoi confini.
Più tardi il principato di Kiev, vaso di coccio tra vasi di ferro, divenne terra contesa fra i russi di Mosca, i polacco-lituani di Vilnius e Varsavia, i tatari di Crimea, i cosacchi del Don. Alla fine del Settecento, dopo le tre spartizioni della Polonia, l’Ucraina era ormai quasi interamente russa; ma erano divenute austriache, nel frattempo, quelle terre ucraine (Galizia e Volinia, con la città di Leopoli) che la Polonia aveva conquistato all’epoca della sua maggiore espansione. Nel grande calderone della Prima guerra mondiale tutto fu rimesso in discussione. Dopo la scomparsa dello Stato zarista, l’Ucraina divenne dapprima una sorta di protettorato tedesco, poi si divise fra due Repubbliche popolari (quella di Kiev e quella di Kharkov) e fu infine materia del contendere in una guerra fra la Polonia e la Russia sovietica che scoppiò nel 1919. Con la pace di Riga del marzo 1921, l’Europa assistette a una nuova spartizione ucraina: i russi ebbero l’Ucraina centro-orientale e i polacchi ripresero possesso delle terre, nella regione di Leopoli, che avevano perduto 150 anni prima.
Arriviamo così, saltando molti dettagli, al lungo periodo sovietico durante il quale l’Ucraina fu vittima della dissennata politica agricola di Stalin, ma anche destinataria di numerosi doni territoriali. Acquisì la Nova Rossija (teatro dei combattimenti di questi giorni) all’inizio degli anni Venti, la Galizia e Leopoli dopo la spartizione polacca del 1939, un seggio all’Assemblea dell’Onu nel 1945 e la Crimea, grazie alla generosità di Kruscev nel 1954. Erano doni formali a cui non corrispondeva alcuna sostanziale indipendenza. Ma il quadro sarebbe incompleto se non ricordassi che nella società dell’Urss e nel sistema sovietico, nelle istituzioni politiche, economiche e culturali, gli ucraini furono sempre trattati dal regime come i cugini diversamente russi di una stessa famiglia.

il Fatto 9.9.14
Israele, la grande confisca delle terre palestinesi
di Riccardo Noury

qui

La Stampa 9.9.14
“Stato palestinese in Sinai”, il piano segreto di Al Sisi
Offerta per sbloccare il negoziato. Ma Abu Mazen dice no
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 9.9.14
Israele aiuti Gaza e se stessa
di Abraham B. Yehoshua


Dopo lunghi giorni di duri scontri fra Israele e Hamas è arrivato il cessate il fuoco ed entrambe le parti si domandano (al di là delle vittorie e delle sconfitte, reali o immaginarie) se la guerra appena conclusa sia stata l’ennesimo, inutile conflitto nella serie di quelli avvenuti in Medio Oriente, o se possa essere una base per un nuovo e migliorato assetto politico.
È possibile dare una risposta convincente a questa domanda nel caos turbinoso in cui si trova la regione? La morte e la distruzione causate da questa guerra ai residenti della Striscia di Gaza e, in misura minore agli abitanti di Israele, mi costringono a respingere il fatalismo di chi già predice un prossimo round di violenza e a provare a infondere, o forse a «creare», una possibile speranza.
Una speranza semplice e senza pretese. Non mi aspetto, infatti, un accordo di pace tra Hamas e Israele. Piuttosto una convivenza tollerabile e soprattutto non violenta. Questa mia speranza si basa sul fatto che in questa guerra Israele, malgrado la sua grande supremazia militare, non ha ottenuto una vittoria inequivocabile. E nonostante i suoi leader, e in primo luogo il premier Netanyahu, cantino vittoria, sondaggi affidabili indicano che la maggioranza dei cittadini non sembra trovarsi d’accordo con le loro arroganti dichiarazioni.
Molti esprimono delusione per un’operazione non portata a termine, o per una promessa non mantenuta. Ed è proprio questo senso di frustrazione a infondere speranza. In base all’esperienza passata ho infatti l’impressione che le guerre che si concludono senza una netta vittoria possano rappresentare un presupposto per un nuovo ordine di cose, non violento.
A Gaza hanno festeggiato la vittoria, è vero, ma queste celebrazioni, avvenute in un regime totalitario dove i cittadini non sono autorizzati a esprimere il loro vero parere e con un bilancio di migliaia di morti, di decine di migliaia di feriti, di centinaia di migliaia di sfollati e di case e infrastrutture distrutte, sono completamente assurde. Occorre inoltre considerare la posizione estremamente dura dell’Egitto verso Hamas, che ha costretto quest’ultimo ad accettare il cessate il fuoco senza che nessuna delle richieste per le quali aveva aperto il fuoco contro Israele sia stata soddisfatta. E la freddezza mostrata dai palestinesi di Israele e di Cisgiordania per la devastazione e i morti nella Striscia di Gaza rivela che lo spirito di solidarietà che Hamas si aspettava da loro non si è risvegliato. Per quei palestinesi, infatti, Hamas ha fomentato inutilmente il fuoco e trascinato la popolazione di Gaza in uno scontro duro e pericoloso senza un chiaro scopo.
Ciononostante i miliziani di Hamas possono dire di aver combattuto con coraggio e, sebbene la maggior parte dei loro razzi siano stati intercettati dagli israeliani e non abbiano causato ingenti danni materiali, hanno comunque terrorizzato e sconvolto la popolazione e, in molti casi, paralizzato la vita di Israele. E questo potrebbe essere un motivo di orgoglio per una organizzazione piccola come Hamas.
La cosa principale, però, è che Israele non solo non ha osato penetrare in profondità nella Striscia per conquistarla, ma ha anche stranamente dichiarato che non era sua intenzione rimuovere il regime di Hamas bensì solo indebolirlo, affinché bande armate senza una chiara identità o forze anarchiche incontrollate, analoghe a quelle che si aggirano oggi in Iraq e in Siria, non ne prendessero il posto.
Se a tutto questo aggiungiamo che durante l’intero periodo degli scontri, mentre aerei e artiglieria israeliani martellavano Gaza e Hamas, da parte sua, non cessava di lanciare razzi sui centri abitati israeliani, giganteschi camion carichi di rifornimenti, di cibo e di beni di prima necessità entravano quotidianamente nella Striscia da Israele, non possiamo non constatare l’esistenza di un vincolo particolare dello Stato ebraico con i residenti di Gaza e di un suo chiaro senso di responsabilità nei loro confronti. Non riesco infatti a ricordare nessuna guerra in cui una delle parti, pur combattendo contro un nemico che non cessa di bombardarlo, continui a rifornirlo di viveri e di medicinali.
Ed è proprio su questa assurda situazione che si basa la mia speranza per il futuro. Se infatti i contatti tra Israele e Gaza, malgrado la retorica dell’odio reciproco, non si sono interrotti nemmeno durante gli scontri a fuoco, il particolare senso di responsabilità di Israele potrebbe essere incanalato ora in direzioni positive, in primo luogo verso un’interruzione dell’isolamento della Striscia e un ripristino dei contatti fra i suoi abitanti e i palestinesi di Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp. Questo ripristino dovrebbe avvenire in maniera graduale, parallelamente alla progressiva smilitarizzazione della Striscia. L’isolamento degli abitanti di Gaza dai loro fratelli in Cisgiordania, dallo Stato di Israele (che in passato dava loro lavoro) e dall’Egitto (che ha voltato loro le spalle dopo l’ingerenza di Hamas negli affari interni del Paese durante il governo dei Fratelli Musulmani), è infatti alla base della loro furia suicida e delle tendenze violente che ormai hanno perso ogni freno. Ma dopo quest’ultima guerra i dirigenti di Hamas possono aspirare a stabilire un nuovo ordine di cose non da una posizione di resa e di sconfitta bensì da una di chi ha dato prova del proprio valore. E Israele ha capito che, nonostante la sua forza, non potrà sopportare un’altra estate dura e violenta come quella appena trascorsa. Soprattutto ora che l’Egitto e il governo di Abu Mazen hanno dimostrato di potergli garantire una mediazione equa per il raggiungimento di una pace a lungo termine.
Una società occidentale, democratica e con un così alto livello di sviluppo economico come quella israeliana non può permettersi, a intervalli di pochi anni, di azzuffarsi con una collettività primitiva, isolata, povera e fanatica. Dovrebbe piuttosto cercare di aiutare quella collettività a risollevarsi, a ricostruire, e, come prima cosa, a uscire dall’isolamento.

La Stampa MediaLab 9.9.14
La storia della Striscia di Gaza, dalle origini ai giorni nostri
Il conflitto israelo-palestinese

qui

Corriere 9.9.14
Somale stuprate dai soldati dell’Unione africana Donne abusate sessualmente in Somalia. E gli aguzzini sono i soldati dell’Unione africana impegnati nella missione Amisom nel Paese del Corno d’Africa. La denuncia degli stupri arriva da Human rights watch. Nel rapporto, pubblicato sul sito di Hrw, vengono descritti abusi e sfruttamenti sessuali in due basi di Mogadiscio a partire dal 2013. I soldati hanno ricattato le vittime facendo leva anche sugli aiuti umanitari per costringerle ad avere rapporti sessuali. Stuprate anche alcune donne che andavano nelle basi dell’Amison per assistenza medica o per chiedere acqua. I responsabili dele violenze sarebbero militari provenienti dall’Uganda e dal Burundi.

Corriere 9.9.14
La polizia della sharìa delle jihadiste britanniche
Impongono il rispetto del Corano nel Califfato
di Michele Farina


LONDRA — «Venite con un paio di stivali per l’inverno, le vaccinazioni fatte e la voglia di sposarvi: vivere qui senza un uomo è difficile». Questi sono i consigli che Aqsa Mahmood, 20 anni, ex studentessa radiologa di Glasgow, dà alle aspiranti jihadiste che le chiedono dritte su Internet su come emigrare dalla Gran Bretagna nella terra del Califfato.
Sono circa 200 le donne occidentali nelle file dell’Isis, dice al Guardian Melanie Smith, ricercatrice del King’s College che segue sui social network le tracce di 21 ragazze britanniche che hanno abbracciato la lotta armata in Siria. Le francesi viaggiano in gruppo, le britanniche da sole. «L’età delle nuove reclute si sta abbassando: 19-20 anni la media». Le ultime arrivate sono meno radicali delle veterane sul piano religioso: «Partono per avventura, come i ragazzi», sostiene Smith. O con l’idea di combattere per una società nuova, «per difendere l’Islam dall’attacco dell’Occidente». Eppure una volta arrivate a Raqqa, la capitale del cosiddetto Stato Islamico proclamato da Abu Bakr Al Baghdadi, le aspiranti guerrigliere si trovano a vivere nelle retrovie. Stanno in casa, escono soltanto accompagnate da un uomo, frequentano le lezioni nelle moschee, postano commenti in Rete e foto che le ritraggono in pose belligeranti. Eppure è improbabile, secondo i ricercatori, che le donne abbiano un ruolo significativo nelle operazioni militari o partecipino alle esecuzioni dei prigionieri (come qualcuna ha millantato).
Una formazione interamente femminile però c’è: la brigata al Khansaa (dal nome di una poetessa cara a Maometto), che riunisce una sessantina di agenti velate con funzioni di polizia. Hanno il compito di individuare le donne da punire per il loro comportamento «contrario all’Islam». Secondo le ricercatrici del King’s College sono almeno sette le britanniche che militano nella «brigata buon costume», tre in posizioni di comando. La figura chiave sarebbe Aqsa Mahmood, l’ex studentessa modello che su Twitter esorta le amiche a organizzare attacchi: «Se non potete venire sul campo di battaglia, fate il campo di battaglia a casa». Tra le «pupille» di Aqsa ci sarebbero le due gemelle sedicenni Zahra e Salma Halane, fuggite da Manchester due mesi fa per diventare spose di terroristi dell’Isis. Zahra ha twittato recentemente immagini della sua nuova vita nella terra del Califfato. Una foto la mostra coperta di nero, con un kalashnikov a tracolla.
È più probabile che le sue armi quotidiane siano scope, spugnette e computer: il Califfo Al Baghdadi ha incoraggiato l’arrivo di donne dall’estero per sottolineare «la novità» dello Stato Islamico, con un territorio e un governo. In questo immaginario le donne sono un elemento cruciale (con un ruolo secondario). Le adepte britanniche, oltre che occuparsi di casa e figli, gestiscono buona parte delle comunicazioni e della propaganda via Internet. Curano l’iconografia da videogame, la giustapposizione di brutalità e tenerezza, decapitazioni e gattini che giocano con i kalashnikov, panini con la Nutella e coltelli, sofisticata strategia di «pulizia e riposizionamento del marchio» in chiave social. Malgrado la frustrazione per la condizione subalterna, poche donne credono possibile tornare indietro. Sally Jones, alias Sakinah Hussain, 45 anni, ex venditrice di profumi arrivata in Siria dal Kent con il figlio Jojo di 10, in uno scambio di email con il Sunday Times ha detto che in Gran Bretagna la metterebbero in carcere e butterebbero la chiave. Sally è partita per seguire Junaid Hussain, 20 anni, con cui aveva allacciato una relazione su Internet. Amori, ideali, avventura: questi erano i sogni delle donne della Brigata al Khansaa.

Corriere 9.9.14
Iraq, denuncia Onu
«I miliziani hanno ucciso settecento bambini»


BAGDAD — Uccisi, mutilati. Questa la sorte di almeno 700 bambini finiti nella mani dell’Isis. Altri costretti a combattere o a diventare kamikaze. La denuncia arriva dalla rappresentante speciale dell’Onu per i conflitti armati, Leila Zerrogui. «Sono rimasta inorridita per il disprezzo totale della vita», ha commentato l’inviata di Ban Ki-moon.

Corriere 9.9.14
E ora i sauditi costruiscono la Grande Muraglia anti-Isis
di Guido Olimpio


WASHINGTON — Il re saudita Abdullah, per ragioni di salute, non può muoversi tanto. E allora ha dovuto accontentarsi di un video e di alcuni plastici. Modellini della «grande muraglia» che il regno intende costruire per difendere i suoi confini dal nuovo nemico. L’Isis. Si chiamerà il «Custode delle due sacre moschee».
La notizia può suscitare sorpresa visto il comportamento dei petro-sceicchi. Da un lato hanno favorito — fin dagli anni 90 — la crescita di fazioni estreme, una manovra poi proseguita con il finanziamento dell’ala oltranzista della ribellione in Siria. Ma, come è avvenuto con il qaedismo, il genio è sfuggito dalla bottiglia. Ora a Riad temono che i jihadisti colpiscano anche in Arabia in quanto considerano la monarchia un nemico.
Ecco allora il piano di difesa. Il progetto prevede una doppia barriera composta da due muri di sabbia su cui verranno installate delle recinzioni per centinaia di chilometri. Questi i numeri: 78 torri di sorveglianza e comunicazione, 1,4 milioni di cavi di fibre ottiche, 50 telecamere, 50 stazioni radar, 3.397 soldati, 60 ufficiali supervisori, 8 posti di comando e controllo, 3 unità di pronto intervento, 32 postazioni «per interrogatori». Un apparato che ruoterà attorno a quattro grandi complessi a Tarif, Rafha, al Uqayqilah e Hafar al Batin. Ogni base includerà ospedale, prigione, sede dell’intelligence, poligoni per il training, moschee e luoghi si svago.
Lo sforzo militare è stato accompagnato da una serie di misure sempre in chiave anti-Isis. Il Grande Mufti di Riad Abdul Aziz al-Sheik ha emesso un decreto religioso (fatwa) che condanna lo Stato Islamico e autorizza i musulmani a combatterlo. Un segnale importante per togliere legittimazione religiosa ai seguaci del Califfo. Una scomunica che coincide con alcune retate eseguite dalla polizia. Decine di persone sono state arrestate perché sospettate di far parte di cellule terroristiche. Alcune vicine alla realtà jihadiste, altre colluse — sostengono le autorità — con i servizi segreti siriani.
Gli annunci dall’Arabia Saudita devono essere considerati su due livelli. Il primo internazionale. Il regno vuole dimostrare all’Occidente che è pronto a fare la sua parte e questo nonostante i ben noti rapporti con la nebulosa integralista. Il secondo interno. In passato i terroristi hanno compiuto attentati, anche spettacolari, in Arabia Saudita. Dunque serve vigilare per evitare sorprese in una partita piena di ambiguità e contraddizioni ma che è figlia dell’essenza stessa del regime.
Infine un particolare. Al fianco di Abdallah, durante la presentazione del muro, c’era il re del Bahrain, Hamad bin Issa. Un alleato impegnato nella repressione della protesta dentro i propri confini. E qui i nemici non sono i sunniti, ma gli sciiti filo-iraniani. Esempio di come lo scontro in Medio Oriente non sia mai schematico.

il Fatto 9.9.14
L’archeologo Daniele Lampasona
“In Siria la guerra uccide pure l’arte”
di Mimmo Lombezzi


Lavoravamo a Tell Mozan, antica Urkesh, nei pressi della città di Kamishli, situata nel nord-est della Siria, a pochi chilometri dal confine con la Turchia. La sera si andava a letto presto perché alle 5 di mattina si cominciava a scavare: a mezzogiorno le attività sul campo cessavano per l’eccessiva temperatura. Per fortuna avevamo un bravissimo cuoco che alternava le lasagne alla cucina siriana. Il pomeriggio si trascorreva nella “sala macchine” a studiare le ceramiche e inserire dati nei computer. Lo scavo concreto veniva effettuato da squadre di siriani, provenienti da tutti i villaggi vicini”. Daniele Umberto Lampasona, 30 anni, ricercatore specializzato nello studio dei Sumeri e della loro scrittura, a novembre partirà per Münster, dove continuerà per tre mesi le sue ricerche grazie a una borsa di studio tedesca, ma sa che per molto tempo non potrà tornare in Mesopotamia, il luogo delle sue “civiltà sepolte”. “Oltre al dolore per i morti provocati dalla guerra – dice – il cuore di ogni archeologo piange nel vedere castelli, templi e minareti bombardati, distrutti. La Siria è un paese bellissimo ed estremamente ospitale, e contiene reperti storici che vanno dalle città del III millennio a. C. ai templi greci e romani, dai castelli dei Crociati alle moschee omayyadi. Il Krak des Chevaliers, la più grande fortezza dei Crociati, patrimonio dell’Unesco, è stato ripetutamente bombardato anche dai caccia, passando sotto il controllo dei ribelli e successivamente dell’esercito regolare. La stessa Palmira, il sito archeologico più visitato del Paese, è stata in parte distrutta”.
Perché lavoravate a Tell Mozan?
Urkesh visse il suo momento di massimo splendore verso la fine del III millennio, quando i re urriti avevano forti legami con il vicino impero accadico. A differenza che nel sud, ad Urkesh veniva utilizzata per costruire anche la pietra, e questo ha consentito di rivelare strutture monumentali ancora molto affascinanti da vedere anche per i non addetti ai lavori. Le prime indagini furono compiute tra le due guerre mondiali dall’archeologo Max Mallowan e dalla sua più famosa moglie, Agatha Christie. La proiezione di “Murder in Mesopotamia” (in italiano “Non c’è più scampo”), un giallo ambientato in uno scavo archeologico e ispirato a un libro omonimo della Christie, era un must durante le settimane di scavo. Dal 1984 le ricerche sono state condotte da una missione internazionale, capeggiata dal professore della Ucla Giorgio Buccellati, con cui ho lavorato anche io, e i reperti sono conservati nel nuovo museo di Deir ez-Zor. L’ultima missione sul campo è avvenuta nel 2010. Per gli abitanti dei villaggi il lavoro a Mozan era molto ambito e tra gli scavatori c’erano anche insegnanti e commercianti. Un impiegato statale in Siria prende oggi all’incirca 100 euro al mese, da noi un operaio base prendeva un terzo. Spesso il problema era riuscire a dire di no a tutti quelli che volevano partecipare.
Oggi che fine ha fatto tutto ciò?
La guerra civile ha bloccato gli scavi già nel 2011. Sebbene la zona non fosse direttamente esposta agli scontri si è preferito fermare la spedizione e concentrarsi sull’analisi dei dati in un’altra sede. Nell’edificio destinato alla missione oggi ci sono i Curdi, ma lo scavo è intatto, e ad alcuni lavoratori è consentito di occuparsi della manutenzione. Kamishli è ormai un “governatorato” curdo che mantiene la pace, col consenso di Assad, ma la strada per Damasco è pericolosa perché l’est è in mano ai ribelli, e altrettanto pericoloso è il tragitto dall’aeroporto.
I siriani che rapporto hanno con il loro passato?
Ottimo. Prima di dirigermi allo scavo ho visitato con alcuni colleghi i musei delle principali città siriane. All’ingresso presentavamo un documento che ci qualificava come archeologi provenienti dall’Italia e i custodi ci accoglievano a braccia aperte chiedendo se fossimo amici di un tale “Paolo”. Ci abbiamo messo qualche minuto a capire che parlassero di Paolo Matthiae, ex professore di Archeologia del Vicino Oriente alla Sapienza di Roma e scopritore della città di Ebla, in Siria, il più importante ritrovamento archeologico della seconda metà del secolo scorso.
Com’è la situazione archeologica attuale?
In alcune zone gli scavi proseguono. Negli ultimi due anni la mia collega Yasmine Mahmoud ha scavato a Damasco nei pressi della moschea omayyade e in una zona in periferia, ma le indagini si sono interrotte sia per motivi economici che di sicurezza. Una volta mentre lavoravano è caduto un missile a poca distanza. La battaglia è in periferia, ma anche in città si può morire in ogni momento per i bombardamenti. La preoccupazione principale dal punto di vista archeologico riguarda l’impossibilità di rimediare a quanto successo, anche una volta terminata la guerra. Castelli e minareti potranno forse essere restaurati, ma altrove i contesti archeologici sono perduti per sempre, insieme a molti reperti. La Siria è talmente piena di siti archeologici che in alcune zone praticamente ogni collinetta contiene un’antica città: forse i siti più fortunati sono quelli ancora protetti dalla terra. Ieri al telefono Yasmine mi ha detto: “Siamo un paese senza futuro, e oramai anche senza passato”.

La Stampa 9.9.14
Turing, Hawking, Fischer, l’intelligenza è la nuova star
Al Festival di Toronto i biografilm sui due scienziati e lo scacchista
di Marco Consoli


Scienziati geniali in grado di cambiare il mondo, giocatori di scacchi folli, iconici trafficanti di droga, eredi di grandi dinastie risucchiati nella cronaca nera, paracadutisti leggendari, pittori dall’incomparabile talento. Il cinema, da sempre a caccia di storie epiche, al festival di Toronto riscopre le biografie, perché se gli sceneggiatori sono a corto di idee per inventare da zero personaggi memorabili che non siano eroi dei fumetti, ci si può sempre ispirare alla vita vera. E mentre a Venezia abbiamo visto le biografie di Pasolini e Leopardi, da questa parte dell’oceano sono i genii scientifici a farla da padrone, ad iniziare da Alan Turing, matematico londinese interpretato da Benedict Cumberbatch nell’atteso The Imitation Game. Il film reso vivace da dialoghi ricchi di humour, racconta l’impegno molto serio, e lo studio matto e disperatissimo, profuso dal giovane Turing e dai suoi colleghi (tra cui Joan Clarke, interpretata da Keira Knightley) durante la II guerra mondiale, per scardinare i segreti della macchina Enigma usata dai nazisti per mandarsi messaggi in codice.
Inglese e scienziato è anche Stephen Hawking che in The Theory of Everything è interpretato da Eddie Redmayne: il film, basato sulle memorie della prima moglie Jane (Felicity Jones) tenta di spiegare al pubblico a digiuno di nozioni scientifiche le sue complesse teorie, ma racconta anche l’amore per Jane e le difficoltà causate dalla malattia degenerativa che lo ha colpito. La pellicola, come le altre, non si sottrae dunque all’esercizio più difficile delle biografie, quello di raccontare la persona oltre il personaggio, evitando così di esaltare solo la grandezza storica di qualcuno, e cercando anche di mettere in luce le debolezze umane. Ecco quindi che Turing viene descritto come un ragazzo a proprio agio con le macchine e i numeri, ma in grande difficoltà con le persone, probabilmente per via dell’omosessualità a lungo nascosta che lo avrebbe poi relegato ai margini della società inglese segnandone il destino. Mentre il pittore britannico William Turner ci viene presentato in Mr. Turner come un uomo eccentrico, pieno di sé ma molto solo, disperatamente alla ricerca del contatto con il mondo femminile e caratterizzato da modi piuttosto primitivi.
Un’altra grande fragilità è quella di Bobby Fischer, l’eccezionale talento degli scacchi che finì per trasformare la propria ossessione per un mondo fatto di mosse e regole, e dunque teoricamente sempre sotto controllo, in vera e propria paranoia. In Pawn Sacrifice l’ex Spider-Man Tobey Maguire lo interpreta mettendo in scena una serie di stranezze lungo la strada verso l’inevitabile follia. Un ritratto sullo sfondo di un vero e proprio scontro tra due blocchi, quello occidentale e quello comunista, durante la Guerra fredda, rappresentati appunto da Fischer e dal campione russo Boris Spasskij, pedoni sacrificabili, per dirla in gergo scacchistico, in nome di una ghiotta occasione di propaganda delle superpotenze.
Tra tanti “eroi”, compreso il paracadutista Carl Boenisch, celebrato nel documentario Sunshine Superman, con il suo invito alla libertà celebrato con i lanci da montagne e grattacieli che hanno dato vita allo sport del base jumping, a Toronto c’è anche spazio per le anime nere. Un po’ di Italia c’è in Escobar: Paradise Lost, prima prova alla regia dell’attore Andrea Di Stefano, che cerca di raccontare il declino del trafficante di droga colombiano attraverso l’incontro fittizio con un surfista innamorato della nipote; e ne fa un ritratto al tempo stesso affascinante e pericoloso, anche grazie al carisma di Benicio Del Toro. Performance cui si può accostare per la futura stagione degli Oscar anche il comico Steve Carell che con un naso finto si cala nei panni di John du Pont, erede dell’omonima dinastia americana e uomo dai mille interessi che finì per uccidere l’amico e lottatore campione olimpionico Dave Schultz.

Corriere 9.9.14
Nel vivere e invecchiare abbiamo l’eroismo di Achille
Soltanto la normalità della vita quotidiana ci rende eroici ed esemplari
Non è l’io eccentrico ma ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore risultando utile alla comunità, a far risplendere la gloria del mito
di Javier Gomá


Testo della Lezione magistrale che terrà a Modena, domenica 14 settembre alle ore 11.30
©Consorzio per il Festivalfilosofia 2014. Traduzione dallo spagnolo
a cura di Michelina Borsari

L’Antichità ha visto nel sublime una forma del bello e quindi si è potuto parlare propriamente di una «bellezza sublime». Solo più tardi, durante l’Illuminismo (Burke e Kant), è stato istituito un antagonismo radicale tra il bello e il sublime [...] da cui è risultato un concetto di sublime non solo senza forma (informe, deforme, brutto) ma anche senza luce, privo cioè di claritas e pertanto tendente all’oscuro, al sinistro, al morboso e persino al demoniaco.
L’etimologia latina di «sublime» (sublimis ) designa ciò che è molto alto e «sublimare» ha significato dapprima l’atto di sollevare o elevare: sublime, insomma, si riferisce a ciò che è grande per altezza morale ed estetica. La modernità ha ignorato il concetto originario di grandezza come elevatezza e lo ha sostituito con un altro che lo assimila all’intensità del sentimento o al gigantismo dei grandi numeri (spettacolari opere di architettura, impensabile numero di stelle e galassie nell’universo). Questo cambiamento da una grandiosità qualitativa ad un’altra puramente quantitativa ha tralasciato quell’esemplarità che, per il suo carattere straordinario, è soprattutto degna di essere generalizzata socialmente mediante l’imitazione e di permanere nel tempo
***
Tuttavia, una modernità senza grandezza esemplare è una modernità senza gloria. Possiamo sentire, pensare e rappresentare il sublime nella cultura attuale? Molti direbbero no. La sola menzione del sublime suscita un cenno di scetticismo se non un’espressione di sarcasmo. Il cinismo imperante avrebbe sradicato dal mondo contemporaneo la possibilità stessa del grandioso; l’egualitarismo democratico avrebbe imposto un livellamento generale che lo esclude. [...] È proprio vero?
Longino già si chiedeva perché nella sua epoca scarseggiassero i poeti sublimi e trovava due ragioni. La prima: l’assenza di libertà democratiche durante l’Impero romano: «La democrazia è un’eccellente nutrice di geni e solo al suo interno fioriscono i grandi uomini di lettere». La seconda: la brama smodata di ricchezza e di piaceri dei suoi contemporanei, i quali, dominati dall’indifferenza, non guardavano verso l’alto e non intraprendevano mai nulla degno di emulazione e di onore.
Cosa dovremmo dire del nostro tempo? In questo inizio di XXI secolo la democrazia si è fermamente stabilizzata in Occidente, ma ovunque regna l’indifferenza verso il sublime. Perché? Solo per brama di ricchezza e di piaceri?
Senza un anelito di elevazione verso l’eccellenza, le culture si impoveriscono irrimediabilmente. Ogni epoca propone un ideale — greco, romano, medievale, rinascimentale, illuministico, romantico — che, come espressione suprema dell’essere umano, attrae per la sua perfezione, illumina l’esperienza individuale e mobilita l’entusiasmo latente facendo avanzare il gruppo verso una meta. Una società senza ideali — e il sublime è una forma di ideale — è condannata fatalmente a non progredire, a ripetersi e infine a decadere. [...]
Il mio libro Esemplarità pubblica (del 2009; tradotto in italiano nel 2011 da Armando Editore) propone una teoria dell’esemplarità egualitaria, alternativa all’esemplarità aristocratica che, in modo implicito, è stata egemone per millenni. Di questo libro interessa qui evidenziare solo uno dei suoi corollari antropologici. Nella concezione dell’individuo moderno l’ideale dell’esemplarità è stato sradicato perché la modernità si immagina un io autonomo, libero dall’imitazione e dalla guida di altri. Secondo questa concezione inoltre ciascun io è consapevole della propria irripetibile unicità e manca perciò assolutamente di quegli elementi comuni tra le persone che stanno a fondamento dell’imitazione di un modello esemplare.
In effetti, a partire da Herder ci siamo abituati a trovare il carattere dell’individualità umana solo in ciò che è differente, speciale, peculiare di ciascuno di noi: essere un individuo consiste nell’essere distinto, unico nel proprio genere; fare esperienza significa sperimentare la propria irripetibile singolarità. La rappresentazione moderna della soggettività prende in prestito le proprietà che Kant attribuiva esclusivamente al genio artistico: collocarsi al di sopra delle regole comuni, essere creatore e legislatore di se stesso.
La medesima avversione per ciò che è comune si trova anche nel Saggio sulla libertà di Stuart Mill, che presenta l’originalità del singolo come il «sale della terra». Loda la ricchezza, la varietà e pluralità delle forme dell’io e disprezza quanti operano secondo i costumi collettivi, per i quali sarebbe richiesta unicamente «la facoltà di imitazione delle scimmie». Per lui, i costumi — questo elemento imprescindibile di socializzazione e civilizzazione — sono il patrimonio della massa, della «mediocrità collettiva», rispetto alla quale raccomanda all’individuo di praticare l’«eccentricità».
L’ideale dell’esemplarità richiede una rappresentazione della soggettività che, anziché mettere l’accento sulla eccentricità che ci distingue, assuma invece positivamente ciò che è comune e che tutti condividiamo in quanto uomini. [...]
***
Tutti partecipiamo di un’esperienza comune, generale, oggettiva che si riassume nell’universale «vivere e invecchiare» degli uomini; un’esperienza fondamentale che, pur essendo la mia esperienza, è però anche un’esperienza generale. Siamo tutti ugualmente mortali e questo essere mortali ci è essenziale. Tutti noi che sulla terra viviamo e invecchiamo facciamo ugualmente parte dei «comuni mortali» e di fronte a questa esperienza decisiva qualunque differenza si mostra irrilevante o secondaria.
La condizione egualitaria e universale di essere dei «comuni mortali» crea i presupposti antropologici dell’esemplarità. Solo se vi è un sostrato comune che lega gli uomini tra loro diventa possibile l’imitazione di un modello, e questo accade perché l’esemplarità contiene per sua natura una chiamata alla ripetizione e può essere ripetuto solo l’esempio di qualcuno con cui si ha o si può avere qualcosa in comune.
È quanto accade anche ad Achille, l’eroe del mito [...]. La sua esperienza fondamentale (quella di apprendere ad essere mortale) è anche la nostra. Achille non solo è il protagonista di un bel mito antico, [...] ma racchiude il paradigma permanente dell’umano. La sua gloria è anche la nostra.
Tutti noi, uomini e donne, [...] abbandoniamo come Achille il gineceo della nostra adolescenza e ci imbarchiamo sulle navi greche con gli altri eroi in direzione di Troia, dove moriremo nella lotta per guadagnarci un nome, quello della nostra individualità personale plasmata nell’elemento della mortalità condivisa. Questa traversata di mare simboleggia l’impresa, comune a tutti gli uomini in tutti i tempi e luoghi del mondo — impresa permanente e mai del tutto compiuta — di apprendere la nostra condizione mortale.
***
La sublime grandezza di Achille si ripete poi in tono più quotidiano ma altrettanto eroico nella vita di ciascuno di noi. Quell’io che avanza nel cammino e passa dal gineceo a Troia è il nuovo Achille, l’attualizzazione contemporanea dell’eroe esemplare, la reiterazione del migliore fra gli uomini.
Lo stadio etico oltrepassa l’universo della fase precedente, ma ne conserva un momento estetico che, coniugato con l’eticità, illumina l’individualità umana. Questa, l’individualità, capolavoro dello stadio etico, costituisce l’esperienza comune, generale e normale dell’uomo in quanto uomo. Montaigne replica anticipatamente a Mill e alla sua dottrina dell’io eccentrico quando, nell’ultima pagina dei suoi lunghi Saggi annota una delle sue convinzioni più profonde: «Le vite più belle sono, a mio parere, quelle che si adattano al modello comune e umano con ordine ma senza miracoli, senza stravaganza».
In realtà, ogni uomo che nasce, lavora, si fa una casa e muore, partecipa dell’intensità e della drammaticità del dilemma di Achille. Contempliamo questo io quotidiano — capofamiglia responsabile e professionista competente — che invecchia compiendo il suo dovere senza stravaganza e torna a casa ogni giorno dopo una giornata monotona e prevedibile, sì, ma utile per la comunità: in questo io della medietà, di un’esemplarità senza rilievo, risplende la gloria dell’antico eroe.
Perché in questo io si deve giustamente ammirare l’atto eroico di assumere la propria mortalità, anche se questo eroismo per lo più è velato dal sereno compimento del proprio dovere e dall’assenza di manierismo propria dello stadio etico.
Anche se il romanticismo, facendo del genio artistico il modello dell’individualità moderna, ci ha resi incapaci di cogliere la nobile semplicità e la serena grandezza dell’etica normale, la più alta missione dell’uomo consiste nel meritare questa normalità. Lungi dal non essere all’altezza dell’uomo, non ne esiste al mondo una più grande e degna di lui, e costituisce un compito così vasto da richiedere un’intera vita.

Repubblica 9.9.14
L’altro martirio
I delitti nella missione in Burundi non possono che essere considerati un sacrificio Perché quelle donne sono state uccise per la loro testimonianza
di Vito Mancuso


MENTRE scrivo non si hanno notizie sull’identità dell’omicida delle tre suore italiane missionarie in Burundi, si sa solo che suor Bernardetta Bogianni, suor Lucia Pulici e suor Olga Raschietti sono state uccise secondo modalità estremamente violente.
CHE si tratti di una morte che il cristianesimo usa definire “martirio” (vale a dire “di testimonianza”, martire in greco significa “testimone”) credo non ci siano dubbi. Ma quale martirio? C’è un martirio che definirei istituzionale e ce n’è un altro che chiamerei esistenziale. Nel primo caso si è uccisi semplicemente perché cristiani, come è successo di recente in Iraq a causa dei miliziani del Califfato, o in Nigeria a causa dei terroristi islamici di Boko Haram o in Siria, Pakistan, Egitto e altri in paesi musulmani, e persino in India a causa di fanatici hindu. La cosa non riguarda solo i cristiani perché si viene uccisi anche in quanto yazidi, come nel nord dell’Iraq, oppure in quanto ebrei, come avveniva sotto il regime nazista e in certi periodi del medioevo e come avviene ancora oggi: in questi e in altri casi si viene uccisi del tutto a prescindere dal livello della testimonianza personale, ma solo per il semplice fatto di appartenere a una determinata religione o a un determinato popolo. Impossibile non notare però che da qualche anno a questa parte in diverse zone del mondo la fede cristiana è sempre più nel mirino degli estremisti: secondo l’istituto di ricerca americano Open Doors International dal 1 novembre 2012 al 31 marzo 2014 si sono registrati 5479 cristiani uccisi per la loro fede, una media di 322 morti al mese, oltre 10 al giorno. Come mai? Che cosa c’è nel cristianesimo contemporaneo che infastidisce così tanto i fanatici e gli estremisti?
Nel caso del martirio esistenziale si è invece uccisi proprio a causa della testimonianza personale, nel senso che la peculiarità dell’azione condotta è tale da generare una reazione violenta in chi ha altri ideali e percepisce l’azione del testimone, e prima ancora la sua stessa presenza, come una pericolosa minaccia: è stato il caso del primo martire cristiano, santo Stefano, di Ipazia di Alessandria (filosofa pagana uccisa da monaci cristiani), prima ancora è stato il caso di Socrate e di Gesù, e ai nostri giorni il caso di don Santoro e monsignor Padovese in Turchia e di molti altri missionari nel mondo, nonché il caso di don Diana e di don Puglisi a casa nostra.
Al momento non è dato sapere se le tre suore saveriane siano state uccise in odio al cristianesimo, cioè come martirio istituzionale, o a causa della loro specifica azione sul territorio, ma visto il tipo di paese che è il Burundi (cioè a grande maggioranza cristiana e assente dalla lista dei primi 50 paesi più pericolosi per i cristiani) è più probabile che il loro martirio abbia a che fare con la loro specifica azione tra la gente, più che essere un ennesimo episodio della persecuzione dei cristiani nel mondo. Se fosse vera questa mia analisi, le tre suore italiane non sarebbero state uccise perché genericamente cristiane, ma perché agivano concretamente da cristiane. Ai microfoni di Radio Vaticana padre Mario Pulcini, superiore dei Saveriani in Burundi e da molti anni accanto alle tre suore, ha dichiarato che Lucia Pulici lavorava in campo medico dove aveva curato migliaia di malati, Olga Raschietti era attiva nell’insegnamento, Bernardetta Bogianni si dedicava soprattutto alla promozione delle ragazze cui insegnava scuola di taglio e cucito. Un caro amico saveriano, padre Luciano Mazzocchi, mi ha scritto che esse vivevano nel quartiere più disagiato della capitale Bujumbura, luogo di violenti scontri tra Hutu e Tutsi, dove promuovevano la conciliazione fra queste due etnie aprendo laboratori comuni per i giovani delle due etnie e favorendo la condivisone sociale. Probabilmente questa loro azione, per di più compiuta da donne, ha scatenato la reazione atavica che le ha condotte alla morte.
Un altro martire cristiano, il matematico, teologo e sacerdote ortodosso Pavel Florenskij (ucciso l’8 dicembre 1937 nei pressi dell’allora Leningrado dal regime comunista) scriveva alla moglie Anna il 13 febbraio 1937: “Sì, la vita è fatta in modo che si può dare qualcosa al mondo solo pagandone poi il fio con sofferenze e persecuzioni. E più il dono è disinteressato, più crudeli sono le persecuzioni, e dure le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma di base”. Lucia, Olga e Bernadetta, tre libere donne seguaci degli ideali del Cristo, testimoniano ancora una volta la tragica sorte che il bene radicale subisce spesso in questo mondo.

Repubblica 9.9.14
I dati Ads, buona prova dell’Espresso
Repubblica sempre prima per le vendite in edicola


ROMA La Repubblica si conferma il quotidiano più venduto nelle edicole italiane. L’indagine di settore Ads, relativa a luglio del 2014, assegna al quotidiano diretto da Ezio Mauro 273 mila 502 copie (contro le 269 mila 687 del più diretto concorrente, il Corriere della Sera ). L’abbinamento con Il Venerdì spinge le vendite in edicola di Repubblica oltre il tetto dei 356 mila esemplari (siamo, per la precisione, a 356 mila 635). Alla voce “vendite copie digitali”, il Corriere si ferma a quota 58 mila 866 mentre La Repubblica è a 63 mila 514. In edicola il quotidiano La Stampa ha all’attivo vendite per 171 mila 152 (sempre a luglio del 2014).
Tra i quotidiani locali del Gruppo L’Espresso, si segnala la prova del Tirreno di Livorno con 54 mila 604 copie. La Gazzetta di Mantova festeggia i suoi 350 anni di vita con vendite in edicola pari a 20 mila 234 copie. Infine il Centro di Pescara è a 17 mila 558.
Il settimanale L’Espresso – tra i numeri diffusi nelle edicole italiane, la platea dei suoi abbonati e i clienti digitali che lo leggono via tablet – si avvicina al traguardo delle 200 mila copie vendute.

il Sole 9.9.14
Secondo i dati Ads a luglio sono state superate le 186mila copie «2.0», con un incremento dell'1,9% rispetto al mese di giugno
Il Sole 24 Ore accelera sulle copie digitali
A quota 363.646 (+23% annuo) la diffusione complessiva per il quotidiano del Gruppo 24 Ore
di Andrea Biondi


Il mese di luglio si è chiuso in sostanziale stabilità per i quotidiani italiani. Non una sorpresa: in fondo i mesi estivi portano acqua al mulino dei giornali sportivi, ma poco più. E così i 4,36 milioni di copie diffuse a luglio sono aumentati dell'1,2% rispetto a giugno, che comunque non era stato un mese buono, con diffusioni e vendite in flessione.
A ogni modo, quello che i dati Ads sulle diffusioni e vendite di quotidiani a luglio restituiscono come messaggio forte per il mercato editoriale è l'appeal sempre crescente delle copie digitali. Che prendono spazio nelle strategie di vendita degli editori (la tendenza è sempre più evidente) e anche, ovviamente, nel gradimento dei lettori. Solo così del resto si può spiegare il quasi raddoppio (+55%) fra luglio e lo stesso mese dello scorso anno. In cifre, le 63 realtà editoriali hanno raggiunto un totale di copie digitali vendute che ha superato il mezzo milione. Per la precisione le copie «2.0» vendute a luglio erano 508.035. Solo un anno prima erano 327.506 e pesavano per il 7% sul totale dei quotidiani diffusi nel mese. Ora, a luglio di quest'anno, la percentuale è salita al 12 per cento.
Gli editori dunque – chi più, chi meno – stanno cercando di far tesoro del digitale e delle opportunità che si sono aperte con la sempre maggiore diffusione di tablet e smartphone, miscelando a proprio piacimento le tre forme di vendita delle copie «2.0» riconosciute dal Regolamento Ads (che da gennaio 2013 ha iniziato il computo delle edizioni digitali vendute dai quotidiani). Le tre forme di commercializzazione sono: la vendita della copia singola; la vendita delle copie multiple (quelle che vanno alla grande clientela come banche, assicurazioni, associazioni, che poi distribuiscono le copie ai propri dipendenti o dirigenti) e la vendita in abbinata carta-digitale (il bundle). Alla fine, quel che emerge è una situazione "di non ritorno", visto che i dati Ads diffusi ieri alla voce delle copie digitali presentano il numero "zero" solo per una realtà editoriale: La Sicilia.
Certo, i numeri dovranno crescere per vedere qualche significativo impatto sui conti economici, anche perché per regolamento Ads, frutto di un accordo fra gli stessi editori, le copie digitali possono essere certificate con sconti fino al 70% rispetto al prezzo medio di copertina (50% se al prodotto digitale è abbinata la copia cartacea).
Ma ormai la strada è tracciata. Per il Sole 24 Ore, per esempio, luglio è il terzo mese consecutivo in cui le copie digitali hanno superato quelle cartacee vendute in edicola e in abbonamento. Si parla di 186.712 copie digitali contro 171.836 solo cartacee.
È senz'altro un cambio di paradigma storico, dunque, quello che sta investendo il quotidiano del Gruppo 24 Ore che a livello nazionale è il primo per diffusione di copie digitali, in crescita dell'1,9% rispetto a giugno e del 111,6% rispetto a luglio 2013. Nuove copie quindi che hanno permesso al Sole 24 Ore di registrare una crescita del 23% nella diffusione complessiva, che comprende al suo interno il dato della carta e del digitale. In questo modo le copie complessive hanno raggiunto quota 363.646, avvicinandosi di molto, rispetto a luglio del 2013, ai due battistrada: Corriere della Sera e la Repubblica. I mesi autunnali saranno dunque della massima importanza per capire i margini di miglioramento, più di luglio che invece, a causa della stagionalità e dell'assenza dell'attività dell'Osservatorio Giovani-Editori (la principale voce che pesa sulle "Altre vendite" scese del 16,9%) ha visto mancare qualche numero all'appello (-1,2% la diffusione cartacea+digitale).
Riguardo alle due principali realtà, il Corriere della Sera, che si conferma il primo quotidiano per diffusione e vendite a livello nazionale, ha chiuso a luglio a 405.230 copie, in leggera flessione dell'1,4% rispetto a giugno e dell'8,7% rispetto all'anno precedente. Calo rispetto a luglio 2013 anche per la Repubblica, che a luglio aveva il 5,9% di copie diffuse in meno, pur avendo aumentato rispetto a giugno dell'1,8 per cento. Corriere della Sera e la Repubblica sono anche i quotidiani che più degli altri, insieme al Sole 24 Ore, stanno battendo la strada delle copie «2.0». Il quotidiano di via Solferino è infatti secondo in classifica con 86.565 copie certificate, mentre la Repubblica è a quota 68.610. Nel primo caso il confronto è negativo del 2,5% rispetto a giugno (ma con crescita del 17,5% rispetto a luglio 2013); per il quotidiano diretto da Ezio Mauro rispetto a giugno le copie digitali sono invece cresciute del 2,1% (+44,6% rispetto a luglio 2013). Riguardo alle altre realtà editoriali, la Gazzetta dello Sport è rimasta sopra alla Stampa nella top ten dei quotidiani con diffusione cartacea+digitale comunque in calo (-4,3%). La Stampa è sostanzialmente rimasta stabile rispetto a giugno (+0,4%) ma in calo su luglio 2013 (-1,8%). il Messaggero ha chiuso con -0,8% di copie rispetto a luglio 2013 (-0,8%), mentre hanno perso di più sia il Qn Il Resto del Carlino (-5,7%), sia il Giornale (-10,2%).