mercoledì 10 settembre 2014

La Stampa 10.9.14
Il pranzo con i nuovi cardinali: c’è sintonia
di G. G. V.


CITTÀ DEL VATICANO — Finita la stagione dei «temi etici» in primo piano, ci si sofferma (e c’è «sintonia») sul lavoro, la crisi e la sofferenza delle famiglie, l’immigrazione e la necessità che l’Europa non lasci sola l’Italia, soprattutto sui temi internazionali: con una «sostanziale intesa», in particolare, sulla via diplomatica e «politica» per risolvere i conflitti, dall’Iraq all’Ucraina. Il pranzo di ieri tra il premier Matteo Renzi e i nuovi cardinali italiani, a cominciare dal Segretario di Stato Pietro Parolin, non poteva avere le caratteristiche di un vertice: non c’era una «agenda» fissata ma sedici persone, tra esponenti vaticani e governo italiano — compresi Lotti, Alfano, Mogherini, Boschi e Lupi — che hanno conversato a tavola per un paio d’ore a Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, un appuntamento tradizionale con l’ambasciatore Francesco Maria Greco a fare da ospite. Clima disteso, battute. «Un incontro molto sereno, si è parlato di lavoro e occupazione, temi che stanno a cuore a tutti», spiegava il cardinale di Perugia Gualtiero Bassetti, che dopo la solidarietà di Francesco agli operai delle acciaierie di Terni («Con il lavoro non si gioca!», ha detto all’Angelus, «rivolgo un accorato appello affinché non prevalga la logica del profitto») racconta: «Il premier mi ha rassicurato, di più non posso dire ma sembra esserci uno spiraglio positivo». Si è parlato della prossima visita di Francesco, il 21 settembre, in Albania, il Paese più musulmano d’Europa, e dell’attesa per il viaggio in Turchia a fine novembre, cui si lavora da quando il patriarca ortodosso Bartolomeo lo propose al Papa, a maggio: si attende solo l’invito formale del governo turco «ma siamo fiduciosi», hanno spiegato i vertici della Segreteria di Stato. In Vaticano non ci sono preoccupazioni particolari per la sicurezza e si vuole evitare di fare il gioco dei fondamentalisti che vogliono uno scontro di religioni: la strada, condivisa dal governo, è al contrario il dialogo con il mondo musulmano aperto al confronto, per isolare i fanatici islamisti.

Corriere 10.9.14
Le attività criminali nella contabilità
La verità (ingannevole) di un Pil che cambia
di Danilo Taino


Nel marzo 1968, Robert Kennedy, in quel momento candidato alla presidenza degli Stati Uniti, in un famoso discorso notò che il calcolo del Prodotto nazionale lordo comprendeva le testate nucleari, il napalm impiegato in Vietnam, le spese per le prigioni e altre cose più o meno orribili; ma non considerava la bellezza della poesia e la forza dei legami matrimoniali. C’era parecchia retorica in quelle parole. Quel discorso, però, torna alla mente alla luce della rivalutazione del Pil annunciata ieri dall’Istat.
Torna alla mente e ricorda che il Pil è importante ma non è tutto. Sarebbe dunque una buona idea approfittare dell’introduzione nella contabilità nazionale di certe attività criminali, della prostituzione e degli investimenti per ricerca e sviluppo — cioè di quel che ha fatto ieri l’Istat — per rimettere al suo posto quello spettro con le catene, il Pil appunto, che da un po’ di anni ha preso posto nel salotto degli italiani (e non solo nel loro, naturalmente).
Sembra diventato un vitello d’oro, dal quale dipende il nostro benessere. Ma non c’è niente da adorare: ora è fatto anche di cocaina e di contrabbando. Non è un fine: è uno strumento statistico, senza meriti e senza colpe, senza idee e senza morale, con il quale misurare le attività volontarie che si svolgono in un Paese. E neanche troppo preciso, a dire il vero. Sarebbe meglio considerarlo un numero utile per fare confronti internazionali (se tutti usano gli stessi criteri).
Il Pil non misura infatti il mondo: quello che vi succede, la sua poesia e le emozioni dei matrimoni, non ci finiranno mai dentro. Non misurerà mai la felicità, come d’altra parte nessun’altra statistica riuscirà a fare. Misurerà le differenze tra noi e la Germania, i cambiamenti tra una società che prende atto della prostituzione e della marijuana e una che non ne voleva sentire parlare, potrà persino suggerire quanto vuole essere moderno, o quanto poco nel caso dell’Italia, un Paese che investe o non investe in ricerca e innovazione. Ma sarà sempre un numero più piccolo della realtà. Fino alla Grande Depressione degli anni Trenta, il Pil non esisteva. Oggi rischia di diventare un feticcio, o un’ossessione.
Non facciamone un gran caso, o uno scandalo, dunque, della decisione dell’Istat: si adegua al mondo, ci aiuterà ad abbassare di qualche decimo di punto il peso del debito nazionale ma, per il resto, non cambierà l’Italia. Forse aiuta a dare disciplina. Le rivoluzioni, però, non le fanno gli statistici — ci ricordava Robert Kennedy.
Danilo Taino

il Fatto 10.9.14
Primarie Pd, tutti indagati. Emilia Romagna nel caos
I due candidati renziani, Richetti e Bonaccini, finiscono nell’inchiesta sulle spese pazze in Regione
Il primo si ritira, il secondo resiste. Il premier (sotto tono) tace e da Vespa ammette che l’economia non è ripartita. Poi congeda Cottarelli
di Luca De Carolis


Un altro diluvio nella terra rossa, dove il partito è quasi tutto. Il caos nel campo renziano, con un candidato, Richetti, uscito dalla pista e un altro, Bonaccini, con un piede mezzo e fuori. Dall’Emilia Romagna dove domenica Matteo Renzi si era autocelebrato con camicia bianca e tortellini in brodo, piovono pietre sul Pd. Quelli che erano i due principali candidati alle primarie per le Regionali del 28 settembre, i renziani Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, sono indagati per peculato nell’inchiesta della Procura di Bologna sulle spese pazze in Regione, assieme ad altri sei ex consiglieri del Pd. Un altro terremoto giudiziario per i Dem, che nel luglio scorso avevano perso il governatore Vasco Errani, dimessosi dopo la condanna in appello a un anno di carcere per falso ideologico.
UNA ROGNA gigantesca per Renzi, che ora pensa di lanciare Delrio come candidato unico, azzerando le primarie. Ma che deve fare i conti con i bersaniani, che vogliono puntare di nuovo su Daniele Manca, il sindaco di Imola uscito dalla corsa vista la folla di renziani in campo. La certezza è che Richetti si è ritirato già nella tarda mattinata di ieri, quando la notizia ha cominciato a circolare. Il segretario regionale Bonaccini, della cui iscrizione si è appreso in serata, formalmente è ancora in campo. Ieri sera ha parlato all’Ansa: “Ho appreso che la procura sta svolgendo accertamenti anche sul mio conto e ho già comunicato di essere formalmente a disposizione per chiarire ogni eventuale addebito. Confido di poter dare ogni chiarimento”. Il segretario vorrebbe resistere. Ma pare impossibile che possa restare in corsa, a fronte del ritiro di Richetti e di un’inchiesta che vede indagati altri sei ex consiglieri dem (almeno per ora). Tutti coinvolti nell’inchiesta partita nell’ottobre 2012, che un anno dopo aveva portato agli avvisi di garanzia per tutti i nove capigruppo dei partiti presenti in Regione. Accusati di peculato per spese ingiustificate, almeno a detta dei pm: da romanzi a fiori, fino a profumi, gioielli, forni a microonde e perfino aspirine. I beni più svariati, per cui avevano chiesto e ottenuto rimborsi con soldi pubblici. Ora nella vicenda compaiono anche Richetti e Bonaccini. Dell’iscrizione hanno saputo poche ore fa, dopo aver chiesto formalmente alla procura tramite i propri legali se fossero sul registro degli indagati. Risposta affermativa, e il copione delle primarie dem è stato stravolto. Si è fatto da parte Richetti, il renziano doc che il 27 agosto si era lanciato contro il parere del partito e di Renzi che volevano un candidato unitario, Manca., vicinissimo a Errani. Il ritiro lo ha comunicato con un messaggio: “Tra ieri notte e stamattina dovuto prendere una decisione, di quelle che non ci dormi. Mi fermo qui, ci sono cose di fronte alle quali ci si ferma”. Nessun cenno all’avviso di garanzia, di cui si è appreso poco dopo. “La rinuncia non è affatto legata all’indagine” assicura il suo avvocato, Gino Bottiglioni. Ma l’inchiesta ha pesato come una montagna sul deputato, che lascia anche per problemi personali. E non solo. Raccontano che lamentasse l’isolamento da parte dell’apparato di partito, che lo percepiva come un corpo estraneo. Apparato più vicino a Bonaccini, ex bersaniano. Ma le novità dalla procura potrebbero travolgere anche il segretario, ieri pomeriggio rinchiusosi nel silenzio dopo aver cancellato un impegno pubblico a Reggio Emilia. Neppure una sillaba, ma un gesto simbolico: il cambio della copertina della sua pagina Facebook, dovehapostatounlink che rimandava al suo sito in allestimento, con scritta: “Il futuro cambia, cambiamo il futuro. Stefano Bonaccini Presidente”. Come a dire, io non mi sposto.
MA LA REALTÀ racconta del caos nel partito, con l’ennesimo candidato renziano Roberto Balzani che ha già presentato le firme per le primarie (il termine ultimo è domani). E di un’area Civati che ragiona se presentare un candidato nuovo di zecca. Soprattutto, prefigura una nuova mossa di Renzi, che per ripartire pensa di azzerare tutto, lanciando come candidato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Il salvatore della patria perfetto: ex sindaco di Reggio Emilia, gradito a tutte le aree. Che con il premier è in rotta da tempo. Potrebbe essere una via d’uscita per entrambi, rottamatore ed ex sindaco. Ma prima bisogna fare i conti con i bersaniani, che ora reclamano Manca, l’ex candidato unitario che Renzi non aveva saputo imporre. Una trattativa che si incrocerà con la complicata partita della segreteria unitaria. Mentre pare residuale l’ipotesi del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. A margine, la rabbia dell’ex assessore regionale Mezzetti (Sel): “La procura dica chi vuole come presidente”.
(ha collaborato David Marceddu)

il Fatto 10.9.14
Mauro Zani Compagno contro
“Sono gentucola, non mi stupisco”
di Emiliano Liuzzi


Un comunista d’altri tempi, Secondo Zani, detto Mauro. Classe 1949, è stato segretario regionale del Partito comunista in Emilia Romagna, ha aderito al Pds e poi ai Ds. Si fermò alla nascita del Pd. Mai entrato. “Perché non era neanche lontano parente di quelli che noi eravamo stati. Così me ne andai. Fu traumatico, perché ero cresciuto in sezione, non lasciavo solo compagni di partito, ma i fratelli di una storia mia, della mia famiglia, della mia città, Bologna”. Uno di quei nomi, quello di Zani, che giocavano nell’ombra, ma che aveva un’importanza vitale per il partitone, nei rapporti col territorio, con le imprese cooperative e, soprattutto, come anello di congiunzione tra Bologna, la città più rossa d’Italia, e Roma.
Partiamo dalla fine?
Sì, dalla fine della sinistra. Che coincide con la nascita del Pd.
Perché?
In quell’atto costitutivo veniva citato più volte Alcide De Gasperi e mai la parola sinistra. Per questo me ne sono andato.
E non le dispiace vedere il Pd in queste condizioni?
Non saprei. Ma a cosa si riferisce? A Matteo Renzi, a quel Matteo Richetti o all’altro, come si chiama? Stefano Bonaccini.
Oggi la notizia sono Richetti e Bonaccini.
Per la questione dei rimborsi, immagino. Non ho ancora ben capito, ma non riesco a stupirmi. Forse non mi stupisco perché il partito è senza classe dirigente, dunque può accadere di tutto. Anche quella cosa immorale dei rimborsi.
Li conosce?
No, e non vedo perché dovrei farlo adesso. Sono gentucola, niente altro che gentucola.
Neanche Bonaccini? È stato suo successore.
No, chiese di incontrarmi poi sparì. Però non direi mio successore, lui è stato segretario regionale del Pd, io nel Pd non ho mai messo piede.
Siete politicamente parenti, in qualche modo.
No, neanche alla lontana.
Ma di chi è la responsabilità: tutta di Renzi?
Figuriamoci, Renzi porta a compimento un disegno che era iniziato con Veltroni. Ed è quello che si conclude con il patto del Nazareno.
Lei ha capito su cosa si basa quel patto?
Anche uno stupido lo capirebbe: è il progetto di un partito unico nazionale. Con Berlusconi.
Anche D’Alema ci ha messo lo zampino, dunque?
Certo, anche lui.
E Bersani?
Poveretto, a un certo punto l’aveva capito. E si era inventato il riformismo. Che non voleva dire nulla.
Lei sembra pieno di risentimento.
Come non potrei. Ma sono amareggiato, soprattutto. Tuttavia non dispero. Questi con la controriforma costituzionale e la legge elettorale cercano di farci fare un salto indietro di cento anni. Se non l’abbiamo capito, è grave. E Renzi, o il Pd, dipende, rappresentano il 20 per cento degli italiani. Io me ne frego se sbandierano il 40. Quale 40? Sono il venti.
Durerà la generazione dei Renzi, Bonaccini e Richetti?
Vabbè, Bonaccini e Richetti non li calcolo. valgono zero. Per Renzi avevo previsto 20 anni. Visto come si muove mi sono ricreduto: non arriva a primavera.

il Fatto 10.9.14
“Regionali che?” Renzi da Vespa fa scena muta
Sul caso del giorno neanche una parola
Il premier però fa sapere che resterà alla guida del Pd
di Wanda Marra


Nessuno glielo chiede e lui non dice una parola. Mentre la partita per la presidenza dell’Emilia Romagna precipita nel caos più assoluto, il premier, nel salotto di Bruno Vespa, che lo ospita per una prima in grande stile, si guarda bene da affrontare il tema. Un silenzio che salta doppiamente agli occhi visto che il conduttore gli serve un piatto di tortellini. “Faremo il patto del tortellino in Europa”, aveva scherzato il segretario-premier, circondato dai giovani leader del Pse domenica alla Festa dell’Unità di Bologna. Una bella appropriazione del simbolo emilian-bersaniano. Ma evidentemente la situazione in quella Regione gli è del tutto sfuggita di mano. Prima, con il tentativo (fallito) di trovare una “soluzione unitaria” sul nome di Daniele Manca, il sindaco di Imola, voluto da Errani. Ora, con i due candidati di punta alle primarie, Matteo Richetti e Stefano Bonaccini indagati, il primo ritirato, e il secondo decisamente in bilico. “Presidente, con Richetti e Bonaccini indagati cosa succederà per le primarie in Emilia-Romagna? ”, gli chiedono i cronisti all’uscita dallo studio di Vespa. “Buon lavoro”. Nessuna risposta.
A Porta a Porta il premier appare stanco, decisamente meno brillante del solito. Si inceppa sui tecnicismi, come quando cerca di spiegare il pagamento dello stato dei debiti della Pa. I fronti aperti sono tanti, e su tutti i piani. Non si fa mancare le promesse: “Penso e credo che nella legge di stabilità avremo un’ulteriore diminuzione delle tasse sul lavoro. Ci sono varie ipotesi sui modi e la finanziamo con la riduzione della spesa”. In effetti, lo stesso ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan sabato scorso alla festa del Pd di Bologna aveva parlato della possibilità di ridurre le tasse per le imprese, l’obiettivo cui sono finalizzati i tagli nei ministeri.
MA INTANTO lo Sblocca Italia non è ancora arrivato al Quirinale. E sono passati dieci giorni dal Cdm che lo ha teoricamente licenziato. E ancora, sugli statali: “I denari per risolvere gli sblocchi dei salari e gli scatti, secondo i ministri già possono essere trovati". Annuncio quest’ultimo decisamente in contrasto con quanto dichiarato dal ministro per la Pa, Madia, che si era presa l’onere di far sapere del blocco agli stipendi degli statali. A proposito di pubbliche sconfessioni.
E AL COLLE non ci è arrivato nemmeno il decreto sulla giustizia civile. A via Arenula erano certi che sarebbe stato sul tavolo del Colle già lunedì. Ma l’Anm è sul piede di guerra, la quadra non si trova. Problemi, uno dopo l’altro. Non manca l’ammissione sul Pil: “Quest’anno balleremo intorno allo zero”. La ripresa non c’è, la versione ufficiale dalle parti di Palazzo Chigi è che dipende da condizioni pregresse. Ma a Renzi tocca rispondere alla critica: “Mi accusano di essere troppo sorridente. Dietro questo sorriso c’è tanta voglia di faticare e lavorare”. Non si risparmia le battute e gli affondi neanche questa volta Renzi. Arrivano “i professionisti della tartina”. “C’è un sacco di gente che in 20 anni ha fatto tanti convegni, io li chiamo i professionisti della tartina, che dicono l’Italia non ce la fa e poi va in vacanza in Australia”. Però, nel frattempo, anche le riforme sono di là da venire. Se è per l’Italicum in Senato, non è ancora stato incardinato neanche in Commissione Affari costituzionali. Alla Camera l’approdo in Aula delle riforme arriverà non prima di 60 giorni, a occhio e croce. Anche lì, c’è prima la Commissione. Si tratta a 360 gradi, con i bersaniani (e le minoranze in senso ampio) sul piede di guerra per un posto in segreteria. E pronti al ricatto su tutto (dall’Emilia, alle riforme, passando per l’economia). Per dirla con Miguel Gotor: “Noi ci stiamo a fare una segreteria unitaria, ma se c’è una vera condizione per lavorare insieme. Per ora non sembra così”. Ha un bel dire Lorenzo Guerini che “ci sono le condizioni per una segreteria unitaria”. Per adesso, la situazione è in stallo. Direzione domani, con Renzi che comunque non ha nessuna intenzione di fare passi indietro nè per quel che lo riguarda: (“Dimettermi da segretario? Non ci penso proprio”), né sulle questioni in campo. In questo clima non manca neanche la battuta sul governo salta agli occhi: “Quanto durerà? Certo meno di Porta a porta”. Rimpasto in vista, modalità e nomi nel caos più totale.

Corriere 10.9.14
Dimissioni e indagini per il Pd emiliano
L’incapacità di affrontare Primarie vere
di Armando Nanni


Quello che sta succedendo in Emilia-Romagna, con le presunte primarie per la scelta del candidato alla presidenza della Regione (la poltrona che per 15 anni è stata di Vasco Errani), ci mostra un Partito democratico molto diverso da quello mediatico, giovane e in maniche di camicia che abbiamo visto anche domenica con il Renzi della Festa dell’Unità. Il candidato più «renziano», Matteo Richetti, lunedì sera ha deciso di ritirarsi e ieri mattina lo ha annunciato non senza far capire che quella scelta «in nome dell’unità» era frutto anche di un «invito arrivato da più parti». Quindi campo libero a Stefano Bonaccini, il renziano della seconda ora più vicino alle tradizioni della Ditta, ovvero Errani e Bersani. Proprio il Bersani che domenica alla Festa dell’Unità aveva fatto presagire sorprese. E proprio l’Errani (dimessosi dopo una condanna) per il quale Renzi domenica si è speso in grandi elogi.
Poi il neoritirato Richetti ammette ieri di essere indagato nell’inchiesta che da due anni setaccia le spese dei consiglieri regionali. Il suo avvocato specifica che con lui ci sono altri sette indagati del Pd. Quindi il pensiero corre anche al rivale Bonaccini, quello che piace ai vecchi notabili del partito e, in definitiva, a Renzi. E così è: a sera arriva la notizia che anche Bonaccini è indagato (ma, per ora, non si ritira).
Che i consiglieri del Pd non fossero estranei, anzi, all’inchiesta in corso (già è indagato il capogruppo in Regione) era scontato. Meno scontato il concatenarsi di queste notizie in una giornata iniziata con un ritiro probabilmente imposto dall’alto. Il problema non è la procura, non sono i tempi dell’inchiesta: il problema è tutto interno al Pd emiliano-romagnolo e alla cronica incapacità di affidarsi a primarie vere. Ammesso che a questo punto si facciano davvero. Perché, c’è da scommettere, la vecchia Ditta da oggi tornerà a far parlare di briscoloni: un Delrio da allontanare da Roma, un Bersani da rimettere in gioco, un Poletti da revisionare e così via. Se queste primarie si faranno saranno svuotate di ogni valore, un voto inutile.

Repubblica 10.9.14
La paura dei democratici “I magistrati si vendicano così cercano di azzerarci”
di Goffredo De Marchis


ROMA La coincidenza è «inquietante». Il metodo pure: «Si viene a sapere che Richetti è indagato insieme ad altri 7 che rimangono sconosciuti fino a sera. Era chiaro che il messaggio doveva arrivare a Bonaccini ». L’obiettivo finale era quello di «azzerare una classe dirigente, di abbattere un partito alla vigilia del voto». Sono questi i commenti che si ascoltano a Largo del Nazareno, la sede del Pd. C’è una vecchia partita tra i democratici emiliani e la procura di Bologna. Ma sia al governo sia nelle stanze del Pd risuona anche una formula che apparteneva al centrodestra, a Berlusconi: «Giustizia a orologeria». Collegata alle riforme presentate il 29 agosto, alla svolta garantista del Pd, all’ultima polemica sulle ferie dei magistrati.
C’è un clima di accerchiamento che nessuno vuole ammettere pubblicamente. Ma si respira il timore che l’opposizione alle riforme possa trasformarsi in guai giudiziari per il Pd. Palazzo Chigi non ha dubbi, non farà dietrofront: «Noi andiamo avanti con la riforma. Massimo rispetto per le indagini, ma non è che ci fermiamo per quello che succede a Bologna». È un paletto chiaro. Semmai la magistratura avrebbe dovuto apprezzare i tempi più lunghi concessi dal Guardasigilli Andrea Orlando sul fronte del penale. «Non erano legati solo alle resistenze dell’Ncd e di Forza Italia Berlusconi. Volevamo anche lasciare all’Anm lo spazio di una riflessione », si sente ripetere a Palazzo Chigi.
Giuditta Pini, deputata emiliana, scrive su Twitter: «Doveva finire così, come con i dieci piccoli indiani». Che cadono uno dopo l’altro: prima Vasco Errani, poi Richetti, poi Bonaccini... Spiega che ce l’aveva con la gestione delle primarie, con la rinuncia a un accordo preventivo sul nome da candidare alle regionali di novembre. «Non con i magistrati», precisa. «La mia era una riflessione sulla politica - chiarisce -, non sul rapporto tra politica e magistratura. Però se i magistrati riuscissero a tenere a bada gli spifferi, sarebbe un passo avanti. Anche perché se tutto avviene il giorno della presentazione delle firme, non si devono lamentare delle dietrologie ».
Brucia ancora, in Emilia, la condanna a Errani per falso ideologico. Dicono anche che la procura ha tenuto aperta l’inchiesta sulle spese dei consiglieri per due anni facendo uscire pezzo a pezzo avvisi e notizie. L’assessore uscente alla Cultura dell’Emilia- Romagna mette nero su bianco i sospetti della giustizia a orologeria: «Facciamo così, per risparmiare tempo chiediamo alla Procura di Bologna chi vuole alla presidenza della Regione...», scrive su Facebook. L’assessore si chiama Massimo Mezzetti, è di Sel, ma fa parte della coalizione di centrosinistra che si sarebbe ripresentata per governare la regione. Il Pd non sa se si trova di fronte a una battaglia locale o una partita che si può estendere a livello nazionale fino a colpire l’esecutivo o i dirigenti del partito. Per “difendersi” dal cortocircuito giudiziario il Partito democratico e Renzi in prima persona hanno cercato di darsi un profilo garantista. È successo per esempio con il membro della segreteria Davide Faraone, sotto indagine per gli stessi motivi di Bonaccini e Richetti: spese ingiustificate da consigliere regionale. Faraone è rimasto al suo posto, anzi sarà confermato nella nuova segreteria che verrà votata domani. A Errani il premier chiese di rimanere alla guida dell’Emilia dopo la condanna. Un apprezzamento pubblicato reiterato domenica dal palco della festa dell’Unità di Bologna. Una difesa piena e convinta, malgrado il giudizio dei magistrati. «Rispettiamo le sentenze, ma non vogliamo farci condi- zionare nelle nostre scelte politiche», è la linea del premier di fronte ad alcune inchieste. Poi ci sono le valutazioni sull’opportunità, sull’etica, sul senso di responsabilità. Ma uscendo dal periodo giustizialista che ha segnato la storia recente della sinistra, all’ombra del conflitto Berlusconi- giudici. Vent’anni persi, è sempre stata l’opinione di Renzi. Per quello la riforma della giustizia non poteva aspettare. Il governo vuole farla dialogando con tutti. Non per niente oggi il ministro della Giustizia incontrerà il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, dopo il durissimo comunicato di ieri.
Rimane la sensazione di essere nel mirino. Se lo scontro non troverà una pacificazione, il Pd si aspetta altre vicende simili al temporale che ieri si è abbattuto sull’Emilia. «Ma tornare indietro, no - ripetono al governo -. Confrontarsi, discutere, va tutto bene. Ma la riforma della giustizia è necessaria, la storia delle ferie è ridicola. Noi andiamo avanti».

Repubblica 10.9.14
Matteo e Stefano gemelli del renzismo finiti alle corde
Richetti con Renzi dall’inizio, poi l’ex bersaniano Bonaccini l’ha scavalcato nel “giglio magico”
di Andrea Chiarini


BOLOGNA Entrambi modenesi, entrambi quarantenni in ascesa (fino a ieri). L’un contro l’altro politicamente armati, prima nella loro città, Modena appunto, troppo piccola per la rivalità crescente, poi nella lotta per guadagnare l’accesso al “Giglio magico”, infine sul palcoscenico regionale. Matteo Richetti, il renziano della prima ora, lui che apprezzava Letta, finito in disparte in Parlamento. Stefano Bonaccini, cuore Ds gettato oltre l’ostacolo della rottamazione ai tempi supplementari e preferito da Renzi in segreteria all’amico-nemico. Era destino che si incontrassero in queste primarie controvoglia. Con qualche sorriso un po’ teso: “Con Bonimba va tutto bene” disse Richetti del rivale, scherzando sul suo passato da discreto calciatore.
Due storie parallele, anche nelle indecisioni della breve campagna elettorale a eliminazione per il dopo Errani, candidati riluttanti, un po’ di Facebook, un po’ di Twitter, una comparsata al convegno di Unindustria, il giro classico delle strette di mano ai sindaci amici. Richetti, enfant prodige alle parlamentarie Pd quando nel 2013 guadagnò in casa sua quasi 10mila voti. Bonaccini che per anni ha battuto ogni palmo “dei territori”, come li chiama, e che si vanta di conoscere per nome gli organizzatori della più sperduta festa dell’Unità. Si sono sfiorati per anni, fino alla sfida finale. Matteo Renzi domenica a Bologna per il comizio di chiusura alla Festa nazionale dell’Unità li ha messi in mezzo: «Avete fatto un bel casino... ». Ma il premier non immaginava certo la tempesta perfetta che due giorni dopo si sarebbe abbattuta sui due sfidanti. L’inchiesta sulle spese pazze non travolge solo la coppia d’oro del renzismo emiliano, mette in ginocchio un partito che adesso non sa come uscire con dignità da questo cul de sac. I volontari della Festa dove tira aria di smobilitazione ormai hanno perso la speranza. «Renzi, pensaci tu» dicono alle cucine. Richetti ha salutato la compagnia ritirandosi dopo aver lasciato agli archivi una dichiarazione contro le adozioni gay. Lui che aveva iniziato la sua avventura alla Regione Emilia Romagna, da presidente dell’assemblea, facendo il Cottarelli in sedicesimo e tagliando per primi i rimborsi chilometrici ai colleghi-consiglieri, è stato costretto al contrappasso del peculato. Si guadagnò il titolo di “forbici d’oro” e con quelle oggi ha tagliato le ali alla sua scalata alla poltrona che fu di Vasco Errani. Bonaccini, come ha sin qui fatto, tergiversa ed esagera con gli sms, suo canale di comunicazione preferito, ma faticherà parecchio a convincere l’esigente “popolo dei gazebo” digitando sullo smartphone.
In Emilia volevano il remake di Don Camillo e Peppone, ma i protagonisti hanno finito col recitare un copione diverso, per altro annunciato visto che il redde rationem giudiziario aleggiava da mesi sulle teste dei consiglieri regionali, compresi i due rivali tutt’altro che ignari. I sostenitori di Richetti parlano di “accuse a orologeria”, il segretario del Pd bolognese Raffaele Donini blinda invece il suo candidato, Bonaccini. Avanti, nonostante il ciclone, almeno fino a domani, poi si vedrà. Di colpo Bonaccini è diventato l’ultima spiaggia - anche la ditta bersaniana che in Emilia conta ancora si preparava ad appoggiarlo - per una dirigenza locale in affanno che prova a resistere per evitare un commissariamento da Roma, un nome imposto dall’alto, un briscolone. Un “papa straniero” come fu Sergio Cofferati per Bologna, quando per riprendersi il Comune dopo l’interregno di Guazzaloca i Ds non trovarono “risorse” in loco. Da allora, quando si vuol mettere in guardia quel che resta del “partitone” dal farsi del male si ama dire, “non fare un altro 1999” (anno della vittoria del sindaco civico). Ma qui siamo all’anno zero. Un amaro risveglio dopo il bagno di folla per il premier, domenica, tra gli stand della Festa dell’Unità.

La Stampa 10.9.14
Orfini: le primarie vanno avanti, ho fiducia nei nostri due dirigenti
intervista di Francesca Schianchi


«Sono assolutamente certo che Bonaccini e Richetti abbiano tenuto una condotta specchiata». Matteo Orfini, presidente dell’Assemblea del Pd, commenta così le notizie che arrivano da Bologna. «E ovviamente rispetto la rinuncia di Richetti, ma mi dispiace: se l’ha fatto per l’indagine, avrebbe potuto continuare, perché nessuno di noi ha dubbi né su di lui né su Bonaccini».
Che succede ora? Le primarie vanno avanti?
«Le primarie andranno avanti, perché noi e il nostro popolo abbiamo piena fiducia nel comportamento dei nostri dirigenti, e le indagini serviranno a discolparli».
Resta il fatto politico, con il ritiro un po’ misterioso all’ultimo momento di un candidato. Un segretario a tempo pieno avrebbe potuto gestire diversamente la questione Emilia?
«Dobbiamo vivere più serenamente le primarie. Con segretari a tempo pieno abbiamo perso delle primarie e poi vinto delle elezioni, penso a Doria a Genova o Pisapia a Milano. E’ chiaro che il Pd dell’Emilia ha nel suo dna il tema dell’unità più che altrove, ma non sarà una tragedia fare le primarie nemmeno lì».
Civati dice che si parla di pressioni da Roma e chiede di saperne di più. Le risulta?
«Credo che un dirigente politico della qualità di Civati non dovrebbe perdere tempo a inseguire le voci».
Nel frattempo Renzi propone una segreteria unitaria. Ma dalla minoranza c’è chi non è d’accordo, perché chiede ci sia più condivisione nelle scelte.
«Abbiamo alle spalle più di otto mesi di Renzi segretario: se non pensiamo ai posti ma alle idee, il giudizio di questi otto mesi è quello di un segretario e poi di un capo di governo capace di ascoltare e tenere conto delle idee diverse da quelle della sua cerchia più stretta».
D’Alema e Bersani non credo la pensino allo stesso modo…
«Non sono d’accordo con le loro critiche. Stando all’analisi dei fatti, non è vero quello che contestano al segretario. E’ naturale che nelle logiche di posizionamento interno al partito ci sia anche un po’ di battaglia, ma alcune critiche mi sembrano ingenerose: per esempio quella di dire che si sta rispolverando l’agenda Monti».
L’ha detto Fassina.
«Questo governo ha fatto la più grande opera di redistribuzione da anni con il provvedimento degli 80 euro, lavora all’assunzione di 150mila precari… E non mi sembra vero nemmeno che ci sia stata una chiusura nella discussione interna del Pd».
Presidente, non sarà diventato troppo filorenziano?
«E’ un’accusa curiosa, perché io sostengo le stesse cose da anni. Mi è capitato qualche tempo fa di scrivere un libro in cui facevo una valutazione critica della stagione dei governi degli anni ’90, dicendo che bisognava superare la sudditanza nei confronti di certi establishment del Paese. Ora che alcune cose le fa Renzi, dovrei dire che sono sbagliate perché le fa lui?».
Ammetterà che il segretario è circondato soprattutto da fedelissimi…
«Questo sicuramente è un difetto. Ma si tratta di un vizio da cui non è stato esente nessuno dei passati segretari, e nemmeno i segretari dei partiti che hanno dato vita al Pd, che anzi spesso sostituivano la segreteria con il proprio staff. Ciò detto, è sicuramente un problema da superare, e mi sembra che Renzi vada in quella direzione nel momento in cui propone una segreteria unitaria».
Secondo lei si riuscirà ad arrivarci ?
«Vedo le difficoltà di queste ore, ma spero che ci si arrivi. E’ una sfida da raccogliere anche per chiudere il congresso: ho imparato da D’Alema e Bersani, che considero dei maestri, che l’obiettivo di un partito degno di questo nome è lavorare per l’unità del partito, non della minoranza del partito. E’ un insegnamento ancora valido, e sono certo che lo pensino anche loro».

Repubblica 10.9.14
I decreti restano al palo il Colle attende ancora sblocca-Italia e giustizia


ROMA Urgenti, urgentissimi. Ma che fine hanno fatto i decreti legge Sblocca-Italia e riforma del processo civile approvati il 29 agosto dal Consiglio dei ministri? Al Quirinale nessuno li ha ancora visti e l’attesa sta iniziando ha spazientire il presidente della Repubblica che li dovrebbe controfirmare. Oltre, ovviamente, a generare incertezza normativa negli operatori che attendono di conoscere le nuove norme da quasi due settimane.
Ieri pomeriggio, alle 15.20, l’agenzia economica Radiocor informava che lo sblocca Italia «non è ancora pronto per l’invio al Quirinale». Ferma anche la riforma della giustizia civile: a via Arenula fanno sapere che ci vorrà almeno un’altra settimana. Un ritardo tra l’approvazione e la reale pubblicazione dei decreti in Gazzetta Ufficiale che non ha precedenti e sta provocando malumori tra gli stessi parlamentari della maggioranza. Molti iniziano a chiedersi a cosa sia dovuto questo black-out normativo. E le voci puntano dritto sul governo, dove da tempo sarebbe in corso un braccio di ferro sotterraneo tra palazzo Chigi e gli uffici legislativi dei vari ministeri, in primis quello dell’Economia. Uno scontro di personalità e di strategie, con due “campioni” che ormai si guardano in cagnesco a ogni riunione. Da una parte il capo del mitico Dagl di palazzo Chigi (dipartimento affari giuridici e legislativi), Antonella Manzione, ex comandante dei vigili di Firenze fortissimamente voluta da Renzi, e dall’altra il capo di gabinetto del ministro dell’Economia, Roberto Garofoli, già segretario generale con Letta premier. Ma la Manzione ormai affronta in maniera ruvida tutti i capi degli altri dicasteri, spesso riscrivendo (d’intesa con Renzi) da capo i provvedimenti arrivati dagli altri “legislativi”. Così è successo anche con gli ultimi due decreti. Intanto i giorni passano e in parlamento iniziano a chiedersi quale sia l’urgenza di varare per decreto delle norme che in Consiglio dei ministri nessuno ha davvero visto. (f.bei)

il Fatto 10.9.14
Il successo di Renzi senza limiti
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, come fa Renzi a essere il preferito di due italiani su tre, come ci dice l’ultimo sondaggio? Come può esserci e non esserci?
Michela

CREDO CHE IL MESSAGGIO sia da interpretare. Renzi non c’è, nel senso che dopo i regolari e ricorrenti messaggi sul ritorno nel giardino dell’Eden, non segue ritorno. Renzi c’è, nel senso che mai nessuno, Mussolini e Berlusconi inclusi, hanno avuto lo spazio e il tempo e le pagine che tutti i media dedicano a Renzi, senza che Renzi ne sia il proprietario o l’azionista di riferimento. Il caso merita attenzione perché non è consueto e non è banale. Le ragioni? Credo che la prima cosa da notare sia un’instancabile ripetizione dei propri meriti, a cura dello stesso Renzi, che finisce per incastrarsi nella mente, fantasia, convinzione e opinione di quei due italiani su tre (uno resiste stringendo i denti e ripetendo che il famoso voto del 40,8 per cento riguardava l'abbandonare l’Europa o restarci, non legarsi per sempre con Renzi). Un’altra è la carta del “dopo”, che Renzi gioca con bravura. Il “prima” è una stanza in cui è riuscito a rinchiudere, amici o non amici, tutti coloro che appartengono a un passato anche recente che, dati gli eventi, nessuno ama. La nostalgia non è un sentimento di questo tempo. Non sappiamo che cosa ci aspetta, ma nessuno vorrebbe tornare indietro. Lui viene dopo e va avanti, e questo gli giova molto, e accresce il fattore “giovane”. Ha un suo peso anche la notevole bravura coreografica di Renzi , dalla corte di donne giovani di bella presenza alla corte di uomini nuovi, in camicia bianca, qualunque cosa valgano. La conclusione della festa dell'Unità (celebrata come se l’Unità esistesse, ma ignorando che sia mai esistita) con tutti quei precoci segretari di partiti socialisti d'Europa (un solo caso di calvizie, per il resto un ottimo casting) a fargli da “boys”, nel senso del teatro di rivista d'altri tempi, è stata un’eccellente trovata che ha fatto le veci del grande discorso che non c'è stato. Ma ci sono due fatti che sono come i blocchi di cemento sotto il mare che reggono l'aeroporto di Osaka costruito da Renzo Piano. Si tratta di Berlusconi, che, in cambio del suo riconoscimento a voce narrante, ha disattivato ogni opposizione, lasciando a Renzi i Cinque Stelle, avversari soli e disorientati. È un fenomeno nuovo, mai verificatosi prima: tranne un pugno di volontari, non c'è opposizione. L'altro fenomeno nuovo è la solitudine. La percezione comune è che non c'è alternativa a Renzi. Tutti concorrono a descrivere la gravità del momento in ogni suo aspetto. Ma tutti vedono solo Renzi sulla scena. Se non ci pensa lui, chi ci pensa? si dicono i due italiani su tre. Non è poco per garantire una sorta di plebiscito. È giovane, forte, volenteroso, unico. Ci salvi, e nessun altro si metta in mezzo, per favore. Naturalmente tutto ciò non prefigura la conclusione. Ma descrive il momento.

il Fatto 10.9.14
Mi chiamo Matteo, risolvo problemi
di Oliviero Beha


MI DOMANDANO spesso se sono dalla parte di Renzi oppure contro. Domanda mal posta: è tifosa, calcistizzante, da politica-derby, senza alcuna profondità. Ma resta l’interrogativo fondamentale di questa stagione italiana, con qualche riverbero estero. Ebbene, sono sicuro di poche cose e le elenco nell’ordine. Matteo Renzi è di gran lunga il più bravo a fare il Renzi oggi in Italia. Tutti quelli che lo circondano, con maggiore o minore aderenza, distano da lui diverse incollature e quanto più tentano di imitarlo tanto più risultano risibili. Ma che significa “fare Renzi”? È questa, temo, la domanda che più si avvicina alla situazione nostrana, politica e culturale, nelle varie versioni riformistiche o parariformistiche, economiche, lavorative, legislative ecc.
Fare Renzi vuol dire in definitiva semplificare, agevolare, risolvere o sembrare di risolvere problemi. Che non ha creato lui, non foss’altro per l’età non ancora “anta”. Non è un caso se la parte più forte delle sue intemerate, vedi l’ultima alla Festa dell’Unità di Bologna, è sempre quella rivolta al confronto con il passato. Parlano D’Alema, Bersani e compagnia cantante? Per Matteo è un calcio di rigore che va dal rimarcare gli errori del passato all’orgoglio retorico di non prendere lezioni da gente simile. La forza di Renzi, di essere e fare il Renzi, risiede insomma per lo più nel passato, che non lo contemplava. Grandioso paradosso: l’uomo nuovo, giovane, rottamatore, che prende forza come Anteo dalla terra bruciata fatta prima di lui. Quando si passa al presente per non dire al futuro, in questo momento all’apparenza “murato” per un intiero Paese, perde colpi e anzi più va avanti più deve preoccuparsi del gigantesco Bounty che deflagra intorno a lui, in ultimo forze dell’ordine, riforma impropria della giustizia, jobs act sbriciolato.
Naturalmente in una politica fattasi totalmente comunicazione, le parole contano più dei fatti che appunto non si vedono. Obiezione: anche gli 80 euro sono parole? Sono un fatto che è però risultato una parola di grande impatto comunicazionale. Ed elettorale. Dopo decadi di politichese e un ventennio berlusconiano, Renzi si è avviato nel linguaggio sulle tracce del suo predecessore di Arcore oggi ai servizi sociali ma egualmente presente nelle fasi più delicate della politica renziana.
Renzi usa parole semplici, e suscita empatia ed emozioni. Ha portato al massimo livello almeno finora quella che i linguisti chiamano “legame fatico”, ovvero di contatto, dal greco antico: è l’elevazione a potenza nel messaggio diffuso al popolo della domanda “come stai? ” che stabilisce un primo e spesso indifferente (in realtà non mi interessa) contatto tra parlanti. Renzi costituisce un colossale e abilissimo “come stai? ” rivolto a tutti, anche a chi non lo vota.
ANCHE il parallelo con Berlusconi, di cui Matteo sarebbe il proseguimento democristiano, di una politicissima impoliticità, regge poco se contestualizziamo il paesaggio dei due: Berlusconi vince contro una sinistra ancora degna di questo nome, sia pure spesso sedicente e idealmente agonizzante, Renzi vince nel vuoto della politica, contro cariatidi e carneadi della vecchia stagione distribuiti lungo tutto il fronte. Se le cose stanno così, stare per o contro Renzi può avere un interesse pratico momentaneo ma non focalizza la questione: se non Renzi chi?, è la domanda immediatamente successiva che rimane solitamente senza risposta a meno che non si pensi a una riedizione di vecchi merletti o alla scommessa del M5S. Ma ovviamente Renzi dovrebbe dipendere da quello che fa, non solo dal fare benissimo il Renzi. E qui il rischio non è che caschi l’asino, ma l’intera mandria.

il Fatto 10.9.14
Nonsense e politica
Pesc, hashtag, slide e sentiment: l’ingorgo di parole davanti al nulla
di Daniela Ranieri


Quando nel 3000 filologi e studiosi vorranno farsi un’idea dello spirito del nostro tempo prenderanno giornali e Twitter e penseranno che mangiavamo Pesc, ingurgitavamo hashtag, ragionavamo per slide, discutevamo di sentiment. Si faranno persuasi che la nostra vita comunitaria, la nostra agorà, si svolgesse attorno a catene di nonsense masticate dalla gente al mercato prima di finire ad avvolgere il pesce.
Un tempo la cronaca era analogica, certa, e aveva nel mondo fisico un referente reale e tangibile. La storia non subiva lo storytelling, non veniva tradotta nella neo-lingua che serve a pompare un reale scrauso. Semplicemente accadeva, con ferocia innocente, senza cristallizzarsi in slogan e sigle. Una mattina di luglio Togliatti usciva da Montecitorio e si beccava tre colpi di pistola; Mussolini “schìava” a Campo Imperatore; i bolscevichi assaltavano il Palazzo d’Inverno. Un lessico inequivocabile senza bla, depurato dai manierismi d’epoca e dagli arzigogoli di regime. Ma noi, come insegnava Eduardo, siamo il popolo che trasforma il degrado in sceneggiata, e l’epoca grama deve pur tramandarsi. E come lo fa, disegna tutta una nuova sintassi.
Oggi che il Papa parla la lingua del popolo e il latino lo parla solo Claudio Lotito, ci ipernutriamo di un lessico non familiare e caciarone per coprire il deserto di idee e fatti.
LA LINGUA dell’attualità è slittata dalla realtà che racconta. La notizia non aderisce al fatto, ma lo munge, lo spreme per cavarne un succo di parole, un tormentone che dura una settimana. La politica nostrana, che è il nonsense al potere, domina la foliazione dei giornali, che relegano i grandi eventi mondiali negli spazietti che la Settimana Enigmistica riserva alle barzellette, alle spigolature, ai Non tutti sanno che. Facili evasioni dalle cose serie. Le quali basculano, invece, tra spending review e Sblocca Italia.
Si dice che se la stampa perde lettori, la colpa è di questi ultimi. Quel misero 20% della popolazione fra 25 e 34 anni in possesso di laurea (la generazione post-Erasmus) non compensa il deserto creato dal 28% di analfabeti funzionali, persone che sanno leggere e scrivere ma sono incapaci di intendere il senso di un testo, se si pronunci Jùncker o Junckèr, se Lady Pesc sia un titolo nobiliare o il nome de plume di una soubrette di Arcore.
E noi che scriviamo, mica lo sappiamo cosa significano la gran parte delle cose di cui parliamo. Come i cani di Pavlov, che salivavano quando il dottore suonava la campanella a cui faceva seguire la somministrazione di acido (ma non è detto, come illustrava una geniale vignetta, che i cani non pensassero che Pavlov reagisse pavlovianamente suonando una campanella al loro salivare), ripetiamo a pappagallo tutte le peggio stronzate che i politici rilasciano prima di smentirle. Ma intanto passano, entrano nel nostro estenuato immaginario come il curling, ai tempi d’oro, entrò nelle nostre discipline sportive preferite, anzi d’infanzia, proprio. Entrate in un bar (per la vostra incolumità, non un bar di Roma) e chiedete cosa pensino gli astanti di Lady Pesc, se il colpaccio avrà ripercussioni nella loro vita. Se fa bene Draghi a usare il bazooka, se si sono accorti del calo dello spread. Verificate perché il giornalese luogocomunista non ha fatto breccia nel cuore delle persone con tutti i suoi cliché spompati e i neologismi ibrido-renziani di JobsAct e selfie, grom e eataly, pes e pa.
NON SI CAPISCE perché una madre o padre di famiglia dovrebbe spendere 40 euro al mese per un giornale che rimpalla i gargarismi dei governanti fanfaroni, quando con gli stessi soldi pagherebbe la palestra al figlio, la ricarica del telefono, l’integratore anti-stress. Perché un Paese funzionalmente analfabeta e col 12,6% di disoccupati debba preoccuparsi se “buona” sia la volta o la svolta, se il premier ha postato su Facebook, se ha twittato di mattina presto o di sera tardi, se i giorni sono 1000 o 100, e mettersi a far il conto in mesi, in anni, in lustri, in occasioni mancate, in sacrifici ulteriori, in feste rimandate, in parenti morti. E altro che agenda: il #passodopopasso è la scansione del puro nulla, la Smemoranda del governo di ripetenti di un Paese eternamente rimandato a settembre.

il Fatto 10.9.14
D’Alema: “Io non conoscevo Verdini...”
Alla festa di Firenze spiega: “Per questo fui massacrato”
E poi “Matteo più indulgente con B. che con noi”
di Davide Vecchi


Firenze Tutta questione di frequentazioni. “Io non conoscevo Verdini, forse per questo venni massacrato ai tempi della bicamerale”. Massimo D’Alema arriva alla Festa dell’Unità a Firenze per un dibattito sul Medio Oriente, ma prima di parlare delle guerre altrui corregge la memoria sulle sue. “Renzi potrà lavorare bene, non avendo opposizione, salvo Grillo e la Lega, non proprio enormi ostacoli”, il “diciamo” dalemiano è implicito. “Ha Berlusconi con lui, è un sostegno importante”, prosegue. Sposta lo sguardo al cielo e ricorda che “ai miei tempi”, quelli della bicamerale col fu Cavaliere, “venni massacrato”. Forse, aggiunge, “il mio errore è stato quello di non coinvolgere Verdini, ma non lo conoscevo, non lo conosco: ho altre frequentazioni”. Se purtroppo o per fortuna non lo specifica, ma il baffetto si inarca a sorriso, dunque era una battuta. “Arrivo da Bruxelles”, aggiunge, quasi a scusarsi di aver lasciato lì la verve. Non che nella Firenze culla del renzismo la festa dell’Unità stimoli entusiasmi. Poche persone, la pista del liscio è l’unico spazio realmente pieno. Per il resto anche i ristoranti tendono alla desertificazione. Si attende domenica, con l’arrivo della Madonna governativa, Maria Elena Boschi, annunciata per la chiusura.
D’ALEMA È IN LINEA con il clima. Piuttosto moscio, con picchi di tristezza. In merito ai due renziani candidati alla primarie per governatore dell’Emilia Romagna indagati, si limita a un laconico “affidiamoci alla magistratura”. E niente, D’Alema è rimasto a Bruxelles. Anche sulla segreteria del Pd, che sarà rinnovata venerdì, stando agli annunci del premier, D’Alema è rassegnato: “Entreranno dei giovani, noi non siamo in discussione”. Poi porta i baffetti sul palco a parlare di Medio Oriente. Vecchio pallino. Prima di salire sul palco della festa dell’Unità si ricorda del quotidiano che aveva anche diretto, si volta e si dice “rammaricato” che “Renzi a Bologna alla festa nazionale non ne abbia parlato, ma sicuramente troveranno una soluzione”. Troveranno, loro. I renziani. Lui si chiama fuori. “Proprio ora che per stare nel partito non serve dire cose di sinistra”, scherza un militante stringendogli la mano. Lui accetta la provocazione. “Renzi è più indulgente con Berlusconi che con la classe dirigente di questo partito”, gli sfugge. E si ferma lì.
Se D’Alema non cade in tentazione, evitando di ripetere l’opinione di “inefficienza dell’esecutivo” espressa alla festa di Bologna, a rallegrare i critici dell’ex sindaco nel pomeriggio alle Cascine arriva Susanna Camusso. La leader Cgil parla del governo con toni e modi già usati ai tempi in cui inquilino di Palazzo Chigi era Berlusconi. Le riforme? “Alla fine Renzi ha assolto tutte le lobby, ci rimettono solo i dipendenti del pubblico impiego”. I tagli alla spesa? “Questo governo, come quelli che l’hanno preceduto, quando ha avuto bisogno di soldi li ha tolti ai lavoratori”. Il cronoprogramma? “Il blocco dei contratti lo faccio subito e il falso in bilancio tra un anno, forse”. Renzi? “Serve coraggio, ma non per sfidare i lavoratori, ma per fare scelte impopolari nei confronti dei cosiddetti poteri forti di questo Paese”.
CHE RENZI S’IMPEGNI per non farsi amare dai sindacati è un dato ormai certo. Proprio grazie a lui Firenze nel 2009 divenne la prima città d’Italia a trasformare il primo maggio, il “capodanno dei lavoratori”, in giornata extra per i negozianti riconoscendo la possibilità di tenere aperte le attività commerciali. Fu il primo scontro con la Cgil. Il primo di tanti. Contro l’articolo 18 si era già schierato nel 2010, sposando le tesi dell’allora ministro Giulio Tremonti, non proprio un sindacalista laburista. “Ricordo bene e so tutto”, afferma Camusso, col piglio da picchetto ai cancelli Fiat dei tempi in cui gli operai dettavano le regole. “La Cgil non ha paura di nessuno, figurarsi del passato di Renzi”, aggiunge ribadendo la volontà di organizzare una mobilitazione generale per ottobre. Del passato no, del futuro chissà.

La Stampa 10.9.14
“Lo Statuto dei Lavoratori va cambiato, basta rinvii”
Ichino: “Non possiamo dire all’Europa: abbiamo scherzato”
di Roberto Giovannini


Matteo Renzi ha preso un impegno formale in Europa per una semplificazione dello Statuto dei Lavoratori. Non è pensabile che ora il governo dica “abbiamo scherzato”».
Professor Pietro Ichino, senatore di Scelta Civica e giuslavorista, il testo della delega sulJobs Actè ora all’esame della Commissione Lavoro di Palazzo Madama, e dal 23 settembre andrà in Aula. Ma ce la farete ad approvare un testo?
«Tra giugno e luglio si è manifestata la convergenza di una parte consistente dei senatori di maggioranza su di una visione precisa del passaggio dal vecchio regime di job property a un nuovo regime di flexsecurity, articolata in tre capitoli fra loro strettamente interconnessi: un Codice semplificato e contratto a protezione crescente, un nuovo assetto degli ammortizzatori sociali, un nuovo assetto dei servizi per l’impiego centrato sulla cooperazione e integrazione tra Centri per l’Impiego pubblici e agenzie private accreditate, attraverso lo strumento del “contratto di ricollocazione”. Non è poco. Nel contesto di questo nuovo sistema di protezione del lavoro, è ovvio che la delega al Governo investa anche la materia della disciplina dei licenziamenti; ma questa è soltanto una tessera del mosaico. La posta in gioco è ora molto più ampia e complessa rispetto alla pura e semplice modifica della norma sulla facoltà di recesso del datore di lavoro: se si vuole voltar pagina rispetto al regime di job property che ha caratterizzato il regime italiano nell’ultimo mezzo secolo, occorre sostituire tutte le tessere del mosaico».
Tuttavia una parte consistente del Partito Democratico, a cominciare dal responsabile economico Filippo Taddei, che gode della fiducia del premier Matteo Renzi, non pare condividere questo approccio, in particolare sulla revisione globale dello Statuto e delle norme sui licenziamenti.
«Alcuni esponenti del Pd sembrano dimenticare che l’impegno per il varo in tempi rapidi del Codice semplificato del lavoro, assunto da Matteo Renzi fin dal novembre 2012, è stato fatto proprio anche da Enrico Letta nel documento programmatico Destinazione Italia, del 19 settembre 2013, e poi nel documento Impegno Italia 2014 del febbraio scorso. È un impegno che entrambi i capi del governo hanno preso e ripetutamente ribadito, oltre che di fronte agli italiani, anche di fronte ai nostri interlocutori europei e agli operatori internazionali. Ed è l’impegno al quale i vertici dell’Ue e della Bce guardano con maggiore attenzione. Non è pensabile che ora il Governo italiano dica “abbiamo scherzato”».
Una delle ragioni che sembrano spingere il governo ad evitare una riscrittura ampia della legge 300 del ’70 è quella di evitare un lungo conflitto in Parlamento e tempi lunghi per l’approvazione della delega prima e dei decreti poi...
«L’impegno per la delega al governo sul Codice semplificato è già stato formalizzato dalla maggioranza e approvato da Senato e Camera nella premessa del decreto Poletti. Si tratta ora di inserire nell’art. 4 del disegno di legge una delega di contenuto identico. Sul piano dell’attuazione della delega, poi, le tre edizioni successive del progetto di Codice semplificato mostrano come l’opera della semplificazione legislativa sia possibilissima, anche in tempi molto brevi».
Un progetto di Codice, ricordiamo, da lei elaborato. Torniamo alla delega: sembrano emergere novità in tema di demansionamento e controllo a distanza dei lavoratori. Come le valuta?
«Per darne un giudizio, occorrerebbe vedere il testo proposto da chi propone queste modifiche. Su entrambe le materie comunque il Codice semplificato contiene una soluzione molto equilibrata, oltre che aggiornata al nuovo contesto tecnologico, che ha passato il vaglio di centinaia di incontri in sede politica, sindacale e accademica».

La Stampa 10.9.14
L’Anm: questa riforma è un insulto
La bocciatura dei magistrati: è “inefficace e punitiva” nei confronti dei giudici
di Francesco Grignetti


Umiliati e offesi, i magistrati si scagliano contro il governo Renzi. La riforma della giustizia, così come è stata annunciata, non piace. «I disegni di riforma - scrive l’associazione nazionale magistrati - appaiono il prodotto di un approccio molto superficiale». Ma è soprattutto il sottotitolo che non accettano. «Offendono la magistratura con l’insinuazione che la crisi della giustizia dipenda dalla presunta irresponsabilità e scarsa produttività dei magistrati».
Già, più dei testi di legge, che peraltro ancora non si vedono, è il messaggio sottinteso di questa riforma che li ha indignati. Il decisionismo di Matteo Renzi sul Csm o sulla responsabilità civile li ha lasciati di sasso. E il taglio alle ferie, ridotte per decreto da 45 a 30 giorni, è come sale sulle ferite. «Un grave insulto non per l’intervento in se stesso ma per il metodo usato e per il significato che esso esprime».
Fannulloni, maneggioni e pure inetti? Certi commenti hanno davvero indispettito l’Anm. E quindi: «La magistratura associata non pone veti ed è pronta a discutere di tutto, ma non potrà tacere di fronte all’inefficacia di una riforma della giustizia definita rivoluzionaria e che invece, se tali linee fossero davvero confermate, si ridurrebbe a interventi di scarso respiro e a norme punitive, ispirate a logiche che credevamo appartenere al passato».
È davvero una bocciatura a tutto tondo, quella dell’Anm. La riforma? «Slogan promozionali». Non si salva nulla: né la formulazione del nuovo reato di falso in bilancio, né il futuro meccanismo sulla prescrizione, né le riforme in materia di processo civile. Ed è assolutamente esplicita la posizione della corrente «Area», quella che teoricamente dovrebbe ritrovarsi di più con la sinistra al governo: «Una rappresentazione propagandistica e mistificatoria che rifiutiamo».
L’intemerata dei magistrati scatena la reazione della controparte, gli avvocati: «La magistratura associata - dichiara il presidente dell’Unione Camere Penali, Valerio Spigarelli - finge di essere pronta a discutere di tutto senza porre veti, ma in realtà lancia alla politica l’ennesimo diktat, puntando l’attenzione o su questioni che riguardano se stessa o su argomenti finalizzati al mantenimento di un processo autoritario».
Figurarsi che secondo i penalisti questa riforma è persino troppo timida. «In realtà, ciò che l’Anm contesta al governo è proprio quel che c’è di buono, a partire dalla responsabilità civile dei giudici».
A fronte delle critiche dell’Am, infine, per una volta la politica reagisce compatta. Il viceministro alla Giustizia, Enrico Costa, Ncd, è ironico: «I toni hanno subito una strana progressione proprio in occasione del provvedimento che riduce le ferie dei magistrati. Convinzioni o convenienze?». Alessia Morani, responsabile Giustizia del Pd, non se l’aspettava e «comunque sia chiaro: l’unico patto che abbiamo fatto è con i cittadini che ci hanno chiesto di cambiare il Paese. Per questo andiamo avanti». Luca D’Alessandro, Forza Italia, le fa eco: «Quando si lotta per mantenere le ferie per un mese e mezzo, cadono le braccia. Dimostrano di non avere la minima percezione del polso del Paese».

La Stampa 10.9.14
Un nuovo alt ai progetti del premier
di Marcello Sorgi


Dopo lo sciopero delle forze di polizia, contro il blocco degli stipendi degli statali, è in arrivo quello della magistratura, contro il progetto di riforma della giustizia preannunciato dal governo. La bocciatura dell’Anm, il sindacato dei giudici, è completa, sebbene in Parlamento non siano ancora arrivati tutti i testi esaminati dal Consiglio dei ministri e il governo abbia scelto la strada del decreto solo per la giustizia civile, riservando a quella penale lo strumento del disegno di legge, più aperto al confronto.
Con un durissimo atto d’accusa, i magistrati definiscono la riforma «inefficace e punitiva», rimproverano a Renzi di averli additati come fannulloni con la scelta di ridurgli le ferie da 45 a 30 giorni e di volerli destabilizzare con l’introduzione della responsabilità civile basata sbrigativamente sul principio del «chi sbaglia paga», senza le necessarie garanzie che dovrebbero proteggerli da azioni pretestuose, intentate dagli imputati al solo scopo di rallentare i processi. Quanto al resto, prescrizione, falso in bilancio, intercettazioni, il sospetto avanzato dall’Anm è che le proposte siano state concordate con Berlusconi, per non eliminare gli effetti delle «leggi ad personam» varate dagli esecutivi di centrodestra.
Il governo ha reagito a un attacco di tale pesantezza confermando tutti i suoi obiettivi in materia di giustizia. Ma la nota dell’Anm ha anche il senso di una chiamata alle armi del largo fronte trasversale schierato contro la riforma in Parlamento. Renzi rischia di ritrovarsi così, su un terreno delicato su cui tutti i governi che lo hanno preceduto hanno dovuto arrendersi, nelle stesse condizioni in cui Prodi, Berlusconi, D’Alema e Amato, con progetti non molto dissimili dal suo, videro montare una fortissima opposizione, che a poco a poco rischiava di paralizzare le Camere.
Di qui a pochi giorni il premier dovrà anche decidere una linea di priorità per le molte riforme che ha messo in cantiere. La legge di stabilità e la manovra di fine anno hanno un percorso obbligato (in arrivo tagli di spesa del 3 per cento per i ministeri, decisi nell’ultimo vertice a Palazzo Chigi); la riforma del Senato e quella elettorale, già approvate rispettivamente a Palazzo Madama e a Montecitorio, attendono una seconda lettura; la riforma della scuola è alla fase del confronto preliminare, ma s’è già attirata reazioni che non promettono nulla di buono. 
Inoltre, proprio nel semestre di presidenza italiana dell’Unione, il premier è pressato dall’Europa per dar corso, dopo i numerosi annunci, alla realizzazione delle riforme. Renzi, tuttavia, è sereno: ieri sera a «Porta a porta» s’è detto sicuro di farcela, e alla minoranza del Pd, che lo incalza, ha risposto che non pensa affatto a lasciare la segreteria del partito.
Dopo lo sciopero delle forze di polizia, contro il blocco degli stipendi degli statali, è in arrivo quello della magistratura, contro il progetto di riforma della giustizia preannunciato dal governo. La bocciatura dell’Anm, il sindacato dei giudici, è completa, sebbene in Parlamento non siano ancora arrivati tutti i testi esaminati dal Consiglio dei ministri e il governo abbia scelto la strada del decreto solo per la giustizia civile, riservando a quella penale lo strumento del disegno di legge, più aperto al confronto.
Con un durissimo atto d’accusa, i magistrati definiscono la riforma «inefficace e punitiva», rimproverano a Renzi di averli additati come fannulloni con la scelta di ridurgli le ferie da 45 a 30 giorni e di volerli destabilizzare con l’introduzione della responsabilità civile basata sbrigativamente sul principio del «chi sbaglia paga», senza le necessarie garanzie che dovrebbero proteggerli da azioni pretestuose, intentate dagli imputati al solo scopo di rallentare i processi. Quanto al resto, prescrizione, falso in bilancio, intercettazioni, il sospetto avanzato dall’Anm è che le proposte siano state concordate con Berlusconi, per non eliminare gli effetti delle «leggi ad personam» varate dagli esecutivi di centrodestra.
Il governo ha reagito a un attacco di tale pesantezza confermando tutti i suoi obiettivi in materia di giustizia. Ma la nota dell’Anm ha anche il senso di una chiamata alle armi del largo fronte trasversale schierato contro la riforma in Parlamento. Renzi rischia di ritrovarsi così, su un terreno delicato su cui tutti i governi che lo hanno preceduto hanno dovuto arrendersi, nelle stesse condizioni in cui Prodi, Berlusconi, D’Alema e Amato, con progetti non molto dissimili dal suo, videro montare una fortissima opposizione, che a poco a poco rischiava di paralizzare le Camere.
Di qui a pochi giorni il premier dovrà anche decidere una linea di priorità per le molte riforme che ha messo in cantiere. La legge di stabilità e la manovra di fine anno hanno un percorso obbligato (in arrivo tagli di spesa del 3 per cento per i ministeri, decisi nell’ultimo vertice a Palazzo Chigi); la riforma del Senato e quella elettorale, già approvate rispettivamente a Palazzo Madama e a Montecitorio, attendono una seconda lettura; la riforma della scuola è alla fase del confronto preliminare, ma s’è già attirata reazioni che non promettono nulla di buono. 
Inoltre, proprio nel semestre di presidenza italiana dell’Unione, il premier è pressato dall’Europa per dar corso, dopo i numerosi annunci, alla realizzazione delle riforme. Renzi, tuttavia, è sereno: ieri sera a «Porta a porta» s’è detto sicuro di farcela, e alla minoranza del Pd, che lo incalza, ha risposto che non pensa affatto a lasciare la segreteria del partito.

La Stampa 10.9.14
Riforma e meno ferie, toghe contro il governo
L’Anm: piano punitivo, sui giorni liberi grave insulto
Il premier ironizza: brrr... che paura!
Per la prima volta giudici criticati da Pd e FI insieme
di Massimo Franco


Succede di rado che Pd e Forza Italia usino parole critiche non troppo dissimili nei confronti della magistratura. La giustizia è sempre stato il nucleo rovente di quella «guerra dei vent’anni» che secondo Silvio Berlusconi ha distorto i rapporti tra politica e giudici. Il fatto che ieri l’Anm (Associazione nazionale magistrati) abbia diramato una nota durissima contro la riforma abbozzata dal governo, ha provocato però questo mezzo miracolo. Difficile dire come sarà valutato da tutto il Pd: in questa fase, oltre alle dichiarazioni contano i silenzi. Né è chiaro quanto l’Anm abbia deciso a freddo l’attacco, prevedendone fino in fondo le conseguenze.
Ma l’impressione è che l’Anm abbia voluto fare emergere la maggioranza parlamentare «informale» che sta dietro alla riforma. Quando si esprime per iscritto «delusione» per le misure di Palazzo Chigi, e si parla di una riforma punteggiata da «norme punitive ispirate a logiche del passato», sembra quasi che l’Anm rimproveri a Matteo Renzi di avere seguito una logica berlusconiana. Non solo. Il presidente del Consiglio è accusato di avere seminato «dichiarazioni e slogan che vogliono dissimulare, con esibita enfasi, diversi cedimenti e timidezze». È vero: l’Associazione è una sorta di sindacato, e con i rappresentanti delle categorie Palazzo Chigi non intrattiene buoni rapporti, in tempi di tagli dovuti alla crisi economica.
Forse, però, definire «un grave insulto» la decisione governativa di diminuire le ferie dei magistrati, ridotte nelle intenzioni da 46 a 25 giorni annui, non è il terreno migliore sul quale incontrare il sostegno dell’opinione pubblica. Non a caso, alcuni senatori del Pd hanno definito «incredibile» una rivolta della categoria per l’annuncio di Renzi sulle loro ferie. «I privilegi devono finire per tutti». E a ruota, da FI sono partiti altrettanti strali contro una protesta che, a sentire la portavoce berlusconiana alla Camera, Mara Carfagna, «fa sorgere il dubbio che l’unico obiettivo sia di difendere antichi e anacronistici privilegi».
Si tratta di uno scontro che segue di pochi giorni quello tra il premier ed i sindacati delle forze dell’ordine; e che conferma quanto sarà complicato seguire la strategia teorizzata da Renzi, di governare scontentando il meno possibile. «Non sono ottimista, più o meno balliamo intorno allo zero, non è sufficiente per ripartire. È lo stop alla caduta ma non la ripartenza», ha ammesso ieri sera in tv. E per quanto il suo sogno sia quello di eliminare «la cultura del piagnisteo» e di «mandare a letto gli italiani con fiducia nel futuro dell’Italia», nemmeno lui riesce ad offrire al Paese un antidoto all’incertezza.
Lo iato tra quanto si propone di fare e la realtà economica è piuttosto vistoso, e preoccupante, anche. Le sue ironie sui «professionisti delle tartine» che organizzano convegni solo per criticare il governo, gli servono per polemizzare con quanti a sua avviso non vogliono provare a cambiare. Le frecciate contro i banchieri «ai quali non sto simpatico» rientrano in questa narrativa che contribuisce alla sua popolarità; e che finora ha pagato. Le stesse dimissioni del commissario per i tagli alla spesa, Carlo Cottarelli, confermate ieri da Renzi, sono state frenate. «Gli ho chiesto di aspettare la finanziaria se no dai l’impressione che non si può fare». È una preoccupazione giusta. Ma forse anche il segno di una inconfessabile fragilità.

Il Sole 10.9.14
Scuola. La spesa per l'istruzione scende ancora
Il rapporto Ocse 2014: Italia unico Paese ad averla ridotta
In calo anche i laureati, aumentano i «Neet»
di Alessia Tripodi e Claudio Tucci


ROMA Quanti passi deve fare la scuola italiana per avvicinarsi al lavoro? Ancora molti. Abbiamo una percentuale altissima di «Neet», giovani che non studiano e non hanno un impiego (dal 2008 al 2012 è addirittura aumentata di 5 punti, passando dal 19,2% al 24,6% - peggio di noi solo Spagna e Turchia). Gli abbandoni scolastici (nella fascia 15-19 anni) sono in lieve crescita; e sempre meno giovani si iscrivono all'università (essenzialmente perchè scoraggiati dalle prospettive occupazionali).
Dall'altro lato della medaglia, siamo l'unico paese - tra i 34 considerati - che tra il 2010 e il 2011, ha ridotto la spesa pubblica per le istituzioni scolastiche. Ma siamo in linea con gli investimenti in education degli altri paesi nostri competitor e tra il 2003 e il 2012 siamo stati addirittura uno dei tre paesi (con Polonia e Portogallo) ad aver migliorato gli apprendimenti di base degli alunni (a testimonianza di come la vera sfida sia qualificare la nostra spesa in istruzione e non aumentarla indistintamente). Anche perché un (lento) recupero di efficienza è dimostrato da un aumento del numero di docenti per studenti (oggi il rapporto alunni/insegnanti è di 12 - in linea con la media Ocse di 14) e da un incremento, a parità di salario, del numero di ore di insegnamento. Ma ancora, purtroppo, senza merito, visto che le retribuzioni dei professori sono sostanzialmente piatte e prescindono da qualsiasi valutazione.
L'occasione per un confronto internazionale sullo stato dell'istruzione è fornito dal consueto rapporto annuale "Education at a Glance 2014" dell'Ocse, presentato ieri a Roma all'università «Luiss». Un ritratto con luci e ombre. Nonostante la riduzione degli iscritti all'università il livello di istruzione in Italia è complessivamente aumentato (è cresciuta la percentuale di laureati 25-34 anni, soprattutto tra le donne). Ma la percentuale dei senza diploma (28%) è la terza più alta, dopo Portogallo e Spagna, e resta molto al di sopra del 17,4% della media Ocse e il tasso dei laureati è il quart'ultimo tra i paesi presi in considerazione (34esimo su 37). È allarme rosso poi sui «Neet»: nel 2012 quasi un giovane su tre (31,5%) di 20-24 anni non studia e non lavora (+ 10% rispetto al 2008). In Austria e Germania ci si ferma all'11 per cento.
Segnali di miglioramento arrivano invece sulle differenze di genere: da noi il divario tra laureati maschi e femmine è inferiore rispetto ad altri paesi. Per esempio, il 40% delle nuove lauree in ingegneria è stato conseguito dalle donne (in Germania sono solo il 22%). È aumentata poi la percentuale di 15enni che ottengono risultati elevati in matematica. Ma i giovani laureati (25-34 anni) raggiungono appena il livello di competenze di lettura e matematica dei loro coetanei senza titolo di studio terziario in Finlandia, Giappone o Paesi Bassi.
Un ragionamento più approfondito lo meritano gli investimenti. L'Italia dedica a scuola e università una spesa totale pari al 5% del Pil (dati 2011), e ciò ci colloca al quint'ultimo posto della classifica stilata dall'Ocse (la spesa pubblica è diminuita, quella privata è aumentata). Ma si è ridotto il numero di docenti (per via dei tagli agli organici): e ciò dimostra «come la qualità dell'istruzione non dipenda dal numero di insegnanti, ma dalla loro preparazione, dal loro impegno, e da una gestione del personale che motiva i migliori docenti», ha detto Francesco Avvisati, ricercatore Ocse, autore della nota sull'Italia. Gli fa eco Attilio Oliva, presidente dell'Associazione Treellle, spiegando che «è ben noto che le risorse da sole non modificano sostanzialmente l'apprendimento e che non c'è quindi correlazione tra numero di insegnanti e performance degli studenti».
Il problema è anche il mismatch all'università visto che gli atenei sfornano «laureati in proporzioni sbagliate per il mercato del lavoro», come ha ricordato al Guardian il rettore della Luiss, Massimo Egidi. Ma il governo cosa intende fare? Per collegare di più (e meglio) istruzione e imprese «rafforzeremo i percorsi di alternanza e potenzieremo le competenze degli studenti», ha risposto il ministro Stefania Giannini. E sugli insegnanti? «Aboliremo il precariato - ha aggiunto il ministro - e immetteremo in ruolo professori che hanno in media 40 anni». Ma nelle linee guida sulla scuola si parla anche di decollo del sistema di valutazione, di autonomia nella scelta dei docenti e di incrementi stipendiali legati al merito (e non più all'anzianità). E anche da qui passa il miglioramento della nostra scuola.

il Fatto 10.9.14
Da Gaza a Kiev, gli scrittori in guerra. “Quando gli israeliani ci presero la casa”
Suad Amiry: "L'occupazione dei territori è una storia tremenda"
Dal poeta Barghouti appello all'embargo contro Tel Aviv

qui

Il Sole 10.9.14
Regole più snelle per gli Ide in uscita
Pechino spinge le sue aziende nel mercato globale
di R. Fa.


PECHINO A ridosso del Cifit, il grande Forum dedicato agli investimenti in corso a Xiamen nel Fujan, nel bel mezzo del weekend dedicato alla Festa di metà autunno, la Cina, il terzo investitore al mondo con 52,55 miliardi di progetti non finanziari in 149 Paesi nella prima metà del 2014, adotta nuove regole per stimolare l'outbound.
Regole che serviranno a rendere effettivo il Go Global, la strategia adottata da Pechino per internazionalizzare le aziende, ideata meno di un decennio fa, ma ancora in fase di rodaggio. Di questi tempi i margini di guadagno vengono limati dal rampante costo del denaro, il Go Global è ormai una strada appetibile. Ma le regole non sempre hanno funzionato. Così, dopo un lungo monitoraggio dal quale è risultato che la produttività degli investimenti cinesi all'estero non sempre è stata all'altezza degli sforzi finanziari, il ministero del Commercio ha diffuso il regolamento per gli investimenti all'estero.
Da tempo le aziende chiedevano uno sfoltimento delle autorizzazioni, percorsi burocratici estenuanti, una sorta di autogol che spesso ha contribuito al fallimento di progetti importanti. Sembra, in un caso almeno, che sia successo anche in Italia: la società cinese, a un passo dall'accordo, si è vista negare il permesso e addio investimento.
Autorità di peso, per dire: ministero del Commercio a parte, senza l'ok della potente Safe, che ha una sorta di diritto di vita e di morte sull'outflow di fondi in valuta estera, non è possibile spostare oltreconfine nemmeno un renminbi. Finora, se l'investimento superava i cento milioni di dollari ancor prima della Safe interveniva il Mofcom, per non parlare di energia e progetti tra i 10 milioni e i 100 perché era necessario anche l'ok dei dipartimenti provinciali.
Adesso, pare, si cambia. Per davvero. Pubblicate sul sito del Mofcom, le nuove norme confermano l'autorizzazione solo per determinati settori e specifiche destinazioni sensibili. Qui ci mette lo zampino anche la politica, infatti rientrano nella competenza del Mofcom anche Paesi che con la Cina non hanno relazioni politiche oppure che sono sotto la sferza delle sanzioni delle Nazioni Unite. Qui dovrà essere sempre il Mofcom, a monte, ad autorizzare l'iniziativa. Tutti gli altri investimenti avranno vita più semplice, non ci sarà bisogno di un ok, ma semplicemente di una registrazione. Si partirà dal 6 ottobre.
Tutto bene, dunque. E, invece, il veleno è nella coda. Alla National and development reform commission (Nrdc), braccio del partito per le riforme, resta il potere di veto su qualsiasi tipo di investimento. In particolare dovrà avere il marchio Ndrc ogni investimento superiore al miliardo di dollari, mentre per quelli oltre i 2 miliardi deve intervenire addirittura l'approvazione dello State council.
La liberalizzazione, riguarda soprattutto investimenti medi in Paesi con i quali la Cina ha rapporti politici e commerciali già consolidati.

Repubblica 10.9.14
Se muore il cristianesimo
«Ma nella mente ora avverrà dei popoli
Che mai più torni fertile La parola ispirata»
(Ungaretti, Il Dolore , 1946)
di Guido Ceronetti


LASCIO il mio lapsus (Ungaretti dice non più e io, memoria errante, mai più ) perché forse, oggi, il nostro poeta quel mai sarebbe incline a mettercelo. Quel che posso dire è che mi duole, il cristianesimo che muore. Si tratta di un’amputazione enorme, in anestesia totale, in modo che nessuno se ne accorga. Non ho idea però di quel che sarà quando ce ne accorgeremo, qui, nelle nazioni cristiane dell’emisfero. Quando ne scriveva o me ne parlava Sergio Quinzio, la cosa mi era del tutto indifferente. Non mi pare di essere cambiato, né mi sono riconvertito in vecchiaia ai miei lontani anni di devozioni: tuttavia adesso la cosa è talmente evidente dovunque, e così tanti i segni di morte, da poterla risentire come una personale ferita.
«ORA accadrà che cenere prevalga?», concludeva Ungaretti quella sua poesia. Cenere, cenere... Cenere è uguale a Nulla... È questo nulla a farmi paura? Se il cristianesimo è irresistibilmente attirato da un Buco Nero il vuoto che lascerà non sarà colmabile.
Un aforisma di Cioran, il filosofo romeno, è spesso infallibile. Uno di questi dice: «Il cristianesimo è morto quando ha cessato di essere mostruoso». Il quando è una data da andarne in cerca: ma non è molto lontana, le mostruosità hanno lunga vita e lunghissime agonie mortali; a volte sono immortali, come l’antisemitismo. Succederà anche all’Islam, da qui lo sforzo per sopravvivere all’onda che spazza la tolda aggrappandosi al controllo, all’oppressione e al terrore puro: la fase attuale si può vederla come struggle for life darwiniana. Tutte le fedi monoteiste sono risucchiate dal Buco Nero. Non ne scompare una senza che l’altra la segua.
Forse, la mostruosità cristiana specifica è in declino da quando sono cessati gli autodafé e i processi delle streghe? Nei tempi nostri, da quando il Papa è sceso dalla sedia gestatoria e si è messo a fare viaggi trionfali? Il Vaticano II andrà visto come una cessazione del carattere mostruoso della Chiesa che avrà impresso un’accelerazione al processo mortale del cristianesimo in ambito cattolico? Nell’ortodossia scismatica — la russa in specie — cessati il terrore e le persecuzioni comuniste, ha prevalso, mi pare, una continuità pacifica da zombi; non ci vedo più niente di vivo, ma fino a ieri non furono pochi i martiri. Memorabile resta la parabola del Grande Inquisitore dei Karamazov: Cristo ritorna, si rimette a predicare, fa seguaci, guarisce l’Aids, la Sla, Ebola, moltiplica pane e pesci per miliardi, squilibra la realtà a un tale punto che il Grande Inquisitore per il bene di tutti lo fa arrestare. Per non essere arrestato Cristo dovrebbe circondarsi di milizie fanatiche, risuscitare per risuscitarsi un cristianesimo mostruoso.
Léon Bloy — cristiano cattolico dei più grandi e dei più mostruosi — spettatore da un sobborgo di Parigi delle frenesie di distruzione della Grande Guerra, (al loro culmine nel 1916), profetizzava l’avvento dei Paracleto, lo Spirito Santo, previsto per la fine dei tempi storici. Come estrema speranza di credente invocava e aspettava che un misterioso Qualcuno venisse: ma dopo la sua morte nel 1917 e la ridicola pace del 1919, quale mai Consolatore-Redentore assoluto è venuto? Agnellini divini che abbiano portato i mali del mondo, tanti, per lo più anonimi, come adesso come domani, ma di Paracleti nessun segno.
L’Europa credente, inevitabilmente allora tutta cristiana (con minoranze teosofiche o di passati per Monte Verità, come Max Weber, Rilke), secondo Paul Fussell era in ripresa nelle trincee, ma non credo che in quelle condizioni la fede tradizionale andasse oltre le invocazioni mentali prima degli assalti, e ai gemiti dei rantolanti abbandonati nelle buche. Forse, nel corpo britannico, la Bibbia di Re Giacomo, nei versetti memorizzati nell’infanzia, confortava maggiormente, ma come voce vetero- testamentaria esclusivamente non cristiana. Preghiere per la pace e Natali di speranza non mancavano, nelle nazioni combattenti, sempre meno invogliate a farsi fare a pezzi; però di che vive una religione mistico-trascendente, se non di speranze che oltrepassano infinitamente qualsiasi tregua d’armi e ritorno a casa? E dopo la guerra, gli sterminati campi di croci segnano, nonostante il simbolo cristiano, l’apparizione di un culto nuovissimo, estraneo alla confessione cristiana: quello dei caduti. I caduti ignorano la vita futura.
Con più struggimento che nei libri, il tragico della Morte di Dio (del Dio cristiano) lo trovi nel cinema firmato da Carl Dreyer, Luis Buñuel, Ingmar Bergman, dove senti il fragore delle ondate tra cui il Titanic- Cristianesimo, protestante o cattolico, sta colando a picco. La stupefacente rinuncia del Papa Ratzinger è un dramma bergmaniano. Il Papa teologo vede lucidamente non poter più reggere o essere predicata la sua teologia da patrologia latina o greca, rigetta un cristianesimo che non ha la forza di rianimare, e si ritira in un monastero che gli sarà come un piccolo surrogato dello scoglio di Sant’Elena. Ma rivediamo un capolavoro di Bergman come Luci d’inverno , dove alla pieve di un piccolo paese il pastore Ericsson dice messa nella chiesa perfettamente vuota di fedeli. Lo scenario, il rito luterano, l’officiante ci sono: le anime, no. Immaginiamo la magnificenza di San Pietro come l’orrida bruttezza di una piazza di Seul, gremite di folla, e un giorno il Papa che si affaccia per benedire piazze deserte. Avrà visto questo, il Papa invece delle piazze dei trionfi puntuali? Il deserto della chiesa di Frostnäs? La stessa visione non afferra anche il Papa Francesco? Da certi affioramenti in lui di dubbiosità e inquietudine in pause di stanchezza, direi di sì. Un mondo decristianizzato è un mondo vuoto, che non ha ubi consistam , orfano anche di nordiche Luci d’Inverno. Beati i perplessi.

Repubblica 10.9.14
Trentuno quaderni, quasi cinquemila pagine del grande autore russo sono da oggi consultabili in rete
Note, diari e foto Tolstoj segreto è tutto online
di Paolo G. Brera


MOSCA C’è tutto, opere e appunti di una vita, le sue note e i suoi diari, le idee e i pensieri — annotati qui e là tra agende e block notes — che forgiarono l’immortalità di Lev Tolstoj. Ieri sarebbe stato il 186esimo compleanno dello scrittore russo, e per festeggiarlo Fekla Tolstaja, sua discendente diretta, ha acceso una candelina che non si spegnerà mai: ha pubblicato online l’immenso archivio informatico dell’autore di Anna Karenina da cui chiunque può scaricare anche le perle più rare. Una squadra di tremila volontari ha lavorato a testa bassa per più di un anno raccogliendo e leggendo, catalogando e trasferendo parola dopo parola, dalla carta ai bit.
Uno sforzo immane e del tutto gratuito, motivato solo dall’amore per lo scrittore, ma complicatissimo da gestire. Il progetto “Tutto Tolstoj con un click”, diretto da Tolstaja, ha dovuto definire le regole per trascrivere le parole su un supporto informatico condividendole con tutti i partecipanti: come comportarsi di fronte a un evidente refuso dello scrittore? «Va ovviamente corretto, ma per favore controllate attentamente che non sia una forma desueta in cui veniva scritta la parola». Lo stesso per simboli o lettere di alfabeti non presenti sui sistemi di videoscrittura, o per la consequenzialità e la posizione delle note che inframmezzano gli appunti. Tutto questo, da ieri è storia al passato: risolte le difficoltà tecniche resta un patrimonio inestimabile che chiunque può autonomamente e gratuitamente scaricare e studiare, rielaborare e confrontare.
Il sito, www.tolstoy.ru, al momento è solo in russo, ma una versione in inglese è “in costruzione”.
«Siamo grati a tutti coloro che hanno partecipato alla lettura dei testi di Lev Nikolaevich. È stato un lavoro importante, ma sono ancora più importanti le emozioni rimaste per sempre nei collaboratori volontari dopo la lettura dei testi di Tolstoj”, commenta Tolstaja alla Rossijskaja Gazeta. Da quel primo appunto scritto dal giovane Lev a Kazan, quando aveva solo 18 anni, all’ultimo scritto nel villaggio di Astapovo, quattro giorni prima di morire, sono rimasti intatti 31 quaderni con annotazioni e i diari, un tesoro di 4.700 pagine. E ci sono anche i block-notes e le agende che Tolstoj usò mentre scriveva Anna Karenina e Guerra e Pace.

Repubblica 10.9.14
Le riflessioni di un genio sulla vita e sull’amore ora sono a Google City
di Paolo Mauri


LArivoluzione tecnologica dei nostri anni ci promette di racchiudere interi universi del sapere nella Grande Memoria a cui attingere con un clic del computer. Situazione affascinante. Ma il virtuale sostituirà del tutto il reale? Così mentre si diffonde la notizia della digitalizzazione delle carte di Tolstoj, tra cui i Diari, non posso non pensare a un servizio del telegiornale di pochi giorni fa in cui si vedeva la casa di Manzoni, quella vera nel centro di Milano, preda delle muffe e del degrado e naturalmente priva di adeguati sostegni. Oggi la casa degli scrittori è diventata Google City.
L’unico aggettivo che si addice a Tolstoj è immenso: è immenso nei romanzi per qualità e ampiezza e lo è anche nella vita di cui i Diari sono un riflesso, un sismografo eloquente anche se non costante perché lo scrittore cominciò a tenerli quando era molto giovane e smise quattro giorni prima di morire, ma con intervalli piuttosto lunghi. Un’ampia scelta l’ha pubblicata Garzanti nella traduzione di Silvio Bernardini e con una prefazione di Serena Vitale. Dunque nel 1847, poco meno che ventenne, Tolstoj si interrogava sullo scopo della vita e giungeva sempre alla stessa conclusione: «È l’impiego di tutte le possibili facoltà per lo sviluppo di tutto l’essere». Per raggiungere una meta così impegnativa stabiliva una serie di regole a cominciare dal decidere bene che cosa fare ogni mattina e non allontanarsi dalla decisione presa anche a costo di riceverne un danno. La seconda regola è un po’ buffa: «Dormi il meno possibile ». Secondo Tolstoj il sonno è il momento in cui non possiamo esercitare la nostra volontà e dunque va limitato al massimo. In quegli anni giovanili Tolstoj è drastico anche sull’amore e anche qui stabilisce delle regole. La prima dice: «Stai lontano dalle donne». Qualche anno dopo, nel novembre del 1851, confesserà di non essersi mai innamorato di una donna. «Un forte sentimento simile all’amore l’ho provato solo quando avevo tredici o quattordici anni, ma non voglio credere che quello fosse amore, perché l’oggetto era una grassa cameriera». Invece nel gennaio del 1852 dirà senza pro- blemi di essersi innamorato molto spesso degli uomini, «ma non mi è mai venuto il pensiero della possibilità di una relazione». Casti amori, dunque, o forse solo una forte ammirazione che si sente anche nei romanzi più celebri per alcuni personaggi.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. Nel settembre 1851 Tolstoj ricorda di aver appena compiuto 23 anni: «Contavo molto su questa data, ma purtroppo rimango lo stesso: in pochi giorni ho fatto in tempo a rifare tutto quel che ritenevo sbagliato. Cambiamenti radicali sono impossibili. Ho avuto donne. Sono stato debole in molti casi: nei semplici rapporti con la gente, nel pericolo, nel gioco e sono stato come sempre preda di false vergogne. Ho detto molte bugie».
Non mancano, naturalmente, i giudizi letterari. Il 2 gennaio 1852 annota: «Ogni scrittore ha in vista una classe particolare di lettori ideali per la sua opera. È necessario definire chiaramente a se stessi le esigenze di questi lettori ideali e, se nella realtà esistono, in tutto il mondo, solo due di tali lettori, scrivere solo per loro». Il 2 settembre dello stesso anno annota: «Che bellezza David Copperfield » , mentre non è altrettanto lusinghiero il giudizio sulla Figlia del capitano di Puškin. «Be’ devo riconoscere che ora come ora la prosa di Puškin è invecchiata ; non per lo stile ma per la maniera di raccontare… I racconti sono, mi vien da dire, nudi». Non ha simpatia per Turgenev e lo scriverà nel diario in modo esplicito: «Ha organizzato la propria vita in modo stupido…Tutta la sua vita è una finzione di semplicità. E lui mi è decisamente antipatico ». La religione ha un posto molto importante. Nel marzo del 1855 troviamo questa nota: «Oggi mi sono comunicato. Ieri discorsi sulla fede e divinità mi hanno suggerito un’idea grande, enorme, alla cui realizzazione mi sento di consacrare la vita: la creazione di una nuova religione corrispondente allo sviluppo dell’umanità, la religione di Cristo, ma ripulita della fede e dei miracoli, una religione pratica che non prometta la felicità futura ma dia agli uomini la felicità sulla terra». Per la sua eterodossia, Tolstoj, come si sa, fu scomunicato.
Lo scrittore viaggiò molto. Ci limitiamo ad una “cartolina” dalla Svizzera, molto lodata per i paesaggi. «In tre mesi ho visto molti svizzeri in uniforme, e non ne ho mai visto uno sobrio». Nel febbraio del 1887, dunque già in età matura e con i grandi romanzi alle spalle, si interroga sullo scopo della vita umana: «E la ragione stessa dimostra che non c’è risposta».
Morirà il 3 novembre del 1910. Molti anni prima aveva, sempre nei Diari, redatto una sorta di testamento in cui chiedeva una sepoltura umile e la rinuncia per gli eredi ai diritti provenienti dai suoi libri. Guardandosi intorno non sempre apprezzava i prodigi della tecnica. Il 21 giugno del suo ultimo anno di vita aveva scritto: «Il cinematografo è una porcheria, una falsità».

Repubblica 10.9.14
Cacciari: “Meglio la guerra fredda del caos globale”
Intervista al filosofo, che inaugura a Mestre il Festival della Politica:
“Le democrazie sono fragili, devono tornare alle origini”
di Giulio Azzolini


«RAGIONARE di politica al di là delle contingenze e delle cronache quotidiane è diventata un’impresa». Massimo Cacciari non teme le scommesse controcorrente, come quella del Festival della politica, nato per scongiurare l’agonismo esasperato dei talk show e la retorica partigiana dei comizi. E così, senza politici di professione, apre con l’anteprima di questa sera a Mestre la quarta edizione della rassegna, organizzata dalla Fondazione Gianni Pellicani sotto l’alto patronato del presidente della Repubblica. Dibattiti, lezioni e spettacoli in piazza fino a domenica, con oltre settanta protagonisti di spicco della cultura italiana (tra gli altri Ezio Mauro e Ferruccio de Bortoli, Roberto Esposito e Nadia Urbinati, Alessandro Bergonzoni e Sabina Guzzanti).
L’argomento di quest’anno, “politica e violenza”, è classico e inquietante.
«Un tema che non può essere messo tra parentesi o demonizzato, come se la violenza fosse qualcosa di patologico nella politica. Non lo è. E nonostante la forza derivi anche dalla persuasione, occorre sapere, al di là dei buonismi, che una dimensione di violenza è imprescindibilmente connessa all’esercizio del potere. Il dato impressionante di questo periodo, però, è che la dimensione violenta della politica ha preso il sopravvento su quella dialogica, comunicativa».
Un’estate di guerra a Gaza, la minacciosa restaurazione di un califfato, la tensione tra la Russia e la Nato. C’è un nesso tra questi conflitti?
«C’è eccome e sta nell’assenza di un potere che frena. Durante la Guerra Fredda, era la lotta tra i due titani a mettere in forma il mondo.
Da allora, manca un principio d’ordine planetario. Gli Usa ci hanno provato, ma hanno clamorosamente fallito e, anzi, le loro guerre hanno enormemente aggravato l’insicurezza globale. Oggi scoppiano miriadi di conflitti, ognuno con la sua specificità, ma ognuno capace di scardinare tutto. Chi può mettere ordine? La situazione di Obama è emblematica: uno straordinario presidente amletico, tentennante, il re dell’insicurezza».
Incertezza globale a parte, quali sono gli ulteriori fattori di violenza in Occidente?
«Le nostre democrazie non sono riuscite assolutamente a corrispondere alla loro istanza fondamentale: creare un processo di crescente uguaglianza. Questa fu la grande promessa e sta fallendo in modo colossale, ovunque. L’aumento delle diseguaglianze non è violenza? Poi c’è la violenza di genere; quella generazionale; quella verbale, perché il linguaggio in politica è un’arma e, in democrazia, lo è al quadrato. Inoltre, quando la parola diventa chiacchiera, promessa, auspicio, è sempre violenza, in questo caso contro la razionalità della politica».
Crede che questa spirale rischi di piegare le istituzioni europee in senso autocratico?
«Il problema è che, dopo la crisi — storicamente inevitabile — delle ideologie, non si è ricostruito alcun discorso politico. È emersa, piuttosto, la tendenza a un decisionismo volgare. Dio sa se è necessario un regime in cui si giunga a decisione, ma questa deve sempre avvenire sulla base di un confronto tra discorsi che esprimano analisi, conoscenze, competenze ».
Come cambiare questa tendenza?
«Bisogna che le democrazie occidentali si interroghino sulle proprie contraddizioni e riaffondino nei loro principi più radicali, specie in quelli mai realizzati fino in fondo: uguaglianza, mobilità sociale, ospitalità: oggi come oggi, non possono pretendere di insegnare nulla a nessuno».

Repubblica 10.9.14
A Mosca un convegno per celebrare Vasilij Grossman


A CINQUANT’ANNI dalla morte, la Russia celebra una delle figure di scrittore più interessanti del Novecento: quella di Vasilij Grossman. E lo fa con una conferenza internazionale in programma da dopodomani a domenica a Mosca, organizzata dal Centro che porta il suo nome, in collaborazione con altre istituzioni nazionali e straniere, tra cui la Fondazione arte, storia e cultura ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte orientale; tra i partner scientifici, le università di Urbino, Verona, Torino e Molise. Un evento importante perché rappresenta, in senso simbolico a culturale, una riconciliazione col suo Paese, per l’autore di Vita e destino: di origini ebraiche, figura chiave dell’intellighenzia russa, fu prima, anche nei panni di giornalista, un sostenitore del regime sovietico; poi però imboccò la via del dissenso, e finì in disgrazia. Tanto che il suo libro più celebre- Vita e destino, appunto- vide la luce solo grazie all’esportazione clandestina di un paio di copie a Losanna. E dunque questo maxiconvegno nella capitale russa, a cui partecipano quaranta relatori, è una sorta di risarcimento morale. Ma non ci saranno solo rievocazioni e analisi di studiosi. Nel corso del congresso, infatti, il Centro Grossman presenterà anche tutto il lavoro di digitalizzazione dell’opera compiuto dai suoi esperti: pubblicazioni d’archivio, lettere, materiali audiovisivi saranno visibili in un nuovo sito di facile consultazione.

La Stampa TuttoScienze 10.9.14
“E’ questo il primo messaggio dei Neanderthal”
Una serie di incisioni in una grotta a Gibilterra: “Indizi di pensiero simbolico”
di Gabriele Beccaria


E’ il loro primo messaggio. Di 40 mila anni fa, o quasi. Finora avevano disseminato tanti indizi, dai pigmenti con cui si dipingevano alle penne di rapaci con cui si decoravano. E non erano mancati utensili, armi e perfino un flauto. Ma mai prima d’ora i Neanderthal, i nostri più diretti concorrenti per il dominio dell’Europa e dell’Asia, avevano lasciato una testimonianza tanto esplicita della loro intelligenza. Non tanto diversa, forse, da quella dei Sapiens.
Il messaggio consiste in una dozzina di linee che si intersecano. Incise su una superficie pressoché piatta di 300 centimetri quadrati, sono state scoperte nella grotta di Gorham, a Gibilterra, estrema propaggine d’Europa e considerata da molti studiosi come uno degli ultimi avamposti dei Neanderthal, alla vigilia della loro ancora misteriosa estinzione, circa 39 mila anni fa.
Francesco d’Errico, paleoantropologo di origini torinesi e direttore di ricerca al Cnrs, il Centre National de la Recherche Scientifique di Bordeaux, è lo specialista che ha indagato questo messaggio di 400 secoli fa, riportato alla luce nel 2012 da Clive Finlayson. Ed è uno degli autori dell’articolo su «Pnas», dove si racconta non solo l’eccezionalità del ritrovamento, ma si evidenzia il punto essenziale: l’intenzionalità di quelle tracce. Non si tratta di uno scherzo della natura, ma - spiega d’Errico con un gruppo di colleghi spagnoli e inglesi - di uno straordinario esempio di espressione grafica, uno dei più antichi del Vecchio Continente.
Professore, come siete arrivati alla certezza della «firma» neanderthaliana?
«Questo, in effetti, è il primo caso di incisione su un supporto roccioso, ricoperta da uno strato archeologico musteriano, ricco di strumenti prodotti dai Neandertaliani. Ma non è la prima prova di comportamenti simbolici associati a queste popolazioni: seppellivano i loro morti, usavano pigmenti e producevano incisioni in serie su ossa. Finora, però, non si conoscevano espressioni grafiche prodotte per marcare lo spazio abitativo».
Come si è conservata?
«I livelli archeologici l’hanno protetta. E si è conservata anche grazie a una micro-crosta, prodotta dall’alterazione dei livelli stessi, attraversati da materia organica, colata a partire da accumuli di sterco di pipistrello. Questa patina scura, composta di ferro e di manganese, ha protetto le tracce del passaggio dello strumento usato dall’artista».
E che cosa avete dedotto?
«Che le linee sono state realizzate dall’uomo, non dalla natura. Riproducendo sperimentalmente i tratti, abbiamo mostrato che non sono il risultato di azioni utilitarie come tagliare la pelle o la carne. Si tratta di incisioni prodotte da una punta, probabilmente in microquarzite o in selce, e non da un tagliente. La punta è partita per produrre un tratto sempre dalla stessa estremità e il tratto è stato ripassato numerose volte».
Quante volte?
«Tra 200 e 300 passaggi per produrre la composizione. L’uso di altre tecniche, come quella di un movimento di va e vieni, produce invece tratti irregolari, poco profondi, con estremità sfrangiate. La tecnica scelta aveva lo scopo di produrre incisioni profonde e ben visibili in questa zona della grotta».
Come avete condotto l’esperimento?
«Con sette strumenti, confrontando i risultati con l’analisi dell’originale, studiato senza toccarlo: siamo ricorsi a una quarantina di foto e a un software per la fotogrammetria che ha permesso di ottenere una ricostruzione virtuale, scaricabile dal Web. E’ la prima volta che metodi di questo tipo sono applicati a una così piccola incisione in grotta. Stiamo ora realizzando il modello 3D su una stampante ad alta risoluzione».
Come descrive la «traccia»?
«Una dozzina di incisioni nella dolomia che si incrociano quasi perpendicolarmente. Visti i passaggi, l’autore ha assunto posture diverse per adeguare la posizione del corpo a quella della direzione delle incisioni. Se ne deduce che era ben consapevole di quanto faceva».
E a questo punto c’è l’aspetto più emozionante: di sicuro vi siete chiesti quale potrebbe essere il significato.
«Difficile dirlo, ma la scelta degli strumenti e della tecnica, nonché lo sforzo e il tempo necessario, dimostrano che chi ha tracciato le linee aveva un progetto. Non si tratta di ciò che è chiamato “doodleing”, un disegno effettuato in maniera quasi inconscia».
Quanto tempo è stato necessario?
«Un’ora, un’ora e mezza, probabilmente con interruzioni e cambi di strumento per evitare dolori e ferite alla mano».
L’epoca è intorno a 40 mila anni fa, giusto?
«Sì, considerando che la data più antica del livello musteriano soprastante è 39 mila anni e che l’incisione sembra ben conservata e non essere stata esposta a lungo prima di essere coperta dal livello archeologico».

La Stampa TuttoScienze 10.9.14
Sei una brava madre o un pessimo padre?
Lo decide il neurone
Dagli insetti agli esseri umani: come funzionano i circuiti cerebrali dell’attenzione e dell’affetto
di Gianna Milano


«Le cure parentali sono essenziali per la sopravvivenza della specie, ma anche per lo sviluppo mentale e il benessere fisico della progenie. Ed è sorprendente come certi comportamenti di accudimento dei nuovi nati si riscontrino in vertebrali e invertebrati, come insetti, anfibi, molluschi, pesci, rettili, uccelli, e mammiferi, uomo compreso. I nostri studi stanno chiarendo la natura e la funzione dei circuiti neuronali nel modulare le interazioni parentali in entrambi i sessi. E l’idea che emerge è che esistono circuiti altamente conservati e antagonistici che controllano comportamenti sia protettivi sia aggressivi verso i piccoli. Nel cervello di femmine e di maschi».
Catherine Dulac, neurobiologa all’Università di Harvard, a Boston, ha avuto l’onore di aprire con una lettura magistrale sull’«Architettura dei circuiti neuronali alla base del comportamento sociale istintivo» la conferenza di Parigi organizzata dalla Federation of European Biochemical Societies e dalla European Molecular Biology Organization. All’ipotesi che molti comportamenti sociali siano controllati da specifici circuiti cerebrali la ricercatrice lavora da anni. Se in alcune specie ci sono padri che partecipano alle cure parentali in modo uguale alle madri, in altre tutto è delegato alla madre, mentre altre ancora sono perfettamente «biparentali», come certi roditori (il Microtus ochrogaster) o il 90% degli uccelli. Anfibi come le salamandre, poi, partecipano in modo diverso ancora: i maschi preparano il nido per le uova, fanno la guardia e contribuiscono all’incubazione in sacche dorsali o nello stomaco. Ma il loro coinvolgimento finisce lì.
Una panoramica di questi comportamenti genitoriali è stata pubblicata dalla ricercatrice su «Science». Ma, oltre la descrizione, ciò che ora Dulac cerca di scoprire è cosa innesca queste cure. «Segnali chimici sensoriali vengono intensamente utilizzati da molte specie (dagli insetti a pesci e uccelli) per inibire o attivare le cure parentali, a seconda del sesso o delle condizioni fisiologiche», spiega la studiosa, la quale ha scoperto come in alcuni mammiferi, oltre al sistema olfattivo, intervenga nei comportamenti parentali - di protezione o di aggressività - anche il sistema vomeronasale, dal nome dell’organo posto dietro il naso: questo svolge un ruolo importante nella percezione dei ferormoni, ormoni con la funzione di inviare segnali ad altri individui della stessa specie. Rimuovendo o silenziando questo organo nei ratti, si è osservato come si modifichino i comportamenti aggressivi infanticidi. «In un articolo su “Nature” dimostro non solo che, eliminando la funzione dell’organo vomeronasale, i maschi assumono comportamenti genitoriali, ma che diventano “parentali” tre settimane dopo l’accoppiamento. E solo allora manifestano i comportamenti genitoriali delle femmine: costruiscono il nido, vi riportano i cuccioli e si accovacciano con loro. Ciò suggerisce che sia i maschi sia le femmine hanno neuroni che controllano il comportamento parentale. Ora l’obiettivo è identificarli». Dulac ha anche scoperto che lo stesso orientamento sessuale cambia, se viene eliminata la funzione di questo organo: le topoline adulte cominciano a comportarsi come maschi.
Quanto agli esseri umani, è dimostrato che l’odore caratteristico dei neonati abbia un ruolo nel rinforzare l’istinto materno: l’odore dei piccoli attiverebbe nelle neo-madri i circuiti neuronali della ricompensa. E la dopamina è il neurotrasmettitore della ricompensa per eccellenza, perché attiva il circuito cerebrale del piacere. Tuttavia non è ancora chiaro cosa favorisca la maggiore sensibilità all’odore nelle neo-mamme: potrebbe trattarsi di cambiamenti ormonali, ma potrebbe avere un ruolo determinante l’esperienza o quello che la filosofa Elisabeth Badinter definisce il «costrutto culturale».
«Nei roditori abbiamo verificato come le aree del cervello coinvolte siano eterogenee». Dulac spiega di neuroni - in maschi e femmine - che controllano il comportamento genitoriale: se quelli della zona preottica che producono galanina, un neuropeptide, vengono silenziati, le topoline vergini diventano infanticide, mentre padri e madri non manifestano più attenzione per la prole. «Quando stimoliamo questi neuroni nei maschi vergini - con comportamenti normalmente infanticidi - assumono atteggiamenti diversi e diventano genitoriali. Ciò dimostra che i neuroni che producono galantina sono necessari e sufficienti per il controllo del comportamento materno e paterno».
Sono risultati sorprendenti e - conclude - «questi circuiti neuronali sociali potrebbero esistere in tutti i mammiferi. Umani compresi».

Corriere 10.9.14
Terapia a 6 mesi di vita. Una speranza contro l’autismo
di Mario Pappagallo


Autismo, male della società moderna. Angoscia dei genitori, che a volte ritardano la diagnosi nella speranza che i loro figli abbiano tutt’altro. Lo spettro delle vaccinazioni, come causa del tutto ingiustificata di quella ermetica chiusura nella profondità di sé stesso. Prima si comincia a trattare il male, meglio è. Più i genitori entrano in gioco, più aumentano le probabilità di schiudere il guscio. Curare ad appena sei mesi di età, in 12 mosse di un’ora l’una di sinergia bimbo-genitori. Questa è la novità. Si chiama Infant Start ed è la proposta di uno dei centri d’avanguardia nella battaglia all’autismo. Dai tre anni di età in poi, la maggior parte dei baby-pazienti sottoposti alla terapia (ancora troppo pochi) sembra fuori dal tunnel. La sperimentazione degli esperti dell’università della California, del Davis Mind Institute, è stata pubblicata dal «Journal of Autism and Developmental Disorders». Diagnosi precocissima. Poi, dai 6 ai 15 mesi di età, sessioni di interazione genitori-figlio e addestramento di mamme e papà per aumentare nel loro bimbo l’attenzione, la comunicazione, lo sviluppo precoce delle lingue, il gioco, l’impegno sociale. La prima firma dello studio, Sally Rogers, insegna psichiatria e scienze comportamentali. Da anni cerca di sviluppare strumenti per professionisti e genitori in modo da aiutarli a individuare i primi sintomi del disturbo in bambini con meno di 12 mesi. Nella convinzione che l’autismo si batte sul nascere. La sinergia con i genitori (o la persona più emotivamente coinvolgente per il malato) è invece filone della scuola israeliana. Con l’Infant Start, Sally Rogers ha voluto insegnare ai genitori piccoli «trucchi» terapeutici. Esempio: se il figlio autistico è attirato da un animale di pezza, il genitore deve entrare nel campo visivo del bimbo e giocare anche lui con l’animale, nascondendolo sotto la maglia, così da attirare su di sé l’attenzione. «Dato lo scarso numero di soggetti — dice la psichiatra —, è presto per sapere se la terapia può funzionare a lungo termine. L’intervento precoce è cruciale, ma nella gran parte del Paese e del mondo servizi in grado di aiutare lo sviluppo dei bambini di pochi mesi con autismo non sono disponibili». La diagnosi precoce è fondamentale. Quali i sintomi a 6 mesi? Diminuzione del contatto visivo e dell’interesse sociale, schemi ripetitivi di movimento, mancanza di comunicazione intenzionale. E i risultati a 2-3 anni di età dopo l’Infant Start? Per 6 bimbi sui 7 trattati: performances migliorate al punto da non poter più diagnosticare l’autismo. «Medici» i genitori, empatia la cura .