giovedì 11 settembre 2014

il Fatto 11.9.14
Le mani del governo sulla magistratura
I partiti si spartiscono Csm e Consulta
Legnini verso la vicepresidenza del consiglio superiore: sarà la prima volta di un membro dell'esecutivo
Arriva al quorum anche Fanfani, sindaco di Arezzo e "nipote di". Per gli altri 6 si deve votare di nuovo
Le mani del governo sulla magistratura I partiti si spartiscono Csm e Consulta

Qualcuno lo chiama Patto del Nazareno bis. I partiti che trovano l'accordo sugli 8 laici del Csm sono Pd, Fi, Ncd e Scelta Civica. Manca l'ufficialità ma la quadra c'è. In quota Pd i candidati sono il sottosegretario Giovanni Legnini e Giuseppe Fanfani (gli unici che ce l'hanno già fatta) e Teresa Bene. Per l'area di Forza Italia Maria Elisabetta Alberti Casellati e Luigi Vitali. Gli altri nomi sono Renato Balduzzi, Antonio Leone e Nicola Colaianni, proposto dal M5s. Fumata nera per la Consulta: Violante e Bruno (vicino a Previti) lontani dal quorum

il Fatto 11.9.14
Renzi commissaria il Csm
Per la prima volta come vicepresidente dell’organo di autogoverno dei magistrati è stato scelto un membro del governo: Legnini
Rinviato a oggi il voto sulla Consulta
di Sara Nicoli


Le mani di Matteo Renzi sull’organo di autogoverno della magistratura, il Csm. Per la prima volta un membro del governo, il sottosegretario all’Economia Giovanni Legnini, viene spostato dall’esecutivo per commissariare Palazzo dei Marescialli, in qualità di vicepresidente, alla vigilia della riforma della giustizia, ma soprattutto nel nome del riequilibrio delle correnti interne al Pd che Renzi vorrebbe inaugurare nella nuova segreteria del Nazareno. E così un bersaniano mai davvero convertito al “giglio magico” come l’avvocato abruzzese Legnini – prima senatore e componente della Giunta delle autorizzazioni di Palazzo Madama, ottimo mediatore sul caso Lusi e dopo sottosegretario all’Editoria del governo Letta, bravo a far di conto al punto da immaginarlo commissario straordinario di Roma (dalla poltrona dell’Economia ha controllato lui il piano di risanamento della capitale preteso dal governo) in caso di fallimento di Ignazio Marino – adesso è di nuovo catapultato sulla poltrona di un posto che scotta, come il Csm, direttamente da una poltrona di governo.
UN FATTO straordinario nella storia dell’organo di autogoverno della magistratura, non si sa in che modo digerito dal Quirinale, di solito molto attento alla forma, in casi come questi, più che alla sostanza. Sta di fatto che, con Legnini, Renzi ha sparigliato le carte, perché spostandolo è venuto incontro principalmente alle sue esigenze, mettendosi avanti con un pezzo di rimpasto e rimuovendo se non un ostacolo, quantomeno non un “esecutore” dei suoi annunci senza seguito d’azione. Così, però, ha fatto saltare l’accordo – solo in apparenza solido fino a qualche ora prima – sulle nomine alla Consulta. Che, infatti, slitta a questa mattina. La coppia Violante-Catricalà è finita nel tritacarne, ma stavolta non è colpa – solo – delle frizioni interne al Pd. E non sarebbe colpa neppure del Cavaliere, che aveva dato il suo placet al “garantista” Violante. Quello che si è diviso sui due nomi è stato il ventre molle di Forza Italia, riottoso più del solito nell’accettare un nome calato dall’alto e proprio dal gran visir Gianni Letta. Così, ieri le truppe azzurre più ribelli si dicevano pronte a portare avanti la candidatura di Donato Bruno. O addirittura quella di Niccolò Ghedini. Ma si vedrà. Per il momento, si registra un Csm piegato al volere del premier. E basta dare un occhio agli altri nomi imposti da Palazzo Chigi (Renzi in persona, nella notte tra martedì e mercoledì ha messo insieme i pezzi della scacchiera) per capire quanto sia vero.
DOPO Legnini, sempre per il Csm ecco Giuseppe Fanfani, sindaco di Arezzo, margheritino della prima ora, amico personale di Maria Elena Boschi e, soprattutto, nipote di Amintore Fanfani. Di seguito, anche qui, una donna, l’avvocato e professore napoletano Teresa Bene, vicina al “giglio magico”. Tre nomi in tutto, blindatissimi, anche per favorire la chiusura dell’accordo con i centristi. In quota Ncd è rimasto granitico Antonio Leone, mentre Scelta Civica alla fine è riuscita a far eleggere l’ex ministro Renato Balduzzi. Per Forza Italia, l’avvocata berlusconiana Elisabetta Casellati e l’ex senatore Luigi Vitali, indagato nel processo “nuove farmacie” a Francavilla Fontana, ma con in tasca una richiesta d’archiviazione da parte del pm, dunque, spendibile. In quota Cinque Stelle, il professor Nicola Colajanni dell’Università di Bari, ex magistrato, unico dei nuovi eletti ad aver indossato la toga da giudice almeno per un po’.
Diversa, si diceva, la partita della Corte Costituzionale, che resta aperta, con possibilità che, a questo punto, anche il nome di Violante possa subire uno stop. Perché in fondo non convince tutti, men che meno alcuni renziani di stretta osservanza. Senatori Pd di area bersaniana, ieri alla Camera, facevano notare che per la Consulta Renzi avrebbe detto di voler vedere “almeno una donna” nel ticket. E chi, si suggeriva, meglio di Anna Finocchiaro. Che, sì, è stata importante, in qualità di presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato, nella partita della riforma di Palazzo Madama, ma – anche lì – non è certo renziana; liberare la sua poltrona al Senato, con la legge elettorale che sarà messa in calendario di qui a pochi giorni, potrebbe favorire l’ascesa di un renziano alla guida della commissione strategica, forse proprio il capogruppo Pd, Luigi Zanda. E se proprio non si riuscirà a trovare la quadra, allora tanto varrà puntare su un nome esterno come quello di Augusto Barbera. Ma non c’è fretta, pare. Napolitano tesse la tela.

il Fatto 11.9.14
Giudici arrabbiati con il premier
Le risposte del plenum allo sberleffo renziano sulle ferie:
“Ci scarica le colpe addosso”
di Antonella Mascali


Si conclude con un attacco dei consiglieri togati a Matteo Renzi, il primo plenum del Csm dopo la pausa estiva. Lo sberleffo del presidente del Consiglio ai magistrati, lanciato dal salotto di Bruno Vespa, prima di assaggiare i tortellini, ha “amareggiato” i membri uscenti del Consiglio che tra poco torneranno a fare i magistrati. Quel “brr che paura, abbiamo contro sia Forza Italia che i giudici”, in risposta alla bocciatura della riforma da parte dell’Anm, è stato definito “umiliante”, “irrispettoso”, “irridente”. Il dibattito, senza che mai sia stato fatto esplicitamente il nome di Renzi, è stato aperto da Paolo Auriemma, togato di Unicost: “È con imbarazzo che iniziamo questo nuovo anno consiliare, con la sensazione che la voce degli organi rappresentativi, istituzionali o privati della magistratura, sarà sempre meno ascoltata. L’atteggiamento irridente da parte di esponenti delle istituzioni riecheggia anche in quest’aula ove, mi chiedo, quale peso potranno avere presso la politica i nostri pareri al ministro sui disegni di legge”. Anche il consigliere, come l’Anm, torna sulla riduzione delle ferie, ritenuta strumentale: “La magistratura non si lamenta della riduzione delle ferie di per sé, ma che attraverso un provvedimento di tal fatta venga implicitamente sottesa e additata all’opinione pubblica una responsabilità della magistratura per il ritardo delle decisioni processuali”.
ANCHE Antonello Racanelli, togato di Magistratura Indipendente, se l’è presa con Renzi: “I problemi non si risolvono con battute irridenti. Sulle ferie si è fatta molta demagogia e una decisione di questo tipo rischia di burocratizzare la magistratura e di creare proteste sindacali che contribuiranno ad affossare il sistema giustizia. I magistrati non si sono mai sognati di chiedere rimborsi per il lavoro festivo, ma se saranno equiparati al pubblico impiego rivendicheranno i propri diritti”. Di umiliazione ha parlato Paolo Carfì, togato di Area: “Si può discutere di tutto, ma esiste un problema di metodo. Ed è umiliante che la magistratura sia rappresentata come una categoria che non lavora e alla quale attribuire i problemi. La magistratura fa la sua parte, se non la fa è sanzionata. Il problema vero è quello dell’organico. L’allusione irridente a ferie e responsabilità civile è umiliante – ha ribadito – la magistratura non si sottrae, ma purché ci sia il dovuto rispetto”. Secondo Roberto Rossi, togato di Area, è “grave” che non ci sia un testo della riforma: “Per ora assistiamo ad annunci, ancora non c’è un testo ufficiale e questo non è rispettoso neanche del Consiglio che presto, mi auguro, darà un parere in merito al decreto sul civile, che presenta molti problemi tecnici e certamente non aiuterà il cammino di smaltimento dell’arretrato. Questo rende ancor più grave che ci si concentri su una questione minimale come le ferie dei magistrati”.
Il ministro Andrea Orlando assicura che il governo non pensa che la riforma della giustizia “si risolva con una riforma dei giudici, ma contemporaneamente penso che non ci debba essere nessun tipo di tabù”.

La Stampa 11.9.14
Una prova di resistenza al patto del Nazareno
di Marcello Sorgi


L’ennesimo rinvio dell’elezione di Luciano Violante e Antonio Catricalà come nuovi giudici costituzionali votati dal Parlamento è una prova di resistenza al patto del Nazareno, all’ombra del quale erano nate le due candidature che sembravano destinate a un successo facile. Catricalà, pur avendo servito anche sotto governi di centrosinistra, è considerato vicino a Gianni Letta ed è stato viceministro dello sviluppo economico in quota centrodestra nel governo di Enrico Letta. Ma Luciano Violante, pur avendo ricoperto cariche nelle istituzioni ad altissimo livello (presidente della Camera, della commissione Affari istituzionali, dell’Antimafia, e alla guida, insieme all’ex ministro delle riforme Quagliariello, del comitato dei saggi sulle riforme voluto da Napolitano), ha subìto per anni da parte berlusconiana un pesante ostracismo. Violante, insomma, per il Cavaliere, era rimasto il capo del “partito dei giudici”, che tra Parlamento e procure guidava o contribuiva a orientare l’“uso politico della giustizia”, mirato a colpire Berlusconi - per molti anni imbattibile sul piano elettorale - almeno sul piano giudiziario e dell’opinione pubblica.
Così, al di là della fondatezza di quest’ipotesi, dato che Berlusconi molte volte è stato assolto e ha potuto lamentare un accanimento eccessivo della magistratura nei suoi confronti, ma in nessun caso ha potuto dimostrare che dietro le quinte fosse Violante a orchestrare le mosse delle procure, il fatto che lo stesso leader del centrodestra alla fine avesse dato via libera all’elezione dell’ex-presidente della Camera alla Consulta aveva creato sorpresa, e sollevato all’interno di Forza Italia le reazioni che ieri hanno impedito l’elezione e rimesso in discussione (in favore di Donato Bruno) pure il nome di Catricalà. Sebbene Violante, in polemica con l’ala più giustizialista del suo partito e con parte della magistratura inquirente, negli ultimi tempi avesse preso posizione contro le inchieste più discutibili, lo zoccolo duro dei suoi avversari s’è opposto fino all’ultimo.
Malgrado ciò, la contestata apertura di Berlusconi rimane sorprendente. Con Bersani e i suoi predecessori alla guida del Pd, benchè la candidatura fosse già stata in campo, non era mai stato possibile trovare un’intesa sul nome dell’ex-presidente della Camera. Si vedrà oggi se l’ex-Cavaliere sarà ancora in grado di garantire l’accordo o dovrà arrendersi ai suoi falchi.
L’ennesimo rinvio dell’elezione di Luciano Violante e Antonio Catricalà come nuovi giudici costituzionali votati dal Parlamento è una prova di resistenza al patto del Nazareno, all’ombra del quale erano nate le due candidature che sembravano destinate a un successo facile. Catricalà, pur avendo servito anche sotto governi di centrosinistra, è considerato vicino a Gianni Letta ed è stato viceministro dello sviluppo economico in quota centrodestra nel governo di Enrico Letta. Ma Luciano Violante, pur avendo ricoperto cariche nelle istituzioni ad altissimo livello (presidente della Camera, della commissione Affari istituzionali, dell’Antimafia, e alla guida, insieme all’ex ministro delle riforme Quagliariello, del comitato dei saggi sulle riforme voluto da Napolitano), ha subìto per anni da parte berlusconiana un pesante ostracismo. Violante, insomma, per il Cavaliere, era rimasto il capo del “partito dei giudici”, che tra Parlamento e procure guidava o contribuiva a orientare l’“uso politico della giustizia”, mirato a colpire Berlusconi - per molti anni imbattibile sul piano elettorale - almeno sul piano giudiziario e dell’opinione pubblica.
Così, al di là della fondatezza di quest’ipotesi, dato che Berlusconi molte volte è stato assolto e ha potuto lamentare un accanimento eccessivo della magistratura nei suoi confronti, ma in nessun caso ha potuto dimostrare che dietro le quinte fosse Violante a orchestrare le mosse delle procure, il fatto che lo stesso leader del centrodestra alla fine avesse dato via libera all’elezione dell’ex-presidente della Camera alla Consulta aveva creato sorpresa, e sollevato all’interno di Forza Italia le reazioni che ieri hanno impedito l’elezione e rimesso in discussione (in favore di Donato Bruno) pure il nome di Catricalà. Sebbene Violante, in polemica con l’ala più giustizialista del suo partito e con parte della magistratura inquirente, negli ultimi tempi avesse preso posizione contro le inchieste più discutibili, lo zoccolo duro dei suoi avversari s’è opposto fino all’ultimo.
Malgrado ciò, la contestata apertura di Berlusconi rimane sorprendente. Con Bersani e i suoi predecessori alla guida del Pd, benchè la candidatura fosse già stata in campo, non era mai stato possibile trovare un’intesa sul nome dell’ex-presidente della Camera. Si vedrà oggi se l’ex-Cavaliere sarà ancora in grado di garantire l’accordo o dovrà arrendersi ai suoi falchi.

il Fatto 11.9.14
Giustizia
Responsabilità civile e ignoranza
di Bruno Tinti


Ciò che fa della responsabilità civile dei magistrati una faccenda spinosa è l’ignoranza e la voglia di intimidazione o di vendetta. Per questo Renzi&C si cimentano con il tema. Non perché ce ne sia bisogno, ma perché comprare consenso è l’inevitabile degenerazione della democrazia. La responsabilità dei magistrati esiste dal 1988 (legge 117). Prevede che lo Stato deve risarcire i danni provocati dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni in alcuni casi specifici.
1) Affermazione di un fatto inesistente negli atti: Tizio è condannato per rapina perché Caio lo ha riconosciuto; non è vero, Caio non l’ha mai riconosciuto oppure addirittura non esiste un testimone Caio.
2) Negazione di un fatto esistente negli atti: Tizio è assolto perché nessuno lo ha riconosciuto; non è vero, Caio lo ha riconosciuto.
3) Provvedimento sulla libertà personale fuori dei casi consentiti dalla legge o privo di motivazione: arresto per guida senza patente, non consentito dalla legge; oppure arresto per rapina senza spiegare quali sono le prove.
4) Grave violazione di legge: perquisizione presso lo studio di un avvocato senza dare prima l’avviso al presidente dell’Ordine degli avvocati.
Naturalmente sono solo esempi; ognuno si può divertire a immaginarne decine.
La nuova legge prevederà le stesse cose: manifesto errore nella valutazione dei fatti e delle prove, nel che si riassumono i punti 1 e 2; e violazione manifesta delle norme applicate, nel che si riassume il punto 3. Nelle norme si chiarisce che rientrano anche quelle comunitarie: precisazione inutile perché è principio costante che esse sono di immediata applicazione da parte del giudice nazionale e quindi la loro violazione equivale a violazione delle leggi nazionali. Sicché, fino a qui, della legge nuova non c’è nessun bisogno. Allora, perché?
Qui sta il punto. Ignoranti, intimidatori e vendicatori non capiscono o fanno finta di non capire, che la riforma delle sentenze non significa affatto che esse siano erronee, a meno che – si capisce – non si rientri in uno dei casi descritti più sopra. Fuori di questi casi, i giudici di 2° grado – semplicemente – hanno valutato le prove e interpretato le leggi in maniera diversa dai loro colleghi. Ma non c’è modo di sapere chi di loro è nel giusto.
Per restare al caso della rapina, il Tribunale può aver ritenuto – per esempio dopo una perizia – che il teste Caio, pur miope, ci vedeva abbastanza bene da poter riconoscere Tizio; e la Corte d’Appello può non essersi fidata di quella perizia e aver assolto Tizio perché il riconoscimento di Caio le è sembrato inattendibile. Chi dei due ha sbagliato? E chi lo sa? E, quanto all’eventuale violazione di legge, il Tribunale può aver ritenuto che una coppia gay ha diritto di adottare un bambino, motivando le complesse norme in materia e il loro rapporto con la Costituzione; e la Corte d’appello può averle interpretate in maniera diversa. Chi ha avuto ragione? Ma allora perché si applicano le sentenze della Corte d’appello o della Cassazione se non è vero che sono più “giuste” di quelle riformate? Perché così dice la legge. Si tratta di una necessità sociale: bisogna arrivare a decisioni giudiziarie definitive, altrimenti i cittadini si farebbero giustizia da soli. La sentenza definitiva è quella che si applica, “giusta” o no che sia. Sicché pensare che la riforma della sentenza automaticamente significhi responsabilità civile del giudice che l’ha emessa è appunto frutto di ignoranza; o voglia di intimidazione o di vendetta.
FINO A QUI la nuova legge è del tutto identica alla vecchia. Dove cambia sta nella gestione dei pagamenti. Finora il cittadino deve far causa allo Stato che, se avrà torto, dovrà risarcirgli il danno patito; poi si farà restituire i soldi dal magistrato (con il limite di un terzo dello stipendio annuo che si vuole portare alla metà). Ignoranti, intimidatori e vendicativi premono perché si possa far causa direttamente al magistrato. Il che non ha senso sia per ragioni pratiche che processuali. In pratica, per i magistrati nulla cambierebbe; nell’un caso o nell’altro, chi pagherà sarà l’assicurazione, che esista o no il limite della metà dello stipendio; è solo questione di costo della polizza. Ma processualmente sarebbe una tragedia. Il magistrato citato in giudizio dovrebbe necessariamente astenersi. Lo prevede la legge; e del resto che senso ha che un giudice decida un processo in cui una della parti o l’imputato pretendono da lui un sacco di soldi? La tentazione di dargli ragione per paura o torto per rabbia sarebbe davvero forte. Solo che, se si astiene, cioè se il processo passa a un altro magistrato, i tempi si allungano; e se anche il secondo magistrato viene citato in giudizio per danni, i tempi si allungheranno ancora di più. Insomma, la citazione diretta del giudice diventerebbe un modo per bloccare il processo. E siccome la nuova legge dovrebbe prevedere che la rivalsa dello Stato verso il giudice diventi obbligatoria (adesso è facoltativa) l’astensione (ripeto, obbligatoria per legge) non sarà evitata.
Un casino. Ricordate l’apprendista stregone (Goethe, Dukas, Disney)? Il problema è che qui uno stregone che ripari i danni degli apprendisti non c’è.

il Fatto 11.9.14
Richetti e Bonaccini indagati, rinviata a martedì la nuova segreteria del Pd

Slitta di una settimana la riunione della direzione nazionale che deve decidere i nuovi vertici del partito dopo la notizia delle indagini sui due contendenti alla Regione
"Non è giustizia a orologeria" dice Taddei, ma tra i dem c'è chi pensa che sia la vendetta dei magistrati per la bozza della riforma della giustizia presentata dal governo il 29 agosto (e che non è piaciuto ai pm)
qui

il Fatto 11.9.14
Sindrome emiliana, Renzi costretto a congelare tutto
Si cerca una soluzione per la presidenza e la direzione slitta a martedì
di Wanda Marra


Ufficialmente la direzione è stata rimandata perché la segreteria non è pronta. Ma la realtà è che si deve risolvere la questione dell’Emilia Romagna. Qualcosa Matteo dovrà dire sull’azione della Procura di Bologna e sulle primarie”. Ragiona così un renziano a Montecitorio. Ma l’impressione che ci sia una gran confusione generale è diffusa. La direzione prevista per oggi slitta a martedì. L’accordo con i bersaniani non è ancora chiuso, ma soprattutto Renzi ha preso tempo per valutare come risolvere la questione della presidenza dell’Emilia Romagna, dopo il ritiro dalle primarie di Matteo Richetti (“per evitare strumentalizzazioni”, come ha spiegato lui in un videomessaggio) e la ferma intenzione di Stefano Bonaccini di andare avanti (“Sono onesto”). I due sono entrambi indagati (9.500 euro in due). Intenzione di arrivare in fondo anche quella di Roberto Balzani, l’ex sindaco di Forlì, l’altro candidato in campo. La soluzione Bonaccini, però, non convince fino in fondo nessuno. Tant’ è vero che Renzi non gli ha ancora detto nulla di chiaro.
NEL BALLETTO dei possibili nomi autorevoli e insindacabili usciti nelle ultime ore (da Bersani a Prodi passando per Poletti) l’unico che sembra realistico è quello di Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. In molti l’hanno contattato anche nelle ultime ore: lui continua a dire di no. Ma se glielo chiedesse Renzi, invocandolo come salvatore della patria, potrebbe anche cambiare idea. Lo farà? Difficile dirlo adesso. Da una parte, potrebbe spingere in questa direzione l’idea di liberare il suo posto a Palazzo Chigi. I rapporti tra i due si sono complicati, ma non ancora del tutto deteriorati. “Lotti sottosegretario alla Presidenza del Consiglio? Di fatto già lo fa”, commenta un renziano. Dall’altra, però, Delrio rappresenta una garanzia, di cui il premier ha bisogno a Roma.
Per quel che riguarda l’Emilia, poi, l ’ultima parola spetta soprattutto a Pier Luigi Bersani e a Vasco Errani, che per evitare di cedere il potere in quella Regione sono pronti a minacciare qualsiasi cosa. “La via d’uscita da questa situazione? Io avevo individuato quella di entrata”, commenta l’ex segretario Pd. Ovvero Daniele Manca, sindaco di Imola, che potrebbe essere ripescato in extremis. Per quanto anche lui rischi di finire nell’indagine sui consiglieri regionali, come spiegano alcuni deputati emiliani. E allora? Allora, si torna a Bonaccini, che alla “ditta” non è sgradito e che dai renziani è più digeribile di Manca. A molti non è sfuggito il suo bacio a Errani domenica, alla Festa dell’Unità di Bologna, proprio al momento in cui Renzi gli ribadiva dal palco la sua “incommensurabile stima”, provocandone la commozione.
Le dichiarazioni ufficiali sono prudenti. Se è per Guerini, “Bonaccini deciderà cosa fare” e “nessuno ha annullato le primarie”. Mentre i vertici dem spiegano di aver dato mandato agli emiliani di trovare una soluzione.
A Roma, dunque, si prende tempo. E non solo su questo. A proposito di tempo, “ce ne vorranno di votazioni per arrivare a eleggere i giudici della Consulta e del Csm”, spiega il capogruppo Pd alla Camera, Roberto Speranza, alla fine dell’Assemblea dei gruppi convocati sul tema. Chi c’era racconta di una riunione gelida, di un malcontento generale, di franchi tiratori in arrivo. “Il clima ricordava la riunione che doveva portare il Pd a votare Franco Marini alla Presidenza della Repubblica”. Quello fu l’inizio della fine per Bersani. Stavolta probabilmente andrà in maniera diversa, nonostante gli interventi applauditi di Walter Tocci e Franco Monaco, che lamentavano l’assenza di nomi di garanzia tra quelli indicati. Ma l’asse con i bersaniani c’è e quello con Forza Italia regge (“le larghe intese sono già di fatto”, per dirla con qualche renziano critico). L’indicazione di Giovanni Legnini, sottosegretario all’Economia, alla vicepresidenza del Csm va bene ai primi, e dovrebbe aiutare la pratica della segreteria. Per la minoranza, dovrebbero entrare Enzo Amendola, Micaela Campana e Andrea Giorgis. Ma gli incarichi di peso (vicesegreteria, Organizzazione, Enti locali) resterebbero ai renziani.
NEL FRATTEMPO, il premier si prepara a un rimpasto di fatto: in uscita, appunto, Legnini, sottosegretario all’Editoria, Roberto Reggi, sottosegretario alla Scuola nominato a capo dell’Agenzia del Demanio, la Mogherini in partenza per il ministro degli Esteri europei. E poi, Delrio. Tra i ministri in possibile uscita ce ne sono altri, la Giannini e la Lanzetta per iniziare. Tutto in bilico, per ora.

Corriere 11.9.14
Il Pd si è «incartato» e non sa come uscirne
Stallo pd, Renzi rinvia le nomine
Slitta la direzione sui nuovi equilibri in segreteria
E il leader (per ora) va avanti sulla strada delle primarie
di Monica Guerzoni


ROMA — Il Pd si è «incartato» e non sa come uscirne. Lo ammettono i parlamentari che sciamano tra l’Aula e la buvette di Montecitorio, angosciati per gli incerti sviluppi dell’inchiesta bolognese. Le primarie si faranno o verranno azzerate? Davvero Bonaccini può restare in campo, dopo che l’indagine sulle «spese pazze» ha investito anche lui? Renzi calerà dall’alto il «briscolone» Delrio, o la «briscoletta» Poletti? Né l’uno, né l’altro, per adesso: Palazzo Chigi non sembra intenzionato a buttare una carta sul tavolo, sottosegretario o ministro che sia.
In Emilia-Romagna il partito è nel caos. «Una Regione governata dalle procure» azzarda Stefano Menichini su Europa in difesa del Pd. I problemi del territorio fanno tremare il Nazareno, che impone una pausa di riflessione. La direzione è rinviata da oggi a martedì e quindi salta, per ora, anche la nuova segreteria. Renzi l’avrebbe voluta unitaria, ma l’accordo non c’è e la parola d’ordine è stata derubricata a «plurale». Roberto Speranza, che ieri sera ha riunito i suoi in un hotel del centro, vuole tenersi (almeno in parte) le mani libere. Amendola, Leva, Campana o chi per loro entreranno nel «team» del leader del partito e però non avranno ruoli di grande visibilità. Questa l’intesa dimezzata che si va profilando, mentre Bologna insegna che urgono decisioni per raddrizzare il timone del partito. Lo dicono tutti, oppositori interni e renziani della prima ora. Tanto che il premier avrebbe deciso di rafforzare il ruolo di guida di Lorenzo Guerini come reggente. Con il «capo» impegnato in Consiglio dei ministri tocca al vice dare la linea, tranquillizzare i colleghi in ansia e rispondere ai giornalisti: «Le primarie non le abbiamo disdette... Le dimissioni di Bonaccini? È una valutazione che farà lui». Come dire che il passo indietro non è affatto escluso. E i gazebo? «È un percorso che è stato avviato e ci sono candidature presentate. Ascolteremo le riflessioni del partito in Emilia, poi decideremo con grande serenità. Abbiamo persone, figure, storie di prima grandezza da presentare ai cittadini». Ascoltare il partito emiliano, è la linea dettata dall’emergenza. Il problema è che, in Emilia, mezzo partito almeno si riconosce in Bonaccini. Il segretario uscente non molla, sicuro com’è di godere ancora della piena fiducia di Renzi. Ma ieri il premier non si è fatto sentire, il che rivela qualcosa sullo stato d’animo del leader.
Richetti ha lasciato il campo a Bonaccini e Balzani. E adesso questa è la sfida che si profila, per quanto in Parlamento molti si mostrino scettici sulla «sostenibilità» di una simile scelta. «Fare le primarie in queste condizioni mi sembra complicato», ammette l’emiliano Enzo Lattuca. E mentre Massimo D’Alema da Sesto San Giovanni si rifiuta di commentare «vicende giudiziarie assolutamente irrilevanti», Walter Verini guarda già oltre la competizione: «Dobbiamo trovare una figura autorevole legata al territorio, che rappresenti un po’ tutti». Sembra facile... Prodi? «Ipotesi destituita di fondamento», smentisce lo staff dell’ex premier. Bersani? «Ho l’Emilia nel cuore, per me è come la mamma. Ma io ho già dato, sono stato presidente per 16 anni». Come se ne esce? «Io avevo un’idea di come entrarci, ora è tutto più complicato». L’idea di Bersani aveva un nome e un cognome, quello di Daniele Manca.
Ieri mattina in un Transatlantico gremito per il Csm crescevano le quotazioni di Poletti e Delrio, ma nel pomeriggio Palazzo Chigi fa filtrare che la soluzione al rebus non verrà da Roma. Il sottosegretario alla presidenza avrebbe declinato l’offerta di Renzi già alcuni giorni fa. E il ministro del Lavoro, quasi tentato dalla sfida, non sembra godere di una stima unanime tra i «dem». Beppe Fioroni pensa invece che «alla fine il candidato verrà da Imola». E qui i nomi sono due. Se non è Poletti si tratta di Manca, molto gradito a Bersani, Errani e anche al capo del governo.
Avanti, dunque. Renzi ha dato il via libera alle primarie dal palco della Festa dell’Unità e non vorrebbe cambiare idea rispetto alla strategia che il Pd ha perseguito sin dal primo momento. Se invece le spiegazioni di Bonaccini non dovessero convincere, per non mettere a rischio la vittoria elettorale il leader potrebbe vedersi costretto a calare l’asso. Lo stesso segretario regionale uscente ha garantito a Guerini che si farà da parte, per il bene della ditta, qualora il Pd dovesse fiutare una cattiva aria sotto alle due Torri: le primarie si fanno per vincere le elezioni, non per rischiare di perderle... E qui torna il «briscolone». Nel tam tam dei parlamentari il nome che più ricorre è quello di Delrio, da molti invocato come «il salvatore della patria».

Corriere 11.9.14
La squadra del premier costretta a misurare una fragilità inattesa
di Massimo Franco


Il rinvio della Direzione del Pd alla prossima settimana e la ricerca affannosa di un nuovo candidato alla presidenza dell’Emilia Romagna descrivono un partito che si scopre di colpo infragilito e sotto tiro. E il fatto che la magistratura abbia indagato due renziani che correvano per quella carica, coglie Matteo Renzi in un momento delicato per il governo. La regione non è soltanto uno dei maggiori centri di potere del Pd e suo feudo elettorale. Nei mesi scorsi è diventata anche il laboratorio della metamorfosi nella direzione voluta dal presidente del Consiglio: quella dove si gioca la sfida tra la vecchia guardia e seguaci del segretario.
Il trauma è visibile nei «no» scontati a candidarsi che arrivano da personaggi storici come l’ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, e dall’ex leader Pier Luigi Bersani. Ma lo è altrettanto quando spuntano pareri contrari alle primarie, emblema di un’investitura diretta e popolare. Dalla Toscana il «governatore» Enrico Rossi, dalemiano, ha dichiarato che «l’idea delle primarie non ha funzionato», demolendo il mito della partecipazione e lodando le vituperate preferenze. Il vicesegretario nazionale del Pd, Lorenzo Guerini, ha dovuto precisare che in Emilia Romagna, dopo le dimissioni di Matteo Richetti e il rifiuto di darle da parte di Stefano Bonaccini, «le primarie non sono state disdette».
Sarebbe paradossale se accadesse. Mentre a Palazzo Chigi siede un premier che ha costruito la sua ascesa proprio partendo da lì, verrebbe abbandonato lo strumento-principe della sua legittimazione. Il sospetto è che non sia soltanto una conseguenza delle inchieste della magistratura. Nel Pd, quanto è accaduto negli ultimi mesi ha rimesso in discussione quasi tutto. E nello scetticismo di alcuni verso le primarie si indovina implicitamente la freddezza verso il segretario-capo del governo; e la voglia di vedere come Palazzo Chigi riuscirà a uscirne. Basta registrare le nuove critiche di Massimo D’Alema all’esecutivo.
Il tentativo di spingere verso l’Emilia Romagna il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sta tramontando tra mille perplessità e resistenze anche dell’interessato. Il problema è che stavolta Renzi è davvero costretto alla velocità. Le elezioni sono tra poco più di due mesi. E la vicenda promette di alimentare la competizione feroce di un Movimento 5 Stelle che ha subito rialzato la testa; e attaccando il Pd in modo strumentale si presenta come concorrente più ancora del centrodestra berlusconiano, intrappolato nelle prove d’alleanza. «Ma un candidato non indagato e sconosciuto alle Procure non ce l’avete?», ironizza Beppe Grillo. E cita Vasco Errani, il governatore dimessosi per motivi giudiziari.
In realtà, dalle voci che filtrano si capisce che a palazzo Chigi il ritiro di Richetti è stato considerato un po’ affrettato, analizzando le accuse: anche se si apprezza la sua volontà di non esporre il partito. È «un guaio», nelle parole di Bersani, che spunta mentre si cerca di decidere sui tagli alla spesa pubblica. Si era parlato di faccia a faccia tra Renzi e i titolari dei dicasteri, ma l’ipotesi è stata accantonata. Ieri, durante il Consiglio dei ministri, Renzi ha chiesto invece a ognuno di loro di inviargli una nota con le possibili riduzioni di bilancio. Si tratta di una procedura irrituale, che però risponde alla volontà di rendere tutti più responsabili. E soprattutto, implica la possibilità che, in assenza di risposte, alla fine decida il premier.

Corriere 11.9.14
Sandra Zampa
«Lasciamo stare la magistratura e chiediamo scusa agli elettori»
intervista di Daria Gorodisky


ROMA — «Matteo Renzi è venuto a Bologna a commentare “avete fatto un bel casino”; ma a me sembra che il “casino” lo abbiano fatto in parecchi... Adesso chiediamo scusa agli elettori: lo facciano il segretario e i vertici locali, che avrebbero dovuto dire “qui decidiamo noi”. Scusiamoci tutti». Sandra Zampa, prodiana doc, deputata e vicepresidente del Pd, addossa ai vertici del partito la responsabilità del «pasticcio» delle primarie in Emilia Romagna.
«Ci sono state troppe interferenze, continui tentativi di definire un candidato unitario. Ma l’unitarietà o c’è, come è stato sul nome di Chiamparino in Piemonte, oppure è una chimera. Si è perso un mese e mezzo per capire se Roma permetteva o non permetteva; o se avrebbe mandato un nome “importante” a correre per la presidenza regionale, come se ci fossero candidati di serie A e di serie B: una mancanza di rispetto. E si è perso tempo, soprattutto, per provare a nascondere le divisioni interne alla corrente renziana, che esprimeva due candidati».
Ma questo che cosa c’entra con le indagini a carico di Matteo Richetti e Stefano Bonaccini?
«C’entra perché la consultazione su chi correrà a nostro nome per la guida della Regione è fissata il 28 di questo mese: sono rimasti pochissimi giorni per la campagna elettorale, per parlare ai cittadini. Speravo che non si provasse più a evitare le primarie».
Anche senza il «ritardo» la notizia delle indagini sarebbe arrivata con la stessa tempistica.
«L’inchiesta era già nota da tanto. Però, dopo essersi candidati, Richetti e Bonaccini hanno mandato i loro avvocati a verificare in Procura le loro rispettive situazioni: perché non lo hanno fatto prima?»
Crede che ci sia un nesso tra il corso delle indagini in Emilia-Romagna e il lavoro del governo sulla riforma della Giustizia?
«No. La Procura, come ha dichiarato, ha lavorato in agosto per arrivare al punto in cui è arrivata. In questa serie incredibile di errori, l’unico che non possiamo permetterci è di attaccare la magistratura: sarebbe l’ultima cosa che ci manca per essere omologati a Forza Italia e Berlusconi. Possiamo solo chiedere a giudici di fare il prima possibile».
Richetti si è ritirato, mentre Bonaccini ha confermato che andrà avanti con l’appoggio dei vertici nazionali, e correrà contro l’altro candidato pd rimasto, Roberto Balzani.
«La decisione spettava soltanto a lui. E penso che Bonaccini abbia scelto bene. Confido nel fatto che, alla fine, l’imputazione che lo riguarda decadrà».
Lei e l’area prodiana lo avevate appoggiato, affiancandogli il «vostro» Patrizio Bianchi come responsabile del programma. Continuate a stare con lui?
«Sì».

Corriere 11.9.14
La crisi irreversibile del vecchio apparato e c’è il terrore dei gazebo deserti
di Marco Imarisio


BOLOGNA — «Siamo sempre qui, a metà strada tra camicia bianca e colbacco». La signora Marisa del ristorante Bertoldo è un’anima divisa tra fornelli e disincanto, con prevalenza della seconda. I volontari della Festa dell’Unità sono abituati alla loro funzione di termometro, in qualche modo sono ormai una categoria dello spirito, l’incarnazione degli umori della sempre citata e poco ascoltata base democratica. «Meglio stare a casa, così le primarie non servono a nulla. Ci vuole un partito che decide». Alla fine la presunta giustizia a orologeria potrebbe diventare il grande alibi. Tana libera tutti, dalle colpe di un pasticcio che è sabbia in un motore che vale il 12 per cento del Pil nazionale e maneggia più fondi europei di qualunque altra Regione. La crisi politica è arrivata ben prima di quella giudiziaria. Il Pd emiliano è un corpaccione che ha compiuto la sua transizione attraverso le varie sigle, in assoluta continuità di uomini e idee. Le dimissioni di Vasco Errani e la chiusura forzata di un’epoca hanno proiettato il pezzo di Pd più immobile e pesante d’Italia nell’era di Renzi e del suo cambiare verso con gli uomini di sempre, fino a quel momento abbracciati in un matrimonio di convenienza.
La mutazione non è ancora compiuta. L’addio di Errani ha reso inevitabile la resa dei conti. Ancora pochi giorni fa, tra gli stand del Parco Nord, uno degli amministratori locali più in vista aveva avvisato il premier. «Matteo, se lasci fare a noi qui succede un casino epocale». Come non detto. Qui le primarie sono sempre state una liturgia molto partecipata ma senza sorprese. Ma ora l’anomalia di una superiorità senza concorrenti rischia di diventare un’arma a doppio taglio. «Qualcuno vorrebbe far credere che sono le primarie la causa della divisione, quando invece sono soltanto l’unica soluzione». Arturo Parisi, ex ministro, ma soprattutto inventore delle primarie, vede fortemente a rischio la sua creatura. «Questo è un Pd strano», dice. «Il solido primato del quale ha goduto nella società emiliana, lo obbliga a trasferire al suo interno sia la funzione di governo che quella di opposizione. Una dialettica compressa, se non occultata. Ma senza primarie, è destinata a tramutarsi in conflitto permanente».
L’infermeria della politica emiliana è piena di feriti sul campo di questa battaglia a bassa intensità. Non è passato il candidato degli amministratori locali, quel Daniele Manca sindaco di Imola stimato da tutti ma troppo bersaniano per passare senza lasciare il segno di una vittoria netta del vecchio apparato della ditta. All’ultimo chilometro prima del traguardo è caduto anche Matteo Richetti, per le stesse ragioni di cui sopra, il suo renzismo spinto e il profilo ipercattolico erano boccone indigeribile per una classe dirigente figlia del vecchio partito. L’unico prodotto di una sintesi precaria tra l’anima di un Pd che si sente ancora Pds e un renzismo solo di facciata era il placido Stefano Bonaccini, il segretario regionale nato come uomo della ditta e divenuto sostenitore dell’attuale premier dopo i rovesci del 2013. Alla fine doveva rimanere soltanto lui, ultimo Highlander sotto mentite spoglie della centralità di una classe dirigente che si sente in via d’estinzione. La selezione non è stata indolore. Ne sono prova i molti silenzi dei parlamentari d’area e le poche parole di Virginio Merola, sindaco di una Bologna sempre più marginale nel potere locale e vano sponsor della candidatura di Manca. «È possibile risolvere la situazione solo se c’è una volontà vera. Quel che avevo da dire, l’ho già detto a chi di dovere».
Matteo Renzi ha preso nota ma forse non ha capito che quell’Emilia Romagna a lui quasi sconosciuta, poteva diventare la prima, vera grana della sua carriera da segretario nazionale. «Da queste parti» dice Paolo Pombeni, politologo e docente universitario, ex socialista, «permane ancora il vecchio riflesso condizionato della perpetuazione della specie a scapito delle infiltrazioni esterne». La prova vivente della teoria sarebbe Roberto Balzani, l’ex sindaco di Forlì che combatte una battaglia tutta sua contro il presunto consociativismo eletto a sistema di Errani e al momento rimane l’unico candidato senza ammaccature evidenti di questa corsa surreale. «Non gli perdonano il fatto di essere contro l’apparato».
Anche Gianfranco Pasquino, politologo di area Mulino, si associa ai timori. «Le primarie si devono fare, perché un partito che vuole essere democratico non deve mai stravolgere le sue regole a scapito di un candidato indesiderato come Balzani. Tutto il resto è vecchia politica e bruttissima politica». A questo porta il vicolo cieco emiliano. A primarie da salvaguardare come Panda ma che rischiano di avere così poca gente da sembrare ridicole. La logica e il sapere degli studiosi della politica, che a Bologna non sono mai mancati, spinge per il salvataggio della «creatura». Il nostro sondaggio personale alla Festa dell’Unità si conclude con dodici volontari su 12 intenzionati a disertare gli eventuali gazebo.

Corriere 11.9.14
Il Pd stretto fra indagini e garantismo
tra Indagini e Garantismo Pd Prigioniero di Se stesso
di Antonio Polito


Forse, col senno di poi, sarebbe stato meglio per Renzi se i magistrati di Bologna avessero fatto qualche giorno di ferie in più. Invece «la Procura ha lavorato anche in agosto», ha spiegato implacabile il vicecapo dell’ufficio. Risultato: primarie emiliane nel caos, direzione del partito rinviata, festa dell’Unità rovinata. Per quanto di modesta entità giudiziaria, l’inchiesta di Bologna è una bella tegola per il Pd renziano. Innanzitutto perché ricorda che il nuovo gruppo dirigente non è così vergine da non avere un passato, in cui viaggiò in auto blu e fu esposto agli incerti del mestiere (soprattutto nei consigli regionali con «nota spese selvaggia»); né è così fraternamente unito da non conoscere le notti dei lunghi coltelli, come quella che si sta consumando nella roccaforte emiliana e che solo i nuovi cremlinologi del renzismo sanno spiegare.
Una macchia fastidiosa, insomma, per la generazione Dash, con la camicia bianca che più bianco non si può.
Ma la cosa peggiore è che ripiomba il partito nuovo in una questione antica, tipica dell’era che sperava di essersi ormai gettata alle spalle: come dotarsi di una moderna cultura garantista dopo una così lunga pedagogia moralista e, dunque, che fare quando uno dei tuoi è sotto inchiesta.
Al momento, la situazione è kafkiana. Richetti si è ritirato dalle primarie perché è indagato, ma senza averlo detto. Bonaccini l’ha detto ma non si è ritirato, confida come al solito di dimostrare ecc. ecc. (ma già deve sfuggire ai militanti inferociti sul suo blog: quanto potrà resistere?). Il terzo candidato, che non è indagato, rischia invece di essere eliminato se saltano le primarie. Il problema è che il governatore che sono chiamati a sostituire, Errani, si era dimesso dopo una sentenza di primo grado nonostante Renzi gliel’avesse sconsigliato, poiché viene dal Pci e sta ancora elaborando il lutto della diversità come perfezione morale; mentre Enrico Rossi, anche lui ex Pci, si ricandida a governatore della Toscana nonostante sia indagato. Nel frattempo nessuno obietta che in Campania Vincenzo De Luca, due volte rinviato a giudizio, si prepari a correre per le primarie regionali. Né che al governo ci siano quattro sottosegretari a loro volta indagati, ma confermati.
Così il nuovo Pd si trova tra due fuochi. Se dice, come in molti sussurrano, che l’indagine è una vendetta della magistratura per le ferie tagliate, dà ragione in un solo colpo a vent’anni di agitazione berlusconiana contro le toghe rosse e la giustizia a orologeria. Se dice, come molti vorrebbero, che lascerà decidere ai suoi elettori e non alle Procure chi deve essere candidato e chi no, dà torto in un colpo solo a vent’anni di antiberlusconismo, che ha fatto strame di molti principi di garanzia e che è stato a lungo usato come un surrogato della politica per cibare il popolo di sinistra.
Bisognerebbe che il nuovo partito-guida avviasse dunque una riflessione: su come essere più severi, prima che arrivino le Procure, con chi sale sul taxi solo per arricchirsi, e meno bigotti con chi viene fatto scendere ogni volta che fischia un pm. Bisognerebbe che Renzi ci pensasse e ne parlasse, visto che è anche il segretario del partito e non ha mai pensato neanche per un nanosecondo di lasciare la carica. Ma Renzi, per altro loquace, per ora ne tace.

Il Sole 11.9.14
Viaggio nella Regione rossa
Il modello-Emilia tramonta con la sconfitta Pd del 2013
di Lina Palmerini


«Erano gli anni '80, in consiglio regionale si fece un dibattito dal titolo "Afferrare Proteo", dove Proteo rappresentava il mercato. C'era tutto il Pci regionale e c'ero anch'io, ero segretario della Dc, e mi ricordo le conclusioni di quella giornata riassunte in una frase illuminante di Turci. Lui disse: "Se Proteo non fosse per definizione inafferrabile, noi potremmo dire di averlo afferrato"». Pierluigi Castagnetti ripensa a quegli anni vissuti da «albino», un estraneo in un mondo tutto declinato in rosso. E quella frase, in effetti, rappresenta bene quello che era il modello emiliano: un Pci che afferrava tutto, anche l'inafferabile, anche il mercato. Questo era quello che era l'Emilia e che Fausto Anderlini, sociologo bolognese con una lunga militanza nel partito, chiama modello «integrativo», cioè «un partito luogo delle decisioni che poi fa da cerniera verso le istituzioni, enti locali, forze sociali, imprese». Spiega di aver preso la definizione da un libro di Patrizia Messina che contrappone il modello bianco del Veneto – «aggregativo» – a quello rosso emiliano «integrativo», appunto. Ma è un passato che non ritorna anche se qualcuno ha provato a rianimarlo.
«Pierluigi Bersani, nel 2013, fa l'estremo tentativo – dice Anderlini – di far rivivere una storia. L'unica volta in cui gli "emiliani" hanno tentato la scalata nazionale, una prova di sopravvivenza. Con lui c'erano Errani, Migliavacca, Fiammenghi. Hanno perso, lo sappiamo. E quel tentativo fallito ha conclamato il declino di un modello e di quel ceto politico». Un tentativo tardivo quando ormai la presa sulla società non era più così stretta, quando il rapporto del partito con le coop o con i sindacati funzionava ormai al al rovescio, quando il mercato aveva cambiato la vita delle imprese e quando i militanti erano ormai solo anziani. Insomma, un tentativo fatto quando Proteo era diventato inafferrabile davvero.
È subito dopo, nelle ore brucianti della sconfitta, che gran parte di quel ceto politico si sposta sull'opzione B e si converte a Matteo Renzi che in Emilia stravince alle primarie n.2 contro Cuperlo e stravince alle europee contro Grillo. «Gli effetti del renzismo applicati all'Emilia li vediamo, però, con questa vicenda delle primarie. Sia chiaro – dice Anderlini – l'inchiesta della magistratura è ai limiti del colpo di Stato ma il partito ha reagito con una crisi di nervi perché non ha più sicurezza di sé. Perché le primarie lo hanno trasformato in un comitato elettorale, un luogo senza discussioni, perché il partito rinuncia alla funzione di selezione di classe dirigente e dunque diventa fragile, in balia di eventi anche piccoli». Questa è la profezia di Anderlini, di un ceto politico che tenta la via di salvezza con Renzi ma che incontrerà la sua definitiva fine. Ma è una tesi. L'altra è che a un modello che si è esaurito, che non ha più presa sulla società, va fatto un innesto nuovo.
Spiega Salvatore Vassallo politologo dell'università di Bologna e già deputato Pd nel 2008. «Il residuo di quella storia è in organismi politici invecchiati, in militanti ormai solo anziani, in una partecipazione inaridita. Con questa realtà, oggi, ci si deve confrontare e le elezioni del 2013 hanno dimostrato che la politica della nostalgia non porta da nessuna parte. Dunque serve un nuovo innesto che sia piantato sul corpo invecchiato ma resistente dell'Emilia, un'operazione di riqualificazione della classe dirigente e della partecipazione. Un'operazione che non deve partire da zero ma che ha come unica via le primarie». E quel modello che Anderlini chiama integrativo ma che è stato anche una cappa di potere nella società e nell'economia, ormai offre un'eredità debole ma pur sempre presente. «È un tessuto di classe politica che connette in modo informale persone di partito, amministrazione, imprese cooperative e partecipate: una eredità che ha del buono e del cattivo, dell'onesto e del discutibile. Il pro è una maggiore capacità di coordinamento; il contro è un minor grado di apertura e contendibilità».
E di quel declino un segno è stata anche la nascita del grillismo, proprio in Emilia. «Nasce sul declino della partecipazione nel partito ma sta dentro quella cultura emiliana partecipativa e infatti nasce qui, come movimento critico». Una storia che comincia con le comunali 2009 quando Favia raccoglie un 3%, poi alle regionali 2010 triplica i consensi fino al take off delle amministrative 2012, quando Grillo arriva al 20% e conquista Parma. Il tentativo di Bersani è dell'anno successivo e Grillo gli sbarra la strada: la storia ha qualcosa da insegnare anche alle primarie di oggi.

Il Sole 11.9.14
A Bologna in gioco la trasparenza del renzismo e il destino delle primarie
di Stefano Folli


Un groviglio di difficile soluzione richiede scelte tempestive al segretario-premier
A Bologna il Partito Democratico di Renzi si gioca gran parte della sua credibilità. Per meglio dire, è la filosofia politica del premier (il "renzismo") a essere sfidata sul terreno della coerenza. La ragione è intuitiva. In nessun altro posto come in Emilia Romagna il Pd ha bisogno di coniugare la novità "renziana" con la continuità di un sistema di potere ramificato e ancora possente. Un sistema cruciale nella storia e nel destino della sinistra italiana.
Questo significa che oggi Renzi e l'Emilia Romagna hanno bisogno uno dell'altra. Senza la spinta dinamica del segretario-premier la regione rossa rischia di chiudersi in una crisi involutiva. D'altra parte senza l'Emilia Romagna il presidente del Consiglio sarebbe privato di quelle radici piantate nel territorio e nella peculiarità storica italiana che sono ancora, nonostante tutto, irrinunciabili. Come dimostra l'aver tenuto la festa del Pd proprio a Bologna, con l'idea di rinverdire qualcosa delle vecchie tradizioni. In altri termini, il passato e il futuro s'incrociano in forme che richiedono un'attenta alchimia. Tuttavia il tentativo di trovare un successore a Errani in modo indolore non è riuscito. Lo scandalo che ha tagliato le gambe ai due candidati principali non è gravissimo nei numeri (le "spese pazze" consisterebbero in poco meno di diecimila euro totali contestati nell'arco di una ventina di mesi), ma lo è sotto il profilo morale. Fortuna per il Pd che i Cinque Stelle in crisi non sembrano in grado di intercettare lo sconcerto che si respira.
Difficile a questo punto pensare che il rebus si risolva mandando avanti Bonaccini, cioè il candidato che non si è ritirato benché sotto inchiesta, e affidandosi alla clemenza dell'opinione pubblica. È plausibile che il Renzi prima maniera, non ancora segretario-premier, sarebbe stato impietoso nel denunciare un gruppo dirigente che difende il candidato indagato. Viceversa il Renzi di Palazzo Chigi, attento non commettere passi falsi, cerca di guadagnare tempo per uscire dal pasticcio con il minor danno. Certo il rischio è molto alto. Il presidente del Consiglio tradisce in qualche misura se stesso se viene meno al principio della massima trasparenza. E oggi a Bologna la trasparenza è parecchio minacciata.
C'è un punto in particolare che non può essere sottovalutato. Le regole prevedono le "primarie" per scegliere il candidato alla regione. E la scadenza per presentare le firme è adesso. Stando alla normativa interna, non ci sarebbe tempo e spazio per introdurre altri candidati decisi a Roma (Del Rio, Poletti). Proprio Renzi, che ha fatto delle "primarie" lo sgabello del suo trionfo, non dovrebbe annacquarne lo spirito e i regolamenti. Ma questo vuol dire lasciar correre, accanto a Bonaccini, Roberto Balzani, l'ex sindaco di Forlì che sta diventando l'uomo nuovo della contesa, l'unico a non essere compromesso con gli assetti di potere oggi sotto l'occhio della magistratura.
Per Renzi è la scelta più ardua. Rinnegare un po' se stesso e la propria storia? Incrinare il legame con l'Emilia Romagna? Riportare sulla scena un esponente della vecchia guardia come garante (si è parlato di Bersani)? Qualunque sia la decisione, il caso peserà sul futuro del "renzismo". Sarebbe bizzarro se l'uomo che ha vinto nel Pd (e prima a Firenze) grazie alle "primarie", smontasse ora il meccanismo di selezione dal basso.

Repubblica 11.9.14
La nuova ferita al cuore rosso
Un tempo chi non era all’altezza veniva sostituito. Tanto il materiale umano non mancava
Ora però qualcosa si è inceppato
di Piero Ignazi


PRIMA il sindaco di Bologna Delbono, poi il presidente di regione Errani, e ora il segretario regionale Bonaccini e il presidente del consiglio regionale Richetti: tutti investiti da inchieste della magistratura. Il cuore rosso della sinistra è in affanno.
QUELLO che era il forziere degli iscritti, dei voti e dei finanziamenti per il vecchio partito comunista e per i suoi eredi, oggi perde terreno sia in forza di attrazione che in immagine. Spetta ora alla Toscana la palma della regione più rossa: alle europee è volata al 56% dei voti contro il 53% raccolto in Emilia Romagna. E anche quando si votò alle primarie, il conflitto tra Bersani e Renzi dimostrò la maggiore capacità di mobilitazione dello sfidante nella propria regione. Già allora si intravedevano i segni del cambio di egemonia all’interno del Pd. Poi, la caduta rovinosa di Bersani e la marcia trionfale di Renzi hanno fatto il resto. Alla guida del partito, al di là del giglio magico, è (era) rimasto solo il modenese Stefano Bonaccini.
In realtà, nella storia della sinistra comunista e anche post-comunista, fino a Bersani non ci sono mai stati dirigenti di primo piano che provenissero dall’Emilia Romagna. La divisione dei compiti era molto precisa: a Roma si faceva la grande politica (rivoluzionaria, ai tempi di Togliatti), ai compagni emiliani il compito di mostrare la vetrina del socialismo (municipale) realizzato. Per questo i dirigenti locali dovevano essere i migliori, i più efficienti e specchiati, oltre che fedelissimi alla linea. Il serbatoio di reclutamento dell’Emilia Romagna era abbondantissimo con una densità organizzativa che sfiorava un iscritto al Pci ogni 10 abitanti. Non solo l’organizzazione partitica sfornava nuove leve a ripetizione ma il gioco di scambio e di interazione con quelle che all’epoca venivano chiamate le organizzazioni di massa (sindacati, cooperative, e associazioni varie legate al partito) era fitto e continuo. Chi non era all’altezza e seguiva un comportamento non in linea con l’ortodossia politica e comportamentale era emarginato e sostituito. Tanto, il materiale umano non mancava.
Da tempo, però, qualcosa si è era inceppato in questo circolo, per certi aspetti virtuoso, per altri terribilmente soffocante e oppressivo (pensiamo al movimento del ’77). La caduta di Bologna nel 1999 quando il candidato civico sorretto dal centrodestra, Giorgio Guazzaloca, sconfisse la candidata del Pd (scelta con le primarie per la prima volta nella storia del partito) dava la misura della scollatura tra amministrazione rossa e cittadini. In quegli anni lo stesso valeva per altre roccaforti cadute, a Parma, a Piacenza e in altri centri minori. Reggeva la regione nel suo complesso, affidata alle mani sicure di Vasco Errani fin dal 2000. Ma l’esaurimento della spinta propulsiva della classe politica locale era palpabile. Le cronache politico-giudiziarie di questi giorni lo attestano.
Al di là delle inchieste della magistratura è stata la corsa per la candidatura alla presidenza di regione ad aver lasciato il segno, con quella vaudeville di candidati che entravano ed uscivano dalla scena uno dopo l’altro, come in una commedia degli equivoci di Fayedeau. C’era chi si candidava perché voleva essere “unitario”, chi voleva rappresentare una alternativa, chi offriva una diversa opzione “interna” alla corrente renziana, chi infine pensava a competizioni future. Tutte posizioni lecitissime, salvo che hanno poi dato vita ad un balletto del cisto e noncisto sulla base delle indicazioni, mai esplicitate all’esterno peraltro, del “centro”. Se le primarie, come ha scritto più volte Ilvo Diamanti, sono un aspetto addirittura identitario del partito, in cui il metodo fa aggio sul contenuto, allora tutta questa ricerca di unzione dal segretario nazionale non ha alcun senso. Le primarie non sono fatte per misurare il gradimento del designato: sono fatte per lasciare sul campo un vincitore soltanto, dopo che i contendenti se lo sono date di santa ragione per meritare la nomina. Per un partito che le vive come un elemento identitario fare ora finta di niente ed imporre da Roma un candidato “forte e autorevole” qualche problema lo crea. Soprattutto quando questo si cala in una regione in crisi di identità, incalzata nella sua storica primazia e, sostanzialmente, affaticata dal lungo governo della regione; affaticata perché il rinnovamento generazionale, che pure è incominciato da molti anni, non si è fortificato in confronti-scontri duri e a viso aperto. Il riflesso “governativo” di questa regione, cioè lo stare sempre con il segretario, come ai tempi della Bolognina di Occhetto e del passaggio al Pds, ha portato a una adesione massiccia e quasi automatica a Renzi. In fondo il leitmotiv era: vogliamo vincere e quindi adesso stiamo con chi ci dà maggiore garanzie di farcela. Certo, le dimissioni di Vasco Errani hanno destabilizzato la classe politica regionale e costretto i potenziali candidati a muoversi in un terreno nuovo, privi del viatico dell’ex governatore; e così hanno cercato “consiglio” a Roma, con tanto di imprimatur e benedizioni. La fragilità psicologica e politica di cui sta dando prova la classe politica emilianoromagnola (salvo scatti d’orgoglio dell’ultima ora) spiana le ultime, velleitarie, resistenze all’egemonia renziana: resistenze non politiche, sia ben chiaro, ma semplicemente in termini di difesa di autonomia locale. Un candidato imposto da Roma significa un commissariamento di fatto. Quindi, ai compagni della pianura spetta il compito di fare tanti iscritti e organizzare belle feste dell’Unità. Ma in politica non mettano più becco. Dura lex sed lex.

il Fatto 11.9.14
La Ditta in Emilia
Pd, guai a chi tocca la cassaforte rossa
Legami decennali, ruoli che non mutano: cooperative, appalti, sindacati e partitone
Ecco perché i nuovi arrivati renziani vengono tenuti lontani dalla cassa
di Marco Franchi


Bologna La cassaforte è sempre più vuota. O almeno meno piena. Ma proprio per questo si fa di tutto per tenerci le mani sopra. Così nella rinuncia di Matteo Richetti a correre per la presidenza dell’Emilia c’è anche la volontà del “vecchio Pd” di non dare a un ultimo arrivato la combinazione di quasi 70 anni di storia, voti, appalti, accordi. Con Matteo Renzi che per spartizione da codice Cencelli e per quieto vivere si accorda con i capi dell’ex Pci. Da Vasco Errani, dimessosi dalla presidenza della Regione dopo la condanna per falso ideologico e a cui domenica Renzi ha dedicato un lungo peana, fino a Pier Luigi Bersani e magari con la benedizione del referente Massimo D’Alema. Senza dimenticare che ministro del Lavoro è Giuliano Po-letti da Imola, ex n. 1 nazionale delle coop rosse e pure di quelle bianche.
ED ECCO LE PRESSIONI su Richetti perché molli lasciando libero campo a Stefano Bonaccini, che sarà pure lui renziano, ma viene dal Pci, è stato dalemian-bersaniano, è cresciuto nella macchina del partito e ne conosce e protegge tutti i fili, i legami, i misteri. La cassaforte, appunto. E amen se è indagato per peculato come Richetti. Uno resta, l’altro va. Per una storia che bolliva da mesi e che fino ad ora non aveva preoccupato il Pd. L’alleanza Lega Coop-Confcooperative bianche significa 43 mila imprese, un milione e 200 mila occupati, 12 milioni di soci, 140 miliardi di euro di fatturato, un valore sul Pil dell’8%, a cui si aggiunge la raccolta delle banche di credito cooperativo, che è di 157 miliardi (13,4% degli sportelli del Paese). E ancora: il 34% della distribuzione e del consumo al dettaglio, il 35% della produzione agroalimentare, il 90% della cooperazione impegnata nel welfare, con servizi a circa sette milioni di italiani. È la dote che Giuliano Poletti ha portato al governo. La capitale è Bologna, con i palazzi bianchi e rossi gli uni accanto agli altri. Con vista sulla Regione. Il Pd in Emilia-Romagna è Pci-Pds-Ds, con undici fondazioni per ognuna della federazioni e che fanno capo alla Fondazione Ds di Ugo Sposetti, ultimo tesoriere Ds, l’uomo di tutti i segreti economici dell’ex partito.
Simboli per raccontare una realtà. A Bologna da est si entra in via Stalingrado, strada superstite al crollo dell’Urss. A riceverti è la Porta d’Europa, enorme fortino che copre tutti e due i lati, ci devi passare sotto, inchinarti metaforicamente. È la sede dell’Unipol, la madre di tutte le cooperative. Tanto che alla Festa nazionale dell’Unità hanno ben pensato di scegliere un logo dove le Due Torri medievali sono cancellate da una nuova torre, appena costruita dall’Unipol.
BENVENUTI nella cassaforte. Di tutto. Siriana Suprani, moglie di Pierluigi Stefanini, presidente Unipol, arrivato nelle coop nel 1990 da dirigente Pci, è la signora dell’Istituto Gramsci, diretto dal politologo onorevole bersaniano Carlo Galli e che raccoglie la cultura e la memoria rossa.
Non si cambia, non si corrono rischi nemmeno con il post-dc Richetti, nel Ppi con Enrico Letta e poi renziano della prima ora. Bonaccini è l’ultimo referente di quella che un tempo si chiamava l’Emilia rossa. Aperte nelle esportazioni, chiusa nelle logica di potere. Le coop sono dappertutto, nelle banche, all’università, nella fiera, nelle librerie, hanno uomini nei Comuni, persino in Nomisma, il centro di ricerche fondato da Romano Prodi.
SONO STATE LORO a coinvolgere privati affogati dalla crisi nell’ultimo business, quello di Eataly world, il colossale parco del cibo che sorgerà a Bologna in pool con Oscar Farinetti, gourmet d’affari renziano. Loro hanno messo le mani su un affare da 40 milioni che gli da ossigeno, hanno spartito qualcosa con i padroni privati, salvati e riconoscenti.
La continuità è questo consociativismo, la rete che va protetta. Non solo per il 52,5% dei voti alle Europee, undici punti in più della media nazionale. Il renzismo in Emilia-Romagna è ancor più gattopardesco. Tutti renziani in parata, poi nulla cambia nella realtà.
Una forza che si regge su 80 mila iscritti, 700 circoli Pd, 400 mila persone alle Feste dell’Unità. Bonaccini è stato scelto per portare nel Pd di Renzi una regione strategica e una tradizione storica. La novità si può fermare davanti a considerazioni di interesse, con buona pace del giovane Richetti.
Il sistema blinda se stesso anche nel rapporto con Comunione e Liberazione, che ha sempre amato Bersani ed Errani per la loro politica sulla scuola e con cui le coop sono in affari, dall’ Expo 2015 a Milano con Cccdi Bologna e Cmb di Carpi, al tunnel della Tav Torino-Lione con la Cmc di Ravenna. Una rete da proteggere, tanto più in tempi di magra. Con la Manuntencoop indagata per l’Expo, il colosso Ccc che dicono vorrebbe vendere la sua fastosa sede, inaugurata nel 2008 da Massimo D’Alema. Allora ministro degli Esteri.

il Fatto 11.9.14
Primarie Pd Emilia, è caos: ci penserà Verdini
di Emiliano Liuzzi
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/10/primarie-pd-emilia-e-caos-ci-pensera-verdini/1116253/

Corriere 11.9.14
Toscana
Rossi: mi ricandido a governatore anche in caso di processo

FIRENZE (M. Gasp.) — Il primo a fare la domanda ad Enrico Rossi su un possibile ritiro della candidatura al secondo mandato di governatore della Toscana nel caso di un rinvio a giudizio nell’inchiesta sul buco milionario dell’Asl di Massa (nella quale è indagato) è stato Giovanni Donzelli, capogruppo di FdI, durante il consiglio regionale di ieri. Poi, ai margini della seduta, ci hanno pensato i giornalisti. Il presidente ha risposto che anche con un rinvio a giudizio non avrebbe avuto alcun problema a ricandidarsi: «L’inchiesta non influisce sulla mia ricandidatura. Sono state fatte tutte le verifiche e noi siamo in una botte di ferro». E ha ricordato di essere stato lui a sollevare la vicenda davanti alla magistratura: «Io stesso ho denunciato la questione alla Procura, all’opinione pubblica e alla Corte dei conti e le indagini svolte hanno dimostrato che i nostri bilanci sono sani».

il Fatto 11.9.14
I renziani? Nient’altro che ‘fanfanini’ deboli
di Andrea Scanzi

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il Fatto 11.9.14
Il capolavoro di Renzi: l’invidia sociale trasferita ai piani bassi
di Alessandro Robecchi


Con tutta ‘sta pippa della crisi dell’ideologia, e che l’ideologia è morta, e che ormai “ideologico” pare un insulto peggio che “pedofilo” o “truffatore”, si sta perdendo di vista un piccolo dettaglio: che l’ideologia è viva e lotta insieme a noi. Anzi, contro di noi. E un caso di scuola ci viene dalle recenti imprese del governo Renzi, prima tra tutte quella del blocco degli stipendi del pubblico impiego: circa tre milioni di lavoratori per una “manovra” (un pezzettino di quella manovra correttiva che “non ci sarà”, ma invece c’è eccome) da circa tre miliardi. Non si entrerà qui nel merito del provvedimento: secondo la Cgil l’introito medio perso da ogni lavoratore sarà di circa 600 euro nel 2015, come dire che gli statali renderanno nel 2015 i famosi 80 euro ricevuti nel 2014, e vabbè. Si vuole invece affrontare qui il discorso, per l’appunto, ideologico.
Come si sa, il governo Renzi gode di grande sostegno e popolarità, e come si sa è sostenuto quasi militarmente da alcune falangi di fedelissimi piuttosto acritici, soldatini sempre in piedi dei social network. È bene ascoltarli, perché sono loro a tradurre in parole nette l’ideologia corrente. Il più chiaro esempio di vulgata renzista di fronte al blocco degli stipendi pubblici (praticamente un taglio, specie se si pensa che il 2015 sarà il quinto anno consecutivo di blocco) è il seguente: “Gli statali hanno un lavoro”. Di più: “Un lavoro fisso”. Che sia un lavoro pagato poco, sì, lo dicono anche loro (specie quando parlano di docenti, maestri e professori, notevole base elettorale) ma per ora è quel “posto fisso” che disturba, che offende, che indigna.
Prima lezione di ideologia: invece di battersi per un “posto fisso”, o almeno dignitoso e minimamente garantito per tutti, si demonizza chi ce l’ha. Insomma, il meccanismo è semplice: si prende un diritto che a molti è ingiustamente precluso e lo si chiama “privilegio”, additandolo al pubblico ludibrio. Ora ci sono due componenti di questa posizione altamente ideologica che si sposano mirabilmente. Il primo è la lenta, ma inesorabile, distruzione dell’immagine del dipendente pubblico. Una cosa che prosegue da anni e anni: è ladro, non lavora, va al bar, eccetera.
Il secondo dato ideologico è la vera vittoria del renzismo: aver trasferito l’invidia sociale ai piani bassi della società. Quella che una volta si chiamava lotta di classe (l’operaio con la Panda contro il padrone con la Ferrari) e che la destra si affannava a chiamare “invidia sociale”, ora si è trasferita alle classi più basse (il precario con la bici contro l’avido e privilegiato statale con la Panda). Insomma, mentre le posizioni apicali non le tocca nessuno (né per gli ottanta euro, né per altre riforme economiche è stato preso qualcosa ai più ricchi), si è alimentata una feroce guerra tra poveri. Una costante corsa al ribasso che avrà effetti devastanti. Perché se oggi un precario può dire al dipendente pubblico che è privilegiato, domani uno che muore di fame potrà indicare un precario come “fortunato”, e via così, sempre scavando in fondo al barile. Si tratta esattamente, perfettamente, di un’ideologia. Chissà, forse qualcuno farà notare che considerare privilegiato un professore a 1.500 euro al mese non è sano né giusto. Specie se a quel “posto fisso” così scandaloso sono aggrappati figli precari o mogli sottopagate, se quel “posto fisso”, insomma, è – oltreché un diritto che dovrebbero avere tutti – un surrogato del welfare che dovrebbe esserci e non c’è.

Unità on line 11.9.14
D’Alema a Firenze sull'Unità: colpito dal silenzio di Renzi

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Libero quotidiano 8.9.14
Un generatore di slogan per il re dell'ovvio Civati

Pippo Civati si candida alla segreteria del Pd. Ma per vincere anche la sfida elettorale tra le mura amiche del Nazareno ha bisogno di slogan che convincano i tesserati democratici. Lui ex rottamatore, da tempo gira le feste democratiche per sponsorizzare la sua scalalta alla segreteria. Ma con quelle giacche un po' "fighette" e quella sua mania impulsiva di twittare qualunque cosa gli passi per la testa, in poco tempo Civati è diventato l'emblema del perfetto luogo comune piddino. Mette bocca su tutto e spesso i suoi sostenitori lo criticano per quei suoi post che d fatto sonjo così criptici che sembrano quasi di Fabrizio Barca. Così per smascherare il Civati "qualunquista", quello che mandava avanti lo "scouting" tra i grillini per farli pendere dalla parte del Pd, è nato online un generatore automatico di "slogan civatiani".
Sul blog Libernazione.it, basta un refresh della home page per avere una serie infinita di slogan "alla Civati". Eccone alcuni: "L'acqua bolle bollendola", "il pane lievita lievitandolo", "la carta igienica finisce finendola", "i petardi esplodono esplodendoli"e tanti altri. Insomma una trovata ironica per stanare il Civati  che vuole cambiare il Pd a colpi di slogan e tweet. (I.S.)

Corriere 11.9.14
Moretti: i belli in politica? C’è chi ha il suo seguito
«La bellezza è un valore, anche in politica»
Alessandra Moretti rompe un tabù della sinistra e ammette che, nell’era di Matteo Renzi, l’aspetto fisico è «un biglietto da visita
L’eurodeputata: il Guardasigilli ha fascino Ci sono pure Laforgia, Fratoianni e Lattuca
di Monica Guerzoni


ROMA — «La bellezza è un valore, anche in politica». Alessandra Moretti rompe un tabù della sinistra e ammette che, nell’era di Matteo Renzi, l’aspetto fisico è «un biglietto da visita». L’intervista dell’eurodeputata, nota per il suo fascino, al blog «La ventisettesima ora» di Corriere.it, scatena i commenti della Rete e riaccende il dibattito sull’aspetto fisico delle donne con ruoli al governo o in Parlamento. Nel Pd se ne parla. E si litiga, anche.
Rosy Bindi aveva dichiarato che «alcune ministre» sono state scelte «non solo perché brave, ma anche perché giovani e belle» e martedì sera, in tv da Lilli Gruber, Maria Elena Boschi ha replicato con durezza: «È triste che la Bindi utilizzi gli stessi argomenti usati per anni contro di lei da Berlusconi e Forza Italia». Invidia? «Sembra rancore...». Né invidia, né rancore, assicura l’ex ministro della Sanità e sospetta che Boschi la sua intervista nemmeno l’abbia vista:« Mi aspettavo di essere ringraziata, piuttosto. Alle ministre io ho fatto tre complimenti in un colpo solo. Ho detto che sono giovani, belle e brave. A me una fortuna del genere non è mai capitata». Se Boschi è triste, Bindi è «amareggiata» e non solo per non essere stata compresa dalle colleghe di partito: «A me la tristezza viene nel vedere che il vizio più antico della politica, l’ipocrisia, viene praticato dalle giovani donne».
In realtà le posizioni della Moretti non sono poi così distanti da quelle della Bindi, convinta che la scelta di donne competenti quanto avvenenti sia una precisa strategia comunicativa. «La bellezza in politica conta, anche per gli uomini» dice la deputata europea. E poiché ha subìto quest’estate le incursioni dei fotografi nella sua vita privata per lo scatto in spiaggia con Massimo Giletti, sposta l’attenzione sui «belli» del Parlamento: «Mi piacerebbe che i media, intenti a osservare e fotografare in maniera morbosa le donne, ritraendole anche in bikini per poi commentarne la forma fisica, si occupassero anche degli uomini». Per la Moretti le copertine dei rotocalchi non dovrebbero essere dedicate solo alle ministre o alle deputate, ma anche ai signori ministri o ai parlamentari: «Capisco che al pubblico maschile faccia piacere vedere una bella ragazza in costume, ma immagino che il pubblico femminile sarebbe contento di vedere anche i politici nei loro momenti privati».
Chi è il bello del Parlamento, Richetti? «Matteo, sì — sta al gioco la Moretti —. Andrea Orlando è un ministro con fascino. Tra le colleghe c’è chi ha notato il giovane Enzo Lattuca, poi sicuramente Francesco Laforgia è un bel ragazzo. Anche Fratoianni, di Sel, ha il suo seguito». E Alessandro Di Battista, del M5S? «No comment». Una provocazione spiritosa, per chiedere a fotografi e giornalisti di allentare l’attenzione sull’avvenenza delle donne in politica: «Basta, smettiamola di vivisezionare le persone, offrendo magari consigli non richiesti sulla dieta».

La Stampa 11.9.14
Redditi, un salto indietro di 30 anni
Persi 2.590 euro a testa
Giù i consumi, cresce solo la spesa per i servizi indispensabili
di Paolo Baroni


Diciasettemilaquattrocento euro. E’ questo il livello di reddito disponibile al quale siamo arrivati quest’anno per colpa della crisi. Praticamente siamo tornati indietro di 30 anni, (al 1984, anche se la statistica precisa indica il dato del 1986), quando ogni cittadino poteva contare in media su 17.200 euro. In otto anni abbiamo perso il 13,1%, ovvero 2.590 euro a testa. Non sorprende, ma allarma (e pure molto), che di conseguenza anche i consumi siano stati trascinati al ribasso: -2,3% solo nel 2013, -7,6% negli ultimi otto anni, ha certificato ieri Confcommercio col suo nuovo Rapporto sui consumi.
Effetto terziarizzazione
Il fenomeno degli ultimi anni si chiama «terziarizzazione», una vera e propria virata dei consumi e dell’economia: sono andate a picco le spese per beni “commercializzabili” ed è esplosa quella per servizi che nel 2013 hanno raggiunto la quota record del 53% (ed il 74% del valore aggiunto). E se negli ultimi vent’anni i consumi degli italiani sono cresciuti complessivamente soltanto del 12,3%, questa crescita – spiega Confcommercio - è dovuta esclusivamente alla dinamica positiva dei servizi. Ma sono vent’anni «persi» sostiene Confcommercio, che calcola una crescita in termini reali del 6% appena che scende poi al 4 se dal conto si escludono gli affitti. Nell’ultimo anno i cali più sensibili hanno riguardato i pasti in casa e fuori (-4,1%) ed in particolare l’alimentazione domestica (-4,6%), viaggi e vacanze (-3,8%) e la cura della persona (-3,5%), con una flessione molto netta della spesa per abbigliamento e calzature: -6,3% per cento.
Spese obbligate boom
La riduzione complessiva e forte dei consumi ha fatto impennare il peso delle spese per beni e servizi «obbligati», di fatto non comprimibili, che hanno raggiunto il livello record del 41% (erano al 32,3% nel 1992). Molte di queste voci hanno fatto segnare aumenti molto forti come l’abitazione, passata dal 17,1% al 23,9% del totale, e quelle legate all’acquisto di carburanti e le assicurazioni auto. Tra i beni commercializzabili continua invece il progressivo ridimensionamento della spesa per alimentari e bevande, «fenomeno che ha caratterizzato anche altri segmenti di consumo considerati “maturi” quali l’abbigliamento, calzature, mobili, e l’acquisto di auto». Guarda caso, tra il 1992 e il 2014 i prezzi di beni e servizi obbligati, a causa della scarsa concorrenza, sono più che raddoppiati, a fronte di un aumento molto più contenuto di quelli commercializzabili.
La top ten delle vendite
E nei prossimi mesi come andrà? Confcomemrcio prevede per quest’anno un incremento dei consumi dello 0,2% ed il Pil fermo, per salire rispettivamente a +0,7 e +1% nel 2015. Per il presidente Carlo Sangalli «la ripresa è troppo fragile e incerta, quindi la parola d’ordine del governo deve essere crescita. La priorità assoluta deve essere la riduzione delle tasse e l’allargamento del bonus da 80 euro». Quanto ai prodotti l’ufficio studi azzarda una sua previsione per il periodo 2013-2015. A guidare la top ten dei consumi saranno sempre (e ancora) i telefoni (+0,8%), seguiti da caffè, the e cacao (+0,5%), elettrodomestici “bruni”, piccoli elettrodomestici e servizi telefonici. Quindi servizi finanziari, tessuti per la casa, servizi alberghieri, barbieri e parrucchieri e utensili per casa e giardino. La performance peggiore (-3%) spetterà ai servizi postali, male anche olii e grassi e mezzi di trasporto, vacanze tutto compreso, carne, beni durevoli per la casa, abbigliamento, beni durevoli per ricreazione e culturali, assicurazioni e infine cristalleria e utensili per la casa.
Insomma, nonostante la ripresina, la musica anche nei prossimi mesi cambierà poco.

il Fatto 11.9.14
Spending review, la lezione del flop di Cottarelli
di Stefano Feltri

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il Fatto 11.9.14
Ue, Fassina (Pd): “Commissari? Deprimenti, portafogli economici alla destra”

con un video qui

il Fatto 11.9.14
D’Alema non molla “I risultati sono insoddisfacenti”


ALL’INIZIO ”abbiamo seguito e incoraggiato l’azione di governo” ma passati alcuni mesi “ho detto che malgrado l’impegno del governo i risultati non sono ancora soddisfacenti”. Così Massimo D’Alema ha risposto, arrivando alla festa dell’Unità di Milano, a chi gli chiedeva del perché improvvisamente la “vecchia guardia” del Pd abbia iniziato a criticare il governo di Matteo Renzi. “Mi pare un’osservazione oggettiva, se uno vede i dati in termini di occupazione e crescita economica - ha aggiunto l’ex premier -. Tanto è vero che il ministro dell’Economia mi ha risposto e ha detto: 'D’Alema ha ragione, i risultati non sono soddisfacenti ma verranno risultati positivi. Risposta corretta”.
Non commenta i fatti dell’Emilia, ma resta sull’economia e sul governo: “I tagli lineari non hanno funzionato fino ad oggi, quindi sarebbe auspicabile un approccio diverso”. Torna anche sulle polemiche che hanno accompagnato le sue esternazioni: “Alcuni hanno detto che io avrei del rancore o sarei a caccia di poltrone: il servilismo conduce anche a queste aberrazioni”.

il Fatto 11.9.14
Il Tesoro fa politica: i soldi alla scuola no, alle armi invece sì
“Coprire” con la Spending la pensione di 4mila docenti era un golpe
Farlo per le missioni militari invece va bene
di Marco Palombi


La spending review è l’atto più politico, ripetono spesso governo e commissario incaricato. Hanno ragione e da ieri è chiaro qual è la visione politica loro e, in particolare, della tecnostruttura del Tesoro (Ragioneria generale in testa), che ormai si percepisce sempre più come quarto potere autonomo nell’ordinamento repubblicano: se i soldi servono a mandare in pensione 4.000 professori vittime della riforma Fornero sono “coperture false”, gli stessi soldi (moltiplicati per cinque però) sono perfettamente regolari se si tratta di finanziare il decreto sulle missioni militari. È questa la vicenda di cui vi raccontiamo.
IN TUTTO, tra Afghanistan, Libia armi da “regalare” ai curdi eccetera, la partita vale 452 milioni (nell’anno abbiamo superato il miliardo) e qui vogliamo occuparci delle coperture. Trovarle, ammesso che siano state trovate, è stato così difficile che il decreto è stato presentato solo il 4 agosto, quando i soldi stanziati per il primo semestre erano già finiti da oltre un mese. Le principali sono due: 200 milioni sono interessi che Monte dei Paschi di Siena ha pagato sui cosiddetti Monti-bond (in sostanza un prestito da 4 miliardi) ; altri 213 milioni arrivano invece dalla spending review – cioè i tagli – sul bilancio del ministero della Difesa, cifra che somma a questo punto un quinto delle somme a disposizione del ministro Roberta Pinotti.
E qui la faccenda si fa talmente curiosa che ha attirato le perplessità della stessa commissione Bilancio della Camera: un mese fa per il decreto P. A. – ha detto il relatore Dario Parrini – il Tesoro “evidenziava che l’ulteriore accantonamento, o la riduzione degli stanziamenti relativi alle spese rimodulabili per l’anno 2014, stimato dalla relazione tecnica in soli 45 milioni di euro, avrebbe comportato l’elevato rischio di determinare la formazione di debiti fuori bilancio in relazione a spese difficilmente comprimibili, soprattutto in una fase già particolarmente avanzata della gestione”. E adesso? Niente più debiti fuori bilancio? Chiede Parrini. Assolutamente no, e lo sostiene il governo sulla scorta dell’autorevole parere della Ragioneria generale dello Stato depositato lunedì in Parlamento: “Data la straordinarietà di tale operazione e la sua limitazione all’anno corrente, si ritiene che non vi sia il rischio di formazione di debiti fuori bilancio”. Questa, parola per parola, l’inversione a U dei tecnici del Tesoro: 45 milioni del decreto P. A. erano una tragedia, 213 per le missioni militari una passeggiata di salute. Il sottosegretario Legnini, intanto, faceva sì con la testa.
FORSE È IL CASO di ricordare come andarono le cose tra la fine di luglio e inizio agosto, perché quel caso ha portato al sostanziale licenziamento pubblico di Carlo Cottarelli, oltre che al perpetuarsi di un’ingiustizia. La Camera, allora, decise di inserire nel decreto Madia un emendamento che permetteva ai “quota 96” – quattromila tra docenti e personale della scuola bloccati al lavoro da un errore formale della riforma Fornero nonostante avessero i titoli per andare in pensione – di lasciare finalmente il lavoro: la spesa per il 2014 era appunto di 45 milioni di euro; la copertura erano risparmi da trovare in tutti i ministeri (non solo in quello della Difesa come ora) tramite la spending review.
Anatema. La Ragioneria generale inviò una nota in cui si definiva la norma “scoperta in termini di fabbisogno e indebitamento netto” e si paventava la creazione dei famosi “debiti fuori bilancio”. I tecnici della Rgs spiegarono che loro dovevano difendere la riforma Fornero: si inizia con i “quota 96” della scuola - dissero ai deputati - e poi arrivano i ferrovieri e alla fine smontate la legge sulle pensioni (che, peraltro, sarebbe una legittima prerogativa delle Camere, almeno finché esistono).
Non solo. Pure il commissario Cottarelli si diede fuoco sul suo blog: basta interventi del Parlamento sulla spending review e poi “la spesa per pensioni in Italia mi sembra già abbastanza elevata e la riforma era volta a contenerne la crescita”. Sui giornali, poi, lasciò trapelare di essere a un passo dalle dimissioni. Sembrava un attacco al governo – visto che il ministro Madia aveva autorizzato la norma – e Renzi non la prese bene: “Io non so quel che farà Cottarelli, ma la revisione della spesa la faremo anche senza di lui”. Da allora la poltrona del commissario è sostanzialmente vacante, ma il risultato fu portato a casa: nel passaggio in Senato il governo cancellò la norma e così lunedì i “quota 96” iniziano l’ennesimo anno scolastico della loro vita. Peccato per loro che, durante le vacanze, alla Ragioneria generale abbiano cambiato idea sui “debiti fuori bilancio”.

Corriere 11.9.14
Da Saviano a Servillo, l’appello a Renzi: «Non comprare gli F35»
Molte le personalità dello spettacolo e della cultura schierate contro il programma «Join Straight Fighter», che prevede l’acquisto dei caccia da parte del governo

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Repubblica 11.9.14
Giampiero Massolo, il capo dell’Intelligence
“È una guerra, l’Italia c’è e questo ci mette a rischio”
di Carlo Bonini


ROMA . Nella partita di sangue e terrore aperta dall’Is, sono giorni cruciali. Per la Casa Bianca, che allarga alla Siria il fronte dei raid aerei. Per gli alleati europei, chiamati a dare sostanza agli impegni militari assunti nelle scorse settimane. Dunque anche per l’Italia, che in queste ore consegna ai Peshmerga curdi un arsenale di armi leggere, razzi e munizionamento. Seduto in una poltrona d’angolo del suo ufficio, il capo della nostra intelligence, l’ambasciatore Giampiero Massolo, direttore del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza (DIS), giunge i palmi delle mani. «Non c’è alcun dubbio — conviene — che siamo di fronte ad una escalation della risposta militare che aumenta il grado di esposizione dell’Occidente, Italia compresa. Ma, del resto, in uno scenario di conflitto simmetrico quale quello aperto dal-l’Is in Iraq settentrionale e Siria orientale, a una minaccia militare risoluta ed efferata si risponde con lo strumento della deterrenza militare. È la guerra. Si badi bene: guerra all’Is, non all’Islam».
In che misura l’escalation aumenta il rischio di una nuova ondata di attacchi “asimmetrici” al cuore dell’Occidente?
«Riteniamo che in questa fase l’Is abbia quale sua priorità militare e terroristica il consolidamento della realtà territoriale del suo autoproclamato Califfato. È l’occupazione di quel territorio che consente oggi ad Al Baghdadi di esercitare una forza di attrazione jihadista su scala globale. Di esprimere in modo violento, visibile, assertivo, il dominio sull’Islam. È l’occupazione di quel territorio che ha consentito all’Is di impadronirsi della leadership che era stata di Al Qaeda, dando seguito al suo disegno originario. Che aveva ed ha come suoi nemici principali i sunniti moderati, l’Iran sciita, l’esistenza di uno stato iracheno e solo in ultima battuta il Grande Satana e i suoi alleati. Per questo, oggi, lo sforzo è quello di privare l’Is di quel controllo territoriale. Non fosse altro perché colpirlo lì dove si annida significa anche provare a indebolirne la formidabile forza finanziaria».
Che stimate in quali cifre?
«Due miliardi di dollari di liquidità. Solo dai depositi delle banche di Mosul sono stati razziati 500 milioni di dollari. E il controllo di una parte dei giacimenti petroliferi potrebbe assicurare potenzialmente all’Is ricavi annui nell’ordine dei 100 milioni di dollari».
Torniamo alla qualità della minaccia. Seguendo il filo del suo ragionamento, si può concludere che l’Occidente, almeno oggi, è un obiettivo residuale?
«Quando dico che in questa fase l’Occidente è un obiettivo strategico secondario per l’Is, non intendo affatto sottovalutare il rischio che, persa inevitabilmente la sfida simmetrica sul terreno, Al Baghdadi scelga l’opzione asimmetrica colpendo l’Occidente nel cuore delle sue città».
Anche perché in Francia è detenuto un signore come Mehdi Nemmouche, reduce dalla Siria, autore della strage al museo ebraico di Bruxelles e, si ipotizza, pianificatore di un attentato a Parigi. E, ancora martedì, il ministro dell’Interno Alfano ha parlato di un rischio per il nostro Paese, per il Vaticano. Insomma, quanti Nemmouche ci minacciano?
«Sul tema del rischio dei “reduci” di ritorno dalla jihad, le rispondo subito. Ma prima tengo a mettere in chiaro una cosa utile, credo, anche a interpretare il senso dell’allarme di questi giorni. Quando si parla di rischio, è necessario distinguere il piano dell’analisi da quello dell’intelligence, vale a dire della raccolta di informazioni specifiche e circostanziate. E dunque, alla domanda “L’Italia e il Vaticano sono esposti?”, la risposta, sul piano dell’analisi, non può che essere “si”. Perché se l’Is decidesse ad un certo punto di usare l’arma asimmetrica, l’Italia e il Vaticano sono oggettivamente dei target. Al contrario, la risposta di intelligence, in questo momento, è “no”. Non abbiamo evidenze di progettualità terroristiche specifiche né contro il nostro Paese, né contro il Vaticano».
Parlavamo del reducismo jihadista.
«È quello che ci impegna di più. Anche perché, a differenza dei “foreign fighters”, per i quali si è riusciti anche ad abbozzare delle stime — parliamo di circa 2 mila combattenti partiti dall’Unione Europea, una trentina dei quali dall’Italia — quello dei reduci è un flusso senza cittadinanza. Nulla vieta che nel nostro Paese possano riparare ex combattenti partiti da altri Paesi europei. Non a caso, su questo tema, il lavoro di cooperazione tra le intelligence alleate si è ulteriormente rafforzato ».
La vicenda Snowden non ha lasciato tossine?
«Gli eventi di questi ultimi mesi hanno fatto sì che la diffidenza sia stata accantonata ».
Può escludere che l’Italia debba conoscere una stagione che ha già vissuto, in cui la paura si fa programma politico e strumento di manipolazione?
«Di mestiere faccio il capo dell’Intelligence. E l’Intelligence raccoglie informa- zioni che vanno analizzate e gestite secondo un dovere di razionalità. La paura è l’antitesi della razionalità. Bisogna sostituire alla parola “paura”, la parola “consapevolezza” ».
Sta di fatto che, a proposito della “stagione della paura”, si è parlato nei mesi scorsi di una possibile promozione di Marco Mancini, già capo della divisione antiterrorismo del Sismi di Pollari, alla vicedirezione dell’Aise, il nostro servizio esterno.
«Mancini è un nostro dirigente con una rilevante anzianità. E ha oggi una collocazione nel Servizio proporzionale a quella anzianità. Tutto il resto è gossip».
In che misura la nostra Intelligence si è attrezzata alla sfida dell’Is?
«Le do due dati. A parità di bilancio, circa 600 milioni l’anno, abbiamo potuto, con un piano di razionalizzazione delle spese e risparmi, aumentare del 10 per cento i nostri investimenti negli strumenti di intelligence informatica. Il secondo: il presidente del Consiglio, su nostra proposta, ha dato seguito, con decreto, alla creazione di quella che io chiamo la “fusion cell”, la cella di fusione. Un tavolo di coordinamento in cui, per la prima volta dopo la riforma del 2007, le nostre due agenzie di intelligence lavorano insieme, a cassetti aperti, su specifici obiettivi».
Ci sono ancora sei cittadini italiani sequestrati da milizie islamiche nel mondo.
«Ci vorrà pazienza per riportarli a casa. E molta discrezione. Per evitare passaggi di mano».

La Stampa 11.9.14
Gaza, Israele apre un inchiesta per possibili abusi dei suoi soldati
Sotto indagine l’uccisione di quattro ragazzi sulla spiaggia di Gaza City e il bombardamento di una scuola dell’Onu a Beit Hanoun
di Maurizio Molinari

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Repubblica 11.9.14
La svolta di Vogue la modella palestinese “erede” dell’israeliana
Per il lancio del nuovo sito della rivista la Wintour sceglie di citare la sua prima copertina dell’88
Ma con un cambiamento che è subito diventato un caso politico
di Federico Rampini


NEW YORK LA SACERDOTESSA della moda colpisce ancora. Pur di far parlare del nuovo sito di Vogue , Anna Wintour non esita a infilarsi nel conflitto israelo-palestinese. La polemica si accende in Israele proprio mentre New York è nel mezzo della settimana delle sfilate. La Fashion Week di Manhattan è un momento magico per la Wintour, sotto i riflettori delle sfilate e i flash dei paparazzi, più celebre delle stesse top model e di tanti stilisti. La direttrice di Vogue , immortalata dall’interpretazione- imitazione satirica di Meryl Streep nel film Il diavolo veste Prada , tuttavia non era ancora diventata un caso diplomatico o geopolitico.
I primi a lanciare la controversia sono il giornale Haaretz di Tel Aviv e poi Forward, quotidiano online della comunità ebraica newyorchese. Forward ha un titolo ammiccante: “Per Vogue, palestinese è il nuovo israeliano”. Gioco di parole con una frase abusata nel mondo della moda dove si suol dire ad esempio “orange is the new black” (l’arancione è il nuovo nero), per segnalare il passaggio da un trend a un altro. In questo caso il titolo di Forward si riferisce a ben altro “cambio di moda”. È la giravolta che la Wintour ha fatto sostituendo una top model palestinese a un’israeliana, per celebrare un quarto di secolo dopo il suo debutto alla guida della celebre rivista. «Il conflitto israelo-palestinese ora si combatte sulla copertina di Vogue? », è il titolo di Haaretz .
L’antefatto risale al 1988. È l’anno in cui la Wintour, di origiè inglese, viene assunta come direttrice di Vogue. Per la prima cover sotto la sua direzione, sceglie la top model israeliana Michaela Bercu, allora 18enne e già un astro nascente. La copertina “fa storia”, perché rompe con tutti gli schemi e le tradizioni: invece della classica foto in studio, la Bercu viene ritratta mentre passeggia all’aperto; invece del vestito di sartoria indossa i suoi stessi jeans sdruciti. È il segnale d’annuncio del “ciclone Wintour” che sconvolgerà il mondo della moda, e il cui stile dittatoriale è raccontato dal celebre documentario The September Issue ( in cui lei viene seguita mentre prepara il numero di settembre, il più gonfio di pubblicità).
Ventisei anni dopo, dovendo rilanciare questa volta il sito Internet di Vogue, la Wintour fa il verso a se stessa, con una foto che la “citazione” di quella copertina del 1988. Stavolta la top model si chiama Gigi Hadid. Ha 19 anni e una discreta somiglianza con la Bercu. Ma la Hadid, pur avendo il passaporto Usa, è figlia di un noto imprenditore di origine palestinese. Mohammed Hadid, il padre, è un magnate del business immobiliare che ha fatto fortuna negli Stati Uniti. «La Wintour — si chiede Shahar Atwan su Haaretz — ha riflettuto sulle origini della famiglia Hadid, quando ha scelto di mettere proprio lei nei panni di Michaela Bercu? Ha messo in conto le possibili reazioni dei media nel bel mezzo del conflitto israelo-palestinese? ». Domande retoriche secondo Forward, che non ha dubbi sulla risposta: sì, la direttrice di Vogue ha pensato alle implicazioni geopolitiche, anzi le ha cercate. Quale migliore pubne blicità per il rilancio del sito: una bella polemica internazionale. Tanto più se il tipo di controversia mescola i generi, fa intervenire editorialisti di politica estera che non sono soliti occuparsi delle scelte di Vogue.
Per Haaretz la vittima potrebbe essere proprio Gigi Hadid. La ragazza, spiega il quotidiano di Tel Aviv, ha già avuto un ottimo inizio di carriera in America, non c’era bisogno di “usarla” in questo modo attirando l’attenzione sulla sua origine etnica. Ora lo sapranno tutti, che è figlia di un palestinese, e magari ci penseranno su prima di chiamarla. «Dovremmo chiamare la fashion police , la polizia della moda?», conclude ironico Haaretz, facendo l’occhiolino a un’altra espressione in gergo (se c’è una poliziotta dell’eleganza a New York è proprio Anna Wintour, implacabile castigatrice del cattivo gusto).
Il giudizio di Forward è più politico. Il commentatore newyorchese, Sigal Samuel, rievoca un’altra copertina controversa: disegnata dal celebre grafico Art Spiegelman (ebreo svedese, naturalizzato americano) per il settimanale di sinistra The Nation, mostra un Davide in formato gigante contro un Golia piccolino che rappresenta il popolo palestinese. Lo stesso Spiegelman si è spiegato così su Facebook: «Israele è come un ragazzino che ha subito il trauma di un pestaggio, soffre di sindrome da stress post-traumatico, e reagisce picchiando gli altri». Per Forward la Wintour è tutt’altro che un’ingenua politicamente. Il sito ricorda che donò generosamente alla campagna elettorale di Barack Obama; che gli editoriali di Vogue sono stati filo-palestinesi; e che il magazine ha pubblicato una foto dell’attrice Tilda Swinson avvolta in una sciarpa con la parola Palestina ricamata sopra.

Corriere 11.9.14
Il Partito e il Dalai Lama: decidiamo noi chi si reincarna
di Guido Santevecchi


L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo». Parola del Dalai Lama, che lo ha detto in un’intervista in Germania. Il leader spirituale buddista invita il suo popolo a non cercare, dopo la sua morte, la Quindicesima reincarnazione dell’autorità religiosa tibetana: l’uomo nato come Tenzin Gyatso nel 1935 è il quattordicesimo Dalai Lama reincarnato in una storia di quasi cinque secoli. «Questa figura era importante soprattutto per il suo potere politico. Ma come si sa io ho rinunciato al potere nel 2011 quando sono andato in pensione», ha concluso. Già in passato il Premio Nobel aveva annunciato che non sarebbe rinato in Cina se il Tibet, provincia cinese dal 1950, non fosse stato libero e che nessuno avrebbe avuto «il diritto di scegliere il suo successore per fini politici».
Pechino, che proclama la libertà di fede e culto ma vieta ai membri del partito comunista di credere nella religione e impone loro di essere atei, non ha preso bene la dichiarazione. «Nella storia la reincarnazione del Dalai Lama non è mai stata una questione puramente religiosa; tanto meno una questione personale. Il buddismo tibetano non appartiene al Dalai e la tradizione ereditata per cinque secoli non può essere annullata dalla sua parola. Le questioni sul Tibet in ambito internazionale hanno una importanza sempre minore e il Dalai Lama viene emarginato; invecchia e si preoccupa per il suo governo in esilio, per questo cerca pubblicità con il discorso sulla fine della reincarnazione», ha scritto la stampa statale. La portavoce del ministero degli Esteri ha aggiunto che «il governo centrale rispetta e protegge le regole centenarie di reincarnazione dei Buddha viventi e il titolo di Dalai Lama è attribuito da Pechino». Vietato rinunciare alla reincarnazione dunque.
Un nuovo motivo di conflitto tra il capo tibetano in esilio nel 1959 e la Repubblica popolare cinese. Quasi a sdrammatizzare, a diluire la polemica, però, il Dalai Lama ha ricordato: «Resto al mio posto, ho 79 anni, i medici dicono che arriverò a cent’anni e i miei sogni predicono i 113».

Repubblica 11.9.14
8 settembre 1943
I giorni della resa (e del riflusso)
di Franco Cordero


L’8 settembre è anniversario crudele negli annali d’Italia. L’estate calda non finiva mai. Dopo vent’anni, otto mesi, 25 giorni, nella notte del 25 luglio 1943, domenica, l’era delle false aquile svanisce come l’ombra d’una lanterna magica: le cronache annoverano un solo suicida; spariscono insegne e divise. Mussolini in asilo segreto. Governa l’Italia diroccata Badoglio, famoso sornione. Truppe in servizio d’ordine pubblico sparano sui manifestanti antifascisti. Nella cuneese piazza Torino muore un bambino. Tra i pochi superstiti della campagna russa Nuto Revelli, sottotenente in s. p. e., portava a casa una pleurite, ferita e medaglia d’argento, disgusto delle retrovie corrotte, tanto acuto da farsi rispedire in prima linea sul Don. Poi l’inferno bianco, nella steppa dal 30 gennaio al 10 febbraio. Ancora sofferente, cova pensieri tristi. Ha sbattuto la porta, uscendo dalla Casa del Fascio dove un funzionario elefantiaco raccomandava versioni eufemistiche, ma la conversione resta imperfetta: lunedì 26 luglio ascolta perplesso l’avvocato Galimberti che dal balcone chiede guerra contro Hitler; nella baraonda conta i trasformisti; «è fascista», grida un omuncolo rissoso, sfollato da Genova.
Dall’autunno 1942 prestava servizio nel II Alpini un sottotenente senior, classe 1914, antifascista organico: Leonardo Dunchi, scultore, viene dalle Alpi Apuane, anarchico, incline all’azione contro il mondo perverso; compatisce i sofferenti. Le sue Memorie partigiane filano discorso scabro e vivo, dialoghi, descrizioni d’una natura poeticamente percepita. Lunedì 6 settembre, nell’«ombra azzurrognola dello studio», tra codici voluminosi e «generali dipinti», riceve direttive da Galimberti, col quale aveva intese: manca poco all’armistizio; consta da fonte sicura; sarà guerra per bande dalle valli; se ne formeranno a Madonna del Colletto e in Val Grana; il suo posto è sulla Bisalta. Mercoledì 6 guardava le rondini verso sera quando suona la ritirata: Badoglio parla alla radio stando nel vago; in caserma colonnelli non pensanti dicono d’aspettare ordini. Nella notte sferragliano autocarri. Era il preludio d’un riflusso caotico. La IV Armata irrompe dalla Francia disseminando vetture, cavalli, muli, armi, farina, formaggio in ruote, roba variopinta: basta chinarsi e raccogliere, materia da grassa borsa nera; fioriscono mercati mai visti. I fuggitivi cercano abiti borghesi.
Comandava il II Alpini un colonnello maniaco dei fiori. Li visita ogni mattina, salutato dal picchetto con tromba. Giovedì 9 settembre carica i gerani sui camion e manda a casa i piemontesi: lascino armi, divise, bagagli; i toscani saranno inquadrati, Dio sa come, ossia vadano dove vogliono; «arrivederci presto» e scompare. Dunchi lancia parole d’ordine estreme: disfarsi dei gaglioffi cominciando dal floricultore; stanare i fascisti; combattere i tedeschi. Revelli ascoltava, spalle al muro, gambe incrociate, una mano sotto l’ascella: chiede la parola; e, sempre immobile, gli dà del matto pericoloso. Il diverbio finisce lì. Lo scultore porta alpini toscani sulla montagna a due punte. L’antagonista rimette piede nella caserma vuota sabato 11, a seppellire i residui della frode fascista, ma vuole ancora credere nell’esercito, entità metafisica, quindi in due vanno alla porta d’un ferreo tenente colonnello, molto ammirato: non rispondeva; compare nel pigiama a righe; sbarra il passo; guarda storto. Lo implorano: venga; al suo comando gli uomini combatteranno. Fuori dei piedi, pidocchi. Piangono. Ogni illusione cade martedì 28 settembre. Con 15 ufficiali da maggiore in su, l’inflessibile guerriero s’è presentato al sanguinario Sturmbannführer Joachim Peiper, le cui SS hanno incendiato Boves massacrando gli abitanti. Corrono complimenti: bravi, veri soldati; tornino con una valigetta d’indumenti; e li spedisce in Germania a fare numero nei 750 mila internati (carniere badogliesco: quel vuoto d’ordini era calcolato; nessuno doveva muoversi disturbando gli occupanti).
Revelli va in montagna. Dunchi compie memorabili avventure. Vede spesso Ignazio Vian e conversano: aveva dubbi sulla violenza omicida, anche quando i fini siano giusti (parlavano d’un ex pugile seviziatore dei prigionieri antifascisti); l’altro glieli confuta. «Piombo con piombo», refrain d’un canto anarchico. Strenuo combattente, cattolico, monarchico, Vian passa in Val Corsaglia e nelle Langhe, finché lo prendono, 19 aprile 1944: ha la sorte segnata; è macabra variante impiccarlo tre mesi dopo (Torino, 22 luglio). Duccio Galimberti comandava l’apparato militare piemontese Giustizia e Libertà. L’ammazzano sgherri neri domenica 3 dicembre 1944. Gli succede Livio Bianco e post bellum figura tra i consultori, disquisenti a Montecitorio in vista d’eventi elettorali: il seggio alla Costituente costa 40 mila voti; lui ne conta 12 mila. Miete la Dc, irresistibilmente sostenuta dalle parrocchie. Era un sogno spegnere l’anima reazionaria incarnata nel ventennio nero. Il fascismo è forma transitoria d’una costante italiana. Chiusa l’esperienza politica attiva, lo sconfitto dalle urne torna al mestiere colto, finissimo giuscivilista. Aveva la montagna nel destino. Domenica 12 luglio 1953, con i due soliti compagni d’escursione, saliva al Saint-Robert, nello scenario visibile da piazza Galimberti. Scalata comoda ma è nel codice della causalità universale che un appiglio ceda, e vola giù. La Camera s’era appena insediata, seconda legislatura repubblicana. Lo commemora Antonio Giolitti, eretico nel plumbeo Pci, dal quale uscirà dopo l’orribile repressione ungherese, applaudita dagli ortodossi: condividono compianto e lodi tre parlamentari, socialista, socialdemocratico, liberale; resta muto lo scudo crociato. Deambulano Madonne pellegrine. Prendono piede neofascisti governativi. Al diavolo i rigoristi giacobini, siamo nell’Italia restaurata.
Era un sogno spegnere l’anima reazionaria incarnata nel ventennio nero Il fascismo è forma transitoria d’una costante italiana

La Stampa 11.9.14
Cefalonia 1943, la tragedia non è solo nel numero dei caduti
Un nuovo libro fa luce sulla realtà quotidiana dei soldati della divisione Acqui, fino alla strage seguita all’8 settembre
di Umberto Gentiloni


Oltre 70 anni ci separano dall’8 settembre 1943 e dall’annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani. Una data cruciale per gli esiti del secondo conflitto mondiale sul territorio della penisola e per le dinamiche che porteranno alla Liberazione del 1945. L’Italia del 1943 è un Paese diviso politicamente e geograficamente, attraversato da eserciti stranieri e segnato da una dilaniante guerra civile; una nazione allo sbando, travolta dagli eventi, dove la fuga dalle responsabilità e la dissoluzione delle catene di comando prende il sopravvento in buona parte della classe dirigente.
Mussolini dal 1940 aveva promosso una guerra parallela, ambiziosa e velleitaria: gli stessi nemici della Germania nazista perseguiti e combattuti con forze italiane e obiettivi autonomi. Una breve illusione, un fallimento sin dall’aggressione alla Grecia dell’ottobre 1940 e la successiva dislocazione di truppe e mezzi nel Mediterraneo. La notizia dell’armistizio giunge inaspettata, senza indicazioni su comportamenti e conseguenze: un esercito senza istruzioni, soldati abbandonati al proprio destino o aggrappati alle scelte dei responsabili di divisioni dislocate nei fronti più diversi. È il caso delle stragi ai danni di militari italiani di stanza nelle isole dell’Egeo sulle quali nell’ultimo decennio si è riaccesa un’attenzione di studi, riflessioni e giudizi anche dai vertici delle istituzioni. Un volume fresco di stampa (Né eroi, né martiri, soltanto soldati. La divisione Acqui a Cefalonia e Corfù, settembre 1943, a cura di Camillo Brezzi, Mulino, pp. 356, € 28) dà conto di un clima nuovo, aperto a interpretazioni non faziose o strumentali e figlio di ricerche che da più prospettive hanno spazzato via luoghi comuni o semplificazioni di comodo.
Le stragi contro i militari italiani fanno parte del quadro del conflitto mondiale, interrogano tanto le responsabilità del regime quanto le strategie di ricostruzione del dopoguerra. Il punto principale risiede nella centralità del biennio 1943-1945, nel costo della scelta fondamentale di stare da una parte o dall’altra e nella presenza di soggetti plurali, forze e culture che contribuiscono a rafforzare un tessuto comune di solidarietà e comportamenti in grado di indicare la strada della rinascita. I documenti, i dispacci, le lettere dalle isole lontane aiutano a definire un contesto mutevole.
Prima le notizie da comunicare a casa, sul rancio insufficiente: «Circa il mangiare abbiamo fatto una settimana di pastasciutta, dato che facevamo la mensa per noi. Purtroppo ora è finita. Ma non fa niente», scrive Emilio Bolpin alla madre il 28 marzo 1943, «come ci siamo abituati a dire qui. Ci consoliamo con le uova. Il vinello poi è squisito ma non ne faccio troppo uso anche perché costa caro: un bicchiere 6-7 lire! In questo periodo sono stato sempre occupato. Poi ho imparato a farmi dare il giusto, pesare bene il riso, olio, conserva e tagliare senza sbriciolarlo tutto il formaggio. Quasi un perfetto venditore di generi alimentari». Poi le informazioni sull’andamento del conflitto, sulle attese interminabili, sulle notizie contraddittorie che giungono in periferia.
Il libro è ricco di informazioni e punti di vista: la narrazione delle missioni alleate dalle fonti inglesi e le lettere dei soldati italiani; il destino degli internati della divisione nei Lager sovietici e la ricostruzione delle tappe di una memoria difficile nel dibattito pubblico italiano e nei Paesi più coinvolti in una pagina così tragica della nostra storia: la Germania e la Grecia. Nei saggi conclusivi il confronto sulla stagione delle origini e sulle presunte morti e resurrezioni della patria non è scisso dagli approfondimenti sulla ricerca delle responsabilità individuali nell’itinerario della giustizia penale tra l’Italia e la Germania attraverso il lungo dopoguerra. Uno studioso come Giorgio Rochat mette ordine nelle cifre e nelle ipotesi avanzate negli ultimi anni per tracciare un bilancio che è anche un punto di equilibrio sull’intera vicenda e sul suo significato: «Calcolo circa 3800 italiani caduti sull’isola e 1360 morti in mare. Cifre approssimative, credo siano oggi le più credibili e documentate, ma concordo con Meyer che non sarà possibile arrivare a cifre sicure; non è però il computo preciso dei morti che ci può dare la dimensione della tragedia di Cefalonia».

La Stampa 11.9.14
Il senso di Costantino per la propaganda
Culto della personalità, slogan a raffica, sapiente uso della disinformazione: un antesignano di Stalin
di Alessandro Barbero


L’arco di Costantino a Roma, eretto nel 312 per celebrare la vittoria su Massenzio presso Ponte Milvio. Nell’iscrizione si legge: «All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò a un tempo lo Stato su un tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi»

Nella cultura di massa, quella dei vecchi sussidiari scolastici, della divulgazione televisiva e delle guide turistiche, Costantino è il primo imperatore cristiano, l’uomo che si è convertito prima della battaglia di Ponte Milvio, dopo aver visto in cielo la croce con la scritta «In hoc signo vinces»; il sovrano che con l’editto di Milano ha concesso la libertà ai cristiani, nonché il fondatore delle prime grandi basiliche di Roma. In passato la storiografia diffidava di Costantino, vedendo in lui soprattutto un cinico politicante che aveva fatto le sue scelte in base a calcoli elettorali; ma dall’ultimo dopoguerra il vento è cambiato, e fra gli storici si è diffuso un clima di ammirazione e di ossequio verso il protagonista di quella che molti giudicano la più grande svolta storica mai avvenuta.
Nessuno più mette in dubbio la sincerità della sua conversione, e molti credono che la croce gli sia davvero apparsa in cielo, con uno zelo che avrebbe fatto ridere gli storici dell’epoca illuminista. D’altra parte ci sono alcuni fatti sgradevoli che nessuno può negare: Costantino era un usurpatore che è arrivato al trono grazie ai suoi soldati, e nella scalata al potere assoluto ha fatto ammazzare altri tre imperatori romani, che poi erano suo suocero e i suoi due cognati. Rimasto solo al potere, ha fatto uccidere, per motivi ancora oscuri, il figlio Crispo e la moglie Fausta; dopo la sua morte, i tre figli superstiti hanno provveduto all’istante a far ammazzare quasi tutti i propri zii e cugini, e poi si sono ammazzati fra loro finché non ne è rimasto uno solo, Costante, cristiano ariano e famoso persecutore dei cattolici.
Il bilancio, come si vede, è piuttosto contraddittorio e non stupisce che i giudizi di chi aveva conosciuto Costantino siano alquanto incoerenti. Per il suo biografo cristiano, il vescovo Eusebio di Cesarea, Costantino era «il santo imperatore», «l’amico di Dio», scelto dal Signore per insegnare la vera fede a tutti i popoli del mondo, e Dio lo ha reso invincibile e tre volte beato. Ma suo nipote Giuliano, detto l’Apostata, l’unico scampato alla strage familiare compiuta dai cugini, traccia un quadro ben diverso: lo zio Costantino era un ignorante, che non sapeva governare né fare la guerra, e credeva che bastasse avere tanti figli per garantirsi una tranquilla successione; in fondo non era cattivo, ma era un debole, troppo amante dei piaceri, e per debolezza si lasciò trascinare a commettere infami delitti; poi, quando sentì dire che un certo Cristo cancellava tutte le colpe spargendo un po’ d’acqua sulla testa dei suoi seguaci, trovò il modo di tranquillizzarsi la coscienza, ed è per questo che si fece cristiano.
Certo, i pagani come Giuliano avevano il dente avvelenato; ma, una generazione dopo la morte di Costantino, anche gli storici ufficiali dell’impero romano lo ricordavano in termini piuttosto freddi. L’autore anonimo di un bignamino dell’epoca giudica che Costantino aveva cominciato bene ma era peggiorato col tempo, scatenando guerre immotivate e dissipando nei bagordi le ricchezze dei contribuenti: «per dieci anni lo chiamarono formidabile, nei dodici seguenti bandito, negli ultimi dieci rimbambito».
E i semplici sudditi, cosa pensavano di lui? Sarebbe bello sapere che effetto aveva la martellante propaganda con cui Costantino si presentava alle masse. Le iscrizioni, ad esempio: non c’era opera pubblica, anche finanziata dalle amministrazioni locali, che non fosse ornata di un’epigrafe che ringraziava l’imperatore per quel dono; sulle strade romane, a ogni miglio un cippo ricordava a chi sapeva leggere il nome e i titoli dell’imperatore regnante. A queste iscrizioni il governo dedicava una cura ossessiva: appena Costantino cominciò a promuovere i figli come suoi successori designati, i loro nomi comparvero accanto a quello del padre nei cippi stradali, ma quando l’imperatore fece uccidere Crispo, il nome del figlio maggiore venne accuratamente scalpellato da tutte le lapidi sparse nell’immenso impero, dalla Britannia all’Egitto. Invecchiando, Costantino accumulava vittorie e titoli, e le iscrizioni lo celebravano come «amplificatore della città di Roma», «liberatore dello Stato romano», «fondatore della pace», «restauratore del mondo intero», «nato per il bene del genere umano», e via giganteggiando.
Sulle monete che circolavano nelle mani dei sudditi, al culto della personalità si aggiungeva una raffica di slogan di propaganda che trasmettevano alle masse informazioni accuratamente calibrate. Le immagini e le scritte sulle monete venivano cambiate ogni pochi mesi, sicché la produzione delle zecche è un barometro sensibilissimo del modo in cui l’imperatore desiderava essere percepito. Un bell’esempio sono gli alti e bassi della sua relazione col collega, e cognato, Licinio. Dopo il loro accordo di Milano a favore dei cristiani, le monete di Costantino esaltavano la «concordia dei nostri Augusti», la «pace eterna» e la «sicurezza dell’impero». Quando fra i due scoppiò la guerra, i riferimenti alla concordia sparirono e si cominciò a esaltare il «valore dei soldati» e la potenza degli eserciti di Costantino («vincitori dappertutto»); nello stesso momento i governatori provinciali ricevevano l’ordine di far scalpellare da tutte le lapidi il nome di Licinio. Conclusa la prima guerra e rifatta la pace, le zecche tornarono a diffondere messaggi rassicuranti: «beata tranquillitas», garantivano le monete. Qualche governatore provinciale fu così ingenuo da crederci, e far incidere di nuovo il nome di Licinio sulle lapidi; solo per doverlo cancellare un’altra volta quando, di lì a poco, Costantino la fece finita con lui.
Bisogna dire che quest’orgia di propaganda e disinformazione non l’ha inventata Costantino, ma era la norma nell’impero romano, ci piaccia o no. È inevitabile evocare paragoni più recenti, e se a qualcuno viene in mente Stalin, il confronto non è così assurdo: dopo la caduta dell’impero bizantino e della seconda Roma, Costantinopoli, già Ivan il Terribile dichiarava che Mosca era la terza Roma. La bizantinista Silvia Ronchey non ha scritto una volta, scherzando solo a metà, che l’impero romano è caduto davvero solo nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica?

La Stampa 11.9.14
Stonehenge e i suoi fratelli: nella stessa zona
scoperto un complesso con altri 17 santuari


Un vasto complesso di monumenti attorno al sito preistorico di Stonehenge in Gran Bretagna: lo hanno scoperto gli archeologi utilizzando strumenti hi-tech in grado di scannerizzare il sottosuolo, che hanno rivelato la presenza a tre metri di profondità di diversi altri santuari della stessa epoca. Il misterioso cerchio di pietre, che si trova a Salisbury Plain nel Sud-Est dell’Inghilterra, è uno dei più importanti siti dell’antichità di tutta Europa e per molto tempo si è pensato che si trattasse di una costruzione isolata. «Stonehenge è uno dei più rappresentativi monumenti archeologici del mondo assieme alle piramidi», ha detto il capo del progetto Vincent Gaffney, parlando al British Science Festival di Birmingham. «Gran parte dell’area che circonda Stonehenge è terra sconosciuta. Non è stata mai esplorata e questo ritrovamento è destinato a cambiare il modo in cui abbiamo sempre guardato quel sito». I monumenti rilevati dai radar risalgono a 6.000 anni fa, con 17 strutture in pietra e legno e decine di tumuli funerari.

Corriere 11.9.14
Prima e ultima sillaba, così i bimbi imparano le parole
di Massimo Piattelli Palmarini


H a quasi del miracoloso come un bimbo riesca a estrarre le singole parole dal flusso continuo del linguaggio parlato. Infatti, in nessuna lingua, quando normalmente parliamo, vi sono piccolissimi intervalli acustici tra una parola e la successiva. Mediante opportuni raffinati strumenti di analisi delle onde acustiche prodotte da un parlante, molti infinitesimi intervalli cadono entro le parole, non tra una parola e un’altra. Un esempio (uno tra tantissimi), nella frase inglese, normalmente pronunciata, «Where are the silences between words?» (Dove sono i silenzi tra le parole?), un silenzio cade tra «s» e «ilen», uno tra «word» e «s». Non stupisce, quindi, che da anni linguisti e scienziati cognitivi si siano affannati a identificare le strategie innate che il bimbo mette inconsapevolmente in azione per imparare le parole della propria lingua materna.
Un certo numero di tali strategie è stato identificato. Nessuna è infallibile, ma applicate insieme forniscono al bimbo un buon successo in questo formidabile compito. Nell’ultimo numero della rivista internazionale specializzata Child Development un decano delle scienze cognitive, Jacques Mehler e la sua brillante collaboratrice Silvia Bendes-Varela hanno pubblicato un importante risultato delle loro ricerche, condotte a Trieste, alla Sissa (Scuola Internazionale di Studi Scientifici Avanzati). In sostanza, bimbi di sette mesi prestano speciale attenzione alle sillabe iniziali e finali delle parole multi-sillabiche e le memorizzano. Presentando acusticamente parole inventate con normale pronuncia italiana, per esempio «sotumavefi» e «tusomafive», e abbinando questi stimoli linguistici alla presentazione di pupazzi colorati, si è potuto verificare dove, con lo sguardo, il bimbo si aspetta di veder comparire un particolare pupazzo precedentemente abbinato a una particolare parola. Il trucco, per così dire, consisteva nel variare, in un caso, le sillabe al centro della parola, in un altro le sillabe all’inizio e alla fine della parola. In tal modo, si è accertata la speciale importanza, nell’apprendimento e nella memorizzazione, dei «bordi» (edges ) delle parole, cioè delle sillabe finali e iniziali, mentre la variazione delle sillabe centrali ha minore importanza.
Presumibilmente, come altri studi pubblicati suggeriscono, l’importanza delle sillabe iniziali non è esattamente la stessa di quella delle sillabe finali e un abbinamento ricorrente tra iniziali e finali può avere speciale importanza. L’esperimento di Mehler e Benavides-Varela non consente di rivelare questa differenza. Ci si è chiesti se contino anche, seppur meno, le sillabe centrali della parola. Conta la loro identità, o la loro posizione, o ambedue? Ulteriori esperimenti, riportati nel lavoro ora pubblicato, mostrano una certa importanza anche della posizione delle sillabe entro una parola. In sostanza, le sillabe «estreme», ai bordi della parola, sono necessarie, ma non sufficienti. La loro conclusione è che la divisione tra le due componenti principali della memoria sequenziale, cioè ordine e identità dei componenti, emerge prestissimo nello sviluppo cognitivo e cerebrale del bimbo, rivelando un tratto fondamentale delle rappresentazioni mnemoniche. Il riconoscimento del contenuto verbale è molto precoce, mentre quello dei dettagli dell’ordine seriale appare successivamente, quando maturano le strutture cerebrali deputate alla rappresentazione delle sequenze temporali. Mehler e Benavides-Varela sottolineano che, non a caso, i «bordi» delle parole hanno speciale importanza nella morfologia e nella semantica di moltissime lingue. Si modifica il significato delle parole aggiungendo prefissi e suffissi (ri-conoscere, im-mangiabile, gioca-ndo, sincer-ità e così via).
Quindi, la speciale attenzione del bimbo all’inizio e alla fine delle parole è una strategia efficace. Naturalmente, si combina con numerose altre strategie innate, in parte già note, di segmentazione del flusso del parlato in parole. Mi chiedo se simili esperimenti potranno essere anche effettuati con bimbi che stanno imparando lingue come l’arabo, dove i plurali si formano aggiungendo infissi (kitab libro, kutub libri; kalb cane, kilab cani). Sarebbe interessante vedere se questo apprendimento avviene più tardi. Per adesso, l’importanza dei bordi delle parole mi ricorda una classica canzone napoletana che dice «a’primma e l’ultima sarraie p’e mme’».

Corriere 11.9.14
Medicina specchio della vita
Mette ogni individuo davanti a limiti e possibilità
Tra esigenze di umanità e potere della tecnologia
Un colloquio con Gianfranco Sinagra, cardiologo di fama internazionale
di Claudio Magris


Forse la Medicina è la scienza più completa e non solo perché prima o dopo chiunque ha a che fare con essa, ma anche e soprattutto perché mai come quando si trova davanti alla malattia l’individuo è totalmente se stesso, implicato — direttamente o indirettamente — in tutta la realtà della sua persona, non solo fisicamente ma anche negli affetti e nel lavoro, nella possibilità e difficoltà di vivere la propria vita. Come altre scienze — specialmente quelle dure, della natura — la medicina è sempre più legata alla tecnologia, nella cui crescente potenza e invadenza molti vedono un pericolo di disumanizzazione. L’Occidente, culla della tecnica, è anche la culla della sua critica più accanita.
Tecnica e medicina. Ne parlo con Gianfranco Sinagra, cardiologo di fama internazionale, che ha costantemente unito tecnica e umanesimo, notevolissima competenza scientifica e calda attenzione a tutte le sfumature del rapporto col paziente, alla complessiva qualità della sua vita. Un medico per il quale non esistono i pazienti, ma ogni volta il paziente. Professore di cardiologia e direttore del Dipartimento cardiovascolare e della Scuola di specializzazione dell’Università di Trieste, coordinatore del Centro clinico-sperimentale di cardiologia molecolare e traslazionale, collaboratore delle più importanti riviste internazionali e autore di lavori premiati, Sinagra si è occupato di scompenso cardiaco e cardiomiopatie, biopsia endomiocardica e terapia rigenerativa. Continua la gloriosa tradizione triestina di cardiologia, costruita dai suoi predecessori quali Klugmann e Camerini. Negli ultimi cinque anni presso la Cardiochirurgia di Trieste sono stati operati 2.800 pazienti, con una mortalità del 4% (comprensiva dei casi di estrema gravità), ampiamente inferiore alla media. Molti pazienti, pure di età avanzata, sono tornati a una vita normale. Naturalmente anche quel 4% ha un tragico peso, perché la vita di un individuo è un assoluto non quantificabile, ma quelle cifre rivelano l’eccellenza generale dell’istituzione, eccellenza il cui merito va a tutta l’équipe di medici, infermieri, operatori sanitari. La storia di un malato e della sua malattia non finisce con la sua dimissione dall’ospedale, dopo la quale inizia un’altra fase della tutela della sua qualità di vita, in cui s’intrecciano tecnologia e attenzione umana.
«Molti — gli dico incontrandolo nel suo studio triestino — esaltano e molti deplorano il crescente ruolo della tecnica nella Medicina, quasi essa sostituisse la macchina all’uomo e dunque indebolisse quel rapporto diretto, personale fra medico e paziente che è fondamentale per la guarigione e il ritorno alla vita normale...».
Sinagra – La tecnologia ha contribuito grandemente a migliorare la qualità e la durata della vita degli uomini, ma rivela pure limiti, di conoscenza e di intervento. Non conosciamo certo tutto delle malattie, non riusciamo a curarle tutte e talora nemmeno a identificarle. Ma questi sono limiti di tutto ciò che è umano. La Medicina non ha bisogno di essere «anche» arte, perché essendo governata dagli uomini ha in sé il germe della creatività nelle relazioni e nelle azioni. La Medicina autentica pone realmente, non demagogicamente, al centro il paziente e anche il sano, perché Medicina significa pure prevenzione e creazione di un ambiente adatto alla vita degli uomini. Naturalmente ci può essere la deformazione tecnocratica, l’idolatria statistica dimentica dell’individuo, l’interesse per la malattia che dimentica il malato. Forse anche la letteratura, espressione per eccellenza dell’umano, corre rischi diversi ma analoghi...
Magris – Certo. Un grande poeta, Milosz, ha detto che «spesso i poeti hanno un cuore freddo»; se scrivono una poesia per un bambino che muore, corrono il rischio di concentrarsi e commuoversi più sull’armonia dei loro versi che sulla sofferenza del bambino. La storia letteraria è costellata di sentimenti di colpa per tale mancanza di umanità nell’arte; si pensi a Thomas Mann, che ne era dolorosamente consapevole. Ma perché Lei dice «non demagogicamente»?
Sinagra – Perché spesso noi medici parliamo di relazionalità, empatia, ascolto, senza poi metterli in atto e creando invece un paternalismo che guarda al paziente dall’alto in basso, rendendolo mero oggetto delle decisioni cliniche oppure affidandolo astrattamente alla standardizzazione dei percorsi, agli algoritmi, perdendo di vista l’individuo concreto e il suo vissuto, sempre unico e irripetibile. E qui l’arte e la letteratura hanno molto da dire, quando si parla del singolo...
Magris – Certo, nella letteratura — ma in ogni arte e nella vita stessa — non esistono turbercolotici o cardiopatici come non esistono europei, innamorati o obesi, bensì esiste l’uno o l’altro individuo, che può essere nato in Europa, grasso o magro, soffrire di tisi o di pene d’amore, ma è sempre una singolarità irriducibile a una generica categoria. Ci sono grandissimi malati nella letteratura da cui un medico può imparare anche nel concreto esercizio della sua professione; la letteratura ha pure affrontato il carattere epocale, storico e simbolico, di alcune malattie, dalla peste alla tubercolosi, dalla sifilide al cancro o all’Aids. Si parla spesso di «fisiologia dell’esistenza», di rapporto e contatto umano. Ma come si fa a metterli concretamente in atto nei casi di gravità acuta estrema?
Sinagra – Nella fase acuta — nell’infarto, nell’ictus, nel politrauma, nello shock — lo spazio e il tempo per una vera relazione sono esigui e la salvezza della persona dipende dalla capacità del medico di risolvere il problema acuto in tempi rapidi e da un contesto organizzativo adeguato. Eppure anche in queste fasi convulse il valore di pochi minuti o anche secondi di colloquio, sguardi, umana comprensione nel rapporto col paziente o i familiari è fondamentale. Nel percorso successivo — cronicità, domiciliarizzazione delle cure — è essenziale il ruolo dell’infermiere oggi centrale nella Medicina, come quello di altri professionisti sanitari. Nel percorso globale di vita del paziente restituito, dopo gli interventi urgenti, a una vita normale con una lunga prospettiva di sopravvivenza, sono importantissimi l’ascolto, l’aiuto a elaborare psicologicamente la malattia, la correzione dei fattori di rischio. Questo è scientificamente dimostrato.
Magris – Anche in Medicina, come in ogni campo dell’esistenza e della scienza, c’è l’errore. Un errore che può avere gravissime conseguenze — causare la morte — mentre un errore nel mio campo non fa morire nessuno, neanche se dicessi che Dante ha scritto I Promessi Sposi . Come vive l’errore in medicina?
Sinagra – Come la misura della fallibilità degli uomini, dell’estrema eterogeneità e imprevedibilità degli scenari, dell’incompletezza delle conoscenze. Ovviamente va distinta la negligenza o l’ignoranza dall’errore inatteso. Tutti compiamo errori; l’importante è «imparare da essi», diceva Popper. La sfida della complessità ci può inibire o vederci attivi nell’agire e perciò stesso esposti all’errore, che va contenuto al massimo con l’impegno di studio, la solidità dell’organizzazione, l’educazione medica permanente, la continua revisione critica. Lavoro difficile, cui non sempre siamo preparati.
Magris – La qualità della vita è fondamentale, ma, per una diffusa distorsione di questo concetto, può diventare un principio pericoloso, l’arroganza di decidere per gli altri quale sia il livello di tale qualità al quale la vita inizia a essere degna di venir vissuta. In tal modo si è giunti alla discriminazione, anche all’eliminazione di persone prive o considerate prive di tale livello. L’eutanasia nei confronti dei minorati, dei disabili...
Sinagra – Concordo: la qualità di vita non è una variabile assoluta, oggettiva, standardizzabile. Spesso questa argomentazione è uno scudo. Particolarmente quando ci si riferisce agli anziani o a patologie croniche o degenerative: la valutazione del livello di qualità di vita dovrebbe essere parte di una valutazione condivisa, umanamente intensa, che sappia avere attenzione a entrambi gli estremi dello spettro: evitare di intensificare le cure oltre un limite che configurerebbe inutile accanimento terapeutico, ma anche evitare di precludere trattamenti raccomandati ed efficaci sulla base di pregiudizi, discriminazioni economiche o razziali, emotività, ideologie.
Magris – Non le sembra che l’eutanasia, in generale, stia diventando una parola d’ordine obbligata per dimostrarsi aperti e progressisti, una nuova forma di essere benpensanti?
Sinagra – Rifiuto l’idea di provocare la morte. La vita è per me dono, con la sua straordinaria ricchezza e generosità di esperienze, incluse la sofferenza e la malattia. La Medicina deve avere attenzione ad alleviare le sofferenze con i numerosi strumenti di cui dispone. C’è una bellissima pagina del Diario di Etty Hillesum, che mi viene spesso in mente: «La vita non può esser colta in poche formule... è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata».

Corriere 11.9.14
La vera bomba demografica è il dislivello tra Nord e Sud
Livi Bacci: troppe nascite in Africa, poche in Europa
di Antonio Carioti


La bomba demografica non appare più pericolosa come un tempo, ma sarebbe irrealistico e irresponsabile pensare che il problema sia superato o comunque avviato verso un felice assestamento spontaneo. È il messaggio contenuto nell’intervento di Massimo Livi Bacci che apre il numero del «Mulino» in uscita domani. Come al solito la rivista diretta da Michele Salvati riserva ampio spazio ai problemi mondiali, ma preferisce non inseguire l’attualità immediata. Per esempio analizza le difficoltà e gli arretramenti della democrazia in tre Paesi importanti, ma che al momento non si trovano direttamente sotto il raggio dei riflettori mediatici: Egitto, India e Serbia.
Qualcosa di analogo può dirsi della questione demografica, che è decisiva per le prospettive del pianeta, ma ha un andamento che procede sottotraccia rispetto agli eventi che polarizzano l’attenzione del grande pubblico. Tanto più che, osserva Livi Bacci, in fatto di natalità si sono diffuse convinzioni illusorie. Dato che il ritmo di crescita della popolazione nei Paesi poveri è molto rallentato, si spera in una convergenza che porti il mondo intero ad avere «un’alta speranza di vita», con una media di procreazione «intorno ai due figli per donna» e un conseguente decremento delle spinte migratorie.
Uno scenario che appare senza dubbio desiderabile, scrive Livi Bacci, ma è tuttora ben lontano da quanto sta realmente accadendo. Per esempio la fecondità dell’Africa subsahariana rimane intorno ai 5,4 figli per donna: anche se scendesse a 2,7 verso la metà di questo secolo, secondo la stima più ottimistica, nel 2050 la popolazione di quella zona del globo raddoppierebbe rispetto ad oggi. E si farebbe macroscopico il divario con il declino dell’Europa, che attualmente è «ben sotto la soglia di rimpiazzo della popolazione».
Ne consegue che la natalità va scendendo ovunque, ma gli squilibri tra le diverse aree geografiche non sono mai stati così profondi. Bisognerebbe quindi intensificare il controllo delle nascite nei Paesi poveri e incentivare la fecondità in quelli avanzati, la cui popolazione tende a diminuire e invecchiare in maniera preoccupante. Ma se promuovere il declino demografico appare relativamente semplice, assai più arduo è agire per contrastarlo e invertirlo là dove si è consolidato e avanza. Livi Bacci suggerisce di adottare un cocktail «di sostegno alla famiglia, di strategie fiscali e di misure normative», ma non sembra molto convinto che si possano ottenere risultati incisivi.
Di certo tuttavia non si può rimanere inerti, perché ci sono due grossi scogli all’orizzonte. Da un lato si acuiscono i problemi di sostenibilità ambientale causati dall’aumento della popolazione in Paesi la cui economia resta caratterizzata da un intenso consumo di risorse naturali, a partire dai combustibili fossili. Dall’altro salgono le tensioni causate da crescenti flussi migratori, che suscitano reazioni di rigetto nelle popolazioni autoctone, con la forte ascese di movimenti xenofobi, fino a determinare autentiche crisi di «sostenibilità politica».
Qui però si apre un interrogativo: è possibile sottoporre a un controllo politico razionale fenomeni così complessi, che riguardano la sfera intima delle persone e vanno a toccare corde identitarie ad alta intensità emotiva? Nello stesso numero del «Mulino» Gian Enrico Rusconi ricorda l’esito catastrofico che ebbe l’illusione di programmare razionalmente la guerra un secolo fa, nel 1914. Mentre Mauro Bonazzi s’interroga sulle origini e sulla plausibilità culturale della tesi, cara al pontefice emerito Joseph Ratzinger, che la filosofia greca di Platone e Aristotele, coniugata al cristianesimo, costituisca il fondamento razionale irrinunciabile della civiltà europea. Affrontare con realismo i problemi del nostro tempo significa probabilmente anche prendere atto dei limiti della ragione umana, senza naturalmente rinunciare al suo esercizio.

Repubblica 11.9.14
Dal Passaggio a Nord Ovest riemerge il vascello fantasma
Il disgelo svela uno dei misteri delle esplorazioni:
la nave con cui Franklin cercava la rotta tra Atlantico e Pacifico
di Vittorio Zucconi

DAL disgelo delle acque artiche disciolte dal riscaldamento della Terra emerge un vascello fantasma che per 160 anni era stato cercato invano: la nave dell’ammiraglio Lord John Franklin inghiottita nel 1846 dai ghiacci nella ricerca del Passaggio a Nord Ovest, per raggiungere dall’Atlantico il Pacifico. Un secolo di leggende, di racconti di cannibalismo fra i marinai dispersi nell’Artico, di incompetenza e di imperiale arroganza britannica, restituisce l’immagine nitidissima di una delle due navi comandate dall’Ammiraglio Franklin, adagiata sul fondale ad appena 15 metri di profondità, oggi in acque limpidissime.
L’hanno trovata i canadesi, dopo che infinite spedizioni erano partite senza trovare altro che qualche resto umano e le tombe di due marinai. Il ritrovamento di quella che potrebbe sembrare soltanto una reliquia della storia marinara e la soluzione di un’altra leggenda del mare ha invece un preciso intento strategico e politico. Quando il primo ministro canadese Harper ha personalmente annunciato il ritrovamento di una delle due navi, che erano la Terror e l’Erebus, i nomi di due vulcani nell’Antartide, ha voluto far capire che quel labirinto di stretti e di isole all’estremo Nord della nazione oggi divenuto navigabile fa parte delle acque territoriali del Canada, “Mare Nostrum”.
Il “Passaggio a Nord Ovest”, la ricerca di una rotta marittima, era stato, per cinque secoli, il “Sacro Graal” della esplorazione navale e dunque degli interessi strategici e commerciali di potenze e imperi. Controllarlo, se lo scioglimento progressivo dei ghiacci artici lo rendesse navigale tutto l’anno, equivarrebbe alla supremazia sullo Stretto dei Dardanelli, fra il Mar Nero e il Mediterraneo. Non erano dunque soltanto, o niente affatto, scientifiche le intenzioni che nel 1845 avevano armato le due navi della Marina di Sua Maestà, la Terror e l’Erebus, e le avevano affidate a un ammiraglio in pensione di 59 anni, John Franklin. Franklin era un veterano di guerre vere. Le sue unità avevano partecipato all’invasione britannica degli Stati Uniti ribelli nel 1812, bombardando il porto di New Orleans, e poi al cannoneggiamento di Baltimora divenuto la traccia sulla quale sarebbe stato scritto l’inno nazionale statunitense.
Le due unità, dopo anni di tragici fallimenti di altre spedizioni, erano stato attrezzate con il meglio della tecnologica navale del tempo. Le chiglie erano state rinforzate con lastre di metallo, le eliche erano retrattili e mosse da nuovissimi motori a vapore. Travi trasversali erano state installate per renderle più resistenti alla tenaglia dei ghiacci. Impianti per distillare l’acqua salata erano a bordo, insieme con migliaia di scatolette di cibo in conserva fornite da un commerciante disonesto che aveva vinto l’appalto e che, per guadagnare di più, le aveva malamente sigillate con il piombo. Tra i resti umani trovati dalle più recenti ricerche, i patologi hanno riconosciuto tracce sicure di avvelenamento appunto da piombo.
Invano gli Inuit, gli indigeni che per millenni avevano rosicchiato la propria esistenza fra quei ghiacci, avevano tentato di dissuadere l’ammiraglio, i comandanti delle navi e i geografi a bordo dall’inoltrarsi nel dedalo fra le isole Victoria, Melville, Devon, Baffin e Beechey, dove infatti le due tombe sarebbero stato trovate. Molte altre spedizioni i nativi Inutit avevano visto salpare e non tornare, ma l’ammiraglio era troppo sicuro della fantastica tecnologia navale britannica di metà ‘800 per dare ascolto a quei “primitivi”. Salpò e per 160 anni di lui e delle sue magnifiche navi non si sarebbe saputo più nulla.
Non furono le prime navi a perdersi nella ricerca della rotta che, prima del Canale di Panama, avrebbe collegato i due Oceani e si sarebbe dovuto attendere il 1922 per vedere Amundsen riuscire, nella stagione del disgelo, divincolarsi nel labirinto e attraversarlo. Ma la scomparsa delle due unità speciali della Regina Vittoria, l’autorevolezza del comandante, l’attivismo della moglie, che prima aveva brigato alla Corte di San Giacomo per affidare la spedizione al marito e poi avrebbe tempestato l’ammiragliato inglese per organizzare le ricerche, crearono scandalo nell’Inghilterra vittoriana.
Una cifra enorme, 20mila sterline, tre milioni di oggi, fu offerta. Racconti di enormi iceberg vaganti con due navi incastonate nel ghiaccio circolarono. Un altro esploratore, John Rae, si spinse fino alle isole di Beechey e King William trovando reperti, lettere, scatolette di cibo e resti umani che sembravano presentare segni di morsi. Avanzò l’ipotesi del cannibalismo che la propaganda vittoriana respinse con orrore, come un’offesa intollerabile alla superiorità morale dell’ Homo Britannicus che mai sarebbe sceso a simili barbarie. Franklin fu beatificato e onorato con monumenti e targhe commemorative a Westminster. Un’altra spedizione alla ricerca del Passaggio fra i Ghiacci naufragò stritolata dal gelo e fra loro una nave demolita, la Resolute, fornì il legno per la scrivania donata dalla Gran Bretagna che i Presidenti degli Stati Uniti usano. La scrivania divenuta adorabile quando John John, il figlio di JFK, ci si fece fotografare dentro.
Ora, una delle due navi fantasma è finalmente apparsa sotto la superficie, intatta salvo per l’albero maestro mancante, visibile nell’acqua che sta sciogliendo i ghiacci. E apre quella rotta che nazionalismi, interessi strategici e commerciali potrebbero trasformare, anche più in fretta del riscaldamento della Terra, in una delle nuove “zone calde” del mondo.

il manifesto 11.9.14
Il paradosso negazionista
Festival della comunicazione. Un'anticipazione della relazione che la semiologa terrà domenica 14, nella cornice della rassegna ligure
di Valentina Pisanty

segnalazione di Nuccio Russo

La storia del negazionismo è quella di un’idea contagiosa in cerca di ambienti nei quali riprodursi vantaggiosamente: di un meme, direbbero gli studiosi dell’evoluzione culturale. Una tesi anti-storica, già concepita dagli stessi perpetratori all’epoca dello sterminio che, dal dopoguerra in poi, ha dovuto sviluppare nuove strategie di sopravvivenza in una cultura che le è ostile, specie da quando la Shoah è stata riconosciuta come l’evento fondativo dell’identità europea post-bellica. Quali sono queste strategie? Il successo comunicativo del negazionismo è legato alla sua capacità di incamerare
e rimescolare elementi che sarebbero alieni al suo codice genetico: primo fra tutti il principio della libertà di espressione.
A ripercorrere la parabola del negazionismo si colgono le spiccate capacità adattive di questo meme, per un trentennio circoscritto ai suoi focolai postbellici, perlopiù di estrema destra, dove si riproduce quanto basta per sopravvivere in forma quasi asintomatica. È nel 1978–9 che, sull’onda del caso Faurisson, comincia a propagarsi nel dibattito pubblico. Nel crogiolo delle polemiche sulla banalizzazione e sulla sacralizzazione della memoria (scatenate dal successo planetario della miniserie tv Holocaust la tesi negazionista si aggrega surrettiziamente ad altre formazioni culturali in rapida espansione. Tra queste: la critica allo sfruttamento commerciale e politico dell’Olocausto; l’affermarsi del paradigma vittimario come matrice di identità dolenti e rivendicative che si contendono la «palma della sofferenza»; e, soprattutto, l’idea che Israele tragga illeciti vantaggi dal trauma della Shoah per monopolizzare lo statuto di vittima assoluta, come tale al riparo da ogni biasimo o contestazione.
Non si tratta di argomenti immediatamente ascrivibili alla destra fascista. Al contrario, molti di essi sono prerogativa del pensiero critico della sinistra anti-colonialista e anti o post-sionista. Il successo di Faurisson e dei suoi epigoni è dovuto alla scelta retoricamente vincente di camuffare la tesi dei nazisti con argomenti anti-imperialisti, anarcoidi e vittimistici che ne allargano il bacino di utenza, confondendo i ruoli e i piani del discorso. Lo dimostra (tra l’altro) l’appoggio a scatola chiusa che Noam Chomsky presta a Faurisson in una lettera del 1980 in cui definisce il negazionista francese «una specie di liberal relativamente apolitico». Al di là della diagnosi a dir poco discutibile, Chomsky non entra nel merito dell’argomento negazionista in sé, sul quale non si pronuncia, ma difende
a spada tratta il diritto di formularlo senza incorrere in sanzioni (Voltaire, eccetera).
Curioso paradosso: i negazionisti riabilitano coloro che bruciavano i libri al grido di «le idee non si censurano». Ma fa sistema con un’aporia di segno opposto: la pretesa di combattere la recrudescenza delle tesi naziste per mezzo della censura. Si potrebbe discutere a lungo se il divieto di esprimere opinioni obliquamente antisemite costituisca o meno una violazione dei principi democratici fondamentali. Resta comunque la percezione diffusa, e non del tutto immotivata, che un simile divieto, specie quando sancito per legge, strida con i valori libertari sbandierati dalle democrazie occidentali.
Gli anni ottanta segnano un picco di visibilità del negazionismo europeo che i media presentano come un argomento scabroso con cui occorre fare i conti per definire i confini del discorso tollerabile. I negazionisti in cerca di notorietà imparano a fare leva proprio sulle reazioni di ripulsa che
i loro discorsi generano, al contempo invocando i più alti princìpi democratici per deviare i contraccolpi delle loro provocazioni. Di qui, i tentativi di debellare l’insidia per mezzo di potenti antivirus:
i primi provvedimenti disciplinari e, dagli anni novanta, l’istituzione di specifiche leggi che comminano multe e sanzioni a chiunque neghi i crimini contro l’umanità. E tuttavia, lungi dallo sconfiggere il negazionismo, le leggi della memoria gli consentono di parassitare altri memi, come quello della libertà di espressione, e di sfruttarli a scopi propagativi.
Si capisce perché negli ultimi quindici anni la rete sia diventata l’habitat ideale del negazionismo. Non si tratta solo dei vantaggi tecnici che il mezzo offre: economicità, processi di disintermediazione, anonimato, viralizzazione dei contenuti, possibilità di aggirare qualsiasi censura... In rete il duplice paradosso imbricato della negazione (che sostiene tesi razziste per mezzo di argomenti libertari)
e della sacralizzazione (che sostiene tesi antirazziste per mezzo di strumenti anti-democratici) produce effetti esplosivi. È nella natura porosa di Internet raccogliere i detriti e i reietti del sistema, proprio in nome dell’ideale libertario di cui la rete è – o pretende di essere – la massima espressione. Sottomessa soltanto al profitto dei gestori, promette di realizzare il sogno di un’informazione gratuita, orizzontale, protesa verso lo scambio aperto di conoscenze utili al progresso dell’umanità.
E tuttavia questa gratuità ha un prezzo. La mancanza di filtri – e di fini – lascia passare tutti gli scarti della cultura «ufficiale», accreditata o seria che dir si voglia. Il web si popola delle più disparate teorie del complotto, imperniate sul concetto che «tutto quello che vi hanno insegnato a scuola è falso», ragion per cui chiunque abbia una tesi fragile da propagandare trova asilo in rete. Anzi, si inorgoglisce dei rifiuti che subisce nel mondo offline, interpretandoli come altrettante conferme della validità delle sue tesi: «se il Sistema mi ostracizza, significa che ho ragione». E non sono solo le teorie del complotto a proliferare in rete. Altri generi vi attecchiscono con successo: la pornografia, le curiosità morbose, i freak,il grottesco e la profanazione carnevalesca di ciò che la cultura «ufficiale» ha decretato essere venerabile e sacro. Il negazionismo ha elementi in comune con tutti questi generi deformi e, anche per questo, negli ultimi anni la sua presenza in rete si è molto accentuata. Nello spazio virtuale i nuovi antisemiti si ritagliano delle nicchie protette e allungano i sensori verso l’esterno, alla ricerca di nuovi simpatizzanti.
Avviene così che siti non apertamente razzisti ospitino interventi antisemiti in nome esclusivo della libertà di espressione. Alcuni divulgatori del verbo negazionista lanciano le loro provocazioni in blog aperti, scatenando flamewars che rimettono in circolazione frammenti dell’archivio antiebraico, propagandoli oltre i focolai dell’estrema destra. Il successo di Dieudonné in Francia è un eloquente segnale di una simile fuoriuscita (cosa c’entrano i banlieusards con il Front National?). Ed è proprio questo il fenomeno da contrastare con tutti i mezzi possibili, inclusa una capillare campagna di informazione e di addestramento, fin dai banchi di scuola, all’uso del pensiero critico, in rete come altrove. Bisogna privare il negazionismo di ogni prestigio anti-establishment affinché il fenomeno rientri nei suoi bacini d’origine, dove lo si può osservare e contrastare per ciò che è, e non per ciò che finge di essere. Bisogna isolare il virus, circoscriverlo e metterlo in quarantena, visto che non lo si può eliminare del tutto e che – fuori di metafora – l’istituzione di leggi specificamente anti-negazioniste ottiene l’effetto opposto di ricompattare lo sgangherato popolo della rete attorno
a un unico principio chiaro ed elementare: la difesa della libertà di espressione, ossia dell’unico valore etico di cui la rete si fa portatrice.

Repubblica 11.9.14
Attenti ai capitalisti del web che fanno regredire il mondo ai “Tempi moderni” di Chaplin
Nel suo nuovo saggio, “Rete padrona”, Federico Rampini racconta i monopolisti di Internet: pericolosi quanto gli squali di Wall Street
di Maurizio Ricci


Rete padrona di Federico Rampini (Feltrinelli, pagg. 278 euro 18)

CHI sono oggi i Padroni dell’Universo, i cavalieri del capitalismo rampante che tengono in scacco i mercati e, dunque, l’intero pianeta? Quelli che stanno a Wall Street, nelle cattedrali della finanza? O quelli che stanno a Silicon Valley, nei templi del presente di Internet e del futuro digitale? Federico Rampini, che li segue da tempo tutt’e due, propende per i secondi. Che suona strano, perché l’immagine che associamo ai Masters of Universe — e alle avventure del capitale rapace, cinico e spietato — si staglia nitida nei canyon di grattacieli del sud di Manhattan, ma fatica a mettersi a fuoco nel sole della California. Nessuno ha mai pensato che John Rockefeller e la Standard Oil, J. P. Morgan e l’omonima banca, Henry Ford e le sue catene di montaggio fossero simpatici. Di sicuro, loro non si sforzavano di esserlo. Invece, il magnetico Steve Jobs, i timidi Larry Page e Sergei Brin, il vulcanico Mark Zuckerberg, Apple, Google, Facebook e compagnia erano più che simpatici: gli alfieri di una rivoluzione che ci coinvolgeva e ci trascinava tutti. Erano la nostra liberazione dalle pastoie del mondo analogico e le nostre chiavi d’ingresso nel portentoso nuovo mondo della Rete.
Be’, ci sbagliavamo. In Rete padrona – Il volto oscuro della rivoluzione digitale ( Feltrinelli, pagg. 278, euro 18) Rampini documenta che la New Economy è straordinariamente uguale alla vecchia economia. I suoi protagonisti sfruttano senza scrupoli la manodopera debole e lontana delle fabbriche cinesi, ma tramano anche fra loro per rendere impotenti i cervelloni che lavorano nell’ufficio di sotto. Cent’anni fa, i loro predecessori bloccavano gli aumenti salariali, spezzando gli scioperi con dosi crescenti di crumiri e poliziotti. Adesso, Jobs sigla un patto con i concorrenti perché nessuno offra lavoro ai cervelli migliori, impedendo che le leggi del mercato si applichino anche agli stipendi. Identica — da Apple a Google, da Amazon a Facebook, come la Standard Oil di una volta — l’ansia di dominio, la spinta monopolistica a fare terra bruciata intorno a sé, liberandosi dei concorrenti o inghiottendoli. Uguale il vizio di ritagliarsi addosso le regole più vantaggiose: il miracolo incorporeo dell’economia di Internet rende più facile che mai parcheggiare gli utili dove le tasse non arrivano. Apple, scrive Rampini, «la regina della Borsa, con una montagna di cash superiore ai 150 miliardi di dollari ha pagato, in alcune sue filiali, un’aliquota fiscale anche solo dello 0,05 per cento».
Se guardate a Internet con gli occhiali di 20 anni fa, alla grande utopia libertaria del World Wide Web, dove tutti hanno gli stessi diritti, dei programmi open source, che nessuno paga, di Wikipedia e della cultura come esperienza universale e comunitaria state guardando a qualcosa che non c’è più o che, ormai, è una nicchia. Inforcate un paio di Google Glass e vi rendete conto che un quarto di tutto il traffico Internet Usa passa attraverso Google. Un abitante su 7 della Terra è su Facebook. Ogni sera, il 40 per cento della banda larga disponibile in America è requisita da Netflix e dai film da scaricare dal suo menu. Il paragone più calzante — ha ragione Rampini — non è neanche quello con i “robber barons”, i baroni ladri del capitalismo selvaggio dell’800. Bisogna risalire più indietro, a prima del capitalismo o, più esattamente, ai processi che lo hanno reso possibile. Al processo che, in un paio di secoli, prima dell’800, consentì ai ricchi latifondisti requisire e recintare, a proprio uso e profitto, quelle che erano state, fino ad allora, le terre comuni dei villaggi contadini. “Enclosures” si chiama quel processo. Oggi, la prateria libera di Internet è sempre più requisita e recintata dai veri grandi giganti dell’economia di oggi: i signori di Internet.
Rampini, però, non ci dice solo che la storia si ripete. Il salto di qualità è che tutto ciò avviene non solo con il nostro consenso, ma con il nostro operoso apporto. Il capitale che Google, piuttosto che Facebook, accumulano e moltiplicano sono le centinaia di scelte che noi, ogni giorno, operiamo sul web, fino a costituire un profilo che è una guida sicura e fruttuosa per la pubblicità. Lo “scambio indecente” che avviene ogni secondo, sulla Rete, è quello fra le opportunità di Internet e la nostra privacy. Siamo destinati, come il Chaplin di Tempi moderni ( sia pure con qualche conforto in più) al ruolo di rotelle impotenti di meccanismi e ingranaggi su cui non abbiamo alcun controllo? Essere pessimisti sembra naturale, ma per chi è cresciuto ai tempi della macchina da scrivere e del telex, un motivo di cautela c’è. Difendersi dal web è difficile per chi ci si è inoltrato a fatica, passo dopo passo. E’ possibile che chi ci è nato dentro e la considera una seconda pelle, come i nostri figli, sia molto meno ingenuo e sprovveduto. Non sono gli adulti scettici a far passare cattive nottate a Zuckerberg. Sono i giovani che, del gigante Facebook, sembrano già stufi.

Repubblica 11.9.14
L’inutile arte della visibilità che ci rende tutti anonimi
di Michela Marzano


Questo testo è un estratto dell’intervento che Michela Marzano terrà domani (a Sassuolo, piazza Garibaldi, alle 1-6.30) al Festival Filosofia, in programma a Modena, Carpi e Sassuolo da domani a domenica

PROTAGONISMO . Se c’è un termine che sembra riassumere perfettamente l’epoca contemporanea, è proprio questo. Nella sua duplice accezione di “visibilità” e di “riconoscimento”. Da un lato, il bisogno di essere sempre al centro dell’attenzione è ormai spasmodico, come se l’unico modo di esistere fosse quello di ottenere visibilità e notorietà. Dall’altro lato, i meccanismi di anonimato e d’intercambiabilità che dominano molti ambiti della vita spingono molte persone a rivendicare il riconoscimento per la propria singolarità. Anche se poi non c’è nessun legame logico o concettuale tra visibilità e riconoscimento. Anzi. Talvolta è proprio a forza di voler compiacere tutti per accumulare i “mi piace” sui social network, che si finisce col perdere di vista chi si è, e quello in cui si crede veramente.
Quando il protagonismo si riduce alla notorietà effimera che si può conquistare sulla scena mediatica, i compromessi diventano il pane quotidiano. Ciò che conta non è la propria individualità, ma l’immagine di sé che si cerca di costruire alla ricerca del consenso. «Il bisogno di gloria», scriveva il filosofo Emil Cioran nei Quaderni, «deriva da un senso di totale insicurezza circa il proprio valore, dalla mancanza di fiducia in se stessi». Se non si ha alcuna certezza di valere, d’altronde, sembra evidente cercare conferme continue e dipendere dalla sguardo altrui. Se si “vale” solo in base al numero di follower che ci seguono, è difficile rinunciarci e smetterla di fare di tutto per conquistarli. Tutto pur di essere protagonisti. Tutto pur di non scomparire dalla scena. Anche se poi ci si svende per poco. E a forza di tradire e di tradirsi, ci si perde. Come capirlo, però, in un mondo in cui si è sistematicamente rinviati alla propria inutilità?
Il problema di fondo è proprio qui: a forza di essere “risorse”, e in quanto tali interscambiabili perché di fatto “l’uno vale l’altro”, nessuno si sente più riconosciuto. E il riconoscimento, come spiega bene Axel Honneth, è la chiave di volta della fiducia. Si fanno sforzi, ci si impegna, ci si batte. Ma se poi non si viene riconosciuti, e quindi non si viene amati così come si è, non si è protetti a livello giuridico da un sistema che rispetti la propria dignità e non si ha l’opportunità di trovare un lavoro attraverso cui non solo garantire il proprio sostentamento ma anche consolidare la propria identità — è proprio attraverso i concetti di amore, diritto e lavoro che Honneth declina la nozione di riconoscimento — non si può essere protagonisti della propria vita. Ci si trascina alla ricerca di certezze. Ci si schianta contro l’anonimato. E allora, invece di rivendicare il diritto a un protagonismo reale, si scivola nell’illusione di conquistare importanza e valore attraverso il protagonismo effimero dell’apparenza. Si ripete una, mille, centomila volte “io”, ma di fatto l’io si sbriciola perché ridotto a mera immagine. La controfigura di un protagonista. Che recita un ruolo imparato a memoria, senza più sapere da dove viene e verso dove va.

Repubblica 11.9.14
Scalfari: il desiderio è tutto, ma l'Italia ha smesso di sognare
L'immaginario e le derive del Paese secondo il fondatore di Repubblica
"L'uomo contemporaneo è schiacciato sul presente. E rifiuta di conoscere il passato”. "Esiste una società responsabile che ha a cuore il bene pubblico. E poi ci sono mafie e lobby"
"De Gasperi fu lo statista che più di tutti capì le aspirazioni di una comunità che cambiava"
intervista di Simonetta Fiori

qui

Corriere 11.9.14
Tra Bach e le sonorità del Brasile scopro un nuovo talento, mio figlio
Viktoria Mullova e il brano di Misha, nato dal legame con Abbado
di Giuseppina Manin


Bach e Brazil. Johann Sebastian e Caetano Veloso, il barocco e la bossanova, musica per meditare e musica per ballare... Bisogna saper osare per accostare mondi così lontani, separati da un oceano geografico e 400 anni di storia. Viktoria Mullova osa. La celebre violinista russa promette di lasciare senza fiato chi assisterà al suo concerto cremonese il 27 settembre. Bach nella prima parte da sola (dalla Partita n.1 in si minore), Veloso, Chico Buarque, Antonio Carlos Jobin e molti altri nella seconda, stavolta insieme con l’ensemble che vede suo marito Matthew Barley al violoncello, Paul Clarvis e Luis Guello alle percussioni, Carioca Freitas alla chitarra. Quanto a lei, visto che siamo nel regno del violino, ne suonerà non uno ma due.
«Il mio Guadagnini del 1750, il cui archetto barocco è perfetto per la musica di Bach, mentre per la parte brasilera userò il mio Stradivari “Jules Falk” del 1723», precisa l’artista che mai si separa da suoi «gioielli». Due «solitari» della liuteria a confronto in repertori molto diversi. «Sono molto curiosa di sentire il loro suono in questo nuovo Auditorium sorto dentro il Museo del Violino, la cui acustica mi dicono straordinaria».
Ma la scorribanda carioca nasconde una sorpresa. Tra i brani che Viktoria e la sua band eseguiranno ce n’è uno firmato da un compositore per nulla brasiliano il cui nome, Misha Mullov-Abbado, racchiude i talenti di due genitori fuori dal comune. Un bel ragazzo, nato dal suo legame con Claudio Abbado, votato per la musica in modo straordinario. A 23 anni Misha è già un affermato contrabassista, diplomato alla Royal Academy of Music di Londra, adora la «classica» e compone jazz. Premiato qualche mese fa con il Kenny Wheeler Prize come miglior artista giovane. «Misha ha scritto una versione jazz di “Brazil”. Mi è molto piaciuta, si intona bene con le atmosfere e sonorità di un Paese che mi emoziona e che ho voluto celebrare nel mio ultimo cd,“Stradivarius in Rio”».
Con Misha finora non si è mai esibita in pubblico: «A casa però suoniamo molto spesso insieme. E ci divertiamo moltissimo». Coinvolte nel «sound of music» familiare anche le sue due figlie, Katia e Nadia. «Che ha 16 anni e frequenta la Royal Ballet School. Sono felice delle loro passioni. Ma mai ho fatto pressioni di sorta. Mai avrei spinto i miei figli in una direzione piuttosto che in un’altra. Libertà, è la parola chiave della mia vita. E spero anche delle loro».
Una libertà che Viktoria ha dovuto conquistarsi con coraggio e determinazione. La stessa con cui a 5 anni iniziò a studiare violino al Conservatorio di Mosca. Ma crescere nell’Unione Sovietica dell’era Breznev non era facile. Tanto più per un’artista ribelle come lei. Così a 23 anni Viktoria approfitta di una tournée in Finlandia per sottrarsi ai controlli feroci del Kgb, fuggire in Svezia e, nascosta sotto una parrucca bionda, raggiungere l’ambasciata americana per chiedere asilo politico. «No, non ho mai provato nostalgia o rimpianti per il mio Paese. Vivo a Londra da 23 anni, la mia casa e le mie radici sono lì. A Mosca non ho lasciato amici né affetti. Andarmene mi ha dato solo un senso di sollievo. Una smisurata felicità all’idea di non doverci più tornare».
La Russia di adesso è molto cambiata. «Di sicuro è molto cambiata Mosca. Ma non in meglio. Rispetto allora ci sono tantissimi ricchi. Tanto ricchi che nessuno può immaginare quanto. Denaro che chissà da dove arriva. Meglio non saperlo. D’altra parte invece c’è una povertà tremenda. E ora l’Ucraina... È spaventoso quello che sta accadendo».
Ingiustizie, costrizioni, barriere. L’impegno di Viktoria è continuare a scavalcarle. Come donna e come artista lei non accetta confini né divisioni. In piena libertà ha vissuto il suo privato, in piena libertà vive la musica. «La mia gioia più grande. Pari solo a quella che mi danno la natura, i miei figli, mio marito. Tutto è sempre questione di armonia, di ritmo, d’intesa. Bach o i Pink Floyd, Brahms o Miles Davies... Antica o contemporanea. Classica, rock o pop. Purché sia bella, la musica è musica».

il Fatto 11.9.14
Il documentario
Il seguito di un genocidio
“The look of silence”, secondo capitolo sulla strage dei comunisti in Indonesia
di Federico Pontiggia


 A Venezia non ha vinto il Leone d’Oro, ma il Gran Premio della Giuria. Sa Dio quanto il verdetto sia stato sofferto: non solo dagli spettatori, ma anche da un giurato d’eccezione come Tim Roth, che ha strappato il microfono e il protocollo per dire, nel non dire, che lui il Leone l’avrebbe dato a The Look of Silence. C’è da capirlo, Mr. Orange, quel che è passato sugli schermi del Lido e oggi approda in sala è “uno dei documentari più grandi e potenti che siano mai stati girati, un intenso commento alla condizione umana”. Virgolettato di Errol Morris, uno che di doc s’intende come pochi, e se avete visto il precedente The Act of Killing potrete convenire agevolmente: Joshua Oppenheimer ha fatto per l’Indonesia, il cinema del reale e il cinema tout court come nessun’altro, con un passo doppio da antologia. The Act aveva rotto il silenzio sul genocidio di un milione di “comunisti” perpetrato dagli accoliti del generale Suharto tra il 1965 e il ’66, stanando e riprendendo gli aguzzini che furono e ancora governano il Paese; The Look torna al silenzio, il solo che può catalizzare il perdono. Dal 2005 al 2010 Joshua, americano trapiantato a Copenaghen, filma The Act, “e per tutta la durata del processo Adi mi chiedeva di vedere il materiale che stavamo girando: guardava tutto ciò che riuscivo a mostrargli. Era pietrificato”. Adi e Joshua avevano fatto amicizia, Adi era il fratello di Ramli, una vittima dello sterminio: i suo genitori, la madre “vendicativa” Rohani e il padre oggi ridotto a larva umana Rukun, l’avevano messo al mondo proprio per colmare quel vuoto. Adi è cresciuto così, come la “seconda scelta” di una famiglia di sopravvissuti e infangati, Adi sarebbe divenuto il fulcro del secondo film di Joshua, “in cui saremmo entrati in quegli spazi infestati e avremmo sentito visceralmente cosa significava essere sopravvissuti costretti a vivere lì, a costruire le proprie vite sotto lo sguardo attento degli uomini che avevano assassinato i propri cari rimanendo comunque al potere”. Ecco The Look of Silence, ecco Adi che vede ore e ore del girato di The Act, freme per le colpe che la scuola fa ricadere sui propri figli e vuole: incontrare di persona gli assassini del fratello, guardarli in faccia, poterli perdonare.
POSSIBILE? No, perché quegli assassini non provano alcun rimorso, anzi: rievocano, mimano i carnefici che furono davanti ad Adi, alle proprie mogli, ai propri nipotini, come se nulla fosse. Il campionario mette al tappeto gli stomaci, fruga la banalità del male, stende le coscienze, sì, le nostre: donne sbudellate, intestini srotolati, crani fracassati, peni recisi, sangue delle vittime bevuto per non impazzire dalle troppe esecuzioni, non si vede nulla, ma c’è tutto. Pericolo compreso: nei titoli di coda gli “anonimo” fioccano tra cast e troupe, Adi ha dovuto cambiare villaggio, Oppenheimer in Indonesia non potrà mettere mai più piede. Lo tenga a mente chi crede che il cinema non possa cambiare il mondo, non possa muovere di una virgola lo stato dell’arte: certo, serve un progetto solido, una poetica strenua, e uno sguardo, uno stile che uccide, nel caso, mentre cerca di fare la pace tra vittime e carnefici. Adi è un optometrista, aiuta vecchi e non a mettere a fuoco, e lo fa con manifesta umanità: Joshua è lo stesso, perfeziona la nostra visione, ci squaderna davanti le pagine sporche dell’agenda glocal, perché non le si possa continuare a ignorare. Non lo fa per stupire, ma per informare e formare: la sinestesia, lo sguardo del silenzio, qui non è figura retorica, ma umanista, umanissima. The Look of Silence arriva nelle nostre sale grazie alla piccola I Wonder Pictures, legata al Biografilm Festival: onore al merito. Mentre gli altri distributori mettevano la testa nella sabbia, qualcuno guardava al Cinema.