lunedì 15 settembre 2014

La Stampa 15.9.14
Più alunni, stessi prof: parte l’anno scolastico
Ci sarebbe bisogno di tremila classi in più, ma gli organici sono fermi
Le aule-pollaio peggiorano sicurezza e qualità dello studio
500 cattedre in meno in Sicilia, +22% allievi per ogni docente
Gli insegnanti sono 601mila
di Flavia Amabile

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La Stampa 15.9.14
L’insegnamento frontale non funziona più
Con classi da trenta ragazzi ci servirebbe il doppio di ore
di Alessandro D’Avenia

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Repubblica 15.9.14
Davvero necessari 148mila nuovi docenti?
di Mario Pirani


CI TERREMO all’indicazione di Renzi e ci guarderemo bene dal definire “Riforma” le misure di riorganizzazione della scuola italiana. In verità i tagli, comunque camuffati, non potevano fregiarsi dell’appellativo di riforme. Queste, peraltro, erano e sono più che necessarie. Non sarebbe stato meglio, però, prima disegnare la scuola del futuro definire le risorse per realizzarla? Un impiego alla cieca di queste per un generico, e difficilmente attuabile, “ampliamento dell’offerta formativa”, ripropone in realtà il tema di una scuola fatta più per gli insegnanti che per gli studenti. Nel testo governativo si parla molto del sullodato ampliamento, ma senza tenere il minimo conto dell’assenza delle strutture indispensabili anche per il funzionamento normale. Nelle cinque o sei ore aggiuntive del mattino, dedicate a questa espansione dell’offerta cosa dovranno fare gli insegnanti aggiuntivi?
Quali materie approfondire? Si dovranno aprire le scuole il pomeriggio? Ma i nostri innovatori (e non “riformatori”) sono a conoscenza che nelle scuole secondarie superiori non ci sono mense? E che gli orari delle scuole sono concordate con i servizi di trasporto, poiché quasi tutti i ragazzi sono pendolari?
Una delle altre novità del testo è che d’ora in poi gli insegnanti abilitati in una materia potranno insegnare anche materie affini. Evidentemente i nostri governanti non sanno che questa è appunto una delle debolezze maggiori della nostra scuola, dove abbiamo laureati in farmacia che spiegano matematica, insegnanti di sociologia docenti in inglese, e così via. Altro che se ci sarebbe bisogno di una riforma! Comunque è venuto a puntino il documento dell’OCSE sull’Istruzione in Italia che permette di verificare in modo comparato la situazione. Ci sono dati positivi come il numero raddoppiato in 10 anni dei laureati, il tasso di scolarità e le competenze dei venticinquenni che confrontate con i precedenti dati italiani mostrano un deciso miglioramento. Quando però ci confrontiamo con le medie dei paesi OCSE e con altri paesi scopriamo che il punteggio medio in matematica di un laureato italiano (289 punti) è addirittura più basso di quello di un diplomato finlandese (292), danese o giapponese. Il tasso dei laureati, pur raddoppiato, colloca il nostro paese al 34esimo posto su 37 paesi esaminati. La scuola e l’Università non sono più visti come un’occasione per migliorare la propria posizione sociale, ma come scrive acutamente l’OCSE, sono parte del problema.
Si spende in media come gli altri paesi per l’istruzione nella scuola primaria, molto meno nell’Università e nelle scuole superiori. Come sappiamo oltre l’80% della spesa è assorbita dagli stipendi degli insegnanti. Messa così si dovrebbe pensare che abbia ragione Renzi quando dice che mancano docenti (soprattutto nelle superiori). Se aumentassimo la spesa ai livelli dell’OCSE dovremmo avere più insegnanti nelle scuole secondarie superiori ad esempio. Invece il Rapporto ci dice che sono troppi: nelle scuole primarie il rapporto tra alunni e maestri è di 12 in Italia contro i 14 della media OCSE, nelle medie di 12 contro i 15 (OCSE) e nelle superiori di 12 contro 13. Quindi a parità di studenti noi abbiamo in Italia molti più insegnanti. Desta quindi un po’ di meraviglia che per cambiare la scuola il primo tema sembra essere quello di assumere altri 148.000 docenti. Il tema che si evince anche dai dati dell’OCSE è quello della qualità. Un sistema ingessato come la scuola italiana con una autonomia limitata, senza un sistema di valutazione né delle istituzioni scolastiche né degli insegnanti, non ha gli strumenti per avviare un processo di miglioramento. La vera opportunità che offre il documento del governo riguarda il decollo di un sistema di valutazione che avvii anche per i professori una carriera basata sul merito ed una retribuzione incrementata non solo sulle ore aggiuntive, sugli incentivi legati a progetti e progettini. L’idea dell’organico funzionale e quindi di una dotazione di docenti non corrispondente alle sole cattedre, non è un tema nuovo ma deve essere collegato allo sviluppo completo dell’autonomia della scuola, della responsabilizzazione. Non può essere solo un modo per ridurre le supplenze che oltretutto sarebbe largamente insufficiente. L’organico funzionale sviluppa le sue potenzialità solo in una scuola con larga autonomia, che può organizzare le attività, la composizione delle classi ed il lavoro degli insegnanti. In una scuola ingessata quando non c’è da fare supplenze cosa faranno questi neo assunti durante il normale orario delle lezioni? Per aprire le scuole al pomeriggio e riorganizzare le attività non basta un aumento dell’organico ma occorre completare il percorso dell’autonomia. E lo sviluppo dell’autonomia comporta inevitabilmente la valutazione. È questo il punto di partenza della indispensabile riforma.

Repubblica 15.9.14
 “E ora cambiamo anche la Maturità dall’anno prossimo nelle commissioni solo docenti interni”
La prova finale non deve essere un giudizio divino. E poi dobbiamo abolire la tesina di fine anno
Sentiremo i sindacati anche se non saranno interlocutori privilegiati
Sì ai fondi per le paritarie
intervista di Corrado Zunino


ROMA Lavora la domenica, il ministro Stefania Giannini. L’estate della riforma non è ancora finita. Oggi inizia la scuola italiana e, da mezzogiorno, parte la consultazione online che durerà due mesi e dovrà dire al ministero e al governo se “La buona scuola” dei 150 mila insegnanti precari da assumere e i privati a finanziare laboratori, della “più musica e più arte” e la fine degli scatti d’anzianità, a studenti-famiglie-docenti e lobbies italiane è piaciuta. È in buona forma il ministro, il vestito sbracciato mostra una cura da palestra. E alla fine dell’intervista regala l’ultima novità scolastica di una stagione, la tarda estate 2014, che si prepara a terremotare la scuola italiana: «Siamo avanti nella definizione di una nuova maturità. Non abbiamo voluto inserirne i dettagli nel dossier presentato il 3 settembre, ma non è detto che non possa entrare nel decreto legge che vareremo a inizio gennaio».
Quali novità prevede per l’esame di Stato?
«Ho una proposta, la metterò a disposizione di sottosegretari e collaboratori. L’esame di maturità deve perdere quell’aspetto da giudizio divino, che tra l’altro lo ha fatto diventare costoso. Deve riprendere un ruolo di appuntamento di sintesi di un anno scolastico, addirittura di un ciclo».
Quindi?
«Nella stagione 2015-2016 dovremo tornare ai commissari interni, niente più convocazioni da lontano. E un presidente di garanzia, che non deve arrivare per forza da fuori provincia. Chiuderei l’esperienza della tesina di fine anno, un atto compilativo che è diventato solo un fiore al bavero, una collanina graziosa. Gli studenti dovranno presentare un progetto che riguardi tutto l’anno trascorso: un lavoro più teorico per i licei e un prodotto finito per i tecnici. Ascolteremo i pareri, in questi due mesi, anche su questo argomento».
La consultazione online (e pure offline). Ce la spiega?
«In Europa non l’ha fatto nessuno: offriremo un sito a chiunque voglia esprimersi sulla nostra riforma “La Buona scuola”. Tre grandi stanze dove poter entrare: “Compila il questionario”, “Un grande dibattito diffuso”, “Costruiamo insieme la buona scuola”. Poi ci sono sei scatole sui temi più importanti: le assunzioni, la formazione, l’autonomia, le materie, il lavoro, le risorse. Parte anche un ciclo di incontri con le scuole, i presidi, i provveditori. Il 15 novembre faremo la nostra sintesi e decideremo se e come ritoccare la riforma».
Sentirete anche i sindacati?
«Certo, non escludiamo i sindacati, solo non li riteniamo più interlocutori privilegiati. Con l’autunno le trattative partono».
Si aspetta davvero che ci sia un insegnante uno che digiti “sono d’accordo con la soppressione degli scatti d’anzianità”? L’anzianità è retribuita in tutto il mondo e in quasi tutti i mestieri: non avete esagerato?
«La nostra riforma è autenticamente meritocratica e se siamo gli unici a togliere gli scatti nel mondo vuol dire che siamo degli innovatori coraggiosi».
Niente revisione dei cicli, nella riforma?
«L’argomento c’è, ma non mi convince il taglio dell’ultimo anno delle superiori, anche se le sperimentazioni vanno avanti. Servirebbe una revisione organica che tiene conto dell’anello debole della scuola italiana: la scuola media».
Ministro, l’anno scolastico inizia e mancano gli insegnanti, i supplenti. Avete messo nero su bianco 150 mila precari assunti il primo settembre 2015, ma questa stagione parte molto male.
«Non ci risultano criticità più drammatiche degli altri anni, ma la mancanza di certezza dei docenti è il male dei mali. Fino a quando non ci sarà certezza di uomini e competenze, qualsiasi piano sarà vanificato».
L’autonomia scolastica che progettate ci regalerà, tra cinque anni, scuole diverse una dall’altra.
«Scuole con lo stesso orario e le stesse materie, a parità di branca, ma ognuna con la sua specializzazione: inglese, informatica, arte, musica. Senza competitività tra loro».
Non potevate spingervi oltre e consentire ai presidi di chiamare gli insegnanti che ritengono utili?
«All’interno della rete di scuole questo sarà possibile: un dirigente scolastico potrà inviare un docente d’arte che ha vinto il concorso in un istituto e uno di geografia in un altro».
Le scuole paritarie boccheggiano, perdono iscritti. Lei a Rimini annunciò finanziamenti agli istituti privati che poi non si sono letti sulla riforma.
«Nel testo c’è qualcosa di più: per la prima volta lo Stato italiano chiede alle scuole non statali gli stessi doveri e la stessa qualità di quelle statali. Potremo mandare ispettori ministeriali anche lì: non vogliamo più diplomifici di basso livello, come oggi alcune realtà sono».
Però al Meeting di Comunione e Liberazione lei ha parlato di finanziamenti di Stato.
«Ci saranno, ma in questo quadro di doveri. In Veneto il 64 per cento delle scuole dell’infanzia è privato, in Lombardia il crollo degli iscritti alle scuole non statali è pesante. La fuga di un milione di studenti verso le statali ci farebbe chiudere la scuola italiana».
Le mancherà il sottosegretario Reggi, richiamato al Demanio?
«Mi mancherà. Aveva molte deleghe e ha lavorato bene, soprattutto nell’edilizia scolastica. Non voleva andare via».
Perché, allora, lascia la scuola: contrasti con lei?
«No, ragion di Stato. Credo che il governo voglia un uomo forte al patrimonio per le dismissioni. Ad oggi, lì, non si è mosso nulla».
Il prossimo sottosegretario sarà Francesca Puglisi, Pd?
«Con Francesca ho lavorato molto bene in passato».

il Fatto 15.9.14
Migranti, un altro naufragio al largo della Libia: “200 morti”

L'ennesima strage al largo di Tajoura. Secondo le prime informazioni, il barcone portava 250 persone. La Marina di Tripoli: "Ne abbiamo salvate 26, molti cadaveri in mare". Ma i mezzi di soccorso del paese in crisi sono inadeguati
Nuova tragedia dell’immigrazione al largo delle coste libiche. Sarebbero circa 200 i morti in seguito all’affondamento di un barcone che, secondo i primi accertamenti, portava 250 persone ed è andato a picco all’altezza di Tajoura, a est della capitale: “Al momento abbiamo salvato solo 26 persone, ci sono molti cadaveri in mare” comunica la Marina di Tripoli per bocca del portavoce Ayub Qassem. Molte delle vittime, spiega, sono donne. E nel caos che travolge l’ex regno di Muhammar Gheddafi, ci si mette anche la scarsità di mezzi a ostacolare i soccorsi. La guardia costiera dispone perlopiù di battelli da pesca e rimorchiatori presi in prestito dal ministero del Petrolio.

Corriere 15.9.14
Barcone affonda a largo della Libia «Morti oltre 200 migranti»
A bordo 250 persone: 26 sono state salvate. Molte delle vittime sono donne. La tragedia nelle vicinanze di Tajoura, ad est della capitale

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il Fatto 15.9.14
Ferrari, patto del Nazareno, Ballarò: perché nessuno deve sapere
di Antonio Padellaro

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Corriere 15.9.14
Boschi: «Al voto dopo la legge elettorale? No, avanti fino al 2018»
Le parole del ministro delle Riforme: «Non si fa la legge elettorale per andare al voto, la si fa perché è un impegno che abbiamo preso con i cittadini»

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Corriere 15.9.14
E da Firenze Boschi annuncia la prima Leopolda di governo

Alla prima Leopolda, lei si presentò semplicemente come «avvocato esperto di diritto societario». Ieri sera, da ministro alle Riforme e ai rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi a sorpresa ha annunciato quella nuova, la prima quando Renzi è al governo: «Faremo la quinta Leopolda a Firenze dal 24 al 26 ottobre». Il ministro è da poco arrivata alla Festa dell’Unità di Firenze senza troppi attributi tradizionali dello status: l’automobile è semplicemente quella del padre. Il ministro («signora ministro» spiega al direttore del Corriere fiorentino Paolo Ermini che le chiede se è ministro o ministra) a un certo punto dà l’annuncio e suona la carica: «Rimbocchiamoci le maniche, da qui ad allora. Sul tema di questa Leopolda, lavoreremo nelle prossime settimane. Saranno tre giorni di dibattito e confronto che inizieranno con un tavolo di discussione aperto a tutti, con politici e cittadini». La stazione ferroviaria Leopolda di Firenze è stata il teatro, nel 2010, della prima convention di Matteo Renzi per sollecitare la necessità di un cambiamento deciso all’interno del Pd. In sostanza, la prima partecipata uscita pubblica dei «rottamatori» del partito.

Corriere 15.9.14
Elezioni per Corte costituzionale e Csm
La commedia che svilisce due istituzioni già deboli
di Angelo Panebianco


Se il prestigio di cui dispone un’istituzione è rivelato dal modo in cui essa è trattata dalle altre istituzioni, allora bisogna constatare che la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura non ne hanno a sufficienza. Se le suddette istituzioni fossero oggetto di un diffuso rispetto, magari anche di deferenza, da parte dell’opinione pubblica o di un suo settore maggioritario, se godessero di alto prestigio nel Paese, allora il Parlamento non potrebbe permettersi di trattarle come ha fatto e come ora sta facendo.
Il Parlamento, in primo luogo, avrebbe affrontato da tempo la questione dell’elezione dei membri delle due istituzioni senza aspettare il severo richiamo che è stato costretto a fare il Presidente della Repubblica. In secondo luogo, non avrebbe fatto della scelta dei candidati per le suddette istituzioni, un terreno di regolamento di conti e di scontri entro i partiti coinvolti. Per non incorrere nel biasimo dell’opinione pubblica.
Se il Parlamento può trattare così Corte costituzionale e Csm è perché nessun parlamentare o capo-fazione parlamentare si aspetta di essere «sanzionato» dall’opinione pubblica. Ed è, il suo, un calcolo giusto.
Un tempo (nell’epoca della cosiddetta Prima Repubblica o «Repubblica dei partiti») si diceva che le istituzioni repubblicane godessero di basso prestigio e considerazione a causa dell’esistenza di partiti politici forti e radicati nella società. Erano quei partiti, non le istituzioni, i veri depositari della lealtà e della deferenza dei cittadini. Finita l’era dei partiti forti, lealtà e deferenza non si sono però trasferiti sulle istituzioni, né su quelle rappresentative (parlamento, governo) né su quelle di garanzia (come la Corte costituzionale).
Con un’unica eccezione: la Presidenza della Repubblica. Il suo prestigio è andato crescendo nel corso dei decenni. E anche i suoi poteri di fatto sono cresciuti. Nella prima Repubblica il Presidente era marcato stretto dai partiti, la sua autonomia e i suoi poteri di fatto erano molto limitati. Finita quell’epoca, finiti i partiti forti, il Presidente ha acquisito sia molto più prestigio di un tempo sia molta più autonomia. Se il Presidente della Quinta Repubblica francese viene tradizionalmente considerato un «monarca repubblicano», in un contesto assai diverso (parlamentare anziché semi-presidenziale) tale appellativo può applicarsi anche al Presidente italiano. Vari fattori hanno concorso a questo risultato: la durata della carica, il suo carattere monocratico e le qualità di alcuni degli ultimi occupanti della carica (Ciampi, Napolitano).
Perché altre istituzioni non hanno seguito la strada della Presidenza della Repubblica, perché non hanno acquisito anche loro prestigio in concomitanza con il declino dei partiti? Perché, in particolare, non l’hanno ottenuto né la Corte costituzionale né il Csm? Per molte ragioni (compreso il fatto che si tratta di organi collegiali e non monocratici). Sicuramente anche perché, negli ultimi decenni, queste istituzioni non sono riuscite a conquistarsi con la loro attività il rispetto dell’opinione pubblica. Non poteva riuscirci il Csm, organo lottizzato dalle correnti della magistratura e, proprio per questo, impossibilitato a imporsi sulle componenti meglio organizzate della corporazione o sui magistrati dotati di maggior seguito mediatico. L’opinione pubblica non ha mai individuato nel Csm un organo capace di svolgere con imparzialità, senza guardare in faccia nessuno, la sua attività disciplinare e di contrasto agli abusi commessi nell’ambito del lavoro giudiziario.
Ma neanche la Corte costituzionale è riuscita a conquistarsi con la sua attività sufficiente prestigio.
A torto o a ragione, non è riuscita a guadagnarsi quel rispetto che una Corte costituzionale può acquistare in un solo caso: se viene universalmente riconosciuta come un feroce cane da guardia a difesa dei diritti e delle libertà dei singoli, impegnato in una costante azione di contrasto degli abusi commessi dall’amministrazione o dalla politica parlamentare ai danni dei cittadini. Le ragioni sono sicuramente molte. Una di esse può essere, ad esempio, una certa affinità culturale — che non predisponeva al conflitto — fra diversi membri della Corte che si sono succeduti nel tempo e i funzionari amministrativi. Comunque sia, è un fatto che i cittadini non hanno riconosciuto nella Corte una sicura difesa contro le frequenti angherie dell’amministrazione.
Si raccoglie ciò che si è seminato. Se non vorranno essere anche in futuro, come sono oggi, oggetto di brutali attività spartitorie, Corte costituzionale e Csm dovranno dedicare qualche riflessione collettiva a ciò che non va nel loro rapporto con l’opinione pubblica e a ciò che dovrebbe essere fatto per migliorare le cose.

Corriere 15.9.14
Chi ostacola le riforme
E ora Renzi faccia i nomi
di Ernesto Galli Della Loggia

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Corriere 15.9.14
Jobs act, il governo accelera su lavoro e licenziamenti
Un emendamento-ponte per rivedere lo Statuto
di Lorenzo Salvia


ROMA — Il governo preme. E vuole che l’accelerazione d’autunno arrivi proprio sulla riforma del lavoro, sulle regole per i licenziamenti e il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che li regola per le aziende più grandi. Un segnale rivolto alla politica di casa nostra e soprattutto a Bruxelles, come esempio di riforma fatta e non solo annunciata, come carta da giocare per ottenere qualche margine di flessibilità sugli obiettivi di bilancio. Quella che inizia oggi può essere la settimana decisiva ma tutto si giocherà sui dettagli. Al momento nel Jobs act , il disegno di legge delega arrivato nella commissione Lavoro del Senato, sull’articolo 18 e sullo Statuto dei lavoratori non c’è neanche una riga. Certo, la legge delega ha la funzione di cornice, un elenco dei principi che saranno poi dettagliati in un secondo momento con i decreti delegati. Ma senza nemmeno un appiglio sulla materia poi non sarebbe possibile procedere.
Per questo il governo e il relatore, il presidente della commissione ed ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd), dovrebbero presentare un emendamento che introduca nel testo la questione. Probabilmente si userà una formula sfumata, il testo parlerà solo di riforma dello Statuto dei lavoratori da adottare con un testo unico ispirato dal diritto comunitario. Ma la modifica dovrebbe finire qui, senza entrare nel merito della questione. Una sorta di cavallo di Troia per aprire la strada alle tappe successive, con l’obiettivo finale che resta fermo: in caso di vittoria in una causa per licenziamento, sostituire il reintegro con un indennizzo che cresce a seconda dell’anzianità aziendale. Un gioco sotterraneo, ma neanche troppo.
Ieri ha parlato Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, dove il Jobs act arriverà dopo il via libera di Palazzo Madama, e nome importante di quella sinistra pd contraria ad un intervento del genere: «L’articolo 18 — ha detto Damiano, intervistato dal Mattino — è stato innovato due anni fa all’epoca del governo Monti. Perché cambiarlo ancora? Rischiamo di acuire le tensioni sociali». Parole alle quali ha risposto lo stesso Sacconi: «Damiano sconfessa Renzi. Di riforma complessiva dello Statuto dei lavoratori ha parlato lo stesso premier e segretario del Pd. Ed è paradossale che a non volerla siano taluni esponenti dello stesso partito». Un tentativo di spaccare quello che, al di là delle larghe intese, sta pur sempre nell’altra metà del vecchio arco parlamentare. Ma anche l’emersione di quella partita sotterranea, che si giocherà sul filo delle parole e anche delle ambiguità.
È il caso di un altro passaggio della legge delega, un altro principio che solo in un secondo momento sarà tradotto in un provvedimento concreto e dettagliato: le famose «tutele crescenti». In questa formula rientrerebbe sia l’ipotesi che, in caso di licenziamento, ci sia un indennizzo crescente con l’anzianità, e quindi il superamento di fatto dell’articolo 18. Sia l’ipotesi che il licenziamento sia consentito solo nei primi tre anni, salvo poi applicare le regole attuali per il resto della vita lavorativa. Due visioni diverse, la prima sostenuta da chi vuole «cancellare» l’articolo 18, la seconda da chi lo difende. Che però troverebbero entrambe una giustificazione in quella formula usata nelle delega.
Il Jobs act è nel calendario della commissione Lavoro del Senato per martedì. Ma è probabile che le votazioni entrino nel vivo il giorno successivo. Sempre mercoledì riparte al Senato, in commissione Affari costituzionali, la discussione sul disegno di legge delega per la pubblica amministrazione, la seconda puntata della riforma partita prima dell’estate con il decreto legge che ha tagliato i distacchi sindacali e rafforzato la mobilità obbligatoria dei dipendenti. Qui, però, i ritmi saranno meno serrati: si riprende con un’indagine conoscitiva. La conferma che i segnali da mandare a Bruxelles si cercheranno su altre materie.

La Stampa 15.9.14
Damiano: inaccettabile escludere
il possibile reintegro del lavoratore
“Dal premier un’opinione sull’articolo 18, io non la condivido”
intervista di Francesca Schianchi


Alla vigilia di una settimana molto importante per la legge delega sul lavoro, il famoso Jobs Act a cui sta lavorando il Senato il presidente della Commissione lavoro di Montecitorio, l’ex ministro ed ex sindacalista Cgil, Cesare Damiano, chiede al premier Renzi e al ministro Poletti un incontro, che coinvolga partiti di maggioranza e Commissioni lavoro, «perché prima che si giunga al voto sull’articolo 4, che contiene il contratto di inserimento, sarebbe opportuno trovare un accordo. O registrare un disaccordo. Questo per avere la legge delega nei tempi previsti dal governo: per farcela entro fine anno bisogna che i passaggi tra Camera e Senato siano al massimo tre».
Se non c’è un accordo ne prevede molti di più?
«Ricordo che al tempo del governo Berlusconi, il collegato lavoro fece otto passaggi. Io questo lo eviterei: quindi è necessario un accordo».
Non è facile, però: lei e l’area sinistra del Pd la pensate molto diversamente da Ncd, ad esempio sull’articolo 18…
«Assolutamente. Ma vorrei smontare l’idea che l’articolo 18 sia ancora quello del 1970: lo abbiamo cambiato nel 2012, attraverso un sudato e faticoso compromesso tra Pd e Forza Italia, ai tempi del governo Monti. Io avrei preferito mantenerlo com’era, ma adesso il giudice davanti a un licenziamento senza giusta causa può scegliere se risarcire il lavoratore o reintegrarlo».
Impossibile per lei discutere una modifica che preveda solo il risarcimento economico escludendo il reintegro?
«E’ un’ipotesi non accettabile, vorrebbe dire dare via libera ai licenziamenti, e in un momento di massima disoccupazione è gettare benzina sul fuoco del conflitto sociale. Il Pd è un partito del socialismo europeo, non può annunciare la libertà di licenziamento».
Anche il premier Renzi, però, che è segretario Pd, ha ammesso che la direzione è il superamento dell’articolo 18.
«E’ un’opinione autorevole, ma non la condivido. Non è detto che Renzi dica sempre cose giuste. Si parla tanto di modello tedesco: quando, nel 2012, cambiammo l’articolo 18, si parlò di una modifica che ci avvicinava al sistema tedesco. Ora non dobbiamo più intervenire».
Renzi ha detto anche di voler riscrivere lo Statuto dei lavoratori, su questo è d’accordo?
«No, non sono d’accordo su una riscrittura. Si può intervenire individuando alcuni punti da modernizzare: la destra solleva il tema delle mansioni e quello del controllo a distanza, noi il tema dell’articolo 19 sulla rappresentanza sui luoghi di lavoro, che va aggiornata».
Renzi insiste però che «il mondo del lavoro è il luogo in cui è più forte la disuguaglianza».
«Ha ragione, e infatti io vorrei che il lavoro a tempo indeterminato fosse quello che costa meno di tutti. Vorrei che il nuovo contratto di inserimento, una volta finito il periodo di prova fino a tre anni senza articolo 18, dia a chi l’imprenditore ha deciso di stabilizzare gli stessi diritti che ha avuto suo padre. E solo a fronte di una scelta di stabilizzazione ci deve essere incentivo fiscale per il datore di lavoro».
Ci sono le risorse per promettere un incentivo fiscale a chi stabilizza?
«Vanno trovate, anche l’Europa ha detto in questi giorni che il vero nodo è diminuire il costo del lavoro».
Senta presidente, ma se il Pd renziano sposasse l’ipotesi di cambiare l’articolo 18? Pronuncerà di nuovo il «no a prendere o lasciare» che disse ai tempi del decreto Poletti?
«Non c’è dubbio. Non penso che il Pd possa essere contrario all’ipotesi che noi suggeriamo. Ma se qualcuno ritenesse di appoggiare la cancellazione dell’articolo 18, ci sarebbe un grande conflitto».

La Stampa 15.9.14
il paradosso nel nuovo pil: dopo droga e prostituzione calcoleremo anche la mafia?
di Federico Varese


Le autorità europee hanno imposto agli Stati membri di calcolare nel Pil alcune attività illegali, come il commercio di droga, la prostituzione e il contrabbando.
Mentre raccoglievo le idee per un pezzo su questo tema, mi sono messo nei panni di un rilevatore dell’Istat. S
ono sceso per strada sotto il mio albergo milanese e ho intervistato una prostituta. Il mio campione statistico è esiguo, eppure dopo questa conversazione sono ancora più convinto che la novità contabile renderà le stime del Pil meno credibili, oltre a dimostrare che i funzionari di Bruxelles non sanno come funzionano i mercati illegali.
Di notte, lungo Viale Abruzzi, si possono incrociare una decina di lavoratrici distribuite su circa un chilometro. Alcune provengono dall’Africa, mentre altre sembrano europee. C’è chi sta piantata in mezzo alla strada rischiando di essere investita e chi quasi si nasconde dietro un chiosco di bibite e panini che spara a tutto volume la canzone di Patti Smith «Because the night belongs to lovers». Vista la serata un po’ fiacca, Marina accetta di rispondere alle mie domande. Viene dall’Europa dell’Est e, come me, parla russo. Vive con la figlia di otto anni nella capitale lombarda da circa due anni. Segno di questa permanenza è un improbabile e un po’ ridicolo accento milanese. Mi racconta la sua giornata lavorativa: esce alle undici di notte e torna a casa verso le cinque di mattina. I prezzi sono standard: 30 euro per il servizio base, 60 per chi vuole mezz’ora. Gli incontri avvengono in macchina, ma è possibile usare un appartamento lì vicino, che le serve anche come base per cambiarsi. Su sei ore, è impegnata al massimo quattro, nei giorni migliori. Dovrebbe quindi guadagnare circa 480 euro a notte. Se lavora venti giorni al mese, arriva ad incassare 9600 euro. Contando tre mesi di vacanza, si arriva a più di 80.000 euro l’anno. Una cifra ragguardevole, nel segmento più povero dell’intero sistema. È comprensibile che le autorità europee vogliano tener conto di questa attività.
Dopo tutto, sapere che una parte del reddito nazionale viene speso per servizi sessuali piuttosto che investito o risparmiato, dovrebbe produrre politiche economiche più coerenti con la realtà. Quello che sembra un semplice esercizio di stima produce invece risultati paradossali. Il nuovo sistema contabile impone di includere solo le transazioni senza alcuna coercizione, come se per i signori di Bruxelles la violenza non albergasse nei mercati illegali. Di certo i clienti di Marina non sono costretti a comprare i suoi servizi, ma è possibile che lei sia costretta a venderli oppure a pagare un pizzo. Non più tardi del febbraio di quest’anno la polizia ha sgominato un’organizzazione dedita allo sfruttamento della prostituzione proprio in Viale Abruzzi. Due fratelli albanesi facevano arrivare le ragazze dall’Est e dal Nord Africa, a volte con promesse di un impiego legale, e poi le mandavano a lavorare su quella strada, con istruzioni precise sulle tariffe, su come vestirsi e su come rispondere alle forze dell’ordine. L’organizzazione disponeva di appartamenti affittati da cittadini italiani in zona Città Studi. Solo un economista nato nel diciannovesimo secolo potrebbe credere all’esistenza di una mano invisibile che posiziona le lavoratrici del sesso a circa cento metri l’una dall’altra e senza conflitti di sorta, che prezzi standardizzati emergano in maniera magica, e che si possa facilmente distinguere la coercizione dalla libera scelta. Esiste, al contrario, una forza ben visibile che organizza gli scambi e il lavoro. Dall’indagine di febbraio emerse, per esempio, che due membri dell’organizzazione accompagnavano le donne in strada ed erano pronti ad intervenire in caso di necessità. Le lavoratrici sono costrette a pagare questa protezione, ma nel momento in cui il cliente compra il servizio sessuale non vi è coercizione. È legittimo o meno contabilizzare solo la transazione finale e non la violenza a monte? Per coerenza, il nuovo Pil dovrebbe includere anche i servizi forniti dalle mafie, che rendono i mercati illegali più efficienti e sicuri. Le mafie governano questi ambiti con la violenza, senza rispetto per la giustizia e i diritti, ma producono ricchezza per alcuni (se il Messico contabilizzasse il traffico di droga, per esempio, il Pil di quel Paese crescerebbe in maniera esponenziale).
Il tempo a mia disposizione è scaduto. Marina sta per lasciare il tavolo del chiosco. Prima di salutarmi, mi chiede se sono nella posizione di assumere qualcuno. Purtroppo no, posso solo ascoltare. Delusa, si allontana in direzione della metro Loreto. Anche la canzone di Patti Smith è finita. Mentre torno al mio articolo, penso che la notte di Marina non appartiene agli amanti, ma alla contabilità nazionale.

Repubblica 15.9.14
 “Un milione e troppe auto blu” Il tesoriere pd mette in piazza i costi della segreteria Bersani
Bonifazi: si spendevano 450 mila euro per servizi di trasporto, li abbiamo azzerati

La replica dei predecessori: c’erano membri non parlamentari e bisognava pagarli
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Pare destinata a non finire mai, la polemica tra partito pesante e partito leggero. Tra una formazione politica che per sopravvivere ha bisogno di strutture a tempo pieno, e un’altra che se la cava tranquillamente tra whatsApp, telefonini e riunioni di segreteria saltuarie. Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd targato Renzi, ha detto ieri - dal palco della festa dell’Unità di Firenze che la segreteria di Pier Luigi Bersani costava al Pd un milione di euro all’anno.
Si parlava del buco di bilancio di 11 milioni di euro, ed è stato a quel punto che Bonifazi ha tirato fuori i numeri: «Tutti i componenti della segreteria Bersani godevano di 3.500 euro di indennità-rimborso. Due avevano anche appartamenti». Solo per le auto blu, «sono stati spesi nel 2012 450mila euro. Scesi a 124mila nel 2013». Per il sito web «servivano 373mila euro». E i costi complessivi del partito, quindi non solo della segreteria, compresi viaggi, bar e ristoranti, «sono stati di 1 milione e 62mila euro».
Ma il predecessore di Bonifazi, l’ex tesoriere Antonio Misiani, non ci sta: «Le spese le abbiamo tagliate noi già nel 2013, dopo il dimezzamento dei rimborsi elettorali. Nel 2011 la segreteria costava 863mila euro, passati a 462mila nel 2012 e 100mila nel 2013. Io ho lasciato a chi è arrivato dopo di me 9 milioni in cassa». Certo, prima era diverso: «L’attuale segreteria è composta solo da parlamentari, il team di Bersani era invece fatto da persone che lavoravano al partito a tempo pieno. Non avevano alcuna carica istituzionale, venivano retribuiti come quadri in un’epoca in cui c’era un budget per l’attività politica. E se ne faceva tanta». Quel budget era dato dai 60 milioni di rimborsi elettorali che il Pd incassava prima del taglio: «Era un partito che faceva i conti su risorse enormemente superiori a quelle attuali - spiega Misiani - e che chiudeva il bilancio in pareggio. Di auto blu non ne avevamo neanche una, usavamo il noleggio con conducente quando era necessario». «Non è che arrivi ovunque in treno», gli fa eco Chiara Geloni, già direttrice di YoudemTv e tra i più fidati collaboratori dell’allora segretario. «Le auto si prendevano per andare nei paesini e lo facevano tutti, non solo la segreteria. Matteo Orfini, Stefano Fassina, Francesca Puglisi allora non erano parlamentari e avevano bisogno di rimborsi per fare attività politica, a Roma e in giro per l’Italia. Io di sprechi non ne ho visti».
Del resto, chi era a fianco di Bersani ricorda che la segreteria precedente costava anche di più, «ma non è che abbiamo passato quattro anni a dire quanto spendeva Veltroni, o a vantarci di aver tagliato volantini e manifesti. È una questione di stile». Quanto alla segreteria Epifani, Misiani ricorda che era anche quella costo zero, «perché una volta intervenuti i tagli ci siamo adeguati. I numeri sono pubblici e certificati, le po- lemiche senza senso lasciano il tempo che trovano, il punto vero per il Pd oggi è l’autofinanziamento. Bisognerà capire che fine fa la raccolta fondi, ormai indispensabile. Bisognerà avere un’idea di che fine fanno L’Unità ed Europa». Sulla prima, Bonifazi ieri ha detto: «Sono ottimista, c’è un interessamento di più solidi soggetti economici italiani, con tre proposte più credibili». Se la trattativa andrà in porto, «in 120 giorni l’Unità potrebbe tornare in edicola».

il Fatto 15.9.14
Segreto di Fatima, cardinale Saraiva: “Possono ancora sparare a un Papa”
L'interpretazione del prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi a ilFatto.it. "E' stato tutto pubblicato, ma tutto è possibile". Su Pio XII: "Non era filonazista e potrebbe essere beatificato anche domani"
di Francesco Antonio Grana

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il Fatto 15.9.14
Beni culturali, Bray: “Tagliare i fondi al ministero è contro la Costituzione”

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il Fatto 15.9.14
Sanità, se al cittadino medio ormai conviene Groupon
di Elisabetta Ambrosi

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il Fatto 15.9.14
Fecondazione eterologa: le ‘derive’ per tutte le stagioni
di Adele Parrillo

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il Fatto 15.9.14
Tv, riparte ‘L’Aria che tira’

Merlino: ‘Misureremo distanza tra promesse e fatti di Renzi’
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il Fatto 15.9.14
Cinema America: non rimaniamo fermi a guardare
di Gianluca Arcopinto

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il Fatto 15.9.14
Vittorio Feltri: lacrime per Daniza, tanto fiele sugli uomini
di Pino Corrias

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La Stampa 15.9.14
In Svezia le urne premiano i socialdemocratici. Ma è boom dell’estrema destra: superato il 10%
Dopo otto anni la sinistra di Stefan Lofven vince le elezioni. In crisi la leadership del premier di centrodestra Reinfeldt. Il partito xenofobo raddoppia i consensi

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Corriere 15.9.14
Nella periferia degli immigrati: «Ci temono»
di G. Sar.


STOCCOLMA — Una targa sul muro di un edificio basso e grigio annuncia: «Kulturskolan Stockholm», centro culturale. È domenica sera, le urne stanno per chiudere. I primi exit poll segnalano che il partito xenofobo degli Svedesi democratici supera il 10% dei voti e, dunque, ha raddoppiato i consensi (il risultato finale darà loro il 12,9%). All’interno i locali sono tutti vuoti e chiusi a chiave. Tranne uno stanzone seminterrato dove cinque uomini silenziosi giocano a carte, una specie di Ramino con i soldi sul tavolo. Quartiere Husby, periferia nord di Stoccolma. Neanche tanto male rispetto agli standard urbanistici di mezza Europa. Nessun alveare, qualche blocco di sette-otto piani con le parabole sui balconi, molte palazzine rosse. Strade pulite, giardini in ordine. Mohamoud è l’unico che parli inglese. Tocca a lui, dunque. Ha 33 anni, gli ultimi cinque li ha vissuti qui. Viene dall’Iran, come la maggior parte degli abitanti di Husby. Iraniani, oppure curdi, iracheni, siriani. «Ho la residenza, ma non il passaporto e quindi non ho votato», chiarisce subito. Poi racconta di quanto sia bello e ricco il suo Paese, ma di come sia impossibile viverci «sotto i mullah». Adesso fa il buttafuori in una discoteca del centro città. Piano, piano comincia a parlare di politica. Praticamente tutti gli immigrati hanno appoggiato in pieno i socialdemocratici. Ma il punto ora è capire chi e perché ha votato per il movimento populista di Jimmie Akesson. Forse è corretto partire da qui, da questo insediamento nato negli anni Sessanta e Settanta, pianificato dal governo e dalla municipalità per dare un alloggio agli operai assunti nelle industrie chimiche, metallurgiche e nei cantieri navali della capitale. «Io un po’ li capisco — dice il giovane iraniano — noi siamo venuti tutti qui, di colpo. Non credo che gli svedesi siano razzisti, tranne una piccola parte di loro. Gli altri sono solo molto preoccupati, pensano che manderemo in rovina l’economia, lo Stato». I cinque giorni che trascorsero dal 19 al 23 maggio del 2013 sono ancora vivi nella memoria di Stoccolma. I sobborghi a nord furono sconvolti da duri scontri tra giovani immigrati e la polizia. E cominciarono proprio a Husby, quando gli agenti uccisero un anziano portoghese che li minacciava armato di machete. Seguirono notti di incendi, di auto rovesciate, di cariche e di lacrimogeni. Si parlò di crisi irreversibile del modello di integrazione alla svedese, di fallimento sociale, esattamente come era avvenuto a Londra e a Parigi. Ma ora la serata è tiepida. La fermata del metro è ancora affollata. In pochi si fermano a parlare, a spiegare. Ci pensa allora Mohamoud a tirare le fila: «La verità? Io penso che qui almeno il 40% degli svedesi sia stufo di tutti questi immigrati e forse anche loro hanno votato per il partito antistranieri. Ma noi tutti confidiamo nei socialdemocratici. Hanno promesso che ci aiuteranno, perché ne abbiamo bisogno, noi non sapremmo dove andare».

Corriere 15.9.14
«Miscela di potere bianco e anti-multiculturalismo»
Gli estremisti ora si presentano come tutori di una presunta libertà
di Maria Serena Natale


Mescolano echi del vecchio potere bianco al nuovo verbo anti-multiculturalista, così i Democratici svedesi (Sd) sono diventati la terza forza del Parlamento arrivando a uno storico 12,9 per cento. «Hanno cambiato linguaggio concentrandosi sulla contrapposizione tra culture e religioni, ma ancora oggi resiste l’aspetto della purezza della razza esaltato negli anni Ottanta». Anna-Lena Lodenius studia i movimenti dell’estrema destra da allora, autrice con Stieg Larsson di Extremhögern, libro che nel 1991 rappresentò il primo lavoro comprensivo sulle dinamiche di violenza e affiliazione della galassia estremista. Di fronte al successo del partito, guidato dal giovane Jimmie Akesson dal 2005 ed entrato nell’emiciclo nel 2010 con il 5,7 per cento di consensi, Lodenius ricorda le origini neonaziste di una formazione che si è data un’immagine di ufficialità mantenendo però la durezza degli inizi.
Durezza che non resta sottotraccia. Nell’ultima fase della campagna elettorale esponenti del partito sono stati costretti alle dimissioni per aver pubblicato online commenti razzisti e per aver messo al braccio fasce con la svastica.
«Scandali arginati dalla nuova leadership che ha promesso tolleranza zero sul razzismo e imposto un codice di condotta interno molto rigido».
Come spiega l’appeal politico di un messaggio ostracizzato da tutti gli altri partiti, che hanno escluso qualsiasi cooperazione con i Democratici svedesi malgrado il sostegno a eventuali alleanze con i moderati espresso dagli elettori negli ultimi sondaggi?
«Gli estremisti hanno gradualmente modificato le loro parole d’ordine fino a presentarsi come tutori di una presunta libertà culturale della Svezia. In più hanno beneficiato della dialettica tra i partiti tradizionali. I socialdemocratici non sono forti come in passato e già in questi anni hanno visto una fuga di sostenitori convinti dall’aggressività di Sd sui temi sociali. Ora l’ultimo esodo di elettori viene dalla destra conservatrice indebolita, con i delusi che cercano un’alternativa all’establishment».
Un processo di “normalizzazione” che ha conquistato cittadini ordinari…
«Ed è stato favorito dal convergere delle maggiori formazioni su posizioni di centro che annullano le differenze tra destra e sinistra».
Qual è la specificità svedese rispetto all’avanzata delle forze estreme e populiste in altri Paesi europei?
«A differenza che in Danimarca o Norvegia, in Svezia l’estrema destra non ha orientato il dibattito politico costringendo gli altri a seguirla sul proprio terreno, piuttosto si è adattata di volta in volta ai toni del confronto».
Ma il premier di centrodestra uscente, Fredrik Reinfeldt, ha dedicato uno dei più forti discorsi della campagna proprio alla necessità di arginare l’ansia per le incertezze economiche e lavorative e «aprire i cuori» alla solidarietà nei confronti dei profughi dal Medio Oriente, in un momento tutt’altro che facile con un totale di 80 mila richieste d’asilo attese per il 2014 e l’Agenzia per l’immigrazione che ha da poco chiesto uno stanziamento supplementare di oltre 5 miliardi di euro per far fronte all’emergenza.
«Discorso che riaffermava un valore importante per il Paese, ma soprattutto in funzione anti-socialdemocratica. L’immigrazione è un grande tema ormai da decenni, l’ultima ondata paragonabile per dimensioni a questa risale agli anni Novanta con la fuga dalle guerre dei Balcani. Sd ha riassorbito nella sua retorica un razzismo che cova nel profondo, similmente a quanto fatto dal Front National “ripulito” dalla generazione di Marine Le Pen. Nonostante l’alleanza con i britannici dell’Ukip di Nigel Farage al Parlamento europeo, il caso francese è quello che presenta più analogie con l’ascesa dei Democratici svedesi».

Repubblica 15.9.14
Germania: elezioni nell'Est, in crescita la destra antieuropeista
Secondo i primi dati delle regionali l'Alternativa per la Germania ottiene il 10% in Turingia. Cdu primo partito, Linke supera la Spd. In Brandeburgo populisti al 12%, la coalizione di sinistra si mantiene al governo
dai Andrea Tarquini

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Corriere 15.9.14
Merkel a Berlino: «Gli ebrei sono parte dell’identità tedesca»
Manifestazione contro l’antisemitismo
di Paolo Lepri


BERLINO — In Germania non c’è spazio per l’antisemitismo, «una minaccia per la libertà di tutti». È stato un «no» molto netto, che ha radici profonde nella memoria del passato e si proietta in un futuro da vivere nel segno della tolleranza, quello che Angela Merkel ha pronunciato ieri. «Mai più odio contro gli ebrei», era la parola d’ordine della grande manifestazione svoltasi alla Porta di Brandeburgo e sono rimasti pochi dubbi sulla volontà del governo di combattere con forza il risorgere di un fenomeno vecchio e nuovo, alimentato in questi ultimi mesi dalle proteste anti-israeliane organizzate da settori della comunità islamica. «L’ebraismo è parte della nostra identità», ha detto la cancelliera. Quindi, «chiunque colpisce chi indossa una kippah colpisce tutti noi, chi distrugge una tomba distrugge la nostra cultura, chi attacca una sinagoga attacca le basi della nostra società libera». Stroncare tutto questo «è un dovere civico, un obbligo dello Stato».
Il discorso della cancelleria, più volte interrotto da applausi, è iniziato proprio con un omaggio agli ebrei che vivono in Germania (è l’unica comunità aumentata di dimensioni in un Paese europeo) e che hanno fatto una scelta impensabile qualche decennio fa. «Sono oltre centomila: si tratta di un miracolo — ha detto — e di un regalo che ci riempie di gratitudine». Proprio per questo è «uno scandalo» che oggi non si sentano più sicuri. È «inaccettabile», ha proseguito, che gli ebrei vengano minacciati e aggrediti e che le manifestazioni filo-palestinesi si trasformino in esibizioni di odio, abusando del diritto alla libera espressione che è una caratteristica di una società aperta. La Germania, invece, è «la loro casa». Lo è diventata, è stato il ragionamento di Angela Merkel, «perché abbiamo sempre tramandato da generazione a generazione la memoria e la conoscenza di quel capitolo terribile della nostra storia che è stato l’Olocausto». L’allarme della comunità israelitica in Germania ha trovato così risposta. Ieri se ne è fatto nuovamente interprete il presidente del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Dieter Graumann, che ha denunciato il clima di intimidazione sempre più minaccioso e il fatto che «slogan antisemiti così violenti non risuonavano nelle strade delle nostre città da molti decenni». Le sue parole erano state precedute da quelle del rabbino Daniel Alter che aveva denunciato lo stato di «forte angoscia» di un numero sempre crescente di persone, molte delle quali «stanno pensando di tornare in Israele», e aveva ricordato un sondaggio secondo cui il venticinque per cento dei tedeschi avrebbe sentimenti antisemiti latenti. Una cifra, questa, che raddoppia nella comunità islamica. Nel giugno e luglio di quest’anno gli atti di antisemitismo sono stati 159, tra cui l’incendio di una sinagoga a Wuppertal e l’aggressione a un uomo che indossava una kippah a Berlino. Slogan violenti sono stati gridati in decine di manifestazioni e la scritta «Hamas, ebrei al gas» è stata tracciata a pochi metri della sinagoga berlinese di Orianeburger Strasse.
È probabile che il governo tedesco, impegnato nel sostenere campagne per promuovere la convivenza, prenda nuove iniziative nella prevenzione dell’estremismo anti-ebraico. In ogni caso, come ha riconosciuto Graumann, da Berlino è arrivato «un segnale importante». E una dimostrazione di unità, si potrebbe aggiungere, perché alla manifestazione (alla quale hanno partecipato il presidente Joachim Gauck e i ministri più importanti della grande coalizione) hanno aderito tutti i partiti, anche la Linke e i Verdi, le due forze di opposizione rappresentate in Parlamento. Non è un caso che, parlando con il Corriere , il leader storico degli ambientalisti, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer,abbia elogiato il discorso della cancelliera perché «combattere l’antisemitismo è un dovere, soprattutto per noi». «Anche se il pericolo è forse maggiore in Europa che non in Germania», ha aggiunto. Intanto, però, i tedeschi hanno dato l’esempio.

il Fatto 15.9.14
Commissione Ue: l’estrema destra alle politiche giovanili
di Alessio Pisanò

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Repubblica 15.9.14
La democrazia in Europa italiani sempre più sfiduciati dietro il Kosovo e l’Albania
Indagine sull’“affidabilità” della politica
Welfare bocciato in 26 Paesi Negli Stati dell’Est, resta alta la diffidenza nei confronti delle elezioni
di Daniele Archibugi


SAPPIAMO che c’è un grande divario tra ciò che i popoli chiedono ai regimi democratici e ciò che è effettivamente loro consegnato. Grazie ad un nuovo esame effettuato dall’European Social Survey è possibile quantificare la differenza tra l’ideale e il reale. Il progetto, disegnato da Hanspeter Kriesi, Leonardo Morlino e i loro colleghi, conferma che la stragrande maggioranza degli europei condivide la fede democratica. In tutti i paesi i cittadini lodano l’opportunità di essere governati da rappresentanti eletti e in 24 su 29 paesi partecipanti all’indagine il punteggio è superiore a 8/10. Russi e ucraini sono quelle che attribuiscono un’importanza inferiore all’auto-governo, e il dato non sorprende vista la poca esperienza che hanno finora maturato. L’assenza di fiducia nella democrazia di quei popoli aiuta a capire perché i loro capi sono così irrispettosi dello Stato di diritto; sanno che è improbabile che pagheranno il conto — in termini di riduzione del consenso — quando reprimono la stampa e l’opposizione.
L’Europa è lunga e larga, e la parola democrazia ha sempre più numerosi significati. Siamo sicuri che il termine significhi la stessa cosa in paesi diversi quale Irlanda e Cipro? La definizione minima di democrazia ricevuta dai libri di testo è di un governo scelto in elezioni libere e competitive, con libertà per i media e l’opposizione, e dove operano controlli e contrappesi tra istituzioni. Questo è ciò che chiamiamo democrazia liberale. Ma i cittadini identificano sempre di più il potere del popolo anche con la distribuzione di benefici sociali, e richiedendo ai governi che eleggono di assistere e proteggere i più deboli. La contrapposizione tra democrazia liberale e sociale ha generato accaniti dibattiti tanto nell’accademia che nei parlamenti, ma qual è la visione dei popoli, che dovrebbero essere i primi a beneficiarne?
Per i popoli del Nord, la democrazia è prima di tutto il rispetto delle regole e delle libertà individuali, uguaglianza di fronte alla legge; libertà dei media. I popoli del Sud, invece, sono più determinati nell’aggiungervi la protezione sociale, e rivendicano un sistema politico che si faccia carico della povertà e delle disuguaglianze. Si conferma, insomma, che a Nord i cittadini sono figli di John Locke e a Sud di Jean-Jacques Rousseau. I popoli dell’Est, che hanno sperimentato le libere elezioni meno di un quarto di secolo fa, vogliono tutto, e presto. Non sono disposti ad abbandonare la protezione sociale garantita dai vecchi regimi comunisti, ma esigono anche uno stato di diritto liberale.
Mentre nel Nord e nella Scandinavia la componente liberale della democrazia è promossa, essa è bocciata nel Sud e, ancora più severamente, nei paesi dell’Est. In molti di questi paesi, i cittadini dubitano che il proprio regime possa essere considerato democratico. Ma ciò che accumuna i popoli a Nord e Sud, Ovest e Est è l’insoddisfazione per quanto è stato raggiunto sotto il profilo sociale. Anche lì dove l’opinione pubblica dà spesso la sufficienza in termini di libertà civili e stato di diritto, si lamenta l’assenza di azioni per la coesione sociale. In 26 paesi su 29 la componente sociale della democrazia è bocciata. Si tratta di un telegramma importante che l’indagine ESS manda ad Angela Merkel, Ecofin e alla BCE: il malcontento per quello che i regimi politici europei riescono a conseguire in termini di coesione unisce tedeschi ed inglesi ai greci e agli spagnoli.
Solo i popoli scandinavi promuovono il proprio regime. In questi paesi emerge un vero e proprio orgoglio democratico, e la differenza tra i desideri e quanto conseguito è veramente modesta.
Che i cittadini del vecchio continente sognino nella stessa lingua democratica è la condizione essenziale per un progetto politico europeo. La classe politica dovrebbe cogliere questa opportunità e coinvolgere più direttamente la popolazione, con forme di autogestione e democrazia diretta, nella realizzazione del progetto. Altrimenti c’è il rischio che il sogno deluso finisca per spazzare via non solo i regimi, ma anche le istituzioni costituite in decenni di duro lavoro.
Che dire poi della valutazione che gli italiani danno del proprio sistema politico? E’ umiliante vedere che un paese con settant’anni di tradizione democratica, e tra i fondatori dell’Unione Europea, sia oggi classificato dai suoi stessi cittadini al terz’ultimo posto, dopo il Kosovo e un soffio prima della Russia. Oramai distanziata non solo da Spagna e Portogallo (diventati democratici trent’anni dopo di noi), ma addirittura da Bulgaria e Albania, l’Italia deve correre ai ripari se non vuole far svanire per sempre il sogno europeo.

Repubblica 15.9.14
Il voto non chiude i giochi, anche l’opinione è un’arma dei cittadini
di Nadia Urbinati


IL TERMOMETRO della democrazia é l’opinione dei suoi cittadini. Le flessioni di gradimento segnalano stati di malessere o scontento. Che sono parte del gioco anche perchè solo nei governi popolari, scriveva Machiavelli cinquecento anni fa, i cittadini hanno la possibilità di parlare male del governo e dei governanti. Ci si potrebbe allora chiedere: se il termometro della democrazia è l’opinione dei cittadini e se, nonostante le insoddisfazioni popolari il governo democratico resiste e persiste, qual è il senso di queste misurazioni? In altre parole – ed è questa l’obiezione mossa dai realisti della scuola di Schumpeter — se i diritti civili sono goduti, il livello del gradimento popolare è irrilevante ai fini del giudizio sul regime democratico. Parlare di crisi della democrazia non ha senso.
Negli ultimi decenni, i teorici della democrazia hanno preso di petto questa obiezione. Dahl, Bobbio e Habermas, benché diversi tra loro, hanno sostenuto che, certamente, la democrazia é il nome di una forma di governo e come tale necessita di procedure decisionali chiare e condivise: la conta di voti identici nel peso, la regola di maggioranza, la competizione libera e aperta tra diverse opzioni politiche, le libertà civili e la tolleranza, e la limitazione costituzionale del potere politico. Ma queste procedure e il lavoro stesso delle istituzioni (perfino di quelle giudiziarie) registrano (nel bene e nel male) le opinioni, gli interessi, le preferenze e le idee, cosicchè quel che viene tradotto in voto non risolve mai l’intero processo politico. E poi, non è forse vero che leader e partiti sono alla ricerca di consenso permanente, non solo di quello elettorale? Pertanto, il termometro dell’opinione è molto importante anche se la temperatura che registra è essa stessa soggetta a interpretazione.
Di qui sono nati nel corso degli anni vari tentativi di misurare lo stato delle democrazie: perchè indubbiamente l’opinione non è per nulla irrilevante visto che consente ai leader di calibrare le loro scelte ed eventualmente di fare buone politiche. L’European Social Survey, istituto di ricerca nato nel 2001 e che oggi presenta i suoi dati alla Camera, è uno dei tentativi più riusciti. Esso mette a confronto le democrazie europee e mostra come queste siano molto diverse tra loro nel funzionamento delle pressoché identiche istituzioni democratiche. Quanto importante sia il contesto culturale è una verità lapalissiana che può sfuggire a coloro che pensano, e non sono pochi, che la cultura non sia (o non debba essere) così rilevante poiché la democrazia è dopo tutto un nucleo di principi con validità universale. Ma la dimensione sociale e culturale resta rilevante. Le differenze riguardano non solo le aree non occidentali del mondo ma anche quelle occidentali e democratiche. E si vedono meglio laddove, come in Europa, gli stati sono uniti da norme e progetti comuni. E’ proprio la politica di integrazione che ci consente di avviare studi comparativi come questo, studi che mostrano come gli uguali siano tra loro così diversi.

La Stampa 15.9.14
Gli strabismi sulla guerra in Ucraina
di Barbara Spinelli


Caro direttore,
fin dal marzo scorso, Helmut Schmidt mise in guardia i governi europei e Washington, su Ucraina e Russia: troppo grande era l’«agitazione» occidentale. Troppo pericoloso mimare la riedizione della guerra fredda con Putin, troppo vasta l’ignoranza della storia e di quel che essa dovrebbe insegnare. Ci insegna che si entrò così nella Prima guerra mondiale: barcollando come ubriachi che non vogliono quel che fanno, ma lo fanno lo stesso. E si precipitò nella catastrofe anche quando le guerre furono volute, pianificate: quando Napoleone invase la Russia nel 1811-12, quando Hitler ripeté la spedizione nel 1941.
La terza guerra mondiale che oggi stiamo rischiando nasce dagli stessi vizi: incompetenza, forme di ignoranza militante, scarsa prudenza, infine sterile agitazione.
Lo stato di concitazione cui allude l’ex Cancelliere ha come principale conseguenza la disinformazione su quel che veramente accade sul terreno, e responsabili sono quindi non solo i governi ma, forse in prima linea, la stampa. Mancano autentici reportage sull’Est ucraino (sul Donbass essenzialmente, regione industrial-mineraria a prevalenza russofona; sul pogrom antirusso a Odessa del 2 maggio; sull’aereo abbattuto della Malaysia Airlines); come mancano sul governo di Kiev e come è nato: non da moti di piazza filoeuropei (il famoso Euromaidan fu presto catturato da nazionalisti russofobi). Lo sguardo di giornali e governi è affetto da grave strabismo, mettendosi di fatto al servizio di chi vuole disseppellire la guerra fredda. «Fuck the EU!», disse a febbraio il vice segretario di Stato Victoria Nuland, e i dirigenti europei hanno eseguito, accettando di negoziare il futuro di Kiev con Mosca e anche con Washington, che con l’Ucraina ha poco a che vedere. C’è un tono, nella stampa mainstream, che ricorda l’euforica depravazione semplificatrice che Karl Kraus mette in bocca ai giornalisti, descrivendo la Prima guerra mondiale negli Ultimi giorni dell’umanità.
Di qui una serie di prese di posizione deliberatamente grossolane, in Europa. La guerra fredda ricomincia – dicono a se stessi i concitati – e grazie a essa abbiamo di nuovo un nemico: la Russia di Putin. Altro effetto nefasto: certi annunci intempestivi dei nostri responsabili. Federica Mogherini, appena nominata Alto rappresentante, comunica che l’accordo di partenariato Unione Europea-Russia, firmato nel ’97, «è finito per scelta di Mosca» (2 settembre, Parlamento europeo). Proprio quando si dovrebbe parlare con Mosca – quando la sua presenza nel G8 e il partenariato sarebbero utili – vengon chiuse le porte. Ci si compiace addirittura per la rapidità con cui l’Unione ha adottato le sanzioni. Anche in tal caso trascurando i costi pagati, non solo economici ma geostrategici. Barcollando in uno stato di ebbrezza diffusa. Il ritorno alla guerra fredda è uno strano miscuglio di ideologia, bisogno del nemico esistenziale, e assai precisi interessi economici (il desiderio di sviluppare l’estrazione di gas da rocce di scisto ad esempio, per ridurre la dipendenza dall’energia russa). Ideologia e interessi economici si appaiano sempre perfettamente.
Si appaiano anche all’illusione: che le sanzioni siano l’equivalente, e non il surrogato, di una politica vera. E, per i giornalisti: che un articolo sia ben fatto anche quando per ideologia o conformismo esamina una sola postazione. Gli occhi dovrebbero guardare in tutte le direzioni, in una guerra civile. Lo impone la prudenza, che resta la virtù di chi comanda e di chi narra gli eventi. Se politica è agire con cura e conoscenza nei conflitti che tormentano il nostro «estero vicino», a Est, non è politica quella che si sta facendo. Soprattutto non è politica europea, fin quando quest’ultima continuerà ad adeguarsi alla linea statunitense: una linea interessata a integrare l’Ucraina nella Nato (integrazione respinta dalla metà dei cittadini ucraini, dicono i sondaggi), e a restituire a Washington l’egemonia esercitata in Europa durante la guerra fredda.
Una politica che sia davvero europea non può esimersi dal compito di pensare finalmente i rapporti con la Russia, magari con atteggiamento severo ma capendo che la presenza ai suoi confini di forze della Nato somiglia molto a quella che fu la provocazione di Chruscev a Cuba, nel ’61-62 («Non si mettono le dita negli occhi a nessuno», ha detto Prodi il 5 settembre). E significa, far politica, aver chiara in mente la natura attuale dello Stato ucraino, e la natura che esso dovrebbe darsi in futuro.
Se tale è il compito, almeno tre sono le cose da fare. Primo: riconoscere che siamo davanti a una guerra civile, dove le responsabilità non sono di un’unica fazione come pretendono diplomazie occidentali e Nato. Se Putin gioca sui nazionalismi etnici, allo stesso modo sta giocando, e in modo pesante, il governo ucraino. È l’opinione di Schmidt: contrariamente a quanto detto da Angela Merkel, in una frase attribuitale dal New York Times, Putin non vive «in un altro mondo», ma «in questo mondo». Un mondo plurietnico, quello russo, che al contempo non può ignorare le proprie genti, se maltrattate negli Stati dell’ex Urss ora indipendenti. Né può essere estromesso dalla Crimea, che fu russa per secoli, fin quando Chruscev la «regalò» a Kiev nel ’54. Il porto di Sebastopoli, a Sud dell’Ucraina, è sede della Flotta del Mar Nero: permanenza sancita da un ventennale accordo russo-ucraino stipulato nel ’97, ed estesa nel 2010 per altri 25 anni.
Secondo: l’Unione deve prendere atto che la strategia di Kiev si avvale di milizie d’estrema destra, inserite nei propri apparati militari. Il caso più lampante è il battaglione Azov, armata neonazista che risponde direttamente al ministero dell’Interno. Su questa devianza tacciono l’Europa, gli Usa, la stampa mainstream.
Terzo: la strategia ucraina ha prodotto un numero allarmante di vittime civili nel Sud-Est ucraino, 260.000 sfollati interni e centinaia di migliaia di profughi che fuggono in Russia (secondo l’Unhcr, dall’inizio dell’anno più di 121.000 persone hanno richiesto lo status di rifugiato a Mosca, altre 138.000 hanno fatto domanda per forme di permessi di residenza, e sono in tutto ben 814.000 i cittadini ucraini russofoni che con status diversi si trovano ora in Russia). Nessuno, in buona fede, può credere che i fuggitivi siano tutti putiniani. Sono russofoni che si sentono perseguitati, declassati. Che hanno vissuto e temono ampie operazioni di pulizia etnica.
È una tragica ironia della storia che il modello di federazione su cui la nostra Unione è fondata – una convivenza di culture e lingue diverse che si rispettano l’un l’altra – sia proposto oggi non da noi europei, ma da Putin. È una tragedia mentale, oltre che politica.
Europarlamentare Lista Tsipras

La Stampa 15.9.14
Ucraina, anche i volontari italiani vanno in trincea contro i filorussi
Decine di neofascisti con i miliziani di Pravy Sektor: “È durissima, si lotta corpo a corpo”
di Andrea Sceresini

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La Stampa 15.9.14
Fra i tagliagole e il macellaio Assad in Siria non c’è più posto per i buoni
I combattenti moderati abbandonati dall’Occidente: così la rivoluzione è finita nella mani dei nostri nemici
di Domenico Quirico


Era, ad Aleppo, una giornata molto limpida, di una chiarità tagliente. La città opponeva al suo martirio cieli angelici. Il morto, un ragazzo, non giaceva sul letto, era su una sedia. Era come se si fosse appoggiato per un attimo e mi attendesse. Nella stanza dell’ospedale di Tarik al Bab dove vivevo allora, il silenzio, che tale non era perché il sordo rumore della città lo rendeva così strano da farlo essere e non essere, diventò opprimente. Nel 2012 Aleppo viveva ancora. Fra le sue case straziate trovavi ancora piccoli mercati. Giravano ancora i gatti. Nel cielo volavano ancora gli uccelli.
La vita umana continuava sconvolta, stravolta; ma continuava.
La pazienza di quella umanità aveva del tremendo. Erano tutti color macerie. Al male estremo opponevano la tenacia estrema. Ma non era un atto di volontà, era come il fluire fisico di un fiume.
Spesso tornando nella mia stanza, la sera, avevo trovato il letto e il pavimento macchiati di sangue: ma un morto, così, mai. Pareva che il silenzio fosse rintanato nell’angolo buio sotto il letto e stesse aspettando che quel brusio vivo si decidesse ad ammutolire; e offrisse l’occasione al ragazzo ucciso di stendersi da quella posizione scomoda per morire realmente, e non essere abbattuto da una morte frettolosa, come una preda sanguinante. Per un istante credetti di udir cadere gocce di sangue sul pavimento. Ma non ci fu bisogno di assicurarsi che non poteva essere vero. Fu in quel momento che il dottor Yasser, responsabile dell’ospedale, entrò senza far rumore, ma io mi spaventai come se fosse un tuono: «Scusa, non hanno avuto il tempo di portarlo via… troppi feriti e moribondi… a decine… abbiamo amputato, operato, cucito, non c’è stato tempo».
Quell’ uomo era morto, un fatto inconcepibile come è inconcepibile perfino la morte di un coniglio, e non lo si capirà mai perché è troppo vicino alla morte nostra al punto di sfiorarla. Le vittime, allora, erano trentamila, il carnaio era agli inizi. Eppure Aleppo era già un luogo dove non esisteva più una violenza che non fosse inammissibile. Ero anche io trascinato, ogni giorno, entro una striscia di tenebre come un Oreste con gli urli lontani delle Menadi alle spalle. Ma era ancora la Siria della rivoluzione: uscivi nelle strade tra il fragore delle bombe e le urla dei combattenti che raggiungevano i quartieri della battaglia, ed era come l’abbraccio di mille amici anonimi. Si battevano, quei giovani eroi, ingenui e innocenti, sognavano, speravano che la loro Primavera fosse inevitabile. Uscivano dalla moschea battendo le mani e cantando: «Hurieh, Bashar, Urieh!» Libertà Bashar libertà.
Il dottor Yasser mi guardava con lo sguardo timido di un animale che, scoperto, è pronto a lottare: «Voi occidentali non ci aiutate, preferite Bashar, ecco la verità. La Siria ribelle per voi è una seccatura, guardate dall’altra parte. Intanto si sta infiltrando qui mala gente, un tale al Arour è arrivato dall’Arabia Saudita pieno di soldi e finanzia i gruppi estremisti, islamisti. Noi abbiamo paura di costoro. Guarda i siriani, qui viviamo come in Europa, ci conosci, ci hai visto. La rivoluzione sono borghesi, avvocati, professori, studenti. Oggi non abbiamo tempo per soffrire, ci basta sopravvivere, ma domani?».
Io allora cercavo di negare, giuravo che le democrazie dell’Occidente sì, sono lente a capire, ma che tra un dittatore che bombarda il suo popolo e la rivoluzione non avrebbero esitato. Loro erano quello che noi amiamo, la giovinezza che si batte, che vuole cambiare il mondo e renderlo migliore, parole semplici ma gonfie di destino e di storia: la nostra.
Nel puzzo calcinato di polvere bruciata e terra calcinata che si stendeva sul quartiere di Salaheddin come uno strato uniforme, divampava la battaglia, strane grida, ruggiti erompevano selvaggi, un lungo ululato penetrante come la sirena di una nave in avaria. A volte correnti d’aria trasportavano strani suoni modulati che sembravano quasi urla umane. Qua e là interi pezzi di palazzi si sollevavano e poi ricadevano. Improvvisamente arrivammo in una via che era rimasta intatta, non erano rotti nemmeno i vetri delle case e dei negozi. A un tratto mi prese una paura fredda e ignota, non era panico, non era ribellione né il grido urgente dell’esistenza o il desiderio di fuggire: era una paura lieve e fredda quasi impersonale che non consentiva un assalto poiché era invisibile, intoccabile e proveniva da un vuoto dove dovevano esserci pompe gigantesche che succhiavano il sangue delle vene e la vita dalle ossa.
Il comandante Abu Majed che ci accompagnava con il mitra vigile verso i gusci vuoti delle case se ne accorse: «Ecco è successo anche a te, a noi accade ogni giorno, da due anni. La nostra vita è questo». Il padre lo avevano ucciso per punirlo della diserzione, non aveva più casa o luogo in cui fuggire, la rivoluzione era diventata il guscio della sua vita. E forse la vittoria gli faceva paura quasi quanto la sconfitta e la morte. Con la sua intelligenza sveglia e tesa avvertiva ogni indizio, anche il più velato, di conforto prima che fosse espresso e lo ripudiava. Eppure, anche in lui, la speranza: «Voi preferite che gli arabi siano sotto le dittature, le dittature sono più malleabili. Abbiamo chiesto a Turchia e Giordania di venderci armi. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si sono opposte. Così i miei uomini devono contare i proiettili prima di sparare. Forse un giorno verrete davvero, come in Libia, a tenderci la mano. Il tempo è passato, tanto, troppo, eppure credo ancora che lo farete. Altrimenti che rimarrà di noi, i ribelli siriani, se non verrete? Niente altro che il ricordo nella mente di poche persone, dei genitori, se saranno ancora vivi, dei compagni di lotta, forse». Mi parve che fosse diventato leggero come un pezzo di carta e che un soffio di vento lo portasse via come un involucro vuoto. Che cosa sarebbe rimasto? Dove trovare un sostegno, dove poteva aggrapparsi perché non fosse portato via?
Il vecchio Ibrahim, il contadino, lo incontrai alla periferia di Aleppo, intorno i campi tosati di luglio quando tutta la terra è gialla e i colli cretosi crepano aridi. Mi mostrò le foto dei suoi figli uccisi, quattro ne aveva in un tempo felice. Prendeva il mitra appeso al muro come un arnese e si avviava per i campi, a battersi. «Bisogna pagare e piangere per liberarsi di Bashar», diceva. Chissà se per Obama è un rivoluzionario «buono», se riuscirebbe a distinguerlo dagli altri, nel mirino dei droni? Prodigiosi siriani che hanno pagato con una prodigalità di dolore e di sofferenza che altrove non si sogna neppure, per quattro anni. Eppure non era ancora tutto torbido, acre, funesto, allora. Sì la Siria della rivoluzione era un mondo duro dove le gioie sono scomparse, i sentimenti sono profondi e stabili, i pregiudizi radicati, gli odi e le passioni funeste: una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla tanto è piena, come il luogo, di pietre e di spine. Eravamo saliti su una collina per vedere l’ennesimo bombardamento della città: gli incendi facevano corona alle ciminiere della periferia, i quartieri insorti, con una loro furia splendida. Gli edifici avevano assunto un colore livido di cadavere. Il fumo sempre più denso inaspriva, tra aliti ardenti che svampavano da ogni lato. «È il mio Paese che muore, è già cenere, a me non resta più nulla. Ma gli altri? I loro figli? Cosa lasciamo loro? Rovine, sangue, morti. La colpa è di Bashar e io lo maledico. Ma voi che guardate, inerti?».
Se fossi oggi ad Aleppo che cosa direi ai miei amici di un tempo, al dottor Yasser, a Ibrahim, al comandante? Ora che una rivoluzione agonizzante è morta: definitivamente. Gli ultimi battiti del suo cuore barbarico hanno rombato come campane di bronzo. Con l’annuncio di Obama che per annientare i fanatici del califfo di Mossul l’America colpirà anche i «ribelli siriani». Fragili, inutili i distinguo del presidente: «Non aiutiamo il despota». Sì: il dittatore siriano ha vinto. Ha giocato con cinismo le sue carte, ha fatto in modo che i suoi nemici diventassero i letali assassini islamisti, e ora incassa l’aiuto di quell’America che un anno fa voleva sbriciolarlo con le stesse bombe. Che cosa potrei dire ora ai miei amici siriani? Che loro avevano ragione e io torto, sì, li abbiamo traditi. Sentimenti ormai logori quelli dell’orrore, della pietà, suscitati da quella rivoluzione. Un altro sentimento li ha sommati ed elisi, ed era la noia. Quella tragedia siriana era noiosa. Ma non posso dir loro nulla: perché sono morti.

Corriere 15.9.14
Pagare il riscatto ai terroristi, il dilemma che divide l’Occidente
di Guido Olimpio


Tre ostaggi assassinati. Altri in attesa nel braccio della morte dell’Isis. Cittadini di Paesi, Usa e Gran Bretagna, che non versano riscatti ai terroristi. Fino a qualche mese fa insieme alle vittime c’era anche un prigioniero italiano, tornato libero in cambio di molti milioni.
La differenza tra la vita e il supplizio. Sul quale oggi litigano gli alleati occidentali.
Raccontano che il presidente Obama sia «irritato» con quei partner che si piegano al ricatto. Fa trapelare critiche verso una linea che non solo alimenta le casse dei tagliagole ma crea fratture nell’opinione pubblica occidentale. Le madri degli ostaggi trucidati si chiedono giustamente «perché ai nostri figli è stata negata la possibilità di vivere?». Genitori che non possono avere comprensione per la ragion di Stato e sono intrappolati in un dilemma vecchio quanto il terrorismo.
La base dal quale si parte è crudele quanto chiara. Uno Stato non può trasformarsi nel bancomat dei jihadisti. È giusto provare a tutelare i propri cittadini, tentare di salvarli ma senza garantire agli incappucciati il successo sin dal primo minuto. A loro basta mettere le catene ad un giornalista o un cooperante, quindi aspettano l’accordo. Nella maggior parte dei casi sanno già di aver vinto. Alla fine cambierà solo il prezzo della preda. Pochi i rischi, molti gli incentivi a riprovarci. L’atto di umanità per strappare un uomo alla mannaia ha portato sofferenze ad altri.
L’errore è quello di aver creato in questi anni un sistema, ormai consolidato. Prima nella regione del Sahel, dove anche noi italiani abbiamo lasciato valigie piene di denaro alle bande di estremisti-predoni, quindi in Siria e Iraq. Prolungamento di quanto fatto dopo l’invasione Usa del 2003 quando fazioni di ogni tendenza si sono lanciate in questo tipo di industria.
Accettare il baratto comporta conseguenze immediate e nel lungo termine. Rafforza il potere contrattuale dei criminali. Spacca lo schieramento anti-terrore tra «duri» e «deboli». Aiuta i ricattatori sul piano propagandistico e mediatico. Crea l’economia dei sequestri con ruoli ben ripartiti. C’è chi va in cerca di ostaggi, li segnala o li cattura, poi li vende ai gruppi armati. Un mercato nero con i suoi mediatori, indispensabili quanto interessati che la cuccagna continui.
È poi sbagliato riconoscere ai sequestratori il valore di una controparte che rispetta un contratto. È vero che il denaro ha aperto molto spesso le celle degli ostaggi. Ma ci sono stati casi dove i prigionieri sono stati assassinati comunque. Perché i loro carcerieri hanno deciso così e senza troppi dibattiti.

Repubblica 15.9.14
L’annuncio del leader spirituale scatena l’ira delle autorità cinesi: “Rispetti le tradizioni”
Se il Dalai Lama non si reincarna L’ultima sfida a Pechino
di Raimondo Bultrini


BANGKOK NON c’è niente di certo al mondo, nemmeno il prossimo Dalai Lama. È la morale che sembra uscire dalle parole dello stesso leader tibetano. «Se dopo di me verrà un Dalai Lama debole, allora meglio che l’istituzione finisca», sono state le parole rimbalzate come un tam tam tra milioni di buddhisti e simpatizzanti del Tibet dopo l’uscita di una intervista a giornale tedesco Welt am Sonntag. Un’eco tanto forte da arrivare finanche a Pechino, dove l’uscita del XIV Tenzin Gyatso ha però scatenato notevole irritazione, con un rovesciamento di prospettiva che la dice lunga sulla “Realpolitik” cinese: «Rispetti la tradizione», così si è rivolto il governo cinese al capo spirituale del buddhismo.
«Nella versione pubblicata, la sintesi ha isolato poche frasi da un contesto più ampio», ci spiega il suo segretario personale Tenzin Takla. «Sua Santità — aggiunge — ha in realtà concluso l’intervista dicendo che quella di porre fine alle sue rinascite nella stessa funzione era una idea personale, e che spetta comunque ai tibetani decidere se l’istituzione dei Dalai dovrà restare o meno». Nondimeno la notizia ha avuto un forte impatto per la novità dei toni categorici usati nel ribadire che potrebbe essere lui l’ultimo della stirpe semi-divina incarnata come Dalai. Il leader spirituale — che intende vivere «fino a 113 anni» — ha infatti rimarcato che di fronte alla prospettiva di un «futuro disgraziato» del suo nome — ovvero espropriato dalle autorità cinesi — «meglio terminarlo adesso». Ma lascia capire che la fine “istituzionale” del Dalai non è anche quella dell’uomo che lo incarna. Prima di essere un leader politicoreligioso, il Dalai lama è infatti un bodhisattva , ovvero votato a reincarnarsi per il beneficio di tutti gli esseri viventi, non necessariamente «nello stesso corpo, ma con lo stesso spirito e la stessa anima», come ha detto al giornale tedesco.
Cosa succederà dunque alla sua morte? Per capirlo bisogna ricordare che il Dalai lama e il suo culto di “divinità della compassione”, è solo una componente del pantheon sacro nel Tibet buddhista, e che la fine del suo potere terreno e dell’incarico certo non significano la scomparsa della religione. I Dalai, che appartengono alla setta dei Cappelli gialli, o Gelupa, non furono nemmeno gli unici, nel Tibet antico, a scegliere di reincarnarsi per guidare i discepoli. Un tempo la scelta avveniva dopo una lunga selezione di bambini segnalati dai vari monasteri della scuola Gelupa tra quelli con segni speciali alla nascita (arcobaleni in cielo, fiori sbocciati fuori stagione ecc.). Un comitato di eminenti sacerdoti guidato dal Panchen lama — seconda figura gerarchica dei Gelupa — e dal Reggente del governo aveva l’ultima parola, e spesso restava virtualmente in carica per dirigere e consigliare i Dalai Lama anche nell’età adulta. Ma oggi le condizioni sono drasticamente cambiate, e tanto per cominciare non esiste più un Paese da governare, visto che Lhasa e gli altipiani sono in mano cinese.
Non a caso, le parole del Dalai Lama sono molto scomode per le autorità di Pechino. Alcuni giorni fa è stata una portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, a ribadire seccamente che per quel che riguarda la reincarnazione, compresa quella del Dalai Lama, vi è «una procedura religiosa ed una tradizione storica da rispettare». Invece nell’ultima intervista il leader spirituale si è detto pronto a dare istruzioni per interrompere alla sua morte perfino la ricerca delle successive incarnazioni. Già nel 2006, in un colloquio per La Repubblica, ci disse che uno dei suoi modelli di futura governance himalayana è quello di un “conclave” su modello Vaticano, dove il prescelto emerge tra figure già «selezionate e qualificate». Disse che i maestri di ogni scuola, ma anche lama eruditi e perfino laici, potranno guidare i tibetani dall’esilio o in patria. «Il buddhismo tibetano — ribadisce oggi a Welt am Sonntag — non dipende da un individuo. Abbiamo una struttura organizzativa molto buona con monaci e studiosi altamente preparati».
Secondo Tenzin Takla, che da anni accompagna il Dalai Lama in ogni suo viaggio, questa frase è un’indicazione chiara per ciò che potrebbe succedere dopo di lui: «I cinesi hanno già predisposto ogni cosa per “scoprire” un loro Dalai Lama, ma se l’attuale dichiara interrotto il lignaggio, il prossimo non potrà che essere falso». È di fatto la stessa sorte già capitata ad un’altra “istituzione” secolare, quella dei Panchen Lama che sceglievano i bimbi candidati-Dalai e viceversa venivano scelti quando rinascevano loro. L’attuale Panchen, più che un vero “reincarnato”, è infatti un quadro scelto dal partito comunista cinese grazie a divinazioni affidate a lama compiacenti, mentre il bambino che fu scoperto e riconosciuto 19 anni fa dal Dalai Lama in Tibet è svanito nel nulla. Letteralmente.

Corriere 15.9.14
I dolori del giovane Dostoevskij
Morte e risurrezione di un genio
L’addio agli studi, gli esordi letterari, la mancata esecuzione
di Pietro Citati


Una leggenda, immaginata soprattutto da Freud, circonda la figura di Mikhail Andreevic Dostoevskij, padre di Fjodor. Non era affatto, come fantasticò Freud, un uomo violento, stupratore, assassino: il modello di Fjodor Karamazov. Era un eccellente medico, che aveva operato durante la guerra del 1812: un uomo emotivo, che tendeva a identificare i propri desideri con quelli di Dio; un padre severo, che aveva imposto ai figli un rigidissimo codice di moralità. Fjodor non l’aveva ubbidito: o l’aveva disubbidito nel pensiero, con un acuto senso di colpa. Quando il padre fu assassinato misteriosamente nel giugno 1839, il figlio scrisse pochissime parole al fratello, come se la cosa gli fosse indifferente o, invece, lo riguardasse così da vicino da costringerlo al silenzio.
Contro il desiderio del figlio, che amava soltanto la letteratura, il padre aveva deciso di iscriverlo alla Scuola centrale del Genio di Pietroburgo, che veniva considerato il miglior istituto del genere in Russia ed offriva grandi vantaggi economici. Fjodor fu ammesso il 16 gennaio 1838: studiò assiduamente per sei anni: venne arruolato nel corpo del Genio, prestò servizio nel Dipartimento dei disegnatori ingegneri, e promosso sottufficiale e poi sottotenente. Studiava fisica, chimica, geognosia, geometria analitica, geometria descrittiva, calcolo differenziale, meccanica teorica, meccanica applicata, architettura civile e militare, arte delle fortificazioni. Pensiamo a Carlo Emilio Gadda: a ciò che significò, per lui, un’educazione scientifica involontaria. Non fu il caso di Dostoevskij, che soffrì per sei anni in quelle mura; e non ne trasse la minima suggestione o influenza, come se fosse tempo sciupato.
Di quegli anni, ci restano alcuni ritratti e autoritratti. «Era forte e solido — scrisse K.A. Trutovskij —: il suo passo era brusco, il suo colorito grigiastro; aveva uno sguardo pensoso e, sul viso, un’espressione generalmente riflessiva. L’uniforme militare non gli stava bene. Stava sempre lontano dagli altri, solo e pensoso. Aveva l’aria seria, e non posso immaginarlo ridere od essere lieto in compagnia dei suoi condiscepoli». «Tuffato in un libro — aggiunse D.V. Grigorovic — sembrava che cercasse un luogo dove isolarsi. Presto lo scoprì, e questo diventò il suo soggiorno preferito. Era il vuoto nel muro di una grande classe le cui finestre davano sulla Fontanka. Durante le ricreazioni, si era sicuri di trovarlo lì, con il suo eterno libro in mano».
Quanto a Dostoevskij, come scrisse nel luglio 1840 al fratello, «non sapeva chi fosse. Non sapeva se l’attività della sua anima fosse pura, giusta, chiara e limpida; o invece fosse erronea, inutile e vana, l’aberrazione di un cuore solitario che non si comprendeva, un bambino insensato, puro e ardente, ansioso ricercatore di qualche nutrimento spirituale». Leggeva moltissimo: Hoffmann, Balzac, George Sand, Walter Scott, Schiller, Victor Hugo, Cervantes, De Quincey, Sue: si perdeva e diventava se stesso in quelle letture; e gli amici ammiravano «la sua erudizione stupefacente». Si sentiva completamente estraneo alla Scuola del Genio e a se stesso: si annoiava e si torturava. Il 19 ottobre 1844 diede le dimissioni. «Non ho vestiti né denaro: non ho nulla per pagare i miei creditori; non ho casa, e per di più sono malato. Ma era impossibile servire più a lungo».
***
Il disperato fuggiasco della Scuola del Genio non aveva nulla in comune con gli scrittori russi suoi contemporanei, come Turgenev e Tolstoj. I suoi fratelli abitavano lontano, in Francia: Balzac (o, per meglio dire, Lucien de Rubempré, il personaggio degli Splendori e miserie delle cortigiane ), Nerval, Baudelaire, che quasi negli stessi anni scrissero i loro capolavori. Era melanconico e nevrastenico: soffriva di depressione; il cuore e il polso battevano in modo irregolare; e soprattutto credeva, immaginava, temeva di essere malato, sebbene non conoscesse ancora, in quegli anni, l’abisso dell’epilessia. Una ossessione non lo lasciava mai: cadere in un sonno letargico, ed essere sepolto vivo. «La mia salute — scriveva nel 1846 — è spaventosamente sconvolta; sono malato di nervi; e temo una follia calda o una follia nervosa». «Soffro — ripeteva — un’irritazione di tutto il sistema nervoso, e il male è giunto al cuore, trascinando un afflusso di sangue e una congestione». Un giorno, mentre attraversava una strada di Pietroburgo, vide un corteo funebre: ne fu così sconvolto, che svenne e fu costretto, con l’aiuto di qualche passante, a rinchiudersi in una drogheria vicina.
Nell’autunno del 1845, Dostoevskij cominciò a frequentare i salotti di Pietroburgo. Avdoja Jakovlevna Panaeva lasciò questo ritratto: «Al primo sguardo si vedeva che era un giovane terribilmente nervoso e sensibile. Era magrissimo, piccolo, biondo, con un colorito malaticcio; i suoi piccoli occhi grigi correvano, inquieti, da un oggetto all’altro, e le sue labbra pallide trasalivano nervosamente. All’inizio, aveva l’aria confusa e timida e non partecipava alla conversazione generale. Poi la sua timidezza scomparve, e manifestava perfino un umore provocante, e si impegnava nelle dispute con ciascuno e, visibilmente, si intestava a contraddire. La sua giovinezza e il suo nervosismo gli impedivano di dominarsi: mostrava troppo manifestamente il suo amor proprio di scrittore e l’alta opinione che aveva di sé». Forse Dostoevskij non era affatto vanitoso: era solo cosciente del proprio talento, in un ambiente che non lo comprendeva e non lo riconosceva.
Aveva una mente molteplice, come nessuno dei suoi contemporanei: mutava ogni momento, ogni volta che affrontava una nuova persona o un nuovo soggetto: era insieme sognante ed analitico; cercava l’eccesso e il rischio, perché ognuno dei suoi racconti doveva essere una avventura e una sfida. Come Nerval e Baudelaire, spendeva disperatamente denaro, cercando di distruggere se stesso: era sempre pieno di debiti; e appena ne pagava uno, ne apriva un altro, come se il debito fosse la condizione naturale e necessaria della vita. «Non ho un soldo, e non so come procurarmene», ripeteva. Così, per uccidere i debiti e la possibilità futura di debiti, proponeva al fratello e agli amici sempre più improbabili speculazioni editoriali e non editoriali. «Il guadagno — annunciava — sarà magnifico». Oppure: «Profitto economico enorme»; e non sappiamo se inventasse questi progetti o li copiasse da quelli, ancora più inverosimili, di Balzac e dei suoi personaggi.
Come Dickens e De Quincey, Balzac e Poe, Nerval e Baudelaire, Dostoevskij era legato al mercato letterario. Era «uno schiavo della penna»: uno dei primi che esistessero in Russia; da ogni parte, scrittori, editori, direttori di riviste gli chiedevano romanzi, racconti, saggi, feuilleton s. Dostoevskij protestava. «Che piaga — scrisse alla fine del 1846 — questo impiego da lavoratore giornaliero. Perdo tutto, il talento, la giovinezza, e il lavoro ripugna, e mi ritrovo, alla fine, scribacchino e non scrittore». «Per nulla al mondo — insisteva — accetterò di rovinare il mio romanzo… Voglio liberarmi — ripeteva nel febbraio 1849 — da questa schiavitù letteraria». Ma, al tempo stesso, scriveva i mirabili feuilletons dello Schernitore, dove rideva di tutto, scherniva il teatro, le riviste, la società, la letteratura, gli avvenimenti della storia, le esposizioni, le notizie dei giornali, le notizie dello straniero, insomma tutto: imitando il suo modello mentale, Lucien de Rubempré, l’eroe delle Illusioni perdute di Balzac. Sapeva che il feuilleton gli imponeva un dono tremendo: la fretta. Ma questa fretta dava una specie di felicità alla sua ispirazione: immagini sorprendenti, raccourci s geniali, rapidissime folgorazioni.
***
Tra il 15 e il 17 maggio 1842 Gogol’ pubblicò il primo volume delle Anime morte : a partire da quel momento Dostoevskij dedicò la vita al meraviglioso poema-romanzo di Gogol’. Moltissimi giovani erano affamati di qualcosa: in attesa di qualcosa; e potevano soddisfare questo oscuro desiderio solo con le Anime morte . Così faceva Dostoevskij: lo leggeva il giorno: passava le ore della notte rileggendolo sempre di nuovo agli amici, come se il poema-romanzo non potesse finire mai. Lo imitò: lo trasformò; e, in pochi anni, le Anime morte diventarono Povera gente , Il sosia e farse geniali come L’albero di Natale e Lo sposalizio e La moglie altrui e Il marito sotto il letto .
Nei primi giorni dell’aprile 1844, nel più grande segreto, Dostoevskij cominciò il romanzo Povera gente : lo corresse nell’aprile 1845, per pubblicarlo all’inizio del 1846 sulla «Raccolta pietroburghese». «Del mio romanzo — scrisse al fratello — sono seriamente soddisfatto. È una cosa severa ed armonica»: meno soddisfatti sono, probabilmente, i lettori di oggi.
«Allora avvenne — scrisse Dostoevskij trent’anni dopo — qualcosa di così giovanile, fresco, buono, una di quelle cose che rimangono per sempre nel cuore di chi vi partecipa». Portò il manoscritto di Povera gente all’amico D.V. Grigorovic, che viveva insieme a Nekrasov. I due amici cominciarono a leggerlo per prova: «Dopo dieci pagine vedremo». Dopo aver letto dieci pagine, decisero di leggerne altre dieci, e poi, senza interruzione, rimasero tutta la notte a leggere ad alta voce, scambiandosi il libro quando erano stanchi. Alla fine, tutti e due erano entusiasti, e piansero a calde lacrime (come usava). Erano le quattro del mattino: una notte bianca di Pietroburgo, chiara come il giorno. Grigorovic supplicò Nekrasov di correre insieme a lui a casa di Dostoevskij, subito, senza esitare, per dirgli il loro entusiasmo.
Intanto Dostoevskij, che non riusciva a dormire, aprì i vetri, e si sedette presso la finestra. Con sua grandissima sorpresa, ecco a un tratto suonare il campanello: Grigorovic e Nekrasov salirono le scale, e lo abbracciarono entusiasti e piangenti, salutandolo come «il successore di Puškin». «Essi rimasero da me — scrisse Dostoevskij — circa mezz’ora, e in questa mezz’ora Dio sa quanto ci dicemmo comprendendoci l’un l’altro a mezze parole, con esclamazioni, con furia: parlammo della poesia, della verità, della situazione del momento e, si intende, di Gogol’, ma soprattutto di Belinskij. Gli porterò oggi il vostro romanzo, disse Nekrasov, e vedrete che uomo, che uomo! Farete conoscenza, e vedrete che anima! Bene, adesso dormite, dormite, noi andiamo via! Come se potessi dormire dopo la vostra visita! commentò Dostoevskij. Quale entusiasmo, quale successo! Sono accorsi con le lacrime agli occhi, alle quattro del mattino, per svegliarmi, perché il libro era superiore al sonno. Ah, che bellezza!».
Quando Vissarion G. Belinskij — un critico mediocre, in quegli anni famosissimo — lesse Povera gente , ripeté varie volte a Dostoevskij: «Ma capite voi, capite voi quello che avete scritto?»: gettando, come era sua abitudine, piccoli strilli. «Io — racconta Dostoevskij — uscii da casa come ubriaco. Mi fermai all’angolo della strada, guardai il cielo, il giorno chiaro, la gente che passava, e con tutto il mio essere sentii che nella mia vita era arrivato un momento solenne, un mutamento per sempre, qualcosa che non avrei supposto nemmeno nei miei sogni più appassionati. Ma sarò proprio davvero così grande?, pensavo, con un senso di vergogna».
Per anni, Belinskij esercitò una grande influenza su Dostoevskij: lo educava al socialismo: gli parlava male di Cristo o bestemmiava di Cristo; ogni volta che sentiva quelle parole, il viso di Dostoevskij assumeva un’aria dolorosa, come se stesse per piangere. Nel 1848, ci fu una rottura tra Dostoevskij e il gruppo di Belinskij. Ma, quando Belinskij morì nel maggio 1848, Dostoevskij disse: «Qualcosa di terribile è accaduto — Belinskij è morto».
Quindici giorni dopo Povera gente , il 1° febbraio 1846, Dostoevskij pubblicò Il sosia : il capolavoro della sua giovinezza. Nel Diario di uno scrittore , disse che l’idea del doppio era «grave e luminosa»: egli l’avrebbe inseguita per tutta la vita, dalle Memorie dal sottosuolo fino ai Fratelli Karamazov . Tutto quello che sentiva e pensava era doppio: cercava uno specchio: si faceva gioco di se stesso; si moltiplicava, generando un movimento, dove il vero e il falso, il reale e il fantastico, la sostanza e l’illusione si identificavano follemente. Cominciò a giocare, in modo sempre più vertiginoso: o, che è lo stesso, a ridere, portando all’estremo ognuna delle sue risate, fino a che la logica si perdesse nell’insensatezza e l’insensatezza diventasse logica. Tutti i generi e le forme letterarie si aprirono davanti a lui, e lui le percorreva con un passo trionfale d’artista. Proprio questo era, un artista: nessuno tra i suoi contemporanei era artista come lui; sebbene egli si accusasse, contro ogni ragione, di essere più poeta che artista e di non riuscire ad esprimere nemmeno la ventesima parte di quello che avrebbe voluto.
***
Le rivoluzioni del 1848 e del 1849 in Europa occidentale sconvolsero Dostoevskij. «In Occidente — diceva — sta accadendo qualcosa di disastroso, qualcosa di tremendo: un dramma senza precedenti; questo terribile dramma mi interessa profondamente». Nel marzo 1847 aveva cominciato a partecipare ai venerdì del Circolo Petraševskj: un circolo fourierista, che possedeva una biblioteca piena di libri proibiti: Babeuf, Louis Blanc, Fourier, Victor Considérant, Proudhon, Claude de Saint-Simon. Chi veniva da Petraševskij il venerdì sera, trovava libri, samovar, conversazione. Nessuno cospirava contro lo Stato, sebbene il ministro dell’Interno vi avesse infiltrato una spia italiana. Dostoevskij conosceva poco e male Petraševskij: ma, in alcuni dei suoi venerdì, parlò di letteratura, personalità ed egoismo e di Krylov. Non amava, anzi detestava, l’ateismo diffuso nel Circolo. Ma, una sera, lesse ad alta voce la Lettera di Belinskij contro i Passaggi scelti dalla corrispondenza di Gogol’: il critico vi affermava che «se guardate più da vicino, vedrete che, nella sua essenza, il popolo russo è profondamente ateo». La lettura suscitò un grande entusiasmo: tutto il gruppo fu sconvolto ed elettrizzato.
Dostoevskij ebbe un amico più insidioso: Nikolay Spešnev, un ricco proprietario di terre, che ricordava Stavrogin, il protagonista dei Demoni . «Stavrogin era elegante senza ricercatezza, mirabilmente modesto e nello stesso tempo sicuro di sé. I suoi capelli erano un po’ troppo neri, i suoi occhi chiari un po’ troppo quieti e sereni, il colore del suo viso un po’ troppo delicato e bianco, il rossore un po’ troppo vivo e puro, i denti come perle, le labbra di corallo». Era mite, pensoso, impenetrabile: ispirava confidenza, specialmente alle donne, che impazzivano per lui. Dichiarò apertamente di essere comunista; e fondò una società segreta, che voleva diffondere la rivoluzione. Per qualche tempo Dostoevskij ne subì l’influenza: ne era affascinato sebbene lo detestasse; e si fece prestare cinquecento rubli, che Spešnev non avrebbe mai permesso di restituirgli. «Bisogna che comprendiate — Dostoevskij disse al suo amico Janovskij —: ormai io ho il mio Mefistofele; sono con lui e gli appartengo».
Il 23 aprile 1849, alle cinque di mattina, Dostoevskij fu risvegliato dal rumore di una sciabola militare che urtava un mobile, e da una voce che trovò «dolce e simpatica». «Alzatevi», disse lo sconosciuto; e cominciò a frugare tra i libri, le carte, i vestiti. Insieme a Dostoevskij furono arrestate trenta persone: lo zar Nicola I aveva deciso di sopprimere la minima manifestazione di pensiero indipendente, eliminando l’insegnamento di filosofia e metafisica all’università e trasferendo quello di logica alla facoltà di teologia. Il giorno dopo, 24 aprile, Dostoevskij venne portato nella cella 9 della Fortezza Pietro e Paolo: il comandante era il generale I.A. Nabokov, pro-pro-zio dell’autore di Lolita , il quale fu gentilissimo e scrupoloso con lui.
La vita nella Fortezza ebbe fasi alterne. Dostoevskij dormiva cinque ore al giorno, svegliandosi quattro volte per notte, e talora non riusciva ad addormentarsi. Aveva incubi. Ma poi cominciò a passeggiare tra gli alberi del giardino: «Era una pura felicità». Ripassò affettuosamente i suoi ricordi: lesse con entusiasmo La conquista del Messico e La conquista del Perù di William Prescott, Gibbon, Jane Eyre di Charlotte Brontë, che gli parve «straordinariamente buono», un libro di Vite dei Santi ; e scrisse con affetto un breve racconto, Piccolo eroe . «Lavoro, scrivo, cosa c’è di meglio? Mi accorgo che ho ammassato delle riserve di vita così grandi, che non potrei mai esaurirle. Sono cinque mesi, ormai, che vivo sulle mie risorse, cioè con la mia sola testa, senza null’altro. Pensare costantemente, non fare che pensare, senza nessuna impressione esterna per rigenerare e sostenere il pensiero è duro!...».
Gli interrogatori si protrassero, senza sosta, sino alla fine del maggio 1849: Dostoevskij venne interrogato a voce e per scritto; il generale Rostovtzev gli disse: «Non posso credere che l’uomo che scrisse Povera gente abbia simpatia per queste persone malvagie». Dostoevskij si difese: redasse una Spiegazione , che doveva completare la sua deposizione: ammise di aver letto ad alta voce la Lettera di Belinskij contro Gogol’, di aver richiesto la libertà di stampa e di aver aderito al fourierismo, «sebbene fosse inapplicabile in Russia». Ma ribadì con insistenza la sua lealtà allo Zar e al sistema monarchico, l’unico che potesse riformare la Russia. Il 17 settembre 1849, la commissione di inchiesta completò il suo lavoro e l’11 novembre una corte militare-civile decise di condannare alla pena capitale quindici accusati, tra cui Dostoevskij.
Il 22 dicembre 1849, alle sette di mattina, i condannati furono condotti alla piazza Semenovskij. La piazza era coperta di neve appena caduta; ed era gremita di truppe e di una numerosa folla in silenzio, che rabbrividiva a ventun gradi sottozero. I volti dei condannati erano pallidissimi: qualcuno aveva i capelli rasati; e Spešnev, il più bello e affascinante, aveva un viso oblungo, malaticcio, giallastro, con le guance cave, senza più nulla della sua grazia. La voce di un generale ordinò silenzio: poi un ufficiale del servizio civile, con i documenti in mano, disse i nomi dei prigionieri, e pronunciò il verdetto di morte, a voce lenta, rivolto ad ognuno di loro. I condannati, indossando le loro bianche bluse di contadini e un berretto da notte — l’uniforme funebre — si avvicinarono al patibolo. Il sacerdote disse: «Fratelli! Prima di morire, pentitevi. Il Salvatore dimentica i peccati se uno si pente. Vi invito a confessarvi». Nessuno rispose all’invito: solo uno dei condannati uscì dalla fila, e baciò la Bibbia.
Come Dostoevskij racconta nell’Idiota , quelli furono i suoi ultimi cinque minuti di vita: quei cinque minuti gli sembrarono un tempo interminabile, un’immensa ricchezza; gli parve che in essi avrebbe vissuto tante vite, così che per il momento non doveva pensare all’ultimo istante. Non lontano, c’era una chiesa, e il suo tetto dorato brillava sotto il cielo fulgido del mattino. Dostoevskij non poteva staccare gli occhi da quei raggi: gli sembrava che fossero la sua nuova natura, e che di lì a tre minuti si sarebbe fuso con essi. «Se potessi non perire! Pensava. Se si potesse far tornare indietro la vita, quale infinità». Poi ricordò L’ultimo giorno di un condannato di Victor Hugo e disse a Spešnev: «Nous serons avec le Christ» (saremo con Cristo); con un sorriso triste, Spešnev rispose: «Un peu de poussiére» (un po’ di polvere). I tamburi rullarono. Dostoevskij, che conosceva il linguaggio militare, comprese che le loro vite erano state risparmiate. Un aiutante di campo arrivò al galoppo, annunciando il perdono dello Zar: le nuove sentenze vennero lette ad ognuno dei condannati; e le bluse da contadino e i berretti vennero gettati via.
Quando venne riportato in cella, Dostoevskij scrisse al fratello, comunicandogli che la pena capitale era stata trasformata in quattro anni in Siberia. «La vita — gli disse — è dovunque la vita, la vita è in me, e non nel mondo esterno…La vita è un dono, la vita è una felicità; ogni minuto può essere un secolo di felicità». Era esaltato, eccitato, trionfante: voleva essere purificato; e chiedeva di non essere dimenticato, dal fratello, dai figli di lui e dagli amici. Il 25 dicembre, mise per la prima volta i ferri: pesavano quattro chili, e gli rendevano difficile camminare. Nella notte attraversò le strade di Pietroburgo: era diretto ad Omsk; passò davanti alla casa del fratello, e alle sue luci natalizie accese.

il Fatto 15.9.14
Melega: ah, se avesse vinto lui e non Scalfari!
di Beppe Lopez

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La Stampa 15.9.14
Mi rivedo ventenne affascinato da Fenoglio
di Mario Calabresi

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La Stampa 15.9.14
Arte araba: andare “altrove” per capire “qui”
New York, una panoramica che è anche diario, denuncia, documento su una delle realtà più tormentate d’oggi
di Francesco Bonami


Raccontare le culture e i luoghi attraverso la loro produzione artistica è un’impresa sempre molto complicata. Il rischio della generalizzazione, del luogo comune o addirittura della deriva folcloristica è sempre in agguato. Non corre nessuno di questi rischi la mostra «Here and Elsewhere», Qui e Altrove, dedicata all’arte araba al New Museum di New York. Una mostra puntuale e necessaria anche per chiarire che il futuro del mondo artistico arabo non è tanto dentro luoghi come il nascente Guggenheim di Abu Dhabi o il suo destino nelle mani degli sceicchi del Qatar famelici collezionisti di arte contemporanea, ma è «altrove» appunto, sparpagliato fra il Medio Oriente e il resto del mondo, impegnato in una profonda riflessione sulla propria identità e i propri rapporti culturali sia interni sia esterni.
«Here and Elsewhere» ci offre una panoramica sull’arte araba che, come l’arte di molti luoghi tormentati della storia presente e passata, non è semplicemente arte ma anche documento, diario, denuncia, informazione. In una New York «occupata» dai koonsisti, ovvero da tutti quelli che non parlano d’altro che della (per altro scontatissima) mostra di Jeff Koons al Whitney, la mostra al New Museum offre (fino al 28 settembre) l’opportunità di ricordarsi che l’arte non è solo mercato, celebrities, souvenir estetici e spettacolo, ma anche, anzi più che altro, uno strumento per farci riflettere sul mondo che ci circonda e sui suoi problemi, che magari non sono i nostri ma in qualche modo nella società globalizzata nella quale viviamo finiscono col toccare anche se marginalmente le nostre vite. Il mondo arabo e le sue tragedie sono uno di questi problemi e Massimiliano Gioni, Natalie Bell, Gary Carrion-Murayari, Helga Christoffersen e Margot Norton, curatori della mostra, ce lo raccontano molto bene attraverso i cinque piani del museo.
Le gallerie del New Museum sono spazi architettonicamente infelici ma funzionano molto bene con le mostre infelici: non venute male, ma che parlano dell’infelicità del mondo. «Here and Elsewhere» è infatti un progetto non certo divertente e molto impegnativo sia per chi l’ha messo in piedi sia per chi lo visita. Il titolo è preso in prestito dal film Ici et ailleurs di Jean-Luc Godard, girato insieme con Jean-Pierre Gorin e Anne-Marie Mieville. Un film che doveva essere pro-palestinese ma poi è diventato qualche cosa di altro e più complesso, una riflessione sull’uso delle immagini per formare la nostra coscienza individuale, politica e collettiva. Lo stesso si può dire della mostra, che non è certo filo-israeliana, ma non è nemmeno spudoratamente filo-palestinese. Certo che trattandosi di artisti principalmente del mondo arabo un po’ di parte alla fine lo diventa. Non è una colpa o un difetto ma semplicemente un’inevitabile dato di fatto.
Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate, di vederla in mezz’ora o con l’occhio agli sms. «Here and Elsewhere» è una fantastica lezione su un soggetto che richiede concentrazione e impegno. Molti, lunghi video da vedere, molti testi da leggere, molto da capire, molto da imparare. Prendiamo ad esempio i brevi video del gruppo Abounaddara, composto da registi autodidatti sparpagliati in Medio Oriente, che raccontano i viaggi di quelli che tentano di trovare sollievo, speranza e salvezza entrando clandestinamente in Europa. Un’opera d’arte, ma più che altro un documento che dovrebbe essere fatto vedere ai politici europei che pensano di avere la bacchetta magica per risolvere il problema dell’immigrazione. Oppure le foto di Fouad Elkoury che documentano l’incerta quotidianità dei libanesi durante la guerra civile durata quindici anni.
Trauma, nostalgia, illusione sono gli ingredienti del viaggio dentro le opere di più di 45 artisti. Ci sono momenti che fanno mancare il fiato, come le foto dell’artista Hrair Sarkissian che mostrano piazze siriane vuote, molto simili a quelle dove l’artista da bambino aveva assistito a barbare esecuzioni capitali pubbliche. Ci sono però anche artisti che usano tecniche tradizionali come ad esempio i disegni dell’egiziana Anna Boghiguian, fatti al Cairo durante la rivoluzione primaverile del 2011. Oppure i ritratti del pittore siriano Marwan degli Anni 60, dove si sente come la pittura tedesca ed europea abbia influenzato questo artista.
La mostra sottolinea con forza come l’arte sia una delle poche attività umane difficili, anzi impossibili, da fermare. Nemmeno durante i peggiori momenti di un popolo o dei singoli individui. Basta guardare il diario del libanese Mazen Kerbaj, creato sotto i bombardamenti israeliani di Beirut nell’estate del 2006. Oppure l’Apocalisse araba della quasi novantenne Etel Adnan, anche lei libanese che con questo manoscritto risponde all’assurdità della guerra civile agli inizi degli Anni 70. Non mancano artisti più giovani che usano i nuovi media, compreso YouTube, strumento rivoluzionario praticamente inafferrabile anche dalle dittature più feroci. Ma il mondo arabo, come dicevamo, significa anche gas e petrolio, potere e denaro. Soggetti presentati subito all’ingresso del museo dove un altro collettivo, Gcc, ha ricreato la lobby dell’Hotel Palace di Abu Dhabi uno dei più costosi del mondo. Quasi come per creare una facciata a una realtà che poi, salendo dentro il museo, si rivelerà molto meno scintillante.
I curatori nel catalogo citano (impossibile non farlo) Edward Said, l’intellettuale arabo diventato una sorta di divinità sia nel mondo degli studi mediorientali sia in quello dell’arte globale. Bisogna andare «altrove» per capire «qui». Il grande merito di questa mostra è proprio questo, che ci fa sentire altrove e qui al tempo stesso. Peccato che poi una volta finita non andrà da nessuna parte. Molti musei europei avrebbero potuto arricchirsi dall’ospitare un progetto così.

Repubblica 15.9.14
Karl Popper se il falso è la sola verità
A vent’anni dalla morte del filosofo resta immutato il valore politico della sua teoria: il negativo è sempre in vantaggio sul positivo
Anche Adorno e Derrida credono più alla falsificazione che alla conferma
Che l’esperienza possa smentire ogni legge empirica non significa che la scienza è vana
di Maurizio Ferraris


FORTE di una esperienza ripetuta per mesi un tacchino può formulare la legge secondo cui ogni volta che arriva il contadino riceverà del mangime. Ma c’è un giorno, subito prima di Natale, in cui la legge è drammaticamente smentita. Per molti filosofi il destino del tacchino è sconsolante anche dal punto di vista scientifico. Se le nostre conoscenze sono la generalizzazione di esperienze, ogni nostro sapere è chimerico: verrà sempre il giorno in cui la legge che credevamo incrollabile si rivelerà illusoria, e che le cose stiano così lo dimostra non solo la morte del tacchino, ma anche la storia delle scienze, che è un susseguirsi di errori, più che di verità.
Si è dovuta attendere la riflessione di Karl Raimund Popper (morto il 17 settembre di vent’anni fa) per una valutazione diversa del ruolo dell’errore nella scienza. Il fatto che ogni legge empirica possa venir smentita dall’esperienza (“falsificata”, nel gergo di Popper) non è il segno che la scienza è vana, ma, al contrario, che si tratta di una impresa promettente. Nessuno si sognerebbe di confutare la tesi secondo cui ogni volta che cade il silenzio in una conversazione è perché passa un angelo, ma dire “ogni volta che arriva il contadino, porta il mangime” significa formare una legge potenzialmente scientifica.
Ora, secondo Popper, quello scienziato potenziale che era il tacchino aveva sbagliato due volte. La prima, quando pensò (come gli empiristi) che la semplice esperienza sia sufficiente a formare una teoria. E non è così: nella Critica della ragion pura Kant loda Bacone proprio per aver compreso che lo scienziato deve interrogare la natura come un giudice, e non come uno scolaro. La scienza non è una raccolta di esperienze messe, per così dire, in bella copia; è piuttosto un processo che parte da un problema, cerca di risolverlo, e per farlo formula delle congetture che si tratterà di mettere alla prova attraverso esperimenti ad hoc .
Ma il secondo errore del tacchino era ancora più fatale, visto che aveva pensato che una serie molto lunga di regolarità nell’esperienza possa verificare una teoria. Non è così. Visto che l’esperienza è costitutivamente aperta, la regolarità può corroborare una teoria, ma non verificarla: si possono aprire quante bottiglie si vuole, resterà aperta l’eventualità che una sappia di tappo, ed è da questa ovvia considerazione che nasce l’uso di fare assaggiare il vino al ristorante prima di servirlo. L’unica certezza che l’esperienza può dare a una teoria è negativa, ossia può dimostrare che è, sicuramente, falsa. Di qui la superiorità della falsificazione sulla verificazione: se Spinoza aveva detto che il vero è indice di se stesso e del falso, Popper sostiene piuttosto che il falso è indice di sé e del vero.
Tutto a posto? Non esattamente, perché anche la teoria di Popper non è priva di problemi. Intanto, che cosa significa che le osservazioni sono “guidate da una teoria”? Si vuol dire che due teorie completamente diverse vedrebbero fatti completamente diversi con il risultato che gli scienziati si trovano su mondi completamente diversi? Ovviamente Popper non intendeva dire né che l’esperienza scomparisse totalmente sotto il peso della teoria, né soprattutto che ci fossero elementi teorici in ogni esperienza, anche infima. Ma dal dire che l’osservazione è “theoryladen”, che i fatti sono “carichi di teoria”, a concludere, con il Derrida della Grammatologia , che “nulla esiste fuori del testo”, ossia che ogni nostra esperienza, anche la più primaria, è condizionata dalla storia e dal linguaggio, il passo è breve. C’è un secondo problema nella teoria di Popper. Siamo disposti a considerare “vera” una teoria solo nella misura in cui potrebbe rivelarsi falsa? Nessuno di noi, andando dal medico, sarebbe disposto ad ammettere che la sua competenza è garantita proprio dal fatto che le sue affermazioni potrebbero essere false. Sebbene poi, quando la diagnosi è infausta o almeno spiacevole, diventiamo naturalmente popperiani. Anche nel peso dato all’errore Popper si rivela erede di Bacone, che, vivendo agli albori della scienza moderna, era incline, e a ragione, a considerare che buona parte del nostro sapere è fatto di pregiudizi ed errori. Ma oggi non è più così, ed è per questo (come ha recentemente argomentato uno dei maggiori epistemologi contemporanei, Evandro Agazzinel suo monumentale Scientific Objectivity and Its Contexts uscito quest’anno da Springer) che il falsificazionismo si rivela una dottrina sottilmente antiscientifica.
Il problema è serio. Pretendere che non ci siano induzioni legittime a meno che non si sia esaminata la totalità dei casi, o almeno si sia dimostrato che il contrario è falso, ci porterebbe alla paralisi. Criticando Bacone all’inizio dell’Ottocento Joseph de Maistre aveva buon gioco a sostenere che si trattava di una esagerazione, di una iperbole che non porta a nulla di buono. De Maistre lo faceva per riabilitare i pregiudizi contro l’illuminismo, per difendere il buon senso contro gli eccessi della ragione. Ma proprio questa circostanza ci aiuta a capire il valore, per così dire, politico, e il pathos filosofico del falsificazionismo: tutto, anche l’opinione più venerabile e consolidata, potrebbe crollare di colpo, il negativo ha sempre un vantaggio sul positivo.
È la lezione non solo di Popper, ma anche di Adorno, così come di Derrida, un autore che apparentemente si pone agli antipodi del suo stile di pensiero. Il parallelo non mi viene solo sul filo di un ricordo autobiografico — ricordo di aver visto i due a Palermo, nel 1988, premiati nella stessa cerimonia, che si guardavano con sospetto reciproco — ma in base a un assunto metafisico che li accomunava: la verità si dà molto più nella smentita che nella conferma. Nella contraddizione, nella falsificazione, nell’aporia. Difficile, ad esempio, trovare qualcosa di più popperiano della domanda che Derrida si era posto in una conferenza del 1992: “La mia morte è possibile?”. Domanda assurda e insieme perfettamente logica, giacché tutte le morti avvenute sinora non ci autorizzano a formulare la legge “ogni uomo è mortale”. (È anche vero, però, che anche se un uomo vivesse un milione di anni non potrebbe formulare la legge “un uomo è immortale”: nulla esclude infatti che, dietro l’angolo, lo aspetti la fine del tacchino.)

KARL POPPER
Filosofo della scienza (Vienna 1902 - Londra 1994), tra i maggiori del XX secolo, è noto per la critica dell’induzione, per la rivalutazione del ruolo degli errori nella pratica scientifica e per la proposta della falsificabilità come criterio di demarcazione tra scienza e non scienza.
Nominato baronetto nel 1965, tra le sue opere più note Logica della scoperta scientifica
(Einaudi) e La società aperta (Rubettino)

Repubblica 15.9.14
Povera Praga da Kafka ai money change
La città un tempo “magica”, piena di memorie letterarie è ora affollata di turisti e faccendieri
di Alberto Arbasino


PRAGA ED eccoci qui seduti, abbastanza comodamente, in questa Piazza Venceslas che ne ha viste d’ogni colore. Di recente, soprattutto tragedie: Novotny, Svoboda, Husak, Dubcek, Cernik, Smrkovsky, Krejca, Havel... Fra Charter 77, Primavere di Praga, Rivoluzioni di Velluto... Torce umane di Jan Palach nel 1969, auto-roghi seguenti, tra qualche perestroika e apparatchik e lavoratori uniti e socialismi dal volto più o meno umano... Così adesso qui diventa spontaneo chiedersi come faranno mai, sia pure in un ambiente dove i servizi segreti sono tradizionalmente buonissimi (e dove si usano tanto i samizdat su cosa pensano i vicini), con tutte queste ondate e maree di turisti americani o italiani o spagnoli privi di qualsiasi interesse politico.
Adifferenza di quei tempi andati quando ogni visitatore veniva filtrato da una sola agenzia governativa, e non poteva nutrire interessi unicamente culturali, no no.
Sembrano così anche remoti i viaggi praghesi di una coetanea che si recava là per stare con un’amica, e veniva incaricata di portare un meccanismo «molto pesante» che veniva poi rilevato dalla consorte di un futuro presidente, in un androne «molto anonimo».
Ora, in una via centralissima, «sopra Mc Donald’s, presso il Casino» (come informa il pieghevole), i patiti di «Ostalgia» possono ritrovare un Museo del Comunismo con tanti filmati d’epoca sui vari schermi. Molti busti di Stalin, libri, lapidi, ritratti, monumenti. Sport, manufatti, gloria allo stakhanovismo, propaganda del realismo socialista contro ogni capitalismo. Pragmatismo praghese. Industria pesante, distruzione dell’ambiente. Esaltazione di Stalin, studenti provocatori in Piazza Venceslas, ma del resto poliziotti coi bastoni identici agli attuali.
Fratellanza sovietica, processi politici, polizia segreta, normalizzazioni. Gelo, Disgelo, Muro di Berlino, Rivoluzione di Velluto malgrado gli auto-roghi. Slansky, relitto umano; Urvalek, crudele e sanguinario. Il Casino attuale si chiama Savarin, con ricco ingresso. Ma i patiti di «Ostalgia» sono anche giovani d’oggi. E non possono aver vissuto quei tempi. Evidentemente. Moda? Moda...
Foto e filmati sulla Grande Guerra. Bagnanti russi, doni di fiori, confronti fra industrie belliche. Principesse, mobilitazioni, villaggi distrutti. Collette di popi, rivoluzionari, infermiere, tende, ranci, cannoni, ragazzini... Nel Medio Evo, o nei cieli?
Un collezionista privato di busti e munizioni evidentemente ha trasformato il suo alloggio in un magazzino o deposito di cartucce e proiettili. Li illustra a un paio di famigliuole esterrefatte. Non dimentica di farci pagare ben trecento corone a testa. Cash. Ma sarà un vero mentecatto della Praga Magica?
* * *
Le due celebrità della Magica Praga novecentesca sono ovviamente Franz Kafka e Alfons Mucha. Senza nulla da spartire con questa Piazza Venceslas così piena di eventi storici e oggi affollata di turisti, fra sigle e targhe di multinazionali “quick”. Né con l’infinità di negozietti di money change senza interessi, zainetti, veli islamici, banchettini di chincaglieria, negozietti di massaggi thai, orecchini fantasiosi, o giri della birra, della guerra, del sottoterra, del comunismo, dei fantasmi...
Tanti faccendieri e puttanieri: gran valore nazionale dell’organo femminile per stranieri. Gran diffusione di Moda, Galerie, Alternativ, vendite di “Suvenyry”. Lucchetti d’amore su certi ponti. Cristalli di Boemia ossessivamente dovunque; e soprattutto all’aeroporto, doverosamente intitolato a Vaclav Havel. Dopo i soliti giocarelli su Mala Strana e Stare Mesto. E dopo tante svenevoli contorsioni delle sculture carbonate e calcaree, presto nerissime senza possibilità di grattatine, fra venerandi e decrepiti muri barocchi non ancora sfregiati dai nuovi graffiti. «I hate barocco» faceva cantare Mario Soldati a Laura Betti. E qui par di capirlo. Né pare consolante che oltre un secolo fa lo ricorda un memorial - si chiamasse «Café Radetzky» questo self-service americano dove si fa colazione, sulla piazza San Nicola.
…Macchine Skoda, molto servizi segreti, sobborghi di villette signorili, tante asimmetrie di ciuffi e ciuffetti, gonfiezze, enfiagioni, braccialetti e chiacchiericci fra carni livide, pelli bigie, occhi spenti… Tanti edifici di uffici… «Ancor oggi, ogni notte, alle cinque- secondo Praga magica di Angelo Maria Ripellino - Franz Kafka ritorna a via Celetna, a ca- sa sua, con bombetta, vestito di nero». E non solo. «Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hasek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza».
Nessun accenno, benché il volume sia del 1973, ai carri armati sovietici di qualche anno prima. E benché proprio qui nella Piazza Venceslas si trovino gli uffici delle Assicurazioni Generali, primo lavoro di Kafka. Solo un trionfo del Sesto Acuto su un intrico molto ammaliante di lucidi tetti embricati, un intrigante intreccio di ballatoi, camini, abbaini.
E sotto, una notevole bruttezza generale, deprimente nella gran bruttezza locale e turistica. Altro che in spiaggia. Americani di provincia che si fanno tristi foto di baracchini con rigattieri e staffieri e culone, ciarlatani, ciambellani, cappellani, ombre di occultisti, clowns, pellegrini molto sghembi tra sfide non-convenzionali, mode esclusive, gallerie alternative. Impostori, controllori, ventagli, vestaglie, ciurmaglie... Fiacchi viandanti, guardiani più o meno zelanti, gelatai o burattinai nei cimiteri dei monasteri, guitti in redingote, randagi, accusati, scombiccherati fra innumerevoli urne e cippi e busti e fusti e sfingi e lapidi d’altri tempi... Ma che palle! Fra tutti questi Karel e Bohumil e Jiri e Frantisek e Vaclav e Jaroslav e Viteslav e Vladimir del luogo, con o senza gli accenti a posto, veramente qui non se ne può più. Più alternativi, più abusivi, più anticonformisti, più dissidenti e dissenzienti e disobbedienti, più o meno decadenti... In una parola, scomodi ! Fra sculture nere, torricini, cuspidine, pinnacoletti, gu- glie stravolte, grondaie atroci?
Vien ben voglia di tutt’altri Ripellini. Macché Praghe magiche. Quelle gozzoviglie che dice, pagandole cash, si pretendono praghesi tipiche? Non di ieri o dell’altro ieri. Se non sono locali e fresche, niente cash? Con chi ci si lamenta, poi? Con Kafka?
* * * Eccoci dunque allora al Franz Kafka Museum, giù per una stradina accidentata sotto il Ponte Carlo. Non lungi dal vecchio Ordine di Malta e dal Santo Bambino di Praga. Luoghi molto trafficati. Sfruttamento? Dentro, «gabbia e rifugio» per quell’autore così triste, atmosfere molto soffocanti, parecchi schermi, numerosi visitatori. «Gabbia o trappola in cerca di uccelli»? Moldava di Smetana, di continuo. Molti volumi di Max Brod. Prime edizioni, facsimili, appunti per lettere o diari. Crucci, angustie, sofferenze, disturbi, grattacapi, contrizioni, tormentoni... Materiali da studiare e leggere per più d’una vita o carriera, avendo tempo. Ma per i frettolosi, un’ampia mappa del centro cittadino, con tanti indirizzi di scuole elementari, licei statali, caffè e cabaret con giardinetti e piscine di immaginabile dolore. E quanti vari lavori, in eccellenti edifici monumentali. Abituali facciate barocche. Vicoletti. Genitori. Genealogie. Sinagoghe. Casa natale, ricostruzione medievale. Piccolo mistero su Ravachol.
Facsimile di «L’aeroplano a Brescia». Foto di Kurt Wolff, Leo Peruz, Otto Pick, Franz Werfel, il Café Arco... Malinconie, depressioni, sconforti...
Tutt’altra musica, invece - e sembra davvero il caso di ripeterlo - nella più centrale mostra di Alfons Mucha. E intanto, coi posters parigini che proverbialmente inventano ogni Art Nouveau o Déco in nome di Sarah Bernhardt nonché di Edmond Rostand: Médee, Gismonde, La Samaritaine ... Ma non soltanto quell’enfasi molto parigina per il Liberty. Soprattutto, nella gran Galleria d’Arte Moderna al Palazzo Veletrznì, le gigantesche vetrate epiche slave, coi modelli in posa e trucco nell’atelier studio per la Slavonia. Finestroni decorativi in questo mondo di supermarkets erotici e ori sfacciatissimi su organi e pulpiti, fra le sculture nere.
Quante metafore. Estasi mistiche, apparizioni, incoronazioni, paganesimi, liturgie serbe e baltiche, battaglie storiche, il Monte Athos... Albe, tramonti, eventi, radicali, ussiti, logge massoniche...
Epicità patriottica slava, giuramenti dei giovani, allocuzioni dei sovrani, incontri e scontri sistematici, secolari, centenari, continui...
(1. Continua)

Repubblica 15.9.14
Chi è genitore non è più felice di chi non lo è: diversi studi mostrano i costi di mettere al mondo un bimbo
Quando le madri non si divertono la dura arte di crescere un figlio
di Jennifer Senior


IN CHE modo i bambini influenzano la vita della madre e del padre? A distanza di quarantacinque anni, siamo ancora alla ricerca di una risposta. Me lo sono chiesto per la prima volta la sera del 3 gennaio 2008, quand’è nato mio figlio. Ma ho iniziato a rifletterci seriamente solo due anni dopo, quando per il “New York” ho scritto un pezzo su una scoperta sorprendente delle scienze sociali: i genitori non sono più felici dei non genitori, e anzi in certi casi lo sono molto meno.
È una conclusione che va contro ogni nostro istinto; ma gli scienziati lo sanno da quasi sessant’anni. Il primo rapporto uscì nel 1957, all’apice del culto della famiglia mononucleare: il titolo era “Genitorialità come crisi”, e in sole quattro pagine l’autore riusciva a smantellare l’ortodossia prevalente dichiarando che i bambini indebolivano i matrimoni anziché salvarli. (...) Nel 1975, un altro celebre saggio evidenziò che le madri con figli adulti che vivevano fuori casa non erano disperate ma più felici delle altre; negli anni Ottanta i sociologi giunsero alla conclusione che, benché il lavoro fuori casa contribuisse al benessere delle donne, la nascita dei figli tendeva ad annullarne gli effetti positivi. Nei vent’anni successivi è emerso un quadro più dettagliato, con studi che indicavano come i figli potessero compromettere la salute psicologica delle madri più di quella dei padri, e di un genitore singolo più che di una coppia sposata.
Nel 2004 cinque ricercatori, tra cui l’economista comportamentale e premio Nobel Daniel Kahneman, hanno chiesto a 909 donne lavoratrici del Texas quali attività dessero loro più piacere. La cura dei figli si è piazzata al sedicesimo posto su diciannove: dopo la preparazione dei pasti, dopo la televisione, dopo un sonnellino, dopo lo shopping, dopo le pulizie di casa. In uno studio tuttora in corso, Matthew Killingsworth, ricercatore dell’Università della California, ha scoperto che i figli chiudono anche la classifica delle persone la cui compagnia è gradita ai genitori. Come mi ha spiegato al telefono: «L’interazione con gli amici è preferibile all’interazione con il coniuge, che è preferibile all’interazione con gli altri parenti, che è preferibile all’interazione con i conoscenti, che è preferibile all’interazione con i genitori, che è preferibile all’interazione con i figli. I quali sono allo stesso livello degli estranei».
Sono dati che fanno riflettere, ma la storia che raccontano è incompleta: quando i ricercatori hanno tentato di quantificare le emozioni dei genitori, hanno ottenuto risultati molto diversi. Attingendo a 1,7 milioni di rilevamenti Gallup effettuati tra il 2008 e il 2012, Angus Deaton e Arthur Stone hanno scoperto che i genitori con un figlio sotto i quindici anni sperimentano più picchi positivi, oltre che più picchi negativi, rispetto agli adulti senza figli. E quando i ricercatori si addentrano in domande di natura più esistenziale, i genitori riferiscono un senso di maggiore appagamento e realizzazione personale. Riassumendo: i figli generano tensioni nella vita quotidiana, ma d’altro canto le conferiscono più valore.
C’è chi ha condensato sbrigativamente i risultati di questi studi in una singola, deprimente frase: I bambini ci fanno stare male. Ma trovo più pertinente la definizione di genitorialità offerta dallo scienziato sociale William Doherty: «Un’attività che ha costi alti e un rendimento elevato». E se i costi sono alti, forse è anche perché essere genitori oggi è molto diverso da un tempo.
Le parti più difficili restano una costante: la privazione del sonno, per esempio, che secondo i ricercatori della Queen’s University può talora inibire le nostre facoltà razionali al pari di un tasso alcolemico superiore ai limiti di legge. (...) È innegabile: le nostre vite di madri e padri sono diventate molto più complesse, e non abbiamo ancora sviluppato metodi efficaci per affrontarle. Questa assenza di norme a cui fare ri- ferimento comporta un fortissimo rischio di disagio personale e culturale. Naturalmente, negli ultimi decenni l’esperienza della genitorialità è cambiata sotto molti profili; ma mi sembra che tre aspetti l’abbiano complicata più degli altri. Il primo è la scelta: fino a non molto tempo fa, madri e padri non avevano il lusso di decidere il numero di figli e di pianificarne la nascita. Oggi, invece, molti considerano la nascita di un figlio come il coronamento dei successi di una vita, e la affrontano con lo stesso senso di autodeterminazione e individualismo con cui si imbarcherebbero in qualsiasi altro progetto; programmano le gravidanze in base alle proprie esigenze e applicano le filosofie educative che ritengono più efficaci. Poiché oggi ci accolliamo volontariamente questo impegno nutriamo aspettative più elevate: consideriamo i figli una fonte di appagamento esistenziale anziché una componente normale della vita. Entra in azione il principio di scarsità: attribuiamo più valore a ciò che è raro e a ciò che comporta più fatica. (...) C’è un secondo motivo per cui la nostra esperienza di genitori è diventata più complessa negli ultimi tempi: si è complicata la nostra relazione con l’attività professionale. (...) Ma resta irrisolto il problema della ripartizione delle responsabilità genitoriali. Né il governo né le imprese private si sono adattati a questa nuova realtà, perciò l’onere è ricaduto sulle spalle delle singole famiglie. E benché i padri di oggi siano coinvolti più attivamente nella cura dei figli rispetto alle generazioni precedenti, navigano alla cieca. Molte donne non sanno se essere grate per l’aiuto che ricevono o arrabbiarsi per quello che non ricevono; molti uomini faticano a trovare un equilibrio tra lavoro e vita in famiglia. Ne scaturiscono forti tensioni nella vita domestica. (...) Credo però che un terzo aspetto abbia contribuito più di ogni altro ad alterare la nostra esperienza di genitori: la profonda trasformazione del ruolo del bambino in famiglia e nella società. (...) L’economia famigliare ha smesso di basarsi su un sistema di reciprocità, in cui i genitori proteggevano e nutrivano i figli, che in cambio portavano a casa qualche soldo. La relazione è diventata asimmetrica: i bambini hanno smesso di lavorare e i genitori lavorano il doppio. I figli non sono più i nostri dipendenti bensì i nostri capi.

IL LIBRO
“Tanta gioia nessun piacere. Quando le mamme non si divertono”: il libro della giornalista americana Jennifer Senior in uscita per Rizzoli il 17 settembre. Nel testo un’anticipazione tratta dall’introduzione

Repubblica 15.9.14
Critiche, indignazione e applausi il bestseller che ha diviso gli Usa
di Anna Lombardi


QUANDO nel 2010 Jennifer Senior pubblicò sul New York Magazine un articolo intitolato “ Why parents hate parenting”, “perché i genitori odiano fare i genitori”, capì subito di aver toccato il tasto dolente di una nuova generazione di mamme e papà. L’articolo raccontava la sua esperienza di mamma di un bimbo di 2 anni, suggerendo che, pur adorando i nostri pargoli ci divertiamo sempre meno a crescerli. Opinione che scatenò un putiferio. Alla giornalista che poco prima di partorire aveva vinto il premio “miglior articolo politico dell’anno” per il profilo dedicato al “senatore con un sogno”: quel Barack Obama che poco dopo sarebbe stato eletto presidente degli Stati Uniti, arrivò una valanga di lettere. Nel paese delle soccer mom, le mamme-calcio pronte a seguire i figli ovunque, molte reagirono indignate: come poteva una mamma come loro dire che l’arrivo del pargolo le “sconvolgeva” l’esistenza pur ammettendo che quel piccolo terremoto era la luce dei suoi occhi? Ma tante altre mamme (e papà) le scrissero che in quell’articolo si erano riconosciuti. È nato così Tanta gioia e nessun piacere, il bestseller che, pubblicato in America all’inizio dell’anno, ha riacceso le polemiche. Perfino più di quell’inno alle “mamme tigri” della cino-americana Amy Chua, che pure proponeva metodi educativi estremi. Il saggio, che ora approda in Italia, edito da Rizzoli, fa il punto sugli ultimi studi mettendo insieme ricerche di sociologi, economisti, pediatri. Ma soprattutto racconta, attraverso le testimonianze di mamme e papà, come l’arrivo dei figli ha inciso sulla loro qualità della vita. Arrivando alla conclusione che ha fatto gridare allo scandalo: oggi essere genitori è un paradosso. Perché, appunto, i figli sono ancora l’esperienza più bella della vita. Ma anche la più devastante. «Non siamo più egoisti — ha spiegato l’autrice al New York Times — Ma negli ultimi decenni i cambiamenti sociali e tecnologici sono stati così radicali che il mestiere di genitore è cambiato. Esperienza più frustrante e impegnativa di quella dei nostri nonni, dei nostri genitori». D’altronde prima avere figli era una normale fase della vita, mentre oggi è normale non averne. Col risultato che chi li fa, magari in età avanzata sente doppiamente la responsabilità. E mette il bimbo al centro della sua vita. «Con la percezione, forte di quel che perde, in termini di libertà e autonomia». Coi figli grandi è peggio: «Interagire è difficile, farsi obbedire impossibile». Miserie dei genitori moderni? «La sfida è prendere coscienza del cambiamento. Studiare nuovi metodi educativi». Reinventare il difficile mestiere di genitore.

Repubblica 15.9.14
Quella batosta a Melegnano, e la Svizzera diventò neutrale
Un progetto per il 500° anniversario
di Franco Zantonelli

qui

Corriere 15.9.14
Pompei
Prima dell’eruzione, una città che amava le sue attrici
Methe, Cestilia e le altre Le donne di scena come star
di Eva Cantarella


Nel 79 d.C., quando scomparve, Pompei era una città fiorente, vivace e cosmopolita, nella quale diverse etnie e culture si erano nel tempo incontrare e al di là degli inevitabili problemi (e a volte veri e propri conflitti bellici) si erano alla fine amalgamate. Il primo nucleo di abitanti del luogo, nel VII sec. a.C., era composto da popolazioni osche. Grazie alla posizione particolarmente felice dello stanziamento, allo sbocco marittimo della ricca e produttiva area agricola dell’entroterra campano, la comunità divenne presto una fiorente cittadina, che nei primi secoli della sua vita subì l’influsso sia degli Etruschi (all’epoca ampiamente presenti nella zona), sia dei Greci la cui cultura (a seguito della sconfitta degli Etruschi da parte di una coalizione cumano-siracusana, nel 474 a.C.) prese peraltro il sopravvento. Verso la fine del V secolo una nuova popolazione, i Sanniti, calò dalle sue povere montagne stanziandosi tra l’altro anche a Pompei, e per finire nell’81 (secondo alcuni l’80) a.C. giunsero i Romani. Pompei, infatti, insieme agli altri alleati italici di Roma (i socii italici), stanchi di essere di fatto trattati come dei sudditi, aveva preso le armi per ottenere la cittadinanza romana, ma nell’89 era stata assediata da Silla, che dopo averla espugnata vi aveva stanziato una colonia. Pompei, insomma era un amalgama di etnie e di culture diverse, ciascuna delle quali aveva lasciato le sue tracce, contribuendo a renderla una città aperta, viva e pronta a recepire le novità.
La sua economia era fiorente. La straordinaria fertilità dell’agro campano aveva consentito di sviluppare diverse industre che esportavano i suoi prodotti. Il vino locale veniva venduto oltre che in Italia in Francia, Spagna, Africa e Germania. Fiorenti anche l’industria della ceramica e quella tessile , nonché la produzione di calzature. Tutto contribuiva a consentire agli abitanti della città una vita piacevole e varia, arricchita da una intensa vita culturale e da una serie di svaghi tra i quali, in particolare, frequenti rappresentazioni teatrali. Dopo un lungo periodo nel quale queste avevano avuto luogo in strutture provvisorie di legno erette nelle piazze e davanti ai templi, nel secolo a.C. la città si dotò di un edificio teatrale in muratura, il Teatro Grande, eretto presso il margine meridionale della città, la cui capienza, a seguito dei restauri di età augustea, arrivò fino a 5.000 persone. A darci un’idea delle popolarità di queste rappresentazioni sono i graffiti conservati sui muri della città, che testimoniano, in particolare, dell’entusiasmo dei pompeiani per le attrici che giungevano al seguito di compagnie girovaghe. Anche se non potevano recitare nelle tragedie e nelle commedie, ma solo nelle pantomime e nei mimi vi erano infatti numerose donne che calcavano le scene pompeiane: una certa Methe, ad esempio, definita attrice della «atellana» (un tipo di commedia di origine italica, così chiamata da Atella, in Campania); una Histrionica Actica, della compagnia di Aniceto; una Novella Primigenia, forse identificabile con una Primigenia di Nocera, il cui nome appare insieme a una serie di graffiti di saluto di una troupe di attori girovaghi. E poi una Cestilia, evidentemente molto apprezzata e popolare al punto da essere salutata come «la regina dei pompeiani».
L’attività teatrale a Pompei, insomma, era intensa, non solo nel Teatro Grande ma anche nell’Odeion (che poteva ospitare circa 1.500 persone), costruito a fianco del teatro nei primi decenni della colonia sillana, verosimilmente destinato ad audizioni musicali, scene mimiche, recitazioni e forse anche declamazioni letterarie e poetiche.
L’interesse per il teatro dei pompeiani traspare anche dalle raffigurazioni parietali con soggetti tratti da tragedie e commedie, e dall’ingente numero di maschere realizzate in marmo, in mosaico e in pittura, che decorano molte case della città. È bello, a distanza di quasi due millenni, vedere questo teatro tornare a vivere. Peccato solo (impossibile tacerlo) che ciò accada in un edificio, come il Teatro Grande, irrimediabilmente devastato da improvvide (a dir poco) opere di cosiddetto restauro.

La Stampa 15.9.14
Necropolis, la Parigi sotterranea fa paura
Direttamente dal film thriller-horror “La città dei morti” un viaggio nel labirinto di catacombe: 300 km di cave e 6 milioni di morti…
di Francesco Salvatore Cagnazzo

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il Fatto 15.9.14
Firenze ospita un big del Novecento: Pablo Picasso, con una serie di opere del Museo Reina Sofía di Madrid, tra cui i disegni, le incisioni e i dipinti preparatori per Guernica (20 settembre-15 gennaio, www.palazzostrozzi.org )
Roma consacra queste settimane a Ottaviano Augusto, di cui ricorrono i 2mila anni dalla morte: con 11 luoghi dedicati, convegni, aperture straordinarie e percorsi rinnovati, come quelli del Museo Palatino, della Domus di Augusta, del Vico Iugario nel Foro (www.beniculturali.it ).