martedì 16 settembre 2014

Corriere 16.9.14
In cinque giorni 800 migranti annegati
L’appello di Angelina Jolie da Malta: «Emergenza senza precedenti»
di Felice Cavallaro


PALERMO — Per arrivare al cuore delle cancellerie europee, per fare sentire la sua voce dalla Merkel a Rajoy, da Cameron a Valls e chiedere maggiore impegno dei governi nel sostengo ai migranti, Angelina Jolie, da inviata e da accompagnatrice speciale dell’Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati Antonio Guterres, è volata a Malta visitando il quartier generale del soccorso navale e incontrando a La Valletta tre sopravvissuti a uno degli ultimi naufragi, pietrificata dai racconti di alcune famiglie di rifugiati siriani scampati a una delle tragedie del Mediterraneo.
Toccante sia l’incontro dell’attrice con una coppia di Damasco che ha perso tre figli durante la traversata, sia quello con un medico di Aleppo che ha visto annegare la moglie e la figlia di un anno. Drammi che inquietano la protagonista di tanti film, immersa in una tragedia dalle proporzioni bibliche. Convinta che, oltre ai flussi dei migranti a rischio vita nelle traversate, la questione vada ricondotta a un problema più ampio: «Il crescente numero di persone sfollate a causa di conflitti in tutto il mondo ha raggiunto e superato quota 51 milioni. A meno che non si affrontino le cause profonde di questi conflitti, il numero di rifugiati destinati a morire o a non trovare protezione continuerà ad aumentare».
Un orrore per l’attrice di tante copertine, due Oscar, tre Golden Globe, tanti altri riconoscimenti, decisa a spendere se stessa in questa crociata accanto a Guterres, l’alto commissario rivolto alle cancellerie: «La risposta dell’Europa deve rappresentare uno sforzo veramente collettivo».
Echeggia l’appello mentre Flavio Di Giacomo dal quartiere generale dell’Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e l’Unhcr (l’organizzazione Onu che si occupa dei rifugiati) conteggiano i morti degli ultimi giorni calcolando che da venerdì scorso ne siano annegati 700, forse 800. Agli operatori Oim due sopravvissuti palestinesi, due ragazzi fuggiti da Gaza e andati in Egitto a inizio settembre, salvati dal mercantile panamense «Pegasus», hanno raccontato di un barcone affondato dopo accese sfuriate dagli stessi scafisti che avrebbero voluto trasbordarli in un piccolo natante. E questa sarebbe la tragedia più grande del Mediterraneo, più grande di quella del 3 ottobre dello scorso anno, quando furono recuperati 366 cadaveri, dramma che nell’anniversario registra una astiosa spaccatura all’interno del comitato allora costituito.
Ma c’è chi non ha tempo di litigare, come i volontari di tante organizzazioni umanitarie, il personale della Croce Rossa e i medici dell’Ordine di Malta presenti a Lampedusa con il direttore Mauro Casighini, ovvero sugli elicotteri che corrono fra i naufraghi, come Giacomo Pellitteri, felice di avere salvato un eritreo di 34 anni già in coma, Ahmad Idris Ali, raggiunto proprio sul «Pegasus».
Racconti incrociati quelli dei naufraghi e dei loro salvatori. Registrati da Angelina Jolie nell’appello all’Europa: «La portata di questa crisi impone a tutti noi di svegliarci. C’è un legame diretto tra i conflitti in corso in Siria e altrove, e l’aumento delle morti in mare nel Mediterraneo. Dobbiamo renderci conto che ciò che spinge le persone a prendere la terrificante decisione di rischiare la vita dei loro figli a bordo di navi insicure e sovraffollate è l’impellente desiderio di trovare protezione».

il Fatto 16.9.14
Mediterraneo, mattanza che lascia indifferenti
L’Alto Commissario per i rifugiati: Oltre 800 morti nel fine settimana, crisi umantaria senza precedenti
di Veronica Tomassini


Oltre 800 fra morti e dispersi solo negli ultimi giorni nel Mediterraneo. “È una crisi umanitaria senza precedenti”, ha detto l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), che fino a domenica stimava 2500 morti dall’inizio dell’anno. L’ultima tragedia si è verificata al largo di Tripoli. Eppure, ormai sembra una vicenda lontana, che non ci appartiene. Non urliamo a ragione della tragedia, come quella folla impazzita dall’orrore, raccontata da Malaparte, nelle campagne della guerra, tra carogne fumanti ancora di empietà. I morti finiscono nell’abisso, con buona pace, sono i morti degli altri e non abbiamo oboli da consegnare, gli empi hanno altri nomi, li abbiamo dimenticati, i morti sono morti, dei barconi, peggio ancora. Vengono qui, gli irresoluti, tornassero a casa loro (è un berciare diffuso), non lo faranno mai, temono taluni, i più previdenti. Confezioneremo nuovi sillogismi , le conseguenze le lasceremo a ottimi teorici dell’eloquenza. È il massimo che possiamo fare. Moriranno ancora, pusillanimi o irresoluti o impavidi, noi da qui dall’Occidente invocheremo pigramente l’Europa, ancora, una posa confacente al nostro giudizioso modo di guardare le cose da qui, se anche gli altri muoiono noi
che possiamo farci. Sono sbarcati, intendiamo i vivi, noi li accogliamo, siamo l’Occidente, non l’Occidente con la pancia piena di sterco, siamo un onere democratico che consegna al futuro prove di giustizia teoretica da applicare, di cui dibattere, sbadigliando a tratti; mentre gli altri, gli irresoluti per taluni, muoiono, ma sono i morti degli altri tutto sommato. Non riusciamo a tenere il conto, altri 500 dispersi-morti-cadaveri-assenti, al largo delle coste maltesi, ma prima c’erano quelli della Libia. Quanti erano? Un corteo di becchini, apatici, sonnacchiosi, siamo noi, i nostri commenti, seduti in poltrona, recitiamo con indolenza il medesimo Requiem, sappiamo
commiserare, abbiamo smarrito la prestanza nel farlo, ma non importa, in fondo è il tedium perenne della tragedia. Pedissequa tragedia, uguale a se stessa. Troveremo una maniera dignitosa di chiamarli, assenti, ecco, in luogo di cadaveri, di ingombri lucidi e scivolosi; stranissimi pesci, guaivano come fiere altrimenti, o promanavano suoni gutturali terrificanti o simili a quelli dei gabbiani prima della tempesta: nel naufragio dell’11 ottobre 2013, i morti, prima di diventarlo, erano gabbiani, gemevano con un suono sordo prossimo all’orrore.
UN MONOTONO fragore eppur garrulo arrancava fino a bordo dei pescherecci, nessuno pensava ai morti, in quella notte di ottobre, a largo di Lampedusa, ma erano morti o quasi. Uomini vascello, nella memoria della gente del mare, colavano a picco con le loro pupille-vascello, o guizzavano inarcando la schiena come delfini, e c’è una similitudine contigua a ogni dettaglio. Solo in quella data l’orrore ci parve qualcosa che potesse attenere al Creato, e infatti quella data la ricordiamo, abbiamo usato e strizzato la pietà, fino all’ultimo spasimo. Ne aspettiamo altri? Di morti, intendiamo, non vorremmo asserire, tuttavia è nella rosa delle probabilità. Sussulteremo appena, d’altronde è un parossismo, ci si fa la mano, proprio nel momento in cui si pensa che si compia l’inenarrabile, l’inenarrabile non lo è più, e si è già un pochino oltre. Sappiamo superare ogni grado di asticella, il limite del genere umano è non averlo.

La Stampa 16.9.14
La portavoce dell’Unhcr
“I soccorsi non bastano più. L’Ue consenta arrivi legali”
Carlotta Sami: “In mare più decessi che a Gaza”
Secondo i calcoli dell’Onu nel 2014 i morti sono già stati 2500 Nel 2011 furono 1800
intervista di Francesca Paci


Ecatombe, strage, naufragio biblico: le parole non bastano a raccontare l’ennesimo carico di migranti inghiottito avidamente dal Mediterraneo. Ci prova Carlotta Sami, che nel ruolo di portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) raccoglie le voci e le storie dei sopravvissuti.
Ogni volta ci troviamo di fronte a cifre che non avevamo mai raggiunto prima. Oggi è peggio di sempre?
«Secondo i nostri calcoli ci sono stati almeno 600 morti nel weekend, un numero senza precedenti in un anno che conta già circa 2700 vittime, molte di più delle 1800 del 2011. Non era mai accaduto di vedere 130 mila persone attraversare il Mediterraneo in soli nove mesi. È anche vero però che adesso c’è un’operazione organizzata di ricognizione come Mare Nostrum grazie alla quale abbiamo una panoramica precisa: chissà che anche prima il fenomeno non fosse superiore alle stime».
Di certo va sempre peggio.
«Mentre parliamo ci sono almeno 3 operazioni Mare Nostrum in corso, nelle ultime settimane in Italia sono arrivati in media mille migranti al giorno e anche in Grecia, dove gli sbarchi avvengono su isole piccole e non attrezzate, la situazione è grave. Giorni fa il Washington Post parlava di un’estate nera, con 2170 morti denunciati da Hamas a Gaza, 1500 in Ucraina, la Libia, la Siria, l’Iraq: vorrei aggiungere il Mediterraneo, le vittime del mare sono l’effetto delle medesime crisi».
Mare Nostrum è al termine: è stata una risposta adeguata?
«È stata molto efficiente sul piano umanitario, ma può essere solo una parte della risposta necessaria che deve invece diventare una risposta europea».
L’impressione è che, slogan a parte, Mare Nostrum non confluirà in un’azione europea più grande. Pattuglieremo di più le coste e salveremo di meno?
«Confidiamo in uno sforzo integrato, più mezzi per la ricognizione ma non minor impegno nel soccorso. Anche perché il maggior numero di morti non si registra in acque europee. Se calassero le operazioni di salvataggio sarebbe una tragedia».
Il Nord Europa accusa Mare Nostrum di aver galvanizzato i trafficanti. È così?
«Non è dimostrabile che la prospettiva di essere soccorsi abbia moltiplicato il numero dei migranti, siamo di fronte a un palazzo in fiamme e cambia poco se c’è o meno il materasso di salvataggio. Da 3 anni il 50% di chi sbarca ha diritto alla richiesta d’asilo perché scappa da Paesi come Siria, Eritrea, Somalia. Il punto è che al soccorso va affiancato un impegno europeo per consentire arrivi legali, penso a programmi di reinsediamento e visti umanitari. I sopravvissuti raccontano che non immaginavano di affrontare un viaggio peggiore della guerra rimasta alle spalle: potendo, eviterebbero traversate così».
Che ne è dei 130 mila giunti in Italia da gennaio? È vero che non vogliono restare qui?
«Sì, molti si oppongono all’identificazione delle impronte prevista dal regolamento di Dublino perché l’Italia non è la loro meta. È necessario reinterpretare le norme e renderle più flessibili per esempio sui ricongiungimenti familiari, l’Europa può e deve fare di più perché il problema riguarda tutti, la criticità si sta spostando al nord, a Calais in Francia, in Svezia. L’Italia ha avuto un grande ruolo nel soccorso ma deve impegnarsi maggiormente nell’integrazione e far rispettare le regole sull’identificazione. Va detto però che quando in un giorno arrivano 5 mila migranti e in maggioranza rifiutano di lasciare le impronte le autorità italiane sono in seria difficoltà».

Repubblica 16.9.14
“Subito i visti umanitari tre milioni di profughi in fuga verso l’Europa”
di Salvo Palazzolo


«NON riesco neanche a immaginare quanti possano essere», ripete Carlotta Sami, portavoce in Italia dell’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, a proposito di questa strage continua e prolungata di migranti. «Fuggono verso l’Europa dai luoghi dove si combatte e si muore: dall’Ucraina, da Gaza, dalla Libia, dalla Siria, dall’Iraq. Un numero enorme di persone. Hanno diritto di essere accolti tutti, bisogna trovare il modo di farli arrivare in modo legale e sicuro. Perché fuggono dalla guerra e da violenze inaudite».
Qual è l’entità di questa crisi?
«È davvero difficile fare stime, soltanto i rifugiati siriani sono tre milioni. La maggior parte di loro si trova in Libano, Iraq, Giordania e Turchia. E dall’inizio dell’anno in Europa sono arrivate 130 mila persone, il doppio dell’anno scorso».
Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Intanto, tutti dovrebbero comprendere che dietro quei numeri allarmanti ci sono volti, storie di uomini e di donne, giovani e bambini. A loro bisognerebbe offrire opportunità concrete per raggiungere l’Europa: per esempio, attraverso visti umanitari. Oppure, attraverso sponsorizzazioni che consentano ai più giovani di studiare nelle nostre scuole, nelle nostre università. Si potrebbero attivare anche progetti di reinserimento, o visti specifici per il lavoro».
Quanti sono i rifugiati che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa?
«Rappresentano almeno il 50 per cento di quelli che salgono sui barconi della speranza, ecco perché bisogna attivarsi al più presto per evitare altre stragi del mare. L’Europa deve trovare una strategia politica di intervento».
Che ruolo può avere l’Italia in questa nuova sfida per l’accoglienza dei rifugiati?
«L’Italia sta già facendo molto per il salvataggio in mare e per l’accoglienza dei migranti. L’esperienza maturata sarà di certo importante, soprattutto per vincere quell’indifferenza al problema che spesso diventa il principale ostacolo alla risoluzione dell’emergenza dei rifugiati. Perché i numeri e le statistiche continuano a prevalere sulle storie dei profughi. Per noi è una battaglia quotidiana, per cercare di accendere i riflettori sulle cause che portano così tante persone a fuggire dalla propria terra, in ogni modo, anche rischiando la vita in mare».

il Fatto 16.9.14
I beati muscoli dell’Opus Dei
Dopo Escrivá, beatificazione lampo anche per il successore Del Portillo. A Madrid, non a Roma. Ma la partita vera, ora, si gioca in Cina
di Marco Politi


Farsi riconoscere un santo e un beato nell’arco di soli 12 anni è un record per
un’organizzazione religiosa. L’Opus Dei festeggerà sabato 27 settembre questo trionfo di potenza. A Madrid verrà beatificato il successore di Escrivá de Balaguer, mons. Alvaro del Portillo, che dal 1975 al 1994 guidò l’esercito opusdeino.
Il rito sarà celebrato nella capitale spagnola anche se l’Opus avrebbe preferito – per ovvii motivi d’immagine – una solenne cerimonia in piazza San Pietro. Ma Benedetto XVI (restio a continuare con la “fabbrica” di santi e beati, promossa da Giovanni Paolo II) aveva disposto a suo tempo che a Roma i pontefici celebrano solo i nuovi santi, non i beati. Sicché gli opusdeini si consolano, dicendo che a Roma non c’era abbastanza spazio per contenere l’immensa folla che accorrerà all’evento. La canonizzazione-lampo di Escrivá, avvenuta ad appena 27 anni dalla morte, suscitò all’epoca aspre polemiche. Per il protezionismo papale di cui aveva goduto la procedura rapidissima, per l’esclusione di testimoni contrari, per l’autoritarismo inesorabile con cui Escrivá aveva retto l’organizzazione e per molti altri motivi riguardanti la visione di Chiesa propugnata dall’Opus in contrasto con il riformismo conciliare.
La beatificazione di Alvaro del Portillo, perseguita con un lavoro di lobbying instancabile, non ha suscitato particolari emozioni. Tutt’al più è stata valutata come segno di una bulimia di prestigio da parte di un’organizzazione, che evidentemente non ha saputo accontentarsi della santificazione – già privilegiata – del fondatore. In effetti con migliaia di preti, suore e semplici fedeli impegnati a testimoniare il cristianesimo in condizioni spesso difficili e oscure, forse qualcuno o qualcun’altra avrebbe meritato di arrivare prima di Portillo alla definizione di “beati”.
PROBABILMENTE, in prospettiva storica, il rito di Madrid rappresenta gli ultimi fuochi di una sovraesposizione e un legame strettissimo con la sede papale che ha avuto il suo apogeo con Giovanni Paolo II, quando l’Opus e Comunione e liberazione erano le punte di lancia del progetto wojtyliano di “rievangelizzazione”. Già durante il suo pontificato Benedetto XVI, dopo una prima fase di elogio per i nuovi movimenti cattolici nati nel Novecento, era tornato a mettere l’accento sulle parrocchie e le diocesi.
Con Francesco non ci sono certamente “figli prediletti”. A Buenos Aires Bergoglio era in rapporti normali con l’Opus, il cardinale di Lima Luis Cipriani si è collocato al tempo del conclave nel gruppo degli elettori di Bergoglio e nella commissione di indagine sullo Ior (ormai sciolta) papa Francesco ha inserito nel 2013 l’opusdeino mons. Juan Ignacio Arrieta Ochoa, esperto di organizzazione della Chiesa. Opusdeino è anche mons. Vallejo Balda, segretario della Prefettura per gli Affari economici del Vaticano, nominato nella commissione referente per la riorganizzazione finanziaria della Santa Sede, ma poi bruciatosi per avere patrocinato l’inclusione della pr Francesca Immacolata Chaouqui, troppo affetta da protagonismo: con il risultato che – terminato ill lavoro della commissione – la Chaouqui è stata ignorata e Vallejo Balda non è stato chiamato a far parte del nuovo ministero delle Finanze vaticano. Insomma nell’era di Francesco l’Opus non è più centrale, è trattata normalmente. Ma questo non significa che non possa giocare un ruolo importante in certe situazioni di frontiera.
CON I SUOI oltre duemila sacerdoti e novantamila aderenti (fra cui ottimi professionisti nel campo tecnico-scientifico-ospedaliero-pedagogico), con la sua rete di università, scuole, collegi, centri di formazione professionale, fondazioni culturali, cliniche e centri di assistenza l’Opus può svolgere un ruolo di presenza in nazioni dove il cattolicesimo non è maggioritario. La Cina è la frontiera attualmente più interessante e delicata per la Chiesa cattolica. Francesco, come già Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, vorrebbe allacciare finalmente rapporti con l’“Impero d Mezzo”. Aderenti all’Opus Dei operano già, nell’ambito strettamente professionale nella Cina rossa. A Hong Kong – tramite essenziale con la Cina – l’Opus ha aperto un centro culturale per universitari e giovani professionisti. A San Francisco infine, con lungimiranza, ha creato quasi 10 anni fa nel quartiere cinese un centro di istruzione e assistenza per donne e bambine. Scelta strategica. I legami familiari cinesi sono tenacissimi e superano l’Oceano Pacifico.

Corriere 16.9.14
Il debutto di Carlo Salvatori nel consiglio dello Ior
di M. A. C.


Carlo Salvatori, presidente di Lazard Italia e Allianz spa, ex presidente di Unicredit, entra nel board laico dello Ior, la banca vaticana. E’ l’unico italiano e oggi parteciperà al primo consiglio presieduto da Jean-Baptiste de Franssu, il presidente nominato a luglio. Il board (o consiglio di sovrintendenza) che ormai è composto da sei membri (e non più cinque), è stato anch’esso completamente rinnovato. Ai quattro componenti resi noti a luglio (oltre de Franssu, il tedesco Clemens Börsig, l’americana Mary Ann Glendon, l’australiano sir Michael Hintze) si vanno ora ad aggiungere Salvatori e Mauricio Larrain Garcés,storico ex presidente del Banco Santander del Chile, e attualmente membro del direttorio della banca cilena, che è la più grande banca del Paese sudamericano. Le nuove nomine sono state vagliate dall’ultimo Consiglio per l’economia riunito il 5 settembre scorso sotto la presidenza del cardinale Reinhard Marx, e con la partecipazione dei cardinali Pietro Parolin, segretario di Stato, e George Pell, prefetto della Segreteria per l’Economia. L’indicazione di Salvatori si deve a Parolin, che già a fine giugno lo aveva nominato nel nuovo Comitato di presidenza dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù. Intanto, il Papa, sabato 13 settembre ha nominato il cardinale Pell tra i nuovi membri della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, di cui è prefetto il cardinale Fernando Filoni e che possiede un imponente patrimonio immobiliare.

Repubblica 16.9.14
Quando il Papa parla del sesso dell’anima
di Vito Mancuso


LANOSTRAp iccola anima non si perderà mai se continua a essere anche una donna, vicina a queste due grandi donne che ci accompagnano nella vita, Maria e la Chiesa»: così ieri nell’omelia mattutina ha affermato papa Francesco. Sono parole sorprendenti.
IL Papa sostiene forse che l’anima è una donna? Che la nostra anima cioè possiede un sesso e la sua identità è femminile? Oppure si tratta solo di un’immagine poetica, dettata dal fatto che il termine anima in italiano e nelle principali lingue occidentali (spagnolo compreso, nonostante l’articolo maschile al singolare) è femminile?
Quello che è sicuro è che nell’omelia di ieri il Papa ha affermato una delle più tradizionali dottrine cattoliche di sempre, cioè che Maria, madre biologica di Gesù, è anche la madre spirituale di ogni cristiano e che in questa prospettiva anche la Chiesa assume un volto femminile e materno. La Chiesa infatti, «quando fa la stessa strada di Gesù e di Maria», è madre, così che, ha continuato il Papa, «queste due donne, Maria e la Chiesa, generano Cristo in noi». A questo punto però, in analogia con le due donne maggiori, il Papa è giunto a parlare dell’anima umana come di una terza donna, che assomiglia alle prime due anche se è più piccola: «La nostra piccola anima non si perderà mai se continua a essere una donna». Ritorna così la questione: si tratta solo di un’immagine poetica oppure realmente l’anima va pensata al femminile?
La dottrina ecclesiastica sull’anima si può compendiare in tre precise affermazioni che ne dichiarano l’identità, l’origine e il destino. Quanto all’identità, il cattolicesimo pensa l’anima come un’essenza spirituale strettamente unita con il corpo materiale cui conferisce forma, e per questo parla di essa in termini di forma corporis (con evidente eredità aristotelica). Quanto all’origine, la dottrina cattolica sostiene che l’anima viene creata direttamente da Dio senza nessun concorso dei genitori, e che ciò avviene nello stesso istante del concepimento biologico, quando lo spermatozoo maschile feconda l’ovulo femminile (non più quaranta giorni dopo, come affermava san Tommaso d’Aquino e altri insigni teologi del passato). Quanto al suo destino, il cattolicesimo afferma che l’anima è immortale (con evidente eredità platonica), sostenendo che essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo; anzi, essa verrà di nuovo unita al corpo alla fine dei tempi quando i corpi di carne verranno richiamati in vita. Al di là della plausibilità di queste dottrine da me indagate analiticamente nel libro L’anima e il suo destino , va notata l’assenza nella dottrina cattolica di ogni riferimento al sesso dell’anima. Anzi, essendo l’anima un’essenza spirituale, ed essendo lo Spirito al di là di ogni determinazione sessuale che consenta di parlarne in termini maschili o femminili (l’apposito termine è femminile in ebraico, maschile in latino, neutro in greco), sembrerebbe di dover concludere che l’affermazione di ieri di papa Francesco rientra nell’ambito delle immagini poetiche che i predicatori amano utilizzare nelle loro omelie senza nessuna diretta attinenza alla realtà ontologica dell’anima.
Io però ritengo che non sia così, e al contrario scorgo dietro l’intuizione papale un concetto molto importante che occorre sottolineare e su cui si dovrebbe riflettere attentamente. Per comprenderlo occorre rispondere a due domande, la prima delle quali è la seguente: quale fenomeno fisico portiamo al pensiero quando pronunciamo il termine anima?
Rispondere è decisivo, perché se non si è in grado di mostrare il fenomeno fisico per esprimere il quale è sorto il concetto di anima, tale concetto risulta nulla più che un mitico retaggio del passato. La mia risposta è la seguente: il fenomeno fisico che supporta il concetto di anima è la vita. Vita, ovvero quella particolare disposizione dell’energia che fa sì che un fenomeno fisico (un fiore, un orso) sia “animato”, a differenza di un altro fenomeno fisico (una pietra, una nuvola) che invece è “inanimato”. Il concetto di anima esprime la particolare condizione dell’energia in alcuni fenomeni fisici secondo cui il totale della loro energia non è del tutto condensanoscenze. to nella loro massa materiale, in essi rimane un’eccedenza di energia libera che consente al corpo di muoversi, di essere animato cioè vivente.
Ora la seconda domanda: qual è la logica fondamentale mediante cui si muove quel surplus di energia libera che ci fa esseri vivi e che chiamiamo anima, ma che potremmo anche chiamare vita? La mia risposta è la seguente: è la logica della relazione, dell’armonia relazionale, della cooperazione. La vita non è un fenomeno individuale, ma è da subito un fenomeno sociale, aggregativo: perché essa possa sorgere occorre l’aggregazione di quattro componenti biochimici quali proteine, zuccheri, grassi, acidi nucleici; perché essa possa evolversi occorre l’aggregazione di miliardi di cellule, e poi di tessuti, organi, sistemi di organi; perché essa possa esprimere sapienza occorre l’aggregazione di esperienze e coanche Ne viene che il nome filosofico della vita in tutte le sue manifestazioni è relazione.
E la relazione, eccoci al punto, è l’essenza della femminilità; di ciò che Goethe a conclusione del Faust denomina «das Ewig-Weibliche», l’Eterno Femminile, intendendo con ciò la logica al contempo naturale e divina mediante cui la vita si genera e si diffonde nel mondo, la medesima logica che salva Faust dal patto con Mefistofele donando alla sua anima «il perdono meritato». Anche il gesuita Teilhard de Chardin amava ricorrere al femminile per connotare la logica che muove la materia: «Il Femminino ossia l’Unitivo».
L’anima spirituale è quindi femminile, ha detto bene il Papa, lo è in quanto espressione della logica orizzontale della relazione, ben distinta dalla logica verticale dell’imposizione deduttiva che caratterizza l’archetipo del maschile. Tale consapevolezza del genere femminile della grammatica della vita spirituale si va sempre più diffondendo nel mondo, così che la Chiesa cattolica potrà uscire dalla sua crisi solo aprendosi al mondo femminile in tutte le sue strutture. Ovviamente gerarchia compresa. Il primo passo è il diaconato, e questo è possibile anche domani solo che il papa lo voglia davvero e non siano solo retorica omiletica le sue parole sulla femminilità della Chiesa. Non sarebbe ora di mettere fine al paradosso di una Chiesa che è donna, e la cui gerarchia è composta solo da maschi?

il Fatto 16.9.14
La Sinistra che in Italia non esiste più
di Giuseppe Alù


Non c’è Sinistra in Italia. Violante, Bertinotti, D'Alema e altri ne sono la prova. Nessuno del Pci, Pds, Ds e neanche della Dc fa parte della squadra di Renzi che dovrebbe rappresentare il Pd. Poiché Renzi non durerà più della attuale legislatura, non per demerito ma perché non è proprio capace di agire senza recitare o mentire, questo è il momento che qualche personaggio forte e carismatico si presenti a ricostituire una nuova Sinistra. Bisogna riempire il vuoto che si formerà in quella parte politica. E bisogna pensarci in tempo! C'è qualcuno?

il Fatto 16.9.14
Rivolta contro Renzusconi
Consulta, decima fumata nera. I franchi tiratori di Pd e Forza Italia impallinano i candidati del Patto del Nazareno: Luciano Violante(Pd) e Donato Bruno (FI)
È la fronda che si oppone su entrambi i fronti al “partito unico” di Renzi e Berlusconi
Un’intesa che si è già saldata in tutta Italia per governare le ex Province e le Aree metropolitane
Oggi il premier costretto a celebrare i suoi 1000 giorni in un Parlamento in subbuglio
di Fabrizio d’Esposito


Donato Bruno, insaccato dentro un ampio doppiopetto blu berlusconiano, fende per l’ennesima volta il Transatlantico, apre la porta-finestra che dà sul cortile di Montecitorio, scende pochi gradini e si accende la decima sigaretta in meno di un’ora. Quanto fuma, Bruno. L’avvocato pugliese che vuole diventare giudice costituzionale è in ansia ma ai cronisti dice: “Sono sereno”. Usa l’aggettivo più sfigato nell’era renziana. Accanto a lui, c’è Nitto Palma, ex guardasigilli, tabagista come Bruno. Sono due previtiani di acciaio, “Nicola” e “Nitto”. Nel giro di un fine settimana, Bruno da alfiere della ribellione di Forza Italia contro B. (che voleva il giannilettiano Catricalà) è diventato uno dei due simboli del patto renzusconiano sulla Consulta. Un giudice al Pd, l’altro al partito del Pregiudicato. Ma la fumata è ancora nera, nera, nera.
E sono dieci senza risultati
La decima votazione per eleggere i due nuovi componenti della Corte costituzionale inizia alle quindici. Nel Pd, resiste la candidatura di Luciano Violante, dalemiano nonché uomo del Colle. Ma per la coppia Violante-Bruno è da subito brutto tempo. Le previsioni negative si sprecano. I berlusconiani fedeli a Denis Verdini, lo sherpa dell’accordo del Nazareno, vanno in giro a rassicurare i colleghi democratici. Mostrano un sms sul telefonino. “Vedete, non è vero che stiamo votando solo Bruno, le indicazioni sono per tutti e due, per lui e Violante”. Segue declamazione del messaggino. Allo stesso tempo, nell’emiciclo della Camera, il fiore renziano delle riforme, Maria Elena Boschi, accarezza e massaggia la schiena del previtiano. Il ministro bissa il bacio quasi carnale con il già citato Verdini al Senato, quando è stata approvata in prima lettura la distruzione della nostra Carta. Berlusconiani e renziani si baciano, si accarezzano, si parlano, ridono insieme ma sulla Consulta non ce la fanno. Bocciato Bruno, bocciato Violante. Il previtiano raccoglie 529 voti, il dalemiano uno in più, 530. Sulla nuova faccia oscura dell’intesa Bierre (copyright Formica) si sfogano tutti i mal di pancia contro l’inciucio tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato. I più forti sono dentro Forza Italia. Ed è quasi un paradosso. Il ribelle Bruno si è trasfigurato nel candidato istituzionale ma non ce la fa. Sulla carta, democrat e azzurri assommano ben 553 tra senatori e deputati. Il quorum è di 570. Con i 110 centristi circa (alfaniani, casiniani, ex montiani), si dovrebbe volare. Non è così. La settimana scorsa, Violante venne falcidiato dalla faida interna forzista e si fermò a 468, mentre Bruno sfondò con 120 voti bruciando per sempre il nome di Catricalà. Adesso la colpa, dicono, è degli assenti. Votano in 802. Gli azzurri che mancano sono una quindicina. Fatti altri calcoli complicati, viene fuori che i malpancisti di destra sono almeno una quarantina, compresi i dissidenti dell’ex governatore pugliese Raffaele Fitto.
Obiettivo Nazareno
Il vero obiettivo dei ribelli è il patto del Nazareno nelle sue varie forme. La più indigesta è quella con la chioma leonina e argentata di Verdini. L’accordo gli ha dato un potere immenso e in fondo, raccontano, la paternità del fallimento di Catricalà è sua. Doppio gioco, che sarebbe stato completato, raccontano sempre, se il Pd avesse giubilato definitivamente Violante. Un trappolone ordito, in pratica, da due toscani, lui e “Matteo”. Violante, però, per il momento non desiste, nonostante tre bocciature. Qualcuno lo chiama “accanimento terapeutico”. Oggi si riprenderà alle 18 e i renzusconiani stavolta confidano nel superamento del quorum. Se i due dovessero farcela contribuirebbero ad alzare il tasso di politicizzazione della Consulta. Non era mai accaduto sinora. Violante, Bruno e il già nominato (dal Colle) Giuliano Amato, ex craxiano. Tenendo presente i due giudici che scadono a novembre in quota Napolitano, il tasso potrebbe aumentare ancora. È la via renzusconiana per uscire nel modo peggiore, e con la benedizione del Quirinale, dal ventennio di guerra tra politica e magistratura. Non solo.
Prove generali per il Quirinale?
Una frase di Renato Brunetta, capogruppo azzurro alla Camera, sembra profetica: “Con 530 voti non si cambia candidato, con questi numeri si elegge il presidente della Repubblica”. Nel garbuglio di ipotesi per il 2015, propedeutica all’eventuale voto politico potrebbe essere l’annunciata successione di Napolitano. Oggi a Roma tornerà anche il Condannato. Da giorni, più fonti riferiscono di un nuovo incontro tra B. e il premier. Con la vicenda Violante da un lato, con quella Catricalà-Bruno dall’altro, per la prima volta il loro sarà un vertice che somma due debolezze.

il Fatto 16.9.14
Scelti con cura
L’ineleggibile, l’ex sottosegretario e l’ex ministro: ecco il nuovo Csm
di Ma. Pa.


Arrivano in serata, dopo la notizia che né Luciano Violante né Donato Bruno hanno conquistato la Corte costituzionale, altri tre nomi per il Consiglio superiore della magistratura: sono i “laici” - nel senso che li elegge il Parlamento e non una delle magistrature - Elisabetta Alberti Ca-sellati (in quota Forza Italia), Renato Balduzzi (Scelta Civica) e Teresa Bene (Partito democratico). Tutti passati a un pelo dal quorum di 482 voti del settimo scrutinio (i tre quinti degli 802 votanti): Casellati ha raccolto 489 voti, gli altri due 486. Il trio si aggiunge ai colleghi Giovanni Legnini (Pd), Antonio Leone (Ncd) e Giuseppe Fanfani (Pd), eletti la scorsa settimana.
ORA ALL’APPELLO mancano gli ultimi due componenti “laici” del Csm: dovrebbero essere Luigi Vitali per Forza Italia e Nicola Colaianni, proposto dal Movimento 5 Stelle, hanno portato a casa rispettivamente 418 e 125 voti. Per loro servirà l’ottava votazione, che andrà di pari passo con quella per i due membri della Consulta di nomina parlamentare. Fin qui la cronaca, ma analizzando i tre nuovi nomi regalati al Csm dal nostro Parlamento c’è più di un dato da sottolineare.
Partiamo da Teresa Bene, giurista di area democratica. La professoressa è stata infatti eletta nonostante, come Il Fatto Quotidiano ha già scritto la scorsa settimana, non abbia i titoli per sedere nel Consiglio superiore: Bene è docente universitaria, ma associato e non ordinario come prevede la norma; è anche iscritta all’Ordine degli avvocati da più di 15 anni, ma non risulta esercitare la professione legale come invece prescrive la legge per essere eletta al Csm. Sarà un’apposita commissione nominata nella prima seduta del nuovo Consiglio a dover sbrigare la pratica e decidere se Bene può o no sedere nell’organo di autogoverno della magistratura (la stessa situazione potrebbe verificarsi per Vitali, sotto inchiesta a Napoli).
Gli altri due presentano problemi meno rilevanti: Renato Balduzzi è l’ex ministro della Salute di Mario Monti, che però di suo è professore (ordinario) di diritto costituzionale. Dal febbraio 2013, sempre in area montiana, il nostro è stato eletto pure deputato: cattolico assai ben introdotto nelle gerarchie vaticane, titolo non secondario nemmeno al Consiglio superiore della magistratura.
ELISABETTA Alberti Casellati, veneta, senatrice di Forza Italia, come primo atto della sua nuova vita al Csm ha voluto sottolineare la sua indipendenza: ha fatto immediatamente sapere di aver telefonato a Silvio Berlusconi, noto pregiudicato. Esperta in diritto canonico e ecclesiastico, in Parlamento dal 1994, nei governi del fu Cavaliere è stata sottosegretario alla Salute (2004-2006) e alla Giustizia (2008-2011). Da eletta o da membro del governo, ovviamente, non s’è risparmiata sulle leggi ad personam e questo la rende perfetta per il Consiglio superiore.

La Stampa 16.9.14
E il Pd non obietta su Bruno
berlusconiano doc e amico di Previti
di Ugo Magri


Il segreto di Donato Bruno, che l’ha portato fin quasi sulla soglia della Consulta, è questa sua aria ammiccante, da gran furbacchione. Lo incontri e subito lui, cordialmente, corre incontro e ti saluta. Gli rivolgi la parola e, anziché guardare l’orologio, si mostra paziente, col sorriso sulle labbra. Ha un vocione dal timbro baritonale che rassicura. Raramente si sbilancia nei giudizi, specie se tranchant; in compenso ascolta come se fosse un confessore o, perlomeno, ne dà l’impressione... Di politici così alla mano ne circolano pochi, più facile incontrare personaggi tronfi o narcisi. Per cui già questo sarebbe sufficiente a fare di Bruno un beniamino, amatissimo dai peones di Forza Italia che l’hanno portato sugli scudi, al punto da vincere i dubbi di Berlusconi. Perfino a sinistra l’uomo risulta simpatico, tanto che da quella parte nessuna voce si è levata per contestare il ticket con Luciano Violante. E a pensarci un attimo è ben strano questo sostegno afasico del Pd, forse addirittura è la dimostrazione di quanto quel partito sia mutato in fretta, perché fino a poco tempo fa nessuno si sarebbe sognato di dare via libera a una candidatura così marchiata, anzi il solo ipotizzarla avrebbe provocato scandalo e proteste tra i più timorati in quanto tutti sanno che Bruno è un vecchio sodale di Previti, che ha difeso «Cesarone» in Parlamento, che i due tuttora si frequentano, si consultano, agiscono di conserva.
La circostanza in sé non deve meravigliare: entrambi in fondo sono berlusconiani (Previti ormai un po’ meno), tutti e due esercitano la professione di avvocati, l’uno e l’altro prosperano sulla piazza di Roma. Bruno viene dalla Puglia, per l’esattezza nacque 65 anni fa a Noci che si trova nelle Murge baresi, ma da tempo immemore si è trasferito nella Capitale. Ha uno studio elegante in Via Veneto con tre segretarie e otto associati, tra i quali il figlio Nicola balzato agli onori delle cronache (con grande tormento di papà) nell’ambito dell’inchiesta recente sulle baby-squillo dei Parioli. Più che di cause civili, lo studio Bruno è fulcro di transazioni e di affari che vanno a gonfie vele, se è vero che 3 anni fa il candidato bipartisan alla Consulta aveva dichiarato redditi per la bellezza di 1 milione 751 mila euro. Chi frequenta il noto ristorante «Da Tullio», in via San Nicola da Tolentino, spessissimo lo incontra in compagnia dei suoi facoltosi clienti, a cominciare da Stefano Ricucci, l’immobiliarista che 9 anni fa era sotto i riflettori per la love story con la Anna Falchi e per l’inchiesta giudiziaria sui «furbetti del quartierino». Un altro immobiliarista che Bruno considera più d’un fratello è Renato Della Valle. Trascorrono le vacanze insieme, qualcuno sostiene che abbiano pure interessi in comune. Di sicuro è grazie a Della Valle che Bruno conobbe Berlusconi. Accadde nel 1996 e da allora gli prese la passione per la politica. Per 4 volte il nostro Donato è stato eletto alla Camera e una quinta, l’ultima, in Senato. Si è già parlato di lui per la Consulta nel 2008 e anche per il ministero della Giustizia che gli fu soffiato da un altro amico di «Cesarone», vale a dire Francesco Nitto Palma, oggi sospettato magari a torto di essere tra i «franchi tiratori».
Ricapitolando: berlusconiano doc, amico di Previti, avvocato di Cassazione ma senza speciali benemerenze sul piano accademico. È un curriculum che potrebbe prestare il fianco a critiche. Ciò nonostante, il Pd non solleva obiezioni... Il mistero trova una risposta, secondo chi ben conosce Bruno, nella sua natura consociativa, cioè ecumenica, alla Gianni Letta per capirsi, che lo rende amico di tutti e di nessuno, una figura senza spigoli e accomodante, quasi un «omino di burro» nel paese dei balocchi. In tutti gli anni che è stato presidente della Commissione affari costituzionali, mai che Bruno abbia preso una decisione sgradita alla sinistra, o che si sia reso responsabile di un minimo sgarbo. Quando lasciò quella presidenza, invitò a cena tutti i commissari senza distinguo tra destra centro e sinistra. La fedeltà nei confronti del Cavaliere è stata temperata da una filosofia politica che si riassume nel «volèmose bene». E che stasera potrebbe valere a Bruno uno scranno tra i custodi della Costituzione.

Corriere 16.9.14
Quando le Camere non decidono
Scherzare con il fuoco
di Michele Ainis

qui

Repubblica 16.9.14
I franchi tiratori contro il patto del Nazareno, lo strano asse tra i dissidenti forzisti e dem
di Liana Milella


ROMA Il Colle non dà tregua. Vuole chiudere la partita della Consulta e del Csm entro la settimana. Con i due giudici della Corte ufficialmente insediati e con palazzo dei Marescialli al completo. Ogni ora persa, fanno sapere le fonti del Quirinale, è un colpo alla credibilità delle istituzioni. All’ennesima fumata nera di Montecitorio corrisponde l’immediata sollecitazione di una nuova seduta da tenere al più presto. Tant’è che Boldrini e Grasso superano anche l’ostacolo dello speech di Renzi previsto per oggi alle Camere e piazzano la nuova convocazione oggi pomeriggio. Tra i mugugni dei parlamentari. Tra i frenetici conteggi degli sherpa democratici e forzisti reduci dagli ultimi risultati che, nella gelida fotocopia dei tabulati, rischiano di mettere in crisi in patto del Nazareno. Sono passate da poco le otto di sera quando Guerini, Romani e il candidato Bruno si ritrovano davanti alla sala del governo, alle spalle del Transatlantico, dove i deputati segretari fanno i conti delle schede. Ufficialmente si danno grandi pacche sulle spalle. Guerini stringe la mano a Bruno e gli dice «ce l’abbiamo fatta». Romani minimizza la distanza tra i 529-530 voti presi dalla coppia Violante-Bruno e il traguardo, quei 570 voti, il quorum richiesto per eleggere i giudici della Corte, i 3/5 dei componenti l’assemblea. Dice rivolto a Bruno e Guerini: «È solo una questione di assenze, vedrete che alla prossima votazione ce la facciamo». Sì, la coppia regge, come vanno dicendo quelli del Pd, finalmente l’ex giudice istruttore “nemico” di Berlusconi viene sdoganato, ma purtroppo non abbastanza, «sempre per colpa di Forza Italia». Per la terza votazione consecutiva, nella quale pure l’ex responsabile Giustizia del Pci ha aumentato i voti (erano 629 nella prima, 468 nella seconda, 530 adesso), gli uomini di Verdini — dicono i Dem — «hanno continuato nello stesso gioco, pigliare le misure del nostro candidato, verificare se noi lo votiamo, essere certi che siamo compatti su di lui». Un tormentone che rischia di far saltare il patto del Nazareno e di aprire un varco nei rapporti tra Renzi e Berlusconi, mettendo a rischio anche l’accordo sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale, tant’è che si continua a ipotizzare un contatto tra i due. «Finché non si parlano direttamente qui non si chiude» assicura in aula una buona fonte forzista.
La lettura delle schede conferma l’analisi dei Dem: la coppia Violante-Bruno figura assieme in una buona parte di esse, ma ce ne sono molte altre, stimate in una strategica sessantina, in cui i due nomi invece compaiono spaiati, da una parte c’è solo quello di Bruno, dall’altra solo quello di Violante. Ovviamente i mal di pancia reciproci nei due partiti pesano. Tra i dem c’è chi non ha votato per Bruno, considerato comunque un amico di Cesare Previti, ma sono molti di più quelli che non hanno indicato il nome di Violante tra gli esponenti di Forza Italia. C’è chi lo ammette e ne spiega pure le ragioni “politiche”: «Voglio proprio vedere se i renziani votano per quello lì... Non è che possono pensare di farcela scaricando il voto su di noi...».
Bruno non la pensa così. Lui ha legato il suo carro strettamente a quello di Violante. Avaro di parole, anche lui nel retro del Transatlantico, quando il fittiano Rocco Palese gli comunica il risultato del voto, si apre a un sorriso: «Il fatto importante è questo, che ci hanno votato entrambi. Io non avevo dubbi, perché l’ordine partito da Berlusconi stamattina era questo, indicare il mio e il suo nome sulle schede». Sì, l’ordine via sms. Quello ufficiale. Ma l’altro, l’ordine riservato, raccomandava invece la cautela che poi c’è stata. Qualcuno ha votato la coppia, certo, ma non tutti, e il dissenso verso i due candidati ha fatto il resto. Le 40 schede bianche sono lì, a indicare un niet. Come gli assenti, 31 tra Pd e Fi. Voti che comunque non bastano a fare il quorum. Forza Italia, sommata a Gal, porta una forza di 140 parlamentari. Cui si aggiungono i 405 del Pd tra Camera e Senato. Mancano ancora una trentina di voti. Che dovrebbero venire dalla maggioranza di governo. Ieri, dal Pd, sono partiti strali anche verso gli alfaniani, esclusi dal patto Pd-Fi, quindi più freddi verso il voto per la coppia Bruno-Violante.
Resta il nodo del Csm. Un’altra ragione di scontro tra Pd e forzisti che si dividono sul nome di Vitali. L’ex sottosegretario alla Giustizia di Berlusconi non ce la fa, si ferma a 418 voti. Il Pd rema contro di lui, anche contro l’indicazione ufficiale. Dice un deputato del Pd che con lui, in passato, ha lavorato in commissione Giustizia: «Vitali? Ma davvero? Non lo voto e la ragione non è giudiziaria, perché i suoi presunti reati non sono gravi, l’ostacolo è politico. Lui è sempre quello della legge ex Cirielli, scrivere il suo nome sarebbe come sdoganare le leggi ad personam». Ma Forza Italia insiste.

La Stampa 16.9.14
Il premier stretto tra le pressioni europee e il destino delle alleanze
di Marcello Sorgi


Malgrado la gelata dei dati Ocse che assegnano all’Italia la maglia nera dell’unico paese in recessione del G7, Matteo Renzi non è intenzionato a cambiare di molto l’atteggiamento verso l’Europa tratteggiato nell’intervento di sabato a Bari alla Fiera del Levante: o il patto che lega i partners dell’Unione è «di stabilità e crescita», con il secondo elemento che sta sullo stesso piano del primo, oppure non ci sarà modo di uscire dalla crisi, che del resto l’Ocse vede manifestarsi con sintomi chiari anche in Germania.

Non è facile capire cosa possa convincere il presidente del consiglio, che fino a dicembre ha anche la presidenza del semestre europeo, a insistere su questa linea, già criticata, ancor prima dell’insediamento della nuova Commissione, dal futuro commissario agli affari economici Katainen, membro eccellente del partito del rigore.
Renzi probabilmente scommette su una serie di fattori che a breve potrebbero modificare un quadro dominato finora dall’inflessibilità tedesca.
Primo, la mancata risposta al dato nuovo uscito dal voto del 25 maggio, insieme con la vittoria del centrodestra: in tutti i paesi, ultima, domenica, anche la Svezia, e con l’eccezione dell’Italia, è emerso un segmento di opinione pubblica anti-euro che trova sbocco in partiti di estrema destra.
Secondo, queste spinte centrifughe potrebbero ricevere una spinta se il referendum di giovedì si concludesse con la secessione della Scozia dal Regno Unito.
Terzo, ma non in ordine di importanza, la crisi francese, al di là dell’ufficialità, è di una gravità tale da costringere Hollande, in caso di sordità di Berlino, perfino a mettere in discussione l’asse Francia-Germania.
Di qui l’insistenza del premier a mantenere toni di sfida con Bruxelles e a chiedere chiarezza sui 300 miliardi di investimenti promessi da Juncker in campagna elettorale.
A Renzi tuttavia l’aggravarsi della congiuntura potrebbe far più danno in casa. A destra, infatti, come dimostra l’ulteriore fumata nera sui giudici costituzionali, cresce il partito di quelli che vogliono rompere il patto del Nazareno e tornare a fare l’opposizione dura, ora che il governo potrebbe essere costretto a fare scelte impopolari.

il Fatto 16.9.14
Palazzo Chigi. Cresce il caos e Lotti ne approfitta
L’uo,o di Del Rio, Bonaretti, non ha più il controllo della macchina. Da Firenze arriva un “facilitatore”
Solo lo storico amico del premier avanza
di Carlo Tecce


Ci sono questioni e carriere che si dispiegano e si spiegano anche con le camicie pulite, stirate e di solito bianche. Ai tempi di Firenze, a pochi minuti da un’apparizione pubblica, Matteo Renzi s’accorse di non avere neanche una camicia disponibile. Non passarono più di dieci minuti e Franco Bellacci, detto Franco, due mandati a Palazzo Vecchio e dipendente al Comune di Reggello, rientrò in Municipio con quattro modelli: aderente, a righe, a quadri, a tinta unica. Adesso a Bellacci, assistente e facilitatore di Renzi fu sindaco, stanno per allestire una stanza a Palazzo Chigi.
E ci saranno nuove stanze per nuovi consulenti, collaboratori, esperti – inutile specificare che saranno in gran parte toscani – per ricreare l’ambiente ideale (e fiorentino) di Renzi e Luca Lotti, il sottosegretario che estirpa o innesta le trattative politiche, che combina i piani e i patti con Denis Verdini, che fa nominare Giovanni Legnini al Csm e risolve gli incastri per le società di Stato, che comanda assieme al comandante.
LOTTI NON è un tipo che gioca per il pareggio e, seppur la macchina di Palazzo Chigi sia poco funzionale e molto caotica, insiste per ottenerne il controllo totale. L’ex vigilessa Antonella Manzione, che gestisce l’ufficio legislativo di Palazzo Chigi con imperizie che lasciano sgomenti i tecnici del Quirinale, non sarà abbandonata a se stessa. Lotti ha arruolato un ex collega di Manzione: Giovanni Palumbo, già dirigente della polizia locale di Firenze, ex capo di gabinetto in Provincia, promesso capo di segreteria. Ormai Mauro Bonaretti, segretario di Palazzo Chigi, è accerchiato, dotato di un potere che esercita a fatica: o scopre un’inopinata sintonia con la Mazione oppure sarà trasferito altrove. Bonaretti viene da Reggio Emilia, è uomo di Graziano Delrio, sottosegretario come Lotti, non impetuoso come Lotti.
Che Delrio fosse il politico istituzionale e Lotti il Gianni Letta di Renzi s’è capito quando ha conquistato la delega al Cipe, il comitato interministeriale che gestisce miliardi di euro in appalti. Anche per interrompere brutalmente la tenzone con il Tesoro, Renzi s’affida a Lotti: il ragazzo di Empoli vuole trasformare i regolamenti Cipe e limitare la supervisione di via Venti Settembre: così potrà aprire o chiudere la borsa di Stato con più efficenza e discrezione.
Quando Renzi ha conosciuto Lotti (su suggerimento di un politico locale, Paolo Londi), consigliere comunale di Montelupo, l’attuale europarlamentare (più votata in assoluto) Simona Bonafé aveva da poco terminato, da addetto stampa, la campagna elettorale per le provinciali del rutelliano Matteo.
La Bonafé (e tanti altri discepoli) hanno attraversato periodi diversi perché diversa era la simpatia del Capo, “il Lotti” no, sempre il preferito, sempre in fase di scalata, sempre più aderente al renzismo da poterne divulgare il verbo.
QUANDO IL CAPO ha distribuito gli incarichi di governo e di partito, Lotti appariva ridimensionato, o quantomeno non premiato. Era soltanto tattica. Lotti a Palazzo Chigi, su carta intestata, si occupa di fondi pubblici, di sussidi ai quotidiani. Questo gli consente di vantare ottima stampa e di poter conquistare la critica stanziando 52 (preziosi) milioni di euro per gli stati di crisi dei giornaloni. E anche per questa abilità – è Lotti che incontra gli editori – non ha bisogno di un portavoce. Al Nazareno, il “biondo” o il “lampadina” – questi sono i suoi soprannomi – figura in segreteria come responsabile “organizzazione”. Quando in Sardegna fecero ritirare l’indagata Francesca Barracciu, era il momento dei democratici non garantisti, Renzi spedì Lotti ad azionare l’aspirapolvere con una doppia mossa: Francesco Pigliaru candidato e Barracciu recuperata (poi) al governo, ai Beni culturali. A Lotti non è mai piaciuto Giorgio Gori (ora i rapporti sono un po' migliorati) e neanche il modenese Matteo Richetti, ritiratosi prontamente dalle primarie in Emilia e non tanto per l’inchiesta sui rimborsi pubblici.
Inaugurata con Bonaretti in quota Delrio, la squadra di Palazzo Chigi di Renzi sarà presto più folta, più toscana, più ubbidiente a Lotti. Il sottosegretario vuole mettere ordine lì dove Renzi (rapido e confusionario), che spesso s’arrende ai suoi impulsi, ai suoi improvvisi cambi di umore, ha creato disordine. Non è assicurato il successo: è garantita la protezione. Lotti non deve spingere la burocrazia di Palazzo Chigi, che produce testi di legge a rilento o sbagliati: no, deve sorvegliare ogni angolo, ogni anfratto, inclusi quelli dove s’annidano i funzionari dei vecchi governi.
A SETTE MESI da quel grigio scampanellio di Renzi, mentre Enrico Letta sfilava con una cinematografica espressione rancorosa, Palazzo Chigi è un cantiere. E i cantieri radunano gente, ma non è chiaro il progetto. Ci sarà la pattuglia degli economisti, il controcanto al Tesoro: Marco Fortis, Yoram Gutgeld, Roberto Perotti (deve decidere), Tommaso Nannicini, Carlotta De Franceschi e Veronica De Romanis (moglie del fiorentino Lorenzo Bini Smaghi, ex Bce), Luigi Marattin (finanza locale). Riccardo Luna di Repubblica (ex Wired) sarà “digital champion”, il rappresentante italiano in Europa per la diffusione della tecnologia. Non sarà ammodernato, o forse sì perché sarà ancora più evidente e ancora più invadente, il ruolo di Luca Lotti, la scatola nera del renzismo, che conserva i tracciati, gli errori e un vasto elenco di nemici (o ex amici).

La Stampa 16.9.14
Dalla rottamazione al Potere
Boschi s’intesta la Leopolda
di Jacopo Iacoboni


E così la Leopolda si farà anche quest’anno, Leopolda di lotta e di governo - vorrebbero loro- perché, come ha annunciato Maria Elena Boschi l’altra sera quando ormai era tardi, alla Festa del Pd a Firenze, il fatto che Renzi sia a Palazzo Chigi non cambia il loro approccio di fondo. Così la manifestazione fondativa del renzismo avrà una quinta edizione, che si farà dal 24 al 26 ottobre, ha detto il ministro. «Saranno tre giorni di dibattito e confronto che inizieranno con tavoli di discussione aperti a tutti con esponenti politici e della società civile». Ci sono già degli ospiti? Troppo presto.
È però un annuncio rischioso, sul piano simbolico, e non solo: anche su quello delle prime reazioni che ha generato. L’idea della Leopolda è infatti un diapason, del renzismo: poche cose come la Leopolda evocano lo iato allarmante tra la rottamazione e una pratica di governo faticosa, costretta a mediazioni non entusiasmanti, e certo non esaltante se si guarda al rapporto tra i tanti annunci e i risultati. Ma c’è di più. L’annuncio di Boschi, tra chi è passato in questi giorni da Firenze alla Festa del Pd - cioè in pratica tutto lo stato maggiore e minore del renzismo - è caduto totalmente inaspettato. Per ora non c’è - a dispetto delle poche parole abbozzate dal ministro - ancora nessuna organizzazione, neanche la rete di giovani è stata messa in moto. Sarebbe il meno. Sfuggiva, anche nella parte aretino-fiorentina del gruppo Boschi-Bonifazi (Lotti è di provenienza diversa) il senso di questo annuncio: Boschi ha spiazzato tutti.
Certo il ministro è sempre più frontwoman del renzismo, il volto (il potere sono Lotti e Carrai), e forse ha voluto ricordare di esser stata lei, materialmente, a organizzare la Leopolda anche quand’era semplice volontaria. Forse ha prevalso una certa voglia di «riappropriarsi della sua creatura», come dice qualcuno più renziano di Renzi. «Ma la Leopolda è un’idea, di renzismo, non è di nessuno». Forse, a essere esatti, neanche di Renzi, ma dei vecchi Mille di Torino.
Insomma, i problemi saranno tanti. Quello organizzativo, cioè confermare alcuni nomi storici: sembra difficile che chi non è andato col Renzi terza fase, quello di governo (per esempio Andrea Guerra), possa esserci. Troppe cose sono cambiate, troppa giovinezza, di già, consumata. I punti economici originari li proponeva in grande parte Zingales, è difficile rivederlo da quelle parti. La cultura era Baricco, non Franceschini. I giovani erano Giuliano da Empoli (che c’è ancora), non qualche scrittore al secondo giro nella politica. Soprattutto sarà abbastanza problematico continuare a vendere il sogno della Leopolda - un renzismo che rompesse gli establishment - nei giorni in cui pezzi di quegli establishment lo smosciano.
Boschi, tattica classica di Renzi, brucia allora le tappe, correndo avanti. Annuncia qualcosa che non c’è (ancora, o non più). Un po’ come quando l’altra sera, a Firenze, le hanno chiesto di sventolare la bandiera del vecchio Pci. Lei, un po’ esitante, l’ha fatto.

Repubblica 16.9.14
Il nuovo Lingotto di Renzi una Conferenza nazionale per riscrivere la linea Pd
In direzione la segreteria unitaria e l’annuncio di un percorso per aggiornare statuto e programma. Alle Camere il rilancio sulle riforme
di Goffredo De Marchis


ROMA Mille giorni per il governo e 500 per il Pd se è vero che oggi, in direzione, Matteo Renzi annuncerà una conferenza sul partito, una sorta di nuovo Lingotto, che avrà varie tappe: statuto, programma, identità. Il premier è atteso da un doppio appuntamento. Stamattina e nel primo pomeriggio in Parlamento per il discorso programmatico del suo esecutivo da qui al 2017. La sera nell’organismo di Largo del Nazareno per definire la segreteria unitaria.
Renzi vorrebbe trasformare l’informativa alle Camere in un discorso che abbia il respiro dello «Stato dell’Unione», il punto sul Paese che il presidente americano tiene regolarmente di fronte ai parlamentari americani. E’ un discorso atteso per i riflessi che avrà sul calendario delle riforme e per gli effetti che potrebbe avere rispetto agli occhi puntati dell’Europa. Per questo l’ex sindaco partirà dal lavoro ma non slegherà questa materia dal resto. «Le riforme hanno un senso solo se si fanno tutte e tutte insieme». Quindi a dispetto delle critiche e della presunta indifferenza della Ue per l’Italicum e la modifica del Senato, Renzi parlerà della riforma elettorale che secondo la sua scaletta dovrebbe andare in porto a Palazzo Madama entro la fine dell’anno. Quale messaggio può aumentare la credibilità italiana? Per il premier il punto resta sempre quello: «Dobbiano arrivare a un sistema in cui nella notte del voto sia chiaro chi ha vinto e chi ha perso». Dal doppio turno e dal premio di maggioranza, è il senso di queste parole, non si sfugge. Sugli altri particolari invece si può e si deve lavorare, a partire dalle preferenze e dall’abbassamento delle soglie.
Il passaggio sulla giustizia è delicato e rischia di accontentare più l’opposizione di Forza Italia che il Pd. «Prenderò contropelo una parte del mio partito», diceva ieri ai suoi collaboratori Renzi. Molti sono pronti a scommettere che oggi ci sarà l’addio definitivo alla linea giustizialista per scartare decisamente verso un orizzonte più garantista. Che oggi ha i contorni indefiniti di alcune prese di posizione in difesa degli indagati corrette però da altre dichiarazioni più sintoniche con i toni filo-pm dell’ultimo ventennio. L’altro cruccio del premier è dare una visione d’insieme al programma con passaggi collegati su scuola, Europa, situazione internazionale. La cornice del quadro dovrebbero fornirla due parole chiave, spiega Renzi: «Giustizia nel senso dell’equità e interesse nazionale».
Mille giorni di riforme hanno bisogno di un Pd meno diviso. Alla fine Renzi ha strappato alle minoranza il sì a una segreteria unitaria. Entreranno tutte le componenti con l’eccezione di Fioroni e Civati. C’è anche un’apertura del segretario a una conferenza sul partito, che è il tasto su cui si sono battuti di più i bersaniani. E nelle intenzioni del segretario si tratterebbe di una sorta di nuovo Lingotto dove si segnerebbero i confini ideali e politici del Pd. «Io comunque — dice Renzi — sono più che mai convinto di continuare a lavorare tutti insieme, in squadra».
Senza però mollare le poltrone più importanti. I due vicesegretari verranno confermati, così come il tesoriere Francesco Bonifazi. Lorenzo Guerini è destinato anche a curare l’Organizzazione. Ma entrano per Area riformista, la componente vicina a Bersani, Enzo Amendola agli Esteri e Micaela Campana. Forse Andrea Giorgis ma non alle Riforme. Forse Cecilia Guerra al Welfare. Possibile un posto per la lettiana Paola De Micheli. Per Cuperlo quasi certo l’ingresso di Andrea De Maria. Restano aperte molte caselle renziane. Fra loro è sicuro solo Emanuele Fiano alla Sicurezza. «Matteo ci ha chiesto di lavorare insieme e noi ci stiamo — dice Alfredo D’Attorre — . Il confronto va avanti su tre punti fondamentali: manovra, legge elettorale, lavoro».

il Fatto 16.9.14
Fondi ai partiti, circoscrizione Estero Pd: “Che fine hanno fatto 400mila euro?”
Una nota chiede ai vertici democratici di fare chiarezza su come sono state utilizzate le risorse destinate all'attività politica Oltreconfine

Perché, in barba allo statuto del partito, nessuno sa quali candidati hanno potuto beneficiare delle risorse né tantomeno come siano stati spesi i soldi
di Eleonora Lavaggi

qui

«Pippo Civati strizza l’occhio a Sel»
Corriere 16.9.14
Incarichi alle donne e niente stipendi
Il Pd tratta ancora sulla segreteria
di Monica Guerzoni


ROMA — «È ancora tutto nella sua testa...». Dopo settimane di tira e molla, altolà, avvertimenti e rinvii, la nuova segreteria allargata alle minoranze è pronta. Ma solo Matteo Renzi ha in tasca la chiave del Nazareno e quindi la soluzione del rebus. Da quel che trapela il segretario-premier sta cercando un sindaco «renzianissimo» per gli Enti locali e nell’entourage del leader si favoleggia di una fascia tricolore «del calibro di Nardella».
Caselle blindate non ce ne sono. Come sempre avviene nel Pd a trazione renziana è il «capo» che decide e i telefoni dei prescelti sono destinati a squillare nel cuore della notte. Di certo c’è solo che la segreteria sarà al femminile per metà (o quasi) e che i «fortunati» non prenderanno un euro di stipendio, perché il tesoriere Francesco Bonifazi ha chiuso la cassaforte a doppia mandata.
«Sono sempre più convinto che dobbiamo lavorare insieme», è il leitmotiv del leader. Ma i duri ammonimenti di Bersani e D’Alema pesano sulle trattative e mettono a rischio l’idea di una gestione davvero unitaria, tanto che gli incarichi importanti dovrebbero andare ai renziani di provata fede. Per evitare sonore bocciature, i capicorrente hanno dovuto allargare le loro rose di nomi, aggiungendo diversi petali. L’Area riformista di Roberto Speranza, che ha chiesto tre posti e puntava su Enzo Amendola, Andrea Giorgis, Danilo Leva e Micaela Campana, ha messo in pista altri quattro candidati: Federico Fornaro, Silvio Lai, Lorenzo Basso e l’ex viceministro modenese Cecilia Guerra. Tre su quattro sono senatori, perché al Nazareno si sono accorti in corsa di non poter fare una segreteria di soli deputati. Gianni Cuperlo, in virtù del 18 per cento del congresso, chiede con forza due postazioni, per Andrea De Maria o Francesco Laforgia. Ma i riformisti ne vogliono tre e dunque i conti non tornano, avendone Renzi offerti alla sinistra quattro in tutto. Il braccio di ferro tra le componenti è durato fino a ieri notte e solo l’incontro tra Speranza e Cuperlo potrebbe sbloccare l’impasse.
L’unico che ha il mandato di dichiarare ufficialmente quale forma stia prendendo la squadra del Nazareno è Lorenzo Guerini, il vicesegretario-plenipotenziario al quale, salvo colpi di scena, Renzi chiederà oggi un altro «sacrificio»: assumere, al posto di Luca Lotti, la responsabilità dell’organizzazione in un momento di forte sbandamento del Pd sul territorio. Quello delle «tessere» è un dipartimento strategico e i Giovani Turchi di Matteo Orfini propongono di aprirlo ad altre componenti. «Chiediamo che Guerini, figura autorevole, sia affiancato da una task force che si dedichi quotidianamente ai problemi del partito sul territorio», spiega il coordinatore Francesco Verducci.
Guerini conferma l’impegno a «concretizzare l’appello che Renzi ha fatto a tutto il partito», ma non a caso parla di «partecipazione ampia» e non di gestione unitaria. La trattativa andrà avanti fino alle 18.30 di oggi, quando inizierà la direzione e i parlamentari «dem» che siedono nel «parlamentino» del partito correranno al Nazareno, tra una chiama e l’altra del voto sulla Consulta, per ascoltare il leader. Di certo, per ora, ci sono solo i nomi di chi resterà fuori. Pippo Civati strizza l’occhio a Sel, prevede che si voterà nella primavera del 2015 e non si lega le mani: il responsabile economico Filippo Taddei proviene dalla sua area e sarà confermato, ma i renziani lo ritengono ormai uno dei loro.
Enrico Letta non ha chiesto nulla, eppure avrebbe qualche chance un senatore a lui vicino, Francesco Russo, che ha dato una mano al governo sulla riforma di Palazzo Madama. «Fuori dal coro» si è posizionato Beppe Fioroni, con buona pace dei cattolici Valiante e Rubinato. «Per gli ex democristiani c’è già Guerini — scherza l’ex ministro — Non entriamo, ma saremo leali». Franceschini preme perché alle Riforme, lasciate vacanti dalla Boschi, vada Emanuele Fiano, mentre i veltroniani spingono per Vinicio Peluffo o Giorgio Tonini. Le donne scarseggiano, il che autorizza a sperare alle giovani Lia Quartapelle e Alessia Rotta, la quale potrebbe sostituire la Madia al Lavoro. Tra i renziani è battaglia, ma sottotraccia: il leader detesta le autocandidature. Davide Faraone resta al Welfare o trasloca come sottosegretario al ministero dell’Istruzione, lasciando la segreteria a Simona Malpezzi? Ed Ernesto Carbone, entrerà o no nello staff? La vicesegretaria Debora Serracchiani, salvo sorprese, manterrà la delega alle Infrastrutture.

Repubblica 16.9.14
Civati: “Se lasciassi i Democratici andrei in Sel”


ROMA Se dovesse abbandonare il Pd, Pippo Civati abbraccerebbe il partito di Nichi Vendola: «Visto che i miei interlocutori sono spesso quelli di Sel, direi che andrei con loro».
Intervistato durante “Un giorno da pecora”, il deputato democratico conferma di guardare a sinistra, dopo aver accarezzato per mesi l’idea di costruire un “nuovo centrosinistra” assieme ai fuorusciti del Movimento cinque stelle e, appunto, a Sel.
Civati, che ha sfidato Renzi alle ultime primarie del Pd per la leadership, ammette anche di aver pensato di abbandonare il Partito democratico: «Ci ho pensato la prima volta che bisognava votare la fiducia al governo».
Per convincerlo a entrare nella segreteria democratica, aggiunge Civati, Renzi «dovrebbe distribuire incarichi anche a chi non è d’accordo con lui». E quando gli chiedono quanto sia di sinistra il premier da zero a dieci, il parlamentare risponde: «Cinque». Più verso lo zero o più verso il dieci? «Dipende, lui ha tendenze, per esempio rispetto alle scelte degli alleati, vicino a zero. Mentre sul lavoro, il decreto Poletti è più di destra».

il Fatto 16.9.14
Liberadestra, Fini:
“Renzi? A metà tra Pifferaio di Hamelin e Capitan Fracassa”

qui

il Fatto 16.9.14
Scuola, Renzi contestato all’inaugurazione dell’anno nell’istituto Don Puglisi
Il presidente del Consiglio ha scelto di celebrare l'avvio dell'anno nella scuola di Palermo dedicata al sacerdote ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993. Ma ad accoglierlo ha trovato un centinaio di manifestanti, tra disoccupati dell'edilizia, lavoratori di call center a rischio licenziamento e docenti precari

qui

Repubblica 16.9.14
Le promesse mancate del primo giorno sui banchi
di Chiara Saraceno


INIZIO d’anno in una scuola elementare di Torino, città che si fregia della definizione di “educativa”. Stremati dalla lunga estate i genitori si rallegrano che, almeno per chi non frequenta la prima, già dal primo giorno funzioni il tempo pieno.
MERAVIGLIE di una scuola ben organizzata. Peccato che ci sia subito la prima doccia fredda: la palestra è inagibile perché richiede manutenzione e non ci sono soldi per farla, con buona pace delle promesse di Renzi di investire prioritariamente nell’edilizia scolastica. Se si vorrà far fare ginnastica ai bambini, occorrerà chiedere ospitalità a qualche scuola vicina, rassegnandosi a prendere le ore lasciate libere dalle classi di questa e perdendo prezioso tempo per andare e venire tra una scuola e l’altra (certo, anche questo è un modo di fare esercizio motorio…).
Non è tutto, però. Posto che si trovino gli incastri giusti tra le due scuole nella fruizione della palestra, i bambini “ospiti” potranno fruirne effettivamente solo se, per ogni classe, accanto alla maestra ci sarà un genitore disposto ad accompagnare i bambini nel tragitto di andata e ri- torno. Non è chiaro come si pensi di trovarlo: chiedendo che i genitori a turno prendano mezza giornata di permesso o ferie? Costringendo chi non ha un lavoro, perché casalinga o disoccupato/a, a mettersi a disposizione? Precettando qualche nonno/a? Ma non è finita qui. In una quinta elementare finalmente la classe quest’anno ha entrambe le maestre di ruolo, dopo quattro anni di sistematico turn over della maestra di italiano. O meglio, le ha sulla carta. La maestra appena assunta in ruolo due giorni prima dell’inizio della scuola è andata in congedo di maternità anticipato. Per ora, quindi, tempo pieno, ma, come gli anni scorsi, attesa non si sa quanto lunga di un/una supplente, in più niente ginnastica. Questo in una classe in cui un buon numero di scolari è, non solo straniero, ma da poco in Italia; quindi avrebbe più bisogno di continuità nell’insegnamento. È questa la #buona scuola che è stata promessa? Il rispetto dovuto ai bambini, l’attenzione necessaria per non spegnere in loro la fiducia nella scuola e l’entusiasmo di imparare cose nuove? Ovviamente, la maestra in maternità ha tutti i diritti e probabilmente avrà tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere che poteva mettersi in congedo di maternità senza timo- re di perdere punti in graduatoria come quando era supplente. Sicuramente avrà buoni motivi di salute per averlo chiesto anticipato e il medico che glieli ha certificati avrà agito con scrupolo e non chiudendo un occhio. Sono anche sicura che il Comune di Torino, o qualsiasi ente sia responsabile dell’edilizia scolastica, ha avuto priorità più urgenti (tetti che crollano, servizi igienici rotti e simili) di una palestra su cui concentrare le risorse disponibili per la manutenzione (se pur sono arrivate). Ciò non impedisce di rimanere sconfortati di fronte allo scarto tra le promesse e la realtà e al semplicismo delle prime.
Lasciamo pure stare la questione della palestra, anche se poi è inutile lamentarsi che i bambini italiani fanno poco moto e praticano poche attività sportive, se anche quelle che dovrebbero fare a scuola dipendono dalla disponibilità di tempo dei genitori, oltre che dal fatto che un’altra scuola possa cedere parte delle proprie attrezzature, senza ridurre il servizio per i propri studenti. La faccenda della maestra di ruolo in maternità (una eventualità non remota in una professione al 90% femminile) mostra come la stabilizzazione, l’immissione in ruolo dei supplenti possa essere un passaggio necessario e doveroso, specie per coloro che fanno supplenze da anni, talvolta nella stessa scuola e stessa classe. Ma non risolve la questione di come garantire agli studenti continuità e qualità didattica e neppure il diritto minimo ad avere un insegnante annuale stabile, se non il primo, almeno il secondo giorno di scuola. Su questo punto anche i sindacati sono troppo silenti. Eppure, se non lo si affronta, insieme a quello della qualità dell’insegnamento, il nostro continuerà ad essere un sistema scolastico che troppo si affida alla supplenza non solo degli insegnanti “supplenti”, ma delle famiglie.
Se si può chiudere un occhio sulle richieste di contributi per il materiale didattico o la carta igienica; si possono imbiancare i muri delle aule e tagliare l’erba in giardino; ma non si può accettare che la solidità dell’istruzione dei bambini e ragazzi sia affidata alla capacità e disponibilità delle famiglie di integrarla quando questa è mancante, o intermittente. In questo modo la scuola, invece di essere strumento di compensazione delle disuguaglianze, le conferma, quando non le acuisce.

Repubblica 16.9.14
“No alla maturità coi commissari interni”
di Salvo Intravaia


LA MATURITÀ con soli commissari interni non convince del tutto il mondo della scuola. Dagli studenti ai presidi, passando per i sindacati degli insegnanti e i genitori, la novità annunciata a Repubblica dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini viene vista solo come un espediente per tagliare i costi. Che non migliorerà l’esame di Stato e che rischia di abbassare ulteriormente le performance degli studenti italiani, non certo brillanti nei confronti internazionali. Per i principali interessati, i ragazzi, «si tratta di un modo per fare cassa». «Ho l’impressione — dichiara Alberto Irone, dell’Unione degli studenti — che il ministro voglia dipingere come rivoluzione una operazione per risparmiare. Non c’è una valutazione meritocratica né una valutazione delle competenze». Qualche dubbio anche da parte dei genitori. Fabrizio Azzolini dell’Age spiega: «Il possibile risparmio legato ai compensi degli esami potrebbe anche rappresentare un aspetto positivo. Essere valutati da insegnanti esterni contribuisce a temprare i ragazzi e ad abituarli anche all’università».
Anche i presidi manifestano più di una perplessità. «A questo punto tanto vale abolire completamente gli esami — dice Giorgio Rembado, dell’Associazione nazionale presidi (Anp) — A cosa servirebbe un esame con soli commissari interni che nel giro di un mese valuterebbero alunni prima per ammetterli agli esami e poi come commissione?».
Una bocciatura arriva anche da parte dei sindacati degli insegnanti. «Non sono d’accordo per tre ragioni: non è possibile valutare seriamente gli studenti risparmiando ancora in un settore dove la spesa è già molto bassa ed essere interrogati da commissari esterni, almeno in parte, porta docenti e studenti ad una maggiore attenzione all’esame finale. In altre parole, la commissione interna con il solo presidente esterno rischia di abbassare ulteriormente le competenze degli alunni», spiega Massimo Di Menna, che oltre ad essere leader della Uil scuola insegna al superiore. Caustico, Francesco Scrima, a capo della Cisl scuola. «È solo un ritorno al passato. Dove sta la novità? — si chiede — e come fa il ministro con i diplomifici che vuole abolire?».

La Stampa 16.9.14
Prima segnalazione anonima contro i bulli: ieri ne è stato avvistato uno a Palermo
di Jena


il Fatto 16.9.14
Crisi, doccia gelida dall’Ocse: “Nel 2014 il Pil italiano in calo dello 0,4%”
L'Italia è fanalino di coda del G7. Il dato prefigura uno scenario molto peggiore di qualsiasi altra previsione recente, nonostante il -0,2% registrato dall'Istat nel secondo trimestre
L'organizzazione ha tagliato le stime di crescita per Roma di ben 0,9 punti percentuali.
Al contrario l'area euro registrerà nel complesso un progresso dello 0,8%, con la Germania a +1,5% e la Francia a +0,4%

qui

il Fatto 16.9.14
Crisi, Standard&Poor’s: “L’Italia bloccata in recessione, quest’anno crescita zero”
Un rapporto dell'agenzia di rating taglia le stime sul prodotto interno lordo: l'effetto del bonus di 80 euro e del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, spiegano gli analisti, era stato sopravvalutato
Ora "le sofferenze per l'Italia sono diventate più pronunciate" e influenzano negativamente tutta l'Eurozona
Giudizio positivo sulle ultime misure decise dalla Bce, che potrebbero spingere la crescita nel medio termine

qui

il Fatto 16.9.14
Pil a -0,4, la nuova recessione che mette nei guai il governo
L’Ocse toglie le ultime speranze. Standard & Poor’s vede il flop degli 80 euro
di Stefano Feltri


Ogni giorno ha la sua stima, il suo dato, la sua previsione di un futuro più fosco del già fosco presente: ieri è arrivato l’Ocse, il think tank dei Paesi ricchi basato a Parigi. L’istituto che a lungo ha avuto come capo economista e poi vice segretario generale l’attuale ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ieri ha dato il giudizio più duro sullo stato dell’economia italiana. Altro che crescita, nel 2014 il Pil scenderà dello 0,4 per cento. Finora nessuna istituzione era stata così pessimista: i numeri del governo di aprile sono ormai da dimenticare, Padoan aveva scritto +0,8, e presto li dovrà adeguare anche la Commissione europea in vista del lungo negoziato con Roma sulla legge di Stabilità che sta cominciando. Nel suo “Interim economic assessment”, l’Ocse nota che i cicli economici delle grandi economie sono “meno sincronizzati”. C’è chi si riprende e chi resta indietro: l’area euro nel suo complesso crescerà quest’anno dello 0,8, la Germania dell’1,5, gli Usa del 2,1. L’Italia -0,4. E nel 2015 la differenza tra auspici e realtà sarà ancora più marcata: il governo prevedeva +1,5, l’Ocse +0,1. A cosa si deve questo disastro?
La ripresa internazionale che langue, il contesto geopolitico che aggiunge incertezze, una evidente propensione a gonfiare le stime sull’avvenire. Ma l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha ammesso ieri di aver sopravvalutato l’impatto sull’economia del bonus fiscale da 80 euro: prevedevano avesse un impatto di +0,3, invece non è andato oltre 0,1. E questo è un segnale preoccupante per l’avvenire, visto che l’ottimismo governativo sul futuro era dovuto a un beneficio crescente degli 80 euro, più efficaci quando resi stabili. L’Ocse arriva a questa conclusione: “Il continuo fallimento dell’economia globale a generare una crescita forte, bilanciata e inclusiva sottolinea l’urgenza di sforzi ambiziosi di riforma”. È l’inevitabile appello alle riforme strutturali che arriva da ogni istituzione internazionale, nella speranza che se l’economia non cresce sia sufficiente cambiare qualcosa per tornare a correre. Nessuno vuole pensare all’ipotesi che, come teme l’ex segretario al Tesoro Usa Larry Summers, la crescita possa non tornare mai.
I numeri dell’Ocse sono osservati con preoccupazione dal ministero dell’Economia. Le stime che circolano in via XX Settembre e all’Istat non sono così negative. Ma è tutto molto incerto: a ottobre il governo deve presentare il Def, il Documento di economia e finanza, che avrà per la prima volta due stime. Quella a legislazione vigente e quella con le riforme, verrà cioè stimato l’impatto delle decisioni da adottare durante la sessione di bilancio. Ma i calcoli di queste settimane sono fatti con vecchio Pil, secondo i parametri del cosiddetto Sec95, a ottbre scatterà la revisione voluta da Eurostat. E grazie al maggior peso di criminalità ed economia illegale, il Pil salirà parecchio, fino a 3 punti. E tutte le stime saranno da rifare.
Un discreto caos contabile di cui il premier Matteo Renzi approfitta per simulare ogni giorno una lotta a mani nude contro il commissario agli Affari economici Jyrki Katainen e il rigore europeo. In realtà è ormai chiaro che tutto il dibattito sulla “flessibilità in cambio di riforme ” è stato archiviato senza risultati. Ormai la scelta di Renzi è semplice e unilaterale: sfondare platealmente il tetto del 3 per cento al rapporto deficit-Pil o provare a mantenere un rispetto formale e rimandare i problemi al 2015, magari dopo le elezioni anticipate? Molto dipende da quale sarà il numero definitivo del Pil in recessione. Ma Katainen e la Germania, con il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, hanno capito il clima. E infatti propongono un monitoraggio più stringente delle riforme dell’Italia. Senza contropartite, soltanto per evitare che l’indisciplina degeneri. Come ai tempi di Silvio Berlusconi.

La Stampa 16.9.14
Con questi dati il 3% è un miraggio
E scordiamoci di veder scendere la disoccupazione, che certamente quest’anno toccherà nuovi livelli record e che se va bene riuscirà ad invertire in maniera significativa il trend almeno con un anno di ritardo

Ma l’Italia può permettersi di aspettare il 2016?
di Paolo Baroni

qui

Corriere 16.9.14
Malati d’Europa e sorvegliati speciali
di Francesco Daveri


A tre anni dall’estate in cui iniziò a precipitare, l’Italia è di nuovo sorvegliata speciale. L’aritmetica del deficit non basta più: rispettiamo il vincolo del 3%, ma non cresciamo. E le mancate riforme soffocano l’economia.
Sono passati tre anni dall’estate 2011 quando l’Italia iniziò a precipitare arrivando a far temere un default, vale a dire la possibile incapacità di restituire il debito. Divenne così una sorvegliata speciale che dovette sottoporsi a un drastico aggiustamento di bilancio attuato dal governo Monti con il decreto Salva Italia a cavallo del 2011 e del 2012.
Da allora, il deficit non si è azzerato ma perlomeno è rimasto sempre sotto il vincolo europeo del 3% rispetto al Prodotto interno loro (Pil); mentre il debito pubblico, anche in conseguenza dei contributi versati dal nostro Paese ai fondi salva stati dell’Europa, ha continuato ad aumentare fino a sfiorare il 135% del Pil. Sempre da quei mesi terribili è scomparsa la crescita che era riapparsa timidamente nel 2010-11. A differenza che nel 2008-09, gli anni della grande crisi, quando fu tutto il mondo occidentale a far registrare valori del Pil in picchiata, l’Ocse ci dice che nel 2014 l’Italia sarà l’unica nota stonata nei G7 e negli altri grandi Paesi occidentali. Saremo l’unica nazione con crescita negativa, e quindi ancora una volta sorvegliato speciale, ma per una ragione diversa. Prima lo eravamo perché ogni anno spendevamo più di quanto riuscivamo a coprire con le entrate dello Stato. Oggi perché l’aritmetica del deficit non basta più: rispettiamo il vincolo europeo, ma ci serve la crescita. Nonostante gli annunci e le tante parole i governi precedenti e quello attuale hanno mostrato di non affrontare con la necessaria determinazione il tema dello sviluppo. Senza di esso i conti pubblici si avvitano. Se si continua ad attardarsi con le riforme (da attuare e non solo approvare), se la crescita non diventa la priorità sotto la quale iscrivere qualunque azione di governo l’Italia rimarrà inchiodata allo stupido vincolo del 3 per cento.
Un vincolo che sta strozzando l’economia italiana. Ma non per colpa della Germania o dell’Europa cattiva, quanto per il modo da ragionieri con il quale abbiamo inteso rispettare il 3 per cento. Paesi che non crescono, a lungo andare, non riescono a far fronte ai loro impegni di rimborso del debito, anche se apparentemente tengono a bada i loro conti anno per anno. Una lezione della storia che abbiamo dimenticato.

Corriere 16.9.14
Jobs act, spunta la via dell’emendamento per «aggirare» l’articolo 18
di Andrea Ducci


ROMA — Ore decisive per il Jobs act . Il disegno di legge delega sulle nuove regole per il mercato del lavoro è tuttora mancante di un accordo per l’eventuale superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Un passaggio delicato destinato ad alimentare fibrillazioni nella maggioranza di governo. Nelle fila del Pd è prevista una riunione (parteciperanno senatori e deputati oltre al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti) necessaria a fissare una linea comune. Tanto più alla luce dell’accelerazione che Maurizio Sacconi (Ncd), presidente della commissione Lavoro al Senato e relatore del disegno di legge, vorrebbe imprimere alla discussione su quello che resta un totem del mondo del lavoro: l’impossibilità di licenziare senza giusta causa.
Oggi Sacconi conta di confrontarsi con Poletti, e stabilire i margini di un emendamento che contenga nuove regole sui licenziamenti. L’ipotesi su cui Sacconi lavora è rafforzare le norme per rendere certo l’arrivo del contratto a tutele crescenti, una modalità che non prevede la tutela dell’articolo 18 e stabilisce, in caso di licenziamento, indennizzi proporzionali all’anzianità anche dopo i tre anni di prova. Un’idea che il Pd ha sempre rispedito al mittente, preferendo un modello in cui le tutele crescenti vengono introdotte solo durante i tre anni di prova, per poi mantenere invece il diritto al reintegro previsto dall’articolo 18.
La soluzione di mediazione potrebbe essere approvare un emendamento che introduca nella delega la categoria del «contratto a tutele crescenti», lasciando alla fase attuativa la discussione su dove inserirlo: prima o dopo i tre anni.
Il Jobs act è in calendario alla commissione Lavoro al Senato già oggi e chi, come il Nuovo centro destra di Angelino Alfano, spinge per introdurre un grimaldello che scardini le regole dell’articolo 18, ritiene non ci sia tempo da perdere. Per il governo la riforma e l’introduzione di una forte flessibilità in uscita e entrata potrebbero diventare un argomento utile per rivendicare in sede europea più elasticità sui conti pubblici.
Nessuno lo ha esplicitato, perché politicamente scivoloso, ma il tema è sul tappeto e potrebbe parlarne Renzi oggi in Parlamento illustrando il programma dei Millegiorni. Le parole pronunciate ieri da Poletti riflettono il clima generale, «nel momento in cui il Parlamento sta discutendo di questa materia e dovrà prendere delle decisioni la cosa più saggia che posso fare è stare zitto», ha spiegato.
La scelta di presentare un emendamento alla vigilia della discussione in aula ha intanto un duplice effetto. Da un lato si consolida l’impressione che l’esecutivo, al di là delle rassicurazioni, conti di intervenire sull’articolo 18. Cementando, d’altra parte, le varie anime del Pd che lo ritengono intoccabile. La posizione di Vannino Chiti, senatore del Pd assai critico con Matteo Renzi sulle riforme costituzionali, sul Jobs act è netta. «Le riforme, compresa quella del mercato del lavoro, sono indispensabili ma non possono essere ancorate a logiche di riduzione dei diritti dei lavoratori», ha ribadito Chiti, aggiungendo che «non possiamo (il Pd, ndr ) essere subalterni a logiche neoliberiste superate dalla storia a cui continuano a richiamarsi altre forze di maggioranza». Sul fronte sindacale il leader Fiom, Maurizio Landini, è netto: «Renzi commette una follia se lo cancella e se continua il lavoro sporco dei precedenti governi non solo non usciamo dalla crisi, ma si mette contro i lavoratori».

Repubblica 16.9.14
Le regole del mercato del lavoro in Italia sono contraddittorie e i risultati ottenuti sono scarsi
Ecco le principali anomalie di un sistema che produce un tasso di occupazione tra i più bassi d’Europa
Disoccupati nascosti e produttività a terra così il Paese perde colpi
di Federico Fubini


ROMA Uno dei più bassi livelli di occupazione al mondo, dentro uno dei sistemi che protegge di più il posto di chi un impiego permanente lo ha. Una disoccupazione giovanile senza paragoni con qualunque altro Paese, in proporzione alla quota generale dei disoccupati. Un aumento di stipendi e salari più rapido che in Germania, unito a un crollo dei consumi che invece in Germania continuano ad aumentare.
Più che un mercato del lavoro, lo si potrebbe definire un suk di contraddizioni. Gli obiettivi e gli esiti delle norme che governano l’impiego sembrano procedere in direzioni opposte: all’impegno all’equità e al benessere iscritto nelle leggi corrisponde una fabbrica di esclusione, inattività e impoverimento chiamata oggi Repubblica italiana. Certo non è solo colpa delle regole, ma a sei mesi da quando il governo varò la legge delega sul lavoro uno dei suoi obiettivi è chiaro: arrivare a una situazione diversa da questa. I dati dell’Ocse sull’occupazione e quelli di Eurostat sull’andamento sulle remunerazioni fanno sospettare che dev’esserci qualcosa di profondamente sbagliato in Italia. Difficile altrimenti capire perché il quadro sia peggiore anche rispetto ad altri Paesi colpiti dalla crisi. O perché risultino false alcune delle credenze che, in questo Paese, molti considerano semplicemente ovvie.
Una di queste è che l’Italia ha una disoccupazione elevata, ma molto meno della Spagna e semmai come la Francia. Questa opinione deriva dal fatto che in Spagna la disoccupazione ufficiale è al 24,5%, in Italia al 12,6% e in Francia al 10,3%. Benché non venga mai detto, però, questi dati non sono paragonabili perché non lo sono le istituzioni alla loro base: in Spagna tutti i disoccupati godono di un sussidio e dunque hanno interesse a dichiararsi tali, mentre in Italia spetta quasi solo ai cassaintegrati, i quali però per le statistiche sono «occupati». Gli altri, il grosso dei senza lavoro, spesso non si iscrivono agli uffici per l’impiego perché lo considerano inutile.
Un quadro più realistico viene dai dati dell’Ocse sulla popolazione attiva in proporzione al totale dei residenti: Italia e Spagna sono entrambe appena al 36%, cioè lavora uno su tre e fra solo la Grecia è di poco sotto; la Francia è molto sopra, al 45%. Se poi si guarda alla popolazione attiva fra quella in età da lavoro (fra i 15 e i 64), la Spagna è al 74%, la Grecia al 67,3% e l’Italia è staccata al 63,5%. In altri termini, questi numeri dicono che i dati dell’Istat presentano un quadro della disoccupazione più roseo rispetto alla realtà. La popolazione attiva in Italia è pari o persino minore rispetto a Paesi con tassi di disoccupazione doppia o più. Il sistema produce più esclusi di quanto non raccontino i numeri ufficiali.
Disattenzione c’è spesso su un altro aspetto nel quale l’Italia spicca per il risultato peggiore al mondo: la sproporzione, a sfavore dei giovani, fra la quota totale dei senza lavoro e quelli delle nuove generazioni. In nessun altro Paese la percentuale dei disoccupati giovani (fino a 25 anni) è così alta rispetto al totale: nessun altro Paese penalizza tanto, in proporzione, le ultime generazioni. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è 3,4 volte più alto di quello generale, più del triplo; in qualunque altro Paese Ocse, Spagna, Grecia, Portogallo inclusi, tende invece ad essere il doppio o poco più.
Altrettanto falsa (e diffusa) del resto è la credenza che spiega il recente successo della Spagna nel creare molti più posti dell’Italia con il fatto che quelli iberici sono soprattutto precari. È vero il contrario: la Spagna ha sì un’incidenza più alta di contratti a tempo, il 23% contro il 13% dell’Italia, ma dall’anno duemila non fanno che diminuire sul totale dei contratti mentre è proprio in Italia che da allora sono sempre in aumento, anno dopo anno.
C’è poi un’ultima «verità» italiana, che i dati di Eurostat non confermano: maggiori aumenti di salari e stipendi sostengono i consumi, dunque giovano all’economia. Il confronto con la Germania sembra indicare che non è così. Nei sedici anni da quando nel 1997 furono fissate le parità di cambio in vista dell’euro, i salari nell’industria manifatturiera in Italia sono saliti del 54,5% e in Germania del 39,8%; gli statali italiani hanno avuto aumenti del 48,6% e i tedeschi del 30%. Nel frattempo però la produttività in Germania è cresciuta del 50%, mentre in Italia solo del 10%. Il risultato è che le imprese italiane hanno reagito a questa pressione sui costi chiudendo o espellendo dipendenti, al punto che in questo Paese ormai lavora appena una persona su tre. In Germania invece lavora più di una persona su due, perché le imprese hanno assunto, e lì dal 2008 i consumi sono saliti del 6% mentre qui sono crollati del 13%. Se vuole davvero riformare il lavoro, questo governo avrà molto da fare.

Repubblica 16.9.14
La Fondazione Bertelsmann
Siamo in fondo alla classifica per l’indice di giustizia sociale
di Andrea Tarquini


BERLINO In Italia le misure d’austerità imposte dagli imperativi di risanamento dei conti sovrani e di salvataggio dell’euro hanno pesantemente aggravato le disuguaglianze sociali e le ingiustizie e raddoppiato il numero dei poveri: il 12,4 per cento del totale della popolazione. E quanto a inclusione sociale, cioè alla capacità di inserire le persone nella vita sociale e lavorativa normale, il nostro paese è sceso al ventiquattresimo posto sui ventotto paesi dell’Unione europea. Soltanto l’Ungheria dell’autoritarismo nazionalista del premier Viktor Orbàn, la Romania, la Bulgaria (cioè il più povero dei paesi dell’Unione europea) e la Grecia stremata dall’iperindebitamento e dalle draconiane misure di rigore imposte dalla Troika, stanno peggio di noi. Lo afferma la fondazione Bertelsmann, l’influente centro studi legato alla grande azienda editoriale tedesca, nel suo rapporto pubblicato ieri.
Gli italiani poveri, cioè «costretti a pesanti privazioni materiali», scrive il rapporto, sono quasi raddoppiati dall’inizio della crisi economica, passando dal 6,8 per cento della popolazione nel 2007 al 12,4 nel 2013. Lo studio pone l’Italia, appunto, al poco invidiabile 24mo posto per inclusione sociale. Ai vertici della classifica sono invece paesi del Nord Europa, cioè Svezia, Finlandia e Danimarca. L’Italia è al penultimo posto per giustizia intergenerazionale e al primo posto per quota di Neet, ossia i giovani che non lavorano e non studiano.
Il rapporto della fondazione Bertelsmann sottolinea che la situazione è in peggioramento nell’intero vecchio continente: «Le rigide politiche di austerità portate avanti durante la crisi, e le riforme strutturali miranti alla stabilizzazione economica e dei conti pubblici, hanno avuto nella maggior parte dei casi effetti negativi sulla giustizia sociale». Implicita ma durissima condanna del rigore alla tedesca.

Repubblica 16.9.14
La disfatta degli economisti
Quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008
Anzi, molti hanno giurato che una congiuntura del genere non si sarebbe mai potuta verificare In pochi, poi, hanno fatto autocritica
Spesso faziosi, si sono allontanati più volte dalle teorie tradizionali E i risultati adesso sono sotto gli occhi di tutti
di Paul Krugman


LA SCORSA settimana ho partecipato a una conferenza organizzata da Rethinking Economics , un gruppo gestito da studenti che invita, indovinate un po’, a ripensare l’economia. E Dio sa se l’economia deve essere ripensata alla luce di una crisi disastrosa, che non è stata predetta né impedita.
A mio avviso però è importante rendersi conto che la disfatta intellettuale degli ultimi anni interessa più di un livello. Ovviamente l’economia come disciplina è uscita drammaticamente dal seminato nel corso degli anni — o meglio decenni — portando dritto alla crisi. Ma alle pecche dell’economia si sono aggiunti i peccati degli economisti che troppo spesso per faziosità o per amor proprio hanno messo la professionalità in secondo piano. Non da ultimo i responsabili della politica economica hanno scelto di ascoltare solo ciò che volevano sentirsi dire. Ed è questa sconfitta multilivello — e non solo l’inadeguatezza della disciplina economica — la responsabile del terribile andamento delle economie occidentali dal 2008 in poi.
In che senso l’economia è uscita dal seminato? Quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi. Alla base di questa certezza sprovveduta dominava una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione.
I modelli teorici sono utili in economia (e adire il vero in qualsiasi disciplina) come strumento per illustrare il proprio pensiero. Ma a partire dagli anni Ottanta è sempre più difficile pubblicare sulle maggiori riviste un contributo che metta in discussione questi modelli. Gli economisti che hanno cercato di prendere coscienza della realtà imperfetta hanno affrontato una “novella repressione neoclassica”, per dirla con Kenneth Rogoff, di Harvard, non certo un radicale (e con il quale ho avuto da discutere). Dovrebbe essere assodato che non ammettere che il mercato possa essere irrazionale o fallire significa escludere la possibilità stessa di una catastrofe come quella che, sei anni fa, ha colto di sorpresa il mondo sviluppato.
Tuttavia molti economisti applicati avevano una visione più realistica del mondo e i testi di macroeconomia pur non prevedendo la crisi, hanno saputo predire abbastanza bene la realtà del dopo crisi. I tassi di interesse bassi a fronte di gravi deficit di bilancio, l’inflazione bassa a fronte di una offerta di moneta in rapida crescita e la forte contrazione economica in paesi che impongono l’austerità fiscale hanno colto di sorpresa gli esperti in tv, ma corrispondevano semplicemente alle previsioni dei modelli fondamentali nelle situazioni predominanti del post crisi.
Ma se i modelli economici non sono stati poi così deludenti nel dopo crisi , altrettanto non si può dire di troppi economisti influenti che si sono rifiutati di ammettere i propri errori, lasciando che la mera faziosità avesse la meglio sull’analisi, o entrambe le cose. «Ho sostenuto che una nuova depressione non fosse possibile, ma mi sbagliavo, è che le imprese reagiscono al futuro insuccesso della riforma sanitaria di Obama».
Direte che sbagliare è tipico della natura umana, ed è vero che mentre il dolo intellettuale più sconvolgente è attribuibile agli economisti conservatori, anche alcuni economisti di sinistra sono parsi più interessati a difendere il loro orticello e a prendere di mira i colleghi rivali piuttosto che a correggere il tiro. Ma questo comportamento ha sorpreso e sconvolto soprattutto chi pensava che fossimo impegnati in un reale dibattito.
Avrebbe fatto differenza se gli economisti si fossero comportati meglio? Oppure chi è al potere avrebbe agito comunque come ha agito, infischiandosene?
Se immaginate che i responsabili della politica abbiano passato gli ultimi cinque o sei anni alla mercé dell’ortodossia economica siete fuori strada. Al contrario, chi aveva potere decisionale ha recepito moltissimo le idee economiche innovative, non ortodosse — che a volte erano anche sbagliate, ma fornivano loro la scusa per fare quello che comunque volevano fare.
La gran maggioranza degli economisti orientati alla politica sono convinti che l’aumento della spesa pubblica in un’economia depressa crei posti di lavoro, mentre i tagli li distruggono — ma i leader europei e i repubblicani statunitensi hanno deciso di credere allo sparuto gruppo di economisti di opinione opposta. Né la teoria né la storia giustificano il panico scatenatosi riguardo agli attuali livelli di debito pubblico, ma i politici hanno deciso di abbandonarsi comunque al panico, citando a giustificazione studi non verificati (e rivelatisi erronei).
Non voglio dire che la teoria economica è a posto né che gli errori degli economisti non contano. Non lo è, gli errori contano e sono del tutto favorevole a ripensare e riformare il settore.
Il grande problema della politica economica non sta però nel fatto che la teoria economica tradizionale non ci dice cosa fare. In realtà il mondo starebbe molto meglio se la politica reale avesse rispecchiato gli insegnamenti del corso di economia di base Econ 101. Se abbiamo fatto la frittata — e così è stato — la colpa non è dei libri di testo ma solo nostra.
© 2-014 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi

il Fatto 16.9.14
Luciano Gallino
“Se i politici conoscessero Roosevelt...”
intervista di Sa. Ca.


Dopo decenni di politiche che hanno soffocato i diritti e le conquiste del lavoro, alla fine il risultato non può essere che questo: lavoratori di 88 anni o imprenditori che vanno fuori di testa”. Il professor Luciano Gallino è netto nella diagnosi sul mondo del lavoro che sfocia nella cronaca nera, espressione di una realtà che non collima con le “riforme”.
“Uno dei modi – continua Gallino – con cui è stata camuffata la rimozione di quei diritti, è stato proprio quello di utilizzare, scorrettamente, il termine ‘riforma’. Un’impresa a cui hanno contribuito attivamente le varie socialdemocrazie”.
Tra i riformatori della prima ora viene indicata la Germania del socialdemocratico Schröder.
Agenda 2010 dell’ex cancelliere è l’esempio più limpido. Viene indicata come la riforma madre eppure il suo scopo è stato semplicemente quello di ridurre il più possibile i diritti e di mettere in discussione il contratto nazionale di lavoro.
Eppure, proprio grazie a Schröder e alle sue riforme, la Germania guida l’Unione europea
Chi fa questo discorso non ha la minima idea di quello che succede in Germania. Il successo delle esportazioni tedesche non ha restituito un euro ai lavoratori di quel paese. Gli aumenti di produttività degli ultimi 14 anni sono stati tutti incassati dalle imprese e i salari sono rimasti fermi a 14 anni fa. La Germania ha venduto grazie a questa politica. Inoltre, in quel paese ci sono circa 7,5 milioni di mini-jobs a 450 euro al mese con lavoratori che devono cumularne almeno due per sopravvivere. I lavoratori tedeschi hanno pagato salato i successi della Germania anche con i tagli al welfare, alla sanità, alla scuola.
Lei parla di una serie di guasti accumulati nel tempo. Perché si prosegue su questa strada?
Mi sembra che si viva in una fase forgiata dal credo neo-liberale. Che in realtà si traduce nell’assoluta libertà delle aziende e nella rimozione di qualsiasi ostacolo provenga dai lavoratori. Questo credo, però, ha prodotto un controsenso evidente: si è lavorato per comprimere seccamente i salari che, al tempo stesso, costituiscono circa il 60-65% della domanda complessiva. Una politica che equivale a spararsi sui piedi perché danneggiare i salari equivale a danneggiare la domanda.
Qual è il suo giudizio sul Jobs act di Renzi?
Intanto va detto che ci sono due versioni del progetto: la seconda, di questi giorni, peggiora la precedente. In ogni caso, il contratto a tutele crescenti significa una precarietà perenne perché nessun imprenditore rinnoverà il contratto al termine dei tre anni.
Una misura immediata secondo lei efficace?
Se c’è qualche soldo, magari quelli utilizzati per gli 80 euro, bisognerebbe concentrarsi su un Piano di opere pubbliche assumendo uno, due o tre milioni di lavoratori, mettendoli direttamente al lavoro. È una lezione di Roosvelt ma, ahimé, nessuno sa più chi sia.

il Fatto 16.9.14
Uccide i suoi due operai che non aveva pagato
Il lavoro diventa cronaca nera: uccisi dal padrone
Gli ex dipendenti si erano rivolti ai sindacati avevano vinto la causa ed ottenuto un decreto ingiuntivo
Lui risponde con la pistola e si giustifica: “Minacciato con un piccone. Ho sparato per legittima difesa
di Sandra Amurri


Fermo Molino Girola, periferia di Fermo, agglomerato di case che costeggiano la strada che porta ai Monti Sibillini. Erano da poco scoccate le 11. Gianluca Ciferri, 48 anni, imprenditore edile, stava nel garage della sua villetta quando, secondo il suo racconto, è stato aggredito alle spalle da due suoi ex dipendenti kosovari, licenziati a luglio, muniti di piccozza. L’imprenditore avrebbe cercato di difendersi divincolandosi fino a che, forse, vistosi perduto, ha aperto un cassetto, ha estratto il revolver, regolarmente detenuto, e ha fatto fuoco.
IL PRIMO COLPO ha ucciso Mustafa Neomedim, 38 anni, sposato e padre di quattro figli. Il secondo ha ferito gravemente il cognato, Aydyli Valdet, 26 anni che è riuscito a scappare per accasciarsi poco dopo sul marciapiede privo di vita. Mustafa, che condivideva a Fermo dove risiedeva, la casa con il fratello della moglie, era iscritto alla Cgil. E proprio alla Cgil, alcuni mesi fa si era rivolto per riuscire a ottenere il pagamento di diverse mensilità arretrate dal 2013, ma non aveva voluto intraprendere una vertenza, forse, per evitare di perdere il posto di lavoro. Invece a luglio è stato licenziato assieme al cognato e aveva fatto ricorso a un decreto ingiuntivo. Il sindacalista responsabile del settore, aveva anche cercato di parlare con il piccolo imprenditore che gli aveva chiesto tempo spiegandogli che era in attesa di incassare dai clienti. Poi non l’aveva più sentito Mustafa. E da ieri, quando ha appreso della tragedia che si è conclusa con la morte dei due kosovari e con l’arresto di Ciferri per duplice omicidio, lo accompagna il ricordo del suo volto disperato. Saranno i risultati balistici, le autopsie e le indagini in corso a stabilire se i colpi sono stati esplosi per legittima difesa o se invece vi sia stato un eccesso colposo. Di certo c’è stata colluttazione come dimostrano gli abiti stracciati dei tre e le ecchimosi riportate. Ma è stata tale da giustificare l’uso dell'arma? Mustafà, così come i suoi due fratelli che lavorano presso un’altra impresa edile, era conosciuto come una persona dai modi gentili, di certo non aggressivo, un gran lavoratore, uno dei tanti che reclamano il diritto a essere pagati per il lavoro svolto. Sicuramente la situazione che viveva era drammatica, senza lavoro e senza neppure quelle mensilità che con il cognato aspettava da due anni.
UNA TRAGEDIA che ha scosso fortemente un territorio che, anche grazie alla manovalanza extracomunitaria soprattutto nel settore edile e calzaturiero, aveva raggiunto un alto livello di benessere diffuso e ora si trova a fare i conti con la crisi. Il settore delle costruzioni dal 2008 a oggi ha perso 360 mila posti di lavoro oltre all’indotto. Nella provincia di Ascoli Piceno-Fermo si registra un 55 per cento in meno di ore lavorate e il 47 per cento di lavoratori in meno. Molti operai vengono licenziati poi continuano a prestare la loro opera in nero nella stessa ditta perché i datori di lavoro non riescono a pagare i contributi. Altri continuano a lavorare senza stipendio con la promessa che prima o poi verranno pagati. Il classico cane che si morde la coda: nessuno acquista più gli immobili, le imprese non incassano, le banche gli negano il credito e i lavoratori restano in mezzo alla strada. E molte sono ditte artigianali, a conduzione famigliare, come quella di Ciferri, al massimo quattro operai.
Ma l’anello più debole della catena resta il lavoratore. E tragedie come quella che si è consumata a Fermo che racconta la disperazione più cieca sono destinate a non essere casi isolati mentre la politica resta a guardare. Nella provincia del Fermano, culla anche del distretto calzaturiero più grande d’Europa, gli immigrati avevano costruito le loro famiglie e il loro futuro, senza alcun problema di integrazione. Ma ora che le fabbriche chiudono e non riescono più a pagare l’affitto e non sanno come sfamare i figli rischiano di diventare vittime del classico luogo comune: il lavoro non c’è per noi italiani perché dobbiamo dividerlo con gli immigrati? Tornassero a casa loro. Come se si fosse dimenticato che per molti anni hanno rappresentato una risorsa, una manna per fare profitto perché costavano meno e svolgevano mansioni che gli italiani non volevano svolgere.
Saranno le indagini a spiegare se l’imprenditore è stato aggredito dai due kosovari e se la sua è stata legittima difesa, ma due persone sono morte, una di loro era padre di quattro bimbi, e un altro padre di tre figli rischia anni di galera. Dure le parole di Cgil Cisl Uil Fillea Filca Feneal provinciali di Fermo affidate a un comunicato: “Di fronte alla fame di lavoro che c’è, siamo costretti a constatare, purtroppo, che governo e Parlamento sono in ben altre cose affaccendati. E le sporadiche volte che se ne occupano, è solo per abbattere i pochi diritti rimasti a difesa della libertà e della dignità dei lavoratori”. A cui seguono quelle dense di solidarietà per i due operai uccisi, volti conosciuti e ricordati con grande dolore, il dolore dell’impotenza nonostante il supporto quotidiano offerto di fronte al “crollo del lavoro” e della dignità che la sua negazione porta con sé.

il Fatto 16.9.14
Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, il patrimonio dentro e quello fuori (ignorato)
di Manlio Lilli

qui

il Fatto 16.9.14
Sapienza, elezioni nuovo rettore: quando è più difficile domandare che rispondere
di Marco Bella

qui

il Fatto 16.9.14
Fecondazione eterologa a pagamento in Lombardia, dalla padella alla brace
di Rosaria Iardino

qui

Corriere 16.9.14
«Oltre un anno per decidersi Nelle coppie dell’eterologa le donne sono le più dubbiose» Lo specialista: poche donatrici, noi consigliamo l’estero
intervista di Luigi Ripamonti

Si può tracciare un identikit delle coppie che decidono di sottoporsi alla fecondazione assistita eterologa? Lo abbiamo chiesto a Edgardo Somigliana, responsabile del centro di procreazione medica assistita della fondazione Ca’ Granda-Policlinico di Milano (ex- Clinica Mangiagalli).
«L’unico vero denominatore comune di queste coppie è che non vogliono fare l’eterologa. In base alla nostra esperienza in genere passa circa un anno e mezzo prima che accettino l’idea: è un percorso che ha bisogno dei suoi tempi. E del resto lo capisco, perché il primo a essere in difficoltà sono io che la devo proporre. Non è facile superare la percezione dell’importanza dell’ereditarietà genetica, anche se poi, ovviamente, si razionalizza e si mette a fuoco che l’ambiente fa la differenza».
Sono più gli uomini o le donne che hanno difficoltà ad accettare questa procedura?
«Di solito le donne, anche perché oggi per la fertilità maschile ci sono tecniche con cui si superano situazioni anche molto difficili. Le reticenze degli uomini, quindi, sono numericamente piuttosto rare».
Fra i problemi che si presentano nelle donne ci sono anche pentimenti a cose fatte?
«So di casi, ma solo riferiti, di rifiuto durante la gravidanza, con richiesta di abortire. Detto questo, quando si arriva ad avere il bambino in braccio quasi sempre tutto sparisce».
C’è un protocollo per verificare se una coppia è psicologicamente attrezzata per affrontare l’eterologa?
«No. Ma qui il problema secondo me è più mediatico. Con i progressi delle tecniche di procreazione assistita ormai si tende a trasmettere l’idea che si possa fare tutto e sempre. E noi invece ogni giorno dobbiamo chiarire che per le donne dopo i 40 anni non è facile avere figli. Una donna dovrebbe cercare di avere bambini fra i 20 e i 30 anni. La menopausa, in media, arriva a 51 anni e quindi la produzione di ovociti cessa (sempre in media) intorno ai 41 anni. Spiace, ma è la biologia a stabilirlo. Invece di propagandare l’eterologa in età avanzata bisognerebbe fare campagne per sottolineare questo concetto e mettere in grado le coppie giovani di avere figli».
Che cosa è cambiato nella vostra clinica dopo la riapertura alla fecondazione eterologa nel nostro Paese?
«Non molto. Per ora continuiamo a consigliare di andare all’estero alle coppie che hanno urgenza. Perché tutto diventi “reale” da noi ci vorrà probabilmente almeno un anno».
Un’ammissione sorprendente per chi lavora in un’istituzione prestigiosa come la sua.
«Il nostro ospedale è importante e ben organizzato, ma non siamo ancora strutturati per far funzionare subito e perfettamente tutto quanto necessario per le coppie che ci chiedono una soluzione rapida con l’eterologa. Se si parte bisogna partire bene».
Qual è il problema principale?
«In Italia i potenziali riceventi non mancano, ma mancano le donatrici di ovuli. Una donna che voglia donare i propri ovociti deve affrontare una procedura impegnativa».
Ma non si è detto che si sarebbero usati gli ovociti soprannumerari prodotti dalle stimolazioni ovariche su donne in trattamento per procreazione omologa?
«Gl i ovociti sovrannumerari sono un incidente. Diciamo la verità: noi non dovremmo stimolare troppo le pazienti, però ogni tanto succede. Comunque non è detto che una donna sia disponibile a donare i propri ovociti, perché se non dovesse rimanere incinta potrebbe averne bisogno per evitare un nuovo ciclo di stimolazione. Fra l’altro di solito si tratta di donne che non sono molto giovani, e quelle che fra loro producono molti ovociti hanno magari la sindrome dell’ovaio policistico, e questi ovociti non sono sempre di alta qualità».
Come si può incoraggiare la cultura della donazione di ovociti?
«Non saprei. Ma anche in Paesi in cui la cultura della donazione è, in generale, molto sviluppata, come per esempio la Spagna, a donare sono di solito studentesse universitarie dietro compenso, stabilito per legge».
Non le sembra pericoloso? Oggi gli ovociti, domani un rene...
«Senz’altro il rischio di una deriva commerciale è da tenere presente e da prevenire, ma per donare gratis gli ovociti, assumendosi dei rischi, come magari un’infezione o un’emorragia, bisogna avere una forte motivazione. Possiamo scegliere se essere realisti oppure far finta che il problema non esista. Una situazione “tampone” in Italia ci sarebbe. Basterebbe consentire l’adozione degli embrioni congelati di cui non si può fare nulla. Il problema, anzi solo uno dei problemi, è che bisognerebbe rendere possibile la fecondazione eterologa doppia, cioè con entrambi i gameti provenienti da fuori della coppia, attualmente non permessa, per lo meno in Lombardia».
A proposito di Lombardia. Nella regione in cui lavora si dovrebbe pagare l’eterologa di tasca propria.
«Se si vuole adottare un bambino si spendono in media 30mila euro. È un percorso lodevole e molto difficile, anche rispetto alla fecondazione eterologa. Quindi il dilemma politico è: fra le spese che si devono coprire con il sistema sanitario ci devono essere anche quelle per l’eterologa? Oppure, per esempio, ci devono essere la psicoterapia o l’apparecchio ortodontico per i bambini? Io non lo so che cosa è giusto. Lascio ai politici le valutazioni. Basta che le scelte non siano ideologiche».

La Stampa 16.9.14
Primo giorno, giù dalla finestra del liceo
Bergamo, studente modello si getta dal quarto piano: gravissimo. Operato nell’ospedale dove il padre è chirurgo
di Fabio Poletti


Tra i millecinquecento studenti del liceo scientifico Filippo Lussana di Bergamo, che ieri mattina entravano in classe al suono della campanella delle 8 e 5, Marco P. era come tutti gli altri. Alto e magro come tanti. Biondino come molti. Lo stesso zaino a tracolla di tutti, ordinato per il primo giorno di scuola. «Abbiamo parlato delle vacanze. Era stato in Grecia con la sua famiglia. L’ho ringraziato ancora perché mi aveva passato i compiti delle vacanze. Quando siamo entrati in classe ha appoggiato lo zaino sul banco, poi l’ho perso di vista», racconta Andrea, il suo compagno di banco della terza U, i brufoli a circondare un sorriso che oggi proprio non gli riesce.
Perché quando suona la seconda campanella delle 8 e 10 e l’insegnante di inglese è in classe, Marco P. è già salito al quarto piano dove c’è la palestra. Nessuno lo ha visto prendere la scala antincendio, spegnere con cura il telefonino lasciato sul davanzale, scavalcare il parapetto e poi darsi un colpo di reni per un volo di sedici metri, finito nel cortile della scuola dove lo hanno trovato altri studenti. E dove adesso una bidella con il grembiule blu passa e ripassa con la scopa e la segatura, per cancellare quelle tracce indelebili per chissà quanto in questa scuola, tra le più rinomate di Bergamo.
Marco P. ora è all’ospedale Papa Giovanni XXIII in gravissime condizioni. I medici lo hanno operato per oltre tre ore per ridurgli l’ematoma in testa e contenere le fratture. Fuori dalla sala operatoria c’è suo padre, chirurgo nello stesso ospedale. Ai poliziotti che lo hanno sentito e ai dirigenti della scuola, ha ripetuto che mai e poi mai c’era stato sentore in casa di quello che è successo: «Mio figlio è un ragazzino come tanti... Va benissimo a scuola... Apparentemente senza problemi... Come tanti...».
La pagella di Marco P. dell’anno scorso parla per lui. In tutte le materie aveva la media dell’otto. Un ragazzo con molti interessi, uno dei pochi che leggeva i giornali e si teneva informato. Gli piaceva discutere di tutto. Per questo i suoi compagni di classe lo avevano nominato rappresentante della terza U. Anche Andrea, il suo compagno di banco, non riesce a darsi una spiegazione: «E’ vero che Marco è un po’ timido e non ha la ragazza ma non era uno isolato. La settimana scorsa ci eravamo visti con tutta la classe e avevamo fatto un giro per Bergamo. Con noi non aveva mai parlato dei suoi problemi».
Famiglia benestante, rendimento scolastico eccellente, nessun episodio di bullismo a creare ombre nella sua vita apparentemente senza curve. Nello zaino neanche un biglietto a spiegare quelle che erano le sue intenzioni. Gualtiero Beolchi, il direttore scolastico, anche lui al suo primo giorno in questa scuola, ha chiesto agli studenti e agli insegnanti: «Non c’era mai stata alcuna segnalazione su di lui. Il rendimento scolastico era ottimo. Quale sofferenza e quale disagio provasse dentro, non lo sa nessuno. Per noi era un ragazzo come tanti».
E alla fine è questo che fa paura. Oggi qualche mamma è venuta fino a qui davanti ad aspettare l’uscita delle classi. Anche il sindaco Giorgio Gori ha voluto incontrare i dirigenti scolastici: «Posso solo immaginare cosa stanno provando i suoi genitori. Spero tanto che i medici riescano a salvarlo. Anch’io ho figli di questa età».

La Stampa 16.9.14
La psicologa: all’emulazione”
intervista di F. Pol.


Professoressa Tilde Giani Gallino, docente di Psicologia dello Sviluppo a Torino, primo giorno di scuola e primo ragazzino che tenta il suicidio ...
«Il primo giorno di scuola è solo un modo per cercare di attirare l’attenzione. Ma non c’è una casistica che indichi che la propria abitazione, o la classe, sia preferita».
L’età invece? Tra i quindici e i sedici anni...
«È l’eta critica. L’età del passaggio fra fanciullezza ed adolescenza. Quella via di mezzo in cui ai ragazzi sembra difficile sopportare la vita e relazionarsi».
Il quindicenne di Bergamo non si era confidato. Nessuno sembra essersene accorto. Non ha lasciato nemmeno un bigliettino. C’è qualche significato?
«Anche se all’apparenza è un ragazzino senza alcun problema percebile bisogna ricordare che all’interno del proprio io ci sono sofferenze che non vengono comunicate. Richiamare l’attenzione di tutti in quel modo è fatto solo per dimostrare che lui non era nè si sentiva quel ragazzino serio e bravo a scuola come tutti credevano».
E l’assenza di un biglietto?
«Lui ha voluto comunicare ugualmente qualcosa. Ci ha detto: “Io non ho più niente da dirvi perchè se voi non avete capito prima, non sarete in grado di capire dopo”».
Ci sono dei segnali d’allarme che la scuola può cogliere?
«E’ molto difficile. Certo un comportamento scolastico di un ragazzino che crea problemi senza motivi evidenti è un segnale da analizzare con attenzione, a scuola come a casa. Ma nella maggior parte dei casi i ragazzini non mostrano all’esterno la loro rabbia verso il mondo o la difficoltà a relazionarsi con gli altri».
In classe ne hanno parlato, nei prossimi giorni verrà chiesto l’aiuto di un psicologo...
«In Italia è un fenomeno relativamente stabile. Le statistiche sono identiche a dieci o vent’anni fa. È veramente difficile cogliere certi segnali. Bene ha fatto la scuola ad aprire un dialogo anche con l’ausilio di un esperto. Ma come sempre in questi casi il vero pericolo è l’emulazione».[F.POL.]
Professoressa Tilde Giani Gallino, docente di Psicologia dello Sviluppo a Torino, primo giorno di scuola e primo ragazzino che tenta il suicidio ...
«Il primo giorno di scuola è solo un modo per cercare di attirare l’attenzione. Ma non c’è una casistica che indichi che la propria abitazione, o la classe, sia preferita».
L’età invece? Tra i quindici e i sedici anni...
«È l’eta critica. L’età del passaggio fra fanciullezza ed adolescenza. Quella via di mezzo in cui ai ragazzi sembra difficile sopportare la vita e relazionarsi».
Il quindicenne di Bergamo non si era confidato. Nessuno sembra essersene accorto. Non ha lasciato nemmeno un bigliettino. C’è qualche significato?
«Anche se all’apparenza è un ragazzino senza alcun problema percebile bisogna ricordare che all’interno del proprio io ci sono sofferenze che non vengono comunicate. Richiamare l’attenzione di tutti in quel modo è fatto solo per dimostrare che lui non era nè si sentiva quel ragazzino serio e bravo a scuola come tutti credevano».
E l’assenza di un biglietto?
«Lui ha voluto comunicare ugualmente qualcosa. Ci ha detto: “Io non ho più niente da dirvi perchè se voi non avete capito prima, non sarete in grado di capire dopo”».
Ci sono dei segnali d’allarme che la scuola può cogliere?
«E’ molto difficile. Certo un comportamento scolastico di un ragazzino che crea problemi senza motivi evidenti è un segnale da analizzare con attenzione, a scuola come a casa. Ma nella maggior parte dei casi i ragazzini non mostrano all’esterno la loro rabbia verso il mondo o la difficoltà a relazionarsi con gli altri».
In classe ne hanno parlato, nei prossimi giorni verrà chiesto l’aiuto di un psicologo...
«In Italia è un fenomeno relativamente stabile. Le statistiche sono identiche a dieci o vent’anni fa. È veramente difficile cogliere certi segnali. Bene ha fatto la scuola ad aprire un dialogo anche con l’ausilio di un esperto. Ma come sempre in questi casi il vero pericolo è l’emulazione».

Corriere 16.9.14
Precipitano dal settimo piano
Omicidio-suicidio, entrambi morti
Lei 19 anni, lui 20, ancora da accertare le cause della tragedia
Una testimone: «Lui l’ha trascinata giù»

qui

Corriere 16.9.14
Più abusi sessuali tra ragazzi
L’esperto: influenzati dalla Rete
di Mariolina Iossa


ROMA — Un sms contro spacciatori e bulli per inaugurare l’anno scolastico. Da ministro dell’Interno, come capo della sicurezza, Angelino Alfano non è andato in una scuola, ieri mattina, come hanno fatto molti altri colleghi. Ma l’effetto non è stato inferiore. Alfano era al Polo Interforze Anagnina, dove ha firmato una direttiva che sarà inviata a tutti i prefetti, perché attivino entro trenta giorni un numero telefonico cui mandare un sms per denunciare pusher e bulli nelle scuole.
«È il nostro modo di augurare un buon avvio dell’anno scolastico — ha detto il ministro — dicendo no alla droga e al bullismo. Non dimentichiamo che negli ultimi quattro anni 12 studenti sono morti per droga e due ragazzi si sono suicidati perché vittime di bullismo». I dati, messi a disposizione dal ministero dell’Interno, sono «inquietanti», ammette lo stesso Alfano. Le scuole sono luoghi sempre più pericolosi, i denunciati e arrestati per reati commessi dai minori ai danni di altri minori, o scendono lievemente oppure, in qualche caso, aumentano di molto.
È il caso delle violenze sessuali, che pur essendo diminuite dal 2011, quando furono 192, fin giù alle 91 del 2013, nell’ultimo anno hanno subìto un’impennata del 25 per cento. Siamo già a 114, dal primo gennaio al 31 agosto di quest’anno. Più 24 per cento anche per quanto riguarda gli atti di vandalismo e danneggiamenti, e balzo del 100 per cento per atti sessuali con minorenni, per intenderci sesso nei bagni della scuola, magari ripreso dal telefonino e postato sui social network. Sono «solo» 22 casi, ma lo scorso anno erano 11. Comunque in diminuzione rispetto ai 40 del 2011. Le lesioni dolose, le rapine, le minacce, le ingiurie, le percosse, le estorsioni sono in forte diminuzione dal 2011 ad oggi, ma in lievissima diminuzione dallo scorso anno ai primi sei mesi di questo. Oppure invariati, come i furti. «Il nostro intento è far scendere ancora questi numeri — ha proseguito Alfano — e crediamo che un sms di denuncia “protetta” potrà aiutare. L’esperimento pilota realizzato a Roma a partire dallo scorso maggio, ci fa ben sperare».
Il numero telefonico, cinque cifre precedute dal prefisso della provincia di appartenenza, sarà diffuso dai prefetti a tutti i dirigenti scolastici. «La segnalazione — ha spiegato ancora Alfano — arriverà direttamente agli operatori della Questura, ma con modalità protette per chi denuncia. Sarà fatto ogni sforzo per proteggere chi denuncia, la riservatezza sarà assoluta». Il ministro vuole coinvolgere professori e famiglie: «Spaccio e bullismo sono fenomeni da combattere in tutti i modi e noi vogliamo che di questa lotta diventino sempre più protagonisti i ragazzi, ma anche gli insegnanti e i genitori».
«Accolgo con entusiasmo l’iniziativa del ministro — commenta il docente di sociologia, esperto in bullismo Nicola Ferrigni —. I ragazzi in genere non parlano con nessuno, né con i genitori né con gli insegnanti quando sono vittime di bullismo. Usare un codice linguistico a loro familiare come l’sms protetto, certamente favorirà l’emersione del fenomeno». Quanto al contrasto alla droga, Ferrigni la vede da un altro punto di vista. Per prima cosa, «occorrerebbe mettere in campo più forze, ci vogliono più controlli, più agenti davanti alle scuole, altrimenti le denunce cadono nel vuoto». E poi, «inutile illudersi che saranno i ragazzi a denunciare. In questo caso sono gli insegnanti, principalmente, che devono farsene carico. Bisogna coinvolgerli attraverso i presidi».
La violenza sessuale è in aumento? Secondo Ferrigni questo dipende dalla «globalizzazione della cultura. In realtà la violenza sessuale, il branco, lo stupro su minorenni non fa parte del dna dell’italiano medio. Ma i video e la pornografia che girano sui social network e che arrivano da altre parti del mondo, stanno cambiando i nostri ragazzi».

Corriere 16.9.14
Terapia choc al francese «Libération»
Verso l’uscita quasi cento giornalisti
di S. Mon.


PARIGI — Il quotidiano della sinistra francese Libération , co-fondato nel 1973 da Jean-Paul Sartre, sta per subire una terapia choc che lo porterà a ridurre il suo personale di 93 dipendenti (81 a tempo indeterminato e 12 a termine), tra giornalisti e no. Oggi lavorano a Libération circa 250 persone. I proprietari, Patrick Drahi e Bruno Ledoux, sperano che la maggior parte dei tagli sarà realizzata con un piano di partenze volontarie che offre condizioni economiche vantaggiose a quanti scelgono di lasciare il quotidiano impegnandosi a firmare una «clausola di non denigrazione» (a febbraio le due pagine al giorno della campagna nous sommes un journal , «noi siamo un giornale», erano state molto critiche nei confronti dell’editore). Se l’obiettivo dei 93 non sarà raggiunto entro il 31 gennaio, la direzione sarà costretta a indicare le persone da licenziare. Nell’edizione di oggi, il direttore Laurent Joffrin spiega — tra pragmatismo e solennità — che «dobbiamo perseguire i nostri obiettivi in condizioni realistiche. Potremo contare alla fine su una redazione di circa 130 persone, e Libération continuerà a difendere i suoi valori di giustizia, uguaglianza e modernità, in difesa del giornalismo libero, al servizio di un mondo migliore, più umano e più giusto». Anche Le Monde si appresta a cambiare, tornando sul piano di rinnovamento che aveva provocato la ribellione di parte della redazione e l’addio forzato della direttrice Natalie Nougayrède (passata una settimana fa al britannico The Guardian come editorialista). Per adesso nessun taglio del personale, ma una edizione digitale del mattino e una nuova formula del giornale cartaceo a partire dal 6 ottobre.

La Stampa 16.9.14
30 Paesi alleati contro l’Isis
“Coalizione monca. Senza i soldati a terra non vinceremo mai”
Il generale Garner: abbiamo invaso l’Iraq per poi ritrovarcelo alleato degli ayatollah
di Paolo Mastrolilli


Il generale Jay Garner non è ottimista: «Troppi interessi contrastanti fra gli arabi sunniti, e senza l’Iran sarà dura. In Iraq possiamo annientare l’Isis, ma in Siria è molto più difficile, senza mandare soldati americani sul terreno. Se poi ci riuscissimo, dovremmo cominciare già da ora a preparare una grande forza di intervento con gli europei per tenere in piedi il Paese».
Lei è stato il primo governatore dell’Iraq, dopo la caduta di Saddam nel 2003, ed era anche uno dei comandanti della Guerra del Golfo nel 1991. Vede similitudini fra la coalizione che costrinse Saddam a ritirarsi dal Kuwait, e quella che il presidente Obama sta creando per «degradare e distruggere» l’Isis?
«Sono situazioni molto diverse. Nel 1990 Saddam aveva violato l’integrità territoriale del Kuwait, e gli altri Paesi arabi erano uniti nella volontà di respingerlo indietro».
Cosa li divide, adesso?
«Questa è una guerra civile, settaria, con troppi interessi divergenti».
Ce li spieghi.
«Il primo passo sarebbe quello di avere il sostegno di tutti i Paesi sunniti, perché l’Isis minaccia l’Arabia e la Giordania più degli Usa. La monarchia saudita però è prudente perché non vuole dare l’impressione di partecipare a una guerra fra sunniti».
La Turchia ha detto no perché teme l’indipendenza curda?
«In realtà Ankara ha dichiarato che appoggia l’autonomia curda in Iraq, e i rapporti economici fra Turchia e Kurdistan sono ottimi. Certo Erdogan non vuole rischiare che la sconfitta dell’Isis si trasformi nella creazione di uno stato curdo nei suoi confini, ma credo che sia condizionato soprattutto dai cinquanta diplomatici di Ankara ostaggi dei terroristi».
Perché è impossibile vincere senza l’Iran?
«Controlla l’Iraq, e in parte anche la Siria. Gli Usa non possono stringere un’alleanza formale con Teheran, ma se dietro le quinte gli ayatollah non si prendono le loro responsabilità, non potremo sconfiggere l’Isis».
Non hanno comunque interesse a farlo?
«In Iraq sì, per difendere il governo sciita, ma in Siria temono che la lotta contro l’Isis provochi anche la caduta di Assad, che loro hanno sostenuto, e magari problemi per Hezbollah».
La coalizione quindi non ha speranze?
«È una coalizione? Chi è il comandante? Quali sono le strutture che la gestiscono? In realtà sono dei Paesi che hanno dato in ordine sparso la loro adesione, ma senza un coordinamento strategico e misure concrete. Chi manderà i soldati a terra?».
In queste condizioni, è possibile sconfiggere l’Isis?
«In Iraq sì, perché a terra ci sono i peshmerga curdi e ciò che resta dell’esercito iracheno. Se noi passiamo dai raid a una vera campagna aerea per sostenere la loro offensiva, possono riprendere il territorio perso. In Siria è molto più difficile, perché a terra ci sono Assad, Hezbollah e le milizie sciite con cui non collaboriamo, e l’opposizione moderata che è molto debole. L’unica opzione praticabile richiede l’invio a terra delle forze speciali americane, e la costruzione di una vera grande coalizione con arabi ed europei, per creare da subito la forza internazionale che dovrà controllare il territorio dopo la distruzione dell’Isis».
Gli analisti democratici dicono che la colpa originaria è vostra.
«Visto com’è andata, non avremmo dovuto invadere, perché l’Iraq che abbiamo costruito è alleato dell’Iran, non degli Usa. Poi sbagliammo a smantellare l’esercito: una sera andammo a letto, e la mattina ci svegliammo con 400.000 nemici in più, armati. Quelle però furono decisioni che non presi io».

La Stampa 16.9.14
Ucraina, il peso di bugie e propaganda
di Mark Franchetti

Corrispondente da Mosca per il Sunday Times

Essendo appena tornato dall’Est ucraino ho letto con interesse il commento di Barbara Spinelli sulla guerra civile in corso in quella regione, nel quale lei critica la stampa per non averla saputa raccontare con obiettività. Ho trascorso diverse settimane a scrivere reportage dall’Est dell’Ucraina e nel farlo ho dovuto negoziare per superare centinaia e centinaia di posti di blocco, presidiati sia dalle milizie filo-russe sia dall’esercito ucraino e da diversi battaglioni filo-Kiev finanziati privatamente.
Quello che colpisce è che, indipendentemente dallo schieramento di quelli con cui si parla, il messaggio è sempre lo stesso: «Perché la stampa non scrive la verità», chiedono gli uomini armati di entrambe le parti. Perciò le critiche della Spinelli, per quanto certamente più articolate e ragionate delle diatribe che si sentono normalmente sulla linea del fronte, non suonano come una novità.
Contrariamente a quello che lei afferma, però, non si può dire che sia mancata una appropriata copertura delle vicende ucraine. Conosco personalmente decine di giornalisti stranieri che, correndo grandi rischi personali, hanno fatto reportage sul conflitto nell’Est ucraino. Sei giornalisti sono stati uccisi, altri sono stati catturati, tenuti in ostaggio e picchiati. Ancora più numerosi sono stati quelli minacciati. Ma la Spinelli coglie un punto importante. Certe volte la stampa occidentale ha troppo rapidamente e prontamente semplificato quella che di fatto è la peggiore crisi tra la Russia e l’Occidente dai tempi dello scontro sui missili a Cuba.
La narrativa della nuova guerra fredda è risultata irresistibile per troppi giornalisti. Sappiamo che ci sono argomenti che provocano certe emozioni e suscitano certe paure nei lettori, e l’abbiamo sperimentato in decenni di confronto con l’Unione Sovietica. La paura vende. Accusare della crisi soltanto la Russia di Putin e raccontare che I russi stanno tornando a colpire tocca delle corde in molti, perché è una narrativa semplice e familiare. E in questo la nostra responsabilità nel soccombere alla nostra propaganda della Guerra Fredda e ai nostri pregiudizi istintivi è pari quasi a quella dei russi.
La verità è, come sempre, molto più complessa. Quello che abbiamo visto è un braccio di ferro sulle sfere d’influenza. Certamente la Russia interviene in Ucraina perché vuole conservarla nella sua orbita, ma anche l’Ue e l’America hanno pesantemente interferito in una crisi iniziata come puramente interna. Perché? Per attirare l’Ucraina nella propria sfera d’influenza e toglierla da quella russa.
«L’Ucraina è come un campo di calcio e le due squadre che ci giocano non se ne prendono molta cura», è la descrizione di un collega russo veterano di molte guerre. Ma molti responsabili dei giornali – che in questo caso sono responsabili più dei reporter sul campo – sono inclini spesso a vedere solo i torti commessi da una delle parti. Una delle spiegazioni per questo «strabismo», come lo chiama la Spinelli, è che sono passati solo 24 anni dalla fine della guerra fredda, un battito di palpebre rispetto alla storia.
L’esercito ucraino ha bombardato indiscriminatamente aree abitate da civili nell’Est ucraino, uccidendo uomini e donne. Ho visto le conseguenze devastanti di questi attacchi con i miei occhi. Non è vero che non viene raccontato. Viene raccontato, ma non viene condannato dall’Occidente. Immaginatevi la valanga di proteste e il giro di nuove sanzioni se la Russia facesse la stessa cosa contro le zone ucraine.
Ho coperto numerosi conflitti, dalla Cecenia all’Iraq e all’Afghanistan. Ma non ho mai visto una guerra come quella in Ucraina, dove la propaganda da entrambi i lati del conflitto è stata così feroce. È stata anche la prima volta in cui ho raccontato una guerra avvertendo la responsabilità diretta dei giornalisti nell’alimentarla. Spesso ho parlato con miliziani filorussi che sembrano aver preso le armi perché hanno guardato troppo e creduto troppo alla tv di Stato russa.
Non ci può essere una verità assoluta nel raccontare un conflitto, ma certamente ci può essere una menzogna assoluta. Entrambi gli schieramenti hanno mentito e continuano a farlo. Kiev, per esempio, racconta bugie sul numero delle vittime civile e i soldati uccisi. Ma quando si tratta di propaganda, la freccia della bilancia che pesa le colpe si sposta pesantemente verso Mosca. L’utilizzo dei suoi media statali è stato spregiudicato, tossico e insidioso come ai tempi sovietici. Tutte le bugie e le disinformazioni di Kiev non possono venire comparate alla propaganda del Cremlino.
Quando Slaviansk, una roccaforte dei separatisti, è stata ripresa dall’esercito ucraino l’estate scorsa, la tv di Stato russa ha diffuso nel telegiornale serale un reportage che raccontava di un bambino crocifisso dai soldati sotto gli occhi di sua madre per vendetta. Era completamente falso, ma milioni di russi che non hanno accesso a fonti alternative di informazione credono ancora che sia vero.
Spinelli ha ragione: la guerra in Ucraina non è affatto così semplice come molti vorrebbero far credere. Ma credetemi, alcune cose non possono essere altro che nere e bianche.
Traduzione di Anna Zafesova

il Fatto 16.9.14
Scozia autonoma? Lo decideranno polacchi e indiani
Al voto i residenti fra cui 400mila immigrati
di Caterina Soffici


LA REGINA ELISABETTA: “PENSATE BENE AL VOSTRO FUTURO”

Nel grande dibattito sull’indipendenza della Scozia c’è una grande anomalia che riguarda coloro che avranno diritto di esprimere la propria opinione. E cioè: perché vota solo chi vive in Scozia? Il referendum di dopodomani potrebbe cambiare per sempre la storia della Gran Bretagna, con enormi implicazioni geopolitiche ed economiche. Un terremoto che avrebbe conseguenze quindi non solo sul Regno Unito, ma anche sul futuro dell’Europa e sul destino della stessa Ue. Il partito nazionalista scozzese è riuscito a ottenere dall’odiato governo di Londra la possibilità di chiedere alla popolazione: “Siete d’accordo che la Scozia diventi una nazione indipendente?”.
UNA DECISIONE non da poco. Ma solo quella fetta di popolazione che vive a nord del Vallo di Adriano avrà la possibilità giovedì di decidere del proprio futuro, in nome dell’autodeterminazione dei popoli e di una identità nazionale differente, che ha portato la Scozia ad avere già un suo Parlamento, un trattamento fiscale diverso e altri benefici. Sorge allora spontanea una domanda: se la questione è sull’identità, perché si dà la possibilità di votare solo ai residenti in Scozia maggiori di 16 anni? Non importa che siano scozzesi o meno. Gli abitanti della Scozia sono circa 5,4 milioni, e di questi ben 4.285.323 si sono registrati per il voto: fanno il 97 per cento, una percentuale altissima, che non ha precedenti. Ci sono anche circa 400 mila “stranieri”, tra polacchi, pachistani, indiani, inglesi, cingalesi etc... Perché far votare loro e non i veri scozzesi spar-
si per il mondo, che si stimano tra gli 800mila e il milione? C’è anche una seconda anomalia. Quello di giovedì è anche un voto di protesta antipolitica.
IL GOVERNO di coalizione libdem-conservatore è considerato la longa manus della City e della finanza internazionale. La Scozia è tradizionalmente bacino elettorale laburista, ma anche Ed Miliband e la leadership socialdemocratica non brillano per popolarità, ultimamente. Londra e il Parlamento di Westminster (con tutti e tre i partiti che vi abitano, indistintamente) sono sempre meno rappresentativi dei problemi della gente.
Ma se il senso del referendum è “liberare” la Scozia dalla cricca di Londra, non credete che (come ha scritto sul Telegraph l’ex commentatore Bbc Jeremy Paxman) “anche a Birmingham non sia pieno di gente che pensa che Westminster non li rappresenta?”.
Intanto la regina Elisabetta domenica ha rotto il silenzio sul referendum di giovedì. Al termine di una cerimonia nella Crathie Kirk, vicino alla sua residenza di Balmoral in Scozia, a un amico ha detto: “Spero che le persone penseranno molto bene al futuro”.

La Stampa 16.9.14
“Sono un mostro, voglio morire”. Il Belgio dice sì allo stupratore
Trent’anni fa ha ucciso una 19enne, i giudici hanno autorizzato l’eutanasia
di Marco Zatterin

qui

Repubblica 16.9.14
Quel che resta dell’estate
di Moisés Maìm


SIRIA , Ucraina, Gaza, Iraq, lo Stato islamico, l’Ebola. L’elenco è lungo, ma nella tragica estate del 2014 sono avvenuti anche eventi con meno risalto mediatico, ma conseguenze potenzialmente altrettanto gravi. In alcuni casi si tratta di cambiamenti inattesi, in altri casi di tendenze che, se dovessero proseguire, potrebbero produrre effetti di rilievo.
1) È caduto il prezzo del petrolio.
Questa estate il prezzo dell’oro nero è sceso al livello più basso da un anno a questa parte. I prezzi oscillano sempre e non ci sarebbe nulla di clamoroso, se non fosse che questo calo è avvenuto in un momento in cui ci si sarebbe aspettati semmai il contrario, tra le guerre in Medio Oriente e in Ucraina e le pesanti sanzioni contro la Russia. E invece non è stato così. Gli Stati Uniti sono nel pieno di una rivoluzione energetica che li ha trasformati nel primo produttore di petrolio del mondo, davanti ad Arabia Saudita e Russia. Grazie all’aumento della produzione americana, nel mese di luglio il volume di greggio prodotto nel mondo ha toccato i massimi dal 1987. Contestualmente, la crescita anemica dell’economia mondiale non genera tanta domanda di energia come in passato. Più offerta da un lato e meno domanda dall’altro stanno quindi spingendo i prezzi verso il basso. Questa estate abbiamo visto una chiara manifestazione di questo incipiente nuovo ordine energetico. Se le cose andranno avanti così, il mondo cambierà volto.
2) La peggiore siccità da 106 anni.
Sono tre anni, ormai, che piove pochissimo nel versante occidentale di Stati Uniti, Messico e America centrale, e questa estate la situazione è diventata critica. Il 60 per cento del territorio della California è stato dichiarato zona di «siccità eccezionale», la categoria più estrema. Con il volume di acqua che è andato perduto per carenza di pioggia e neve, si potrebbe inondare con uno strato di 10 centimetri l’area che va dalle Montagne Rocciose alla costa del Pacifico. L’estate è stata una sequela di eventi climatici estremi.
3) La frenata dell’economia europea.
Quest’estate è stato confermato che il lento recupero delle economie europee si è fermato. Nella prima metà dell’anno, l’attività economica è calata in Germania e in Italia ed è rimasta al palo in Francia. Non sono arrivate solo cattive notizie dal vecchio continente: in Spagna l’economia continua a crescere e la Banca centrale europea ha preso misure aggressive per stimolare le economie dell’Eurozona. Purtroppo, però, è ricomparso al contempo lo spettro della deflazione, un calo cronico del livello dei prezzi che diventa molto pericoloso se abbinato a un elevato indebitamento. Quando si cade in questa trappola, uscirne è difficile: sono vent’anni che il Giappone lotta senza successo contro il flagello della deflazione.
4) La nomina di Federica Mogherini.
Come sappiamo, a partire da novembre la Mogherini sarà a capo della politica estera europea. Sarà lei a negoziare a nome dell’Europa in situazioni difficili come quelle con Russia, Ucraina, Iran, Medio Oriente, Cina ecc. E oltre a questo guiderà il consiglio formato dai 28 ministri degli Esteri dell’Unione Europea e dirigerà il Servizio europeo per l’azione esterna, una complicatissima burocrazia di 3.500 diplomatici sparsi in tutto il mondo. Qual è la principale credenziale della signora Mogherini? Aver ricoperto per sei mesi la carica di ministro degli Esteri dell’Italia. Prima di questo incarico, la sua esperienza internazionale o come capo di una grande organizzazione è stata minima. Tra gli esperti di politica internazionale, sono tutti del parere che non sia qualificata per ricoprire una carica così importante. E sono tutti anche del parere che la sua nomina sia la conferma che i Paesi europei non sono interessati ad avere una politica internazionale comune, e che non credono veramente che l’influenza dell’Europa nel mondo dipenda dalla sua capacità di agire in modo concertato.
5) Incidente aereo con conseguenze geopolitiche. Il volo MH17 delle linee aeree malesi non è stato l’unico sinistro aereo ad aver avuto importanti ripercussioni politiche, quest’estate. Il 13 agosto, il jet privato su cui viaggiava Eduardo Campos, candidato alle presidenziali brasiliane, si è schiantato al momento dell’atterraggio a causa del maltempo. Fino a quel giorno, la rielezione di Dilma Rousseff appariva sicura e l’élite politica che governa il Brasile dal 2003 sembrava destinata a rimanere al potere altri quattro anni. Poi però Marina Silva ha preso il posto di Campos come candidata e i sondaggi indicano che potrebbe sconfiggere la presidente in carica. Se dovesse andare così, probabilmente cambierebbero molte cose in Brasile, compresi i rapporti con il resto dell’America Latina. Forse la cieca solidarietà manifestata da Lula e Rousseff nei confronti di quei Governi della regione che minano la democrazia e violano i diritti umani finirebbe. E la mappa politica dell’America Latina potrebbe uscirne ridisegnata. Twitter @ moisesnaim ( Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 16.9.14
Giansenisti, i primi bersagli della «teoria del complotto»
Vennero accusati di voler colpire la Chiesa dall’interno
di Paolo Mieli


In principio fu Giansenio, al secolo Cornelis Jansen, vescovo belga di Ypres, che si dedicò a un’esegesi dell’opera di Agostino d’Ippona, l’Augustinus (fu pubblicato nel 1640, due anni dopo la sua morte). Tema: tutto è frutto di predestinazione, l’uomo nasce corrotto e solo la grazia di Dio può salvarlo. Tesi che furono condannate dalla Chiesa nel corso degli anni Quaranta, poi, in termini più netti, nel 1653 ad opera di papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili). Una condanna che si volle ispirata dai gesuiti, ma che non ebbe l’effetto di chiudere definitivamente il caso. Anzi, si ritorse in qualche modo contro la Chiesa e i gesuiti. È di qui che prende le mosse lo straordinario libro di Mario Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria , edito da Carocci. Un libro che, come l’altrettanto valido Il giansenismo in Italia (Edizioni di Storia e Letteratura) del salesiano Pietro Stella, ripropone temi un tempo piuttosto frequentati dagli storici (da Arturo Carlo Jemolo a Ernesto Codignola, a Ettore Passerin d’Entrèves, ad Arnaldo Momigliano, a Carmelo Caristia e Francesco Margiotta Broglio, a Carlo Fantappiè) e oggi alquanto trascurati.
A rendere universale la dottrina giansenista fu il grande successo delle Lettres provinciales di Blaise Pascal (1656-57) scritte a stretto contatto con il monastero cistercense di Port-Royal, centrale dell’agostinismo e della battaglia di Antoine Arnauld contro i gesuiti (l’abbazia verrà chiusa e rasa al suolo nel 1710 per ordine di Luigi XIV). Ai tempi di Clemente IX (Giulio Rospigliosi), i giansenisti erano stati sostanzialmente riabilitati con la cosiddetta «pace clementina» (1669). I loro argomenti servivano per la lotta sempre più dura contro la Compagnia di Gesù e non ci si poteva permettere di relegare il clero francese e olandese, profondamente permeato dalle tesi del vescovo di Ypres, ai margini della Chiesa. Ma successivamente le cose cambiarono nuovamente. All’inizio del Settecento fu la volta delle rivoluzionarie Réflexions morales del francese Pasquier Quesnel, che guadagnarono al giansenismo molte simpatie, ma anche una seconda pesante condanna contenuta nella bolla di Clemente XI Unigenitus (1713). La bolla, scrive Rosa, verrà a costituire «da un lato un documento fondamentale intorno al quale ruoterà pro o contro tanta parte delle discussioni e delle vicende politico-religiose settecentesche, e dall’altro un elemento di forte coesione di un fronte variegato, rigorista, giansenista, anticuriale, antigesuita, che nonostante le divisioni interne mantenutesi nel tempo, fu in grado di elaborare uno sforzo comune contro l’unico obiettivo del gesuitismo». Alla Compagnia di Gesù fu imputato «di essere stata di fatto ispiratrice della condanna e di rappresentare, sul piano ecclesiale e politico-ecclesiastico, quegli orientamenti gerarchici, verticisti e autoritari romani imposti dal Papato alla Chiesa cattolica nel suo recente sviluppo storico; orientamenti ai quali il giansenismo andava sempre più contrapponendo le proprie concezioni ecclesiologiche, alimentate dallo spirito comunitario dei vescovi, dei parroci e dei semplici fedeli, come l’opera di Quesnel stava largamente a dimostrare».
Se la Unigenitus non suscitò nella penisola, nell’immediato, discussioni e reazioni esplicite, come avverrà immediatamente in Francia — con il rifiuto di registrazione della bolla da parte del Parlamento di Parigi e con l’appello da parte di alcuni vescovi, quelli di Montpellier, di Mirepoix, di Senez e di Boulogne, e di ampie fasce del clero secolare e regolare a un futuro concilio generale — «fu perché diversi Stati italiani, preoccupati da possibili ripercussioni sulle loro strutture politiche e a livello religioso ed ecclesiastico, o come si diceva sulla “quiete” interna, all’indomani dei difficili anni che seguirono la guerra di Successione spagnola, diedero un tacito assenso alla sua diffusione, come a Milano, o consentirono, come a Napoli e in Sicilia, adesioni da parte di singoli vescovi; oppure, infine, come in Toscana, nel Regno di Sardegna e a Venezia non concessero l’exequatur al documento».
Ci fu in quell’occasione chi, come il giurista fiorentino Antonio Niccolini, escogitò una soluzione intermedia tra Chiesa e giansenismo. Di fronte alle polemiche provocate dalla bolla di condanna dell’opera di Quesnel e alla dannosa frattura apertasi nella Chiesa, Niccolini da un lato negò alla Unigenitus il carattere di regola di fede, come avrebbe voluto il «partito curiale», dall’altro respinse il rifiuto totale della bolla secondo gli orientamenti sempre più rigidi dello schieramento gallicano-giansenista francese. La proposta era quella di dar vita a un «terzo partito» che mediasse tra i due di cui si è appena detto. Una espressione, questa di «terzo partito», che, osserva Mario Rosa, «non ha trovato facile accoglienza come categoria in sede storiografica, ma che, rintracciabile nel linguaggio del tempo, anche da parte dei giansenisti romani e toscani degli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento, potrebbe essere accolta e utilizzata non nel senso che intenda definire un vero e proprio gruppo organizzato, ma quale tendenza e aspirazione diffusa, volte a riportare tra le opposte intransigenze la pace nella Chiesa, e a porre in prospettiva, come lo stesso Niccolini indica nel suo parere, con forte carica utopica, la convocazione di un concilio generale per la dottrina, la “polizia” e l’edificazione della Chiesa cattolica».
Le cose cambiarono ancora a metà Settecento, all’epoca di Benedetto XIV (Prospero Lambertini), che coltivò rapporti di amicizia con Ludovico Antonio Muratori e di stima nei confronti di Scipione Maffei, i quali, pur non potendo essere classificati come giansenisti, furono convinti «agostiniani» e si impegnarono nell’offensiva contro i gesuiti. Ed è a questo passaggio che dedica grande attenzione il libro. Mario Rosa attribuisce molta importanza al periodico fiorentino «Novelle letterarie» diretto da Giovanni Lami e ispirato da papa Lambertini, che — con l’appoggio degli agostiniani Fulgenzio Bellelli e Gianlorenzo Berti, nonché del cardinale Enrico Noris — si concentrerà in una vera e propria campagna contro due importanti gesuiti: Jean Pichon e Isaac-Joseph Berruyer. Né Bellelli, né Berti, né Lami, né tantomeno il cardinale Noris erano giansenisti. E però il clima culturale da loro creato (per conto, presumibilmente di papa Benedetto XIV) favorì una grande diffusione del giansenismo nella sua accezione toscana (ad opera del vescovo di Pistoia e Prato Scipione de’ Ricci, un grande del giansenismo italiano), in quella monastica e spirituale dell’area lombardo veneziana, in quelle ligure, napoletana e siciliana «con i suoi lieviti antigesuitici e illuministici». «Caratteri cangianti», li definisce Rosa. Che Eustachio Degola, un personaggio importantissimo del giansenismo ligure, in una lettera del 1791 al preposito della collegiata di Livorno, il giansenista Agostino Baldovinetti, descriveva alla stregua di «un vero prisma che, a difetto di essere tanto diafano da non poterne fissare la vera idea, ossia natura, nonostante è capace di figurare in tutti gli aspetti, variar tinte e colori».
In cosa consisteva il fulcro del giansenismo per quel che riguarda la vita della Chiesa? Nell’esaltazione dell’autonomia dei vescovi dalla Curia di Roma e dell’istituzione parrocchiale quale centro del rinnovamento della vita religiosa. A metà Settecento partì dalla Chiesa di Roma un’offensiva volta a contrastare l’influenza di questa proposta cosiddetta «parrochista». I gesuiti, che conoscevano una stagione di difficoltà — stavano per essere espulsi dal Portogallo, dalla Francia, dalla Spagna prima di essere sciolti nel 1773 da Clemente XIV con il breve Dominus ac Redemptor —, si offrirono per la parte più aggressiva della campagna contro i giansenisti, loro nemici da sempre. Ai gesuiti, scrive Mario Rosa, «spetterà l’ultimo colpo, almeno in questa fase di polemiche, quasi a suggellare momentaneamente l’asprezza dello scontro: un colpo destinato a lunga vita e a riproporsi sotto altra luce sino alla fine del secolo e oltre, improntando l’orientamento di vasti settori del cattolicesimo, dai vertici della Chiesa a una media e diffusa opinione, nei confronti del giansenismo e degli avvenimenti rivoluzionari, nonché più in generale nei confronti del mondo moderno». Stiamo parlando dell’invenzione della teoria del complotto. Nel 1755 con La réalité du projet de Bourg-Fontaine , il gesuita Henri-Michel Sauvage «sulla base di falsi e di una documentazione discutibile», darà corpo alla leggenda nera di una macchinazione di Giansenio, Saint-Cyran e altri giansenisti per giungere alla distruzione della Chiesa. Diffuso nell’originale e pubblicato più volte in traduzione italiana, lo scritto, ripreso nei decenni successivi da molti gesuiti, verrà utilizzato non solo in chiave antigiansenista. Negli anni successivi, quelli della denuncia della cosiddetta congiura dei philosophes contro la Chiesa, il testo di Sauvage «porterà all’elaborazione della tesi politico religiosa di una generale “cospirazione” dei giansenisti, degli illuministi e dei massoni radicali, di cui si farà interprete, nel contesto del pensiero controrivoluzionario, un altro ex gesuita: Augustin Barruel». La teoria del complotto fa molti proseliti. Ma i giansenisti escono rafforzati dallo scontro con i gesuiti ormai soccombenti. Nel quindicennio che va dalla scomparsa di Benedetto XIV (1758) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773) hanno la forza e gli appoggi politici per tentare di imporre una riforma giansenistica all’intera Chiesa: «L’attenzione dedicata alla figura del vescovo e a quella del parroco, alla centralità della parrocchia, alla formazione del clero e alla pratica religiosa dei fedeli attraverso l’istruzione», scrive Mario Rosa, si congiunge con «le riforme liturgiche e devozionali — improntate, queste ultime, da austerità e chiarezza —, la riforma della musica sacra, alleggerita dalla pompa barocca, la predicazione resa più semplice nei suoi richiami al dettaglio evangelico, i catechismi, la lettura della Bibbia e di testi patristici nonché quel nugolo di traduzioni e di adattamenti di scritti, scelti soprattutto nell’ambito del giansenismo francese e tra autori di intensa spiritualità come Quesnel e Jacques-Joseph Duguet, che più di altri a partire da questi anni, vengono posti tra le mani di ecclesiastici e laici dell’intera Penisola italiana».
Verso la fine del Settecento il nostro giansenismo andò differenziandosi da quello francese: quest’ultimo fu ribelle alla monarchia e alla sua involuzione assolutistica (trovando appoggio nei Parlamenti e nelle magistrature civili del regno), mentre quello italiano «ravvisò per le sue aspirazioni di riforma religiosa, sostanziali punti di riferimento nella sacralità della figura dei sovrani, e specialmente di quelli della casa d’Asburgo, a giustificazione degli interventi politico-ecclesiastici dell’assolutismo illuminato». In particolare in Toscana dove — grande protagonista Scipione de’ Ricci — si ebbe «un’alleanza non sempre facile tra il sovrano e il “suo” vescovo, che punterà su una riforma giansenista della Chiesa locale attraverso lo sviluppo di una “democrazia ecclesiastica” parrochista e di una politica sinodale episcopale». Ricci introdusse a Pistoia l’uso del volgare in alcune devozioni, come aveva fatto con alcune preghiere il precedente vescovo di Pistoia (anch’egli «giansenisteggiante») Giuseppe Ippoliti. La traduzione della scrittura in volgare, alla quale si opponeva la regola IV dell’Indice tridentino (1564) promulgato da Pio IV. Quel Pio IV che aveva consentito in un primo tempo la traduzione e la lettura della Bibbia nelle lingue vernacolari, con una disposizione che era stata però annullata nel 1596 dall’Indice promulgato da Clemente VIII. Grande partigiano dell’uso del volgare nelle funzioni religiose era stato il giansenista Quesnel. Non è un caso, osserva Rosa, che per dare vigore alla battaglia contro i giansenisti, il gesuita napoletano Domenico Viva abbia polemizzato sin da subito contro Quesnel, esaltando «la funzione unificatrice del latino di contro ai rischi di traduzioni imprecise e del loro uso improvvido e incontrollato». Ancor più complesso, ricostruisce Rosa, era stato «il tentativo di diffondere in una lingua vernacolare un testo liturgico come il Messale, del quale si era approntata una traduzione francese, quella di Joseph de Voisin (1660), immediatamente condannata sia in Francia sia da Roma: un tentativo non più ripreso, neppure dopo le prudenti sollecitazioni espresse dal giansenista Nicolas Le Tourneux». Perché si riaprisse, nel contesto italiano, una discussione sull’argomento si sarebbe dovuto attendere il 1740 con la pubblicazione delle Annotazioni sopra le feste di Nostro Signore e della Beatissima Vergine e del Santo Sagrifizio della Messa di Benedetto XIV, o, per meglio dire, di Prospero Lambertini che aveva scritto il testo poco prima di diventare Papa e darlo ugualmente alle stampe. Annotazioni che, pur nella difesa del latino, contenevano una significativa apertura all’uso del volgare. Fu quel Papa ad autorizzare il futuro arcivescovo di Firenze Antonio Martini a tradurre in italiano la Bibbia. E sarà poi Scipione de’ Ricci a raccomandare la lettura della Bibbia nella versione di Martini (in una lettera pastorale dell’11 aprile 1783) nella quale si raccomandava anche la raccolta o la composizione di «buone e divote canzoni in lingua volgare», «mezzo utilissimo per civilizzare i popoli e renderli non meno buoni cristiani che fedeli sudditi». Il tutto a sostituire progressivamente la «corrotta musica ecclesiastica». Al fondo della catechesi giansenista, c’era, secondo Mario Rosa, qualcosa di più della pur essenziale esigenza di una diversa formazione religiosa; «v’era lo sforzo largo e coerente di sottrarre i fedeli laici alla loro passività e di renderli membri attivi di una Chiesa rinnovata». Come? Attraverso «la partecipazione comunitaria al sacrificio della messa con l’ausilio di “dichiarazioni” in italiano e tramite la conoscenza, continuamente proposta anche nelle cerimonie e nei riti, di passi della Scrittura e di testimonianze di Padri della Chiesa, tradotti, rielaborati o compendiati in volgare».
In virtù dell’influenza di Scipione de’ Ricci, i giansenisti ebbero dalla loro anche un sovrano: Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana dal 1765 al 1790, nonché fratello di Giuseppe II, imperatore d’Austria. Il riformismo leopoldino — al quale si deve tra l’altro la prima accettazione dei principi di Cesare Beccaria con l’abolizione della pena di morte — fu un faro per tutta l’Europa. Fu lui che aprì alla democrazia dei parroci, anche se con minore forza della coeva sperimentazione francese. Ma l’esperimento, nonostante la nobiltà dell’intento, è destinata a fallire. Perché? Secondo Rosa, «il parrochismo ricciano-leopoldino resta un tentativo di vertice, destinato a dissolversi, salvo sporadici fermenti residui, una volta scomparse le condizioni che ne avevano consentito una incipiente configurazione». L’intera riforma leopoldina approdò al sinodo di Pistoia (1786) attorno al quale «si giocò in modo emblematico la partita definitiva del giansenismo italiano». E siamo «al punto più oscuro, e insieme più drammatico, del tentativo ricciano-leopoldino di riforma ecclesiastico religiosa», durante il quale «si svolge dietro le quinte un febbrile gioco politico». Il 5 dicembre 1786 Pietro Leopoldo scrive al fratello Giuseppe II, per sollecitarlo a profittare della lotta intorno alla nunziatura di Germania e della crisi politico-religiosa del momento per la convocazione di un concilio nazionale tedesco. Ma l’imperatore risponde con un rifiuto. «Venendo a mancare definitivamente la possibilità di creare una comune intesa asburgica antiromana, non restava al granduca che procedere autonomamente lungo la linea intrapresa». Cade un progetto di convocazione di un concilio nazionale e cade contemporaneamente un progetto di riforma della Chiesa toscana presentato dal Ricci anche se era stato elaborato da un altro importante giansenista, Vincenzo Palmieri.
In realtà, scrive Mario Rosa, «una vera alternativa per una riforma giansenista della Chiesa toscana non esisteva, pur nei risultati che le riforme leopoldine raggiunsero riguardo alle istituzioni ecclesiastiche e al nuovo e diverso inserimento della Chiesa e delle sue espressioni religiose nella società». V’erano tuttavia nel movimento «reali impulsi di riforma religiosa contro la cristallizzazione esteriore, romana, come si diceva, del cattolicesimo». C’era «la tensione a riscattare, anche con mezzi politici, facendo appello all’intervento del sovrano, le compromissioni mondane del cattolicesimo, come apparivano configurate in una società e in un momento storico che denunziavano imminente la crisi». C’era «l’intento di ravvivare la vita del clero e dei fedeli mediante il richiamo ad elementi storici obiettivi, ma rivissuti come idea forza e lievito di riforma, che erano la Chiesa primitiva e i suoi antichi canoni, la sua disciplina, le sue antiche riunioni sinodali e conciliari, di recuperare cioè momenti della tradizione che parevano, se non perduti, attenuati». Ma la Chiesa di Roma disse no. Spirava il vento del 1789 e papa Pio VI non poteva permettersi compromissioni con quel mondo che preparava la rivoluzione.
Il sinodo subirà una condanna da parte di Roma nel 1794. Di lì a due anni, nel 1796, con la discesa in Italia di Napoleone Bonaparte, inizierà da noi il triennio rivoluzionario che riporterà in vita alcune istanze della Rivoluzione francese. Nel frattempo, nel 1791, Scipione de’ Ricci — poco prima di dimettersi da vescovo di Pistoia e Prato — si era pronunciato a favore della costituzione civile del clero voluta dall’Assemblea nazionale rivoluzionaria in Francia (immediatamente condannata da Pio VI) e aveva attribuito carattere di legittimità nonché «di obbligatorietà» al giuramento richiesto al clero francese. Ma su questo i giansenisti italiani si divisero. Se per Reginaldo Tanzini quello francese era «un passo fondamentale nella prosecuzione delle riforme», per il ligure Paolo Marcello Del Mare l’Assemblea rivoluzionaria di Parigi aveva avuto «l’ardire» di costituirsi a «despota della Chiesa» e perciò quella decisione andava contrastata. Altri avevano aderito all’esperienza rivoluzionaria importata da Napoleone nella Penisola nel triennio di cui si è detto (1796-1799). Già prima, nel 1794, Luigi Cuccagni, direttore del «Giornale ecclesiastico» di Roma, aveva scritto un articolo assai violento contro i giansenisti, accomunandoli, vecchi e nuovi, a massoni, atei, deisti, calvinisti e definendo il loro operato alla stregua di una partecipazione alla «congiura» dei giacobini. Alla vigilia del triennio rivoluzionario anche il giansenista Pietro Tamburini denuncerà gli accadimenti di Francia come esito di una cospirazione. Salvo poi unirsi, come il ligure Eustachio Degola, al moto rivoluzionario. E come lui, Gaetano Giudici, Francesco Alpruni, anche se, osserva Rosa, parteciparono come singole personalità e «non si può parlare in senso unitario di una “politica democratica” giansenista». A questo punto, in ogni caso, tra giansenisti e Chiesa di Roma la rottura sarà definitiva. E il suggello a questa rottura la darà nel 1814 Pio VII, consentendo la ricostituzione della Compagnia di Gesù. Anche se gesuiti e giansenisti non saranno mai più quello che erano stati nel Seicento e nel Settecento.
Che cosa resta del giansenismo? Non v’è dubbio, secondo Rosa, che il giansenismo fu «in grado di provocare attraverso il dibattito religioso un’attiva partecipazione al corso riformatore settecentesco e di permeare un atteggiamento complessivo delle classi dirigenti italiane, creando un linguaggio comune delle élite, dalla Lombardia alla Sicilia, pur con tutte le inevitabili differenze». Poi quando il giansenismo italiano si legò strettamente agli eventi della sua epoca, «subì uno scacco e si vanificò, perdendo una progettualità politica, ma rimanendo come fatto culturale, etico e come progetto religioso e si inserì in una vena di liberalismo, da Alessandro Manzoni a Bettino Ricasoli, a Gino Capponi ad Antonio Rosmini di cui sarebbero da misurare aspetti specifici, tensioni ed esiti». Un giansenista ligure seguace di Degola, Luca Descalzi, sarà precettore di Giuseppe Mazzini e manterrà rapporti con sua madre Maria Drago. Così il giansenismo potrà sopravvivere in Italia grazie all’influenza che avrà avuto su intellettuali e politici di prima grandezza. E giungere sino ai tempi nostri, prendendosi qualche clamorosa rivincita nella seconda metà del Novecento.

Corriere 16.9.14
Quando la Germania aveva un impero africano
risponde sergio Romano


Ho visto su RAI 5 il programma «14-18» riguardante la Prima Guerra Mondiale. A un certo punto il narratore ha precisato che la Germania non aveva un impero coloniale, a differenza di Francia e Gran Bretagna. Invece a me risulta che aveva un diffuso impero coloniale in Africa (e nel Pacifico). Tuttavia non ne sento mai parlare, forse per la ritrosia a farlo sapere da  parte delle Grandi Potenze che, quatte quatte, si erano spartite il continente. L’unica traccia è il vecchio film «La Regina d’Africa» con Humphrey Bogart ed Elizabeth Hepburn in cui si narra del siluramento di un incrociatore 
tedesco nel lago Tanganika da parte, appunto, della barca «La Regina d’Africa».
Enrico Luksch

Caro Luksch,
La storia del colonialismo tedesco, soprattutto nell’Africa a sud del Sahara, non è diversa da quella di altri Paesi europei. Agli inizi la scena è occupata da un piccolo gruppo di personaggi singolari, al tempo stesso romantici e spregiudicati, attratti dall’avventura e dalla prospettiva di lucrosi affari. Quello che indusse il governo tedesco a occuparsi di Africa si chiamava Karl Peters, era figlio di un pastore luterano, coltivava gli studi filosofici e (come ricorda Henri Wesseling nella Spartizione dell’Africa 1880-1914), «credeva profondamente nella mistica pitagorica dei numeri». Un po’ conquistatori e un po’ missionari, questi protagonisti del colonialismo europeo in Africa mostravano, al ritorno dalle loro spedizioni, i contratti con cui i capi indigeni avevano ceduto all’esploratore straniero la sovranità sul loro territorio in cambio di merci e denaro. Peters, in particolare, comprò terre dell’Africa Orientale su cui il Sultano di Zanzibar esercitava una sovranità più apparente che reale.
A questo punto il cancelliere Bismarck, che non credeva all’utilità di queste esotiche operazioni, fu costretto ad ammettere che la Germania non poteva voltare le spalle a un tale fenomeno. Il passo successivo, come in altri Paesi, fu la creazione di una società privata per l’amministrazione dei territori acquistati, la Deutsche Ostafrika Gesellschaft (Società tedesca dell’Africa Orientale), in cui il maggiore azionista, tuttavia, era l’imperatore di Germania: una formula simile, anche se su scala minore, a quella adottata per il Congo da Leopoldo II re del Belgio.
Da quel momento il problema delle colonie tedesche in Africa Orientale divenne internazionale. Bismarck era disposto ad assecondare le ambizioni coloniali dei suoi connazionali, ma non voleva suscitare le preoccupazioni della Gran Bretagna, già fortemente presente in quelle regioni. Come l’Italia per la sua Africa orientale, anche la Germania, sino a quando Bismarck fu cancelliere, concordò sempre con Londra l’estensione dalla propria presenza in Africa Orientale. Sino al 1890 vi furono tra i due Paesi almeno due spartizioni che lasciarono alla Germania una parte del Camerun, il Togo, il Tanganika e una parte dell’Africa sud-occidentale. I rapporti anglo-tedeschi nel continente africano cominciarono a guastarsi nel gennaio 1896 quando l’imperatore Guglielmo II mandò un telegramma di congratulazioni al presidente boero Paulus Kruger per avere sgominato una banda composta da 600 inglesi che volevano impadronirsi del Transval. Il governo inglese non avallò l’operazione dei suoi connazionali, ma non dimenticò l’«affronto». Dopo la Grande guerra, l’impero coloniale tedesco in Africa fu spartito fra Gran Bretagna, Francia e Sud Africa: alla prima i possedimenti dell’Africa orientale e una parte del Camerun e del Togo; alla seconda l’altra parte del Camerun e del Togo; al terzo l’Africa sud-occidentale .

Repubblica 16.9.14
L’amaca
di Michele Serra


LEGGO sull’ Internazionale un editoriale triste e spietato del vecchio Noam Chomsky, il cui tema è più o meno la fine imminente della civiltà umana. Chomsky è uno degli ultimi titani del pensiero critico, e ha fior di pezze d’appoggio per suffragare il suo presentimento esiziale. Pure, mi chiedo sempre quanto il passare degli anni incida sull’umore, sul calo delle speranze e delle prospettive fauste. Non è sempre facile distinguere tra il proprio naturale declino e quello del mondo, che magari non declina affatto, sta solamente cambiando, e passando di mano. Di contro, poiché è vero che le civiltà declinano e scompaiano, è ugualmente sbagliato attribuire solo al pessimismo dei vecchi ogni scricchiolio, ogni presagio di morte: a volte le cose ci sembrano peggiorate perché lo sono davvero.
Credo che una delle sfide più difficili della vecchiaia sia continuare a pensare al mondo anche senza di noi, che diventiamo ogni giorno un po’ meno indispensabili. I pochi vecchi entusiasti che ho conosciuto (due per tutti: Vittorio Foa e Margherita Hack) allargavano il cuore anche perché la scintilla che brillava in loro era del tutto indipendente dal loro consapevole andarsene. Sapevano che anche dopo di loro la vita avrebbe continuato a vivere negli altri, e se ne rallegravano.