mercoledì 17 settembre 2014


il Fatto 17.9.14
Matteo Renzi come Berlusconi e Craxi
Contro giornali e Pm. Ed evoca il voto
Governo fino al 2018? “Solo se Parlamento cambia marcia”

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il Fatto 17.9.14
Il terrore in Aula: riforme o voto
Il premier minaccia le Camere
Ma Verdini assicura “Ha spaventato i suoi, non vuole le urne davvero”
di Fabrizio d’Esposito


Il terrore delle urne fa impazzire soprattutto il telefonino di Denis Verdini, il custode del patto segreto del Nazareno. Dentro Forza Italia, tutti tentano di interpellare “Denis”, versione gonfia e penale (nel senso delle inchieste e dei processi in cui è coinvolto) della sibilla cumana. Matteo Renzi ha appena minacciato il voto anticipato se il Parlamento non “è nelle condizioni di inserire la marcia giusta e fare le riforme”. Un deputato azzurro riesce finalmente a contattare lo sherpa renzusconiano. Questo il resoconto. “Denis, questo (Renzi, ndr) vuole votare sì o no? ”. Verdini, rassicurante: “Ma no, Matteo ha minacciato soprattutto i suoi del Pd, state tranquilli, nessuno vuole il voto veramente”. Ancora: “Perché allora ha rimesso in mezzo l’Italicum? ”. Verdini, meno deciso: “Rende più credibile la minaccia e a noi conviene, altrimenti rifanno il Mattarellum con i grillini”. La telefonata finisce e il deputato riferisce ad altri quattro ansiosi colleghi di partito. Si ascolta il vaticinio, in religioso silenzio, e poi uno chiosa: “Denis ha ragione, diciamoci la verità, qui dentro chi cazzo vuole votare? Nessuno”.
La processione per Bruno e le direttive di Ghedini
La rozza ma efficace analisi trova mille e mille riscontri nella lunga attesa del nuovo voto per la Consulta. E il primo effetto riguarda proprio il ticket Violante-Bruno. È sera quando l’avvocato previtiano Donato Bruno si accomoda su un divano del Transatlantico. Di fronte a lui, disteso su una poltrona, c’è Niccolò Ghedini. Sorridono. E sull’onda del terrore che cura i mal di pancia più difficili, comincia una processione in barba alla scaramanzia: “Auguri Donato”. “Bravo Donato”. “Finalmente Donato”. Lui stringe mani e ringrazia. Ma i risultati si sapranno solo a notte fonda. Dalle parti del Pd, l’ottimismo sconfina nell’impossibile: “Nemmeno i grillini desiderano le elezioni”. Una vecchia volpe di centro declama: “Una università italiana ha calcolato che sui 630 deputati attuali almeno 400 non hanno un lavoro”. Ecco, questa è la paura primordiale su cui si fonda la minaccia renziana per evitare un perpetuo Vietnam parlamentare, dopo la somma prova di debolezza su Consulta e Csm.
Il patto del Nazareno e i guastatori
Ovviamente la prima chiave per decifrare l’apparente caos è la pietra angolare che regge l’edificio del patto del Nazareno tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato: andare a votare il più lontano possibile. Questa la battuta di un noto berlusconiano che ha appena finito di votare per Violante e Bruno e scappa via: “Se B. da qui a dicembre ottiene tutto quello che ha chiesto Renzi governerà fino al 2019”. Una data che è un’esagerazione, visto che la legislatura finisce nel 2018, ma serve a dare l’idea del vincolo inestricabile e indicibile che lega Berlusconi e Renzi. Cosa ha chiesto B.? “Vedrete, vedrete”. La sensazione è che nessuno dei due mollera l’altro e che le categorie della politica non siano sufficienti a tradurre l’accordo. Poi, un conto è Verdini, un altro il cerchio magico della Rossi, di Toti e di Dudù. Quest’ultimo, il cerchio magico, agisce in difesa e si ritaglia un ruolo da guastatore quando pubblicamente e ciclicamente ripete che l’obiettivo di Renzi è quello di votare nel 2015. Senza Berlusconi, il premier non deciderà nulla e al momento Forza Italia pagherebbe le faide interne e le difficoltà nella ricostruzione del centrodestra con Lega, Fratelli d’Italia e Ncd.
Evaporano gli alfaniani, Cicchitto va a sinistra
Letteralmente, il partito più terrorizzato dal voto è il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Al punto che l’incubo delle urne partorisce un’immagine metafisica del futuro centrosinistra: Fabrizio Cicchitto, ex socialista ed ex berlusconiano, che sta lavorando per collocare i centristi di Ncd nel campo renziano, “per fare la destra del centrosinistra”. Con lui sono schierati la ministra Beatrice Lorenzini, l’ex saggio del Quirinale Gaetano Quagliariello, finanche Maurizio Sacconi. Sull’altro fronte, tendente a B., ci sono Lupi, la De Girolamo e la Saltamartini. In mezzo, Alfano, che però propende per Renzi. La prova ieri, dopo il durissimo intervento di Nunzia De Girolamo, capogruppo alla Camera, sull’immobilismo del governo, che farebbe solo “ammuina”. Un secondo dopo, Alfano si è precipitato a definire lo Spregiudicato “coraggioso su giustizia e lavoro”. È un dramma nel dramma. Ad avere paura non è solo la maggioranza dei 405 tra deputati e senatori del Pd arrivati qui nell’era preistorica di Bersani. C’è anche un centinaio di centristi, sparsi tra Udc, ex montiani e Ncd, consapevole di essere all’ultimo giro di giostra.

La Stampa 17.9.14
Riforme o voto
Il premier prova l’azzardo
di Marcello Sorgi


Matteo Renzi si è molto dispiaciuto che il programma dei mille giorni presentato ieri nei dettagli sia stato interpretato come un preannuncio o una minaccia di elezioni anticipate. Ed in effetti, stando al senso letterale delle sue parole, se uno spiega che vuole governare per almeno tre anni perché li considera il tempo minimo per realizzare le riforme, non si capisce per quale ragione tutti corrano a pensare il contrario. Solo nel caso in cui il Parlamento si riveli incapace di prendere decisioni e metta il governo in condizione di non poter realizzare il programma, lo scioglimento delle Camere sarebbe inevitabile.
Fin qui, il filo del ragionamento del premier, che ha posto come prima scadenza il varo del Jobs Act, la riforma delle leggi sul lavoro, entro la fine di ottobre. Perché allora tutti continuano a ritenere che al novanta per cento la prossima primavera si voterà? Ne è convinto, tra gli altri, Berlusconi, che in questi giorni continua a rinviare il previsto nuovo incontro con il premier e a valutare la possibilità di un ripensamento sul patto del Nazareno, come gli chiede la base parlamentare del suo partito, desiderosa di tornare all’opposizione dura.
La spiegazione delle tante inquietudini che attraversano i giorni complicati della ripresa autunnale, gravata da dati economici in continuo peggioramento, è abbastanza semplice. Su tutti i punti controversi, a cominciare dal lavoro e dalla legge di stabilità, che contiene una manovra da venti miliardi che da qualche parte occorrerà trovare, Renzi finora si è tenuto sul vago. La delega al governo sul Jobs Act, ad esempio, ha avuto un iter abbastanza regolare, anche se la minoranza del Pd continua a minacciare sfracelli se il governo dovesse decidere di procedere sul famigerato articolo 18, cioè di cancellare il diritto (già piuttosto ridimensionato dalla riforma Fornero e dal decreto Poletti) per il lavoratore di ottenere dalla magistratura la reintegra nel posto di lavoro, sostituendola con un indennizzo in denaro. Se Renzi si pronuncia sul punto contestato, si discuterà e si andrà al voto delle Camere. I voti mancanti dal centrosinistra potrebbero anche in questa occasione essere sostituiti da quelli del centrodestra.
Se invece il premier continua a lamentarsi della scarsa produttività del Parlamento, immagina in alternativa di fare le riforme per decreto, anticipando anche il voto sulla legge elettorale, l’impressione che si diffonde è che sia questo, e non altro, ciò a cui vuole arrivare. Di qui i timori, che serpeggiano, di un’accelerata verso lo scioglimento. Che comporterebbe, è bene ricordarlo, il rinvio di tutto il processo riformatore. E troverebbe contrario, per non dire contrarissimo, il presidente Napolitano. Anche di questo Renzi dovrebbe tener conto.

Il Sole 17.9.14
Le riforme o le elezioni ma senza perdere il 40%
di Stefano Folli


Al di là delle riforme e dell'Europa, al di là del timore di finire sotto tutela internazionale e della volontà di rivendicare una linea anti-rigore in vista del Consiglio europeo, c'è un punto politico nel discorso di Renzi di fronte al Parlamento. Il motivo conduttore nel discorso "dei mille giorni" è il tema del consenso. Perché quel 41 per cento preso alle europee è un dato straordinario quanto effimero. Di questo il premier sembra consapevole. Ma senza il 40 per cento non gli sarà possibile tenere stretto nelle sue mani il bandolo della matassa italiana.
Non a caso il presidente del Consiglio parla di riforme – anche in termini innovativi, come quando si occupa di giustizia o lavoro – e sente il bisogno di precisare che non teme di perdere consenso. Poi insiste sulla riforma elettorale da fare subito, ma al tempo stesso nega la volontà di pilotare il paese verso le elezioni anticipate. Tuttavia – si affretta a sottolineare – il voto ci sarà se il Parlamento non farà le riforme. Quindi lo scioglimento delle Camere come arma di pressione sui soliti, riottosi parlamentari (che peraltro, almeno al Senato, hanno votato in modo disciplinato il proprio auto-affondamento). Inutile negare che esista un certo tasso di ambiguità in questo passaggio, per cui è strano semmai che il premier si meravigli dei titoli dei siti "online" dedicati all'ipotesi elettorale.
La verità è che Renzi è stretto in una tenaglia e lo sa. La sua forza resta l'appoggio dell'opinione pubblica. I sondaggi sono ancora molto positivi, a cominciare da quel super-sondaggio che furono le elezioni europee di maggio. Ma quanto potrà durare la sua popolarità in una situazione di affanno, con un paese in recessione e davanti a una prospettiva per il 2015 che resta incerta? Il dinamismo, l'ottimismo, lo sforzo di suscitare energie positive... va tutto bene, tuttavia una nazione in sofferenza ha bisogno di uno "shock" reale e le risorse non ci sono.
Renzi guarda ai 300 miliardi del fondo Junker per gli investimenti, ma il se, il come e il quando di tale disponibilità sono ancora da verificare. Nel frattempo il sostegno popolare potrebbe ridursi, in un lento processo di logoramento che qualcuno già intravede. Fa onore al premier il desiderio di completare i mille giorni delle riforme nonostante la possibilità concreta di perdere le elezioni. Ma la frase, detta così, esprime più che altro la paura che tale eventualità si realizzi. Del resto, il rischio esiste e parlarne non serve a esorcizzarlo.
È evidente che il presidente del Consiglio si tiene nella manica la carta delle elezioni anticipate. Preferisce non doverla calare sul tavolo, certo: anche perché i suoi interlocutori politici, a cominciare da Berlusconi, ma lo stesso vale per Alfano, non sono pronti per le urne e gradirebbero mandare avanti la legislatura fino al 2018. Renzi invece scalpita e la legge elettorale, se mai riuscisse a farsela approvare, non servirebbe tanto a «restituire dignità al Parlamento» - secondo le sue parole - quanto a garantire a lui una pistola carica da tenere nella fondina. Magari non ci sarebbe bisogno di sparare, ma la minaccia proferita («o le riforme o il voto») avrebbe un senso. Anche se poi occorrerà spiegare agli italiani perché si torna a votare per il Senato di cui era stata annunciata l'abolizione, quando è chiaro che prima di un anno l'iter costituzionale non sarà completato.
Resta il fatto che il discorso di ieri è tipico di un leader che tiene d'occhio in ogni istante lo stato d'animo della pubblica opinione. L'accelerazione sul lavoro è un messaggio al mondo produttivo, ma anche un segnale al suo partito, dove i punti di vista contrari sono numerosi. E sulla giustizia Renzi ha espresso una volontà "garantista" che sarà piaciuta a tanti, anche a Berlusconi. Cioè all'uomo il cui sostegno è sempre necessario al premier. Il consenso che questi non vuole perdere, nel palazzo e nelle strade, è più che mai trasversale.

Corriere 17.9.14
Le riforme e il voto anticipato
La tentazione intermittente
di Massimo Franco

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Il manifesto 16.9.14
Renzi, l’attendista stregone
I mille giorni sono la ratifica di un patto con il parlamento: «Possiamo durare». «Abbiamo cambiato verso alla legislatura, prima non aveva futuro»
La legge elettorale è urgente, ma si può fare nel 2017
di Andrea Fabozzi


Non è stato facile fare spazio all’inconsueta «informativa» del presidente del Consiglio, che rivede e aggiorna il suo programma in diretta tv senza bisogno di chiedere ai parlamentari di approvarlo, nei calendari di camera e senato: non si contano i decreti legge in scadenza, i disegni di legge del governo considerati urgentissimi, le riforme assolutamente prioritarie sempre per il governo; e poi c’è la faticosa elezione dei giudici costituzionali e dei consiglieri del Csm, come decisa dal governo. Ma le aule parlamentari sono state ricompensate e Matteo Renzi, in attacco di discorso alla camera dei deputati, ha ricordato subito qual è stato il suo vero «cambio di verso» realizzato. «Abbiamo capovolto la storia di questa legislatura», ha detto, ricordando come le camere «sembravano aver finito nei primi due mesi tutto il futuro che avevano davanti». È il segreto del suo successo, la ragione per cui un parlamento composto da bersaniani, lettiani e berlusconiani si è scoperto improvvisamente tutto renziano. La promessa di allungare la legislatura.
Nella giornata di ieri questo patto tra il premier e i parlamentari, importante per il governo almeno quanto il patto del Nazareno, è stato formalmente rinnovato. «Vi propongo di utilizzare come scadenza naturale la scadenza della legislatura», Renzi si rivolge a deputati e senatori nel nome di un interesse comune — durare — che intende salvaguardare alle sue condizioni: che il parlamento «inserisca la marcia giusta». Ovvero non lo ostacoli troppo, non provi a frenarlo che tanto lui procederà «passo dopo passo», in un orizzonte triennale perché correre non usa più. In caso di difficoltà si potrà sempre rinviare il problema, come faceva Enrico Letta prima di lui e come hanno fatto in Italia un’infinità di governi, che però non si proponevano la «rivoluzione». È così per la legge elettorale che è in sonno al senato da sei mesi, dopo un inutile forcing alla camera, e che ieri Renzi ha sostanzialmente sospinto avanti nel calendario ma con l’abilità di presentarla come argomento urgente. Non perché lo dice lui, ma perché «fare melina istituzionale su questo punto suonerebbe come un affronto al presidente della Repubblica». E in ogni caso «non vogliamo fare la legge elettorale subito per andare alle elezioni».
A sentirlo bene, il famoso «cronoprogramma» del presidente del Consiglio dimostra proprio che non c’è alcuna urgenza di forzare con Berlusconi da una parte e Alfano dall’altra per correggere e approvare l’Italicum. Del resto il calendario sul quale vuole essere giudicato se l’è dato da sé, abbonandosi i primi duecento giorni di governo: gliene restano ancora mille «che terminano alla fine del maggio 2017». E dopo, considerando che la legislatura potrebbe durare altri nove mesi, fino al febbraio 2018? «Si potrà utilizzare quel periodo per consentire alle forze politiche, opportunamente riorganizzate, di dichiarare conclusa l’anomalia italiana con una nuova legge elettorale e presentarsi al giu- dizio degli elettori in modo chiaro e definito». Vale a dire che dopo tre anni e più di larghe intese — larghissime considerando l’associazione occulta di Berlusconi — il Pd e il centrodestra dovrebbero dirsi addio, avendo appena scritto assieme una legge elettorale che grazie a un super premio e al ballottaggio regalerà la maggioranza del parlamento a chi (non) vince.
Nel discorso dei «mille giorni», dentro all’offerta di sopravvivenza fatta a tutto il parlamento, ce n’è anche una speciale per l’alleato formalmente all’opposizione. Trattandosi di Berlusconi naturalmente riguarda la giustizia, ed è racchiusa in un discorso che dal punto di vista dei principi non fa una grinza. «Il rispetto delle regole significa dire che un indagato ha diritto ad essere considerato innocente fino a sentenza passata in giudicato», dice Renzi accalorandosi. Ed è un richiamo sacrosanto, che però viene collegato alla vicenda dell’inchiesta per le tangenti Eni nella quale il presidente del Consiglio in difesa dell’amministratore delegato Descalzi si spinge ad attaccare non tanto i magistrati, ma persino i giornali: «Non consentiamo a nessuno scoop citofonato di mettere in difficoltà
o in crisi decine di migliaia di posti di lavoro». È lo stesso premier che, lo ricordano i 5 Stelle, quando al governo era Letta chiese le dimissioni della ministra Cancellieri coinvolta in un’inchiesta
ma non ancora indagata. E così il discorso suona strumentale, e strumentale per conquistare la benevolenza di Forza Italia sulla riforma della giustizia penale, che dopo tanti annunci dovrà prima o poi partire. Sempre che il parlamento si disponga a seguire il governo, evitando così il ricorso alle elezioni anticipate «che non temo e che dal punto di vista strettamente utilitaristico sarebbero una buona idea». Frase pronunciata al senato che ha spinto i primi lanci di agenzia: Renzi minaccia le elezioni. È stato lui stesso a correggere: «Ho visto che di tutto quello che ho detto il titolo è che andiamo alle elezioni, ma non è assolutamente così».

il Fatto 17.9.14
Bocciati Violante e Bruno
Consulta, Carlassare: “No ai politici alla Corte. Sennò diamo ragione a Berlusconi”
La costituzionalista: "La nomina o l’elezione di politici di professione temo faccia scadere l'immagine di un organismo che è la nostra ultima spiaggia perché interviene a difesa dei diritti"
di Diego Pretini

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La Stampa 17.9.14
I “malpancisti” sulle barricate
Renzi cerca Berlusconi per chiudere sulla legge elettorale
di Amedeo La Mattina


Parla Renzi sulla sua «rivoluzione» in mille giorni e nei Transatlantici dei Palazzi si scatenata l’interpretazione delle sue parole. L’attenzione si concentra sull’accelerazione impressa dal premier alle riforme istituzionali e alla legge elettorale. Ecco, la lettura in filigrana di molti senatori e deputati di tutti gli schieramenti: il premier evoca il fantasma delle elezioni anticipate. È quasi un riflesso condizionato tutte le volte che si chiede di fare presto con la riforma elettorale. Altro che programma dei mille giorni, sottolinea Pippo Civati (uno dei pochi rimasti sulle barricate del Pd): è quello dei 200 giorni che ci porta alle urne.
Renzi esclude questo scenario. Anzi, si meraviglia che, di tutto il suo discorso in Parlamento, a fine giornata sia rimasto il titolo «andiamo alle elezioni: non è assolutamente così». Eppure il sospetto rimane, legato soprattutto a ciò che potrebbe accadere se le riforme sul Jobs Act, la giustizia e la Pubblica Amministrazione dovessero finire in una palude, con la conseguenza di paralizzare il governo. A quel punto la sopravvivenza dell’attuale Parlamento sarebbe fortemente a rischio.
Si cominciano ad avvertirsi qua e là i primi crampi allo stomaco, in particolare tra le fila dei piccoli partiti che le urne vorrebbero arrivarci il più tardi possibile. Così il capogruppo di Scelta Civica Andrea Mazziotti chiede di rallentare sull’Italicum all’esame a Palazzo Madama. Ma il presidente del Consiglio insiste sul fatto che tutte le riforme devono marciare «tutte insieme» perché ne vale della nostra credibilità: sono necessarie all’Italia e per ottenere flessibilità e investimenti da parte dell’Europa.
Ma dove sono le riforme? «Nell’informativa di Renzi - dice sarcastico il leghista Calderoli - abbiamo riscontrato poco pathos e molti “petos”». Per dirla in maniera più elegante, il capogruppo di Fi Brunetta invita il premier a finirla con l’ apologia di se stesso: «Basta con la retorica, basta con i messaggi demagogici, populisti, cui non seguono atti, fatti, concretezza». Intervenendo in aula, Brunetta spiega che un politico può fare tanti danni, «ma uno dei danni più gravi che può fare é quello di illudere i cittadini». Dal partito di Berlusconi si sentono parole dure, anche da parte di un moderato come Paolo Romani. Sembra però un gioco delle parti perché lo stesso Cavaliere gradisce il discorso di Renzi, in particolare quando ha difeso l’Eni dagli «avvisi di garanzia citofonati» ai giornali. Tra l’altro Berlusconi si prepara a incontrare Renzi (forse già oggi o domani) per stringere un accordo definitivo sulla legge elettorale. Anche questo fa parte dell’accelerazione voluta dall’inquilino di palazzo Chigi.
I mal di pancia sono destinati ad aumentare soprattutto nel Pd quando verranno messe nero su bianco le nuove norme sul lavoro e l’articolo 18. La segretaria del partito è stata allargata anche alle minoranze, anche a quella di cui fa parte Stefano Fassina. Ma l’ex viceministro dell’Economia non rinuncia ad attaccare. Non gli è piaciuto quel passaggio in cui il premier ha definito un’apartheid la distinzione tra lavoratori garantiti e lavoratori precari o con partita Iva. «Renzi dice no al lavoro di serie A e B. Propone tutte lavoratrici e lavoratori in serie C».
La sinistra Pd avverte che non si può riscrivere da cima a fondo lo Statuto dei lavoratori e cancellare l’articolo 18. E Bersani attende Renzi al varco delle misure economiche: «Ha parlato di mille giorni ma di quello che vuole fare nella legge di stabilità lo capiremo nei prossimi giorni».
Parla Renzi sulla sua «rivoluzione» in mille giorni e nei Transatlantici dei Palazzi si scatenata l’interpretazione delle sue parole. L’attenzione si concentra sull’accelerazione impressa dal premier alle riforme istituzionali e alla legge elettorale. Ecco, la lettura in filigrana di molti senatori e deputati di tutti gli schieramenti: il premier evoca il fantasma delle elezioni anticipate. È quasi un riflesso condizionato tutte le volte che si chiede di fare presto con la riforma elettorale. Altro che programma dei mille giorni, sottolinea Pippo Civati (uno dei pochi rimasti sulle barricate del Pd): è quello dei 200 giorni che ci porta alle urne.
Renzi esclude questo scenario. Anzi, si meraviglia che, di tutto il suo discorso in Parlamento, a fine giornata sia rimasto il titolo «andiamo alle elezioni: non è assolutamente così». Eppure il sospetto rimane, legato soprattutto a ciò che potrebbe accadere se le riforme sul Jobs Act, la giustizia e la Pubblica Amministrazione dovessero finire in una palude, con la conseguenza di paralizzare il governo. A quel punto la sopravvivenza dell’attuale Parlamento sarebbe fortemente a rischio.
Si cominciano ad avvertirsi qua e là i primi crampi allo stomaco, in particolare tra le fila dei piccoli partiti che le urne vorrebbero arrivarci il più tardi possibile. Così il capogruppo di Scelta Civica Andrea Mazziotti chiede di rallentare sull’Italicum all’esame a Palazzo Madama. Ma il presidente del Consiglio insiste sul fatto che tutte le riforme devono marciare «tutte insieme» perché ne vale della nostra credibilità: sono necessarie all’Italia e per ottenere flessibilità e investimenti da parte dell’Europa.
Ma dove sono le riforme? «Nell’informativa di Renzi - dice sarcastico il leghista Calderoli - abbiamo riscontrato poco pathos e molti “petos”». Per dirla in maniera più elegante, il capogruppo di Fi Brunetta invita il premier a finirla con l’ apologia di se stesso: «Basta con la retorica, basta con i messaggi demagogici, populisti, cui non seguono atti, fatti, concretezza». Intervenendo in aula, Brunetta spiega che un politico può fare tanti danni, «ma uno dei danni più gravi che può fare é quello di illudere i cittadini». Dal partito di Berlusconi si sentono parole dure, anche da parte di un moderato come Paolo Romani. Sembra però un gioco delle parti perché lo stesso Cavaliere gradisce il discorso di Renzi, in particolare quando ha difeso l’Eni dagli «avvisi di garanzia citofonati» ai giornali. Tra l’altro Berlusconi si prepara a incontrare Renzi (forse già oggi o domani) per stringere un accordo definitivo sulla legge elettorale. Anche questo fa parte dell’accelerazione voluta dall’inquilino di palazzo Chigi.
I mal di pancia sono destinati ad aumentare

il Fatto 17.9.14
Tra palco e realtà
Renzi traffica sull’Italicum e si nasconde dietro alle elezioni
di Wanda Marra


Vogliamo fare la legge elettorale subito ma non per andare a elezioni, smentiremmo i mille giorni. Ma perché l’ennesima melina istituzionale sarebbe uno schiaffo alla dignità di una classe politica che si dimostrerebbe incapace di trovare soluzioni”. Durante l’informativa alla Camera ecco Matteo Renzi che rimette sul tavolo delle priorità l’Italicum. Non senza ricorrere alla più classica delle sue modalità: negare per minacciare. Come per l’indimenticabile “Enrico stai sereno”. Il pomeriggio in Senato è ancora più esplicito: “Dal punto di vista utilitaristico andare a votare sarebbe una buona idea ma noi pensiamo che prima delle esigenze di un partito venga l’interesse del Paese”. E poi: “Se non si fanno le riforme, voto anticipato” . Per adesso Renzi, assicurano i suoi, alle elezioni non ci pensa davvero. Anche per lui sarebbe rischioso visto che non è riuscito a fare molto. Nella sua “visione” ci sono 10 anni di governo (per ora). E allora? L’Italicum gli serve come “arma di distrazione di massa”, ovvero un argomento da offrire al dibattito, mentre l’economia continua ad andare a picco. E poi è un dato da mettere sul piatto della trattativa. Soprattutto con Forza Italia. Senza contare che alla fine, un sistema elettorale pronto all’uso, migliore del Consultellum, è sempre utile. Raccontano renziani e non che in realtà per ora i giochi sono fermi: l’Italicum in Senato non è ancora calendarizzato. Si aspetta un incontro con Berlusconi, per rinsaldare il patto del Nazareno e stabilire le possibili modifiche alla legge uscita dalla Camera . Minoranza Pd (con pezzi di maggioranza) e piccoli partiti hanno sempre chiesto di rivedere le soglie di entrata in Parlamento (per ora il 4,5% per il partito singolo e l’8% coalizzati) e di superare le liste bloccate. Berlusconi e Renzi per ora hanno sempre fatto resistenza ad aggiustare al ribasso le soglie di sbarramento, ma da parte di entrambi. Ma entrambi sono possibilisti sull’alzare la percentuale necessaria per andare al ballottaggio (ora al 37%). Berlusconi è contrario alla reintroduzione delle preferenze, ma Renzi potrebbe arrivare a un compromesso, tipo l’elezione bloccata solo del capolista. I due un accordo lo troveranno: Forza Italia è pronta ad offrire i suoi voti anche sul lavoro, in cambio di una legge che gli va bene.
   RENZI si blinda sull’Italicum. E per governare in maniera militarizzata si blinda a Palazzo Chigi, dove continuano ad arrivare rinforzi da Firenze. E si blinda in segreteria. Dopo mesi e mesi di rinvii, ecco ieri la nuova lista. In tutto 15 (8 donne e 7 uomini), oltre ad“Albano e Romina” (i vicesegretari Guerini e Serracchiani, nella definizione di Bonaccini, che Renzi fa sua), unici superstiti con la Braga e Taddei. L’unica componente che resta fuori è quella di Pippo Civati. Anche Beppe Fioroni, ha una sua “ex” tra le new entry della segreteria : si tratta della deputata calabrese Stefania Covello. Tra i nuovi innesti, i renziani sono i più numerosi. A partire da David Ermini, toscano, che Renzi lo conosce da quando era ragazzo. E che andrà a gestire la Giustizia, argomento cruciale di questi tempi. Una delle poche deleghe certe. Quindi Ernesto Carbone, Giorgio Tonini, Lorenza Bonaccorsi, Alessia Rotta, Sabrina Capozzolo. Per quanto riguarda Area dem di Dario Franceschini approdano in segreteria Francesca Puglisi e Emanuele Fiano. Dalle minoranze arrivano per Area riformista (la componente che fa riferimento a Speranza) Micaela Campana e Enzo Amendola,perl’areaCuperloc’è Andrea De Maria e dai Giovani Turchi, Valentina Paris. “Ci vedremo giovedì e decideremo le deleghe”, dice il segretario. Tra le comunicazioni agli interessati arrivate all’ultimo momento e il fattochenonsannocosavannoa fare si capisce bene quanto sarà lo spazio di azione dei dirigenti dem. Con buona pace delle minoranze assorbite e neutralizzate. Aggiustamenti anche al governo: Davide Faraone andrà a fare il Sottosegretario alla Scuola al posto di Reggi. A Palazzo Chigi a dare una mano alla comunicazione arriverà Francesco Nicodemo, che esce dal Nazareno. D’altra parte, segreteria, governo, annessi e connessi sono tutti un grande staff.

il Fatto 17.9.14
Renzi scudo umano per l'Eni

"Gli avvisi di garanzia danneggiano le imprese"
L'Anm: "Illecito omettere indagini
di Giorgio Meletti


La prima impressione, che si spera l'interessato sia presto in grado di modificare, è che Matteo Renzi parli di cose che non sa. Il suo attacco alla magistratura e alla stampa, accusate in solido di danneggiare le grandi imprese facendo il loro dovere, non trova fondamento nei fatti. Durante il suo discorso di ieri, il presidente del Consiglio ha pronunciato sul caso Eni le parole che riportiamo dal resoconto stenografico della Camera:
“In queste ore, un'azienda, che è la prima azienda italiana, che è la ventiduesima azienda al mondo, che ha migliaia e decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori, che stanno a dimostrare che un’azienda italiana può fare grandi risultati, è stata raggiunta da unoscoop, da un avviso di garanzia, da un'indagine. Io dico qui, in Parlamento, di fronte a voi, che noi aspettiamo le indagini e rispettiamo le sentenze, ma non consentiamo a nessuno scoop di mettere in difficoltà o in crisi decine di migliaia di posti di lavoro e non consentiamo che avvisi di garanzia, più o meno citofonati sui giornali, consentano di cambiare la politica aziendale in questo Paese! (Applausi dei deputati dei gruppi Partito democratico, Scelta Civica per l'Italia, Nuovo Centrodestra e Per l'Italia). Se per voi questa è una svolta, prendetevi la svolta, ma questo è un dato di fatto per rendere l'Italia un Paese civile! (Applausi dei deputati del gruppo Partito democratico) ”. Secca la replica di Rodolfo Sabelli, presidente del sindacato dei magistrati Anm: “Respingiamo fermamente l’idea che la magistratura intenda interferire nella politica economica di un’azienda. Così come l’idea di una sua responsabilità nell’eventuale strumentalizzazione di atti che sono imposti dalla legge”.
Il riferimento è all'inchiesta per corruzione internazionale che vede indagati l'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi (nomi-e il suo predecessore Paolo Scaroni, per una storia di tangenti pagate, secondo l'ipotesi investigativa, per giacimenti petroliferi in Nigeria.
RENZIHAFATTOSUAuna vulgata cara agli amanti degli affari opachi dai tempi dei suoi supremi teorici, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi: l'azione di magistrati giustizieri disturba l'ordinato dispiegarsi delle forze del mercato e azzoppa la nostra competitività internazionale. Il sottinteso è che così fan tutti e solo noi italiani siamo così autolesionisti da non bloccare magistrati e giornalisti impiccioni. Il giudizio è libero, ma i fatti dicono che è la solita panzana tornata di moda l'anno scorso dopo l'arresto del numero uno di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, oggi sotto processo per corruzione internazionale, per la vendita di elicotteri (560 milioni) al governo indiano.
All'analisi di Renzi sfugge la realtà. Il Paese che colpisce la corruzione internazionale con il maggior tasso di “giustizialismo” (lessico renzusconiano) è la Germania. Al secondo posto vengono gli Stati Uniti. Guarda un po’, i due maggiori esportatori mondiali: da loro i magistrati arrestano e gli affari prosperano. Il premier avrebbe potuto leggerlo sul sito dell'Ocse, che nel 1997 ha promosso una convenzione internazionale, a cui hanno aderito tutti i paesi sviluppati, perfino la Russia, per colpire il vizietto di esportare a colpi di mazzette. L'Italia, ratificando la convenzione, ha istituito l'articolo 332 bis del codice penale, che punisce appunto la corruzione internazionale. Piuttosto che accusare i magistrati, Renzi potrebbe abrogarlo con decreto legge, vista l'urgenza di difendere le imprese. E potrebbe far cancellare dal sito del ministero della Giustizia un’indicazione che potrebbe infiammare qualche magistrato testa calda: “La circostanza che tali prassi siano ricorrenti nel Paese del funzionario non fa venire meno il reato”.
L’OCSE CONTROLLA l’applicazione della Convenzione. Dal 1999 al 2012 ha registrato 88 condanne per manager e faccendieri in Germania, 62 negli Stati Uniti, 16 in Corea, 8 in Italia, 5 in Gran Bretagna. Ci sono sicuramente Paesi più furbi di noi, come la Gran Bretagna. Nel 2006 il premier Tony Blair, modello di Renzi, ordinò da Downing Street di fermare l'inchiesta sull'azienda aerospaziale Bae Systems, accusata di tangenti in Arabia Saudita. Il governo arabo aveva infatti minacciato di annullare l'acquisto di 73 caccia Eurofighter, e Blair, travolto dalle polemiche, rivendicò la mossa: “Si sono salvati migliaia di posti di lavoro”. Però si prese le male parole del segretario generale dell'Ocse, M. Angel Gurria, che ammise: “La lotta alla corruzione è nelle mani dei governi”.
In coerenza con la tonitruante dichiarazione di ieri (“Non consentiamo... ”), Renzi potrebbe inserire, tra le sue richieste di flessibilità all'Europa, l'uscita dalla Convenzione Ocse: chiudere un occhio sulla corruzione come motore della ripresa economica. Purtroppo, checché ne dicano i profeti della “mazzetta così fan tutti”, il bon ton internazionale la considererebbe una cafonata. Esattamente come il discorso di ieri alla Camera.

il Fatto 17.9.14
A Londra confermato il sequestro di 84 milioni
I soldi sono quelli rimasti sul conto della società ritenuta di pioprietà dell'ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete
di Marco Lillo


Una vittoria fuori casa ma senza contendenti ieri a Londra per i pubblici ministeri milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I pm che indagano su ENI e i suoi manager presenti (l’amministratore delegato Claudio Descalzi e Roberto Casula) e del passato (Paolo Scaroni e Vincenzo Armanna) per corruzione internazionale hanno ottenuto la conferma del sequestro di 84 milioni di dollari ai danni della società Malabu Gas and Oil.
I soldi resteranno quindi depositati sul conto acceso alla Natwest Bank dalla società riferibile all’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. Di fatto Etete si sarebbe auto-assegnato poco prima di lasciare il potere, nel 1997, il blocco OPL245, un giacimento off-shore di dimensioni colossali. Nel 2011, con un complesso schema il blocco è stato ceduto da Malabu al Governo nigeriano e da quest’ultimo a Eni e Shell. La trattativa era stata condotta per mesi dall’attuale amministratore Descalzi con una filiera di mediatori che da un lato riferiva a Malabu e non al Governo e dall’ altro includeva personaggi come Luigi Bisignani, il suo amico Gianluca Di Nardo e l’amico di Di Nardo, il nigeriano Emeka Obi. Tutti indagati. Alla fine Eni ha pagato un miliardo e 92 milioni di dollari al Governo nigeriano ma i soldi sono stati girati alla Malabu di Etete, con il quale Descalzi e compagni avevano trattato.
I pm hanno accertato che una bella fetta del prezzo (circa 523 milioni di dollari) sono finiti sui conti di società riferibili a Abukabar Alyu, persona vicina a politici molto importanti della Nigeria. Altri 10 milioni sono andati all’ex Attorney general, Bayo Oyo San. E così i magistrati ipotizzano che quel miliardo e 92 milioni nasconda una sorta di mega mazzetta ai nigeriani. Tra le righe delle rogatorie però alludono anche a un versante italiano: una parte della somma uscita da Eni sarebbe stata destinata a un ritorno per i manager dell’Eni.
I soldi sequestrati ieri sono quelli del versante internazionale dell’inchiesta. Erano rimasti sul conto di Malabu dopo che il mediatore nigeriano amico di Gianluca Dinardo, Emeka Obi, ne aveva ottenuto il sequestro perché riteneva di avere diretto a una congrua mediazione di 200 milioni su un affare che senza di lui (cioé senza le entrature di Dinardo, meglio di Bisignani) non sarebbe mai stato realizzato. Dopo una lunga causa civile a Londra ha ottenuto un anno fa il pagamento di 110 milioni di dollari. Una cifra oscillante tra i 15 e i 20 milioni di quel tesoretto spetterebbe a Gianluca Dinardo, l’amico di Luigi Bisignani che è riuscito a portare l’Eni al tavolo delle trattative grazie anche all’amicizia tra Scaroni e Bisignani. Questo è il versante italiano della vicenda che inguaia Descalzi. L’attuale amministratore di Eni allora era il numero due di Scaroni e nel 2010 aggiornava continuamente Bisignani sulle trattative.
I 110 milioni ‘vinti’ grazie alla causa londinese dal duo Obi-Dinardo sono stati sequestrati su un conto svizzero dai pm milanesi prima dell’estate. Ora arriva la conferma del sequestro degli 84 milioni che erano rimasti sul conto di Malabu. Soldi che non hanno a che fare con i mediatori italiani. Ieri alle richieste dei pm milanesi non c’è stata nessuna opposizione e la Corte inglese ha dovuto sbrigare solo una pratica formale. Certo è interessante leggere con quale durezza i giudici britannici, intimano agli indagati: “Se voi, Eni Spa, Gianluca Di Nardo, Roberto Casula, Vincenzo Armanna, Zubelum Chukwuemeka Obi (detto Emeka Obi, Ndr), Paolo Scaroni, Claudio Descalzi, Luigi Bisignani, Chief Dauzia Loyal Etete (gli indagati - the defendants - Ndr) e tu Malabu Oil and gas Ltd (la terza parte) disobbedirete a questo ordine potrete essere condotti davanti alla Corte e potrete essere imprigionati, multati o potrete avere i vostri beni sequestrati”. Una formula di rito diretta a intimorire il nigeriano Etete che però non fa piacere nemmeno agli altri destinatari.

il Fatto 17.9.14
Forza Italia festeggia la linea ultra-garantista

APPLAUSI da destra alla svolta renziana sulla Giustizia, con Forza Italia e Ncd più che soddisfatti. Il primo ad apprezzare è Silvio Berlusconi che confida ai suoi più stretti collaboratori quanto gli sia piaciuto in particolare il passaggio del leader del Pd sull’affaire Eni e i cosiddetti “avvisi di garanzia citofonati”. Se l’avessi detto io, ha osservato Berlusconi, sarebbe venuta giù l’aula. Il Caimano ha più volte elogiato “il coraggio” del premier, su un argomento per lui sempre centrale. Ribadendo che il patto del Nazareno regge che è un piacere. Quasi entusiasti Niccolò Ghedini e Piero Longo, avvocati storici dell’ex Cavaliere. In Transatlantico celebrano: “Oggi si chiude il ventennio dell’uso politico della giustizia”. Sorrisi larghi anche in casa Ncd: “Renzi è stato perfetto”. A condire commenti e cenni del capo, gli applausi sperticati dei banchi di forzisti e alfaniani. A margine, c’è chi spera perfino nel reinserimento della responsabilità civile dei magistrati nella riforma della giustizia, già oggetto di forti tensioni nella maggioranza, con il ministro Guidi in perenne battaglia contro la norma sul falso in bilancio. Ma per ora va bene così: Renzi è stato “perfetto”.

Repubblica 17.9.14
Felice Casson
“Matteo confonde i piani, fossi in lui sarei prudente”
intervista di Umberto Rosso


ROMA «Sarei stato forse più prudente nell’accalorata difesa in cui il presidente del Consiglio si è lanciato a favore dell’amministratore delegato dell’Eni, raggiunto da un avviso di garanzia».
Non l’ha convinta, senatore Casson?
«Si vede che Renzi dispone di valutazioni precise a sostegno della totale copertura accordata a Descalzi. Speriamo che abbia ragione lui, che il caso si sgonfi in una bolla di sapone. Anche se la vicenda è delicata, complessa, coinvolge altre persone, e altri Stati».
Ma per Renzi un avviso di garanzia non può mettere in crisi una grande azienda, con migliaia di posti di lavoro.
«Si confondono i due piani della questione: l’aspetto politico- sociale e quello giuridico. Sul piano delle norme, il presidente del Consiglio offre delle affermazioni scontate, sfonda una porta aperta: c’è la presunzione di innocenza, fino a condanna definitiva, come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Quindi, è evidente che allo stato Descalzi sia innocente. E ci mancherebbe altro».
Però l’avviso di garanzia spesso è diventato un avviso “di colpa”, e usato poi per regolare conti interni.
«Se saltuariamente è avvenuto, non è dipeso certo dai magistrati. O dal Partito democratico ».
E’ sotto l’aspetto politico allora che non la persuade troppo la difesa di Renzi del capo dell’Eni?
«Spetta alla sensibilità del singolo, raggiunto da un qualche provvedimento giudiziario, decidere come comportarsi. Tante volte indagati o condannati sono rimasti al loro posto comunque. In altri casi, vedi la vicenda del presidente della regione Emilia Romagna, Vasco Errani condannato in appello ha deciso di dimettersi, nonostante in tanti gli avessero chiesto di restare ».
Quindi?
«È soltanto il singolo a dover decidere, per la semplice ragione che solo lui sa come sono davvero andate le cose, a conoscere davvero se porta su di sé il peso di responsabilità ».
Insomma, il governo farebbe bene a non mettersi in mezzo e fare scudo. Ma col pericolo di mettere a repentaglio una grande azienda, come la mettiamo?
«Non sarebbe certo la prima volta. Nel nostro paese ci siamo trovati spesso di fronte a questo dilemma. Penso all’Ilva di Taranto, all’Eternit, alle fabbriche di Porto Marghera, i dirigenti colpiti da provvedimenti giudiziari e le aziende a rischio per il vuoto ai vertici. Ma ci sono leggi da far rispettare ».
L’Anm respinge al mittente: l’avviso di garanzia è un atto dovuto.
«Ha pienamente ragione. Se si profila un reato, i magistrati non possono che perseguirlo, pena l’accusa di omissione. Se le leggi ci sono, i giudici hanno il dovere di applicarle. Fino a quando il Parlamento non decida diversamente, e stabilisca con altri leggi che non si tratta più di reati. Come è successo col falso in bilancio».
Avviso di garanzia “citofanato” ai giornali, accusa Renzi.
«Non so, avrà delle sue informazioni. Ma, ripeto, il caso è delicato, si parla di corruzione e si chiamano in causa anche paesi stranieri. E contro la corruzione, non dimentichiamolo, tanto la Banca mondiale che l’Onu hanno lanciato una campagna internazionale».

Repubblica 17.9.14
Lavoro, la svolta di Renzi “Riforma subito per decreto e via anche l’articolo 18”
Il premier ha deciso di varare il provvedimento a ottobre con la legge di Stabilità. Rivisti gli ammortizzatori sociali
di Francesco Bei



ROMA Matteo Renzi è pronto e, quando avverrà, sarà lo strappo più profondo con la tradizione della sinistra dagli anni Settanta ad oggi. La vera Bad Godesberg italiana. «È deciso, faccio la riforma del lavoro per decreto. Insieme alla legge di Stabilità. Cancelliamo l’articolo 18». Lo confida ai suoi tutto d’un fiato, lanciando il cuore oltre l’ostacolo, al termine di una giornata lunghissima, con due dibattiti in Parlamento e uno alla direzione del Pd. Sa bene che la materia è pura lava: per un certo mondo dem e per la tradizionale “constituency” legata alla Cgil è come operare a cuore aperto senza anestesia. Eppure Renzi è deciso ad andare avanti, anzi sarà proprio la riforma del lavoro lo “stress test” per misurare se la maggioranza è disposta a seguirlo fino in fondo sulla strada delle riforme. E così evitare un ritorno al voto in primavera.
La dead line è dunque la metà di ottobre, quando contestualmente alla legge di Stabilità arriverà anche quel decreto con dentro la rivoluzione del lavoro. Ma visto che il premier conosce già le armi dei suoi avversari interni — Stefano Fassina e Cesare Damiano hanno iniziato il bombardamento preventivo — è anche deciso a sfidarli sul loro stesso terreno. E dunque la riforma non parlerà solo la lingua legnosa del taglio ai diritti — come quello a essere reintegrati nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa — ma suonerà anche lo spartito dolce delle garanzie estese a tutti. «L’obbligo del reintegro — spiega il capo del governo — sarà sostituito da un indennizzo, tanto più alto quanto più alta sarà l’anzianità del lavoratore. Ma contestualmente modifichiamo e ridefiniamo gli ammortizzatori sociali e le politiche attive sul lavoro: la malattia, le ferie, la cassa integrazione, la maternità, le estendiamo a tutti». Il modello sarà «quello danese e socialdemocratico» della “flexicurity”, flessibilità del posto di lavoro ma sicurezza del lavoratore, che sarà accompagnato dallo Stato e preso per mano finché non troverà un’altra azienda in cui ricollocarsi. La formula è accattivante, è quella proposta da anni da Pietro Ichino, ma servono tanti soldi per finanziarla. Proprio per questo è necessario ripensare integralmente gli ammortizzatori attuali e legare la riforma del lavoro alla legge di Stabilità.
Insomma, se davvero Mario Draghi, nell’incontro segreto a Città della Pieve del 13 agosto, chiese a Renzi la riforma del lavoro in cambio di un aiuto della Bce, il premier è deciso ad onorare la sua parte di impegno. Certo, a modo suo. «La nostra è un’apertura alle richieste dell’Unione europea, ma con un ancoraggio alla sinistra sul piano dei diritti — ci tiene a precisare il premier quando illustra il piano ai parlamentari più vicini —. È una cosa diversa rispetto al disegno della Troika: facciamo la riforma del lavoro, ma la facciamo a modo mio».
Per questo Renzi esclude per il momento di volersi rituffare in campagna elettorale e se la prende con quelli che hanno volutamente frainteso il senso delle sue parole in parlamento. «Non voglio andare a votare. Io faccio le riforme. Ma non sto qui a vivacchiare, a perdere tempo. Io vo- glio finire la legislatura. Quindi noi facciamo le riforme e poi si vede ». Insomma, la prova del budino sta nell’assaggiarlo. Se la minoranza interna del Pd accetterà questo passaggio, dopo aver accettato la riforma costituzionale e quella elettorale, allora la legislatura potrà andare avanti. Altrimenti...
Renzi ha già in mente le tappe di avvicinamento alla meta. Anzitutto l’intenzione è quella di coinvolgere la minoranza e isolare al massimo gli irriducibili. Come già avvenuto per bicameralismo e Italicum, sarà una Direzione Pd convocata ai primi di ottobre a esprimersi con un dibattito ampio sul Job’s Act. Direzione che sarà conclusa con un voto. Vincolante per tutti. Per coinvolgere al massimo l’area dalemianbersaniana e preparare il terreno allo strappo, il capo del Nazareno ha dato ieri via libera alla segreteria «plurale». Certo, ne sono rimasti fuori i civatiani. Ma altri incarichi sono già pronti per loro, a partire dall’ufficio di presidenza dei gruppi e dalla sostituzione dei sottosegretari Legnini e Reggi: «C’è posto per tutti».
La minoranza comunque non intende stare zitta e si appresta al combattimento. «Daremo battaglia sul lavoro come abbiamo fatto per la difesa della Costituzione — promette il senatore Felice Casson — e saremo molti di più, anche i bersaniani staranno con noi». Nessuno ne parla apertamente, ma certo anche una scissione nel Pd — su un tema così lacerante — è da mettere nel conto. Linda Lanzillotta, che conosce bene il partito per esserne allontanata proprio per le resistenze della parte più legata ai sindacati, non crede che avverrà: «Non se ne andranno, lo sanno anche loro che un partitino di sinistra-sinistra non avrebbe futuro». Corradino Mineo, uno dei leader della dissidenza, sembra darle indirettamente ragione: «Renzi ci tratta come se già fossimo fuori, ma noi la battaglia la faremo eccome. Non gli faremo il favore di andarcene, sarà lui se vuole a doverci cacciare ».

il Fatto 17.9.14
Ce lo chiede l'Europa...
Pd, lo speedy Jobs act apre il fronte interno
di Marco Palombi


L’obbligo del reintegro sarà sostituito da un indennizzo al lavoratore che viene licenziato
Per la riforma seguiremo il modello danese e quello di tutte le grandi socialdemocrazie
È un’apertura alle richieste dell’Ue e non alla Troika. Sui diritti la riforma sarà ancorata alla sinistra
L’unica cosa che sa con certezza è che quello è lo scalpo che deve offrire alla triade Bce-Ue-Merkel per consentirsi di non rispettare i patti sul pareggio di bilancio strutturale. Per il resto, però, sulla riforma del lavoro Matteo Renzi è al minimo confuso. Il cosiddetto Jobs act gli serve, e subito: “Se saremo nelle condizioni di avere tempi certi e serrati, allora rispetteremo il lavoro del Parlamento e ci attrezzeremo per la delega altrimenti siamo pronti a intervenire con provvedimenti d’urgenza perché non possiamo perdere un secondo”. Tradotto: sbrigatevi o facciamo un decreto.
INTANTOoggi, dopo apposita riunione di maggioranza in Senato, dovrebbe arrivare un emendamento del governo sul tema al ddl delega approvato addirittura la primavera scorsa. Quanto ai contenuti siamo nella solita nube renziana: “Non c’è cosa più iniqua che dividere i cittadini tra quelli di serie A e quelli di serie B”, va superato un “mondo del lavoro basato sull’apartheid”, “bisogna cambiare gli ammortizzatori sociali rendendoli più semplici, semplificare le regole e garantire forme di tutela univoche e identiche già dal 2015” (tradotto: addio alla cassa integrazione, via al sussidio di disoccupazione per tutti, che poi vuol dire immediato licenziamento per motivi economici). Infiocchettate diversamente sono le cose che chiedono Bce e Ue, cioè strumenti che consentano di liberarsi più facilmente della forza lavoro in eccesso (in tecnichese: “flessibilità in uscita”) e volendo di tagliare i salari (“parametrare gli stipendi alla produttività”).
Giammai, dice però Renzi: “Chi propone per l’Italia il modello spagnolo a mio giudizio schiaffeggia l’aria perchè non è possibile che il modello sia un paese che ha una disoccupazione al 25%. Ridurre il costo del lavoro è un discorso, ma non si abbassano i salari”. Parole sante, anche se gli si potrebbe far notare che estendere i contratti di solidarietà anche alle aziende non in crisi conclamata (apposito emendamento in questo senso è già stato approvato in Senato) significa legalizzare un taglio dei salari.
DETTO QUESTO, la minaccia di decreto del premier ha almeno scatenato la sinistra interna e sindacale: “Sarebbe uno strappo inaccettabile”, ha dichiarato subito Maurizio Landini, leader della Fiom; “Renzi parla il linguaggio della destra”, dice Fassina, quando parla di “apartheid scarica il dramma della disoccupazione e della precarietà dei più giovani su lavoratrici e lavoratori che da vent’anni hanno salari reali in diminuzione e perdono il lavoro a centinaia di migliaia”. Conclusione: “Il premier dice no a lavoro di serie A e di serie B. Propone tutte lavoratrici e lavoratori in serie C”. Al fondo c’è il tema dell’articolo 18 (“tra poco sarà un non problema”, sostiene un po’ minacciosamente Pier Carlo Padoan) e più in generale della riscrittura dello Statuto dei lavoratori.
È sempre la legge delega che dovrebbe consentirlo e senza discuterne davvero: la formula sarà scialba - una cosa tipo “armonizzazione col diritto comunitario” - e consentirà a Renzi e ai suoi di fare un po’ come gli pare nei decreti attuativi. Stesso discorso per il famoso “contratto a tutele crescenti”, che dovrebbe consentire completa “sacrificabilità” per i primi tre anni e poi forse il diritto al reintegro in caso di licenziamento e forse solo all’indennizzo. Sul tema, c’è da aspettarsi poco: “Rispetto il dibattito, ma pure le esigenze degli imprenditori. Serve un messaggio di semplificazione delle regole che impedisca diversità nei tribunali”. Però non si dica che si tagliano i salari (quello lo dicono a Bruxelles, dove sono meno sensibili).

Corriere 17.9.14
L’ipotesi di un decreto sull’articolo 18
Accelerazione di Renzi anche sugli ammortizzatori
L’alt della Fiom

di Andrea Ducci

ROMA — L’ultima occasione. Matteo Renzi ricorre al concetto dell’emergenza e fissa le priorità per fare ripartire il Paese. Nel suo duplice intervento di ieri alla Camera e, poi, al Senato per illustrare il programma dei mille giorni il premier evidenzia le urgenze su lavoro, giustizia e riforme. «I mille giorni sono l’ultima chance per far ripartire il Paese, non una dilazione», rivendica il presidente del Consiglio. Più che una minaccia è una scossa per spingere Camera e Senato a fare presto. Non a caso, il premier si sofferma su una delle questioni cruciali nella discussione politica di queste ore: la riforma del lavoro e il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Renzi prefigura, tra l’altro, che se l’approvazione del Jobs act dovesse tardare l’esecutivo è pronto a ricorrere a un decreto legge.
Un messaggio diretto, oltre che al Parlamento, pure a Bruxelles per rimarcare l’intenzione del governo di fare sul serio. In serata Renzi, durante la direzione del Pd, torna a parlare di lavoro e Jobs act spingendosi oltre. «La riforma non si sintetizza nella discussione sull’articolo 18 sì o no, che va fatta una volta per tutte, ma — sottolinea il premier — dovrà avere un primo pacchetto sul sistema ammortizzatori. Se li cambi per rendere le tutele meno inique ti servono più soldi e per questo farei una direzione (si terrà alla fine del mese, ndr ) ad hoc che leghi la spending review con il mercato del lavoro». L’inquilino di Palazzo Chigi, alle prese con il problema irrisolto dell’occupazione, preannuncia cioè che la riforma degli ammortizzatori (finora inserita nel disegno di legge delega sul lavoro) avrà un costo di cui tenere conto in sede di elaborazione della legge di Stabilità. Per alimentare la riforma degli ammortizzatori serviranno, dunque, soldi in più. Tanto che Renzi pensa di farvi fronte attingendo alla spending review . Un’accelerazione che rende l’idea dell’urgenza continua di nuove coperture per garantire la tenuta del patto sociale nel Paese.
A questo si aggiunga la sfibrante discussione intorno all’emendamento all’articolo 4 del ddl lavoro sulla riforma dei contratti. In pratica, la modifica che dovrebbe introdurre il testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente. L’ipotesi è quella su cui ha lavorato finora Maurizio Sacconi (Ncd), il relatore del disegno di legge. Il cuore del provvedimento risiede tutto nel superamento delle tutele previste dall’articolo 18 (impossibilità di licenziare senza giusta causa), e nell’introduzione di indennizzi proporzionali all’anzianità del lavoratore, in caso di licenziamento. Va da sé che una buona parte del Pd non vuole accettare la rimozione delle garanzie sancite dallo Statuto dei lavoratori, come ribadito ieri Stefano Fassina, che definisce «Renzi come Monti e la destra», ma una riunione di maggioranza fissata per le 8 di questa mattina è destinata a produrre un accordo su un testo condiviso per la modifica all’articolo 4. L’obiettivo del governo e del relatore, del resto, è presentare un emendamento che consenta di ottenere il via libera della commissione Lavoro al Senato, evitando ulteriori slittamenti.
Resta che l’eventuale superamento dell’articolo 18 si scontrerà con un imponente fuoco di sbarramento. Il leader della Fiom, Maurizio Landini, va giù piatto e dice «In queste ore riparte la filippica sull’articolo 18. Ci si dice che l’Europa ci chiede questo. Bisogna proprio dire basta, ci hanno rotto le scatole». Landini ricorda inoltre che oggi il direttivo Cgil si pronuncerà sullo sciopero generale. Netto è anche il segretario Uil, Luigi Angeletti, che boccia la modifica annunciata da Renzi. «È inutile in termini di creazione di posti di lavoro». Una delle poche voci fuori dal coro è quella del direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci, «anche l’articolo 18 deve essere oggetto di una revisione, non deve essere il punto di partenza della discussione ma il punto di arrivo».

Repubblica 17.9.14
Maurizio Landini
Il segretario generale della Fiom “Pensare che la libertà di licenziare aumenti l’occupazione è una fesseria”
“Il blitz del decreto contro l’articolo 18 nasce dal diktat di Bce e Bruxelles”
di Paolo Griseri


TORINO L’abolizione del reintegro obbligatorio per i licenziamenti ingiusti? «Il governo deve scegliere: sta con gli italiani o si schiera contro di loro accettando i diktat della Bce?». Il leader della Fiom Maurizio Landini risponde così a quella che definisce «l’ingiustificata accelerazione del governo contro l’articolo 18».
Landini, perché parla di ingiustificata accelerazione?
«Perché l’abolizione dell’articolo 18 non era presente né nel programma di Renzi per la segreteria del Pd né nella delega al governo sulla riforma del mercato del lavoro».
Da dove nasce allora, secondo lei?
«Nasce dalla riunione dei ministri economici a Milano nei giorni scorsi e dalla pervicace volontà della Bce di continuare sulla strada sbagliata e fallimentare seguita in questi anni».
Dicono che l’articolo 18 non esiste in nessun paese d’Europa..
«Dicono una sonora stupidaggine. Provate a licenziare qualcuno senza motivo in Germania e vedete come va a finire. Prima devi trovare l’accordo del sindacato e poi quello di un giudice. Perché qui non si parla di licenziare le persone a causa della crisi. Quello succede già, come purtroppo abbiamo visto. Qui si tratta di licenziare senza alcun motivo e cavarsela con una multa».
Lei non crede che la libertà di licenziamento aumenterebbe l’occupazione?
«La maggior parte delle aziende italiane hanno meno di 15 dipendenti, dunque lì non si applica l’articolo 18. Quelle aziende hanno aumentato l’occupazione in questi anni? Ma per piacere.. Che cosa credono in Europa? Che gli italiani siano coglioni?».
Lei non crede al progetto del contratto a tutele progressive?
«Io penso che sia una proposta che vale la pena di essere discussa. Ma, appunto, devono essere tutele. Se io abolisco un diritto, le tutele diventano regressive. Se in fondo a un periodo di precarietà del contratto c’è l’arbitrio dell’azienda che ti può licenziare senza motivo, mi devono spiegare dove stanno le tutele progressive ».
Vi arroccate a difesa dell’esistente?
«Assolutamente no. Noi abbiamo proposte. Proponiamo di estendere a tutti la cassa integrazione facendo pagare anche le imprese sotto i 15 dipendenti. Proponiamo di ridurre le forme di contratto per evitare la giungla di oggi, di abbassare l’età pensionabile per fare posto ai giovani, di istituire una forma di reddito minimo legato alla disponibilità al lavoro».
Non crede che difendere l’articolo 18 possa impedire di sbloccare altre riforme che i sindacati chiedono da tempo?
«La riforma del mercato del lavoro va fatta tenendo conto che si interviene su una materia frutto di un secolo di lotte, di sacrifici e di conquiste. L’idea che tutto questo possa essere fatto semplicemente con un decreto, saltando il confronto con i sindacati mi sembra lunare».
Non è la prima volta che Renzi scavalca i sindacati...
«Qui però, con il decreto, scavalca anche il Parlamento».
Dica la verità: l’accelerazione sull’articolo 18 fa saltare l’asse Renzi-Landini?
«Non è un problema di assi o non assi, è un problema di coerenze. Comunque Renzi non può pensare di scambiare gli 80 euro in busta paga con l’abolizione dell’articolo 18 che gli chiede Draghi. Se questo è il pensiero del Presidente del Consiglio, credo che si sbagli di grosso e crei le premesse per uno scontro del quale il Paese non ha certo bisogno ».

La Stampa 17.9.14
Fassina

«Mi hanno colpito le omissioni. C’è un problema di linea»
intervista di F. Sch.

«Renzi come Monti e la destra utilizza il termine apartheid per scaricare su padri sfigati il dramma del lavoro di figli ancora più sfigati», twitta subito dopo il discorso del premier alla Camera l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina. E ancora: «Renzi dice no a diritto del lavoro di serie A e B. Propone tutte lavoratrici e lavoratori in serie C».
Perché secondo lei propone la serie C per tutti?
«Eravamo partiti parlando di contratto a tutele crescenti ed estensione del sussidio di disoccupazione ai precari, e finiamo con l’emendamento Sacconi-Ichino che il governo si appresta a sostenere che cancella l’articolo 18 e lascia i contratti precari. E non c’è una lira per gli ammortizzatori sociali. Un livellamento verso il basso».
E’ sicuro che il governo voglia sostenere quell’emendamento?
«L’ha detto Renzi oggi (ieri, ndr.): quando parla di apartheid, quello è il lessico di Ichino».
Se quella è la direzione, l’area sinistra del Pd darà battaglia?
«Per quanto mi riguarda sì, non c’è dubbio. Il problema non è su una singola misura, ma una linea di politica economica».
Cos’altro l’ha colpita del discorso del premier?
«Mi hanno colpito e preoccupato le omissioni. Siamo in deflazione, ieri (lunedì, ndr.) sono usciti dati agghiaccianti dell’Eurozona e lui non ha detto una parola dell’agenda di politica economica».
Renzi ha minacciato il voto se non si fanno le riforme. Secondo lei pensa alle elezioni, come dice qualcuno?
«Non lo so. Ma so che il voto significherebbe una sconfitta per tutti, e in particolare per chi ha la massima responsabilità».

Repubblica 17.9.14
Stefano Fassina
“Inaccettabile un diktat sullo Statuto”
intervista di Alberto D'Argenio


ROMA «Agire per decreto sullo statuto dei lavoratori è inaccettabile». Stefano Fassina (Pd) chiede al premier Matteo Renzi un confronto sulla riforma del lavoro dentro al Pd e nella maggioranza, respingendo l’idea di procedere d’urgenza su «una legge fondamentale».
Il premier afferma che se il Parlamento non fa le riforme si va al voto. Come risponde?
«Che le riforme dobbiamo farle bene e nel più breve tempo possibile perché è diventato stucchevole continuare a discuterne in termini generici. Le riforme possono essere di destra o sinistra, progressive o regressive, dobbiamo entrare nel merito e farle in fretta. D’altra parte andare al voto senza averle portate a termine sarebbe una sconfitta per tutta la classe politica, in particolare per chi ha maggiore responsabilità».
Cosa pensa della possibilità ventilata
di agire per decreto sul lavoro nel caso le Camere non fossero rapide?
«Il necessario compromesso all’interno della maggioranza va trovato in Parlamento, sarebbe inaccettabile un intervento per decreto sullo statuto dei lavoratori che è una legge fondamentale. Poi ovviamente c’è il merito: stiamo andando in direzione diametralmente opposta rispetto a quella sulla quale si era impegnato Renzi, andiamo verso una precarietà finalizzata a ridurre le retribuzioni per inseguire una impossibile competitività».
Il premier è sembrato mettere in discussione l’articolo 18.
«Appunto, il governo si era impegnato su un contratto unico a tutele crescenti che disboscasse la giungla di contratti precari e che finanziasse l’estensione dell’indennità di disoccupazione ai precari che oggi ne sono esclusi. Invece approdiamo all’emendamento Sacconi-Ichino che mantiene tutte le forme contrattuali precarie e cancella le tutele. È preoccupante che si continui a ritenere utile ai fini della ripresa l’ulteriore precarizzazione del lavoro quando ormai anche l’Ocse riconosce che il problema è la domanda aggregata ».
Come trovare un accordo se la distanza è tale?
«Nella veste di segretario del Pd Renzi ha proposto una direzione a fine mese su Legge di Stabilità e lavoro, spero sia un’occasione vera di discussione e ascolto, non il solito passaggio in streaming».
Altrimenti?
«Altrimenti produciamo un’agenda che non funziona, negli ultimi quattro anni abbiamo cambiato quattro governi conservando la stessa agenda, io vorrei conservare il nostro governo e cambiare l’agenda».

il manifesto 16.9.14
Fassina
“Renzi mi preoccupa. Parla con le parole della destra”
L'ex viceministro Pd. Tweet contro il presidente del consiglio: "Vuole lavoratori in serie C"
"No a colpi di mano per decreto. Piuttosto serve una manovra espansiva, da finanziare con uno sforamento controllato del deficit"
intervista di Antonio Sciotto


«Il decreto è solo una minaccia? Direi di no, le parole di Renzi mi preoccupano. Mi preoccupa questa accelerazione di fronte a un Parlamento che sta cercando una soluzione. E l’indeterminatezza, la mancanza di informazione». Stefano Fassina, voce critica del Pd, fin da ieri mattina è stato durissimo con il presidente del consiglio. In un tweet ha sintetizzato la sua contrarietà ai progetti del premier sul Jobs Act: «Renzi dice no a un diritto del lavoro di serie A e B. Propone tutte lavoratrici e lavor- atori in serie C».
Gli ultimi dati Ocse, le sollecitazioni di Ue e Bce, gli scontri con Katainen. Un premier sotto pressione. Renzi ha trovato nel lavoro la risposta alla recessione.
Se questa è la risposta all’Europa, lo ritengo ancor più grave. Da sette anni applichiamo l’austerity
e come risultato abbiamo la recessione, la deflazione, i tagli alle politiche sociali, e il tutto con un aumento dei debiti pubblici. Renzi, insediandosi alla guida del semestre Ue, avrebbe dovuto chiedere un cambiamento di agenda, e non riproporre le solite ricette conservatrici.
Eppure il presidente del consiglio risponde a tono: lo ha fatto con Mario Draghi, di recente con Jyrki Katainen.
La sua è una retorica anti-establishment, ma poi applica l’agenda dell’establishment. A parte la misura in sé, proporre di riformare con decreto l’articolo 18, mi ha molto colpito il linguaggio con cui Renzi l’ha presentata. È quello della destra, di Sacconi e Ichino, di Mario Monti. Dire che c’è un apartheid tra lavoratori di serie A e serie B, accusando i primi dell’ingiustizia subita dai secondi,
è usare quello stesso impianto analitico. Cioè io dico all’operaio di 50 anni, che negli ultimi 20 ha perso reddito, tutele e in centinaia di migliaia di casi perfino il lavoro, che il suo articolo 18 è il motivo per cui suo figlio è precario. Trovo grave che il Pd possa ricorrere a parole mutuate dalla destra.
Anche nel merito, c’è una forte accelerazione, e pare nella direzione in cui vuole andare Sacconi. Che infatti ha apprezzato tantissimo il discorso di Renzi.
Renzi, sia come premier che come segretario, aveva proposto – a partire dal congresso Pd – il con- tratto a tutele crescenti, con l’idea che dopo i 3 anni di prova maturi il diritto al reintegro, l’articolo 18 completo. Adesso, dopo la liberalizzazione dei contratti a termine con la legge Poletti, e la sostanziale eliminazione dell’obbligo di conferma per gli apprendisti, arriviamo all’emendamento Sacconi-Ichino che cancella l’articolo 18. É evidentemente un’altra cosa rispetto alle proposte orig- inarie, che – lo ricordo – includevano anche la bonifica della giungla di contratti precari
e l’estensione degli ammortizzatori sociali agli atipici. Punti questi ultimi che non si vedono, tanto più a causa della situazione dei conti pubblici e visti i tagli annunciati.
E mentre si cercava un accordo in Parlamento, adesso l’idea di agire per decreto, spinti da un’urgenza. È soltanto una minaccia?
No no, non mi sembra solo una minaccia. E sono preoccupato: mi preoccupa che si voglia intervenite per decreto sullo Statuto dei lavoratori, mi preoccupa questa indeterminatezza dell’annuncio, l’assenza di informazioni. Mentre in Parlamento si stava lavorando per arrivare a un’intesa.
Ma cosa dovrebbe fare il governo per rilanciare la crescita? La manovra di 20 miliardi e il
«Jobs Act» sembrano l’unica risposta.
Io credo innanzitutto che non si risucirà a tagliare 20 miliardi: bisognerebbe intervenire in modo pesantissimo sulla spesa sociale, su scuola, sanità, pensioni. Credo sia difficile anche reperire 10 miliardi, sinceramente. Vedo piuttosto all’orizzonte una manovra di galleggiamento.
Quale sarebbe, invece, la manovra giusta?
L’unica che non ci deprimerebbe ancora, ma che ci faccia tornare a crescere: una manovra espansiva. Con misure una tantum: allentare il patto di stabilità degli enti locali per le piccole opere, varare interventi di contrasto alla povertà e all’evasione. Una politica industriale, con investimenti. E poi estendere gli 80 euro a pensionati e partite Iva.
Dove prendere le risorse? Un programma ambizioso, supererebbe i 20 miliardi.
È un piano da realizzare in un triennio: alcune misure sarebbero una tantum, quindi alla fine non pesano più sui conti. Nel frattempo hai aumentato il gettito perché la crescita è ripartita, e i redditi irrobustiti hanno alimentato i consumi. Bisognerebbe sforare il 3%, ma in modo controllato, motivato dall’emergenza, per poi rientrare nei binari.

Repubblica Tv 17.9.14
Scalfari a Floris: "Renzi è l'erede di Berlusconi ma non fa bunga bunga"
Renzi "è come Berlusconi, sono due bravissimi seduttori, Berlusconi l'ha detto: se non fossimo contrapposti, sarebbe il mio figlio minore" afferma Eugenio Scalfari

qui

La Stampa 17.9.14
Pd, varata la segreteria “plurale”
Otto donne e sette uomini. Rappresentate tutte le correnti, tranne i civatiani. Prima riunione domani all’alba
di Franco Giubilei


Quindici nomine, otto donne e sette uomini. Decise all’ultimo momento, tanto che qualcuno non è ancora stato avvisato, e si verificherà la disponibilità da qui a domani, quando «al solito orario antelucano» si riunirà la nuova segreteria del Pd, quella che era stata battezzata «unitaria» dal leader e che però Cuperlo ieri «più correttamente ha definito plurale». Con un’ora di ritardo, nel tardo pomeriggio Matteo Renzi indossa i panni di segretario del Pd per riunire la Direzione nazionale e annunciare la nuova squadra, in attesa di essere ricostituita da mesi, dato che molti che ne facevano parte sono ora membri del governo.
Oltre ai vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, «Albano e Romina, come vengono chiamati da Bonaccini nella chat della segreteria uscente», scherza Renzi, ci sono la responsabile dell’Ambiente Chiara Braga e quello economico, Filippo Taddei, che andrà ad occuparsi anche di lavoro. Per il resto, nomi nuovi, con un coinvolgimento di tutte le minoranze tranne l’area Civati e deleghe che verranno distribuite domani ma che già trapelano: per i bersanian-dalemiani di Area riformista entrano Enzo Amendola (Esteri) e Micaela Campana (welfare e diritti); da Areadem di Franceschini arrivano Francesca Puglisi (scuola) ed Emanuele Fiano, per le riforme; in quota Cuperlo arriva Andrea De Maria a occuparsi di formazione politica e per i cosiddetti «giovani turchi» Valentina Paris, esperta di lavoro. Più numerosi ovviamente i renziani: David Ermini (alla giustizia), Ernesto Carbone (difesa), Alessia Rotta (alla comunicazione), Lorenza Bonaccorsi (innovazione e Pa), Sabrina Capozzolo (agroalimentare). Veltroniano ormai vicino a Renzi è Giorgio Tonini (cultura e università), mentre di provenienza popolare è la deputata Stefania Covello, al Mezzogiorno e fondi europei. Ad alcuni degli uscenti, fa sapere il segretario, verrà comunque dato un altro incarico, visto che è il momento di rinnovare anche gli organi dirigenti dei gruppi parlamentari (dove troverà un posto l’uscente Alessia Morani) oltre che le caselle liberate nel governo, quella dei sottosegretari Roberto Reggi e Giovanni Legnini: al posto di Reggi a occuparsi di istruzione dovrebbe andare Davide Faraone. Mentre per Francesco Nicodemo si parla di un impegno nella comunicazione da Palazzo Chigi.
«Il 41% impone di non fare da soli. Ma fondamentale è che andiamo avanti con quello che avevamo detto alle primarie, se no quel 41% cambia idea con la stessa velocità con cui fa zapping davanti alla tv», predica Renzi. Unità, seguendo il «crono programma» delle cose da fare, facendo «un salto di qualità» e anche talvolta qualche «sforzo maggiore di comunicazione», come sull’edilizia scolastica («dobbiamo cominciare a fare i selfie nei cantieri»), perché ad agosto sul tema degli asili, ad esempio, «c’è stato un errore nella comunicazione di Palazzo Chigi». E concedendo anche qualcosa alla minoranza: «Una buona idea» la proposta di una Direzione ad hoc per parlare di lavoro, sarà probabilmente il 29 settembre. Aperture che però non soddisfano tutti: «Siamo disinteressati alla segreteria: è uno staff del segretario», commenta Alfredo D’Attorre. Perché loro speravano in tre posti e sono entrati solo in due? «Assolutamente no, il problema non è di posti, ma di nodi politici: la gestione unitaria si costruisce sui temi».

Il Sole 17.9.14
Pd. Nominati otto donne e sette uomini
Via a segreteria plurale, Renzi prova a «blindare» il partito
di Emilia Patta


ROMA La nuova segreteria unitaria dell'era Renzi, attesa da settimane, alla fine prende forma. O meglio, come subito precisa l'ex competitor alle primarie di partito Gianni Cuperlo mantenendo una certa distanza dalla linea del segretario, una segreteria «plurale». E Matteo Renzi riesce in effetti a far entrare tutte le componenti del Pd nell'esecutivo del partito, ad eccezione dell'area di Pippo Civati. Che comunque, smentendo le indiscrezioni sulla sua volontà di uscire dal Pd per unirsi a Sel, precisa che la sua area «è a disposizione» per contribuire alla vita e alle idee del partito.
Otto donne e sette uomini, in omaggio alle quote rosa che ormai sono divenute una prassi del renzismo. I renziani, in ogni caso, continuano a farla da padroni. Sono infatti otto: Filippo Taddei, che resterà a ricoprire l'importante casella di responsabile economico anche se le deleghe verranno attribuite ufficialmente la prossima settimana, David Ermini (giustizia), Ernesto Carbone (difesa), Stefania Covello (Sud e fondi europei), Alessia Rotta (comunicazione), Lorenza Bonaccorsi (innovazione e pa) e Sabrina Capozzolo (agroalimentare). Dell'area che fa capo a Gianni Cuperlo c'è Andrea De Maria (formazione politica). Valentina Paris (enti locali) è in quota Matteo Orfini. Per area riformista, la componente dei giovani (ex) bersaniani e dalemiani che fa capo al capogruppo Roberto Speranza, ci sono Enzo Amendola (esteri) e Micaela Campana. Poi entra lo storico "liberal" Giorgio Tonini (cultura e università), già veltroniano e ora molto vicino a Renzi. E infine, per Area dem fondata a suo tempo da Dario Franceschini, ci sono Chiara Braga (ambiente), Francesca Puglisi (scuola) ed Emanuele Fiano (riforme). Quattro le uscite dalla segreteria: non ci sarà più Davide Faraone, che prenderà il posto di sottosegretario all'Istruzione per sostituire Roberto Reggi andato a dirigere l'Agenzia del demanio; e non ci sarà più Alessia Morani, che entrerà nella rosa dei vicepresidenti del gruppo Pd alla Camera; lasciano poi il Nazareno Francesco Nicodemo, che dovrebbe avere un incarico sulla comunicazione a Palazzo Chigi, e Pina Picierno, approdata all'europarlamento.
Con il varo della segreteria unitaria il premier-segretario spera di avere dietro di sé un partito unito di fronte ai prossimi difficili passaggi che il governo dovrà affrontare: i tagli che saranno previsti dalla spending review, con qualche dolorosa scelta politica che comporteranno, e soprattutto la riforma del lavoro. A fine mese la delega sul Jobs act approderà in Aula e il governo vorrebbe riscrivere tutto lo Statuto dei lavoratori, compreso l'articolo 18 come scriviamo a pagina 5, superando il dualismo del nostro sistema del lavoro tra garantiti e precari. Non a caso Renzi ha promesso una nuova direzione ad hoc su spending review e jobs act per la prima settimana di ottobre. Ma le reazioni di personalità come Stefano Fassina e Cesare Damiamo («l'articolo 18 non va toccato», «non è che per non avere più lavoratori di serie A e di serie B possiamo averli tutti di serie C») fanno capire che quella di Renzi non sarà una battaglia facile.

Repubblica 17.9.14
Salta la segreteria unitaria i renziani restano nei posti chiave La sinistra: “È ancora il suo staff”
I bersaniani entrano con Amendola e Campana, i cuperliani con De Maria ma contestano il leader e si tengono le mani libere. In tutto 8 donne e 7 uomini

Guerini e Serracchiani restano i vice. Renzi: “Sono come Albano e Romina” Faraone diventerà sottosegretario, la Morani vice al gruppo Camera
di Goffredo De Marchis

ROMA «Col 41 per cento non posso fare da solo». È un’apertura sul futuro, quella di Matteo Renzi, che si materializza con la scelta della segreteria del Pd: entrano le minoranze di Bersani, D’Alema e Cuperlo, resta fuori Civati (ma pronto a collaborare) mentre gli ex Ppi di Fioroni ottengono un posto con una loro dirigente. Ma non basta. Cuperlo, l’ex sfidante delle primarie, mette le mani avanti: «Chiamiamolo organismo plurale, non unitario». Aggiunge il bersaniano Alfredo D’Attorre: «Assomiglia allo staff di Renzi. Se davvero non vuole fare da solo, lo vedremo sui contenuti piuttosto che sui nomi». Gli oppositori interni si tengono dunque le mani libere, pronti a contestare le opzioni del governo più che quelle del Pd. Alla fine, ottengono una sola concessione: la riunione del partito sui temi economici. Ma la conferenza sullo stato del Pd, che pure è una necessità avvertita anche dal premier-segretario, non viene nemmeno citata durante la direzione.
Renzi teneva molto a mantenere la parità di genere nell’organo esecutivo di Largo del Nazareno. Ci è riuscito selezionando 8 donne e 7 uomini. Ha equilibrato, sul piano geografico, l’immagine del Pd promuovendo molti dirigenti del Sud. E ha cambiato quasi tutti i membri con un paio di eccezioni. Ma ha soprattutto imposto, nei ruolichiave, tutti fedelissimi, conservando una maggioranza renziana schiacciante, alla quale si aggiunge i vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, «Albano e Romina», li chiama Stefano Bonaccini come ha raccontato Renzi. Chissà se si riferisce alla fase del grande amore o a quella della separazione.
I renziani sono Filippo Taddei, David Ermini, Ernesto Carbone, Stefania Covello, Alessia Rotta, Lorenza Bonaccorsi e Sabrina Capozzolo. Dell’area che fa capo a Cuperlo c’è Andrea De Maria, Valentina Paris è in quota giovani turchi, per i bersaniani di Area riformista, ossia la componente di Roberto Speranza, ci sono Enzo Amendola e Micaela Campana; poi entra Giorgio Tonini, veltroniano; e infine per la corrente di Franceschini Chiara Braga, Francesca Puglisi ed Emanuele Fiano.
Ma sono le deleghe a raccontare quanto la preoccupazione di Renzi sia orientata sul cammino del governo. Nessuna competenza sui temi principali delle riforme verrà assegnata a un dirigente fuori dal cerchio dei fedelissimi. E quelle principali per il partito rimarranno in casa renziana a cominciare dall’organizzazione che verrà assegnata a Guerini. Il quadro dei dipartimenti spiega bene come ha scelto il segretario, anche se le decisioni verranno ufficializzate domani, alla prima riunione della segreteria. Taddei (economia e lavoro), Amendola (esteri), De Maria (formazione politica), Tonini (cultura e università), Fiano (riforme), Ermini (giustizia), Carbone (difesa), Covello (Sud e fondi europei), Braga (ambiente), Campana (welfare e diritti), Paris (enti locali), Puglisi (scuola), Rotta (comunicazione), Bonaccorsi (innovazione e PA), Capozzolo (agroalimentare). Il lavoro viene spacchettato dal welfare (che va alla bersaniana Campana) per affidarlo al renziano Taddei. Riforme, ossia Italicum, e giustizia rimangono all’area del premier.
Con le uscite di Reggi e Legnini dal governo, Davide Faraone diventerà sottosegretario. Alessia Morani diventerà vicecapogruppo alla Camera. Ma la segreteria unitaria o plurale che sia non sembra ancora aver risolto il problema delle divisioni nel Pd.

il Fatto 17.9.14
Riforma della scuola: le lacune, oltre il marketing degli annunci
di Marina Boscaino

qui

il Fatto 17.9.14
Eterologa in Lombardia, la costituzionalista D’Amico: “Presto ricorsi contro una delibera discriminatoria”

un video qui

il Fatto 17.9.14
La lenta agonia di giornali e tv
Spending Review

Gruppo Caltagirone, Rai e Mediaset: vige il modello Gubitosi
di Salvatore Cannavò


C’è Mediaset che sposta i suoi giornalisti dal Tg5 a News Mediaset, ma intanto riduce le ore di trasmissione del TgCom 24 e si ispira al dg Rai Gubitosi per motivare le sue scelte; c’è la televisione della famiglia Caltagirone, T9, che da un giorno all’altro licenzia tutti i 19 dipendenti; c’è, quindi, la Rai, con la sua riduzione delle testate e i piani di “spending review”. Oppure, ancora, l’Unità, testata fuori dalle edicole che attende di conoscere il proprio futuro. La crisi dell’informazione o, come dice il segretario di Stampa Romana, Paolo Butturini, “la contabilità delle chiusure”, si ricava agilmente dalla miriade di vertenze e conflitti nel mondo delle redazioni. Uno spaccato di questa realtà è stato offerto dall’incontro dei Comitati di redazione del Lazio che si è tenuto ieri presso l’Associazione Stampa romana, la seconda più grande, dopo Milano, del sindacato dei giornalisti, la Fnsi. Riduzione delle redazioni, una particolare durezza da parte degli editori, addirittura contenziosi per comportamento anti-sindacale, rischiano di diventare la norma.
IL CASO più eclatante è quello dell’emittente T9. Storica tv romana, fu acquistata dai Caltagirone già alla fine degli anni 80. Attualmente è di proprietà della Sidis Vision che fa capo a Edoardo, fratello di Francesco Gaetano Caltagirone e socio, con il 33% della holding di famiglia, quotata in Borsa, di cui fanno parte tutte le attività del gruppo. I 19 lavoratori hanno scoperto, dopo il non pagamento degli stipendi di aprile, che la società era stata messa in liquidazione. Poi, da un giorno all’altro si sono visti recapitare le lettere di licenziamento. Questo avveniva la scorsa estate mentre il gruppo Caltagirone acquistava una terza emittente a Roma, Radio Ies e faceva saltare il tavolo con i lavoratori di T9. I Caltagirone, poi, gestiscono anche il principale quotidiano romano, Il Messaggero, in cui è stato chiesto un nuovo stato di crisi per 39 pre-prepensionamenti. Una richiesta arrivata pochi mesi dopo la chiusura definitiva del precedente stato di crisi per il quale, però, non esiste ancora il decreto ministeriale per cui i giornalisti mandati a casa sono senza stipendio e senza pensione. Giornalisti esodati.
ACQUE particolarmente agitate in casa Berlusconi con le vicende, in parte note, dei redattori del Tg5 spostati a News Mediaset, l’agenzia interna del gruppo che dovrebbe svolgere il ruolo di servizio per i TgCom 24, Studio Aperto, Tg4 e, in parte, anche Tg5. Solo che il TgCom 24, lanciato come grande vetrina “all news” del Biscione, dall’8 settembre ha deciso di ridurre la programmazione oraria a sole 10 ore al giorno: dalle 8,55 alle 19,05. Le altre fasce orarie vengono coperte proprio dal Tg5 che però, invece di essere rafforzato, è stato depotenziato con il trasferimento di 19 redattori. Tra questi c’è chi ha sottoscritto un ricorso urgente al giudice del lavoro ipotizzando oltre alla violazione del contratto nazionale anche il comportamento antisindacale dell’azienda. Mediaset, rispondendo al ricorso, ha però agganciato il proprio piano di ristrutturazione “alla tendenza del mercato” e in particolare a quello che fa “il principale concorrente di Mediaset, la Rai”. Riferimento esplicito al “programma di sinergizzazione” che il Dg Luigi Gubitosi ha illustrato pubblicamente. Come a dire: lo fanno loro, perché non possiamo farlo noi?
IL MODELLO Gubitosi (che però è successivo a quello Mediaset) prevede, come è noto, l’accorpamento delle testate giornalistiche in due “newsroom”, una generalista e l’altra locale e “all news”. Progetto all’insegna dei tagli e che ha messo le redazioni in subbuglio. Ieri sera, ad esempio, il Tg1 è andato in onda senza firme e nuove agitazioni ci saranno nei prossimi giorni. Al Gr2, ad esempio, la programmazione informativa dei giornali radio è stata ridotta, da un giorno all’altro, del 36%. Riduzione minore, ma consistente, anche al Gr3 passato da circa 60 a 50 minuti.
Infine, l’Unità. Dal 1 agosto, da quanto il giornale di riferimento del Pd non è più in edicola, la redazione non ha saputo più nulla. Matteo Renzi, alla festa che porta il nome del giornale, dell’Unità non ha parlato. Sembra che si cerchi un azionista in grado di rilanciarla. Ma all’interno della redazione si comincia a parlare anche della possibilità di un azionariato diffuso con un ruolo diretto dei lavoratori.
“Con l’avvento della Rete”, commenta la situazione Paolo Butturini, “il giornalismo non è più un prodotto artigianale ma globale. Servono prodotti che capitalizzino i numeri enormi. Non siamo a una normale crisi ciclica ma a una crisi strutturale. È tempo di prendere il toro per le corna”.

Corriere 17.9.14
Spinge l’ex fidanzata e si butta con lei dall’ottavo piano
Voleva uccidersi, ha tirato giù anche Ale
di Andrea Galli


MILANO — A febbraio, in silenzio, di giorno, cappuccio in testa, aveva raggiunto il cornicione ed era rimasto in bilico sul bordo del palazzo, facilmente accessibile: la sua casa, quella dei genitori che l’avevano adottato bambino in Brasile insieme alla sorella, occupa gli ultimi due piani, settimo e ottavo, e dispone di un ampio terrazzo nella scala B di un complesso residenziale ad Affori, bella periferia nord di Milano. Un pompiere l’aveva distratto, un altro l’aveva salvato dal suicidio con un tuffo e il ventenne Pietro Maxymilian Di Paola, alto e magro, aveva rimediato soltanto graffi.
Lunedì, intorno alla mezzanotte, Maxymilian, che dopo la recente maturità non aveva le idee chiare sul futuro, aveva progettato un secondo tentativo. In una lettera aveva scritto che si sarebbe tolto la vita. Ma non più in solitaria : l’avrebbe fatto davanti ad Alessandra Pelizzi, d’un anno più piccola, figlia unica, ragazza dolcissima che da grande voleva diventare psichiatra e che, fino a luglio era la sua fidanzata. Alessandra, che con Maxymilian s’era conosciuta due anni e mezzo fa alle scuole superiori dei Salesiani (lei le aveva terminate con profitto, lui le aveva abbandonate per un altro istituto), era la spettatrice prescelta. Doveva vedere per convivere nell’eternità col rimorso d’averlo abbandonato. Sono precipitati entrambi, al termine di una serata leggera: birre, musiche, chiacchiere con altri due amici a un certo punto usciti dall’appartamento per comprare le sigarette oppure invitati a «lasciarci soli». Alessandra, nei piani di Maxymilian, sarebbe dovuta essere l’unica testimone. Ma i piani sono cambiati. Una residente del palazzo ha raccontato d’aver visto i ragazzi precipitare. Prima ci sono state delle urla e si è affacciata alla finestra. Poi, nel volgere di pochi secondi, sul terrazzo Maxymilian ha spinto nel vuoto Alessandra e l’ha seguita. Forse le aveva confessato le sue ultime volontà, c’è stata una lite e l’ha braccata chiudendo un’eventuale fuga per invocare aiuto.
Adesso un velo di segatura fatica a coprire i luoghi della caduta, nella zona dei box del civico 16 di via Novaro. I corpi sono stati scoperti per prima da Sofia, la sorella di Maxymilian, di pochi anni più piccola: Alessandra è morta subito mentre il fratello ha attraversato una notte d’agonia in ospedale. Oltre a Sofia in casa c’era la mamma, commercialista, e non il papà, dentista: sono separati. La festa con i quattro ragazzi (Maxymilian, Alessandra e gli amici) si è tenuta all’ottavo piano, che si raggiunge con una scala interna che parte dal settimo. La madre del ragazzo, che nelle ore successive alla tragedia era in uno stato di alterazione, ai poliziotti — e al parroco di Affori — ha raccontato di non aver immaginato niente. Né nei giorni scorsi, né durante la serata. Gli investigatori non confermano se fosse a conoscenza della lettera, e se (forse per l’ennesima volta) il figlio le avesse annunciato intenti suicidi. Sono domande obbligate, nei passaggi dell’inchiesta, anche se in Procura e Questura invitano a non scavare invano alla ricerca di labirinti.
In via Novaro Maxymilian sembrava pensare unicamente ai due amati cani (un husky e un meticcio) e alle moto (specie la Suzuky GSX-R). Aveva inutilmente provato a lavorare in un ufficio di assicurazioni e si era presto stancato.
A dieci chilometri di distanza in direzione del centro, nell’appartamento dei Pelizzi un amico di famiglia invita a non citofonare: «Il papà non sa cosa dirvi». Dal portone esce anche un ragazzo. Un amico di Alessandra. Si sforza di non piangere. Gli riesce. Dice: «Ale aveva l’animo della crocerossina... ma così la offendiamo. Se puoi scrivi che aveva un cuore d’oro. E scrivi che per quello, per il mostro, era l’ultimo appoggio sulla terra».

Corriere 17.9.14
Addio e vendetta, giù dall’ottavo piano
Il suicida che ha spinto nel vuoto la sua ex
La rabbia dei nuovi delusi d’amore
di Gustavo Pietropolli Charmet


Sempre più frequentemente succede che, alla dolorosa conclusione della relazione amorosa della giovane coppia, il partner deluso manifesti sentimenti di rabbia e desideri di vendetta nei confronti di chi lo ha abbandonato. In passato, all’imprevedibile tramonto dell’illusione amorosa, faceva seguito un periodo di lutto doloroso per la perdita, complicato dal sospetto di essere in parte responsabile della catastrofe a causa della propria inadeguatezza.
Nel corso degli ultimi anni sembra più frequente che nella fase della rottura della coppia il partner deluso esprima più sentimenti di rabbia e desideri di vendetta che sentimenti di colpa e dolore repressivo. Colui o colei che propone la rottura non viene implorato di offrire un’altra chance o di perdonare le incomprensioni e l’inadeguatezza amorosa. Quando l’abbandono viene vissuto come un insulto, una ferita al proprio fragile narcisismo rischia di scatenarsi un desiderio di rivalsa e vendetta che sfocia nel violento tentativo di ricondurre all’interno della coppia chi ha deciso di rompere il legame. Non sono infrequenti i casi in cui l’assedio dell’abbandonato diventa molesto costringendo la vittima delle insistenze e delle proteste minacciose a cercare riparo nel gruppo degli amici o dei genitori, a volte ricorrendo a denuncie ai Carabinieri. I casi di femminicidio sono spesso motivati dall’incapacità del partner maschile di elaborare il dolore della perdita a causa dell’immaturità, dipendenza patologia, assurda pretesa di ristabilire con la forza l’ordine precedente.
La minaccia di suicidio o veri e propri tentativi di togliersi la vita si inseriscono più in questo bisogno di punire che nello scenario della disperazione depressiva di un tempo.
D’altra parte il suicidio nei giovani esprime spesso molta rabbia e un bisogno sconfinato di essere ricordato per sempre: a volte sembra che davvero il suicidio del giovane sia un omicidio mancato. La fine terribile dei due giovani morti l’altra notte lancia un urlo senza voce in direzione dei genitori, amici, compagni di scuola, destinato a venire raccolto da una moltitudine di persone adulte e giovani che non possono non rimanere sgomenti a fronte di uno spettacolo raccapricciante che documenta come possa succedere che non si riesca a tollerare l’abbandono amoroso e riconoscere le proprie responsabilità. Trascinare con sé nella morte ci parla dell’impossibilità di separarsi ed esprime l’illusione di possedere per sempre il corpo e l’anima della ragazza un giorno forse amata, ora non più poiché la sua uccisone è figlia dell’odio, non dell’amore.
Gustavo Pietropolli Charmet

Repubblica 17.9.14
La lettera shock di Pietro. "Io ho già perso l'anima. Voglio che lei provi terrore prima di dire addio a tutto"
Lo scritto del ventenne che a Milano si è lanciato nel vuoto con la ex fidanzatadi 19 anni

di Massimo Pisa

MILANO «Scrivo queste parole non per essere ricordato, soprattutto perché dopo questa sera i ricordi sarebbero tutti negativi credo». Lettere del genere non finiscono mai sui quotidiani. Perché preannunciano gesti estremi e il suicidio per motivi personali di un ragazzo di vent’anni — è la vecchia regola — resta fuori dalle cronache. Solo che in queste tre pagine scritte in stampatello con grafia quasi femminile, intitolato “Lettera ai cari”, c’è un piano criminale lucido e affilato, una confessione preventiva che l’autore vuole postuma. La scrive, con ogni probabilità, nel pomeriggio di lunedì, e solo una volta si tradisce nella febbre di quello che sta per diventare inevitabile: «Quello che scriverò da qui in poi non ha nulla a che fare con i miei ultimi saluti ma invece servirà a spiegare (non accettare eh) quello che sto x». Le ultime due parole le cancella. «Ho fatto».
E dunque ecco, nella sua crudezza, il movente. Pagina tre. «Un odio così forte da essere felice di sacrificare la propria vita per far provare all’altro la vera tristezza». L’abbandono, la fine della storia, nella mente di Pietro Di Paola è l’innesco per la vendetta. Spietata. Di più: tortura. «Non mi sono lanciato con lei subito ma anzi le ho prima fatto provare il terrore di perdere tutto amici, famiglia e futuro ». Nella mente dell’omicidasuicida siamo già lì, sul terrazzo all’ottavo piano: «Per questo, e qui mi ripeto, ho perso l’anima tempo fa e quando sono salito sul terrazzo ero solo un corpo ed un ammasso di rabbia, incredulità e puro spirito sadico. Ho sfogato 7 anni di dolore in 45 minuti di terrorismo psicologico». Prima l’annuncio di quello che sarebbe successo, con gli amici e i parenti convocati ad assistere all’orrore. Anche se il piano, recita lo scritto, era leggermente diverso e prevedeva una lama: «Perché pugnalarla? Per essere sicuro di non essere l’unico a rimanerci secco». Vent’anni. Lei, diciannove.
Prova pure a spiegarla, come se fosse possibile, quella discesa agli inferi, abbozzando l’alibi classico dei manuali di criminologia, alla voce femminicidio: l’incapacità di accettare l’abbandono, l’accusa all’ex di indifferenza, il distacco come pretesto per la rivalsa. «Purtroppo con l’Alessandra ho finito a coinvolgere tutto me stesso: anima, cuore e corpo, ho specificato anima perché se si arrivano a fare certe cose, vuol dire che non la si ha più. L’amore totale e disarmante che provavo si è trasformato in affetto quando ci siamo lasciati per poi diventare risentimento nell’ultima settimana. Un odio così forte da essere felice di sacrificare la propria vita per far provare all’altro la vera tristezza». E la convinzione di essere andato a pari: con Alessandra, con la vita, col proprio dolore. Se la reincontrassi dall’altra parte la odierei ancora? No, il mio sfogo è finito nel momento in cui ho saltato».
Il prima, le altre due pagine con cui il ventenne arrivato bimbo dal Brasile, sono i saluti alle persone care, le scuse per non aver saputo sopportare il grumo di dolore e rancora che Di Paola si portava appresso. Parole vergate prima del crescendo di odio, sfumate nel fatalismo, anche confuse: «Purtroppo quel momento è giunto, come il sonno, lentamente e poi sempre più profondamente. Mi stupisce che dopo un po’ ci si abitua a tutto, a tutto tranne il dolore, che merita di essere vissuto, ma quando arriva a mangiarti vivo, tanto da rendere decisamente insapore qualsiasi esperienza. Tornando al motivo del perché scrivo, credo che sia una forma “atto di giustizia” verso chi magari dopo penserà al perché del mio gesto».
Ci sono i saluti compassionevoli alla madre («Spero non seguirai il mio esempio e continuerai la tua vita, non serve trovarsi per forza un uomo, anche perché come dici tu facciamo tutti un po’ schifo»). Alla sorella («A te auguro tutta la fortuna del mondo, sposa un brav’uomo e prenditi cura di Maya e di Leo come io non ho mai fatto»). Al padre che se ne era andato da tempo e quella partenza lo aveva scavato («Sappi comunque che non voglio addossarti la colpa di questo, se fossi rimasto qui con noi sarebbe successo lo stesso? Non lo so»). Alla nonna («Spero ti consoli sapere che ho fatto questa scelta per la mia felicità o più esattamente per smetterla con tutta questa “non felicità”»).
Saluta gli amici e qui si torna all’ultimo periodo, quello in cui il germe dell’olocausto di sé e di Alessandra diventava malattia incurabile: «Penso che se un mese fa mi avessero detto che sari finito a scrivere una lettera come questa sarei scoppiato a ridere e li avrei mandato tutti a quel paese». Poi la rottura, e il conforto che non arriva nonostante gli sforzi altrui «In queste settimane si sono comportati in modo magnifico. Purtroppo ciò mi ha fatto anche desiderare una vita perfetta a cui prima non avevo mai aspirato, perciò posso dire che nel mio caso, sia stata la speranza a fregarmi ».
Ci mette uno smile, il sorriso dei messaggini. E la lettura torna alle ultime righe di Pietro Di Paola, epitaffio che lascia senza fiato, qui riportato con l’ortografia originale: «Lascio un piccolo consiglio finale, si lo so che fa impressione, ma pensò sara utile sia alle future vittime che ai forse futuri carnefici, dubitate di quelli che ridono sempre a volte non possono semplicemente fare altrimenti e nel frattempo, perderanno l’anima».

Repubblica 17.9.14
L’integralismo sentimentale
di Gabriele Romagnoli


LA COSA che fa più impressione è questa: quando Pietro spinge Alessandra nel vuoto e aspetta qualche secondo prima di seguirla, obbedisce a un piano prestabilito.
UNpiano che ha messo per iscritto. Il freddo intento è “farle provare il terrore di perdere tutto, amici, famiglia, futuro” ed esserne spettatore. Lo ha pianificato e lo realizza, senza rilevante differenza tra le parole e i fatti. L’odio dichiarato guida le sue azioni. La storia è fortunatamente piena di terroristi a parole, convertiti nel momento della verità: antisemiti in servizio permanente hanno salvato ebrei dal massacro. Questo giovane è stato immune dal vaccino della realtà. Quando si trova di fronte la ragazza che aveva amato e da cui è stato lasciato non esita, non lo frenano lo sguardo che conosce, le mani che lo hanno accarezzato, la voce che lo ha cercato nel buio: tutto questo non è un ricordo da conservare con riconoscenza, sono “sette anni di dolore da ricambiare con cinque minuti di terrorismo psicologico”.
Pietro scrive di aver perso “l’anima” e tristemente questa è l’unica cosa che possiamo capire e condividere. Ci riusciamo perfino noi che non sappiamo esattamente che cosa sia, non avendo le coordinate di una religione a dare a questa parola un senso più preciso. Comprendiamo che ha a che fare, più che con la natura umana (spesso per vocazione feroce quanto quella animale), con l’umanità pura e semplice. Non occorrono una educazione particolare o un salto di qualità per ammettere che le persone si cercano, si incontrano, si dividono. Non è una conquista accettarlo, è una perdita di umanità negarlo. È assurdo progettare una ritorsione. Riuscire a metterla in pratica, a vent’anni addirittura, quando ogni avvenire è ancora possibile, è credibile soltanto perché è veramente successo. Pietro è stato un carnefice spietato come quelli che altrove progettano esecuzioni e le realizzano davanti a una telecamera. Dispiace per quel che resta della sua famiglia e delle sue amicizie, ma non ci sono attenuanti. La separazione dei genitori adottivi non basta a motivare nemmeno in parte quel “pieno di rabbia e risentimento” che lo induce a buttare dal terrazzo e guardare negli occhi mentre cade la ragazza che ha avuto il torto di rendere a lungo più piacevole la sua tormentata esistenza. Se gli concedessimo una sola giustificazione dopo aver letto la sua lettera testamento che è il manifesto di un integralismo sentimentale, faremmo un torto postumo a quell’essere umano che ne è stata vittima, al suo diritto calpestato, a quello di chiunque (donne o uomini) di amare, smettere, ricominciare, a qualunque età, per qualsiasi giustificazione. Noi che indomabilmente amiamo la vita lo facciamo perché contiene i doni dell’amore e della libertà. Chiunque li neghi è portatore della più abietta cultura di morte. Che si tratti di un ragazzo è spaventoso, almeno come lo è il fatto che, dopo ripetuti segnali, nessuno l’abbia tenuto sotto controllo, o almeno lontano dall’oggetto del suo presunto amore.

Il manifesto 16.9.14
Crisi a «Libération», redazione sotto choc
Tagli, licenziamenti, nuovi contratti e «clausola di non denigrazione»
di Anna Maria Merlo


Il quotidiano Libération affonda nella crisi. Malgrado una ricapitalizzazione di 18 milioni di euro lo scorso luglio, da parte dei nuovi azionisti di maggioranza, il finanziere Patrick Drahi
e l’affarista-immobiliarista Bruno Ledoux, proprietà e direzione hanno fatto una “proposta” bomba alla redazione: soppressione di 93 posti di lavoro (su 250, di cui 180 giornalisti), cioè un taglio di un terzo di chi ha un contratto a tempo indeterminato, riduzione da 11 a 9 settimane di ferie, da dicem- bre nuovo contratto per tutti quelli che restano (lavoro su carta, web, in futuro radio, tv e anche per gli “avvenimenti” organizzati dal “marchio” Libération) e chi non ci sta «sarà licenziato a gennaio» ha precisato François Moulias, cogestore del gruppo editoriale. Inoltre, nell’inverno ci sarà il tra- sloco in periferia dalla sede storica a due passi da place de la République. La proprietà spera così di risparmiare 8 milioni di euro anno per gli stipendi, cercando così di limitare la deriva attuale di per- dite giornaliere intorno ai 22mila euro, che hanno già fatto evaporare la ricapitalizzazione di luglio: Libération dovrebbe chiudere il 2014 con perdite per 20 milioni di euro.
E non basta: tutti i giornalisti e i tecnici del giornale dovranno firmare una «clausola di non denigr- azione» della testata. Questo per evitare che si ripeta la rivolta dello scorso inverno, quando ai pro- getti di tagli della proprietà la redazione aveva opposto la pubblicazione di articoli e prese di posi- zione con una pagina giornaliera intitolata «Noi siamo un giornale», per contestare l’idea lanciata allora di trasformare la testata in un marchio commerciale, per poter sfruttare la bella sede a spirale di rue Béranger come un locale, da trasformare in luogo culturale — «il caffé Flore del XXI secolo» aveva detto Moulias — con relativo affitto di spazi per eventi di ogni tipo, anche commerciali. Per molti giornalisti, la durezza delle “proposte” della proprietà è semplicemente «una vendetta» per l’affronto delle pagine «Noi siamo un giornale».
La redazione è «sotto choc«. Ma, aggiunge un delegato sindacale, «la rivolta non serve a niente». Il direttore, Laurent Joffrin, giustifica il programma della proprietà: «La crisi della stampa, che colp- isce duramente i quotidiani, ci obbliga ad adattare l’organico, come fanno molti giornali in Francia e nel mondo» (del resto anche Le Monde dovrà subire una ristrutturazione). Il nuovo quotidiano non seguirà più tutta l’attualità. Joffrin intende dividere il nuovo giornale in sei poli: Potere, Pianeta e Mondo, Futuro, Idee, Cultura e Next, il supplemento settimanale. Il web sarà sempre più con sezioni a pagamento, un pay–wall con qualche articolo gratis, nella speranza di aumentare gli abbo- nati sulla rete (ora sono 11mila). Dovrebbe venire potenziata anche la distribuzione a domicilio nelle grandi città (ora 25mila abbonati), mentre alcune attività, come la documentazione e la diffusione, verranno esternalizzate.
Per chi accetta entro fine novembre di dare le dimissioni ci sono 12mila euro di buonuscita. Se non si troveranno 93 persone, ci saranno licenziamenti. In qualunque modo si concluda questa dolorosa fase di ridimensionamento, il nuovo Libération sarà certamente molto diverso.
Nel giornale fondato da Jean-Paul Sartre, dove la critica era la materia prima, adesso viene imposta la clausola di non denigrazione, per chiudere la bocca a ogni espressione di dissenso nei confronti di scelte che proprietà e direzione presentano – anche qui, come fa il governo a livello nazionale – come la sola strada possibile, senza alternative.

Il Sole 16.9.14
Il voto in Svezia e in Germania
Se il no all'Europa contagia i Paesi del Nord

Consumata da anni di tagli, rigore, riforme, flussi migratori senza fine, questa Europa piace sempre meno alla sua gente.
di Adriana Cerretelli


Ormai non passa elezione nazionale senza che i partiti nazionalisti, xenofobi, euroscettici e anti-euro vedano ingrossare le loro file. Che siano vecchi o appena debuttanti sulla scena politica, poco importa: il loro messaggio involutivo risulta travolgente tra minoranze che poi diventano anche maggioranze. È successo con il Front National di Marine Le Pen in Francia, con l'Ukip di Nigel Farage in Gran Bretagna, con il Partito del Popolo danese in Danimarca, tutti arrivati primi nei rispettivi paesi alle europee di maggio.
Allora c'era stato chi minimizzava: voto in libertà, diverso, protestatario, meno ponderato e responsabile di quello che si esprime nelle consultazioni nazionali. Sbagliato. L'onda non si arresta. Aumenta.
A furia di sdrammatizzare per scelta deliberata, come se negare l'evidenza bastasse a cambiare la realtà, a furia di rifiutarsi di affrontare seriamente malessere e disagi sempre più profondi dei cittadini, l'Europa si fragilizza, trasformata nell'immaginario di molti nel malvagio grande Moloch da demonizzare e fuggire. Peggio, sono le fondamenta stesse della democrazia a svuotarsi pericolosamente di consenso popolare, che è il suo marchio di fabbrica obbligato.
Ancor più che nei paesi del Sud (che pure non se sono affatto esenti, anzi) tartassati da anni di sacrifici, tagli di reddito e sicurezze sociali in nome di un rigore europeo implacabile, è nel Nord ricco e protetto da un ampia rete di garanzie intonse che allignano i semi di una rivolta molto più metodica e convinta. Intrisa di miopia ed egoismo. Ma poco importa.
La conferma è venuta nel week-end da Svezia e Germania. La prima, tassi di crescita vicini al 2%, disoccupati al 7, redditi pro capite ai primi posti nella classifica Ue, deficit all'1,9%, debito al 40%, in breve un mostro di virtù economico-sociali persino rispetto agli standard tedeschi. Eppure a Stoccolma il Governo del rigore di Fredrik Reinfeldt (23%) è stato cacciato dopo 8 anni al potere, i socialdemocratici hanno vinto (31%) con il peggior risultato della loro storia e non abbastanza per avere la maggioranza. Chi ha davvero trionfato sono gli Svedesi democratici, il partito xenofobo che in 4 anni ha molto più che raddoppiato i voti passando da 5,7 al 13%.
Le regionali in Turingia e Brandeburgo non hanno punito Angela Merkel ma hanno eroso il suo fianco destro premiando con oltre il 10% Alternativa per la Germania, il partito nazionalista anti-euro che non cessa di irrobustirsi.
In entrambi i paesi non sono stati, come regolarmente in passato, i partiti tradizionali di opposizione, la sinistra in questo caso, a fare piazza pulita del voto dello scontento ma populisti e forze anti-sistema che avanzano pescando in tutti i bacini di voto. Il fenomeno non è nuovo. Quel che è nuovo è che appare inarrestabile dovunque.
Sentimenti nazionalisti e spesso anche anti-semiti, pulsioni più o meno violentemente anti-Europa e anti-immigrati, non importa se Ue o no, crescono incontrando dovunque partiti vecchi e nuovi ansiosi di interpretarli. Certo, non sono (ancora?) al potere ma sono sempre più in grado, in parlamento o fuori, di condizionarlo. Con inevitabili ripercussioni anche sulle politiche europee dei Governi.
L'Italia di Matteo Renzi pretende solidarietà e assistenza collettiva per gestire e redistribuire l'onere dei flussi migratori che si riversano sulle sue coste. Al di là delle frasi di maniera più o meno ambigue che incassa da Bruxelles e dintorni, è davvero credibile che possa ottenerla da un Nordeuropa che già ospita con crescente insofferenza gli immigrati che ha e comincia a mettere alla porta anche i cittadini Ue residenti con la scusa che sarebbero i turisti del welfare altrui? L'anno scorso non un paese scandinavo ma il Belgio con un premier socialista di origine italiana ha espulso quasi 3.000 residenti Ue colpevoli di presunto abusivismo.
In cambio delle riforme e a sostegno della crescita che langue nell'Ue, Renzi pretende anche di vedere, e lo dice forte e chiaro, il programma europeo di investimenti da 300 miliardi in tre anni. Si può credere che in questa Europa agli annunci seguano i fatti? Se prima degli ultimi voti, la possibilità era esigua, ora appare esangue. Del resto i segnali lanciati da Berlino e Bruxelles sono scoraggianti: niente o quasi denaro fresco, risorse da reperire scavando nel fondo del barile delle risorse attuali, meglio se riciclando i fondi strutturali già allocati, anzi condizionandone l'erogazione a progetti specifici approvati in sede Ue, sorvegliati nell'iter di realizzazione e sempre che si facciano davvero le riforme.
Naturalmente non è detto che alla fine sarà proprio questo lo schema finale del piano. Quasi certamente i negoziati a 28 ne limeranno qualche asperità. Ma questa è l'aria che tira oggi in Europa e domani potrebbe essere ancora peggiore se non cambierà il mood che ne muove i più segreti precordi.
Pessime notizie per l'Italia e per tutta l'Europa: l'euro richiede più coesione ma purtroppo si respira con troppa insistenza voglia di steccati e di disunione. La globalizzazione impone integrazione: ogni Stato Ue, anche la Germania, è troppo piccolo di fronte a Cina o India o Brasile. Invece sempre più la partnership europea è avvertita come una costosa e inutile zavorra da scaricare senza rimpianti. Clamoroso errore di valutazione. Peccato però che nelle urne a soffrire siano i partiti europeisti. Non i loro agguerriti antagonisti.

il Fatto 17.9.14
L’Isis uccide la pasionaria curda
Morta in battaglia Avesta, una delle leader dei peshmerga che combattono contro i jihadisti

di Rob. Zun.

   Gli occhi verdi come la divisa che aveva indossato per metà della sua breve esistenza, non scruteranno più le montagne brulle e le distese aride attorno al campo profughi di Makhmour, in Iraq, al confine con la Turchia, per snidare i tagliagole dell'Is. L'ultima casa di Avesta, 24 anni, una delle più temerarie guerrigliere del Pkk del Kurdistan turco, è stata una scuola trasformata in caserma. I compagni hanno fatto di tutto per salvarla, dopo che il proiettile di un jihadista le si era conficcato nel collo, ma la corsa in auto verso la città di Erbil è stata interrotta dall'esplosione di una mina e a quel punto non c'è più stato nulla da fare. Avesta era il nome di battaglia ma di fatto era il suo vero nome perché questa bella ragazza aveva trascorso la parte più importante della sua vita tra i guerriglieri curdi. Aveva deciso di salire sulle montagne di Qandil quando aveva 15 anni, dopo aver visto il corpo del fratello dilaniato da una bomba lanciata da un jet turco. La vita dei guerriglieri di Ocalan è dura: passano il tempo a combattere e a esercitarsi nascosti tra le montagne, raramente scendono per vedere i familiari. Tra donne e uomini in divisa non è permesso avere relazioni sentimentali. Eppure “nell'esercito” del Pkk ci sono da sempre molte donne, che guidano anche unità maschili.
   IN IRAQ ERA ANDATA come volontaria per difendere i curdi di origine turca che negli anni 80 scapparono dalla Turchia perché ricercati dall'esercito con l'accusa di essere terroristi del Pkk. Si fermarono appena oltre la frontiera e costruirono, nonostante l'ostilità dei curdi iracheni, un campo profughi. Per difenderlo Avesta ha perso la vita. Ma quando si diventa guerriglieri del Pkk, difficilmente si torna indietro. La ragazza aveva spiegato che condivideva anche l'ideologia marxista del Pkk e apprezzava il modo in cui le donne vengono considerate: uguali agli uomini, nonostante nei villaggi curdi non la pensino così. Abituata a combattere contro uno degli eserciti più forti del mondo, dotato di aviazione, al contrario degli jihadisti dell'Is, a Makhmour forniva copertura ai combattenti in prima linea.
   “L'Is non è così preparato come sembra”, aveva detto a un giornalista americano che l'aveva intervistata un paio di settimane fa. Si era anche lamentata del fatto che i peshmerga del Kurdistan iracheno non vedono di buon occhio i peshmerga turchi. Peraltro la Turchia è da tempo in ottimi rapporti con i curdi iracheni, dai quali acquista petrolio, ma ancora non ha raggiunto un accordo di pace definitivo con quelli in territorio turco. Del sospetto e del trattamento poco fraterno da parte dei curdi iracheni, Avesta ci soffriva, non riuscendo a comprendere le divisioni in quella che lei considerava una stessa famiglia.

Repubblica 17.9.14
L’inganno dei jihadisti
di Lucio Caracciolo


È STATO facile provocare quest’amministrazione e portarla là dove volevamo. Ci basta mandare in Estremo Oriente due mujahidin a sollevare una banderuola di al-Qa’ida perché i generali vi si affrettino, aumentando così le perdite umane, finanziarie e politiche degli Stati Uniti». Così Osama bin Laden nel “messaggio al popolo americano” trasmesso da al-Jazeera il 30 ottobre 2004.
SOSTITUIAMO l’Estremo con il Medio Oriente, al-Qa’ida con lo Stato Islamico, e naturalmente Bush con Obama e Osama con il suo fantasmatico emulo, il “califfo” al-Baghdadi: la storia si ripete? Sembrerebbe di sì.
Per una reazione compulsiva che non esprime alcuna strategia — lo stesso Obama in un momento di candore ha ammesso di non averne una — pare che questa amministrazione, fino a ieri impegnata a riparare l’errore della guerra in Iraq, ci stia riprecipitando. Senza l’iterativa enfasi di Bush figlio né l’impegno febbrile del suo vice Cheney. Anzi, con rassegnazione e malcelata sfiducia. Ma l’assenza di un disegno (geo) politico può portare Obama a finire il suo mandato da dove aveva cominciato: una prolungata campagna militare in Medio Oriente di cui avrebbe volentieri fatto a meno. E se è vero, come afferma il Pentagono, che questa battaglia durerà «almeno una generazione» — la stessa frase di Bush dopo l’11 settembre — a occuparsi di Baghdad e dintorni saranno i cinque o sei prossimi inquilini della Casa Bianca. Una dimensione temporale che non ha nulla di politico, molto di metafisico. Come è arrivato Obama a smentire se stesso? E che cosa significa questo per noi italiani, suoi pallidi partner nella coalizione in via di allestimento per sconfiggere l’ultima apparizione nel firmamento jihadista?
La risposta sta in un paradosso e in una conferma. Il paradosso è che un gruppo di jihadisti particolarmente efferati e assai professionali nella manipolazione dei media è in grado di dettare l’agenda di Obama. Caso da manuale di eterodirezione del forte da parte del molto più debole. La conferma è che i nostri governi, non importa di quale colore (o anche di nessun colore), quando l’America si lancia in uno dei suoi azzardi armati, sentono la necessità di segnalarle comunque fedeltà, fosse solo con un gettone di presenza. Per noi, come per altri europei, la dimostrazione dell’incapacità di usare la propria testa. Foss’anche sbagliando. Ma questo non sorprende.
Qualche stupore suscita invece l’incapacità della massima potenza mondiale a muoversi sulla base dei propri interessi, avendo fisso l’obiettivo e modulando i mezzi per coglierlo. Gli Stati Uniti stanno infatti scrupolosamente seguendo il copione previsto dallo Stato Islamico. Il quale persegue lo scopo di legittimarsi come magnete della galassia jihadista su scala mondiale. E insieme costruire una piattaforma geopolitica a cavallo del Tigri e dell’Eufrate, da cui suscitare la rivolta destinata a rovesciare i corrotti regimi “apostati” della regione, Arabia Saudita in testa. A questo fine, è essenziale per la sigla del “califfo” ergersi a campione della lotta contro gli “imperialisti” occidentali. Costringere gli Stati Uniti a dichiarargli guerra è la medaglia che ogni jihadista vorrebbe potersi appuntare sul petto. Obama ne è perfettamente conscio. Eppure non riesce a non fare ciò che non vorrebbe fare. Perché come molti suoi predecessori non può resistere a un doppio richiamo: quello della propria retorica e quello, ancora più cogente, dell’opinione pubblica.
Per retorica s’intende l’ideologia della missione americana. Se seguisse temperamento, istinto e raziocinio, Obama non s’impegnerebbe in un’invincibile guerra asimmetrica contro non temibilissime schiere di tagliagole, che non chiedono altro. Ma in questo modo dovrebbe abdicare al rango di «nazione indispensabile nel secolo passato e per i secoli a venire», «perno di alleanze impareggiabili nella storia delle nazioni», come proclamato ancora il 28 maggio davanti ai cadetti dell’accademia di West Point. Il principio di realtà ha raramente distinto la politica estera americana. E non ha premiato, in genere, chi l’ha praticato, magari surrettiziamente: non risulta che Nixon sia ricordato per la geniale apertura alla Cina, con cui diede scacco matto all’Urss.
Decisiva poi la pressione degli elettori, moltiplicata dalla prossimità del voto di mezzo termine. Da cui i democratici non si aspettano nulla di buono. E dopo il quale a Obama toccherà forse trascorrere due interminabili anni di umiliazioni, in un tramonto speculare alle formidabili aspettative suscitate dal suo avvento. Sicché è bastato che lo Stato Islamico pubblicizzasse sulla Rete l’orrore dell’esecuzione di due ostaggi americani per scatenare il riflesso militare in un pubblico che fino a quel momento non inclinava affatto a nuove spedizioni punitive in Iraq o altrove. E per ridare fiato all’esiguo ma combattivo drappello neoconservatore o comunque interventista, tuttora influente nei media e nel Congresso. È scattata così in Obama la necessità del “ do something”, “fare qualcosa”. Anche se non sa bene cosa né soprattutto perché.
La coalizione dei riluttanti assemblata in fretta e furia dalla Casa Bianca non promette un fronte unito né troppo impegnato a combattere i jihadisti del “califfo”. Né Obama sembra disponibile ad ascoltare le sirene che vorrebbero indurlo a mettere «gli stivali sul terreno», come suggerito dallo stesso capo degli Stati maggiori riuniti, generale Dempsey. Ma le escalation sono sempre possibili quando si entra, sia pure su un piede solo, in una logica di guerra governata dal nemico. Il “qualcosa” rischia di non sembrare mai abbastanza.
Il “califfo” non è una minaccia strategica per gli Stati Uniti né per l’Europa. Ma continuando a seguire il suo gioco non dovremo stupirci se ne risulterà imbaldanzito, attivando la rete dei suoi emuli e simpatizzanti nelle comunità più radicalizzate dell’islam occidentale. Impegnarsi in una guerra che non si vuole combattere fino in fondo, in cui ogni “alleato” cerca di scaricare i costi sull’altro, è peggio che far nulla. Ma sembrerebbe che noi tutti, in questo Occidente incapace di ammettere il proprio declino quanto disposto a negoziare i propri valori, si finisca periodicamente vittime del “ do something”. Nevrosi incurabile?

Il Sole 17.9.14
Commercio estero. L'attivismo del Paese per guadagnare la leadership nell'Asia-Pacifico e contrastare l'offensiva Usa
La Cina spinge sul libero scambio
Nell'area si moltiplicano i negoziati per trattati bilaterali e multilaterali
di Rita Fatiguso


PECHINO. Il frenetico attivismo cinese sta trasformando la regione dell'Asia-Pacifico in una «zuppa di spaghetti» nella quale galleggia di tutto: trattati bilaterali, trilaterali, negoziati multilaterali incrociati. Le sovrapposizioni si sprecano, ma i blocchi sono piuttosto definiti. È la Cina a voler giocare a tutto campo acchiappando la leadership nei negoziati. «Non vogliamo isolare nessuno», è la risposta di Zhang Yansheng, segretario generale del Comitato accademico della National development and reform commission Ndrc e architetto delle riforme del Terzo plenum.
«La Cina deve avere un'attitudine aperta verso ogni tipo di accordo di libero scambio, sia multilaterale che bilaterale», dice a Sole 24 Ore Zhang Yansheg, in una pausa dei lavori dedicati al tema "The party and the world dialogue" organizzato dal think thank China center for contemporary world studies.
L'ambizione suprema di Pechino, destinata ad essere il piatto forte della prossima riunione dei Paesi dell'Apec che si terrà a novembre nella capitale del Nord, è l'avvio del negoziato per un mega free trade agreement che comprenda tutta la regione dell'Asia-Pacifico. Nel frattempo la pragmatica Cina alimenta una serie infinita di free trade agreement che, per diventare intellegibile agli stessi addetti ai lavori, richiede l'aiuto di un esperto di insiemistica.
Un accordo onnicomprensivo, sempre nei sogni di Pechino, dovebbe avvalersi delle competenze sviluppate nei negoziati regionali già aperti: la madre di tutti i free trade agreement dovrebbe essere attivato con la benedizione dei leader della riunione clou dell'Apec, grazie anche alle prove generali fatte a marzo a Qindao dai ministri del commercio estero della stessa Apec.
Di fatto gli Fta sono spuntati come funghi negli ultimi anni, circa 200 quelli monitorati dal Wto, nell'Asia-Pacific due blocchi antagonisti si scontrano, da una parte la Cina dall'altro gli Usa, con alcuni Paesi nel mezzo posizionati su entrambi i fronti. A guidare la cordata del Recep (Regional economic comprehensive economic partnership) c'è la Cina più le 10 nazioni Asean più Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda. Sull'altro versante il Tpp, Trans pacific partnership, vale a dire Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, Usa, Canada, Cile, Peru, Messico, Vietnam, Thailandia, Singapore, Brunei (questi ultimi quattro fanno parte dell'Asean che ha aderito anche al Recep).
L'Asia-Pacific Fta è già stato ventilato nel 2006, poi quattro anni dopo i leader dell'Apec hanno disegnato le due rotte parallele Recep e Tpp promettendo che l'Apec sarebbe stato l'incubatore di questi trattati. Due anni almeno si profilano per portare a compimento il Tpp e per la Cina il Recep, la Cina ha voglia di chiudere, in fretta, con Seoul e Tokyo.
Ma come mai la Cina non ha aderito al Tpp che pure comprende partner molto collaudati della stessa Cina? Zhang non fa una piega: «Se il negoziato Tpp intenderà aprirsi anche ai Paesi in vai di sviluppo - dice - allora la Cina non avrà problemi di sorta, per il momento ci sono altri obiettivi intermedi, i free trade agreement in questo momento stanno servendo alla Cina per amplificare gli effetti delle riforme interne, specie nell'area dell'Asia-Pacifico».
Oltre una dozzina quelli siglati direttamente con Paesi o gruppi di Paesi, una trentina le economie coinvolte e non soltanto in Asia.
Il nemico vero è il tempo. Nei giorni scorsi a Pechino si è svolto il quinto round per chiudere entro il 2015 il free trade agreement trilaterale tra Cina, Corea e Giappone: un potenziale mercato comune da 1,5 miliardi persone con un Pil da 15 trilioni di dollari.
La Corea è il primo esportatore in Cina, il Giappone ha ridotto gli investimenti in Cina nei primi scorci del 2014, ma è legata alla Cina più di quanto non voglia o possa ammettere. Al pari della Cina il Giappone è fuori dal Tpp.
Il Tpp totalizza almeno il 40% del Pil mondiale e a parte la posizione a bordo campo della Cina ci sono differenze tra le parti che restano irrisolte. È immaginabile un Tpp senza la Cina? E che effetti avrà il Tpp per le aziende che operano in Cina? Come si raccorderà con altri accordi di libero scambio fatti dalla Cina o senza la Cina visto che Giappone e Corea sono oggetto anche di negoziati bilaterali? E dopo l'accordo globale Wto di Bali che ulteriori implicazioni ci saranno?
Stesse valutazioni valgono per il Recep che, a sua volta, presenta simili difficoltà nonostante l'ombra cinese che si staglia sul negoziato. La "tazza degli spaghetti" potrebbe rivelarsi davvero indigesta. Anche più che indigesta per Taiwan caduta nel torpore dopo le proteste degli studenti contro l'adozione del Cross straits service agreement. L'accordo è l'upgrade dell'Economic cooperation framework agreement (Ecfa), un'intesa del valore di 197 miliardi di dollari firmata a Chongqing nel 2010, tocca non più le merci ma i servizi ad alto valore aggiunto.
Pechino ha sollecitato vivamente il presidente taiwanese Ma Ying-jeou ad approvare, finalmente, una svolta strategica che aprirebbe alle imprese taiwanesi 80 settori dei servizi di Mainland China e 64 analoghi settori di Taiwan al mercato cinese.
Ma Taiwan sta a guardare, non fa parte né della cordata Rcep né di quella Tpp, eppure i Paesi che aderiscono a quest'ultimo negoziato totalizzano il 34,4% del commercio di Taiwan, mentre quelli ricompresi nel Rcep addirittura arrivano al 57 per cento. La geografia, a volte, non aiuta.

Corriere 17.9.14
«Riformisti» con il culto di Lenin
Una pura illusione il progetto coltivato dalla destra del Pci
di Ernesto Galli Della Loggia


L’ala riformista del Partito comunista, i cosiddetti «miglioristi», ha rappresentato con il Psi di Craxi la grande occasione mancata della sinistra italiana. E al tempo stesso gli uni e l’altro insieme hanno probabilmente rappresentato la grande occasione mancata che ebbe l’intero sistema politico della Prima Repubblica di rinascere dalle ceneri a cui lo stavano avviando quegli anni Ottanta che furono la sua ultima stagione. Un invito a riflettere su questa pagina importante della nostra storia politica è il libro di Umberto Ranieri giunto da pochissimi giorni in libreria (Napolitano, Berlinguer e la luna. La sinistra riformista tra il comunismo e Renzi , Marsilio): una pagina che l’autore, come si sa, ha vissuto per così dire dal di dentro, sia come dirigente del Pci a Napoli e nel Mezzogiorno sia come esponente nazionale di rilievo del partito.
Il libro di Ranieri contribuisce a dare risposta a una domanda cruciale: e cioè perché mai l’Italia sia stato l’unico Paese dell’Europa occidentale nel quale per tutto il Novecento il massimalismo si è dimostrato sempre più forte del riformismo. E per quale motivo, quindi, essa non ha mai avuto un governo realmente di sinistra, cioè un governo socialdemocratico. Le sue pagine ce lo fanno capire ripercorrendo, in particolare, le tappe di quello che fu il vano tentativo dei «miglioristi», guidati a partire dagli anni Settanta da Giorgio Napolitano, di convincere il Partito comunista della necessità di adottare una linea che andasse per l’appunto verso l’affermazione nella sinistra di una prospettiva riformista.
Il fatto è, a me pare, che i «miglioristi» non seppero o non vollero rendersi conto (e si direbbe che lo stesso Ranieri oggi stenti a vedere la questione con la necessaria chiarezza) di un punto che viceversa era il punto: vale a dire che, lungi dal poter essere la soluzione del riformismo in Italia, proprio il Pci ne rappresentava viceversa il massimo ostacolo. Per l’ovvia ragione che la nascita e poi tutta la storia di quel partito — all’ombra della rivoluzione bolscevica e dell’esperienza sovietica — non solo non avevano nulla a che fare con il riformismo medesimo, ma ne avevano sempre costituito una coerente antitesi. Come del resto i «miglioristi» per primi avrebbero dovuto ben sapere: non erano infatti stati per l’appunto quell’origine e quella storia, con tutte le loro relative mitologie, ad avere spinto ognuno di loro, in tempi diversi, ad entrare nelle file del Pci? Sicuramente sì, non certo la prospettiva di qualche placida evoluzione socialdemocratica della società italiana! Il Partito comunista, insomma, non poteva diventare in alcun modo qualcosa in contraddizione con il proprio Dna. E quando dico Dna, non intendo solo la sua radice storica e la sua natura profonda, ma soprattutto lo sfondo mitico-ideale, le aspettative in parte escatologiche, la cultura politica di base dei suoi militanti (vorrà pur dire qualcosa, ad esempio, che ancora nel 1970, per il centenario della nascita di Lenin, il Pci lanciasse una massiccia e capillare campagna per la pubblicazione, la diffusione e la lettura dei suoi scritti). Intendo cioè tutto il deposito di effettiva predisposizione al massimalismo che era propriamente il suo e che esso si trovava oggettivamente e continuamente ad alimentare.
Ciò che, a dispetto di quanto ora ho detto, spinse i «miglioristi» a coltivare il loro sogno fu probabilmente il fatto che tuttavia tale massimalismo — a differenza di quello sgangheratissimo dei socialisti del «biennio rosso» — non giunse mai a concepire o predicare apertamente alcuna rottura istituzionale. Si fece anzi scrupolo costante di porsi a difesa delle istituzioni, sebbene lo facesse però in nome di una versione sommamente ambigua della categoria di antifascismo: che il Pci concepì sempre per un verso come legittimazione dell’ordinamento repubblicano, ma per l’altro anche come promessa di una futura, anche se mai meglio precisata, «rivoluzione democratica» .
Riuscire a combinare una prassi quotidiana democratica con il costante richiamo al mito massimalista-rivoluzionario dell’Ottobre e dell’Urss fu per l’appunto, come si sa, il capolavoro politico del togliattismo. E al togliattismo la destra comunista rimase subalterna fino all’ultimo. Come il libro di Ranieri testimonia puntualmente — e direi quasi dolorosamente — fino all’ultimo essa, per esempio, non ebbe il coraggio di dire con la chiarezza necessaria che cosa era in realtà il regime sovietico; fino all’ultimo s’inchinò reverente al mito dell’«unità del partito» (la prima volta che osò votare contro fu quando in undici si dissociarono dalla designazione di Occhetto a vice del segretario Natta: nel 1987, allorché in pratica stava venendo giù tutto); e pure all’ultimo, come scrive Ranieri, i miglioristi «lasciarono che ancora una volta i conti con la durezza della storia fossero rinviati», avallando il ridicolo tentativo della strategia del «nuovo Pci», mentre quello vecchio stava ormai per essere travolto dal crollo del Muro di Berlino. Desiderosi di stare comunque nella maggioranza insieme a coloro che fino al giorno prima avevano avversato.
Il maggior pregio del libro di cui si sta dicendo alla fine sta proprio qui. Nell’essere una ricostruzione attenta e personalmente partecipe (non scevra di una cosa in Italia rarissima, di cui va dato il giusto merito al suo autore: l’autocritica ) del tortuoso itinerario, dei contraddittori passaggi, di una posizione politica che, nata per essere alternativa ai suoi avversari, non ebbe però mai né la lucidità né il coraggio per esserlo davvero.

Corriere 17.9.14
Aggressione ai cristiani d’Oriente
A rischio duemila anni di storia Anatolia, Siria, Iraq: il fanatismo contro la fede nei Vangeli

di Gian Antonio Stella

Le macerie più angoscianti, tra immagini di chiese bombardate, altari saccheggiati e antichissime icone spaccate e calpestate, sono quelle che non si vedono. Le macerie di un mondo millenario devastato e cancellato in un secolo dall’odio. Con una spaventosa accelerazione negli ultimi anni verso il precipizio. Erano il 15 per cento della popolazione, i cristiani, in Siria: nel 2050, spiega il World Christian Database dell’Università di Oxford, saranno ridotti (se non va peggio) all’1,32. Erano il 6,4 in Iraq: saranno lo 0,37. Erano l’11,6 in Palestina: saranno lo 0,5. Erano il 22 per cento nel cuore dell’Anatolia: saranno lo 0,17.
Perfino in Libano, che fino al 1970 era a larga maggioranza cristiana, i greci-ortodossi, i greci cattolici, i melchiti, i siriaci, i caldei, gli armeni e i cattolici, la cui varietà non è solo fonte di ricchezza, ma di grande debolezza, sono oggi ridotti a poco più di un terzo della popolazione e, stando alle proiezioni della Oxford University, sono destinati a calare a poco più di un quarto. E dunque ad essere sempre più emarginati.
Racconta una leggenda, ripresa da Andrea Milluzzi in Parabole d’Oriente , che «nel 939 il califfo al-Mu’izz li-Din Allah sfidò papa Abram, guida dei copti egiziani, a dar prova del passo del Nuovo Testamento secondo cui i cristiani potrebbero spostare le montagne se lo desiderassero con fede. Il califfo invitò il patriarca a spostare il Muqattam, la montagna che si erge sopra Il Cairo, e se non ci fosse riuscito il Cristianesimo sarebbe stato bandito in quanto “falsa religione”. Ma il Muqattam si spostò, i copti furono salvi e da allora un monastero dedicato a San Simeone il conciatore, un asceta che viveva sul monte e che pregò in soccorso di papa Abram, è meta di pellegrinaggio per turisti e fedeli. Ai piedi della montagna e del monastero sorge «Garbage City», la città dei rifiuti, dove decine di migliaia di copti vivono in mezzo a un’enorme distesa di spazzatura. Sono gli zabbalin (la gente dell’immondizia, in arabo), famiglie cristiane il cui lavoro è raccogliere e selezionare la spazzatura di quasi tutta la capitale, per poi riciclarla». Una vita tra i rifiuti per una minoranza sempre più rifiutata come estranea nonostante quasi duemila anni di presenza in Egitto. Il tutto sotto gli occhi dell’Europa, sempre più imbarazzata e impotente dopo aver causato in Medio Oriente, con i suoi errori, troppi guasti.
«La protezione straniera fu soltanto menzogna e fumo negli occhi. Non ha mai avuto risultati positivi. Ha forse potuto evitare massacri atroci e abominevoli? Al contrario i cristiani hanno raccolto attentati, odi seminati, progettati, voluti, sollecitati dalle Potenze», scriveva già nel lontano 1924 Habib Abi-Chahla nel rapporto L’extinction des Capitulations en Turquie et dans les Régiones Arabes . «Sappiamo bene che esse non hanno risparmiato proteste e reclami in favore delle minoranze. Ma abbiamo la prova di quanto illusorie siano state tali garanzie. Esse producono in realtà l’effetto contrario. Conducono ad una separazione sempre maggiore musulmani e cristiani, che invece avrebbero interesse a unirsi ed a essere solidali in difesa del patrimonio comune. Il settarismo ha di fatto dominato in Oriente, grazie alla politica nefasta delle Potenze».
Quale sia oggi il panorama di quelle terre un tempo cristiane e fino a pochi decenni fa «anche» cristiane è riassunto in una bellissima e struggente mostra fotografica che, dopo un’anticipazione al meeting di Rimini, si apre venerdì 19 settembre, per due settimane, alla Gipsoteca del Vittoriano. Si intitola appunto Parabole d’Oriente. Il cristianesimo alla sfida del nuovo millennio , è stata promossa dal diplomatico e intellettuale armeno Vartan Karapetian, curata dalla nostra Renata Ferri e basata sulle foto di Michele Borzoni e i testi di Andrea Milluzzi, da anni in viaggio alla ricerca di ciò che resta delle comunità cristiane in Medio Oriente.
È una storia di storie. Di amori e di odii. Smakieh, un piccolo villaggio giordano vicino al bellissimo castello crociato Kerak, è «abitato da due sole famiglie che si spartiscono terreni e case, gli Hijazin e gli Akashe, entrambe cristiane», ma divise al punto che il vecchio parroco è stato «allontanato per aver compiuto l’unico gesto vietato a Smakieh: celebrare le nozze fra un al Hijazin e un Akashe». La piana irachena di Ninive avrebbe potuto diventare un’enclave esclusivamente cristiana ma Louis Sakho, patriarca di Babilonia dei caldei, rifiutò spiegando che «reclamare la creazione di un ghetto è contro il messaggio cristiano, che ci vuole sale e lievito in mezzo a tutta la pasta dell’umanità». A costo della vita.
E poi Ma’lula, bellissima e amatissima dai viaggiatori quando ancora si poteva viaggiare in Siria, sede di antichissimi monasteri come quello di San Giorgio del 325 d.C. e famosa per essere l’ultimo borgo dove si parlava ancora l’aramaico che parlava Gesù Cristo: presa dai qaedisti nell’estate 2013, fu ripresa dall’esercito siriano a settembre, riconquistata dai miliziani islamici a novembre e di nuovo strappata loro dall’esercito grazie all’aiuto delle milizie libanesi sciite degli Hezbollah. E sta lì, in bilico tra la sopravvivenza e la catastrofe.
«A trenta chilometri da Ma’lula sorge Saydnaya dove è custodita un’icona della Vergine Maria dipinta da San Luca che fa del villaggio il secondo luogo più importante per i cristiani d’Oriente dopo Gerusalemme». E poi altre storie di testimonianze che miracolosamente resistono da secoli in tutti i Paesi dell’area, compreso l’Iran sulle cui montagne sorgono solenni e solitari i monasteri armeni di Santo Stefano e di San Taddeo, la «Qara Kelisa», chiesa nera, una delle più antiche del pianeta, fondata addirittura nel 68 d.C.
E sono proprio le terre un tempo armene a chiudere la mostra. Con le foto ad esempio della cattedrale della Santa Croce sull’isola di Akdamar, nel lago di Van: vandalizzata nel 1915, la cattedrale è stata riaperta nel marzo 2007 come museo laico, con un nome turcofono, ritratti di Ataturk e senza la croce sul tetto: i figli degli armeni sopravvissuti al genocidio, gentile concessione, possono celebrarci la messa solo una volta l’anno.
È passato un secolo, dalla cancellazione degli armeni dall’Anatolia. E man mano che si avvicina l’anniversario i cristiani vivono la nuova stagione di fanatismo islamico in Siria e in Iraq, con quelle chiese bombardate, quelle icone profanate, quelle conversioni imposte col terrore, come il riaffacciarsi, alle porte di casa, di un incubo. Il riaprirsi di una ferita che butta ancora sangue.

Repubblica 17.9.14
Dove finisce il principio del piacere
La ricerca della verità è il tema principe dell’autore. Sia in letteratura che in tv
Una vicenda emblematica che ci svela come i mostri nascano nella nostra mente
Nel nuovo romanzo Augias torna alla psicoanalisi delle origini. Per raccontare un mistero al femminile
di Massimo Recalcati


QUID est veritas? È la domanda che Pilato rivolse a Gesù e che risuona sulle labbra di un personaggio di Il lato oscuro del cuore , prima prova di letteratura “alta” di Corrado Augias che Einaudi ha deciso di ospitare nella sua collana più prestigiosa, dove appaiono i nomi dei grandi: Rigoni Stern, Roth, Auster, Mc Carthy, Calvino, De Lillo. Questa domanda non è solo la vera protagonista del libro ma costituisce una sorta di filo rosso che insistentemente — e come potrebbe essere diversamente? Non si scrive sempre del proprio fantasma? — percorre l’opera sfaccettata di Augias. Se si osserva infatti la sua imponente produzione — narrativa, giornalistica, televisiva — un tema si impone su tutti gli altri: quello della verità e dei suoi segreti.
A questo tema si può riportare l’interesse per le città di Parigi, New York, Roma, Londra, ma anche i primi lavori di narrativa noir e le inchieste giornalistiche più recenti e fortunate sui segreti del Vaticano, Gesù, Maria e gli italiani nel loro strambo rapporto con il potere ( Perché agli italiani piace avere un padrone?
Recita il sottotitolo del saggio Il disagio della libertà ). Anche l’Augias televisivo appare mosso dalla stessa corrente se solo si ricorda, tra tutti i suoi fortunati programmi, forse quello divenuto più popolare: Telefono giallo. Insomma pare evidente che la cifra dell’Augias-intellettuale è quella di inseguire la verità nei suoi luoghi più oscuri. Di qui, non ultima, la sua passione per i labirinti della vita psichica e la sua ammirazione per il geniale Charcot alla cui lezione si formò, nella Parigi di fine Ottocento, il giovane Freud. È proprio quest’ultima vena di ricerca a nutrire il romanzo di Augias: la psicoanalisi come “scienza delle tracce” — secondo una bella definizione di Freud. La protagonista della storia, Clara, è infatti una giovane studiosa di psicoanalisi, aspirante psicoterapeuta. Si interessa dell’inconscio e delle sue enigmatiche manifestazioni, in particolare quelle legate al corpo delle donne al quale la psicoanalisi deve, come nessun’altra disciplina, la sua identità e la sua genesi. Lo sa bene Clara quando ripercorre nei suoi studi i passi che condussero Breuer e Freud a concepire i corpi delle isteriche come teatri di un discorso senza parole, a vedere — sulla via aperta da Charcot — nelle loro contorsioni l’affiorare in superficie di una verità scabrosa e inconfessabile.
Nella scena d’apertura troviamo il corpo di una donna spaventato, inerme e offeso dalla brutalità terrorizzante di un uomo. È il corpo di Wanda. È lei la donna che apparirà come uno spettro imprevisto sul cammino diligente di Clara. Sospettata di essere coinvolta in qualche modo nell’omicidio del marito, viene sospinta dal suo avvocato verso Clara con l’intento di ricavare qualche informazione utile dalle sedute psicoterapeutiche. Il passaggio della giovane studiosa dallo studio delle prime “eroine“ della piscoanalisi (Bertha Pappenheim, Dora, Sabina Spielrein, le isteriche di Charcot), alla nuda vita di Wanda è un doppio salto mortale. Clara s’imbatte nell’esperienza che ogni psicoanalista conosce bene: l’incontro con una storia reale e con una vita disfa la sicurezza dogmatica della dottrina, facendo vacillare le sue fragili basi. Nell’incontro con il mistero di Wanda, Clara vive con smarrimento il punto dove la chiarezza cartesiana della teoria l’abbandona: «Il colloquio con Wanda stuprata e ferita, incapace di una qualunque difesa per ragioni che ignorava aveva avuto su di lei un effetto sconvolgente!... mai come in quel momento si era sentita sospesa tra l’analisi astratta di casi vecchi di decenni e gli urti violenti con cui la vita la stava colpendo… ». La verità della psicoanalisi non riguarda la natura del mondo, ma quella “umana troppo umana” del sesso; è la verità della divisione e non dell’unità dell’uomo.
Il mistero indigesto sulla cui pista si è gettata Clara è un mistero che ci riguarda. Esso fa saltare i confini della vittima e del carnefice, del buono e del cattivo, del razionale e dell’irrazionale. L’oscuro non è l’opposto della luce, la volontà e la ragione non governano integralmente le passioni del corpo, la violenza non è il contrario del piacere: «Potevo dire di essere violentata? — si chiede Wanda — Un uomo mi era venuto addosso a casa mia, sul mio letto. Era sicuramente violenza. Però mi aveva anche provocato un piacere mai provato prima, cancellando qualunque altra cosa». Questo piacere è un eccesso che si mescola al male e all’offesa e che genera un attaccamento mortifero. I mostri non vengono mai dall’esterno ma sgorgano dalla nostra mente. La barbarie non è il confine esterno e straniero della Civiltà ma la faglia, l’orrore che cresce nel suo seno. Clara può allora scoprire in modo spaesante che Wanda non è solo un’altra donna, ma abita in lei, è l’indice della sua differenza interna, della sua divisione. Può scoprire che in questa donna la posizione di vittima («della società, dei costumi, dell’indigenza, di una cultura insufficiente, di un matrimonio sbagliato, di una serie di circostanze sfortunate, di una congenita debolezza di carattere »), si ribalta in modo sconcertante in quello di chi ha una responsabilità attiva nel fare qualcosa di quello che gli altri hanno fatto di lei. Wanda non è solo una vittima.
La verità che emerge non può non lasciare il lettore spiazzato. Se per un verso uno dei temi del romanzo è l’occupazione violenta da parte di una cultura maschilista e sessista del corpo delle donne (una sorta di rappresentazione retroattiva del nostro ultimo ventennio?), per un altro esso non sceglie la via comoda dell’alleanza con la vittima. Il lato oscuro del cuore è oscuro perché non risponde all’Ideale, ma alla pulsione. La domanda finale che investe il mistero della vita di Wanda («com’era possibile, dopo tutto quello che le avevano fatto, che Wanda si chiedesse se doveva aiutare o no l’uomo che l’aveva torturata ») non è diversa da quella che dobbiamo porci su Sabina Spilrein — tormentata paziente di Jung e Freud — quando decide di consegnarsi nella mani dei nazisti mentre avrebbe potuto fuggire: «Perché Sabina si consegna volontariamente ai suoi carnefici?». Quid est veritas?

IL LIBRO
Il lato oscuro del cuore di Corrado Augias (Einaudi pagg. 280, euro 19)
L’autore sarà a Pordenonelegge il 20 settembre alle 16

Repubblica 17.9.14
A spasso nella capitale ceca, ricordando la bellezza di ieri tra le chincaglierie di oggi
Addio Praga città di santi perduti nel varietà
di Alberto Arbasino


PRAGA AL celebratissimo Teatro Nero di Praga si arrivava da quei tremendi alberghetti ove si veniva rinchiusi e sorvegliati dall’unica agenzia statale. Prima che Lucio Fontana se ne confezionasse uno artigianalmente nel seminterrato d’una galleria milanese. E ancora prima che Wanda Osiris sfruttasse in grandi spettacoli ogni possibilità artistica della «luce nera di Wood». «Laterna Magika»: molto ragguardevole, a quei tempi.
Ma non sembravano poi così scadenti, quegli spettacolini “neri” (come le varie sculture, dopo tutto), e provenendo noi da quegli pseudo-alberghini terrorizzanti, «da Ghepeu» come si diceva allora. Profluvio di care memorie anche immaginarie, fra Rodolfo II e Kafka. Culto dello Stato totalitario, con servizi segreti, spie dell’intelligence, poteri della Chiesa soprattutto sugli immobili. Fra tutti quei santi barocchissimi e sconvoltissimi, macché chincaglierie migranti e banchetti peggio che in Piazza Navona. Applicazioni, piuttosto (povere) del dignitoso astrattismo praghese.
Macché astrattismi, adesso. O sagaci utilizzi di Muybridge con un braccio o un polpaccio in bianco, e uno in nero. Ciò piace in varie sale, tutte affollatissime, e vogliose più di comicità in inglese che non di astrazioni al buio. Fra varie culone, così, un buffone con una mano girevole ridacchia con gesti allusivi. Tornano allora in mente i fantocci con le testolone di Nenni e Togliatti e De Gasperi – il Potere di allora – quando cantavamo «Siamo qui, siamo qui tutti quanti – e teniamo ‘na capoccia grossa grossa – fra coriandoli e stelle filanti – si vulite ve possiamo fa’ la mossa». Così, alla fine: «E stavolta ve facciam la mossa – oplalà, lalà, lalà!». Girano varie palle illuminate, fra i mimi in nero che se le scambiano. Musica registrata. Telefonate, scorregge, coni e ventagli, tartarughe luminose, boccacce, boccucce, clownerie. Si pestano continuamente i piedi, con frequenti «ahi, ahi».
Piccoli varietà da antico avanspettacolo. Bagnanti che si danno fastidio senza smuoversi. Un invadente che fischietta, con sorrisetti. Piume sul pubblico. Vomitano in un secchiello. Massimo successo: un automobilista imita i peti e i borborigmi di un antico pilota d’aereo. Come prelevata da qualche Mucha, ecco una vecchia «maliarda, hai vinto!» con tanti veii, tipo Chiomadoro Regina delle Fate. «Spirito son dei boschi, la mia voce ascoltate!». Ma non appena in scena si fa buio, la gente pretende il ritorno dei due comici. Successo, poi, d’ogni scatenato e facile «Mozartissimo». Turisticissimo.
* * *
Poche mostre, e musei pieni d’una qualità media, contrariamente alle nostre abitudini. Si possono così ammirare i Tiziano e Tintoretto dalle depredate collezioni rudolfine. Tra antiche battaglie, pietre incise, altari, arcangeli, dignitari biblici o mitici, banchetti, digiuni. Assunzioni e trionfi senza ritegno, sepolcri con espressività spropositata, estasi continue anche in dimensioni piccole. Cristi, Davidi, Ercoli, Maddalene, Lucrezie, Orfei. Martiri, trittici, Venezie, Ignazi, Procopi, Ladislai, Venceslai, Vladimiri... Vulcano, Bronzino. Tanti Bruegel. Tantissimi dolori da Camerino, Tolentino, Murano. Doloranti da tutta la Toscana. Molto suggestivi.
Lì davanti, su al Castello, una buona rievocazione di Michelangelo al Palazzo Schwarzenberg, con un Ganimede, dopo sale e sale e sale di scultura locale straniata e stravolta e dunque tipica. Nel Palazzo Salm contiguo, una rassegna sulle influenze dell’arte giapponese sull’arte ceca. «Japonismus », con la voga delle arti orientaleggianti uso Madama Butterfly . Del resto, l’enorme convento di Strahov, fra i tanti emblemi della Vergine presenta Sofonisbe, Giudizi di Paride, Bacchini e Bacconi, angeli e preti danzanti, Van Dyck sequestrati e dispersi dai comunisti, e anche Luca Cambiaso (si dice) biblioteche paradisiache e confortevoli, imitatori di Rembrandt o Maulbertsch, esponenti del rococò. E giù nella piazza principale della Città Vecchia, fra i gioiellieri e profumieri parigini, i vecchi edifici costruiti davanti al duomo (e non ai palazzi) offrono mostre di Mucha, Warhol, Dalí.
La Musica come allegoria o figura o immagine – o, soprattutto, metafora – a partire dalle danze fiamminghe mondane o villerecce: ecco il tema di «Vivat Musica!» al Veletrznì Palace. Tasti, corolle, riflessi notturni e liquidi: Frantisek Kupka. Fra un monumentale Guttuso e Perilli e Vedova e Carrà e Buffet e Raysse e un Klimt prima perduto e poi ritrovato. Sante Cecilie, Laghi dei Cigni, festival allegorici di un valente Masek. Per un lascito d’epoca, il direttore della Galleria, Vincenc Kramar, le donò queste collezioni ricchissime, col celebre autoritratto di Picasso. E si vede qui anche un «Bonjour M. Gauguin» di cui si ammirò un’altra versione in America. Van Gogh, Derain, Braque, Matisse, Toulouse-Lautrec... Oltre che grande collezionista, quel direttore evidentemente apparteneva a una facoltosa famiglia di politici.
Preziose cornici dorate o nere anche per i metafisici o astrattisti più poveristici... E lì sotto, i Mucha patriottici. Senza modestie. Vere o finte...
* * *
Verso la fine di questi giri e rigiri, a Loreto, sculture ancora nere, irreparabili. E preghiere alle «gloriose vergini e confessore»: le Sante Rosalia da Palermo, Barbara patrona dell’artiglieria, Odilia d’Alsazia badessa dopo fosche storie. Santa Cecilia, già salutata più volte. Alberi di famiglia pieni di vergini. Affreschi di putti e scheletri.
Proclamazioni di Povertà, fra tesori e ostensori d’oro e perle, gemme, diamanti implacabilmente alla moda. Coralli, avori, pietre paesine. Vienna, fine Seicento. Barocco. Tesori. E i poveri?
Non può non tornare in mente la Sacra Casa di Loreto davanti al Palazzo Rucellai, opera di L. B. Alberti, a Firenze. Anche lì, che felice adeguamento alle mode scultoree di un preciso decennio. Qui, pare suggestivo l’accorgimento di decorare con affreschi addirittura dugenteschi l’interno, con candeline fioche. E il Palazzo Cernin lì davanti? Che esagerazione. Ministero degli Esteri? Stupendo, ma sproporzionato. * * * Pare che la sola mostra in città sia alle Famose Illustrazioni Bibliche di Marc Chagall, ma dentro c’è poca gente malgrado la posizione centralissima. Incisioni e litografie colorate forse troppo specialistiche?
Vecchie barbe, antichi cernecchi, angeli anziani intorno a un vecchio Signore. Sogni, visioni, incubi, leggende. Vecchi vitelli d’oro, candelabri a sette becchi, tavole di legge che poi Mosè butta. Mosè, Noè, Giosuè, Elia, Geremia, Isaia, Daniele, Ezechiele, Aronne, Assalonne, Salomone, Sansone, il Faraone, tutti proverbiali. Davide, Abramo, la profetessa Deborah, tette e chiappe di celebri seduttrici come Salomè, Dalila, Giuditta... Lì, insieme, puntesecche egualmente bibliche e liriche dell’artista coetaneo Bohuslav Reynek. Nessuna allegria.
( 2. Fine) © Alberto Arbasino