giovedì 18 settembre 2014

La Stampa 18.9.14
La ex consigliera di Forza Italia scelta per la segreteria del Pd
Stefania Covello, 42 anni, broker, fu consigliere comunale di centrodestra a Cosenza
di Francesca Schianchi


Tra i calabresi del Pd non fanno che sottolineare quanto la cosa sia lontana nel tempo, «io me l’ero persino dimenticata», assicura il collega di segreteria Ernesto Carbone. Ma, mentre lei è chiusa in una riunione da cui non risponde al telefono, sono tanti i suoi compagni di partito a raccontare che sì, è vero, Stefania Covello, 42enne broker di Cosenza, la nuova responsabile del Mezzogiorno e dei fondi europei del Pd, delega che le dovrebbe essere ufficialmente conferita oggi alla prima riunione della nuova segreteria «plurale», in passato ha fatto un passaggio in Forza Italia. Peccato veniale nel Pd post-ideologico targato Renzi, ma che non manca di fare notizia. 
Figlia di un ex parlamentare democristiano, Franco, che si candidò poi con Forza Italia, lei inizia a fare politica nel 1997, quando viene eletta per la prima volta in consiglio comunale a Cosenza: lo scrive lei stessa, nel suo sito, specificando che il sindaco è Mancini, di centrosinistra. Vero, ma lei fa parte della minoranza, la lista civica dei Cattolici democratici e riformisti. Nel 2002, poi, si ricandida, viene eletta, e l’archivio del comune di Cosenza la elenca di nuovo in minoranza: ma stavolta, appunto, nel gruppo di Forza Italia. 
«E’ tutto così lontano nel tempo che nemmeno lei ricorda bene le date», taglia corto il portavoce, prontamente nominato (ieri) in vista dell’impegno in segreteria. Stando ai ricordi di chi la conosce, comunque, nel gruppo di Fi resta poco. «Nel 2003 è entrata a far parte della Margherita», garantisce il segretario regionale della Calabria, Ernesto Magorno. Un passaggio che dalle sue parti non passa inosservato: nel 2005 un candidato al Consiglio regionale calabrese, il leader del Movimento disoccupati Carlo Morrone, la nomina tra i candidati al velenoso premio «Giuda 2005» riservato ai politici passati dal centrodestra al centrosinistra. Lei, però, da quel momento lì sta: assessore provinciale all’istruzione e alle politiche e beni culturali, poi consigliere regionale, infine deputata alla Camera, dal 2013, dopo aver partecipato alle primarie per i parlamentari. Vicina al leader dei popolari Beppe Fioroni, nell’ultimo congresso si è schierata con Renzi. 
«Il Pd calabrese è molto soddisfatto della sua nomina in segreteria», garantisce Magorno. Lo scrive sul sito del Partito democratico regionale: «Un risultato importante che premia il lavoro dell’intero Pd Calabria, un motivo d’orgoglio per tutti i democratici calabresi». Tra di loro, giurano, nessuno se lo ricordava nemmeno più quel «peccato di gioventù»...

La Stampa 18.9.14
Renzi di destra e di sinistra
di Mattia Feltri

Pesanti attacchi alla magistratura per quante ferie hanno, per come influiscono nella vita politica e in quella delle aziende. Decisa intenzione di rivedere il diritto dei lavoratori e di riformare l’articolo 18. Noia e fastidio per i sindacalisti, che non incontra mai e anzi maltrattata. Aperta diffidenza verso l’Europa... È proprio vero: quanto piacerebbe a Forza Italia un Renzi di destra. E al Pd uno di sinistra.

La Stampa 18.9.14
Sulle riforme in scena un inedito bipolarismo Pd-Pd
di Marcello Sorgi


Il Pd è sotto pressione, e perfino a rischio implosione, dopo la decisione di Renzi di presentare un emendamento al Jobs Act che punta all’abolizione dell’art.18. Il testo dell’emendamento non è tassativo, anche se punta ad aumentare i poteri delle imprese in materia di ristrutturazione aziendale, diminuendo corrispondentemente quelli della magistratura del lavoro, e Renzi ha confermato nel corso della visita alla Stampa a Torino che l’impostazione scelta è questa. Nel giro di poche ore, all’annuncio è seguita una dichiarazione della Camusso, che invita tutti i sindacati a mobilitarsi contro il governo, e l’atteso incontro tra il premier e Berlusconi, in cui il leader di Forza Italia ha garantito pieno appoggio alla riforma delle leggi sul lavoro.
Prima ancora di un necessario approfondimento, è stata proprio questa sequenza a mettere in ebollizione il Pd, spingendo il capogruppo dei senatori Zanda a convocare un’assemblea del gruppo di Palazzo Madama. Al Senato infatti, stando agli attuali rapporti di forza, la delega chiesta dal governo sul Jobs Act potrebbe passare in commissione e poi, nel caso in cui la minoranza del Pd provasse a bloccarla in aula, essere approvata con l’aiuto dei voti di Forza Italia. Ma è proprio su questo punto che all’interno del Pd s’è riaperta una frattura: se Renzi vuol governare con la destra, obiettano gli esponenti della minoranza di sinistra, deve dirlo chiaramente. Altrimenti deve affrontare una discussione nelle sedi di partito e un confronto con i sindacati.
A giudicare da quel che il premier ha detto martedì alla Camera in occasione della presentazione del programma dei mille giorni del governo, di spazio per una discussione del genere ne resta poco. Consapevole dell’urgenza che le autorità europee mettono all’Italia, Renzi ha detto che la riforma va realizzata entro la fine di ottobre: ciò vuol dire che il Parlamento dovrebbe concedere la delega entro la metà del mese, e nelle due settimane seguenti il governo emanerebbe i decreti delegati che darebbero efficacia alle nuove norme. In caso contrario, se in Parlamento il dibattito dovesse arenarsi, o peggio scontrarsi con l’ostruzionismo, com’è già avvenuto per la riforma del Senato, Renzi procederebbe per decreto, rinunciando alla complessa procedura della legge delega.
Per certi versi, lo scontro che si profila ricorda quello storico, di quasi trent’anni fa, sul taglio della scala mobile: anche allora la sinistra andò incontro a una profonda spaccatura tra socialisti e comunisti. La novità è che adesso la divisione è tutta interna al partito che ha la guida del governo: così dopo quello tra destra e sinistra degli ultimi vent’anni, e quello Renzi-Grillo delle recenti elezioni europee, sta per nascere un nuovo, inedito bipolarismo Pd-Pd.

il Fatto 18.9.14
Mille giorni di B. e Matteo Il Nazareno raddoppia
Incontro a Palazzo Chigi
Silvio offre il soccorso azzurro su economia, lavoro e Italicum
La chiusa: “Andiamo come treni”
di Wa Ma.


Ho un messaggio per voi da Renzi”: Berlusconi esce da Palazzo Chigi e va al Sap, il sindacato di polizia. E veste addirittura i panni dell’ ambasciatore. Se qualcuno poteva avere qualche dubbio su com’è andato l’incontro tra Renzi e Berlusconi ieri a Palazzo Chigi l’episodio è sintomatico. Un’ora e un quarto per fare il tagliando al Patto del Nazareno. Di più: per ratificare quello che ormai evidentemente è un patto di governo. Le formazioni sono allargate: con Silvio ci sono Gianni Letta e Denis Verdini, con Matteo, Luca Lotti e Lorenzo Guerini. Qualche battuta dell’ex Cavaliere sul Milan a Guerini e Lotti, tanto per rompere il ghiaccio, ma poi si entra nel vivo. Il format è consolidato, gli obiettivi sono chiari. Renzi inizia con una panoramica sulla situazione internazionale, da premier ad ex premier, la definiscono. Poi, una sorta di informativa su legge di stabilità e riforma del lavoro, quello che “dobbiamo fare”. In Parlamento l’altroieri si è rivolto a tutti, non solo alla maggioranza per chiedere di fare le riforme, pena il voto anticipato. Adesso parla con Berlusconi, che ufficialmente è fuori dal governo, ma è quello che davvero lo garantisce. Non c’è neanche bisogno di chiedere i voti sui provvedimenti economici. Arriveranno. L’offerta da parte di Forza Italia è sul piatto, e Renzi gradisce. L’emendamento presentato dal governo al Senato, che sospende l’articolo 18 per i nuovi assunti, piace molto anche a Forza Italia, non soddisfa Angelino Alfano e provoca le proteste della minoranza Pd, Fassina in testa. Ma se il premier deve scegliere, sceglie il “soccorso azzurro”.
Poi si entra nel vivo della questione, l’Italicum. Ratificata qualche modifica, oggetto di trattativa da mesi: l’innalzamento della soglia per accedere al ballottaggio, dal 37 al 40%, il ritocco verso il basso dal 4,5% al 4% per l’ingresso dei singoli partiti, e il tema delle preferenze (ci sarà un capolista bloccato, come chiede B,. e le preferenze per gli altri, come vogliono Pd e piccoli partiti). Pare che sullo sfondo rimanga la volontà di estendere l’Italicum anche al Senato, cancellando la clausola che ora lo impedisce. Per avere una legge pronta all’uso. Tema delicato: perché Berlusconi non vuole andare alle urne e ha chiesto garanzie. Renzi ha risposto che il suo è un orizzonte di legislatura, l’ha rassicurato. “Non si va al voto anticipato ha detto più volte sarebbe il fallimento dei 1000 giorni”. Ma una pistola carica pronta all’uso è essenziale, viste le fronde perenni dentro Fi e Pd. “Il patto – dirà Berlusconi alla fine dell’incontro – è rafforzato. Andiamo avanti come treni”. Dunque, il Caimano sul punto sta sereno (l’aggettivo non è puramente casuale). Da Forza Italia raccontano che si è anche cominciato a parlare del nuovo inquilino del Colle, dal Pd smentiscono categoricamente. Si sia affrontato o no ieri, un candidato per passare, deve avere l’avallo dei due, questo è certo. Infine, Csm e Consulta: non se n’è parlato, raccontano. Nel senso che non si è deciso un cambio ufficiale di rotta. Per adesso. Quando il Patto è forte, tutto (sembra) possibile. Tanto per essere chiaro Berlusconi ha fatto i complimenti a Renzi per il discorso dell’altroieri in Parlamento: “Sei stato bravissimo, soprattutto sulla giustizia”. Tra i due la “profonda sintonia” (definizione di Matteo dopo il primo vis a vis, quello nella sede del Pd) va avanti. Per ora il segretario-premier non ha preso i ministri di B., come aveva promesso. Per ora. Perché che il prossimo passo saranno le larghe intese lo pensano in molti.

La Stampa 18.9.14
Se il premier diventa inevitabile
di Giovanni Orsina


L’inevitabile. Così già nel 1903, quando l’età giolittiana cominciava appena, Francesco Papafava definì Giovanni Giolitti in una delle sue acutissime cronache politiche per il «Giornale degli Economisti». L’apatia rassegnata con la quale l’altroieri le Camere hanno accolto il discorso di Renzi lascia credere che, dopo più d’un secolo, di «inevitabile» la politica italiana ne abbia infine trovato un altro. Il parallelismo non è soltanto retorico o giocoso: se vogliamo davvero comprendere la mutazione profonda che il sistema politico italiano ha subito negli ultimi tre anni, guardare a Giolitti e all’Italia liberale potrebbe esserci assai più utile che restare aggrappati alle logiche bipolari per il momento del tutto superate del 1994-2011, o a quelle partitiche del 1948-1992.
Col discorso di martedì – in particolare coi passaggi su lavoro e giustizia, nei quali ha preso posizioni che solo con grande sforzo possono esser distinte da quelle della tradizione berlusconiana – Renzi ha completato un’operazione che, in senso tecnico e non morale, potremmo definire trasformistica: ha colmato parte del fossato che divide destra da sinistra, preparando il terreno per una grande confluenza al centro.
È un pezzo che quest’operazione va prendendo forma, del resto: si pensi soltanto alle retoriche e ai ragionamenti sul Pd «partito della nazione» che hanno cominciato a circolare all’indomani delle elezioni europee e sono proseguiti per tutta l’estate.
Come sempre accade nelle operazioni trasformistiche, anche quella che sta compiendo il presidente del Consiglio si collega – causa e conseguenza insieme – all’evanescenza politica delle opposizioni. Troppo deboli in partenza per impedire a Renzi di conquistare il centro, i suoi avversari sono condannati adesso a scegliere fra due vie ugualmente perdenti: o condurre un’opposizione del tutto sterile, o convergere con lui, ma in posizione subalterna. Sulla prima strada si è buttato il Movimento 5 stelle – che, pur andando ancora bene nei sondaggi, a un anno e mezzo dalle elezioni si configura in termini politici come un’esperienza completamente fallimentare. La seconda opzione è invece quella a cui sempre più si va accomodando Forza Italia, con buona pace di Renato Brunetta. A guardarli, salgono davvero alla mente gli avversari dell’uomo di Dronero: il povero Sidney Sonnino, galantuomo impolitico i cui due governi non riuscirono a durare più di cento giorni l’uno; i socialisti perennemente oscillanti fra la collaborazione e il sovversivismo; i radicali che non sapevano più da che parte girarsi, finché non si misero in pancia a Giolitti dando due ministri al suo quarto gabinetto.
Come sempre accade nelle operazioni trasformistiche, anche in questo caso i dissensi e le insoddisfazioni, frustrati e compressi dall’assenza di uno sbocco politico, riemergono di continuo in maniera surrettizia, disordinata, distruttiva. Tutte le votazioni a scrutinio segreto che si sono svolte nelle Camere negli ultimi tempi, ad esempio, hanno sistematicamente dato un risultato differente da quello che ci si aspettava sulla carta – fino allo psicodramma attuale dell’elezione dei giudici costituzionali. O ancora: Renzi, che come ogni buon comunicatore ha bisogno di nemici, non riesce a trovarne neppure uno che abbia un volto e un’identità precisi, e deve continuare all’infinito a sgranare il rosario, tanto vago quanto stucchevole, dei gufi e rosiconi.
L’inevitabile Giolitti lo era a tal punto che la sua era è durata fino al 1914. Fra l’uomo di Dronero e quello di Pontassieve, però, corrono due differenze fondamentali. La prima: Giolitti poteva governare un parlamento sminuzzato e caotico perché si appoggiava su tre pilastri: il sovrano; la capacità di convocare e condizionare le elezioni; un controllo ferreo sulla macchina amministrativa, fatto di grande competenza e durezza sorprendente. A Renzi un punto d’appoggio al Quirinale certo non manca, ma non si sa per quanto tempo ancora resterà. Le elezioni il presidente del Consiglio le minaccia, proprio perché soltanto così può sperare di aver ragione delle opposizioni striscianti – ma la minaccia non è efficacissima, visto che non è facile darle davvero seguito. La macchina amministrativa, infine, per lui non è una soluzione, ma un problema.
La seconda differenza è che il sistema politico giolittiano era fatto per funzionare così, e altro non si conosceva. Il trasformismo renziano viene invece dopo quasi vent’anni di bipolarismo – e i protagonisti stessi dell’operazione trasformistica, l’uomo di Pontassieve e quello di Arcore, restano in teoria dei bipolaristi convinti. Bisognerà capire, in queste circostanze, se la soluzione trasformista oggi provvisoria è destinata a farsi permanente, complici il sistema elettorale proporzionale attualmente in vigore e le viscosità della cultura politica italiana. Oppure se stiamo vivendo una fase di transizione verso il ripristino di una situazione di competizione politica nella quale di «inevitabili», almeno, ce ne siano due.

Corriere 18.9.14
L’illusione di una maggioranza
di Goffredo Buccini


Le sentirete invocare perfino al mercato o in taxi: «Le riforme! Matte’, ci vogliono le riformeee!». Che l’Italia ne abbia bisogno da tempo è ormai senso comune da bar, vulgata confusa ma diffusa. Due o tre su tutte, certo. Lavoro e, a seguire, Fisco e giustizia. Riforme in buona misura collegate, per ripartire: perché rendere appetibile ai capitali il nostro Paese implica certamente una revisione di tutele e forme contrattuali incartapecorite; ma anche tasse meno ostili per cittadini e imprese, e certezza del diritto, ovvero ragionevole probabilità di vedere sciolto un contenzioso prima di finire sul lastrico o all’ospizio. E dunque la critica più assidua a Matteo Renzi è di avere sbagliato priorità: prima andavano affrontate le riforme economiche o di impatto sull’economia e, poi, le istituzionali: legge elettorale, riforma del Senato, titolo V.
Gli italiani non mangiano pane e Costituzione, si dice. Giusto. Tuttavia una domanda appare lecita. Con chi potrà farle davvero, Renzi, le riforme più urgenti? Attenzione, il famoso 40,8 per cento è un’illusione ottica: l’ha preso in Europa, la situazione in Italia è molto diversa. Abbiamo appena sotto gli occhi i contorcimenti dei partiti per eleggere due giudici della Consulta e indicare i membri laici del Csm: tra ricatti e camarille, nonostante i moniti di Napolitano. Il nostro è un Paese di memoria corta. Dunque val la pena rammentare che questo è il Parlamento insediato il 15 marzo 2013, l’ultimo eletto col vituperato Porcellum . È il Parlamento delle tre minoranze (Pd, grillini e berlusconiani) che il 19 aprile 2013 stroncò la corsa di Prodi per il Quirinale con 101 franchi tiratori e umiliò Bersani, leader travicello. È il Parlamento che Napolitano prese a sberle accettando, obtorto collo , la propria rielezione a patto che si facessero le riforme. Lo stesso Parlamento che ha vanificato i nove mesi di governo di un galantuomo come Enrico Letta. Chi ne ricorda il rilancio dell’economia, annunciato il 15 giugno 2013 col «decreto del fare»? Ottanta misure per una ripartenza che non c’è mai stata. E il tanto sbandierato taglio sui costi della politica? Collocato nel 2017, un’era geologica. Renzi, con una coalizione non dissimile dall’ultimo Letta, che tiene insieme i diversamente berlusconiani di Alfano e la sinistra massimalista di Fassina e Civati, ha giocato di sponda su un jolly esterno, imprevedibile e non troppo presentabile come Berlusconi: e così mira a portare a casa riforme che non sono mai state realizzate in modo compiuto finora per colpa di maggioranze disomogenee (la riforma Fornero, per dire, si fermò a metà del guado, per non scontentare nessuno).
Il giovane premier ha già avuto qualche assaggio di cosa lo aspetta: a giugno con i franchi tiratori Pd in appoggio a un testo leghista sulla responsabilità civile (diretta) dei giudici; e ad agosto, con la sconcertante sollevazione dei senatori che gli imputavano una «svolta autoritaria». Renzi per ora non molla. L’Europa ci chiede crescita e i decreti delegati sul mercato del lavoro vanno alle calende greche? Lui lascia intravedere un colpo di mano sull’articolo 18, scatenando l’ala cigiellina del Pd. Si dirà: logico, le misure sull’economia sono divisive se vogliono essere efficaci, bisogna scegliere.
Ma la materia giudiziaria non porterà meno spine: specie se al settore civile si vorrà accompagnare la necessaria riforma del penale (il premier è partito dalle ferie dei magistrati, tiene aperto il file sulla loro responsabilità e ora ha messo in discussione l’impatto degli avvisi di garanzia). Persino Mare Nostrum susciterà tensioni tra chi, come Alfano, vuole archiviare la missione e chi, a sinistra, continua a difenderne le ragioni. Dunque la vera domanda da porre a Renzi non è perché voglia fare già domani la riforma elettorale, ma perché non l’abbia fatta ieri , caricando in tal modo l’arma del voto anticipato: l’unica in grado di spaventare gli alleati riottosi e di far passare, così, qualcuna delle riforme economiche da tutti invocate oppure di procurargli una maggioranza vera. La risposta, ancora una volta, sta nel Parlamento, affetto da quella malattia nostrana che Antonio Genovesi chiamava nonsipuotismo : appena tre secoli fa, come fosse ieri.

Repubblica 18.9.14
L’amaca
di Michele Serra

IL “basta piangere” di Renzi è lo slogan più condivisibile degli ultimi mille anni, è apparentabile a quanto Obama disse ai neri d’America, è un invito a rimboccarsi le maniche e lavorare per il futuro. Ogni volta che lo ripete (ieri in Piemonte) si capisce perché ha raccolto una valanga di voti. Ma l’ottimismo non può essere un obbligo, né il legittimo malumore di chi si sente stanco, o sconfitto, o senza speranza può venire tacciato di diserzione o di boicottaggio. Il vero punto debole di Renzi è la stizza con la quale liquida le analisi più fosche della sua, lo sbrigativo fastidio con il quale tacita i cosiddetti gufi.
Non è un problema di carattere, è un problema politico di prima grandezza, perché se è vero che la crisi nella quale si è impigliati è sistemica, allora l’ottimismo rischia di venirgli ben presto rinfacciato come un inganno. Il vero avversario di Renzi, quando arriverà, non sarà uno (o una) più entusiasta di lui, sarà uno (o una) molto più riflessivo, in grado di gestire la grande depressione, non solo quella economica, senza fare finta che sia solo un accidente passeggero. Renzi ha stravinto perché ha detto “ce la faremo”, tutti speriamo che abbia ragione ma nel frattempo è previdente attrezzarsi all’ipotesi che non ce la si faccia: e dunque sopportino con pazienza, gli ottimisti di governo, gli spiriti critici e le intelligenze meno disposte al buonumore.

Corriere 18.9.14
L’opposizione Pd a cena con D’Alema
Il piano per arginare il segretario
L’ex ministro ai suoi: non ha tenuto fede a ciò che mi aveva detto sulla Ue
Al tavolo anche Speranza e i neo componenti della segreteria Campana e Amendola
Anche due esponenti lontani come Civati e Fioroni stanno studiando iniziative comuni
di Maria Teresa Meli

qui

il Fatto 18.9.14
Violante e Bruno bocciati per la 12a volta
Schiaffo del Parlamento a Colle, Renzi e B.
Il Parlamento ignora Re Giorgio
E Renzi fa il patto di governo con B
di Wanda Marra


Fumata nera per l’elezione della Consulta, Donato Bruno e Luciano Violante
vengono bocciati per l’ennesima volta: il candidato di Fi ottiene 511 voti, quello del Pd arriva a 518. Discesa costante rispetto all’altroieri. Per il Csm non ce la fa Pierantonio Zanettin, candidato di Forza Italia dell’ultima ora, che ottiene 448 voti. Dopo il durissimo appello al Parlamento di Napolitano, l’ennesimo incontro tra Renzi e Berlusconi per blindare il Patto del Nazareno, a prima reazione delle Camere è decisamente negativa.
Se continuano a “prevalere immotivate preclusioni nei confronti di candidature di altre forze politiche o la settaria pretesa di considerare idonei solo i candidati delle propria parte”, come in questi giorni per il voto sulla Consulta e il Csm, “il meccanismo si paralizza e lo stesso istituto di garanzia rappresentato dal sistema dei quorum qualificati si logora”.
INTERVIENE in mattinata l’inquilino del Colle. Sono giorni e giorni che viene descritto preoccupato e arrabbiato per la situazione. Aveva chiesto di fare presto e per di più quella di Violante è una candidatura voluta prima di tutto da lui. E invece il Parlamento è bloccato da giorni, le fumate nere si moltiplicano (diventeranno 12 con quella di ieri sera). Il Capo dello Stato ce l’ha prima di tutto con il Movimento 5 Stelle, “reo” di non voler entrare nelle trattative. Ma poi, un po’ con tutti i partiti e le correnti interne che descrivono un quadro in cui ciascuno cura il proprio orticello e dunque non si riesce a fare nulla. Il quorum qualificato a questo punto preoccupa in generale: perché se ci vogliono settimane per eleggere i giudici di Csm e Consulta, quanto ci vuole, per dire, per eleggere il presidente della Repubblica? Che Napolitano pensi a rapide dimissioni non è un mistero per nessuno, e in questo contesto la scelta si complica. Non è solo un monito, ma addirittura una lezione “dall’alto”, quella di Re Giorgio: “Non so se tutti i partecipanti alle votazioni in corso abbiano chiara in modo particolare una importante questione”. Si riferisce ai quorum qualificati: “Di recente, e specialmente nella discussione in Senato sul superamento del bicameralismo paritario, si è sollevato da varie parti politiche il tema di un elevamento dei quorum previsti dalla Costituzione del 1948 per l’elezione da parte dei parlamentari a determinati incarichi di rilevanza costituzionale. Si ritenne necessario l’elevamento di tali quorum dopo l’adozione, nel 1993 e nel 2005, di leggi elettorali maggioritarie e in vista dell’adozione di una nuova anch’essa maggioritaria”. Ora la garanzia sembra un boomerang, un motivo di paralisi e delegittimazione.
SE SI SCENDE dal Colle e si arriva a Montecitorio, però, il clima è decisamente meno aulico. Non c’è praticamente nessuno pronto a pensare che Violante e Bruno saranno eletti. Vitali, che era diventato oggetto di una guerra tra bande in Forza Italia, si ritira. Al suo posto, viene fatto il nome di Pierantonio Zanettin, il genero dell’avvocato di Berlusconi, Fausto Coppi. Il messaggio ai deputati del Pd, con l’indicazione a votare i tre, arriva solo poco prima dell’inizio delle votazioni, alle 16 e 15. Segno che la coppia per la Consulta è traballante. In molti tra i renziani delle seconde e terze file iniziano a manifestare perplessità e dissenso, sempre nei confronti dell’ex presidente della Camera. Tra i più vicini al premier si comincia ad ammettere a mezza bocca che dalle parti di Palazzo Chigi nessuno si straccia le vesti se tramonta l’ipotesi. A urne appena aperte arriva la notizia dell’incontro tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Sul tavolo dei due c’è soprattutto la legge elettorale, ma anche quella del lavoro e la legge di stabilità. Sullo sfondo, anche l’elezione di Csm e Consulta. Una sorta di patto di governo. Alla Camera si rincorrono le voci: i due hanno deciso di far fuori Bruno e Violante, si dice a un certo punto. Perplessità generale. I Cinque Stelle e Sel votano scheda bianca. La Lega non si allinea. Il clima è sfilacciato, disorganizzato, disinteressato. A sera, arrivano i risultati dello scrutinio. I due non solo non passano, ma prendono meno voti di prima. Lorenzo Guerini, uscendo dall’incontro con Berlusconi e Renzi, ribadisce che i nomi restano gli stessi. D’altra parte, non si può cedere al ricatto di 50 franchi tiratori è il ragionamento dei vertici dem. Certo, sarebbe diverso se ci fossero delle obiezioni di merito, si ragiona. Exit strategy possibili. Stamattina si vota di nuovo, all’elezione di Bruno e Violante non ci crede quasi nessuno, anche se sarebbe in corso un’opera di convincimento della Lega. Per costruire eventuali nuove candidature ci vuole tempo. Altrimenti, in questo clima, si brucia tutto.

Repubblica 18.9.14
Il Pd si spacca
Fassina: “Dal governo ricette di destra É inaccettabile”
Iniziativa Cgil-Cisl-Uil, sindacati verso lo sciopero
di Giovanna Casadio


ROMA L’emendamento al Jobs Act del governo spiazza il Pd. In direzione martedì Renzi aveva detto: «Ne discuteremo, sul lavoro ci confronteremo». Ma ieri mattina la proposta del contratto a tutele crescenti e lo spettro dell’abolizione dell’articolo 18 erano sul tavolo della commissione Lavoro del Senato. Una doccia fredda. La sinistra dem è ormai in trincea. Al punto che stamani alle 8 è stata convocata a Palazzo Madama la riunione del gruppo. I democratici avevano chiesto ci fosse subito il ministro Giuliano Poletti, che però è impegnato a Livorno.
Il clima è teso, mai la spaccatura era stata così profonda nel partito, perché ne va del Dna del Pd. E intanto la Cgil leva gli scudi. Il segretario Susanna Camusso non esclude uno sciopero coinvolgendo Cisl e Uil: «L’articolo 18 è uno scalpo per i falchi dell’Unione europea». Non ci sono rassicurazioni che bastino.
Arrivano dal fronte renziano, precisazioni e distinguo.
Stefano Lepri, senatore, vice presidente del gruppo dem, spiega che il dado è tratto e che però restano i diritti acquisiti e il cambiamento si applicherà ai nuovi contratti. Anzi il lavoratore potrà scegliere se scambiare un maggior reddito con la rinuncia alla certezza del posto fisso. Ma Epifani, Fassina, Bersani avvertono dei rischi. Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, denuncia la resa alla destra: «Per onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che Sacconi ha ragione: l’emendamento proposto dal governo contiene tutte le ricette della destra, agognate per anni e arginate finanche durante il governo Monti, in condizioni politiche molto meno favorevoli di oggi».
Un attacco alzo zero a Renzi. L’ex segretario Pierluigi Bersani sposta un po’ il tiro, convinto com’è che l’incrociare di spade sull’articolo 18 rappresenti tanto rumore per nulla, però invita a procedere «senza strappi» e giudica inaccettabile di intervenire sullo Statuto dei lavoratori a colpi di decreto. Epifani, che ha traghettato il Pd nel post Bersani ed è stato a capo della Cgil, invita alla discussione. I “pontieri” provano a calmare le acque. Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio a Montecitorio, pensa a una mediazione di Cesare Damiano, alla guida della commissione Lavoro, ex ministro, di sinistra dem.
Molti insistono sul modello tedesco. La sinistra denuncia l’arretramento passo dopo passo delle tutele dei lavoratori. «Discuteremo: l’assemblea del gruppo è interlocutoria», dice Luigi Zanda, il presidente dei senatori democratici. Rita Ghedini, tra i membri della commissione Lavoro al Senato, chiederà di avere subito una riunione del partito, dal momento che «dobbiamo decidere adesso, non fra due settimane».
Tra quindici giorni infatti è prevista una direzione ad hoc. Però lo scontro a quel punto potrebbe già essersi consumato.

Repubblica 18.9.14
Sergio Cofferati
“Addio diritto al reintegro non è previsto neppure in caso di discriminazione”
“La norma del governo lede la dignità della persona”
“La stessa sinistra pensa di poter monetizzare ogni diritto”
intervista di Luisa Grion


ROMA . Il governo, con il suo emendamento al Jobs Act, ha messo nero su bianco l’eliminazione dell’articolo 18. Ed è riuscito a farlo senza doverlo nemmeno nominare: «Il reintegro sul luogo di lavoro non c’è più, non è previsto in nessun caso» commenta Sergio Cofferati, europarlamentare del Pd che dodici anni fa, da leader della Cgil, per difendere quel principio portò in piazza due milioni di persone. «E’ il guaio è che di questa sparizione non tutti sembrano essersene accorti».
Fatto fuori nel silenzio, dice lei. Ci spiega meglio questo passaggio?
«Basta leggere con attenzione il punto dove l’emendamento introduce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio. Non si prevede esplicitamente il mantenimento del reintegro sul posto di lavoro, anzi si usa la stessa formula che compare in alcune delle proposte che intendono sostituire il reintegro con il risarcimento monetario. Di fatto si elimina quella parte riguardante l’articolo 18 che era sopravvissuto alla riforma Fornero».
Il ministro Poletti dice che sulla questione si deciderà al momento dei decreti attuativi.
«La formula usata è esplicita, il reintegro è escluso. Tanto più che si tratta di un diritto indipendente dall’anzianità lavorativa: il reintegro c’è o non c’è. Qui non c’è, nemmeno nei casi di licenziamento discriminatorio».
Questo spiegherebbe la piena soddisfazione del senatore Sacconi, che da sempre chiede l’eliminazione totale dell’articolo 18?
«Diciamo che Sacconi ha letto il testo meglio di Poletti».
Ma se è vero che ormai il reintegro riguarda pochissimi casi e la stragrande maggioranza dei lavoratori ne é esclusa, perché accanirsi nella sua difesa?
«Perché la discriminazione non si misura con il metro della quantità, e perché ci deve essere una norma che garantisce dignità alla persona che lavora. Una legge che non tutela il lavoratore allontanato per motivi discriminatori è un inaccettabile passo indietro. Pensare di compensare una ingiustizia dichiarata e riconosciuta con dei soldi è indice di un impressionante arretramento culturale».
Dodici anni fa lei con questo ragionamento portò in piazza due milioni di persone, perché oggi questo tema non scalda più gli animi?
«Perché i valori sono più laschi».
La sinistra ne é responsabile?
«Sul lavoro si tende ormai a ragionare solo in termini di giusta mercede, di compenso adatto a garantire un certo livello di vita. E anche la sinistra ha perso di vista il ruolo sociale del lavoro, il suo peso nella realizzazione dell’individuo e nella consapevolezza della sua dignità».
Dodici anni fa avrebbe mai pensato che quello che non è riuscito a fare un governo di destra lo sta facendo un governo di sinistra?
«C’è una pressione durissima da parte della Ue sul governo italiano affinchè faccia azioni che non sono di riforma, ma diventano simboliche - in negativo - rispetto al mondo del lavoro».
La Camusso parla dell’articolo 18 come dello scalpo preteso dai falchi della Ue, anche lei la pensa così?
«C’è molta ideologia in quelle pressioni. Cedere che eliminare quella norma possa sbloccare la creazione di posti di lavoro è irreale: lo dimostrano i numeri. Quando fermammo il governo Berlusconi, nonostante l’articolo 18, l’economia, fino al 2008 continuò a crescere. Quando, anni dopo, la Fornero intervenne su quelle norme snaturandole la corsa della disoccupazione non si placò».
Tutta colpa dei «cattivi» di Bruxelles quindi?
«A Bruxelles si può resistere. Anni fa la Ue chiese al piccolo Belgio di eliminare una legge che prevedeva un meccanismo automatico di potenziamento dei redditi più bassi. Una sorta di piccola scala mobile per intenderci, e lo dico senza rimpianti. Bene il piccolo Belgio disse di no. D’altra parte il nostro premier non ha detto, poco tempo fa, «basta diktat, sulle riforme decidiamo noi»? Ecco questa potrebbe essere una buona occasione per dimostrarlo».
Lei dice che l’abolizione dell’articolo 18 non porterebbe nessun nuovo posto di lavoro.
«Al contrario, l’eliminazione del reintegro causerebbe un aumento dei licenziamenti, visto che verrebbe a cadere l’effetto deterrente che produce».
Qual è allora, secondo lei, la formula per incentivare l’occupazione?
«Per me è sempre valida la vecchia ricetta keynesiana: investimenti pubblici in grado di smuovere investimenti privati».
Con quali soldi?
«Cerchiamoli: ricorriamo agli Euorbond, applichiamo la tassazione sulle rendite finanziarie e utilizziamo quei capitali per investire in infrastrutture, che creano occupazione immediata, e innovazione. Ritorniamo a parlare seriamente di lotta all’evasione fiscale, come il governo di Prodi e di Visco fece. E ridistribuiamo ricchezza: è l’unico modo per far ripartire la domanda ».

Il Sole 18.9.14
Cesare Damiano, Partito democratico
«No all'abolizione dell'art.18 Nel Pd ci sarà un chiarimento»
intervista di Giorgio Pogliotti


ROMA Fa quadrato contro la cancellazione dell'articolo 18, pur aprendo alla sospensione temporanea della reintegra per favorire nuove assunzioni. Sollecita un chiarimento interno al Pd affinché si faccia chiarezza una volta per tutte sul contratto a tutele crescenti. Il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano – già ministro del Lavoro nel governo Prodi, con un passato di sindacalista Fiom della minoranza riformista – lancia il guanto di sfida al premier sul tema dei licenziamenti, in vista della direzione del Pd.
Onorevole Damiano, Renzi guardando all'Europa intende cancellare l'articolo 18. Non sembrano esserci grandi spazi di manovra.
L'idea che sembra avere Renzi di cancellare l'articolo 18 non coincide con la mia. Alla direzione del Pd che sarà convocata a fine mese dovrà essere chiarita qual è la posizione del partito, ritengo sbagliato che in questo momento di massima disoccupazione si voglia lasciare la libertà di licenziare alle imprese. Si può andare allo scontro o cercare un compromesso. Da parte mia, sposo in toto il modello tedesco sui licenziamenti, fonte di ispirazione due anni fa delle modifiche all'articolo 18 del governo Monti.
Come valuta l'emendamento salutato come una vittoria dal Nuovo centro destra?
Ncd dà le sue valutazioni, come sempre tirando la coperta dalla sua parte. Faccio notare che da Scelta civica l'onorevole Librandi sottolinea un'ambiguità di fondo dell'emendamento; può essere interpretato come un superamento dell'articolo 18 o come una sospensione temporanea. Io propendo per questa seconda interpretrazione. Con i decreti attuativi si capirà chi ha ragione, da parte nostra non ci sarà alcuna delega in bianco.
Il Pd proponeva di introdurre una nuova tipologia, il contratto di inserimento, mentre adesso si fa riferimento alle nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato, che è un'altra cosa.
Valuto positivamente questa novità rispetto alla proposta originaria del Pd, ma non c'è scritta l'abolizione dell'articolo 18, è un'interpretazione di parte, una bandierina.
Veramente anche nella proposta Pd l'articolo 18 viene soppresso, sia pure in modo temporaneo.
Per le nuove assunzioni, proponiamo una sospensione della tutela dell'articolo 18 per un periodo anche lungo di prova fino ad un massimo di tre anni. Eventualmente si può anche andare oltre, per non farlo coincidere con la durata del contratto a tempo determinato. Naturalmente il contratto per le nuove assunzioni deve prevedere un forte sconto fiscale, deve costare meno di tutti.
Presenterete emendamenti per chiarire cosa si intende per contratto a tutele crescenti?
È prematuro dirlo. Prima va definita la posizione del Pd. Meglio avere le idee chiare in partenza, piuttosto che avere sorprese all'arrivo.
Il chiarimento arriverà dalla direzione del Pd. Lei si sentirà vincolato se verrà confermata la linea Renzi?
Mi batterò in direzione, poi ci sono i passaggi parlamentari e ognuno si assumerà le proprie responsabilità, come del resto è già avvenuto con la legge elettorale. Ciascuno di noi valuterà come comportarsi, perché è in gioco il patrimonio di valori della sinistra. La delega dovrà passare per la commissione Lavoro della Camera.
Cosa succederà alla Camera?
Proporremo modifiche come ha fatto il Senato. Abbiamo previsto con il governo tre passaggi parlamentari, il Senato ratificherà il testo modificato dalla Camera all'opposto di quanto accaduto con il decreto Poletti. Se non si farà così, non potranno essere rispettati i tempi d'approvazione fissati dal governo, poiché inizierà un ping pong tra i due rami del Parlamento.
Quali modifiche intende proporre?
L'emendamento del governo prevede di semplificare le tipologie contrattuali, pensiamo di specificare quali tipologie precarizzanti vanno cancellate. Insieme agli articoli dello Statuto da modificare che riguardano le mansioni e i controlli a distanza degli impianti, proporrò di ritoccare l'articolo 19 sulla costituzione delle Rsa per consentire ai sindacati più rappresentativi di avere i propri delegati nei luoghi di lavoro.

il Fatto 18.9.14
Nasce il contratto a tutele crescenti
Possibile anche il demansionamento
La Fiom anticipa la sua mobilitazione
Esultano centrodestra e Confindustria
di Salvatore Cannavò


La strada per abbandonare l’articolo 18 è cominciata con l’emendamento che
il governo ha presentato ieri alla legge-delega di riforma del mercato del lavoro, il Jobs Act. La delega, per natura, prescrive solo il quadro generale e avrà bisogno dei decreti delegati del governo per riscrivere lo Statuto dei lavoratori come annunciato da Matteo Renzi. Un ulteriore passo verso la demolizione dello storico articolo è stato comunque compiuto con la proposta governativa di contratto a tutele crescenti che costituisce il cuore della nuova legge. Lo si deduce dalla soddisfazione del centrodestra – si ipotizza anche il “soccorso azzurro” berlusconiano – e da quello di Confindustria.
L’EMENDAMENTO, infatti, delega il governo a predisporre “per le nuove assunzioni, un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Un contratto che dovrebbe portare a “eventuali interventi di semplificazione” delle attuali tipologie contrattuali. I nuovi assunti, quindi, saranno privi delle conquiste storicamente acquisite. L’idea di base, come spiega il senatore Pietro Ichino, molto soddisfatto dell’emendamento, è che le tutele crescenti aumentino in proporzione all’anzianità di servizio. “E già questo significa – spiega Ichino – in modo inequivoco che la sanzione della reintegrazione deve essere riservata ai soli casi estremi”. Cioè, discriminazioni o rappresaglia sindacale.
Non la pensa così il Pd Cesare Damiano, che attende il disegno di legge delega alla Camera dove presiede la Commissione lavoro: “Le tutele sono crescenti nel senso che al terzo anno scatta l’articolo 18 sulla base del modello tedesco”. Cioè sulla possibilità di scegliere tra indennizzo e reintegro. Il ministro Poletti invita ad attendere la scrittura dei decreti, confermando così che il governo ottiene carta bianca dal Parlamento.
Ma che l’interpretazione corretta sia quella di Ichino o di Maurizio Sacconi, che esulta, lo si desume anche dagli altri punti previsti dall’emendamento presentato ieri. Il punto “C”, infatti, prevede la “revisione della disciplina delle mansioni” aprendo a quel “demansionamento” vietato dall’articolo 13 dello Statuto. Mentre il punto “D” rivede la disciplina dei controlli a distanza, vietati dall’articolo 4 dello Statuto. Una revisione che va nel senso delle richieste storiche di Confindustria dove si sottolinea anche un altro punto a favore: la proposta di “compenso orario minimo” per tutto il lavoro subordinato, compresi i co.co.co. Un punto che, se fissasse compensi in linea con i costi internazionali, permetterebbe alle aziende di superare i contratti nazionali.
LA MOSSA del governo, per quanto lasci ancora aperto un margine di trattativa, ha scatenato l’ira del sindacato e soprattutto di buona parte della minoranza del Pd. Susanna Camusso, segretario Cgil, ha parlato di “scalpo offerto ai falchi della Ue” mentre Maurizio Landini, il segretario della Fiom, si spinge fino a chiamare in causa un patto Draghi-Renzi che prevede l’articolo 18 in cambio di maggiore flessibilità sui conti pubblici. Ieri il direttivo della Cgil ha deciso di rinunciare alla manifestazione sindacale già annunciata da Camusso e di aprire a una mobilitazione unitaria con Cisl e Uil. Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti hanno apprezzato ma le forme di questa iniziativa non sono chiare. Camusso non esclude lo sciopero mentre Cisl e Uil su questo sono fredde. Senza contare, poi, l’effettiva forza che hanno in questo momento i sindacati, problema posto nel direttivo Cgil da Carla Cantone, segretaria dei Pensionati: “Per fare la guerra servono gli eserciti” ha detto “e non abbiamo un esercito”. Dal canto suo, Maurizio Landini non esclude uno sciopero della sola Fiom e sta pensando ad anticipare la manifestazione nazionale prevista per il 25 ottobre. In quella data, infatti, la delega potrebbe essere già approvata. Il leader della Fiom, così, sull’articolo 18 rompe il dialogo a distanza finora mantenuto con Matteo Renzi.
IL QUALE, in ogni caso, si troverà a ingaggiare quello che alcuni chiamano “il duello finale” dentro al Pd. “A questo punto – dice al Fatto Damiano – preferisco una sana discussione aperta all’ambiguità”. Il riferimento è alla direzione del Pd già prevista per la fine del mese, ma anche “a una riunione dei gruppi parlamentari. Che hanno la loro autonomia”. Un’ipotesi di scontro tra partito a guida renziana e parlamentari in buona parte “bersaniani” che per quanto sia duro da realizzare costituisce comunque una minaccia. Un altro esponente della minoranza, Stefano Fassina, definisce “inaccettabile” la linea Renzi, mentre torna a parlare Sergio Cofferati che definisce quello sull’articolo 18, “un grave errore politico”.
Anche per Renzi, lo scontro sullo Statuto dei lavoratori segnerà il prosieguo della sua impresa politica.

Corriere 18.9.14
Sacconi: «Niente articolo 18 a nuovi assunti»
Sindacati pronti allo sciopero

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il Fatto 18.9.14
Renzi parla di apartheid e scorda l’uguaglianza
di Salvatore Soru

Apartheid. Renzi ha citato questa parola per segnalare discriminazioni nel lavoro, giusto. Bene, ora che lo ha detto dovrebbe ricordare tutti gli altri casi di discriminazione: apartheid tra operai e dirigenti, esagerata la differenza di stipendi. Apartheid tra pensionati, tra chi ha ricoperto cariche anche importanti nella propria vita lavorativa e va in pensione con vitalizi sproporzionati ed offensivi nei confronti di chi ha lavorato gli stessi anni ma con mansioni “minori”. Le differenze devono attenuarsi, i redditi più alti riconsiderati in basso ed i redditi più bassi riconsiderati in alto per fare il primo passo verso la giustizia sociale.

Repubblica 18.9.14
Camusso: "Articolo 18 è scalpo per i falchi Ue". E Landini: se necessario, pronti a sciopero
Confronto con Cisl e Uil per mobilitazione
Critiche della Cgil alla riforma: "Sullo Statuto valutiamo una nostra proposta"
Fiom attacca: "Una presa in giro usare il contratto a tutele crescenti per cancellarlo"

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Il Sole 18.9.14
Gli altri interventi sullo Statuto
Si apre la strada alle deroghe sulle mansioni
di Claudio Tucci


ROMA Revisione della disciplina delle mansioni per renderle più flessibili (modificando le rigidità dell'attuale articolo 2103 del codice civile). Aggiornamento dei controlli a distanza dei lavoratori in modo da tener conto «dell'evoluzione tecnologica» (seppur nel rispetto delle esigenze di impresa e dipendente).
Nell'emendamento del governo all'articolo 4 del ddl delega sul «Jobs act», depositato ieri in commissione Lavoro del Senato, si indica la strada per una revisione anche di altre norme dello Statuto dei lavoratori (è datato 1970). Non solo quindi articolo 18 e protezioni crescenti.
Sul fronte delle mansioni l'attuale articolo 13 della legge 300 (che modifica l'articolo 2103 del codice civile) immagina carriere professionali ingessate e che possono solo crescere (ammette infatti solo la mobilità professionale orizzontale, cioè mansioni equivalenti, o in verticale, cioè superiori) e punisce con la sanzione della «nullità» se si scende a mansioni inferiori. Alcune previsioni legali, nel tempo, (per esempio per lavoratrici madri, invalidi e lavoratori in esubero prossimi al licenziamento) hanno previsto deroghe (al divieto di assegnare a mansioni inferiori) e anche la giurisprudenza è incline a considerare legittimi accordi collettivi e individuali in deroga alla previsione dell'articolo 2103 del codice civile con il consenso dell'interessato e se ciò risponde alla esigenza di garantire una occupazione. Ma il quadro che ne esce è estremamente caotico e penalizzante per le imprese.
Da qui la proposta di semplificazione avanzata dal governo: si apre alla revisione della disciplina delle mansioni, purché «si contemperino l'interesse dell'impresa all'utile impiego del personale nei casi di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l'interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro». E, inoltre, «prevedendo limiti alla modifica dell'inquadramento» (ciò per evitare di retrocedere un quadro a facchino). Questo è un criterio di delega (va quindi tradotto normativamente in un decreto delegato). «Ma la disposizione è certamente interpretabile in modo ampio - ha commentato Arturo Maresca, ordinario di diritto del lavoro alla Sapienza -. E quindi si potrà procedere alla revisione delle mansioni non solo in sede di contrattazione collettiva, anche aziendale, ma pure in sede di patti individuali assistiti datore-lavoratore».
Del resto, la ratio del criterio di delega messo nero su bianco dal governo «non può che andare in una direzione di modifica dell'articolo 2103 del codice civile per rendere più flessibile la disciplina delle mansioni», ha aggiunto il giuslavorista Stefano Salvato dello studio legale di Roma Ghera e associati. Anche perché, ha spiegato Salvato, «è vero che una parte della giurisprudenza ammette deroghe (condizionate) al "demansionamento". Ma si può sempre trovare un giudice rigoroso che fornisce una diversa interpretazione, e quindi per l'impresa l'incertezza (e i rischi) sono elevatissimi».
Del resto la globalizzazione, l'innovazione tecnologica e organizzativa, e la crisi finanziaria stanno rivoluzionando i modelli produttivi e di organizzazione del lavoro modificando compiti e mansioni concretamente assegnate al lavoratore. Una segnale in questa direzione è arrivato dal recente decreto Madia sulla Pa che ha ammesso, per salvaguardare il posto, la possibilità di "demansionare" il lavoratore fino a un livello inferiore.
E la stessa logica di aggiornamento dello statuto dei lavoratori è dietro pure all'indicazione di rivedere la disciplina dei controlli a distanza (articolo 4 della legge 300 che oggi vieta o limita tantissimo l'uso di impianti audiovisivi o di altre apparecchiature per il controllo a distanza dei lavoratori). Si tratta di una norma emanata in tempi e con riferimento a un contesto tecnologico e produttivo tipico delle aziende degli anni '70 (completamente diverso da quello odierno). Peraltro anche il Garante della privacy ha emanato, negli anni, diverse direttive per regolare le modalità di controllo dei dipendenti.
Ora il governo punta a intervenire. Apre alla revisione della materia che tenga conto «dell'evoluzione tecnologica». Ma che non trascuri «le esigenze produttive e organizzative dell'azienda» e «la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore».

La Stampa 18.9.14
Garanzia Giovani, il portale sul web è un labirinto
“Nove offerte su 10 non in linea col programma”
Il centro studi Adapt: profili bassi e contratti precari, ecco perché il progetto non decolla
di Giuseppe Bottero

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il Fatto 18.9.14
Fermo, nuove accuse all’imprenditore killer
Le prime ricostruzioni sembrano escludere la legittima difesa: era stato il datore di lavoro a convocare i due operai
L’uomo, tiratore scelto, avrebbe sparato un terzo colpo contro Mustafa che era già a terra
Avdyl è stato colpito alle spalle, forse mentre fuggiva
di Sandra Amurri


Parlerebbero chiaro i primi resoconti sulla dinamica della tragedia consumatasi a casa di Gianluca Ciferri conclusasi con la morte, per colpi d’arma da fuoco, sparati dall’imprenditore edile, di Mustafa Nexhmedin, 38 anni, e del cognato Avdyl Valdet che di anni ne aveva 26, entrambi arrivati a Fermo dal Kosovo. Il condizionale è d’obbligo, le indagini sono ancora in corso e i primi atti sono ancora secretati. Ma su quanto siamo stati in grado di ricostruire non vi sarebbero dubbi seppure le bocche degli inquirenti restino cucite.
Il procuratore della Repubblica, Domenico Seccia, autore di due libri sulla criminalità organizzata pugliese e arrivato un anno fa dalla Procura di Lucera a guidare quella di Fermo, troppo spesso in passato timida e pavida di fronte agli intrecci affaristici-criminali che, come confermano inchieste in corso, vede protagonisti professionisti, politici con il prezioso contributo della massoneria, ci dice che non può az-
zardare commenti, ma giura che quelle due giovani vittime avranno la giustizia che meritano.
Torniamo ai fatti. Era stato l’imprenditore Ciferri, come afferma un testimone, a telefonare al suo ex dipendente Mustafa, che lavorava presso un’altra impresa, per convocarlo e trovare un accordo per quei soldi che lui e il cognato dovevano avere, tanto che Mustafa ai suoi compagni con ironia aveva detto: “Adesso che riavrò i miei soldi vi offrirò una cena”. I due muratori kosovari si sono recati presso la villetta dell'ex datore di lavoro alla periferia di Fermo. Mustafa ha parcheggiato la macchina davanti al cancello e, prima di suonare il citofono, l’ha chiusa a chiave. Un particolare non trascurabile visto che se si ha intenzione di aggredire fino a munirsi di piccozza per poi fuggire (come sostiene l’imprenditore), l’auto si lascia aperta.
La prima persona a riceverli è stata la mamma dell’imprenditore, che ha raccontato di aver avuto con i due kosovari un acceso scambio di battute, ma di non essere stata presente alle fasi successive. Ed è stato poco dopo che Ciferri, tiratore scel-
to, in casa custodiva ben 52 armi e anche un bersaglio come quelli dei poligoni, ha impugnato la pistola e ha esploso il primo colpo al petto di Mustafa. Il secondo lo ha raggiunto all'altezza del bicipite destro, a conferma che la vittima è caduta a terra mentre stava girandosi. Poi sarebbe stato raggiunto dal terzo colpo, quello mortale, alla testa. Se i colpi fossero stati esplosi in maniera sequenziale vi sarebbe stata una esplosione del cranio e i frammenti e il sangue sarebbero schizzati a distanza. Il suo corpo, invece, era riverso in una pozza di sangue. Avdyl, invece, avrebbe
cercato di salvarsi fuggendo e Ciferri lo avrebbe rincorso e colpito, due volte alle spalle finché non è caduto senza più vita in mezzo al campo di girasoli. Questa sarebbe la dinamica del duplice omicidio in attesa dell’esame balistico e dell’autopsia. Dinamica che se venisse confermata escluderebbe la legittima difesa. Il suo gesto potrebbe essere stato motivato dal decreto ingiuntivo esecutivo: Ciferri, forse, sentendosi alle strette avrebbe telefonato a Mustafa e avrebbe ucciso “a sangue freddo” parafrasando il titolo dell’opera di Truman Capote. Per l’accusa di omicidio pluriaggravato dall’uso di armi, l’imprenditore, sposato, con tre figli, difeso da Savino Piattoni, rischia l’ergastolo. Una tragedia famigliare con i suoi carnefici e le sue vittime. A piangere Mustafa restano quattro bimbi e la moglie dilaniata dal dolore, difesi da Renzo Interlenghi. Mentre la sposa di Avdyl, in Kosovo, non sa ancora nulla e aspetta il suo ritorno per vedere nascere quel bimbo che ha in grembo che non conoscerà mai il padre. Quando sarà grande saprà che è stato ammazzato con lo zio,
nel Paese dove erano arrivati con il passo della speranza, con occhi, pensieri e cuore come bussola per viaggiare controvento in un mondo inconsapevole alla ricerca della consapevolezza dove le cose importanti della vita non sono cose. Eroi senza riconoscimento della modernità liberista strozzata dalla crisi, che riduce tutto a un deserto di polvere e tempesta che asseta e affama i suoi figli più fragili, a prescindere dal colore della loro pelle.

il Fatto 18.9.14
Corruzione, da Craxi a Berlusconi a Renzi: la colpa non è mai dei ladri ma sempre delle guardie
di Morena Zapparoli

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il Fatto 18.9.14
Eni, i mediatori e gli sms di Descalzi spiegati a Matteo che lo difende
di Marco Lillo


IL PREMIER DIFENDE L’AD CHE HA SCELTO POCHI MESI FA MA FORSE NON CONOSCE L’INCREDIBILE STORIA DI QUEL GRANDE AFFARE CHE È IL GIACIMENTO OPL 245

l premier Matteo Renzi prima ha twittato “Sono felice di aver scelto Claudio Descalzi ceo di Eni.
Potessi lo rifarei domattina”. Poi ha bacchettato giornalisti e inquirenti: “Non consentiamo a uno scoop di mettere in crisi dei posti di lavoro o a un avviso di garanzia citofonato sui giornali di cambiare la politica aziendale di un Paese”. Ma i fatti meritano più attenzione: la storia della concessione nigeriana inizia 16 anni fa. Il 29 aprile 1998 il governo nigeriano assegna alla società Malabu, controllata al 50 per cento dal figlio del dittatore Abacha, la concessione petrolifera Opl245. Il prezzo allora è 20 milioni, quello pagato realmente da Malabu 2 milioni. Pochi mesi dopo muore Abacha e il ministro del petrolio Dan Etete ottiene di fatto il controllo della società. Nel 2001 Malabu vende il 40 per cento a Shell ma il governo nigeriano minaccia di revocare la concessione. Ne nasce un contenzioso lunghissimo. Il 7 novembre 2007 Etete viene arrestato in Francia, accusato di riciclaggio e corruzione, e condannato a una multa da 8 milioni di dollari. Tra 2007 e 2009 Malabu tratta la vendita di Opl 245 con i russi di Gazprom e con Chief Akinmade, il manager di Nae, controllata di Eni in Nigeria. Niente di fatto. Il 9 dicembre 2009 il diplomatico russo Ednan Agaev presenta a Etete il mediatore Emeka Obi, amico di Gianluca Dinardo, a sua volta legato a Luigi Bisignani, molto vicino a Paolo Scaroni, allora a capo dell'Eni.
IL 28 DICEMBRE 2009 il capo della Nae, Roberto Casula, scrive a Obi: “Nae è interessata all'acquisizione di una partecipazione nel Opl 245. Le chiediamo gentilmente di inviarci un estratto del mandato del titolare riguardo a questa opportunità. (...) Nae è pronta e capace di muoversi velocemente su questa opportunità”. Dal 2007 Etete sognava una lettera come questa. La ottiene solo grazie alla catena Obi-Dinardo-Bisignani-Scaroni. La prima cosa che Eni chiede a Obi è di spedirgli il mandato esclusivo. Grazie a questa lettera di Casula, Obi può chiedere il mandato esclusivo che, in caso di affare fatto, vale 200 milioni, una parte dei quali andranno ovviamente a Dinardo e Bisignani.
Il 28 dicembre 2009 a Lagos si incontrano Vincenzo Armanna, Obi e Etete. Si discute del prezzo per l’intervento di Obi: 200 milioni di dollari. Le versioni sul senso della richiesta però divergono: secondo Etete, in
quell'incontro Armanna spiega che i 200 milioni sarebbero stati usati anche per dare mazzette ai manager Eni, compresi Descalzi e Scaroni. Il giudice però crede a Obi: quei 200 milioni erano solo la commissione per lui che poi avrebbe girato una parte a Dinardo che poi ne avrebbe girata una parte a Bisignani. Per il giudice inglese le prove portate da Etete contro i manager Eni sono false ma i pm milanesi oggi danno credito all'ex ministro e indagano Scaroni, Descalzi, Armanna e Casula. Primo febbraio 2010: Malabu firma con la Evp di Obi un mandato esclusivo a trattare con Eni per Opl 245. Etete ha dichiarato di essere stato pressato da Eni per dare questo mandato. Il 4 febbraio 2010 Descalzi incontra all'hotel Principe di Savoia di Milano Etete e Obi. Per Obi (e quindi Dinardo e Bisignani) è un successo. Descalzi paga il conto della cena. Il 24 febbraio la Nae di ENI firma con Obi un accordo esclusivo. Altra vittoria per la cordata Bisignani. Il 10 aprile Descalzi invia una mail a Obi: “Sono a Londra. Se vuoi possiamo prendere un caffè alle 9 e 30 al Jumeirah Hotel”. Il 16 aprile Obi scrive un sms a Descalzi: “Stiamo facendo buoni progressi”. 27 aprile 2010: Armanna invia una lettera con una proposta di acquisto del 40 per cento della società per Opl245. Malabu rifiuta.
Tra agosto e ottobre 2010 Obi continua a incontrare Descalzi. Il 9 ottobre Dinardo chiama Bisignani: “Volevo darti un messaggio importante per quello pelato (Descalzi, ndr)”. Il 13 ottobre Dinardo chiama Bisignani allarmato: Eni vuole scavalcare Obi e trattare direttamente con Etete e il governo nigeriano. Se Obi non incassa i 200 milioni di dollari, anche loro non prendono nulla. Obi: “Dinardo mi aiutò a evitare che questo avvenisse”. Come? Dinardo chiama Bisignani che chiama Descalzi e lui lo rassicura: “No, abbiamo parlato soltanto con lui e con nessun’altro, quindi è impossibile”. Il 14 ottobre Descalzi aggiorna Bisignani sulla trattativa: “Direi che le cose stanno, penso, procedendo bene”. Il giorno dopo viene steso l'accordo complessivo, il settlement agreement. Il 20 ottobre all'hotel George V di Parigi si incontrano Obi ed Etete. Obi racconta ai giudici: “Un'offerta formale di Eni era imminente e io dovevo andare quella sera a Milano con l'aereo. Etete mi disse: corri se vuoi prendere i tuoi 200 milioni di dollari”. Il 30 ottobre Eni presenta un'offerta per il 100 per cento di Opl 245: 1,2 miliardi di dollari. Malabu rifiuta.
IL 17 DICEMBRE 2010 esce un articolo sul Fatto in cui si rivela l'inchiesta napoletana su Alfonso Papa, che riguarda anche Bisignani (ma questo si saprà dopo). L'8 marzo 2011 Scaroni viene convocato dai pm Woodcock e Curcio che chiedono conto delle telefonate sull’affare nigeriano. Lui si limita a dire: “Bisignani mi disse che (...) un nigeriano cattolico diceva di avere un mandato per vendere una quota della Malabu; al riguardo io presentai il Bisignani al Descalzi che è il responsabile del settore Oil dell'Eni; tale trattativa non è andata a buon fine”. In realtà in quel momento le trattative tra Malabu ed Eni sono alla stretta finale. Proprio quando Scaroni, Dinardo e Bisignani scoprono che i pm sanno tutto grazie alle intercettazioni, il ruolo della cordata Obi-Dinardo sfuma. La Evp di Obi viene esclusa dall'affare.
IL 14 APRILE OBI incontra Roberto Casula e capisce di essere stato fatto fuori. Il 29 aprile Opl 245 passa all'Eni ma con una strana triangolazione: il governo chiude la lite con Malabu, si ricompra la concessione per 1 miliardo e 92 milioni di dollari e la gira a Eni e Shell al medesimo prezzo. A giugno Bisignani finisce ai domiciliari per la P4. Il 3 luglio 2011 Obi fa causa a Malabu a Londra, finanziato da Dinardo. Chiede ai giudici inglesi il sequestro di 200 milioni di dollari di Malabu. Il 17 luglio 2013 Obi vince, la Malabu di Etete paga 110,5 milioni di dollari. La quota di Dinardo dovrebbe essere di 15-20 milioni. Bisignani dice di non accampare pretese. Il 20 settembre l'ong Re: Common presenta un esposto ai pm di Milano sul caso Nigeria. Il 18 febbraio 2014 il Parlamento della Nigeria chiede di annullare la concessione Opl 245. A maggio la Procura di Milano fa sequestrare in Svizzera i 110 milioni di dollari di Obi e Dinardo. In estate i pm De Pasquale e Spadaro di Milano iscrivono nel registro degli indagati anche Scaroni, Bisignani, Descalzi, Casula, Armanna e Obi per corruzione internazionale. A settembre 2014 ottengono il sequestro di 83,9 milioni di Malabu. Ma per Renzi non è successo nulla.

il Fatto 18.9.14
Alberto Vannucci
“Il governo non copra i manager corruttori”
Le mazzette date all’estero dalle imprese italiane? È un gioco sporco: non si giustifica dicendo che, se non lo facciamo noi, lo fanno gli altri. Perché non è così
intervista di Beatrice Borromeo


Ascoltando il premier alla Camera mi pareva di vedere un padre che si lamenta di un piccolo rimbrotto della maestra: ‘Non me la posso mica prendere con mio figlio solo perché viene sgridato’. Ma se Renzi vuole essere credibile – spiega il professor Alberto Vannucci, esperto di corruzione – deve pubblicamente rassicurare la maestra, cioè la magistratura e noi cittadini. E deve garantire che gli amministratori pubblici coinvolti nella vicenda Eni-Nigeria non verranno coperti per l’ennesima volta”.
Quand’è che il rimbrotto della maestra diventa un’accusa grave abbastanza da far saltare le poltrone?
È proprio questo il punto. Come dice Piercamillo Davigo, la presunzione d’innocenza c’è fino alla Cassazione, ma se il mio vicino di casa viene indagato per pedofilia io gli affiderei mia figlia? Ecco, di fronte a reati gravissimi come la corruzione vogliamo davvero lasciare la gestione della principale impresa pubblica di questo Paese nelle mani di soggetti coinvolti in vicende opache?
Anche perché i tempi della giustizia italiana sono interminabili.
Infatti parliamo di un mandato di fiducia, di una responsabilità politica prima ancora che penale, e che per questo non può aspettare la Cassazione, o peggio ancora la prescrizione. Invece il premier non ha messo paletti.
Infatti riecheggia un discorso già sentito: non sarà la magistratura a dettare le nostre scelte, o a decidere i nostri candidati .
Dicono: le vicende sono complesse.
Però alcuni fatti sembrano appurati: sappiamo che era stata creata una riserva di fondi neri e un faccendiere nigeriano sostiene che serviva anche a pa-
gare commissioni a referenti italiani dell’Eni. E uno di questi, ipotizza la magistratura, potrebbe essere l’attuale amministratore delegato.
Claudio Descalzi, nominato proprio da questo governo.
Di fronte a una vicenda così intricata forse Renzi dovrebbe essere più cauto nel difendere le recenti nomine governative, tra l’altro realizzate in perfetta continuità con la gestione precedente. Il che è tutto dire, basta pensare al coinvolgimento dell’Eni proprio negli ultimi anni in altre vicende di corruzione in Algeria e Nigeria. Ci dica allora il premier: quand’è che il quadro probatorio sarà sufficiente a fargli cambiare idea? Secondo lei?
Magari basterebbe prendere alla lettera il codice etico dell'Eni, che prevede provvedimenti disciplinari contro chiunque pone in essere ‘pratiche di corruzione, favori illegittimi, comportamenti collusivi’. Ma se i vertici dell'azienda fanno orec-
chie da mercante, allora toccherebbe al governo intervenire, magari prima della Cassazione. O della prescrizione. Altrimenti?
C’è una sensazione sgradevole che emerge: una sorta di rassicurazione che certe prassi – secondo le inchieste piuttosto diffuse, vedi i casi Finmeccanica, Eni, Saipem e così via – continueranno a essere considerate giustificabili, che ci sarà ancora una protezione politica. In cambio di cosa? È un pessimo segnale.
Si giustificano: dobbiamo reggere la concorrenza con gli altri Paesi.
Invece questi atti sono profondamente distorsivi, impoveriscono l’economia, rafforzano élite antidemocratiche. È vero che la corruzione nell'immediato sembra avvantaggiare le imprese italiane, ma in realtà trasferisce i danni sui Paesi dove andiamo a corrompere, e nel lungo periodo fa male anche a noi. Perché abituandoci a vincere solo con questi mezzi sleali, investiamo sempre meno in innovazione, qualità del prodotto e dell'organizzazione aziendale. Così saremo sempre meno competitivi, e più vincolati al ricorso alle tangenti.
Ma è vero che all’estero fanno più “squadra” rispetto a noi?
Per nulla. Ricordiamo che nell’Italia dell’economia sommersa e della creatività contabile è molto, molto più facile creare fondi neri. E poi in Italia non abbiamo ancora reintrodotto il reato di falso in bilancio. Quello delle imprese italiane corruttrici è un gioco sporco: non è giustificabile dicendo che se non lo facciamo noi lo fanno gli altri perché non è così. O almeno: negli altri Paesi rischierebbero molto di più, e non troverebbero coperture politiche.

il Fatto 18.9.14
Renzi, l’eterno “garantismo” Ma per proteggere se stessi
di Fabrizio d’Esposito


GIÀ D’ALEMA E VIOLANTE MINACCIAVANO I MAGISTRATI DOPO TANGENTOPOLI

Lunedì scorso, Matteo Renzi ha rilanciato, con il plauso degli opinionisti terzisti o
filoberlusconiani tout court, la favola della svolta garantista del Pd. Una questione già aperta la settimana scorsa e che ha fatto coniare il nuovo termine di postgiustizialismo. Ora, un conto è uscire dal ventennio di guerra tra politica e magistrati con un inciucio tra il premier e il Condannato, un altro è dare per scontata l’etichetta giustizialista della sinistra ex Pci poi Pds e Ds, infine Pd. Dove per giustizialista si assume la definizione sprezzante data dai garantisti a chi si batte per la legalità e la questione morale nelle istituzioni.
Detto questo, Renzi non ha fatto altro che rivendicare da una posizione di grande potere, segretario del Pd e presidente del Consiglio, una linea di continuità con le maggiori correnti riformiste del ventennio della Seconda Repubblica, quella dalemiana e quella veltroniana. E continuità è il contrario di svolta. Da questa prospettiva il garantismo renziano, soprattutto per se stesso e per le inchieste che iniziano a coinvolgere i suoi fedelissimi, non è una rivoluzione. Anzi. La doppiezza togliattiana dell’ultima generazione del Pci affonda le radici già all’alba di Tangentopoli, nel marzo del ‘93. L’allora guardasigilli del governo Amato, il tecnico Conso, varò il famigerato colpo di spugna per cancellare il reato di finanziamento illecito dei partiti. Il pool di Mani Pulite andò in tv e la campagna di denuncia fu massiccia ed ebbe successo. Amato, sconfitto, si lamentò delle promesse non mantenute di D’Alema, all’epoca vicesegretario del Pds: “In privato hanno sostenuto il decreto Conso, in pubblico lo hanno sconfessato”. Ecco, i pochissimi atteggiamenti pseudo-giustizialisti di quella sinistra, quando ci sono stati, hanno sempre avuto natura tattica, per non allargare la frattura tra l’oligarchia di partito e il sentimento antiberlusconiano della base. E la decisione di candidare Di Pietro nel collegio del Mugello, nel 1997, riecheggia il via libera anche di Renzi alla decadenza di B. dal Senato nel novembre 2013, in piena campagna elettorale per le primarie dell’8 dicembre.
PER IL resto, se i Ds o il Pd avessero avuto la questione morale tra le priorità non sarebbero nati i Girotondi e Libertà e Giustizia; Di Pietro non avrebbe fondato l’Italia dei Valori e Ingroia Rivoluzione civile; il Movimento 5 Stelle non sarebbe schizzato al
25 per cento; l’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro non avrebbe partorito il Fatto Quotidiano. Al di là delle indagini e dei processi che hanno investito la sinistra in questi due decenni, e che pure pesano così come ha pesato l’ossessione del dialogo con l’ex Cavaliere il dato decisivo è l’approccio punitivo. Oggi si aspetta che l’annuncite di Renzi dia qualche indicazione concreta sulla riforma della giustizia, ovviamente concordata con il Pregiudicato. Ma già a metà degli anni novanta, Cesare Salvi, colonna della bicamerale di Dalemoni, rivelò la natura del garantismo del Pds: “Bisogna separare le carriere dei magistrati”. Un filo che regge fino a tutti gli anni dieci del nuovo millennio. Per stare sul tema del giorno: questo è l’aspirante giudice costituzionale Luciano Violante, favorevole anche agli scudi per le alte cariche, argomento un tempo carissimo al Condannato. Siamo nel 2008: “In Italia, l’azione penale è obbligatoria solo formalmente, ma, in realtà, è lasciata alla discrezionalità dei singoli magistrati. È giusto, quindi, affrontare il problema delle priorità nella trattazione dei processi”. E ancora: “In Italia i pm sono indipendenti dal governo e il potere politico si è progressivamente spogliato degli istituti di tutela nei confronti del potere giudiziario e non è scandaloso che ci siano forme di garanzia temporanea per alcune alte cariche istituzionali. Quindi se ne può parlare”.
DA NOTARE: l’Amato del decreto Conso e il Violante a favore dei lodi ad personam potrebbero trovarsi nella Consulta insieme con il previtiano Donato Bruno. Dov’è, allora, la presunta novità garantista di Renzi? Una delle testimonianze più efficaci è di Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega, che racconta una cena con D’Alema: “Era l’8 luglio 1996. Eravamo sulla terrazza di casa mia, Massimo, mia moglie Anna e io. Il governo Prodi era appena nato. Si venne subito a parlare di Di Pietro, neoministro dei Lavori pubblici, e del pool di Milano. D’Alema, molto risoluto, sentenziò che Mani pulite era stata fin dall’inizio ‘un complotto, una specie di golpe contro il Pci-Pds’. Io rimasi esterrefatto. ‘Ma come – risposi – è vero che sono stati coinvolti vari dirigenti del tuo partito, ma che mi dici di Craxi, di Forlani, dei socialisti, dei democristiani, dell’intero pentapartito?’. D’Alema insisteva, non sentiva ragioni”. Ergo non solo la sinistra non è mai stata giustizialista, ma per il suo esponente più carismatico il giustizialismo nacque contro il Pci-Pds.

il Fatto 18.9.14
Renzi, Descalzi e la rottamazione a beneficio degli amici di Bisignani e Berlusconi
Il premier dovrebbe chiedersi perché l’Ad di Eni, da lui nominato, aggiornava il faccendiere sullo stato delle trattative dell’affare nigeriano
di Marco Lillo


Con la difesa di Claudio Descalzi, Matteo Renzi ha definitivamente gettato la maschera. Il premier si era presentato come un rottamatore, ma ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di innovare la politica e l’economia italiane. Non a caso, l’applauso più fragoroso alla difesa di Descalzi contro i pm e i giornali è arrivato da Daniela Santanchè, raccomandata da Luigi Bisignani perché l’Eni concedesse alla sua società, la Visibilia, un contratto pubblicitario. Erano gli anni del berlusconismo al massimo del potere. Gli stessi anni dell’affare nigeriano che ha portato la Procura di Milano a indagare l’Eni, Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni per corruzione internazionale. Allora Gianni Letta dominava sulle partecipazioni statali, Bisignani era il suo fidato consigliere e Scaroni era un grande amico di Bisignani e si raccomandava a lui prima di andare ad Arcore a parlare del gas di Putin con l’allora premier. Bisignani contava molto e Descalzi era un manager in ascesa con pochi agganci in politica. Il suo comportamento nell’affare nigeriano, illustrato dalle telefonate pubblicate in questi giorni sul nostro giornale, era gradito a Scaroni e Bisignani.
QUELLO CHE è davvero incomprensibile è che sia gradito a un premier del Pd che si professa alternativo a quel sistema di potere. Alla fine del 2009, Bisignani segnala a Scaroni l’affare nigeriano del blocco OPL 245 che Eni aveva disdegnato fino ad allora. Quando Scaroni gli gira la pratica, Descalzi come un soldato si mette a disposizione. Il manager è indagato per corruzione internazionale, ma non è questa la ragione per la quale Renzi non avrebbe dovuto difenderlo. Non c’è bisogno di una sentenza per capire che Descalzi con le sue telefonate a Bisignani nel 2010 si è messo a disposizione della cordata di alcuni privati (il nigeriano Obi e il duo Gianluca Dinardo e Bisignani stesso) aiutando a più riprese i ‘mediatori’ che gli erano stati raccomandati da Scaroni, a fare l’affare della vita. Il fatto che Bisignani non ci sia riuscito o che Dinardo non ci sia riuscito subito non cambia le carte in tavola. Il punto è che Descalzi li ha aiutati e dovrebbe spiegare perché lo ha fatto. Perché Descalzi ha tenuto aggiornato Bisignani sullo stato delle trattative se non era un mediatore incaricato da Eni? Perché gli ha garantito che non avrebbe trattato direttamente con il venditore scavalcando il mediatore Obi, che era stato ingaggiato formalmente non da Eni ma da Malabu? Alla fine della storia i dati sono questi: Eni ha speso nel 2011 un miliardo e 192 milioni di dollari per comprare una concessione (formalmente transitata dal governo nigeriano) che apparteneva a un ex ministro nigeriano, Dan Etete, poco raccomandabile. Un tipo condannato per riciclaggio in Francia che aveva assegnato alla sua società per un paio di milioni di dollari nel 1998 una concessione poi venduta a un prezzo 500 volte maggiore all’Eni.
NESSUNO voleva trattare con un soggetto simile perché temeva i rischi legali dell’operazione. Infatti ora il Parlamento nigeriano ha proposto al governo di annullare la concessione pagata un miliardo e 92 milioni da Eni. Dopo l’intervento di Bisignani su Scaroni, improvvisamente l’Eni mette da parte i dubbi e scopre di essere interessata a trattare con Etete. Descalzi sa che Scaroni è amico di Bisignani e probabilmente immagina che se l’affare nigeriano andasse in porto l’amico del suo capo potrebbe guadagnare un po’ di milioni. Inoltre dai giornali sa bene che Bisignani è molto potente ed è in ottimi rapporti con Gianni Letta e Silvio Berlusconi. Il punto centrale di questa storia, dal punto di vista di Matteo Renzi, non è accertare se Descalzi abbia commesso un reato. Quello è compito dei magistrati. Il presidente del Consiglio prima di difendere Descalzi dovrebbe accertare se l’ex numero due di Eni, da lui promosso a numero uno, abbia fatto l’interesse dell’Eni in una delle acquisizioni più costose e rischiose degli ultimi anni. Descalzi asseconda Bisignani nelle telefonate e lo tiene aggiornato sulle trattative. Gli garantisce che i suoi amici mediatori non saranno scavalcati: “È impossibile”. A noi sembra invece “impossibile” che un segretario del Pd difenda un manager tanto disponibile con Bisignani. Gli investigatori nel trascrivere le telefonate lo avevano scambiato per Scaroni fino a quando questi non ha detto ai pm: “Guardate che quello che parla con Bisignani è Descalzi”. Sarebbe ora che qualcuno lo spiegasse anche a Renzi.

il Fatto 18.9.14
Ferie dei giudici: le cose che Renzi non dice
di Alessio Liberati

magistrato
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il Fatto 18.9.14
Renzi e il progresso per forza: giovane è bello
di Amalia Signorelli

antropologa
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il Fatto 18.9.14
Istruzione e sanità: Cuba batte Italia
di Fabio Marcelli

giurista
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Giunte “rosse”
La Stampa 18.9.14
Bologna, tassa sui clochard: “Paghino un euro a notte”
Le associazioni contro: è troppo e i dormitori non risolvono i problemi ma lo rendono cronico
di Franco Giubilei

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Corriere 18.9.14
I bambini che dormono in Stazione Centrale di Milano

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La Stampa 18.9.11
Giù dal settimo piano, la lettera choc di Pietro: “Non mi sono lanciato con lei subito, ma le ho prima fatto provare il terrore di perdere tutto”
Milano, il messaggio-confessione del ragazzo che si è gettato con la ex nel vuoto: «Un odio così forte da essere felice di sacrificare la propria vita per far provare all’altro la vera tristezza»

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Corriere 18.9.14
Quei ragazzi così fragili davanti al dolore. Perché?
Gli psicologi: troppe aspettative sui giovani, vanno educati alla sconfitta
Silvia Vegetti Finzi: “Stiamo proteggendo troppo le nuove generazioni. mancano anticorpi”
di Elvira Serra

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Corriere 18.9.14
Tutte le bugie sulla fecondazione eterologa
di Simona Ravizza

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La Stampa 18.9.14
Israele, piano di trasferimento per 12.500 beduini
L’amministrazione israeliana in Cisgiordania vuole trasferire le tribù Jahalin, Kaabneh e Rashaida da terre a Est di Gerusalemme alla Valle del Giordano, ma gli interessati affermano di “non essere mai stati consultati in proposito”.
di Maurizio Molinari

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il Fatto 18.9.14
Alibaba, l'ecommerce cinese vuole
25 miliardi di dollari da Wall Street

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Corriere 18.9.14
Grande Gioco, la Cina muove verso l’India
Xi incontra Modi: l’asse tra la «fabbrica del mondo» e l’«ufficio del pianeta»
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Gli sherpa della diplomazia indiana e cinese hanno scelto il giorno del 64° compleanno del premier Narendra Modi per l’arrivo del presidente Xi Jinping. Luogo del primo incontro la casa di Modi nella sua città natale del Gujarat, un altro segno amichevole ben studiato. Xi si è fatto precedere da un articolo scritto per la stampa di New Delhi nel quale ha inneggiato ai rapporti nuovi tra «il dragone cinese» e «l’elefante indiano» e ha aggiunto che tra «la Cina fabbrica del mondo» e «l’India ufficio del pianeta» bisogna creare una base produttiva più competitiva e un mercato più attraente per tutti i consumatori del globo. Si sono aggiunti i fiori offerti da Modi all’ospite. Insomma, la visita di Stato non poteva cominciare con più sorrisi e frasi di circostanza. È davvero arrivata l’ora di archiviare decenni di rivalità, scontri e incursioni alla frontiera?
La Cina è il primo partner commerciale dell’India, che però rappresenta per Pechino solo il 12°; l’interscambio commerciale tra i due Paesi vale quasi 70 miliardi di dollari, ma il deficit indiano è di 30; il Prodotto interno lordo della Cina è sei volte quello del vicino.
E poi ci sono le ruggini di una guerra combattuta nell’ottobre 1962 per il controllo delle regioni himalayane. Un’eredità dell’Impero britannico che nel 1914 aveva tracciato la Linea McMahon negoziando con il Tibet. Nel 1962 i cinesi cominciarono a cannoneggiare e vinsero quella battaglia «dei trenta giorni» combattuta a settemila metri di quota. Da allora gli indiani rivendicano circa 30 mila chilometri quadrati del loro Arunachal Pradesh e anche nel vicino Ladakh le pattuglie dei due eserciti continuano a scrutarsi a distanza ravvicinata. Spesso reparti dell’Esercito di liberazione popolare sono accusati di sconfinamento (Pechino nega sempre): l’ultima volta proprio nei giorni scorsi, anche se le due parti hanno tenuto la questione riservata per non rovinare la visita. Difficile comunque sperare che le rivendicazioni che corrono lungo i 3.500 chilometri di confine possano essere risolte con i grandi sorrisi e le strette di mano di ieri a beneficio dei fotoreporter.
Però è vero che qualcosa di importante sta succedendo e che mai come oggi i due vicini hanno bisogno l’uno dell’altro. Tanto che il governo indiano, che dal 1959 ospita il Dalai Lama tibetano in esilio, ha impedito al sant’uomo di farsi vedere in giro in questi tre giorni di visita per non indispettire l’ospite cinese. Modi ha vinto le elezioni in primavera promettendo di far decollare finalmente l’economia. E si sta muovendo con abilità e spregiudicatezza: è appena stato a Tokyo dove ha abbracciato il collega Shinzo Abe e ha negoziato investimenti giapponesi per 33 miliardi di dollari in cinque anni (oltre a forniture militari avanzate). Xi Jinping non vuole farsi stringere da un’alleanza indo-giapponese e arriva con grandi promesse.
La Cina è pronta a investire molto per costruire quelle infrastrutture di cui l’India ha un disperato bisogno, dalle ferrovie alle autostrade. Un primo accordo da 6,8 miliardi di dollari è pronto per la firma: con i capitali cinesi saranno costruiti due parchi industriali in territorio indiano e già ieri sono state siglate altre intese tra aziende dei due Paesi per il valore di 3,4 miliardi. È già un balzo in avanti enorme rispetto ai soli 400 milioni investiti dalla Cina in India negli ultimi 14 anni. Modi cerca un accesso al mercato cinese per i servizi di information technology e i prodotti farmaceutici indiani. Xi punta anche a trovare nuove possibilità per le industrie cinesi, che ora cominciano a sentire il peso del costo del lavoro (arrivato ad essere solo il 30 per cento inferiore a quello degli Stati Uniti). Però non può neanche stimolare un boom della manifattura nel gigante indiano. Insomma, trattative complesse, ma una forte intesa commerciale tra i due sarebbe molto vantaggiosa e davvero epocale. Qualcuno ha già rispolverato l’espressione «Chindia», inventata dall’economista e parlamentare indiano Jairam Ramesh nel 2005.
Ma non è solo una partita politico-economica a tre quella in corso tra India, Cina e Giappone. Diventa un Grande Gioco se si considera che ai lati della scacchiera ci sono il Pakistan, amico storico di Pechino, nemico storico di New Delhi e oggi a rischio di disfacimento e marginalizzazione. E poi naturalmente gli Stati Uniti, che con Obama (e soprattutto Hillary Clinton segretario di Stato) nel 2011 avevano lanciato una intempestiva strategia di «pivot to Asia». E non è un caso che Modi a fine mese sia atteso a Washington.

Il Sole 18.9.14
Pechino dà liquidità alle grandi banche
La Banca popolare di Cina fornisce 81 miliardi di dollari ai cinque colossi del credito
di Gianluca Di Donfrancesco


La Banca centrale cinese torna a fornire liquidità al sistema creditizio, con 81 miliardi di dollari ai cinque maggiori istituti del Paese. L'offerta rimarrà disponibile per tre mesi, ma potrebbe anche essere rinnovata. L'intervento, realizzato attraverso la «standing lending facility» lanciata nel 2013, avrebbe un effetto sull'offerta di moneta equivalente a un taglio di 50 punti base della riserva obbligatoria, la liquidità che gli istituti di credito devono tenere depositata sui conti della Banca centrale.
Molti analisti hanno interpretato la mossa come una risposta al rallentamento dell'economia, che rischia di non centrare il target di crescita del 7,5% fissato dal Governo. Un'eventualità finora ritenuta impensabile, ma resa sempre meno improbabile dai dati economici che si susseguono mese dopo mese. Ad agosto, per esempio, la crescita della produzione industriale si è fermata al 6,9%: le fabbriche cinesi non tenevano un passo così lento dalla crisi finanziaria globale.
E tuttavia Pechino non sembra aver apertamente scelto di percorrere di nuovo la strada del sostegno pubblico dell'economia. Almeno non ancora. Appena qualche giorno fa, il premier Li Keqiang ha dichiarato di non essere preoccupato da fluttuazioni contenute della crescita, aggiungendo che il Governo non può contare sulle politiche monetari per sostenere la crescita. Del resto il mercato del lavoro è ancora in buone condizioni di salute e fino a quando la disoccupazione, lo spettro che davvero spaventa il regime, non comincerà a salire, non sarà forte la spinta per una significativa manovra espansiva.
Nemmeno in Cina, poi, l'allentamento monetario si traduce direttamente in crescita economica, perché più che di un credit crunch, il Paese sembra soffrire di una bassa domanda di prestiti da parte di imprese che non investono perché il proprio giro d'affari non aumenta. Nonostante gli sforzi della banca centrale, l'espansione del credito sta infatti rallentando. A luglio e agosto, i nuovi prestiti concessi da banche e istituzioni finanziarie erano la metà di un anno prima.
Ma soprattutto, sia la Banca centrale che l'authority del credito hanno rifiutato di confermare l'iniezione da 81 miliardi, a sottolineare come il regime non intenda inviare al mercato un forte segnale di allentamento. E lasciando sul campo l'ipotesi che la banca centrale possa essere intervenuta per tamponare una qualche situazione d'emergenza, sulla quale però potrebbe non avere interesse ad accendere i riflettori. La notizia dell'intervento è trapelata attraverso analisti e operatori di mercato che hanno riferito di esserne stati messi al corrente dai funzionari della banca centrale.
L'iniezione potrebbe insomma rispondere ad esigenze tecniche di diversa natura e arriva alla vigilia della fine del trimestre e delle festività nazionali che iniziano il 1° ottobre, fasi che generalmente coincidono con una maggior domanda di liquidità.
Il canale utilizzato dalla banca centrale, la standing lending facility, è uno strumento per stabilizzare il credito fornendo fondi a banche che non hanno un'adeguata base di depositi per sostenere la domanda di prestiti. Secondo Richard Xu, di Morgan Stanley, «lo scopo è stabilizzare il credito e assicurare la crescita di M2, piuttosto che dare un segnale di ulteriore espansione». Sebbene gli effetti siano paragonabili da un punto di vista tecnico, un taglio della riserva obbligatoria avrebbe dato un segnale diverso e netto.
Negli ultimi mesi, le autorità sono già intervenute proprio attraverso tagli delle riserve obbligatorie per le banche nelle aree rurali, allentamento dei paletti sulle compravendite immobiliari e faciltazioni dei finanziamenti per costruttori e piccole e medie imprese.
Come sottolinea Qiao Liu, dell'Università di Pechino, le autorità sono prese tra due esigenze contraddittorie: «Da un lato vogliono sostenere la crescita economica e hanno bisogno di una politica monetaria accomodante, dall'altro vogliono riequilibrare il sistema economico attraverso una correzione strutturale del suo assetto».

La Stampa 18.9.14
Effetto serra peggio di Pechino: il Tibet rischia di scomparire
Lo scioglimento dei ghiacciai distrugge lo stile di vita tradizionale
di Ilaria Maria Sala

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Repubblica 18.9.14
Svelati i volti dietro i cappucci ecco i prigionieri di Abu Ghraib
Dieci anni dopo lo scandalo, vengono esposti a New York i ritratti dei detenuti
torturati nel carcere Usa in Iraq: una ferita aperta nella memoria degli americani
“Sono stata messa in una stanza, e mio figlio in una gabbia. Mi dissero: faremo cose che nemmeno immagini”
di Adriano Sofri


FRA il 2006 e il 2007 Chris Bartlett, fotografo di cose di moda, andò ad Amman e a Instanbul a fotografare in bianco e nero i volti di persone che erano state torturate ad Abu Ghraib e rilasciate senza che venisse mossa loro alcuna accusa. Oggi, dieci anni dopo la diffusione delle immagini di tortura da parte della Cbs, i ritratti sono esposti a New York, col proposito di restituire ai torturati la loro umana dignità.
Quando Bartlett realizzò il suo progetto, non poteva immaginare l’effetto che avrebbe suscitato nel contesto dei nostri giorni. Non solo perché la ferita di Abu Ghraib resta aperta, nella memoria della gente e nei tribunali americani, dove sono centinaia gli ex detenuti che hanno intentato causa ai responsabili delle torture, militari e società d i contractor .
Un giudice di New York, Alvin Hellerstein, ha avvertito di voler rendere pubbliche oltre duemila fotografie di abusi su detenuti in Iraq e in Afghanistan, a meno che la Difesa fornisca una motivazione dettagliata del pericolo che la pubblicazione comporta per la sicurezza. Una legge del 2009 consentì, in deroga al “Freedom of Information Act”, di proibirne la pubblicazione per tre anni. Il governo ha chiesto di prorogare il divieto, senza convincere il giudice, per il quale le preoccupazioni per la sicurezza avanzate durante l’occupazione dell’Iraq non sono più attuali. Il New York Times ha ammonito che la minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti non viene dalla pubblicazione degli abusi commessi dai loro uomini, e tanto meno dalla loro punizione, bensì dagli abusi stessi. Era inevitabile che si levasse l’argomento opposto: che l’offensiva del sedicente Stato Islamico avrebbe piegato alla propria propaganda altre immagini di torture commesse da americani (e da loro alleati), tali oltretutto da confermare che si trattasse di comportamenti sistematici e ispirati dall’alto. Si confrontano due idee opposte del senso di responsabilità: una che vuole proteggersi col silenzio e una che rivendica la trasparenza per contrapporsi a un nemico che ostenta la ferocia.
Sta qui l’efficacia imprevista e turbante che hanno i ritratti di Bartlett. Nelle più ributtanti immagini di Abu Ghraib i torturatori, giovani donne e uomini impegnati a immortalarsi a viso scoperto e divertito, umiliavano creature ridotte a corpi denudati e visi insaccati. «La prima cosa che fecero, fu spogliarmi », dicono quei superstiti. L’oltraggio sessuale aveva bisogno di essere anonimo, di farne dei sottoumani derisi e braccati dai cani. La prima cosa che al fotografo spetta di fare, per riumanizzare gli zimbelli, è di rivestirne i corpi e riestrarre dal sacco i volti. I suoi sono ritratti a mezzo busto, sufficienti ad accennare la decenza degli abiti civili di ciascuno, ma tesi a restituirli alla loro fisionomia e profondità di persone.
Nel momento in cui guardate le facce, così inconfondibilmente diverse — del resto bisogna esser bravi, a fare i fotografi di moda — è inevitabile che le sovrapponiate, capovolte, alle immagini delle decapitazioni che fanno da manifesto alla sagra del califfato. Là i condannati devono recitare la parte dei detenuti di Guantanamo e di Abu Ghraib, e ne indossano la divisa, ma hanno il viso scoperto: incappucciato è il boia. Il raffronto rende più netta e dolorosa la sensazione, difficile da esplorare a fondo, che veniva dalle immagini delle decapitazioni. Lì a turbare fino all’angoscia e alla rimozione sono i visi risoluti, in- tensi, che sembrano aver deciso ciascuno a suo modo, quali che siano le parole ultime che accettano di pronunciare, di padroneggiare la propria orribile morte.
La forza di quei video presso di noi non sta tanto nella barbarie della macelleria: erano state messe in rete dai vanitosi fanatici dello Stato Islamico vaste vedute di teste di militari di Assad e altri nemici decollate e impalate nei giardinetti pubblici. Sta nella domanda che affiora, e che preferiamo non seguire, sull’eventualità che tocchi a noi, e come riusciremmo a tener alta la faccia, e che cosa diventerebbe la nostra faccia una volta spiccata. Non è solo perché siamo “occidentali” che, guardando le oscene immagini di Abu Ghraib, ci interrogavamo piuttosto sull’eventualità di trovarci nei panni delle soldatesse e dei soldati torturatori che non nei corpi nudi e sfacciati dei prigionieri, e guardando i video dello Stato Islamico ci figuriamo nei giornalisti e nei cooperanti vittime del coltello, e non nel pupazzo nero che le maneggia.

Repubblica 18.9.14
Il fotografo Bartlett “Così ho restituito la dignità alle vittime dei nostri soprusi”
di Anna Lombardi


«MI occupo di moda: ma quando seppi cos’era successo ad Abu Ghraib ne fui sconvolto. Era terribile quello che il nostro governo aveva fatto: perché era chiaro che quelle persone avevano obbedito a degli ordini. In quel periodo conobbi Susan Burke, l’avvocatessa che ha difeso molti iracheni che avevano subito abusi nell’infame carcere. Fu lei ad invitarmi a ritrarre quelle persone: è da lì che è partito il mio progetto». Chris Bartlett è l’autore del Detainee Project: ritratti di iracheni, uomini e donne, abusati nel famoso carcere di Bagdad. Foto che da oggi, e fino al 28 settembre, saranno esposte al Pier 5 di New York nell’ambito della rassegna fotografica Photoville. «Quando ho incontrato queste persone, ascoltato le loro storie ho capito che con la mia macchina fotografica potevo restituirgli quella dignità che altri, con lo stesso strumento, gli avevano levato ».
Perché erano stati arrestati?
«Spesso erano solo nel posto sbagliato al momento sbagliato. Alcuni sono rimasti ad Abu Ghraib per pochi mesi, altri anche 2 anni. Sono stati liberati senza che nessuna accusa venisse formulata. E senza nessuna scusa» Ci sono anche i protagonisti delle drammatiche foto che tutti conosciamo?
«Fra le persone che ho ritratto in due si sono riconosciuti nella terribile immagine dell’uomo incappucciato: entrambe avevano subito quel terribile trattamento. Uno non si è lasciato ritrarre il viso: ma solo la sua mano, piena di ricordi. Non posso provarlo ma credo sia lui l’uomo a braccia aperte avviluppato nei fili elettrici» Cosa le hanno detto di quelle foto infami?
«Non erano arrabbiati. Semmai attoniti: “l’America doveva liberarci”, dicevano. “E invece ha abusato di noi: come è potuto accadere?”».

Repubblica 18.9.14
La strana alleanza contro il Califfato
di Renzo Guolo


LA COALIZIONE dei venticinque contro lo Stato Islamico, che ha fatto la sua prima uscita al vertice di Parigi lunedì, ha un evidente lato debole: quello rappresentato dal lato sunnita dell’alleanza. Ciascuno dei Paesi della Mezzaluna che vi aderisce, ritiene la creatura di Al Baghdadi una minaccia da debellare ma entra nella coalizione con obiettivi che possono indebolirne la coesione. I sauditi, che con i jihadisti hanno a lungo flirtato in funzione di opposizione all’asse sciita, sono consapevoli che la proclamazione del Califfato mette in discussione innanzitutto la loro rivendicata leadership religiosa sul mondo islamico. E, dunque, hanno un oggettivo interesse a combatterlo. Anche arginando i flussi di denaro che attraverso donazioni di privati e “ong” sono affluiti nelle ricche casse dell’organizzazione del Califfo nero. Non per questo rinunciano a perseguire una strategia che metta in difficoltà gli odiati sciiti, peraltro al governo a Bagdad e, nella loro propaggine iraniana e libanese, unici stivali sul terreno impegnati a contenere le bande jihadiste.
I turchi continuano a voler rovesciare Assad e dare profondità strategica alla loro svolta neottomana ma vedono come fumo negli occhi il rafforzamento di un Kurdistan armato e, di fatto, indipendente nel nord dell’Iraq, destinato a fare da magnete per i curdi turchi; inoltre il governo di Ankara simpatizza con i Fratelli Musulmani siriani, osteggiati da sauditi e egiziani. La strategia islamonazionalista di Erdogan, pur sempre alla guida di un Paese Nato, è visibile anche nella scelta di concedere agli americani l’uso della base di Incirlik per operazioni umanitarie ma non militari, obbligando i top gun a stelle e strisce a trasferirsi in Iraq. I qatarini, impegnati in uno duro scontro con i sauditi nel Consiglio di Cooperazione del Golfo per il loro sostegno ai Fratelli Musulmani, intendono evitare che la campagna mesopotamica rafforzi il ruolo di Ryad nella regione. Quanto agli egiziani, invisi ai turchi ma forti dell’alleanza con i sauditi, sono decisi a cogliere l’occasione per mettere fuori gioco qualsiasi organizzazione islamista, anche quelle non jihadiste come i Fratelli Musulmani, già schiacciati in riva al Nilo. Quando sarà il momento di scegliere chi finanziare, chi sostene- re, queste differenze emergeranno clamorosamente.
Vi sono, poi, altri nodi che non si possono sciogliere gordianamente. Per essere sconfitto lo Stato Islamico deve essere battuto su due fronti, iracheno e siriano. In Iraq la coalizione punta sulla capacità inclusiva del nuovo governo. Ma l’esecutivo di Bagdad resta pur sempre dominato da sciiti che guardano con diffidenza al ruolo dei sunniti locali e, soprattutto, a quello del loro sponsor regionale. Nessuna scelta che possa mettere in discussione il ruolo degli sciiti nella regione, e dunque anche degli iraniani, verrà fatta dal governo di Bagdad. Ma questa opzione confligge con la strategia dei sauditi.
In Siria viene privilegiata l’opposizione non islamista, la stessa che solo qualche mese fa la Casa Bianca dipingeva come un coacervo di litigiosi “commercianti e farmacisti” destinato alla sconfitta. Ma se sauditi e egiziani premono perché la Fratellanza sia esclusa da ogni aiuto, turchi e qatarini la sosterranno, riproponendo quelle divisioni sul terreno che hanno contribuito alla mancata caduta di Assad. Quanto all’annunciata campagna di bombardamenti è stata, prevedibilmente, denunciata da Damasco e dagli iraniani, oltre che dai russi, che formalmente della coalizione vasta fanno parte ma invocano l’ombrello del Consiglio di Sicurezza per far sentire il loro peso, come un’aggressione. I raid contro l’Is potrebbero essere accettati dagli alleati della Siria solo se la contropartita è l’abbandono della pregiudiziale anti-Assad, invece ribadita da Obama. Anche perché il contenimento sul campo dello Stato Islamico, almeno sino a oggi, è opera, oltre che dei curdi, del regime siriano, degli Hezbollah libanesi e dell’Iran. Non ci sarà nessun cedimento su Assad se un inconfessabile scambio politico non prevederà l’uscita di scena dell’autocrate alauita all’interno della più complessa partita del riconoscimento del ruolo di potenza regionale iraniano, visto come il diavolo dai wahhabiti di Ryad.
Nell’impazzito puzzle mediorientale, la tessera problematica è, dunque, data dal fatto che l’alleanza contro lo Stato Islamico è formata da governi, e dai loro sponsor regionali, reciprocamente ostili. Chi vorrà ignorarlo, in nome del principio di realpolitik “il nemico del mio nemico è mio amico”, rischia di trovarsi poi di fronte a amare sorprese.

La Stampa 18.9.14
Sobibor, viene alla luce l’ultimo tassello della Shoah
Dopo sette anni di scavi, ritrovata una delle camere a gas del Lager: le SS avevano cercato di distruggerne le tracce
di Maurizio Molinari


Al termine di sette anni di scavi con gli strumenti più avanzati dell’archeologia, una task force del Museo Yad VeShem di Gerusalemme ha ritrovato nel sottosuolo della Polonia una delle camere a gas del campo di sterminio di Sobibor, contribuendo a portare alla luce un tassello della Shoah che i nazisti tentarono di occultare distruggendolo e piantandovi sopra nel 1943 un’intera foresta.
David Silberkland, capo delle ricerche a Sobibor, ha lavorato sulla base dei frammenti di testimonianze dei pochissimi sopravvissuti da uno dei Lager creati dai nazisti con l’unico scopo di mettere a morte il numero più alto di ebrei nei tempi più rapidi possibili. «Sobibor fu costruito nel 1942 dalla Germania nazista per portare a termine la totale eliminazione degli ebrei polacchi e in pochi mesi, assieme agli analoghi Lager di Treblinka e Belzec, sterminò quasi due milioni di ebrei» spiega Marcello Pezzetti, storico della Shoah nonché autore alla fine degli Anni Ottanta della scoperta della prima camera a gas di Auschwitz.
Il fine di Sobibor è unicamente la messa a morte degli ebrei e non c’è dunque un campo di lavoro a fianco della struttura di sterminio, come avviene ad Auschwitz e Majdaniek. Ciò significa che il campo è composto solo di quanto serve a uccidere: la rampa per i treni con i deportati, le camere a gas per uccidere gli ebrei arrivati e le fosse comuni per seppellirli. La durata media di sopravvivenza di un ebreo a Sobibor è stimata in un’ora e mezza. Gli unici che riescono a vivere più a lungo - poche settimane - sono i deportati usati dai tedeschi per far funzionare il Lager: svolgono tutti le mansioni che ad Auschwitz spettano ai «Sonderkommando» che fanno funzionare i forni crematori. I ritmi dello sterminio sono forsennati. «Sobibor è il buco nero della storia del mondo» riassume Pezzetti, perché «è qui che si comprende cosa fu davvero lo sterminio degli ebrei».
Inaugurato a maggio del 1942, ha 3 camere a gas che funzionano senza interruzione, i corpi delle vittime vengono sepolti e a giugno il ritmo dei treni è tale da far cedere il terreno sotto la ferrovia. Gli arrivi - la rampa accoglie 11 vagoni piombati - riprendono a pieno regime in ottobre e con l’inizio del 1943 le camere a gas raddoppiano, diventando sei. Nell’ottobre di quell’anno un gruppo di deportati ebrei russi - ex soldati dell’Armata Rossa - decide di tentare la rivolta unendosi ad altri prigionieri. I tempi per agire sono molto stretti ma riescono a sorprendere i tedeschi, fuggendo in 300. Solo 50 di loro sopravvivono, diventando gli unici testimoni esistenti del «campo di messa a morte» dove in una manciata di mesi perdono la vita 250 mila ebrei. La reazione dei tedeschi alla rivolta è di distruggere il Lager perché lo sterminio degli ebrei polacchi oramai è compiuto e la pressione dei partigiani cresce: Sobibor viene completamente distrutto - al pari di Belzec e Treblinka - le camere a gas sotterrate e migliaia di corpi riesumati per essere bruciati.
L’intento è cancellare ogni prova: per questo viene anche piantata una foresta di alberi sul terreno colmo di resti umani, con tanto di una falsa fattoria nominata «Sobibor» proprio per rendere non credibili le eventuali testimonianze dei pochissimi scampati. Il ritrovamento della camere a gas costituisce dunque uno dei risultati più importanti di Yad VaShem, il museo-memoriale della Shoah di Gerusalemme. «Le abbiamo trovate vicino a un pozzo dove i tedeschi avevano gettato resti umani e oggetti dei deportati, come un anello nuziale con la scritta rituale “At Mekudeshet Li” (Tu mi sei consacrata)», ha raccontato l’archeologo Yoram Haimi, confessando «sorpresa» per «le dimensioni delle camere a gas e il livello di preservazione degli ambienti».

Repubblica 18.9.14
Il patto mancato tra amore sacro e amor profano
Nel suo nuovo saggio Vito Mancuso analizza l’emozione umana più forte E svela i limiti della morale sessuale cattolica
La dottrina ecclesiastica assegna il primato alla biologia, negando la libertà di scelta
La Chiesa si apra alla contraccezione ai rapporti pre-nuziali e ai matrimoni ga
di Vito Mancuso


LA PRIMA elementare critica che occorre muovere alla morale sessuale cattolica è che semplicemente non funziona, come dimostra il fatto che la gran parte dei cattolici la disattende. L’etica autentica nasce dalla concretezza della vita e torna alla concretezza della vita. L’attuale etica sessuale ecclesiastica invece si rivela astratta, scolastica, libresca, non nasce dalla vita ma dal desiderio di conformità alle decisioni magisteriali del passato. In questa prospettiva per la morale sessuale ecclesiastica il ruolo decisivo spetta al concetto di lex naturalis, nella convinzione che obbedire alla natura e ai suoi cicli equivalga a obbedire a Dio. La natura è assunta come criterio di legislazione etica, natura come legge, da cui procede una legge ritenuta naturale.
Le cose però non stanno così. Oltre al logos la natura conosce anche il caos, e per questo essa non è la longa manus di Dio, e obbedire alla natura non equivale necessariamente a obbedire a Dio. Chi ritiene il contrario deve essere coerente e istituire la diretta connessione Dio-natura non solo per le manifestazioni naturali benigne, ma anche per quelle maligne, le malattie e le sciagure naturali. La lettura astratta e ideologica della natura ha condotto a un duplice risultato: da un lato alla trasformazione della morale in moralismo; dall’altro alla perdita di contatto con la coscienza contemporanea per la quale il concetto di legge naturale risulta del tutto vuoto.
Conosce solo la biologia. Il fatto di concepire la natura come governata direttamente da Dio e quindi tale da assumere valore di lex naturalis ha condotto la morale ecclesiastica ad assegnare un primato indiscusso alla biologia e ai suoi ritmi, a scapito della coscienza e della sua spiritualità. Ne è scaturita una morale sessuale contrassegnata da una visione biologistica della sessualità, intendendo con ciò la riconduzione del sesso pressoché solo alla procreazione. Il primato della funzione biologica procreativa ha avuto nei secoli anche un altro effetto negativo: quello di concepire la donna quasi esclusivamente in funzione della generazione dei figli.
Non conosce bene la biologia.
La morale sessuale ecclesiastica parla così tanto di natura e di natura umana, ma in realtà, a causa della sua astrattezza e del suo dogmatismo, mostra di non conoscere adeguatamente la natura umana, in particolare la natura femminile. Stante l’assunto dell’inscindibilità tra amplesso e procreazione, essa propone ai coniugi che intendono evitare una gravidanza di ricorrere ai periodi infecondi per fare l’amore e di astenersi nei periodi fecondi, ma viene a rappresentare in questo modo una potente quanto nociva mortificazione dell’istinto naturale. Infatti il periodo in cui nella donna è più forte il desiderio di rapporti sessuali è proprio quello dell’ovulazione, nel pieno del periodo fertile quando la donna risulta più disposta e più disponibile, più attratta e più attraente. Gli specialisti spiegano che ciò avviene perché nei giorni fertili gli ormoni sessuali femminili risultano più concentrati. Quasi tutte le persone, cattolici compresi, naturalmente si guardano bene dal prendere in considerazione tali precetti elaborati da una morale di uomini celibi, e infatti secondo la rivista scientifica «Human Reproduction» della Oxford University Press durante l’ovulazione la frequenza dell’attività sessuale risulta aumentata del 24%.
Ignora il primato della coscienza. Occorre chiedersi che cosa sia più umano: la libertà che comprende, vuole e decide, oppure la sottomissione a una necessità biologica che impone se stessa quale criterio dell’agire e del non-agire? Io credo che la dignità della persona umana consista nell’uso libero e responsabile della propria intelligenza e della propria volontà. Io credo che la vera natura della persona umana non sia espressa dal ritmo del ciclo biologico, ma dall’intelligenza e dalla volontà responsabili. Io credo, in altri termini, nel primato della coscienza. E dicendo questo, non faccio che esprimere il senso più profondo della tradizione giudaico- cristiana.
Non rispetta il dato biblico.
Con ciò non intendo ovviamente le considerazioni spesso arretrate sulla donna e sulla vita sessuale contenute nei vari libri biblici. Intendo piuttosto la logica complessiva del messaggio biblico, ovvero la sua dinamica evolutiva. All’interno della Bibbia infatti si ritrovano affermazioni a favore della poligamia e altre a favore della monogamia, e così è per la dissolubilità e l’indissolubilità del matrimonio, la fecondità e la verginità, l’inferiorità e la parità della donna, la svalutazione e l’esaltazione del corpo. Tutto ciò costituisce un preciso insegnamento sulla imprescindibilità del contesto storico. Ma c’è un’altra importante considerazione. Nel libro biblico interamente dedicato all’amore erotico, il Cantico dei cantici, nel quale la sessualità costituisce il centro specifico del messaggio. Non vi è neppure un minimo accenno alla funzione riproduttiva della sessualità e l’amore erotico non ha altra giustificazione che non se stesso, in quanto manifestazione della più generale fioritura dell’essere.
Conclusione. La morale sessuale della Chiesa cattolica vorrebbe essere fondata sull’oggettività di una presunta legge naturale su cui il soggetto dovrebbe normare la propria particolare situazione. Alla prova dei fatti però essa risulta un peso troppo gravoso da portare: lo è a livello pratico, per l’impossibilità di attuarla con efficacia e con coerenza; e lo è a livello intellettuale, per il massiccio ricorso a ciò che Rahner chiamava «cattiva argomentazione in teologia morale». Occorre intraprendere un profondo percorso di rinnovamento in materia di etica sessuale, analogo a quello compiuto nell’ambito della morale sociale dove la Chiesa è passata dal ragionare sulla base di un astratto criterio oggettivo (i diritti della verità) a un più concreto criterio soggettivo (i diritti della persona), cambio di prospettiva che l’ha condotta dall’Inquisizione al rispetto della libertà religiosa della coscienza. Il medesimo criterio applicato nell’ambito dell’etica sessuale porterebbe la Chiesa cattolica alle seguenti necessarie aperture: sì alla contraccezione; sì ai rapporti prematrimoniali; sì al riconoscimento delle coppie omosessuali. Qualcuno a questo punto si chiederà se si possa ancora parlare di etica cattolica. E io rispondo che in realtà non esiste una specifica etica cattolica, l’etica è la scienza teorica e pratica del bene, e il bene, per definizione, è universale. Ne consegue che non si tratta di preoccuparsi di salvaguardare lo specifico dell’etica cattolica, si tratta di voler pensare in prospettiva universale, cioè veramente cattolica, aggettivo che com’è noto significa proprio universale (dal greco katholikós formato dalla preposizione katà, «verso», e dall’aggettivo hólos, «tutt’intero»).

IL LIBRO
Il brano è tratto da Io amo di Vito Mancuso (Garzanti, pagg. 211, euro 14,90) L’autore sarà a Pordenonelegge sabato alle 11,30

La Stampa 18.9.14
«Transformations. Classical sculpture in Colour»
Sculture classiche a colori in mostra a Copenhagen

un video qui

La Stampa 18.9.14
Caccia al tesoro per trovare la dimora di Livia
Orari complicati, neppure un cartello a indicare uno dei gioielli del Bimillenario di Augusto
di Francesca Sforza


L’Antica Roma vince ancora su quella nuova. Questo si pensa durante la presentazione del secondo appuntamento archeologico (su quattro) con cui la capitale ha scelto di festeggiare il Bimillenario della morte di Augusto.
La scorsa settimana era stata la volta della riapertura della Villa di Livia a Prima Porta, ieri il ripristino del percorso augusteo sul Palatino. Seguiranno le presentazioni di interventi conservativi delle Terme di Diocleziano e della Basilica Iulia. Più di questo, probabilmente, nei due anni che la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici ha avuto a disposizione, non si poteva fare, ed è inutile a questo punto chiedersi come mai non si sia avviato nulla qualche anno prima.
Pochi stanziamenti e una burocrazia capace di abbattere qualsiasi spirito di rimonta non sono ostacoli facili da aggirare. La Villa di Livia, ad esempio, inaugurata una settimana fa, ha degli orari di apertura concepiti per giocatori di Sudoku (il giovedì e il venerdì dalle 9,30 alle 13,30; il primo, il terzo e l’eventuale quinto sabato del mese dalle 9,30 alle 13,30; la prima, la terza e l’eventuale quinta domenica del mese dalle 9,30 alle 18,30. Dal 1° novembre al 31 marzo la domenica pomeriggio la chiusura avverrà alle 16,30), ed è praticamente irraggiungibile nella misura in cui non esiste un solo cartello che la segnali.
La soprintendente Mariarosaria Barbera spiega che la richiesta di cartellonistica è stata avviata, e che una risposta è attesa nell’arco di dodici mesi. Il consiglio suggerito dal sito ufficiale è di raggiungere il vicino cimitero e – aggiungiamo noi – chiedere ai custodi, unici detentori del segreto dell’ubicazione della villa.
Ieri due turisti americani si aggiravano davanti al cancello, ma al citofono nessuno parlava inglese, e comunque era tutto chiuso. Peccato, perché se ne avessero avuto la possibilità avrebbero perdonato l’ignoranza linguistica, l’assenza di cartelli e la lentezza dei mezzi pubblici che colpisce quella zona più di altre. All’interno si sarebbe dischiuso loro un autentico distillato di antica Roma: il giardino interno dove si dice che un’aquila avrebbe fatto cadere dal cielo una gallina bianca con un ramo di alloro nel becco, che Livia avrebbe custodito, e da dove sarebbe poi nato un boschetto, gli ambienti affrescati e pavimentati a mosaico, un’atmosfera davvero senza uguali.
La stessa sensazione si prova davanti al restauro – o meglio, alla remise en forme – del Museo Palatino, della Casa di Augusto e della Casa di Livia nella zona dei Fori. «Un’operazione la cui orchestrazione non è stata facile – spiega la soprintendente – ma che alla fine dà la possibilità di accedere a un percorso coerente, spiegato e ben illustrato». Il ripristino del triclinio è di rara bellezza, gli affreschi di paesaggi sacri sullo sfondo del rosso pompeiano lasciano senza fiato. Immaginare che in quegli ambienti la potente Livia conduceva una vita dedita alla cura della casa e alla difesa del suo altrettanto potente marito è un regalo che porta con sé il peso dei due millenni passati. E ripaga di molte amarezze del Bimillenario presente.

La Stampa 18.9.14
La bambina cresciuta sulle scale di casa Gramsci
“Scendevo i gradini con le mie amichette, giocando alle signore. Che emozione sapere che ora è un hotel: vorrei dormirci una notte”
di Emanuela Minucci

qui

Corriere 18.9.14
Le mosse di Arpe
Per l’Unità accordo più vicino
di Al.Ar.


ROMA — Le trattative fervono e il punto di arrivo non sembra lontano. Ma il condizionale è d’obbligo quando si parla di far tornare a vivere il quotidiano l’Unità , che dal primo agosto scorso ha cessato le pubblicazioni e si trascina 30 milioni di debito sulle spalle. I libri contabili del quotidiano che fu di Antonio Gramsci sono arrivati in tribunale. Non ancora in stato di fallimento, tuttavia. E la corsa contro il tempo è proprio per evitare che questo accada. In pole position per l’acquisto dell’Unità, ad oggi, sembra esserci ancora il banchiere Matteo Arpe, in cordata con il quotidiano online Lettera 43 di Paolo Madron attraverso la società News 3. Ma in ballo ci sarebbero altri due gruppi interessati a rilevare l’Unità , per adesso non ancora noti e, forse, con meno carte concrete di quelle messe sul tavolo da Arpe. Il banchiere infatti ha già strutturato un piano industriale della durata di tre anni e un piano editoriale assolutamente pioneristico in Europa: con la cordata di Arpe sarebbe la prima volta che un quotidiano online acquisisce un quotidiano di carta (e non viceversa, appunto), con una vocazione fortemente autonoma dal partito (il Pd) pur mantenendo una identità esplicita di giornale di sinistra. Fra i primi intenti dichiarati di Arpe c’è infatti quello di voler rinunciare ai finanziamenti pubblici, anche se gli oneri economici per far tornare a vivere l’Unità non sono cosa da poco. Per poter cancellare i 30 milioni di debito ne servono infatti almeno 10, così da poter arrivare ad un cosidetto concordato «in bonis». Prima di cessare le pubblicazioni il quotidiano perdeva 800-900 mila euro al mese. Resta comunque da sciogliere anche il nodo della tv Youdem e di Europa per i quali si parla da tempo di fusione.