venerdì 19 settembre 2014

Repubblica 19.9.14
“Amore mio, non morire ti porterò in Italia con me”
“Volevo essere con te. Non osare dimenticarmi
Ti amo tanto. Non dimenticarmi. Stai bene amore mio”
Le lettere mai spedite dei migranti sepolti in mare
Dagli archivi della polizia spuntano i messaggi destinati alle mogli e alle fidanzate rimaste in patria
Parole che raccontano l’altra faccia di una tragedia senza fine
di Francesco Viviano


POZZALLO «Mio adorato amore, per favore non morire, io ce l’ho quasi fatta. Dopo mesi e giorni di viaggio sono arrivato in Libia. Domani mi imbarco per l’Italia. Che Allah mi protegga. Quello che ho fatto, l’ho fatto per sopravvivere. Se mi salverò, ti prometto che farò tutto quello che mi è possibile per trovare un lavoro e farti venire in Europa da me. Se leggerai questa lettera, io sarò salvo e noi avremo un futuro. Ti amo, tuo per sempre Samir». Questa è una lettera che non è mai arrivata a destinazione, una delle tante. Si conosce solo il mittente, “Samir”, probabilmente egiziano, età apparente 20-25 anni. È la lettera di un morto, uno dei tanti cadaveri giunti nei barconi a Pozzallo o ripescati da mercantili in navigazione e dalle navi della nostra Marina militare dell’operazione Mare Nostrum, che nel Canale di Sicilia da mesi raccolgono vivi e morti.
Quella di Samir è una delle tante lettere d’amore e di speranza inviate dagli uomini in fuga dal Sud del mondo alle mogli e fidanzate che hanno in Ghana, Nigeria, Egitto, Palestina, Etiopia, Eritrea. Lettere che non sono mai state spedite e che sono state trovate nelle loro tasche, molte chiuse in buste di plastica per non farle distruggere dal mare e che portavano addosso come reliquie. Spesso le reliquie sono diventati inutili testamenti. «Troviamo di tutto in quelle tasche e nelle buste di plastica che portano attorno al collo», racconta uno dei poliziotti della squadra mobile di Ragusa da mesi impegnato a Pozzallo, «fotografie dei figli, delle mogli, dei genitori. Non sono utili alle indagini, ma quando le traducono ti fanno venire un groppo in gola». Sono lettere scritte in arabo, francese e inglese, come quella di “George”, probabilmente di origine liberiana, che avrebbe scritto alla sua amata quando dal porto di Zuhara salì su uno dei barconi salpato verso le coste di Lampedusa: «Amore mio, finalmente sono arrivato. La vita comincia adesso, spero di tornare presto per portarti con me e vivere insieme lontani dalla guerra. Ti Amo».
Fotogrammi di una tragedia senza fine che si consuma ogni giorno nelle acque internazionali, tra la costa libica e quella siciliana. Spesso, consapevoli di non arrivare vivi alla destinazione sperata, i fuggitivi copiano queste lettere e le consegnano ad altri compagni di viaggio nella speranza che possano sopravvivere e inviare notizie ai loro congiunti. Su un pacchetto di sigarette trovato nelle tasche di uno dei tanti cadaveri ormai sepolti senza nome in uno dei tanti cimiteri sparsi tra le province di Ragusa e Agrigento e ritrovato da un collega del New York Times, c’era una brevissima lettera scritta a mano in dialetto tigrino, una delle lingue eritree. C’era scritto: «Volevo essere con te. Non osare dimenticarmi. Ti Amo tantissimo, il mio desiderio è che tu non mi dimentichi mai. Stai bene amore mio. A ama R». Era una lettera indirizzata ad una ragazza il cui nome cominciava per “A” e scritta da “R”. Mai arrivata a destinazione, ormai parte degli archivi dei fantasmi del mare. Racconta il poliziotto di Ragusa: «In alcuni fogli si leggono racconti della prigionia nelle carceri libiche, in attesa del trasferimento sui barconi che li avrebbero dovuti portare, vivi, in Italia». Lettere scritte alle madri dove ragazzi raccontavano la loro odissea, la traversata nel deserto, il pizzo pagato a ogni frontiera e il saldo ai trafficanti, i biglietti numerati presi per salire a bordo delle carrette che non si sa mai se arriveranno a destinazione.
L’archivio della speranza e della morte è lunghissimo. Nelle tasche dei molti morti e di alcuni sopravvissuti marinai e poliziotti hanno trovato le foto delle loro ragazze e dei figli lasciati in Eritrea, le fotocopie dei documenti d’identità dei loro bambini nella speranza che, un giorno o l’altro, anche loro li avrebbero raggiunti.

Repubblica 19.9.14
Se l’Unione europea allontana persone e diritti
di Stefano Rodotà


NEL Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali si afferma che l’Unione europea «pone la persona al centro della sua azione». Parlando di “persona”, non si è evocata una astrazione. Al contrario. Con quella parola ci si voleva allontanare proprio dalle astrazioni, consegnate a termini come soggetto o individuo, e si intendeva dare rilievo alla vita materiale, alle condizioni concrete dell’esistere, ad un “costituzionalismo dei bisogni” fondato sull’inviolabile dignità di tutti e ciascuno.
Ma nel Mediterraneo ormai quasi ogni giorno muoiono centinaia di persone che all’Europa guardano con speranza, fuggendo dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla miseria. I numeri impressionano, ma non sollecitano l’adempimento della promessa scritta nel Preambolo della Carta dei diritti, della quale Juncker ha parlato come di un riferimento obbligato per l’attività dell’Unione europea. Questa disattenzione fa sì che l’Unione stia diventando complice di un “omicidio di massa”, come giustamente l’Onu ha definito questa terribile e infinita vicenda. Siamo di fronte ad uno degli effetti, niente affatto “collaterali”, della riduzione della politica a calcolo economico e finanziario, alimentando gli egoismi nazionali e spegnendo ogni spirito di solidarietà. Le parole contano, dovrebbero risuonare con forza, per dare senso ad una Europa che si sta spegnendo proprio perché rinnega se stessa, il suo essere storicamente terra di diritti. Dalla Presidenza italiana dell’Unione europea, anche per la responsabilità assunta in politica estera all’interno della Commissione (sia pure non ancora formalizzata), dovremmo allora attenderci parole forti, liberate da ogni convenienza, pronunciate dallo stesso presidente Renzi che oggi può e deve parlare a nome dell’Europa. Non è tempo di attese, e anche le mosse simboliche contano, soprattutto se poi riescono ad essere accompagnate da proposte concrete. Ve ne sono già molte, e la politica ufficiale dovrebbe prenderle in considerazione, riflettendo sui visti umanitari, sullo status di rifugiato comunitario, facendo un “investimento di cittadinanza”, ricorrendo a “bond” europei per la cittadinanza (ne ha parlato Mauro Magatti).
L’Europa non impallidisce soltanto in questa dimensione che ha davvero assunto il carattere della tragedia. Vi sono le infinite tragedie della vita quotidiana, moltiplicate in questi anni di crisi e che sono espresse da parole divenute terribilmente familiari: disoccupazione, perdita dei diritti sociali, diseguaglianza. Di nuovo l’Unione europea allontana da sé la persona con i suoi diritti, contraddice le parole che aprono la Carta — «la dignità umana è inviolabile » — perché si nega quel diritto a «un’esistenza dignitosa » di cui parla l’articolo 34 della stessa Carta. A quell’abbozzo di costituzione europea affidato al Trattato di Lisbona e alla Carta dei diritti fondamentali è stata in questi anni contrapposta una sorta di “controcostituzione”, che ha il suo cuore nel “fiscal compact” e che ha portato ad una indebita amputazione dell’ordine giuridico europeo proprio attraverso la sostanziale cancellazione della Carta dei diritti, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Nel momento in cui giustamente si contesta la pericolosa riduzione dell’Unione ad una pura logica contabile, proprio la rivendicazione dell’importanza dei diritti è essenziale per muoversi in un orizzonte più largo. Cominciamo a sfruttare i segnali che vengono dalla stessa Unione, dalla sua Corte di giustizia, ad esempio, che con una sentenza del 13 maggio ha affermato che i diritti fondamentali, in via di principio, prevalgono sul mero interesse economico.
La ricostruzione di una cultura europea di nuovo sensibile ai diritti permetterebbe di uscire dalla spersonalizzazione e dalla assuefazione indotte dalle cifre. Registriamo le centinaia di morti in mare, e le spostiamo nelle pagine interne dei giornali o le facciamo scendere nell’ordine delle notizie televisive. Registriamo i dati statistici sulla disoccupazione crescente, sulla povertà assoluta e relativa, come se fossero l’effetto di uno tsunami al quale non ci si può opporre. Una attenzione vera per i diritti ci obbligherebbe ad arrivare alle persone che stanno dietro quei numeri, a svegliarci da un inquietante e ormai protratto sonno della ragione. Ipnotizzati dalle cifre, corriamo il maggiore dei pericoli: il ritorno all’astrazione dalle concrete condizioni del vivere, che ci spinge verso la progressiva riduzione delle persone ad oggetti del caluna colo economico, dunque “non persone”. E come si può parlare di democrazia quando l’azione politica si separa dalle persone e dai loro diritti?
Acuta in Europa, la questione si fa acutissima in Italia. Ancora ieri il rapporto Bertelsmann ha impietosamente confermato il nostro continuo precipitare nell’ingiustizia sociale, con processi di esclusione che mettono concretamente a rischio la coesione sociale. Si può davvero ritenere che una ulteriore riduzione dei diritti sociali, che troppi insistentemente continuano ad invocare, sia la via d’uscita dalle difficoltà che stiamo vivendo? O dobbiamo prendere le mosse proprio dal riferimento alla Repubblica «fondata sul lavoro», e da ciò che questo significa oggi in termini di diritti?
Bisogna aggiungere che, da decenni ormai, l’intera cultura dei diritti ha conosciuto in Italia inquietante eclisse. Nella deprecata e presunta inefficiente prima Repubblica, gli anni Settanta furono una straordinaria stagione dei diritti, che mutarono nel profondo la società italiana e l’organizzazione istituzionale. Divorzio e aborto, statuto dei lavoratori e riforma del diritto di famiglia, processo del lavoro e riforma carceraria, attuazione delle regioni a statuto ordinario e introduzione del referendum, nuove norme sulla carcerazione preventiva e abolizione dei manicomi sono lì a testimoniare che una politica dei diritti è possibile nella linea segnata dalla Costituzione. Questa non è una rievocazione nostalgica, ma un invito a riflettere su quali siano state le spinte propulsive che resero possibile tutto questo. Sicuramente il riferimento ai principi e ai diritti costituzionali. Sicuramente la capacità delle forze politiche di guardare alle dinamiche sociali senza pretese di subordinarle a convenienze e strumentalizzazioni (divorzio e aborto furono approvati in anni di forte potere della Dc). Sicuramente l’esistenza di canali di comunicazione tra cultura e politica, che si alimentarono reciprocamente, produssero innovazione non di facciata, ma veri strumenti istituzionali di cambiamento.
Negli ultimi decenni chiusure ideologiche e regressione culturale hanno determinato un divorzio tra politica e società proprio sul terreno dei diritti. Ne vediamo i segni ancora in questi giorni. Dopo che le regioni avevano concordato alcune linee guida sulla fecondazione eterologa, coerentemente con quanto stabilito dalla Corte costituzionale cancellando un altro pezzo illegittimo della straideologica legge in materia, ecco la Regione Lombardia legare l’accesso a questa tecnica di fecondazione a costi che negano l’eguaglianza tra le persone, richiamata proprio dalla Corte costituzionale. Riprenderà il “turismo procreativo”, questa volta da regione a regione?
Questo caso ci ricorda come in questi anni difficili, e di silenzio della politica, i giudici siano stati i veri “custodi dei diritti”, non assumendo un ruolo di supplenza, ma di attuazione della legalità costituzionale, com’è loro dovere, tenendoci anche al riparo da prevaricazioni politiche (pochi giorni fa il Consiglio di Stato ha definitivamente accertato l’illegittimità dell’intervento ministeriale che tentò di impedire il trasferimento in una clinica di Eluana Englaro).
Oggi sarebbe il tempo del ritorno della buona politica, che guardi alla società senza filtri ideologici e convenienze di maggioranza, e così dia segnali chiari contro l’omofobia; riconosca senza alcun pregiudizio le unioni tra le persone dello stesso sesso, che i comuni stanno affrontando con la trascrizione dei matrimoni contratti all’estero; riconosca il diritto di decidere sul morire. Sono questi i modi in cui la società interroga la politica e, poiché troppe volte sentiamo dire “ce lo chiede l’Europa”, proprio dall’Europa e dal mondo ci vengono segnali sempre più univoci che, in materia di diritti, dovremmo cominciare a seguire, riconoscendo in essi anche quello che, con lungimiranza, aveva già indicato la Costituzione.

La Stampa 19.9.14
Articolo 18, nel Pd la rivolta di un mondo: “Buttiamo via i nostri valori”
Cofferati: “In cambio di che?”. Lo scontro tra premier e vecchi
La sfida sull’identità del partito
di Federico Geremicca

qui

Repubblica 19.9.14
L’affondo di Bersani “Governo marziano se si va allo scontro io sto coi lavoratori”
“In tutta Europa, dalla Germania alla Francia, la reintegra esiste. Cancellarla in Italia è inconcepibile”
colloquio con Giovanna Casadio


ROMA Renzi e il governo? «Marziani». Pierluigi Bersani cammina nervosamente nel Transatlantico di Montecitorio: sul lavoro non intende tacere. Le scelte del governo gli bruciano. Chiede che il ministro Poletti «precisi in Parlamento » cosa ha in mente di fare sull’articolo 18, sulla legge delega o Jobs Act, sulle ipotesi di modifica dello Statuto dei lavoratori che circolano in queste ore sui media. «Intenzioni surreali», le definisce l’ex segretario dem che voleva fare del “suo” Pd il partito laburista, il partito del lavoro. Né ci sta a passare per un “conservatore” mentre Renzi sarebbe l’innovatore: «Io sono una persona di sinistra liberale e sono d’accordo sul fatto che le regole sul lavoro debbano essere svecchiate dal lato dei contratti e dei servizi. Ma come può un governo in un periodo di recessione e deflazione pensare di abbattere l’articolo 18 senza dire quanti soldi mette per gli ammortizzatori sociali. Allora vuol dire che non sa a che punto è l’Italia, la sta guardando da Marte».
Ai tempi della legge Fornero, fu Bersani a convincere la maggioranza che su lavoro e articolo 18 si poteva intervenire solo con il bisturi. Così fu. E c’era il governo del professor Monti, non di Renzi, segretario del Pd. Ora s’indigna quando sente parlare di cancellazione della “reintegra” dei lavoratori licenziati senza giusta causa: «Vorrei ricordare che in tutta Europa, dalla Germania all’Inghilterra alla Francia la “reintegra” esiste, non è obbligatoria ma c’è. Quindi non è concepibile che in Italia venga cancellata». E via ad elencare le domandechiave da porre al governo e sulle quali il partito deve discutere per non perdere il suo dna, e cioè «cosa intendiamo quando si dice che bisogna superare il dualismo e l’apartheid nel mercato del lavoro, come bisogna estendere le tutele universalistiche, come bisogna tenere, nella crisi, in equilibrio i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Sono cose fondamentali, basiche».
Non lo convince la promessa della flexicurity. «La flexicurity significa la Danimarca. Costa molto, tra i 10 e i 13 miliardi e l’Italia dove li trova? Rischia perciò di essere un semplice auspicio. In Danimarca sono previsti 4 anni di copertura, la piena efficienza dei servizi di reimpiego. Leggo invece cose bizzarre, stravaganti». Smantellare l’articolo 18 senza la giusta rete di ammortizzatori sociali «non può essere accettato». Se di tutele crescenti si sta parlando, è evidente che questo vale «anche per l’articolo 18», precisa l’ex segretario. A Montecitorio ci sono riunioni volanti tra Bersani, Fassina, Gotor, D’Attorre, Zoggia. L’ex segretario è dell’opinione che la sinistra democratica debba mantenere una posizione ferma ma di confronto proprio per evitare polarizzazione e che cioè il governo pensi a una forzatura per decreto. «Ci vuole un chiarimento, questa è la cosa fondamentale», ripete Bersani. E se diventa una battaglia di simboli, uno scontro tra capitale e lavoratori - è uno dei mantra bersaniani - allora «io sto con i lavoratori».
Sarà comunque mercoledì prossimo il giorno decisivo, perché tutto il Pd de-renzizzato, da Civati a Bindi, a Cuperlo e appunto all’ex segretario, si riunisce per parlare dei temi scottanti, dal lavoro alla legge di stabilità e anche di riforme. In particolare sulla legge elettorale Bersani insiste sulla necessità di modifiche se si vuole salvaguardare democrazia e rappresentanza. È questo l’altro nodo che molti di sinistra dem non ritengono necessario affrontare subito, mentre il Parlamento “balla” sui temi economici. Ma Renzi ha annunciato che riprenderà immediatamente la discussione sull’Italicum. «Se c’è un accordo politico va bene la calendarizzazione di Renzi - ragiona Bersani purché però si facciano i cambiamenti necessari per non avere liste bloccate, modificare le soglie e l’asticella per accedere al premio di maggioranza».

Repubblica 19.9.14
Susanna Camusso, leader della Cgil
Il governo sceglie misure di destra la sua unica logica è attaccare i sindacati
Si assiste a una rappresentazione distorta, come se il problema dell’Italia fossero le organizzazioni sindacali
Renzi fa l’errore di ritenere che la perdita di competitività dipenda dai diritti e non dalla mancanza di investimenti
È grave l’idea che possa esserci una decretazione d’urgenza per facilitare i licenziamenti
Di certo con questa riforma del lavoro il Pil non crescerà e non recupereremo il 25% di capacità produttiva persa
L’apartheid del lavoro? In Sudafrica non è stata superata peggiorando le condizioni dei bianchi
intervista di Roberto Mania


ROMA «Abbiamo una deflazione che ci può divorare, siamo stretti tra il patto di stabilità e il blocco degli investimenti, e il tema diventa: come rendere più facili i licenziamenti? Mi sembra sbagliata e grave l’idea che possa esserci una decretazione d’urgenza sui licenziamenti. Di certo con queste misure non crescerà il Pil, il Paese resterà in deflazione e non recupereremo il 25 % di capacità produttiva che abbiamo perso. La logica scelta non è quella di aggredire le cause dell’economia ma solo attaccare il sindacato. Peccato che in gioco ci siano i lavoratori e il Paese». Mentre Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, parla la Commissione Lavoro del Senato sta dando il via libera alla legge delega sul lavoro. Quella che cambierà il nostro mercato del lavoro ma anche che manderà in soffitta l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Questa, segretario, è la vostra Caporetto. Una sconfitta subita senza nemmeno sparare un colpo.
«Con queste misure la Caporetto rischia di farla la nostra economia. Quanto a non sparare un colpo aspetti a dirlo. Mi sembra che anche lei sia preda della propaganda. Il problema non è il sindacato, ma come si crea lavoro e quali sono le condizioni dei lavoratori. Si assiste a una rappresentazione distorta come se il problema fossero le organizzazioni sindacali. Qual è la visione che ha del lavoro il nostro presidente del Consiglio? Mi ha colpito che abbia parlato di apartheid nel mercato del lavoro. Per restare nella metafora, vorrei ricordare che mai in Sudafrica si è pensato di superare l’apartheid peggiorando le condizioni della popolazione bianca. Si continua a perseverare nell’errore di ritenere che la perdita di competitività dipenda da quei diritti mentre invece è la precarizzazione e la mancanza di investimenti formativi su quei lavoratori ad aver contribuito al nostro declino competitivo».
A parte la propaganda, resta il fatto che chi è tutelato oggi dall’articolo 18 non succederà nulla. E oggi i lavoratori protetti dall’articolo 18 sono meno della metà.
«Per la verità sono il 60% di chi lavora, e come si sa la deterrenza coinvolge tutti. Poi l’obiettivo di questo governo non doveva essere quello di costruire l’universalità delle tutele, di far diventare tutti i lavoratori di serie A? Mi pare invece che così, oltre a ridurre le protezioni, si introducano ulteriori divisioni».
Il contratto a tutele crescenti non toglie i diritti a nessuno.
«Dipenderà da come verranno scritte le norme nei decreti attuativi. Per ora ci sono soltanto dei titoli. E in quello che deciderà il governo si capirà quale valore intende attribuire al lavoro. La Cgil è per un contratto a tutele crescenti che alla fine abbia una pienezza di diritti per il lavoratore e poche altre forme contrattuali».
Secondo lei cosa farà il governo?
«Certo se il governo dovesse, come sembra, superare l’articolo 18 per i neoassunti tradirebbe i principi con cui si è presentato ai giovani e ai precari. Ma non c’è solo il tema dei licenziamenti, il governo pensa di riscrivere parti fondamentali dello Statuto dei lavoratori, dando la possibilità alle imprese di demansionare i lavoratori. La Costituzione prevede che a parità di lavoro sia data parità di retribuzione. A quel principio bisogna restare ancorati».
Considera Renzi un riformista o un conservatore?
«Dipende. Non investire sul lavoro e sulla sua qualità è quello che hanno fatto i governi degli ultimi vent’anni».
Eppure dice di volere unificare il mercato del lavoro, superare le attuali differenze. Nella delega questi principi ci sono. Lei non li vede?
«Nella dichiarazioni del governo c’è molta ambiguità. L’introduzione del contratto a tutele crescenti vuole dire che si aboliscono le attuali 46 tipologie di contratti? Vuol dire che il decreto Poletti sui contratti a termine verrà superato?».
Per queste ragioni la Cgil si prepara allo sciopero generale?
«In assenza di un confronto e risposte alle osservazioni di chi come noi — piaccia o meno — rappresenta milioni di lavoratori, non potremo che mettere in campo una grande mobilitazione, che mi auguro unitaria con Cisl e Uil. Nulla può essere escluso, nemmeno lo sciopero ».
Per combattere una battaglia, come ha detto nel vostro direttivo, il segretario dei pensionati Carla Cantone, serve l’esercito. Qual è oggi l’esercito dei sindacati?
«Ho un’idea meno militaresca, ma l’esercito del sindacato si chiama mondo del lavoro. Di coloro che sono inclusi e preoccupati per il proprio futuro e di quelli che sono esclusi ai quali bisognerebbe estendere i diritti. Questa è la riforma dello Statuto che la Cgil proporrà. Per questo mi ha molto colpito che nel suo discorso in Parlamento il premier non ha parlato di come creare occupazione e ha assunto la cancellazione dello tutele dei lavoratori, come faceva la destra».
Vuol dire che Renzi è di destra?
«No. E poi sta a lui collocarsi».
Pensa che le sue politiche siano di destra, allora?
«Non tutte, sarebbe sbagliato sostenerlo. Non lo è stato di certo il provvedimento sugli 80 euro. Ma l’articolo 18 è da sempre una bandiera della destra».
Oggi è l’Europa che ci chiede alcuni interventi sul mercato del lavoro.
«Guardi, credo che Renzi stia usando la bandierina dell’articolo 18 perché in Europa non è riuscito a strappare nulla sul piano delle politiche economiche. Probabilmente pensa di ottenere così maggiore flessibilità. Ma l’Europa è contro un mercato del lavoro duale, in Europa è il contratto a tempo indeterminato ad essere considerato lo standard ».

La Stampa 19.9.14
Epifani: il reintegro esiste ovunque toglierlo è un rischio
“Non mi fido del solo risarcimento al lavoratore”
intervista di Paolo Baroni


Certo, in Italia il solco tra lavoratori garantiti e lavoratori non garantiti è grande, ma questo problema non si risolve creando nuove divisioni. E se il nodo, invece, è quello di favorire la crescita «il problema va rovesciato: non sono le regole del lavoro che favoriscono lo sviluppo quanto gli investimenti». Per cui, invece di cambiare di nuovo l’articolo 18, «occorre mettere in primo piano politica industriale e politica fiscale» spiega Guglielmo Epifani. «E’ vero – sostiene l’ex segretario della Cgil - c’è un problema di modernizzazione del mercato del lavoro, un mercato molto segmentato, dove negli anni si è accentuata la precarietà. Ora serve un riordino: ma non perché lo chiede l’Europa, ma perché lo chiede la condizione sociale del Paese». Il presidente della Commissione attività produttive della Camera pensa che la riforma, alla fine, debba rappresentare «il punto comune di una valutazione che appartiene a tutto il Paese. A mio modo di vedere, tutela del lavoro, dignità del lavoro, un diverso rapporto lavoratore-impresa devono far parte di un’idea di sviluppo che deve essere compatibile col fatto che dobbiamo competere con prodotti, servizi e aziende di qualità».
Quindi che riforma serve ?
«Il primo punto da cui partire è collegare formazione e lavoro in maniera più stabile e forte. Abbiamo bisogno di formare di più e meglio i lavoratori con un rapporto più stretto coi fabbisogni delle imprese, cambiando totalmente il rapporto tra scuola, università, ricerca e lavoro sull’esempio degli Usa. E poi, sul versante delle imprese, occorre migliorare la qualità della domanda, per evitare di vedere fuggire in Germania i nostri ingegneri. Bisogna puntare sulla qualità, perché a noi non serve un modello di sviluppo incentrato su decentramento delle produzioni, prezzi bassi e grandi quantità. Questo è un modello di sviluppo “basso” che non risponde all’esigenza di arrestare il declino dell’Italia».
Detto ciò la questione-apartheid resta però irrisolta.
«E’ il secondo punto da affrontare: il nostro mercato del lavoro deve essere reso più inclusivo. Oggi ci sono lavoratori che non hanno diritti. Tra i giovani sono la maggioranza. Il diritto alla maternità va certamente esteso a tutti e va superata la cassa in deroga, che è stata utile ma non può essere certamente “il modello” perché è troppo occasionale. Mentre invece bisogna poter garantire a chi resta senza lavoro una tutela più universale. E per far questo occorre riformare anche gli strumenti di avviamento e accompagnamento al lavoro, che da noi funzionano male. Inoltre col Jobs act bisogna trovare il modo di semplificare il numero dei modelli contrattuali».
Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti può essere la soluzione?
«Questa è una buona soluzione, ma bisogna fare in modo che assorba e sostituisca una parte consistente delle forme spurie tipiche del lavoro. E soprattutto occorre vedere bene la questione del reintegro».
Nel testo votato ieri non se ne fa cenno. Va lasciato o tolto?
«Chiariamo subito che in molti paesi europei il reintegro, magari con forme diverse, c’è. Non è vero che non c’è. Ora però se lo si fa saltare totalmente per affidarsi unicamente al risarcimento monetario si crea una soluzione che ha un limite fondamentale, come ci dimostra la Spagna di oggi. Si parte con un risarcimento alto, alla prima difficoltà poi lo si dimezza, quindi con la crisi lo si fa saltare del tutto. Col risultato che il lavoratore resta senza tutela. Poi pensiamo ad un lavoratore licenziato con l’accusa di aver rubato, se poi si dimostra che questa accusa è falsa perché non può essere reintegrato? Il cuore della discussione è questo e per questo invito il Pd a riflettere».
Ma su questo tema si può davvero creare una frattura nel partito?
«Dipende da come si risolve la questione: è chiaro che su questo punto possono maturare posizioni differenti. Ma, ripeto, per me questo è un tema importante, che non appartiene all’altro secolo ma attiene alla qualità del lavoro e all’idea di sviluppo di oggi e di domani».
Ma allora il reintegro va lasciato com’è, o si può affinare ulteriormente?
«Si può affinare, ma già ipotizzare che scatti dopo tre anni è un bel salto. Detto questo, pensare che chi ce l’ha lo può tenere,mentre i neoassunti non lo possono avere mai più non mi convince. E’ questa la soluzione migliore: ridividere i lavoratori per generazioni?».

Corriere 19.9.14
La sinistra pd spacca il partito
Bindi e Bersani: niente deleghe in bianco. Orfini chiede correzioni
di Monica Guerzoni


ROMA — «È ora di finirla con la caricatura dei Flintstones, che girano sulle ruote di pietra sventolando la bandiera della Cgil...». Gianni Cuperlo ruba un’immagine al celebre cartone ambientato nell’età della pietra per marcare la distanza da Renzi: «Nel Pd non c’è una componente che innova e un’altra che grida “Wilma, dammi la clava!”, non è così... L’innovazione siamo noi». Il «noi» scandito dall’ex presidente del partito rivela quanto profonda sia la spaccatura sull’articolo 18. «Niente deleghe in bianco» è il messaggio che Bersani ha spedito all’indirizzo di Palazzo Chigi, denunciando le «intenzioni surreali» del governo e chiedendo chiarimenti: «Si descrive un’Italia come vista da Marte. E poi in tutta Europa esiste la reintegra, ancorché non obbligatoria...».
E adesso, tra coloro che si smarcano, c’è anche il presidente Matteo Orfini, il quale condivide i titoli del Jobs act e non lo svolgimento: «Servono correzioni importanti al testo». Per non dire di Stefano Fassina, il più duro contro il governo che vuole superare la norma simbolo dello Statuto dei lavoratori: «È una linea inaccettabile, opposta al programma del Pd e di Renzi. Peggiorerà le condizioni dei lavoratori e aggraverà la recessione». Anche Alfredo D’Attorre, preoccupato perché «il quadro si sta sfilacciando», ritiene «insostenibile una delega in bianco al governo che consenta di fare tutto e il suo contrario».
L’ala sinistra e riformista del Pd non vuole votare con la destra su una questione cruciale, non vuole cancellare la possibilità di reintegrare i lavoratori licenziati e si appresta a salire sulle barricate. Il dilemma è, scendere in piazza o no? I sindacati si mobilitano e l’idea di una fronda che possa aderire a scioperi e manifestazioni preoccupa il Nazareno. Orfini frena: «Cosa farò se la Cgil scenderà in piazza? Vedrò al tg come è andata la manifestazione. Annunciare scioperi prima di avere un testo definitivo sarebbe un errore». E Roberto Speranza, leader dell’area riformista: «Lo sciopero? Parlarne mi pare prematuro. Studieremo e troveremo un compromesso».
Per gli ex ds l’articolo 18 è una questione politica di vita o di morte. E non solo per loro, visto lo stato d’animo della cattolica Rosy Bindi: «Per essere di sinistra non c’è bisogno di essere comunisti...Quando ero nella Margherita andai alla manifestazione di Cofferati, quella dei tre milioni di persone. E certo non cambio idea adesso, che sono nel Pd». Non voterà la riforma? «Voglio essere chiara. Sul diritto al reintegro non si danno deleghe in bianco al governo». La ex presidente si prepara a saldare i suoi dubbi con quelli dell’opposizione bersaniana e dalemiana: «Io sono per il superamento del bicameralismo, ma per rafforzare il Parlamento e non per renderlo subalterno al premier».
La commissione del Senato ha approvato la delega lavoro e gli otto «dem» si sono espressi a favore, ma Erica D’Adda ha chiesto di essere sostituita per non votare no. La fronda si allarga. Fassina, Civati, Damiano e i senatori già «dissidenti» vicini a Chiti si vedranno all’inizio della settimana. E ieri mattina, quando Luigi Zanda ha riunito il gruppo, l’aria era elettrica. Walter Tocci: «Ci fate fare incontri interlocutori e intanto andate avanti come caterpillar». L’ex viceministro Cecilia Guerra: «Noi la delega la vogliamo, ma così è troppo aperta. Non si può dare il messaggio che il rilancio del mercato del lavoro passi per una riduzione dei diritti. Io sono contraria».
Il Pd non può arrivare spaccato di fronte al testo definitivo del governo. La mediazione va trovata prima, a costo di litigare per ore nella direzione che Renzi ha convocato ad hoc per il 29 settembre. Si cerca un accordo, che scongiuri una frattura. E se Debora Serracchiani avverte che «la linea non la decide Fassina» e che il Pd andrà «fino in fondo», Lorenzo Guerini si dice certo che si troverà una soluzione condivisa.

Repubblica 19.9.14
Nel Pd rivolta anti Renzi
Lavoro, si spacca il Pd minoranza dem attacca “Quel testo deve cambiare”
Critiche anche su legge elettorale e gestione del partito
Mercoledì vertice degli “antirenziani” per le contromosse
di Alberto D’Argenio


ROMA La Commissione lavoro del Senato approva l’emendamento del governo sul contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti, testo che di fatto apre la strada alla modifica dell’articolo 18. Il Jobs Act sbarcherà in aula martedì. Si tratta della riforma che Renzi vuole approvare entro dicembre, anche a costo di bypassare le Camere con un decreto in caso di palude, per placare l’Europa pronta a mettere sotto tutela l’Italia per il mancato risanamento dei conti. In commissione, per quanto spaccato al suo interno, il Pd vota compatto, con i suoi otto rappresentanti tutti a favore della delega. Si astiene Forza Italia mentre abbandonano la seduta Sel e M5S. Il ministro Poletti si dice «soddisfatto» per l’approvazione della delega che giudica «migliorata nei suoi punti più significativi». Ma i democratici sono divisi sull’epocale riforma dello Stato dei lavoratori. Dopo le critiche a Renzi pronunciate da Stefano Fassina, anche Bersani dice che il governo ha «intenzioni surreali». Il presidente dell’Assemblea nazionale del Pd Matteo Orfini affida il suo pensiero a Twitter: «I titoli del Jobs Act sono condivisibili, lo svolgimento meno. Ne discuteremo in direzione ma servono correzioni importanti al testo». Anche Pippo Civati, leader della minoranza del partito, attacca, chiede un referendum tra gli elettori del Pd e parla di «una proposta alternativa che non prevede di scannarsi sui diritti dei lavoratori che si potrebbe approvare domani mattina accontentando non solo l’Europa, ma anche chi l’emergenza la vive in prima persona perché il lavoro non ce l’ha». Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, afferma che «è necessario convocare tutti i parlamentari del Pd in una riunione con il governo per svolgere una approfondita riflessione». Mercoledì vertice dei critici per le contromosse contro il governo, nel mirino anche per legge elettorale e gestione del partito. Ma i renziani fanno quadrato. Per il vicesegretario Lorenzo Guerini «è giusto che se ne discuta, poi il partito si troverà unito». Debora Serracchiani riconosce: «Può darsi che non saremo tutti d’accordo, ma questo non significa che non siamo in di dare agli italiani il cambiamento che aspettano. Arriveremo fino in fondo». Spinge sull’acceleratore il Nuovo Centrodestra che con Sacconi dopo il voto della commissione parla di «una pagina storica» e auspica che il Jobs Act diventi legge entro novembre.

Corriere 19.9.14
Articolo 18, in scena un copione sempre identico
Il primo ad aspettarsi (e, forse, anche se non lo confesserebbe mai, ad augurarsi) una reazione del genere era il presidente del Consiglio
di Maria Teresa Meli


Si dice che Renzi abbia sempre bisogno di un avversario
Sull’articolo 18 sapeva di trovarlo in una parte del Pd, la quale ha alzato gli scudi come in un copione sempre identico.

Il primo ad aspettarsi (e, forse, anche se non lo confesserebbe mai, ad augurarsi) una reazione del genere era il presidente del Consiglio.
Il 22 luglio scorso, nel pieno dello scontro con un pezzo del Partito democratico sulla riforma del Senato, a chi tra i suoi lo invitava ad abbassare l’asticella e a trattare rispondeva con queste parole: «Se io medio adesso su questo punto, poi come faccio a non mediare sull’articolo 18?». Segno che l’inquilino di Palazzo Chigi sapeva che si sarebbe giunti lì dove si è giunti. A lambire il tabù dei tabù della sinistra e a provocare la controffensiva di una parte del Pd.
Si è già detto e scritto che nella narrazione renziana non deve mai mancare l’avversario. Le riforme per dimostrarsi tali hanno bisogno di oppositori, altrimenti significa che non smuovono nulla. La vicenda del Jobs act non fa eccezione. C’è Pier Luigi Bersani che vuole sbarrare il passo al provvedimento. Quale miglior testimonial della riforma del precedente segretario che, per dirla con Massimo D’Alema, nelle elezioni politiche del 2013 non è riuscito a «segnare un gol a porta vuota»? E c’è anche un pezzo della minoranza appena acquisita, rappresentata dal presidente del partito Matteo Orfini, che suggerisce delle modifiche al provvedimento. Anche lui può giocare la sua parte nella commedia renziana, perché magari ci sarà bisogno di aggiustare il tiro cammin facendo. È già successo. Con l’Italicum e persino con la riforma del Senato su cui, pure, lo scontro è stato asperrimo.
Nel frattempo, il presidente del Consiglio può con tranquillità recitare il suo copione e, dopo questa alzata di scudi, ripetere con maggior vigore, senza tema di essere smentito, che «sull’articolo 18 il governo andrà avanti con ancora maggiore determinazione». Già, è un copione sempre identico a se stesso quello scritto per il Jobs act , ed è una recita quella che Renzi sta facendo allestire ai suoi avversari interni. Ma è una realtà quello che sta per accadere sull’articolo 18. E non succede per le ultime vicissitudini tra l’Italia e l’Europa, bensì per una decisione assunta dal premier mesi prima, come dimostrano quelle sue parole del luglio scorso.
Del resto, lo sapevano tutti. Il presidente del Consiglio, ovviamente, che non ha mai fatto mistero di voler «rivoluzionare anche il mercato del lavoro». E i suoi avversari che da un paio di mesi lo attendevano al varco. L’unica vera sorpresa è, ancora una volta, il metodo. Nessuno credeva che il segretario Renzi avrebbe visto il «diavolo» Berlusconi nella sede del Pd a Largo del Nazareno. Invece il leader di Forza Italia ha varcato quel portone (anche se dall’ingresso posteriore). Nessuno, nemmeno i suoi detrattori più incalliti, immaginava che il premier potesse veramente modificare lo Statuto dei Lavoratori per decreto. Invece Renzi ha dimostrato che non ha problema alcuno a procedere per questa via: «Non hanno capito quanto sia determinato».
Perciò, alla fine, si tornerà al consolidato copione: il Partito democratico si dividerà (anzi, per amor di cronaca, c’è da dire che si sta già dividendo), litigherà, si spaccherà. E gli altri faranno da comprimari. Gli alleati del Nuovo centrodestra che si vedranno scippata la battaglia sull’articolo 18. L’opposizione di Forza Italia che dovrà decidere se votare «sì» o astenersi senza che nessuno gli chieda un atteggiamento di favore, perché — non è escluso — anche su questo provvedimento potrebbe esserci un voto di fiducia che permetterà al Pd, in nome del bene supremo del governo, di restare unito. Per dividersi la prossima volta, naturalmente.

il Fatto 19.9.14
Pd a pezzi sul Jobs Act
La legge approvata in commissione, la sinistra interna promette sfracelli
Il Fondo: “E’ la direzione giusta”
di Marco Palombi


Intanto in commissione in Senato l’approvazione della legge delega sul lavoro – modificata per permettere l’addio all’articolo 18, il demansionamento e la fine degli ammortizzatori sociali come li conosciamo – è cosa fatta: il provvedimento con cui Matteo Renzi vuole presentarsi a Bruxelles per chiedere pietà sui conti pubblici sarà in Aula la prossima settimana.
NON SECONDARIO pure com’è avvenuto il voto: nonostante i malumori gli 8 del Pd hanno detto tutti sì come bravi soldatini insieme al resto della maggioranza, Forza Italia s’è astenuta, Sel e M5S non hanno partecipato in segno di protesta. Risultato: passaggio in carrozza della delega. Il relativo ministro Giuliano Poletti, già presidente della Lega delle Cooperative (rosse) si dice “davvero soddisfatto” e poi tenta di smorzare le polemiche nate all’interno del Partito democratico: “Non è mai stata in discussione la questione del reintegro per il licenziamento discriminatorio, il testo non ne parla”.
Il riferimento è all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello appunto che prevede il reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente: effettivamente l’articolo 4 della delega – quello che istituisce il “contratto a tutele crescenti” – non ne parla esplicitamente ed è proprio qui il problema. La formulazione consentirà poi al governo, in sede di decreti attuativi, di fare un po’ come gli pare e le parole di Matteo Renzi sul non diritto al reintegro non lasciano presagire nulla di buono. È esattamente questa “l’ambiguità di fondo” denunciata dalla minoranza interna del Pd tutta, a partire dal presidente della commissione Lavoro del Senato Cesare Damiano, che chiede di convocare, oltre alla direzione prevista per il 29 settembre, anche una riunione dei gruppi parlamentari sul tema.
Pier Luigi Bersani, per dire, parla di intenzioni “surreali” di gente “che vede l’Italia da Marte”. Pippo Civati propone di tornare ai gazebo per “chiedere alla nostra famosa base cosa pensa dell’articolo 18”. Stefano Fassina continua a dire a chiunque ascolti che bisogna tornare al testo originale: “Niente articolo 18 solo per i primi tre anni e dal quarto agevolazioni fiscali”. Matteo Orfini twitta che “i titoli del Jobs Act sono condivisibili, lo svolgimento meno: ne discuteremo in direzione, ma servono correzioni importanti”. A domanda sulla partecipazione a un’eventuale manifestazione dei sindacali (Camusso, Angeletti e Bonanni si vedranno a breve per concordare una iniziativa unitaria), l’oppositore risponde però così: “Nel caso, la vedrò in tv”.
PER ORA, come detto, gli effetti parlamentari di questo schieramento sono stati nulli: si vedrà alla Camera, dove i numeri sono diversi. Renzi, però, non deve preoccuparsi perché chi doveva capire ha capito. Il Fondo monetario internazionale, per dire, ieri ha espresso tutto il suo sostegno per l’operazione Jobs act: “La riforma del lavoro del governo Renzi va nella giusta direzione” e pure quella elettorale ai ragazzi di Washington piace assai (non è chiaro perché, ma “è importante per la crescita”).

La Stampa 19.9.14
Ma il partito potrebbe trovare con Matteo un compromesso
di Marcello Sorgi


Fa una certa impressione vedere Bersani e D’Alema - gli ex-leader dei Ds e del Pd che in due stagioni diverse si sono spesi per far capire ai loro elettori e militanti i compiti di una sinistra di governo -, battersi oggi contro la riforma del lavoro proposta da Renzi. L’incubo che attraversa i post-comunisti del Pd (non tutti, va detto, perchè molti erano passati con il premier alle primarie) è quello della cancellazione. L’altra mattina a “L’aria che tira” la conduttrice Myrta Merlino faceva i complimenti per i tanti tweet entusiasti che arrivavano sulla rete a Bersani, ospite in studio, che ha risposto: “Grazie, ma sono tutti ultra-settantenni!”.
Il dramma è questo: i leader della ribellione anti-Matteo hanno perfettamente chiaro che il governo non ha altra strada (come dimostra, tra l’altro, il documento del Fondo monetario) e che la società civile e il mondo del lavoro sono molto cambiati dai tempi dello Statuto dei lavoratori e del famigerato articolo 18. Ecco perché la battaglia che si prepara nell’aula del Senato sarà “parlamentarizzata”, condotta con emendamenti “riformisti”, come ad esempio sgravi fiscali per gli imprenditori che, invece di avvalersi del diritto di licenziare previsto dopo il terzo anno di contratto a tutele crescenti, offrano ancora una prospettiva ai loro dipendenti.
Insomma non sarà un “no” tondo, come quello di Berlinguer a Craxi trent’anni fa, all’epoca del taglio della scala mobile. Sarà piuttosto un “ni”, il tentativo di lasciare un segno “di sinistra” su una riforma che la parte più tradizionale dell’elettorato Democrat percepisce “di destra”. E siccome la partita è giocata da professionisti della politica con anzianità di tutto rispetto, il confronto non avverrà solo sul terreno del Jobs Act. L’altra parte della trattativa riguarderà infatti la legge elettorale e il tentativo di Renzi di chiudere la partita come l’ha cominciata, nel perimetro del patto con Berlusconi. Per evitarlo, la minoranza Pd alla fine potrebbe proporre uno scambio - lavoro contro preferenze -, che ridando anche agli elettori settantenni il diritto di scegliersi i candidati, garantirebbe una riserva indiana ai post-comunisti che temono di essere cancellati da Renzi.

Corriere 19.9.14
Fornero: è solo un regalo a Ncd. Così non creano posti di lavoro
intervista di Enrico Marro


ROMA — «Fui trattata abbastanza male dal Pd quando feci la riforma del mercato del lavoro. E per me oggi sarebbe facile dire “avete quel che vi meritate”, ma il punto non è questo. Piuttosto mi chiedo se l’abolizione dell’articolo 18 sia davvero quel che serve». Elsa Fornero, che da ministro del Lavoro del governo Monti ebbe il coraggio di intaccare il tabù dell’articolo 18, risponde al telefono da Bruxelles, dove ha partecipato a un convegno sull’occupazione promosso dal commissario uscente László Andor.
Non serve abolire il diritto al reintegro nei licenziamenti senza giusta causa?
«Guardi, nel convegno sono emerse due cose. La prima è che le riforme del mercato del lavoro da sole non creano occupazione. Devono essere collegate a politiche macroeconomiche. L’Europa ha già fatto molto sul lato dell’offerta, ma non abbastanza su quello della domanda. La seconda è che non possiamo essere schizofrenici».
In che senso?
«Che da una parte ci lamentiamo della precarietà e dall’altra liberalizziamo sempre più i contratti, che quando va bene si tramuta in flessibilità, quando va male in libertà per i datori di lavoro di fare quello che vogliono. E in un periodo di grave crisi questi non privilegiano certo la stabilizzazione dell’occupazione e il capitale umano».
Forse l’accelerazione di Renzi risponde alle pressioni internazionali, dalla Bce alla Commissione europea.
«Non credo proprio. Ho parlato con i vertici dell’Ocse e, semmai, sono sconcertati che si torni a discutere di articolo 18, già riformato solo due anni fa. Si sarebbe dovuto seguire un metodo diverso: valutare i risultati di quella riforma e vedere se essa andava corretta. Misurare quanti sono stati i licenziamenti, quanti i reintegri decisi dal giudice e quanti gli indennizzi e soprattutto quante controversie sono state risolte con la conciliazione. Questo non è stato fatto, rafforzando l’immagine di un Paese che cambia in continuazione le norme senza che si capisca perché. L’incertezza aumenta e questo non spingerà gli investitori esteri a venire in Italia».
E allora perché Renzi avrebbe deciso di accelerare?
«Per risolvere un conflitto nella maggioranza, accogliendo la richiesta del Nuovo centrodestra, che ne fa una vittoria di bandiera. Non è un buon presupposto per la riforma».
Molti però sostengono che la sua non abbia funzionato.
«Ripeto, verifichiamo. La mia riforma arrivò in un momento sbagliato, di acuta crisi economica. Ma aveva molta sensibilità sociale. Cercava di rendere meno precario l’ingresso al lavoro e un po’ meno rigida l’uscita, perché le due cose stanno insieme. Però, se non c’è domanda di lavoro, l’unico modo per crearla è ridurre in maniera significativa le tasse sul lavoro. Ma su questa, che è la vera cosa importante, non abbiamo ancora capito come farà il governo».
Il contratto a tutele crescenti le piace?
«Sulla carta è interessante, ma bisognerà vedere bene i contenuti. Se la tutela crescente si risolve in un po’ più di indennizzo in cambio della libertà di licenziare, allora non è che sia un gran tutela. Il diritto al reintegro resterà solo sui licenziamenti discriminatori, ma è molto difficile per il lavoratore provare questa fattispecie».
Le nuove regole si applicheranno ai nuovi assunti.
«Appunto. Invece di eliminare la divaricazione tra vecchi e giovani ne creiamo una nuova. Lo stesso errore del 1995 con la riforma delle pensioni».

Corriere 19.9.14
La «pulizia» nel territorio dell’Iva e quei 72 sconti fiscali in un triennio
di Mario Sensini


In vista della prossima legge di Stabilità «il governo sta valutando, oltre alla revisione delle detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali, anche la struttura delle aliquote agevolate dell’Iva» del 4 e del 10%. La possibilità di un nuovo intervento sulla tassa di consumo è stata avanzata ieri in Parlamento dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, quando solo due giorni fa il ministro Pier Carlo Padoan, in televisione a Porta a Porta, rispondendo ad una precisa domanda sull’Iva di Bruno Vespa, aveva detto che il governo «non ha intenzione di aumentare le tasse». Nella maggioranza il Nuovo Centrodestra, e Forza Italia, all’opposizione, sono subito scattate all’offensiva, come le associazioni dei consumatori.
Da quanto pare di capire, tuttavia, il governo non starebbe ipotizzando il semplice aumento delle aliquote Iva agevolate, ma la possibilità di una loro revisione e semplificazione, garantendo una sostanziale parità di gettito rispetto ad oggi. Il governo, piuttosto, sembra propenso a intervenire per sfoltire e, in questo caso, tagliare, la sterminata messe di regimi agevolati concessi a varie categorie di imprese per il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto, che per inciso denota un indice di evasione molto elevato, sicuramente tra i più alti d’Europa, e che secondo alcune stime raggiungerebbe addirittura il 25%.
La “pulizia” nel territorio dell’Iva dovrebbe essere uno dei capitoli fondamentali della revisione di tutte le cosiddette “tax expenditures”, e cioè l’interminabile elenco di detrazioni, deduzioni, sconti e benefici fiscali esistenti nell’ordinamento, che sono più di 700 e costano circa 250 miliardi l’anno. Zanetti ha confermato che l’operazione, di cui si parla dal 2011, quando l’allora ministro Giulio Tremonti ne avviò la ricognizione, è allo studio. «Non ci sono ancora posizioni definite, ma si sta valutando. La questione fondamentale — ha detto Zanetti — è che le detrazioni che possono dare il maggior apporto sono anche quelle più sensibili». Ovvero, quelle politicamente più costose. Gran parte delle detrazioni Irpef riguarda infatti il lavoro, le pensioni, i familiari a carico, la casa, le spese per la salute. Tutti ambiti molto difficili da aggredire, il che limita notevolmente la portata dell’operazione. Nel frattempo, da quando si è cominciato a parlare della loro razionalizzazione, gli “sconti” fiscali hanno continuato ad affastellarsi. Dal luglio del 2011 al giugno del 2014, ne sono stati varati altri 72, di vario genere, con una spesa di 16 miliardi di euro.

La Stampa 19.9.14
Consulta, nulla di fatto. Non bastano i voti di Sel
di Antonella Rampino


Il pallottoliere, quell’arcaico strumento che nelle mani sbagliate produsse la caduta di Prodi, è stato rottamato assieme al suo deus ex machina Massimo D’Alema. E così, racconta chi sul campo per il Pd segue l’andamento nefasto delle votazioni per non eleggere né i due giudici della Consulta né i vari membri del Csm, «si va avanti con gli sms». Insomma, nessuna regia. E infatti sinora l’esito è stato di tredici votazioni a vuoto. L’ultima , ieri, ha impegnato per ore i due rami del Parlamento e il risultato è stato che Luciano Violante era ancora a quota 542, Donato Bruno a 527. Di voti ne servirebbero 570: per la Consulta, a differenza che per l’elezione di un capo dello Stato, il quorum non s’abbassa col numero delle votazioni. A poco è dunque servito l’accordo intessuto nella notte dal Pd con i vendoliani - voi votate Violante e Bruno, noi facciamo passare la vostra candidata per il Csm. E a poco servirà, in tutta probabilità, analogo pressing sulla Lega di Berlusconi, che si ripromette di «sedurre» Salvini sabato a San Siro.
Lo schema di gioco, comunque, prevede che si lavori fitto a suon di sms e moral suasion sino a martedì prossimo: finalmente, ci si è accorti che convocare votazioni quando il Parlamento è sguarnito, ovverosia di lunedì, è controproducente. Dunque, si vedrà come andrà la chiama di martedì. Il governo è ottimista, come il ministro Boschi ha detto - grossomodo - a Giorgio Napolitano. Perché dopo la durissima nota del giorno prima, che aveva come chiaro obiettivo il gioco d’Aula del movimento Cinque Stelle anzitutto, il presidente della Repubblica ha invitato Boschi al Colle per un (breve) colloquio. E il ministro non ha potuto che ripetere il senso della dichiarazione di Matteo Renzi al mattino, il cui succo era «sì, il Capo dello Stato ha ragione, ora dobbiamo andare veloci e arrivare alle nomine nei prossimi giorni....». Nomine che Renzi ha definito genericamente «autorevoli», lasciandosi così aperta la possibilità di cambiare i nomi in corsa, nel mentre che elogiava il ticket Bruno&Violante. Da giorni, rumors renziani riferiscono che il «vero» candidato del capo sarebbe non Violante ma il costituzionalista Augusto Barbera.
L’umore del capo dello Stato, riferisce chi lo ha sentito nelle ultime ore, è di chi è ormai più che irato dispiaciuto, e profondamente dispiaciuto, per la mancanza di considerazione che si ha verso due istituzioni come la Corte Costituzionale e il Csm. E preoccupato, soprattutto, per il Csm, che non è stato ancora completamente rinnovato costringendo il plenum uscente a prorogare il proprio mandato.
Anche il Capo dello Stato però sa bene che il vero e preoccupante problema si annida nel principale partito di maggioranza, il Pd. Le votazioni mandate a vuoto dai franchi tiratori, hanno una sinistra somiglianza con il passato flop per eleggere un nuovo inquilino al Colle. E rischiano di essere una pesante ipoteca sull’elezione futura, quando Napolitano avrà deciso il termine del proprio mandato.
«Elezioni entro il 10 settembre». «Lavoreremo a oltranza». «O si eleggono i giudici entro lunedì (15 settembre) o saranno problemi».
Le promesse e gli avvisi delle più alte cariche istituzionali sono passati invano e a nulla è servito minacciare la «settimana lunga», convocando i parlamentari di lunedì. Da ieri pomeriggio tutti liberi fino a martedì prossimo.
A nulla sono servite le 31 ore e 40 minuti passati in Aula da deputati e senatori dal 10 settembre, che salgono a 51 se si contano dal primo scrutinio, il 12 giugno.
Speriamo almeno che il week end, lungo il doppio di quelli normali, porti qualche consiglio.

Corriere 19.9.14
Ma il ticket va avanti. L’accordo allargato è l’ultima possibilità
di Giovanni Bianconi


ROMA — In un angolo del Transatlantico di Montecitorio, a metà mattinata, il conciliabolo tra Roberto Speranza, Lorenzo Guerini e Donato Bruno fa capire che l’operazione Corte costituzionale va avanti nonostante gli insuccessi collezionati finora. Rappresentano i vertici di un triangolo che racchiude il problema e la possibile soluzione: Speranza, presidente dei deputati del Pd, è espressione del gruppo maggioritario in Parlamento, che però ha mostrato di non votare in maniera compatta per le ragioni più diverse; Guerini, vicesegretario dello stesso partito, deve garantire che il leader-premier Renzi tenga fede all’impegno di non cambiare candidati; Bruno è il prescelto da Forza Italia per appoggiare Luciano Violante, e condurre in porto il doppio ingresso alla Consulta. Tutti e tre sanno, a quell’ora, che anche il tredicesimo scrutinio andrà a vuoto. Ma aspettano di conoscere i numeri, per decidere se proseguire sulla stessa strada e puntare sul quattordicesimo.
Dopo la proposta avanzata dai democratici ai vendoliani di Sinistra ecologia e Libertà (e da Forza Italia ai leghisti) di entrare nel patto, bisogna verificare se la dichiarata disponibilità si traduce in voti concreti. Senza pretendere di arrivare subito al risultato finale, ma per leggere le tendenze. E capire se davvero, a sinistra, i 31 parlamentari di Sel scriveranno il nome di Violante sulle loro schede, e una quota dei democratici quello di Paola Balducci per il Consiglio superiore della magistratura, entrata in gioco dopo che i grillini sono stati estromessi dalla partita per l’indisponibilità a votare i nomi indicati dagli altri partiti per la Consulta.
L’esito dello spoglio arriva durante la pausa pranzo, e viene interpretato come uno stimolo ad andare avanti. O comunque a non far crollare subito il castello di carte. Perché i candidati alla Corte hanno invertito la tendenza al ribasso delle ultime due votazioni, e ricominciano a crescere. Violante arriva a 542 voti, 24 in più rispetto al giorno precedente e a soli 28 dal traguardo dei 570; anche Bruno cresce. Seppure di sole 16 preferenze, toccando quota 527. Vuol dire che qualcosa s’è mosso: Sel mostra di rispondere all’appello votando Violante (non Bruno, ma l’avevano annunciato) e dentro il Pd la fronda non s’è allargata. Le preferenze per l’avvocata Balducci al Csm dimostrano che un centinaio di democratici si sono dichiarati disponibili a sostenerla in cambio dell’appoggio di Sel all’ex presidente della Camera.
Sull’altro fronte le cifre autorizzano a pensare movimenti analoghi tra Lega e Forza Italia, anche se non è stato individuato il candidato leghista (o comunque gradito al Carroccio) che dovrebbe rimpiazzarne uno di Forza Italia. Il senatore veneto Zanettin ha aumentato i voti, ma non abbastanza. «Con la Lega il discorso è un po’ più ampio, riguarda anche la legge elettorale e altre questioni», spiegano coloro che dentro Forza Italia stanno conducendo la trattativa. Come a dire che serve più tempo, e l’intervento diretto di Silvio Berlusconi.
Dunque la tredicesima «fumata nera» non porta con sé — al momento — un ricambio di candidati. La tendenza viene considerata positiva, e si tenta di sbloccare la situazione attraverso un patto con Sel e Lega che comprenda sia la Corte costituzionale che il Csm. Accogliendo così l’invito di Napolitano a raggiungere quelle «convergenze» tra forze di maggioranza e opposizione imposte dal quorum elevato fissato dalla Costituzione. Ma resta da vedere se prima della votazione fissata per martedì, o subito dopo qualora andasse a vuoto anche quella, Matteo Renzi non decida di buttare tutto all’aria proponendo un nome alternativo a Violante (si parla sempre di Augusto Barbera e Stefano Ceccanti, per la sua parte politica). Senza avere però alcuna certezza di successo, vista la probabile ribellione di una parte consistente dei gruppi parlamentari. Soprattutto al primo voto. Di qui l’idea di soprassedere al blitz almeno fino a martedì, tranne imprevisti ripensamenti dovuti ad altre considerazioni.

Corriere 19.9.14
E Berlusconi tratta il sì decisivo del Carroccio
L’incontro con Calderoli. E ai suoi rivela: porto Salvini a Milan-Juve e lo convinco
di Tommaso Labate


ROMA — «A convincere la Lega ci penso io. Vediamo se già sabato riesco ad andare allo stadio con Matteo Salvini...». Il percorso è accidentato, con ostacoli disseminati lungo tutto il percorso che accompagnerà gli abitanti del «Palazzo» alla giornata di martedì, quando è in calendario la prossima votazione sui giudici della Consulta. Ma se il tentativo che Silvio Berlusconi ha promesso a Matteo Renzi va in porto, allora Luciano Violante e Donato Bruno potrebbero essere i primi giudici della storia della Consulta a ottenere un’elezione virtuale durante una partita di calcio. Che, nella fattispecie, è Milan-Juventus in programma domani a San Siro.
A dispetto delle ricostruzioni, secondo cui durante il vertice Renzi-Berlusconi si sarebbe parlato solo di legge elettorale, ieri l’altro il premier e l’ex Cavaliere avrebbero affrontato anche l’impasse parlamentare sui giudici costituzionali. Entrambi sono poco appassionati ai nomi. Ed entrambi, soprattutto Renzi, vogliono a tutti i costi lasciarsi alle spalle «lo stallo». In quella sede, poi, ci sarebbe stata una specie di divisione dei compiti. Col leader pd che si sarebbe fatto carico di convincere i vendoliani di Sel e Berlusconi che, sul fronte centrodestra, avrebbe promesso di convincere la Lega.
La prima parte del piano, quella affidata a Renzi, è stata messa in pratica già ieri. Anche se i voti di Sel non sono stati sufficienti a provocare la fumata bianca. Il compito affidato a Berlusconi, invece, ha tempi più lunghi. Quando esce dall’incontro di Palazzo Chigi, e siamo a mercoledì sera, l’ex premier arriva a Palazzo Grazioli e, poco prima dell’incontro coi sindacati di polizia, annuncia ai suoi: «Domani (ieri, ndr) vedrò Calderoli. Dopodiché sabato proverò a portare con me Salvini allo stadio».
Ieri mattina va in scena il primo incontro. «Siamo stati esclusi dal confronto. Anzi, voi di Forza Italia e Renzi, per essere più precisi, ci avete esclusi dal dialogo», lamentano i componenti della delegazione leghista, capitanata da Roberto Calderoli. Berlusconi, a quel punto, sfodera il più rassicurante dei sorrisi e, rispettando alla lettera il suo canovaccio politico dell’ultimo ventennio, dà ragione all’interlocutore. «Su questo non posso darvi torto. Ma sapete, molte votazioni sono state convocate all’ultimo, c’è stato poco tempo per coinvolgere tutti...», argomenta di fronte ai leghisti. Che l’incontro sia andato bene lo dimostrano due dettagli. Il primo è la riconferma del ticket Violante-Bruno, sancita sia dal capogruppo democratico Speranza sia dal suo omologo forzista Renato Brunetta. Il secondo è la frase sui rapporti col Carroccio che Berlusconi lascia trapelare qualche ora più tardi: «Ora riprenderò l’usanza delle cene del lunedì con la Lega. Finora non c’è stata una cena con Salvini perché Bossi era geloso... ».
L’impresa è ancora lontana. C’è da confermare l’appuntamento allo stadio con Salvini e, nel caso, c’è ancora da strappargli il «sì» su Violante e Bruno. Riuscisse nel «filotto», Berlusconi riuscirebbe in quello che è il suo vero intento. Quello di mostrarsi come «colui» che ha sbloccato l’impasse parlamentare. In palio, c’è una significativa risalita nella gerarchia istituzionale che l’ex Cavaliere — dopo il patto del Nazareno, l’assoluzione al processo Ruby e il voto sulla riforma del Senato — ha ripreso a scalare.
Piani B? Spunteranno se anche martedì ci sarà una fumata sera. Berlusconi, intanto, rassicura anche il partito. Commissaria di fatto i club, inglobandoli ai circoli tradizionali, promuove una campagna di tesseramento, garantisce congressi comunali e provinciali per l’inizio dell’anno, parla ai coordinatori regionali di una «sorpresa che non vi posso annunciare». Una, di sorpresa, l’ha però anticipata: «Ho intenzione di rimanere presidente di Forza Italia ancora a lungo e di ricostruire una coalizione di centrodestra classico». Primarie e successioni, per ora, rimangono fuori dai radar.

Renzi l’ha voluta personalmente nella segreteria del partito...
La Stampa 19.9.14
“Sì, ho un passato in Forza Italia Quello che conta sono i progetti”
Stefania Covello, neo responsabile del Pd per il Sud
intervista di Francesca Schianchi

qui

il Fatto 19.9.14
Il partito Renzusconi avanza:
“Solo insieme possiamo resistere”
di Fabrizio d’Esposito


Il renzusconismo è un animale strano, unico, mai visto, che deprime non solo la dialettica democratica ma anche i giornalisti che bivaccano a Montecitorio, incapaci di raccontarlo con le solite categorie della politica. Il Pur, il Partito unico renzusconiano, sta generando i Puristi, intesi come fedeli esecutori del patto del Nazareno. E l’altra sera a Marino, vicino a Roma, i Puristi di fede azzurra si sono ritrovati a festeggiare il compleanno di uno di loro, il patriarca della famiglia Angelucci, che alle cliniche abbina un giornale, Libero, e un po’ di guai giudiziari. Reduce dall’ennesimo vertice segreto con lo Spregiudicato, l’ospite d’onore del neosettantenne Antonio Angelucci è stato il Pregiudicato accompagnato una volta tanto dalla pseudo-Fidanzata napoletana. Poi l’ideologo del Nazareno, che sta al renzusconismo come Marx al comunismo: il toscano Denis Verdini, altro inquisito, che ad Angelucci, per la precisione, deve ancora una decina di milioni, prestati un paio di anni fa. Queste le basi del patto politico più oscuro della Repubblica, che va oltre ogni consociativismo o inciucio del passato. Il Purismo, sempre da Pur, è un virus che da qui a un anno rischia di essere l’Ebola della Seconda Repubblica. La previsione di una fonte renzusconiana è che “tra un anno non ci saranno più i partiti di oggi, né il Pd, né Forza Italia, vediamo prima cosa succede sull’articolo 18 a sinistra”. Altro che ingresso eventuale nella maggioranza di B. In ballo c’è molto di più.
Le solite battute del Condannato
Alla festa di Angelucci, oltre a Berlusconi e Verdini, si sono visti Renato Brunetta e Nitto Palma (che non sono renzusconiani, anzi Palma è il regista che sta boicottando l’accordo sulla Consulta), il verdiniano Ignazio Abrignani, la Badante Mariarosaria Rossi (che si sforza di sopportare “Denis”) e soprattutto il ministro Maurizio Lupi, anima nazarena del Nuovo Centrodestra. Ormai il partito alfaniano è lacerato dalla centrifuga Purista e Lupi con Nunzia De Girolamo e Barbara Saltamartini vuole riallinearsi con il Condannato risorto. Non solo. Su un binario parallelo, finanche Renato Schifani sta trattando il ritorno al casino del Padre. Il futuro spaventa e non c’è alternativa. Alla festa era atteso anche Angelino Alfano. Ma il ministro dell’Interno non è venuto. L’ex Cavaliere, gongolante, si è concesso la solita battuta contro i magistrati, come riferito dall’AdnKronos: “Provo un po’ di invidia per tutti questi amici e regali, al mio ultimo compleanno come regalo mi hanno mandato un avviso di garanzia”. Solita battuta, e solita palla: B. non cambia mai.
Il toscano Bianconi: “Sembrano l’Unità”
La bestia del renzusconismo vanta altri Puristi del rango di Daniela Santanchè e di Paolo Romani, capogruppo forzista al Senato. Ma a colpire, ieri, è stata innanzitutto la lettura del Foglio di Giuliano Ferrara e del Giornale di Alessandro Sallusti, riconfermatissimo direttore del quotidiano della famiglia Berlusconi. Maurizio Bianconi, libero spirito toscano che ha rinnegato Verdini, ha commentato: “Pensavo di leggere l’Unità, invece era il Giornale”. Colpa del titolo di Sallusti: “Patto Salva Italia. Economia, lavoro e giustizia: Forza Italia pronta a dare una mano valutando caso per caso”. “Caso per caso”. Sibillina condizione che viene tradotta così da un sacerdote anonimo del renzusconismo: “Berlusconi e Renzi sono una cosa sola, ma a noi non conviene entrare in maggioranza, per tanti motivi. Faremo una finta opposizione dando il soccorso azzurro di volta in volta”. Dopo il caos su Violante e Bruno quanti però seguiranno le direttive del Condannato? Legge elettorale a parte, a essere decisivi saranno lavoro e giustizia. E su questi campi che la bestia renzusconiana tenterà un’evoluzione della specie, ancora più inguardabile. Ma la realtà è questa. Come dimostrano alcune foto, Maria Elena Boschi verso Donato Bruno o Paolo Romani ha lo stesso raptus emotivo che prova per Renzi. Le affinità elettive dei renziani sono con previtiani e berlusconiani, non con cuperliani o fassiniani (nel senso di Fassina).
Previsioni: “Silvio e Matteo garantiscono il futuro”
Spera un altro renzusconiano: “Berlusconi e Renzi governeranno fino al 2018”. In ogni caso, i due decideranno insieme cosa fare nel 2015. Il nodo più difficile è la successione di Napolitano, propedeutica al voto anticipato. Le incognite sono tante ma di mese in mese, con i vertici a porte chiusissime di Palazzo Chigi, il Pregiudicato e lo Spregiudicato andranno mano nella mano incontro al destino, che è un po’ il nuovo desiderio del nuovo insuperabile cantore del Purismo: Giuliano Ferrara. Ieri sul Foglio li ha paragonati agli amanti che si abbracciano in segreto, nelle loro lacrime e deliri. È un cinismo romantico che però genera qualche equivoco quando l’Elefantino evoca i due, B. e Renzi, come “nazareni”. Nel gergo delle confraternite, i nazareni sono gli incappucciati che soffrono di più, con la testa stretta in una vera corona di spine. Il renzusconismo può trovare il Calvario, anziché il Paradiso.

il Fatto 19.9.14
Boschi & Ghedini, la strana coppia per l’autoriciclaggio
di Gianni Barbacetto


C’è una nuova coppia di fatto, nello strabiliante catalogo del kamasutra politico delle larghe intese: Maria Elena Boschi e Niccolò Ghedini. La ministra di Matteo Renzi più amata dai giornali di gossip e non solo; e l’avvocato-parlamentare più pagato da Silvio Berlusconi: insieme dovranno sciogliere il nodo dell’autoriciclaggio. Lei in quanto rappresentante del centrosinistra, lui del centrodestra, in osservanza dei riti stabiliti dal patto del Nazareno. E che nodo! È dall’inizio del governo Renzi che la questione dell’autoriciclaggio viene affrontata, rimandata, accelerata, stoppata, poi di nuovo ripresa, in un vortice di annunci che danno l’introduzione del reato di autoriciclaggio per cosa già fatta. Invece no.
GIÀ IL GOVERNO Letta aveva promesso di approvare la cosiddetta “voluntary disclusure”, un procedimento di “pacificazione fiscale” tra il contribuente e lo Stato, in cui il contribuente s’impegna a pagare tasse e interessi e a rivelare tutti i suoi averi in nero all’estero. Il magistrato di Milano Francesco Greco, che aveva collaborato a scrivere il testo del progetto, ha spinto affinché la “voluntary disclusure” fosse approvata insieme all’introduzione del reato di autoriciclaggio, che punisce il reimpiego di capitali illeciti anche quando è realizzato non da altri, ma dallo stesso che ha in proprio la disponibilità di quei capitali. Durante il governo Letta, che aveva presentato la proposta, questa non fu mai discussa. La eredita Renzi, che la presenta, poi la ritira, infine la ripresenta, ma con la “voluntary disclusure” senza l’autoriciclaggio, perso per strada. A questo punto entrano in campo due parlamentari Pd, Pippo Civati alla Camera e Lucrezia Ricchiuti al Senato, che fanno rientrare l’autoriciclaggio. A luglio il testo viene approvato in commissione Finanze della Camera. Poi arriva l’ok, con qualche modifica, della commissione Giustizia. Ora il testo è tornato alla commissione Finanze e dovrebbe andare in aula, per l’approvazione finale, alla fine di settembre. Ma il governo delle riforme veloci ha di nuovo detto stop alla legge, chiedendo tempo (qualche giorno, non mille) perché vuole rivedere ancora la norma sull’autoriciclaggio. Ecco allora che scende in campo la nuova coppia del Nazareno: Boschi per conto di Renzi e Ghedini per conto di Berlusconi. Vedremo come andrà a finire.
Il duo Boschi-Ghedini va così ad aggiungersi alle altre coppie che hanno lavorato per le riforme renziane. Luca Lotti detto “il Lampadina” (per via dei capelli biondi) è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio nonché il più stretto collaboratore di Renzi che lo ha portato con sé da Firenze a Palazzo Chigi. Insieme a Denis Verdini è stato e continua a essere il regista delle riforme del Nazareno. Maria Elena Boschi e Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, sono stati i guardiani della battaglia in Parlamento per modificare il Senato. Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli sono stati i due relatori del testo che ha smontato il Senato della Repubblica. Con Calderoli che non smentiva la sua fama: “Io relatore di maggioranza? Come dare una pistola a un serial killer”.
Ancora Boschi, insieme a Donato Bruno, per fare la coppia del “grattino”: lui, berlusconiano ma ancor più previtiano, ripetutamente trombato dall’aula che lo doveva votare giudice costituzionale, lei amorevole consolatrice dalla cattiveria dei franchi tiratori, che lo sostiene e lo compensa con un grattino sulla schiena. Poi ci sono Lorenzo Guerini e Gianni Letta, a vegliare sui servizi segreti. Quanto a coppie, ci sarebbe anche quella di Francesco Boccia e Nunzia De Girolamo, lei deputata Ncd, lui deputato Pd: ma almeno loro si sono sposati.

Corriere 19.9.14
«In calendario fra una settimana»
La legge elettorale allunga il passo
Boschi sale al Quirinale. Finocchiaro: al Senato pronti a partire
Ma la minoranza pd annuncia battaglia
di T. L.


ROMA — Prima la visita di Maria Elena Boschi al Quirinale, durante la quale il ministro per le Riforme ha aggiornato il presidente della Repubblica della nuova accelerazione sull’Italicum. Poi l’annuncio di Anna Finocchiaro, che la settimana prossima riunirà l’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato per «incardinare la discussione sulla legge elettorale».
I primi effetti dell’incontro di ieri l’altro tra Renzi e Berlusconi si vedono subito. Tempo poche ore dal fischio finale del summit di Palazzo Chigi e già le forze politiche iniziano a fare i conti col ritorno in agenda della riforma elettorale che, nei desiderata del premier, andrebbe approvata entro Natale. Anche se il leader di Forza Italia, durante la riunione coi coordinatori regionali del partito, mostra tatticamente un po’ di prudenza. «L’incontro con Renzi» scandisce l’ex premier, «è andato benissimo. Ci hanno fatto alcune proposte di modifica sulle quali risponderemo già lunedì».
Le modifiche più importanti, ovviamente, riguardano le soglie di sbarramento per i partiti minori. E quel 5 per cento ipotizzato come soglia di ingresso per le forze politiche non coalizzate, tanto per dirne una, a Forza Italia non piace troppo. Per il semplice motivo che in quella soglia, che i forzisti ritengono «troppo bassa», potrebbe rientrare il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, su cui invece l’ex Cavaliere punta per la ricostruzione di una coalizione di «centrodestra classico».
Ma la trattativa è già in fase avanzata. Perché lo stesso Berlusconi, parlando coi leader locali di Forza Italia, non s’è limitato semplicemente a dire che «l’incontro con Renzi è andato benissimo». Ma ha anche aggiunto di aver avuto «l’assicurazione», da parte ovviamente di Renzi, «che non si andrà alle elezioni anticipate». Anche perché, ha sempre spiegato l’ex premier ai suoi, «a Matteo approvare una legge elettorale serve soprattutto per spaventare i malpancisti del suo partito. A lui interessa però finire la legislatura o arrivare quantomeno ai mille giorni».
Dentro il Pd ci sono già le prime scosse di assestamento. Mercoledì sera, nelle aule della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, è andato in scena — alla presenza di Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo — un vertice per fare il punto sulle modifiche all’Italicum su cui la minoranza del partito è pronta a tornare a insistere. E cioè sulle soglie, sulle liste bloccate e sulla parità di genere. Oltre che sulla necessità di far viaggiare insieme legge elettorale e riforma del Senato. È il «lodo Lauricella», quello teorizzato da chi sostiene che una legge elettorale per la sola Camera non possa essere approvata prima dell’abolizione del Senato elettivo. Ed è anche il segno che la nuova battaglia sull’Italicum, stavolta a Palazzo Madama, sarà trasversale a entrambi gli schieramenti. Anche l’area che dentro FI fa capo a Fitto, infatti, potrebbe combatterla. Soprattutto sul ritorno delle preferenze.

Corriere 19.9.14
La spinta ora c’è. Ma sembra più una mossa tattica
di Massimo Franco


L’accelerazione è reale, e figlia dell’ultimo vertice tra il premier Matteo Renzi e il capo di FI, Silvio Berlusconi. Eppure sta avvenendo in una cornice di confusione e di incertezza che fa apparire la spinta per la riforma elettorale non una svolta ma una mossa tattica. Sarà messa nel calendario dei lavori parlamentari la prossima settimana, ha annunciato la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Anna Finocchiaro. Lo stesso Berlusconi, però, ieri ha spiegato ai coordinatori regionali del partito di avere preso tempo, perché un accordo non c’è: rivedrà Renzi verso fine mese. Gli ostacoli sono quelli di sempre.
In primo luogo di merito, perché così com’è il cosiddetto Italicum non piace né a un pezzo di Pd né di FI; e terrorizza il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano e le altre forze minori. La minoranza che fa capo a Pierluigi Bersani è tornata a piantare paletti alternativi a quelli di Renzi: sulla soglia di sbarramento per entrare in Parlamento, sul modo di formare le liste e anche sulle «quote» di donne da inserire per legge.
In più, la riforma riguarderebbe solo la Camera dei deputati, mentre è ancora in discussione la riforma del Senato. E questo acuisce le perplessità. A prevalere su ogni altra, tuttavia, è una preoccupazione politica: che Renzi, e magari lo stesso Berlusconi, vogliano un nuovo sistema di voto per anticipare le elezioni al 2015, nonostante le assicurazioni sul 2018 come traguardo. Il fatto che alcuni esponenti del Pd chiedano una riforma operativa solo dopo i «mille giorni» di governo indicati da Palazzo Chigi, rispecchia questa inquietudine di fondo: una riserva condivisa da Alfano, che teme di essere schiacciato dalla tenaglia Pd-FI.
I fedelissimi del presidente del Consiglio replicano a queste obiezioni avvertendo che la strategia della resistenza non funzionerà, come non ha avuto successo al Senato. E Renzi può sventolare come titolo di merito il «via libera» del Fondo monetario internazionale (Fmi), per il quale un nuovo sistema elettorale «aiuta il sostegno e l’attuazione delle riforme». Il problema è che il riconoscimento è inserito, insieme ad altri, in un rapporto tuttora pessimistico sull’economia italiana. Le previsioni del Fmi sono che il debito crescerà ancora nel 2014, salendo al 136,4 per cento rispetto al Prodotto interno lordo, per poi calare nel 2015.
È uno sfondo buio, che si salda con le tensioni nella maggioranza sull’elezione dei giudici della Corte costituzionale e del Csm, fallita per l’ennesima volta. E dà fiato a quanti, nella minoranza del Pd e nel centrodestra, chiedono di privilegiare misure come la riforma del mercato del lavoro, l’aggressione al debito pubblico e provvedimenti tesi a ridurre il carico delle tasse e a cambiare la Pubblica amministrazione. Con problemi così gravi intorno, la legge elettorale rischia di apparire un falso obiettivo: a meno che l’obiettivo finale non sia quello di portare comunque l’Italia alle urne, non potendo dar seguito alle promesse.

il Fatto 19.9.14
Indagato Renzi, il babbo

I pm di Genova da 6 mesi investigano sul padre del premier: “bancarotta fraudolenta”. Avrebbe spolpato e venduto a un prestanome la società di famiglia (di cui il figlio è stato prima socio e poi dipendente) che distribuiva i quotidiani
Così fra l’altro salvò il Tfr di Matteo. Che sapeva tutto già martedì, quando ha attaccato i magistrati
di Ferruccio Sansa e Davide Vecchi


LA BANCAROTTA DI CASA RENZI INDAGINE SULLE AZIENDE DEL “BABBO”: “MI DIMETTO DA SEGRETARIO DEL PD DI RIGNANO SULL’ARNO”

Tiziano Renzi è indagato per bancarotta fraudolenta dalla Procura di Genova. Secondo i pm, il padre del premier avrebbe svuotato un’azienda attraverso una vendita ritenuta fittizia, che avrebbe consentito alla famiglia di sottrarre ai creditori le attività più redditizie. Alla società, così divenuta poco più di una scatola vuota affidata a un ex socio che l’ha portata al fallimento, sarebbe invece rimasto un passivo di oltre un milione di euro. I pm genovesi Marco Airoldi e Nicola Piacente vogliono accertare se si sia verificato lo schema tipico di tante bancarotte fraudolente: cioè un debitore che attraverso vendite più o meno fasulle lascia a bocca asciutta i creditori.
A INSOSPETTIRE i magistrati e gli investigatori il prezzo di vendita della società in questione: 3.878,67 euro. Pochi, apparentemente. Ma andiamo con ordine. Tutto ruota attorno ad alcune società della famiglia di Matteo Renzi: Chil Post ed Eventi 6. Società di cui, fra l’altro, il presidente del Consiglio è stato prima socio e poi unico dipendente, assunto pochi giorni prima la sua elezione alla guida della Provincia di Firenze che ha dovuto, come il Comune una volta diventato sindaco, versare i contributi previdenziali per il boy scout di Rignano. Matteo Renzi viene ceduto insieme alla parte sana della Chil Post del padre Tiziano Renzi alla Chil Promozioni, poi trasformata in Eventi6, della madre Laura Bovoli. Il contratto viene firmato l’8 ottobre 2010. Tiziano Renzi cede alla moglie auto, furgoni, muletti, capannoni e altri beni per 173 mila euro complessivi e uno stato patrimoniale con 218.786 euro in attivo e 214.907 in passivo: la differenza ammonta a 3.800 euro, prezzo che viene corrisposto per la cessione. Dopo appena sei giorni, il 14 ottobre 2010, Tiziano Renzi torna dal notaio e trasferisce la sede della Chil Post srl a Genova, sidimette da presidente e nomina suo sostituto Antonello Gabelli di Alessandria. Passano altre tre settimane e il 3 novembre 2010 cede l’intera proprietà della società a Gian Franco Massone. Ma l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 100 mila euro di cui 496 mila euro di esposizione con la banca Credito Cooperativo di Pontassieve guidata da Matteo Spanò, uno dei fedelissimi di Matteo Renzi che lo ha nominato prima alla guida della Florence Multimedia e poi al Museo dei Ragazzi del Comune di Firenze e da qui, Spanò, ha affidato appalti alla sua società, Dotmedia. Sia l’esposizione con la banca sia i debiti verso i fornitori non vengono ripianati e Massone dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il tribunale fallimentare, esaminando gli atti, trova inusuale la cessione fatta alla Eventi 6. In particolare il fatto che vengano trasferite alla società della moglie di Tiziano Renzi solo le passività necessarie a pareggiare nello stato patrimoniale le voci in attivo come un debito con la Cassa di Risparmio di Firenze per complessivi 185 mila euro. Il dubbio è che per trasferire i contratti in essere per la distribuzione dei giornali – tra cui Il Messaggero e quelli del gruppo L’Espresso – e i vari beni, come le auto e i capannoni, Tiziano Renzi abbia trasferito solo i debiti necessari a far figurare il pareggio lasciando nelle mani di Massone il grosso del debito.
LA PROCURA DI GENOVA nel corso delle indagini ha individuato anche vecchi creditori della Chil Post che hanno raccontato di aver tentato di farsi pagare le fatture arrivando a presentarsi nella sede genovese della Chil Post, trovando però due stanze vuote e abbandonate invece degli uffici. Neanche una scrivania. L’indagine disegna il padre di Renzi come un furbetto di provincia che adotta il più classico dei metodi per evitare di pagare i propri debiti. Lui, contattato telefonicamente, ha negato ogni addebito: “Abbiate rispetto per un indagato”. In serata ha inviato un comunicato, senza però entrare nel merito delle indagini. “Alla
veneranda età di 63 anni e dopo 45 anni di attività professionale ricevo per la prima volta nella mia vita un avviso di garanzia. I fatti si riferiscono al fallimento nel novembre 2013 di una azienda che io ho venduto nell’ottobre 2010. Sono certo che le indagini faranno chiarezza ed esprimo il mio rispetto non formale per la magistratura inquirente ma nel dubbio, per evitare facili strumentalizzazioni, ho rassegnato le dimissioni da segretario del circolo del Pd di Rignano sull’Arno”.
Il procuratore capo di Genova, Michele di Lecce, ha annunciato che potrebbero esserci anche altri indagati. Al momento, insieme a Tiziano Renzi, il fascicolo sulla bancarotta fraudolenta coinvolge gli amministratori Gabelli e Massone, nessuno della Eventi6. La società beneficiaria dei rami sani dell’azienda tra cui la distribuzione dei giornali e di proprietà della mamma di Renzi e delle sorelle, Matilde e Benedetta.

La Stampa 19.9.14
Tiziano il cattolicissimo al cui confronto il figlio passa per uno pacato e prudente
di Mattia Feltri


Da qualche tempo in qua a Rignano sull’Arno è vietato bestemmiare. Specialmente dentro il Pd e nelle zone limitrofe, ed è una bella stranezza poiché da quelle parti si fa vilipendio al creatore per intercalare, o perché si è maledetti toscani e mangiapreti. E però il segretario del partito è Tiziano Renzi, sessantatré anni, che è molto credente e appena gli riesce si imbarca per i pellegrinaggi, specialmente a Medjugorje, della cui Madonna è un gran devoto. Non sono mica tante le passioni di Tiziano: la religione, i sigari che gli impegnano la bocca da accesi e da spenti, il campo di bocce per il quale si è fatto in quattro e su cui ingaggia qualche sfida serale, le grigliate di carne in giardino, naturalmente la politica, ambito nel quale si è guadagnato il titolo di pazzo di famiglia, e la famiglia è quella del figlio Matteo, il premier. A Rignano dicono che, e in paragone al babbo, Matteo è un apostolo della pacatezza e della prudenza. Il fumantino, il vulcanico, l’imprevedibile è il babbo, vecchio democristiano di sinistra, dunque sostenitore di Aldo Moro e del compromesso storico, fedele a Benigno Zaccagnini e, prima che il ragazzo si trasformasse nel Rottamatore, era bindiano, e ci si ricorda di quando Rosi veniva al paese per dare un mano a padre e figlio. Ora ci spargerebbe sopra il sale.
E insomma, Tiziano è quello che non si tiene: quando litigava col sindaco comunista per una settimana non andava più alla Coop a fare la spesa (fantastico aneddoto raccontato nei suoi libri su Renzi jr da David Allegranti), ma almeno il sindaco comunista non era suo parente: a Rignano si è visto Renzi sr intervenire in assemblee del partito democratico per circostanziare la grullaggine dell’erede, e senza tanti giri di parole. Tiziano non è certo uno da partito liquido e organizzazione orizzontale, lui è cresciuto col solido partitone novecentesco, dove c’è una gerarchia e si ubbidisce, e quelli buoni vengono selezionati dall’alto, non dalle primarie che - dice Tiziano - son cose da furbini e non per forza premiano i migliori. Ma se servisse la precisione di un virgolettato, ecco quello che affidò a Chi, in una indimenticabile intervista parallela genitore-ragazzo: «Quando penso a voi figli, non sono orgoglioso di te. Sono orgoglioso, casomai, della scelta di tuo fratello Samuele, medico, che ha lasciato Firenze per non essere accusato di essere un raccomandato. Adesso è in Svizzera e nessuno può dirgli di esserci arrivato grazie alle spinte (...) Dovete rottamare anche qualche giovane, tra quelli che non hanno voglia di sognare. Troppo comodo fare solo una rivendicazione anagrafica. Mandate a casa anche quei ragazzi che sono giovani solo sulla carta d’identità, ma pigri dentro». Ce l’aveva proprio con Matteo, che gli aveva appena detto: babbo, hai l’età di Pierluigi Bersani, fatti da parte. Non lo fece, ma ora gli è toccato: ieri ha annunciato che lascerà la segreteria del Pd di Rignano, che pure conservava in attesa di congresso. Un’indagine non ammette indugi.
Eppure, negli ultimi tempi, Tiziano cercava di non essere d’intralcio a Matteo: aveva promesso di levarsi da Facebook («ogni mio sospiro diventa uno tsunami») dopo una spettacolosa lite con Piero Pelù. «Sappiamo bene quanto il padre di Renzi sia uno dei grandi capi della massoneria toscana, ha in mano molta informazione», fu l’accusa un po’ facilotta e un po’ canagliesca. La risposta fu istintiva come una scazzottata: «Sono onorato di non conoscere quel personaggio che spara merda sulla mia famiglia, di essere agli antipodi morali, sociali, economici e spirituali di chi, per vendere un disco in più dà aria alla bocca emettendo rantoli indecifrabili. Io uso la bocca per nutrirmi, buon pranzo a tutti. Augh». Buon pranzo, ma anche buon lavoro: Tiziano si occuperà dei nove nipoti che gli hanno dato i quattro figli, cercherà di realizzare il sogno un po’ folle di collegare i tre outlet di zona via Arno, coi traghetti, e quando Matteo andrà a trovarlo gli dirà, come ogni santa volta: «A me quella Boschi lì mi è simpatica come un dito in un occhio». Va bè, non dice occhio.

Corriere 19.9.14
L’ambulante di scampoli diventato proprietario
di Erika Dellacasa


GENOVA — Un venditore ambulante di settantacinque anni, che partecipava alle fiere nel Basso Piemonte e nella Riviera ligure con la sua bancarella di «mercerie, chincaglierie, scampoli e tessuti», Gianfranco Massone, è la persona cui nel 2010 Tiziano Renzi ha ceduto la società Chil Spot ormai ridotta a una scatola vuota e destinata al fallimento. Una cessione che ha sollevato dei dubbi da parte dei pubblici ministeri genovesi, così come la nomina — seguita da lì a poco — dello stesso Massone come amministratore in una cooperativa fiorentina. Che il venditore ambulante originario  di Borghetto d’Orba e residente a Varazze sia anche un abile amministratore da richiamare in altre Regioni può essere solo un caso. Massone è indagato insieme con Tiziano Renzi in base agli articoli 213 e 223 della legge fallimentare, gli articoli relativi alla bancarotta fraudolenta che recitano come l’imprenditore che abbia «distratto, occultato, dissoluto, distrutto o dissipato in tutto in parte i suoi beni» per danneggiare i creditori è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Il terzo indagato — ma potrebbero seguirne altri — è Antonello Gabelli, ultimo amministratore unico della Chil Spot che ha mestamente assistito il 19 aprile del 2013, come recita il verbale, all’ultimo atto del sequestro dei beni della Chil Spot ad Alessandria, ultima sede della società. Ha consegnato all’incaricato del curatore fallimentare otto palmari Motorola, quattro telefoni da tavolo e un cellulare, una stampante Zebra e poco altro. Avvisato che se avesse occultato altri beni di qualunque natura rischiava grosso, Gabelli ha dichiarato «che nessun altro bene esiste oltre quelli già inventariati». E con quel magro bottino il curatore ha chiuso il verbale.

il Fatto 19.9.14
Il figlio sapeva da lunedì: “Ora tutti zitti”


Bocche cucite, toni bassi, tendenza a sminuire. Quando arriva la notizia che il padre di Matteo Renzi, Tiziano, è indagato dalla Procura di Genova per bancarotta fraudolenta, a Montecitorio non c’è uno del Pd che parli di giustizia a orologeria o vendetta dei magistrati, come fanno invece Forza Italia e Ncd. Eppure è strisciante, tra i renziani, il sospetto che l’indagine su Tiziano Renzi sia l’effetto del duro braccio di ferro aperto tra il presidente del Consiglio e la magistratura sulla riforma della giustizia. Ma il premier silenzia i suoi: non c’è nessun complotto, nessuna giustizia a orologeria, la giustizia farà il suo corso e in ogni caso c’è la massima serenità che l’inchiesta si risolverà in un nulla di fatto.
“Un fatto privato. Pd e governo non c’entrano”, dice solo David Ermini, renzianissimo neo responsabile Giustizia del Pd. La linea, insomma, è di tenere bassa la polemica, evitare di dire troppo, cercare di far passare il più possibile la notizia sotto silenzio. Ma il problema di come reagire a livello comunicativo se lo pongono, eccome.
A Firenze c’è una riunione di avvocati, una sorta di war room per capire quali strategie mettere in campo. A Palazzo Chigi si vede entrare il guardasigilli, Andrea Orlando (“Renzi non l’ha nemmeno visto, era lì per altri motivi”, spiegano però i suoi). Ma lo stesso Matteo, Luca Lotti e lo spin doctor portavoce, Filippo Sensi, cercano di capire come gestire la notizia. A un certo punto, si diffonde la voce che ci sarà addirittura una nota ufficiale. Poi, invece, esce solo una nota di Renzi senior.
A Tiziano l’avviso di garanzia è stato notificato lunedì sera. È di martedì il discorso al Parlamento, in cui il premier aveva usato toni forti per ribadire una posizione garantista: “Arrivare a sentenza preventiva sulla base dell’iscrizione nel registro degli indagati è un atto di barbarie. Noi aspettiamo le indagini e rispettiamo le sentenze”. E poi si era lanciato in un’aperta difesa di Eni contro “gli avvisi di garanzia citofonati ai giornali”. Renzi sapeva già dell’indagine a carico di suo padre? Difficile pensare il contrario. Anche se commenta chi li conosce entrambi: “Può darsi che Tiziano non gliel’abbia detto, per non farlo arrabbiare”.
A Montecitorio ci si interroga: a chi conviene indebolire il premier, a prescindere dalle questioni aperte con i magistrati. In un momento in cui Renzi piace meno all’intellighenzia nazionale e i magistrati sono sotto attacco continuo, difficile non prendere in considerazione la teoria del complotto. Ma nessuno la cavalca. Meglio il silenzio.

il Fatto 19.9.14
La cassa di famiglia, gli strilloni del Perù e il tfr di Matteo
Il premier, grazie alla ditta paterna ha juna buona anzianità contributiva e un trattemento di fine rapporto tenuto al sicuro
di Marco Lillo


La ruota della fortuna ha girato contro la Chil, ma anche contro Matteo Renzi ieri. Perché anche se il premier (dopo la campagna del Fatto sui suoi contributi pensionistici pagati dai contribuenti) non è più un dipendente dell’azienda di famiglia da qualche mese e anche se non lo era della Chil Post fallita dal 2010, la storia della società nel mirino della Procura di Genova è anche la sua storia. A partire dal passaggio chiave nel mirino dei pm: la cessione della storica Chil srl (previo cambio del nome in Chil Post srl) da Tiziano Renzi all’imprenditore genovese Gianfranco Massone. Un minuto prima di cedere la Chil Post il ramo d’azienda che faceva marketing editoriale, viene ceduto alla Chil Promozioni, nata 3 anni prima, che resterà dei Renzi cambiando nome in Eventi6. Matteo Renzi non è protagonista di questa manovra del padre Tiziano ma l’allora sindaco di Firenze viene tirato in salvo dal babbo come dipendente in aspettativa sulla scialuppa di Eventi6 mentre la nave di Chil salpa verso il naufragio di Genova. E insieme a lui si salvano anche il tfr accumulato e il diritto ai contributi figurativi che continueranno a essere versati dal Comune di Firenze fino al 2013, come prima aveva fatto la Provincia, a partire dal 2004.
IL RAMO D’AZIENDA ceduto dalla società poi fallita, compreso il dipendente-sindaco e il furgoncino Pavesi simbolo della campagna elettorale del 2009, viene pagato dalla Eventi6 solo 3 mila e 878 euro. Fonti vicine ai Renzi però dicono: “Alla Chil Post non furono lasciati solo i debiti come dice la Procura ma anche un portafoglio clienti di un milione e 87 mila euro. I dipendenti sono rimasti con noi per non lasciare spese sull’acquirente per il quale la madre di Matteo ha rilasciato 200 mila euro di assegni circolari per garantire l’anticipo fatture”. Insomma, questa storia va ancora chiarita e non riguarda penalmente Matteo Renzi ma certamente lo addolora. Tutto nella Chil profuma di Matteo. A partire dal nome. Certo tra i personaggi del Libro della Giungla richiamati durante le attività dei boy scout babbo Tiziano ne poteva scegliere uno che portasse meno sfiga. Chil, Tiziano lo sa, è l’avvoltoio. Il personaggio perfetto per incarnare il reato di bancarotta realizzato da chi approfitta di un’azienda moribonda e si porta via i beni migliori. Tiziano Renzi avrà scelto questo nome per la sua società di distribuzione di giornali pensando alle “Parole Maestre” di Chil nel mondo dei boy scout: “Siamo dello stesso sangue, tu e io”. Questa frase deve essere tornata in mente a Matteo quando nel 1994, a 19 anni, vince 48 milioni di vecchie lire alla Ruota della Fortuna, due giorni prima del celebre discorso di Mike Bongiorno a favore della discesa in campo del Cavaliere. Matteo mette i soldi nella società di papà e mamma, creata sei mesi prima. Grazie anche ai soldi di Canale 5, Chil diventa una delle maggiori società italiane nella vendita dei giornali con gli strilloni ai semafori. Il giovane Matteo negli anni ’90 è socio al 40 per cento mentre la sorella maggiore Benedetta detiene il restante 60 per cento. La madre è presidente, babbo Tiziano è l’anima. Matteo Renzi in uno dei suoi primi curriculum si spaccia per dirigente e fondatore in realtà sul piano formale era un co.co.co. e guadagnava 14 mila euro all’anno fino all’ottobre 2003, quando la Margherita lo candida alla Provincia. Un giorno prima dell’annuncio del suo partito il 27 ottobre 2003 la Chil trasforma il suo contratto da co.co.co. a dirigente mentre le sorelle Matilde e Benedetta sono co.co.co. ancora oggi. La famiglia paga lo stipendio e i contributi a Renzi per pochi mesi poi, dopo l’elezione, sono i contribuenti a pagare per 9 anni a Renzi i contributi pensionistici. La
legge infatti prevede che sia l’ente locale a pagare al posto della Chil. Quando la società passa a Massone e Renzi viene ceduto con il ramo di azienda alla Eventi 6 il tfr è 28 mila euro.
IL PREMIER ha deciso di dimettersi questa estate, dopo la nostra richiesta, e gliene abbiamo dato atto. Il tfr dovrebbe essere di circa 40 mila euro. La Chil distribuiva Repubblica, Il Secolo XIX, Il Messaggero e soprattutto Nazione e Resto del Carlino. Tutte lemattine Matteo andava in auto all’alba al garage Europa di Borgo Ognissanti con il suo furgone e consegnava agli strilloni della Chil i pacchi dei giornali e le istruzioni per la giornata. Chil ha smesso di fare strillonaggio proprio quando Renzi è diventato presidente della Provincia. C’erano troppi strilloni extra comunitari. Tra
questi il celebre Manuel: un peruviano con 27 cugini, tutti senza permesso di soggiorno. Prendeva i giornali, li portava alla stazione di Firenze, girava l’angolo e li dava a un extracomunitario irregolare a cui consegnava la casacchina. Non era il massimo per un presidente della Provincia e Chil rinunciò al business. Matteo Renzi e il padre inventavano idee per spingere i clienti a comprare gli allegati. Se c’era la Divina Commedia con La
Nazione spuntava all’edicola un ragazzo vestito da Dante. C’era il cd con la musica classica? Ecco un Verdi con barba e cappello. I Renzi erano i più bravi nell’accalappiare i lettori. Il fatturato negli anni d’oro ha superato i 7 milioni di euro. Intanto Chil Post falliva. Ora i pm di Genova vogliono capire se quel destino era già scritto.

il Fatto 19.9.14
Carrai, la sposa e le scorte
Nozze blindate, l’ex sindaco testimone. Chiuso anche il cimitero
Per i regali si va al negozio dei genitori di lei: già spesi oltre 76 mila euro dagli amici
di Da. Ve.


Guardi è quasi tutto finito ormai, ma se non può venire di persona può guardare il sito, qualcosa lo troviamo sicuramente”. Al negozio Parenti di via Tornabuoni, il salotto buono di Firenze, la lista nozze per il matrimonio tra Marco Carrai e Francesca Campana Camparini è andata quasi esaurita. Si parla di regali per 76.724 euro esatti. E la lista è già stata aggiornata due volte da Francesca, del resto il negozio è di proprietà dei genitori. I trecento invitati alla cerimonia hanno usato le password inviate dai futuri coniugi per accedere all’area riservata del sito Parenti così da acquistare i regali online. In particolare gli amici residenti all’estero, come Michael Leeden e Davide Serra che hanno confermato la loro presenza alla mail 27settembre2014@gmail.com creata ad hoc da Francesca. Assente, almeno al momento, Maria Elena Boschi che in realtà, confidano le amiche della futura sposa, non è stata invitata perché non ha alcun tipo di rapporti con Carrai. Mentre Agnese e Matteo Renzi hanno accettato di fare da testimoni alla coppia di amici. Della compagine governativa sarà presente Luca Lotti e moglie, Cristina Mordini, ancora oggi dipendente del Comune di Firenze. Ovviamente ci sarà il sindaco, Dario Nardella. Che è l’unico ad avere dei problemi a causa del matrimonio. La coppia ha infatti avuto il permesso vescovile per sposarsi nella cattedrale di San Miniato a Monte, il luogo più alto e suggestivo di Firenze, affacciato su piazzale Michelangelo e circondato da un cimitero comunale che in occasione della cerimonia, prevista per le 16, dovrà essere chiuso alle due del pomeriggio. La coppia ha ovviamente chiesto il massimo della riservatezza possibile e la presenza del premier permetterà di adottare misure di sicurezza elevate per chiudere gli accessi alla basilica. Che sono solamente due: uno laterale per le auto e uno frontale, pedonale. Oltre agli agenti delle scorte al seguito dei membri dell’esecutivo, saranno impiegate uomini delle forze dell’ordine e alcuni vigili urbani. La collina sarà sostanzialmente blindata, cimitero, viali e basilica off limits ai turisti che a centinaia solitamente raggiungono San Miniato. Nessuna tragedia secondo padre Bernardo, il superiore che sabato 27 celebrerà il matrimonio. Padre Bernardo conosce bene la coppia, l’ha guidata nel percorso pre matrimoniale durato più di un anno, dice. Inoltre Carrai è affezionato alla basilica tanto da portare ogni anno alla messa della vigilia di Natale i soci di Firenze Pargheggi, la controllata del Comune che ha guidato fino al 2013. Dopo la cerimonia gli invitati si sposteranno a villa Corsini a Mezzomonte all’Impruneta. Uno dei luoghi più belli e riservati nei dintorni di Firenze. Anche qui le forze dell’ordine che seguono il premier garantiranno la necessaria serenità ai novelli sposi.

il Fatto 19.9.14
Dago, De Benedetti scarica il boy scout: “Non vale niente”

IL PATRON di Repubblica, Carlo De Benedetti, scarica Matteo Renzi. L’indiscrezione – pubblicata da Dagospia – sarebbe tratta da un colloquio telefonico tra l’imprenditore ed Eugenio Scalfari. Questa pressappoco la frase pronunciata da De Benedetti: “Caro Eugenio, avevi ragione, Renzi non vale niente”. Parole pesanti, perché proverrebbero da uno degli editori che più aveva puntato sul politico di Rignano sull’Arno. L’ammissione dell’imprenditore avrebbe messo di ottimo umore Scalfari. Anche il fondatore di Repubblica infatti – dopo l’iniziale infatuazione collettiva per il premier – ha recentemente criticato alcune sue mosse. Sulla candidatura di Mogherini alla Commissione Ue, Scalfari ha definito Renzi un “pifferaio”, mentre dopo il vertice europeo di giugno aveva definito la politica del premier “un gioco di immagini e di specchi a cui la realtà corrisponde solo parzialmente”.

Corriere 19.9.14
«L’inglese di Renzi? Da sei meno»

In inglese, Matteo Renzi se la cava... appena appena: «Con raccomandazione».
O, almeno, è questo il giudizio  di un’insegnante molto particolare come  il ministro alla Pubblica istruzione, Stefania Giannini: «Se devo fare la professoressa — ha detto la responsabile della scuola italiana —, allora io giudico Renzi come uno scolaro, e per il suo inglese gli do un sei meno. Diciamo che sarebbe promosso con molta raccomandazione..». Così il ministro ha risposto alla domanda dei conduttori
di Un giorno da pecora su Radio 2 Rai.
La glottologa toscana, già rettore dell’Università per stranieri di Perugia, in radio ha annunciato che lo studio della lingua inglese nei prossimi anni sarà rafforzato anche nella scuola dell’obbligo: «Dal primo settembre 2015 introdurremo lo studio dell’inglese dalla prima elementare».

il Fatto 19.9.14
Il Pd si sbarazza pure di “Europa”: liquidazione

DOPO L’UNITÀ, tocca a Europa: Edizioni Dlm Europa, la società editrice del quotidiano ha annunciato la messa in liquidazione volontaria del giornale house organ del Partito democratico. L’Unità ha sospeso le pubblicazioni lo scorso 31 luglio scorso. “Europa, dopo aver dato il suo contributo appassionato e leale alla storia del Pd, va in liquidazione volontaria, con i conti in ordine e in pieno equilibrio patrimoniale“: questo il comunicato del presidente della società, Enzo Bianco, e del suo vice, Arnaldo Sciarelli. La nota si conclude così: “Speriamo che la storia continui accanto a quella del progressismo italiano ed europeo”. La possibile messa in liquidazione era stata annunciata già il 12 luglio scorso. Dura la replica del comitato di redazione: “I redattori di Europa hanno appreso con sconcerto che l'assemblea di Edizioni Dlm Europa ha disposto la messa in liquidazione volontaria della società, dando mandato al liquidatore ad avviare le procedure di cessazione delle pubblicazioni. Da oltre sei mesi, i redattori di Europa attendono la concretizzazione dell'impegno della società e di esponenti del Partito democratico a rilanciare la testata.

Corriere 19.9.14
Il quotidiano «Europa» è in liquidazione

A meno di due mesi dalla chiusura dell’Unità, la storica testata della sinistra italiana, rischia di arrivare alla fine della sua corsa anche l’altro quotidiano di area dem. La testata Europa ha infatti annunciato la prossima sospensione delle pubblicazioni per «liquidazione volontaria con i conti in ordine e in pieno equilibrio patrimoniale». Così il presidente della società Edizioni Dlm Europa, Enzo Bianco, e il suo vice Arnaldo Sciarelli: «Speriamo che la storia continui. Ci sono le condizioni aziendali e strategiche perché questo possa avvenire». Dura la redazione, che in un comunicato dal titolo «Ora azienda e Pd ci dicano la verità» definiscono la notizia «irricevibile tanto più perché non motivata da urgenze finanziarie».
Il segretario della Fnsi Franco Siddi osserva che «la liquidazione di un giornale non è la stessa cosa di un qualsiasi atto liberatorio per allontanare un possibile problema a venire».

Repubblica 19.9.14
Il quotidiano Europa va in liquidazione La redazione si ribella: i conti sono in ordine

ROMA . “Europa” (quotidiano dell’ex Margherita) in liquidazione, ma il comitato di redazione insorge: «Siamo sconcertati, i conti sono a posto, perché chiudere?».
L’editrice “Edizioni dlm Europa”, ha disposto la messa in liquidazione volontaria della società (nonostante per il cdr i conti siano «in ordine e ci sia pieno equilibrio patrimoniale»). E ha dato mandato al liquidatore di avviare le procedure di cessazione delle pubblicazioni. I redattori attendono da sei mesi che la società e esponenti del Pd rilancino la testata. Il presidente dell’editrice, Enzo Bianco, ha dichiarato che esistono «le condizioni aziendali e strategiche» perché la storia di “Europa” possa continuare.

«ai consiglieri 240 mila euro al netto degli oneri contributivi, agli stenografi 170 mila euro, ai documentaristi 160 mila, a segretari e i coadiutori 115 mila, ai collaboratori tecnici 106 mila e ai commessi 99 mila»...
Repubblica 19.9.14
"Un tetto agli stipendi di Camera e Senato". Dipendenti in rivolta
La proposta Grasso e Boldrini: tagli agli assistenti e ai burocrati. ma 23 sigle sindacali contestano la decisione: "Irricevibile"
di Carmelo Lopapa

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il Fatto 19.9.14
Sotto la lente dei Pm il cuore nero dei servizi segreti
Dopo la lettera minatoria al Pg di Palermo Scarpinato, la Procura analizza le fibrillazioni degli apparati e il filo che lega il caso Mori, la trattativa e l’ultimo Riina
di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Nell’ottobre del 2012, nell’ambito di una nuova convenzione, i servizi chiesero al capo del Dap un’informativa dettagliata sul detenuto Rosario Pio Cattafi, già interrogato da pochi giorni dalla Procura di Messina ed in procinto di essere sentito dai pm di Palermo nell’ambito delle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Lo ha rivelato ai pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia l’ex capo del Dap Giovanni Tamburino (“mi chiesero informazioni su due o tre detenuti”) che ha detto che non gli risulta, “ma di non poterlo neanche escludere”, che i servizi segreti abbiano avuto accesso nelle carceri.
L’episodio che testimonia l’interesse della Procura per il filone d’indagine aperto dal cosiddetto “protocollo farfalla”, è oggi uno dei segnali di fibrillazione da parte degli apparati che vengono analizzati, insieme ad altri, per decifrare identità e obiettivi del misterioso “postino” che ha recapitato “a mano” la busta con la lettera minatoria sul tavolo del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato.
IN QUESTE ORE in Procura si rileggono gli episodi di una cronologia investigativa che parte appunto dal giugno luglio 2013, quando i pm Teresi, Di Matteo e Tartaglia varcano la soglia di Forte Braschi, sede dell’Aise, per chiedere l’acquisizione di una serie di fascicoli riguardanti la Fa lange Armata ma anche quello del dottor Giancarlo Amici, nome in codice del generale Mori. Pochi giorni prima, sempre a giugno, Riina rompe il suo ventennale silenzio, e confida ad un agente della polizia penitenziaria, che redigerà un verbale, che “erano loro che mi cercavano, io non cercavo nessuno”, con chiara allusione ai contatti con pezzi de viati dello Stato. Circa un mese dopo, il 17 luglio, arriva la sentenza di primo grado che assolve gli ufficiali Mori e Obinu e ad agosto, acquisite le relazioni della polizia penitenziaria, i pm mettono sotto osservazione audio e video Totò Riina, nei suoi passeggi all’ora d'aria nel carcere di Opera, con la conseguente produzione-fiume del “Riina pensiero” su 40 anni di storia criminale in Sicilia e fuori dall’isola. Quell’estate che si annuncia “rovente” viene ulteriormente riscaldata sottotraccia dalle acquisizioni di fascicoli riservati a Forte Braschi e dai conseguenti interrogatori di alcuni dipendenti ed ex dipendenti del Sismi che offrono nuovielementi di valutazione ai pubblici ministeri, giunti ad identificare il criptonimo del generale Mori partendo da un verbale reso a Brescia nel ’74 dal giornalista Gianfranco Ghiron, fratello dell’avvocato che diventerà anni dopo legale e “front man” di Vito Ciancimino.
È IN QUESTO PERIODO che si intensificano gli scritti anonimi giunti in Procura e a casa del pm Nino Di Matteo, dopo che a fine giugno qualcuno era entrato a casa di Roberto Tartaglia, portando via la chiavetta sulla quale aveva riversato gli atti acquisiti all’Aise. A fine 2013 arrivano le rivelazioni di Sergio Flamia che depotenziano la credibilità di Luigi Ilardo, il boss che ha raccontato la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso, sulle quali la Procura accende immediatamente i riflettori investigativi, visto che lo stesso Flamia era stato intercettato in un’altra indagine rivelando i detttagli di una precedente e lunga collaborazione con i servizi dai quali, si sospetta, possa essere stato condizionato.
Dal Sudafrica, infine, è giunta recentemente la conferma che la richiesta di rogatoria avanzata a luglio del 2013 per sentire Gianadelio Maletti è arrivata a Johannesburg ed è tuttora all’esame del ministero di Giustizia sudafricano. All’ex numero 2 del Sid, condannato per depistaggio della strage di piazza Fontana, i pm vogliono chiedere le ragioni che lo spinsero, nel 1975 quand’era a capo del controspionaggio e subito dopo l’arresto di Vito Miceli, a scrivere al direttore del Sid Mario Casardi per invitarlo ad allontanare Mario Mori “nel più breve tempo possibile”. La richiesta viene accolta, Mori resta in esilio tre anni, e quando nel 1978 l’Arma prova a far tornare Mori a Roma, il Sid risponde picche, “fino alla conclusione del processo sul golpe Borghese”, tra i cui imputati c'era Vito Miceli, storico avversario di Maletti.

Repubblica 19.9.14
“Il pentito di mafia pagato dai Servizi” l’indagine segreta che agita Palermo
Fascicolo di Scarpinato sull’uomo di Provenzano che aveva smentito il teste-chiave sulla Trattativa
di Salvo Palazzolo


PALERMO Una nuova indagine antimafia corre dentro il cuore delle istituzioni. Ormai da un mese e mezzo, in gran segreto. Il procuratore generale Roberto Scarpinato ha riaperto uno dei capitoli più oscuri della storia d’Italia, quello dei rapporti fra uomini della mafia ed esponenti dei servizi segreti. Ed è andato dritto a una storia attualissima, che è emersa all’improvviso a giugno. Una storia che racconta dei contatti stretti fra uno degli ex fedelissimi di Bernardo Provenzano, il capomafia di Bagheria oggi pentito Sergio Flamia e alcuni 007 dell’Aisi, il servizio segreto civile. Secondo la ricostruzione della procura generale, sono stati contatti equivoci, che si sarebbero ripetuti fino a pochi mese fa. Fra Palermo e Bagheria. Addirittura, dentro un carcere. Non è ancora chiaro perché.
Nel pieno di questa delicatissima indagine è arrivata l’irruzione nella stanza di Scarpinato, il 3 settembre, con il recapito di una lettera anonima sulla scrivania. «Lei sta esorbitando dai suoi compiti e dal suo ruolo», gli hanno scritto. «Noi non facciamo eroi», hanno aggiunto. Minaccia evidente di colpire in modo subdolo. Magari con una calunnia, una terribile bugia. Una minaccia da «menti raffinatissime ».
Al momento, è solo un’inquietante coincidenza temporale: l’indagine sui servizi segreti e le minacce. Ma, adesso, questa coincidenza è anche una delle piste principali seguite dal procuratore di Caltanissetta Sergio Lari per cercare di decifrare il raid nella stanza di Scarpinato.
Di sicuro, l’indagine sugli 007 siciliani continua ad essere in pieno svolgimento. E il procuratore generale di Palermo la sta conducendo in stretto contatto con i colleghi della procura che cercano dentro i segreti della trattativa Stato-mafia. Così, passato e presente dei rapporti fra Cosa nostra e uomini delle istituzioni sono tornati dentro un’unica grande lente d’ingrandimento. A partire da Flamia, che è un pezzo di storia di Cosa nostra. Lo racconta lui stesso, perché da qualche mese ha deciso di diventare un collaboratore di giustizia a tutti gli effetti. È il colpo di scena di questa storia. E anche la genesi della nuova indagine sui servizi segreti.
Dopo anni di frequentazioni con gli 007, Flamia ha deciso infatti di ufficializzare il suo ruolo. È avvenuto all’indomani dell’ennesimo arresto dei carabinieri, che l’avevano sorpreso a fare estorsioni a Bagheria. L’ormai ex boss ha confessato anche omicidi. E poi ha messo a verbale una frase sibillina su uno dei testimoni chiave del processo trattativa Stato-mafia, il boss Luigi Ilardo. «Si diceva di lui che era un confidente, lo tenevamo a distanza». Tradotto: non è possibile che abbia incontrato il capomafia Provenzano, il 31 ottobre 1995, il giorno del mancato blitz contestato al generale dei carabinieri Mario Mori. La chiosa di Flamia sembra dunque mettere in crisi un pezzo del processo per la trattativa, e potrebbe chiudere velocemente il processo d’appello per Mori, già assolto in primo grado dall’accusa di aver protetto la latitanza di Provenzano. I magistrati del pool Stato-mafia ne hanno preso atto, anche perché intanto le dichiarazioni del neo pentito avevano fatto arrestare una cinquantina fra boss ed esattori del pizzo. Subito dopo, però, sono iniziate le indagini sul passato di Flamia. Era l’inizio di giugno. I primi contatti con i servizi segreti sono saltati fuori in alcune intercettazioni conservate negli archivi della procura: erano state fatte dalla squadra mobile, che fra il 2008 e il 2009 aveva indagato sulla mafia di Bagheria. I pm del processo trattativa hanno approfondito, interrogando Flamia. E lui stesso ha ammesso a denti stretti di avere preso soldi dagli 007, circa 150 mila euro. Ha raccontato di essersi consultato con loro in un momento determinante della sua carriera criminale, la «punciuta» rituale. In quell’occasione, un esponente dell’intelligence lo avrebbe invitato ad intensificare la sua partecipazione in Cosa nostra.
È una storia dai contorni ancora poco chiari. Flamia avrebbe ammesso candidamente che gli 007 si sono fatti vivi persino dopo l’inizio della sua collaborazione con i magistrati. Un episodio strano, perché durante i sei mesi previsti dalla legge per le dichiarazioni del neo pentito, solo la magistratura può avere contatti con i mafiosi che decidono di passare dalla parte dello Stato.

il Fatto 19.9.14
L’Eliseo di Roma. Un buco da 10 milioni
Chiude il teatro di Eduardo: diventa sala giochi?
Il mito dei palcoscenici della Capitale che ospitò De Filippo, Magnani e Strehler, ma anche Berlinguer, è stato sfrattato
Il suo destino segue quello del Valle e del Cinema America
di Tommaso Rodano


I lavoratori del Teatro Eliseo di Roma sono in assemblea permanente per combattere contro l’ipotesi di sfratto e di chiusura dello storico palco di via Nazionale. Accolgono i giornalisti e raccontano la propria storia nella stanza adiacente a quello che una volta era il camerino di Eduardo De Filippo. Oggi è una sala spoglia, dalle pareti bianche: è diventata l’anticamera della sartoria. Non è stato solo Eduardo a rendere grande questo posto. Il palcoscenico dell’Eliseo – e del suo fratello minore, il Piccolo – è stato calcato da alcuni degli artisti più importanti della storia contemporanea di questo Paese: Anna Magnani, Giorgio Strehler, Giorgio Albertazzi, Andreina Pagnani, Gino Cervi. E poi, ancora in questi anni e in questi giorni, Umberto Orsini, Giancarlo Sepe, Maria Paiato.
L’ELISEO è anche una delle case storiche della sinistra italiana. È il luogo – tra gli altri – di Enrico Berlinguer e del suo “discorso sull’austerità” del 1977. Sempre all’Eliseo, nel 1991, si celebrò una delle sue infinite scissioni: quella di chi si rifiutò di aderire alla nascita del Pds e alla morte del Pci, e diede i natali a Rifondazione comunista.
Ora questo tempio della cultura romana e nazionale rischia di lasciare l’ennesimo vuoto. L’Eliseo è un teatro privato sin dalla nascita. Oggi il suo destino è anche una questione di famiglia. La società che possiede il palazzo si chiama Eliseo Immobiliare.
I soci proprietari sono tre: Carlo Eleuteri, Stefania Marchini Corsi e Vincenzo Monaci. Il figlio di quest’ultimo, Massimo, gestisce il teatro attraverso un’altra azienda, l’Eliseo Srl: Massimo Monaci è il responsabile, in pratica, sia della direzione artistica che di quella economica. Ecco il paradosso dell’Eliseo: la società del figlio è morosa nei confronti di quella del padre. Come lamentano gli altri soci dell’Eliseo Immobiliare, il canone d’affitto del palazzo di via Nazionale non viene pagato da quasi due anni. I debiti accumulati negli anni si avvicinano ai 10 milioni di euro.
L’ufficiale giudiziario ha già visitato l’Eliseo due volte, e per due volte ha posticipato la data dello sfratto. La spada di Damocle che pende sul teatro adesso è fissata al 30 settembre, tra due settimane scarse. Ma in questi giorni, per scongiurare lo scenario della messa dei sigilli, potrebbe sbloccarsi una delle trattative con gli imprenditori interessati a prendere in gestione lo stabile. La prima cordata, a lungo favorita, fa capo al gruppo alimentare Cavicchi, proprietario anche di una discoteca a Ciampino. Per questo motivo si è diffusa la voce – priva di riscontri – che il Piccolo Eliseo rischi di essere trasformato in una pista da ballo o addirittura in una sala giochi.
L’ipotesi più concreta, invece, ora è legata all’imprenditore teatrale Francesco Bellomo. Una soluzione sicuramente meno traumatica, che garantirebbe la continuità e la sopravvivenza del palcoscenico; una speranza per i trenta dipendenti fissi del teatro (e gli altri 250 e passa “stagionali” che lavorano all’Eliseo ogni anno) e per gli amanti dell’arte e della cultura di Roma.
Chiunque arriverà a gestire il teatro, in ogni caso, si troverà di fronte a una crisi drammatica, tra taglio dei contributi pubblici (il Fondo Unico per lo Spettacolo, progressivamente ridotto, oggi porta nelle casse dell’Eliseo 1.337.705 euro) e una diminuzione del pubblico che è diventata sempre più pesante a partire dal 2011.
IL MINISTRO della Cultura, Dario Franceschini, aveva incontrato i lavoratori dell’Eliseo il 10 luglio, rassicurandoli e promettendo l’avvio delle procedure per vincolare la destinazione d’uso del palazzo di via Nazionale. Stessa promessa fatta anche agli occupanti del cinema America di Trastevere, qualche settimana più tardi. L’America però è stato sgomberato pochi giorni dopo la sua visita.
Lo stato dell’arte e dei suoi luoghi, a Roma, è disarmante. C’è il Teatro Valle arrivato tra mille incertezze alla fine di un’occupazione durata oltre tre anni. Ci sono le tantissime sale dismesse e abbandonate: Metropolitan, Volturno, Gioiello, Pasquino, Paris e molti ancora. C’è la crisi – e un buco da 13 milioni di euro – del Teatro dell’Opera. E ci sono i numeri impietosi dell’ultimo rapporto di Federculture: dal 2012 gli spettatori nei cinema sono diminuiti del 5,7 per cento, nei teatri del 17%.

La Stampa 19.9.14
Vivere con un vicino perso nella follia
“Minacciato e aggredito, ho dovuto lasciare casa mia”
di Elena Lisa

qui

La Stampa 19.9.14
Cassazione: nozze nulle se il marito è “mammone”

qui

Corriere 19.9.14
I giudici dicono sì all’adozione per i single: la legge non la esclude
Riconosciuto in automatico un caso dall’estero
di Elena Tebano


Via libera all’adozione per una donna single: lo ha stabilito il Tribunale dei minori di Bologna. Il decreto, che risale allo scorso anno ma è stato reso noto solo ieri dal sito dell’associazione «Articolo 29», riguarda il riconoscimento dell’adozione di una bambina effettuata nel 2011 da un’italiana negli Stati Uniti.
In Italia l’adozione piena, cosiddetta «legittimante», è permessa soltanto alle coppie sposate da almeno tre anni e la decisione dei giudici bolognesi, anche se riguarda esclusivamente un legame già riconosciuto all’estero, costituisce un precedente pesante. «È un importante riconoscimento che apre possibilità di nuove soluzioni interpretative rispetto all’adozione, sia dei single che delle coppie non sposate — commenta l’avvocata che ha seguito la vicenda, Grazia Cesaro, presidente della Camera minorile di Milano e responsabile del settore internazionale Unione nazionale camere minorili —. In particolare la novità di questa sentenza è il riconoscimento automatico dell’adozione piena effettuata all’estero da una persona single». Cosa ben diversa, però, dall’aprire le adozioni estere ai single residenti in Italia.
Il decreto del Tribunale dei minorenni riguarda infatti il caso di una donna italiana che vive da tempo negli Stati Uniti, dove nell’aprile di tre anni fa ha adottato una bambina in base alla legge americana, che è molto più permissiva di quella italiana. La signora, assistita dall’avvocata Grazia Cesaro in collaborazione con l’avvocata Elena Merlini, ha poi chiesto al Tribunale dei minorenni di Bologna, la sua ultima città di residenza in Italia, di riconoscere la piccola come sua figlia a tutti gli effetti.
La legge italiana prevede per i single solo l’«adozione in casi particolari», quella cioè che riconosce un legame affettivo già saldo tra l’adulto e il minore, o per bambini che altrimenti verrebbero difficilmente adottati. Questo tipo di adozione è però molto limitata: fa mantenere al bambino il suo cognome (a cui viene aggiunto quello del genitore adottivo), non gli permette di acquisire legami di parentela con il resto della famiglia dell’adottante, e— soprattutto — è revocabile in qualsiasi momento. I giudici di Bologna hanno invece riconosciuto alla single un’adozione «legittimante», che la rende cioè a tutti gli effetti la madre della bambina, stabilendo che costituisce «un indubbio vantaggio per il minore» e che «non possa configurarsi contrasto tra il cosiddetto ordine pubblico italiano e il riconoscimento di effetti legittimanti all’adozione di una persona non coniugata».
Nel decreto i magistrati hanno comunque rimarcato come «nel nostro sistema legale l’adozione da parte di una coppia di persone coniugate rappresenti l’ipotesi prettamente preferita» e questo perché è interesse del minore, «ogni volta che ciò sia possibile», di «instaurare e mantenere uno stabile rapporto con una doppia figura parentale — che abbia quindi sia un padre, sia una madre». I giudici però rilevano anche che per quanto preferibile, non è l’unica forma possibile: «Ciò non esclude che, come purtroppo può avvenire anche nel corso di normali sviluppi della vita, si possa riconoscere in casi particolari la possibilità di creare un legame adottivo con una sola figura genitoriale». E quindi concludono che «l’adozione di una sola persona non è preferita dalla legge, ma non è certo esclusa».
«Nella loro decisione — sostiene l’avvocata Cesaro — c’è la presa d’atto che la famiglia monogenitoriale è ormai una realtà anche italiana: è un importante riconoscimento di una nuova struttura familiare. E dà una linea di indirizzo molto chiara che il legislatore dovrà seguire».

Repubblica 19.9.14
I gemelli divisi e una legge che non c’è
di Chiara Saraceno


L‘ASSENZA di una regolamentazione nazionale delle modalità in cui può avvenire la riproduzione assistita con donatore e/o donatrice sta già producendo i suoi effetti negativi. Sembrava che le linee guida approvate dalla conferenza delle regioni potesse avere un positivo ruolo di supplenza e di stimolo a ministra, governo e parlamento. Invece sta succedendo proprio quello che i piú ottimisti, me compresa, paventavano come rischio in una situazione giuridicamente non vincolante.
Nonostante le linee guida siano state approvate all’unanimità da tutte le regioni, alla prova dei fatti ciascuna ha deciso di interpretarle a proprio modo, creando un ennesima situazione di frammentazione e diversificazione dei diritti su base terri- toriale. Chi — limitatamente alle coppie eterosessuali — può accedere alla riproduzione assistita cosiddetta eterologa varia da regione a regione in base all’età e al costo, quindi al censo. E in alcune regioni non può farlo del tutto.
In questa assenza di una normativa condivisa, si rischia di tornare al far west che a suo tempo legittimò, come reazione, l’infausta legge 40, successivamente pressoché smantellata dalle diverse sentenze delle Corti.
Il caso di Cattolica, dove si programma di dare a due diverse coppie la possibilità di far nascere come proprio figlio/a uno ciascuno di due gemelli genetici, perché concepiti con la donazione incrociata di gameti e ovocita da parte di un partner per coppia, è frutto di questa mancanza di regolazione condivisa. È vero, come ha affermato una delle due aspiranti madri, la possibilità di ricorrere alla fecondazione assistita eterologa fa, inevitabilmente, sì che in giro per il mondo ci siano persone che dal punto di vista genetico siano mezzi fratelli/sorelle, pur non essendolo dal punto di vista legale, so- ciale, relazionale. Proprio per evitare che questa situazione si diffonda troppo, le linee guida preparate dalla commissione di esperti nominata dalla ministra Lorenzini avevano indicato in dieci il numero massimo di bambini nati con i gameti di un donatore/donatrice. Questa indicazione era stata recepita anche dalle linee guida regionali. La scelta dell’ospedale di Cattolica, invece, programma addirittura la nascita di due bambini che, se pur non avranno lo stesso patrimonio genetico, dato che si tratterà di gemelli eterozigoti, nati dalla fecondazione da parte di due diversi spermatozoi di due diversi ovuli, saranno tuttavia geneticamente totalmente fratelli. Per giustificare questa soluzione, i medici e le coppie si nascondono dietro la «praticità », se non fortuna, di poter disporre di due coppie a donatori incrociati, di cui si garantisce l’anonimato reciproco. È bello che ci siano donne disposte a donare i propri ovociti «in eccesso», prodotti nel percorso da loro stesse fatto nella riproduzione assistita. Per certi versi è meglio, o non aggiunge sovraccarichi e rischi per la salute, che nel caso di una donna che si sottopone a stimolazione ovarica solo a fini di donazione. Così come è bello che un uomo doni parte del proprio sperma in eccesso rispetto a quello necessario per la fecondazione degli ovuli della sua compagna. Ma occorrerebbe evitare incroci come quelli di Cattolica, soprattutto pensando a chi nascerà. È vero che il patrimonio genetico non è tutto, e che si diventa figli perché qualcuno accoglie e fa crescere. Ma produrre intenzionalmente due gemelli che non saranno mai fratelli/sorelle, e che in futuro potrebbero interrogarsi sulla casualità per cui sono diventati figli dell’una piuttosto che dell’altra coppia, mi sembra un passo che richiederebbe maggiore cautela e riflessione.

Corriere 19.9.14
Entro un anno in farmacia la cannabis terapeutica
Via alla produzione italiana Firmato l’accordo: gratuita su prescrizione
di Margherita De Bac


ROMA — La parola cannabis evoca fantasmi. È legata agli spinelli, al rischio che costituisca l’anticamera di droghe pesanti. Bisognerà mettere da parte questo pregiudizio e, una volta tanto, pensare positivamente al più antico degli stupefacenti, usato già in epoca neolitica per le sue proprietà miorilassanti, analgesiche e sedative.
Apre nuove prospettive di cura l’accordo firmato dai ministri Beatrice Lorenzin (Salute) e Roberta Pinotti (Difesa) per la prima produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale. La piantina verrà coltivata nei terreni dell’Istituto militare chimico farmaceutico, a Firenze, per estrarne il principio attivo da trasformare poi in preparazioni galeniche impiegate in pazienti con dolore neuropatico centrale. La terapia sarà gratuita, prescritta dai medici quando gli altri farmaci non funzionano. La stima è di 500-900 mila malati in Italia.
I cannabinoidi hanno avuto il via libera per l’impiego farmaceutico nel 2007. Da allora però non sono entrati realmente nei prontuari regionali, passaggio che avrebbe permesso la distribuzione gratuita. Abruzzo, Marche, Piemonte, Sicilia e Emilia Romagna (pochi giorni fa) hanno deliberato senza tuttavia che fossero attivate, dopo gli annunci, le procedure per rendere disponibile la terapia.
Dopo il via alla produzione nazionale il ministero appronterà entro ottobre un protocollo da far approvare al Consiglio Superiore di Sanità da poco rinnovato, ai vertici due donne, Roberta Siliquini e Eleonora Porcu. Poi la coltivazione nei campi militari. Il principio attivo sarà preparato e distribuito da farmacie territoriali e ospedaliere. Tempi, entro il 2015. Il sistema prevede piena tracciabilità per il controllo del consumo e dei destinatari. Finora la materia prima è stata importata dall’estero a costi più alti.
«L’Italia sarà autosufficiente — dice Lorenzin —. Distinguiamo, però. La droga fa male, un giovane su quattro fuma cannabis, siamo preoccupati. L’uso di sostanze per terapie è ben diverso. Noi ragioniamo in termini sanitari. Altro punto da chiarire. Questo non è assolutamente il primo passo per permettere l’auto-coltivazione da parte dei malati. Sono contraria a provvedimenti naif». Per Annarosa Racca, presidente dell’associazione Federfarma, è una bella novità: «Siamo pronti a lavorare».
Il consumo di oppioidi per la cura del dolore da noi è ancora basso nonostante il progresso di fatturato. I medici prescrivono poco e permane una certa resistenza culturale, alimentata anche dalla politica. Wiliam Raffaeli, presidente della Fondazione Isal per la ricerca sul dolore (il 27 settembre al via le giornate per sensibilizzare i cittadini), non ammaina la bandiera: «C’è ancora molto da fare. C’è ancora molta inappropriatezza nel combattere il dolore cronico. Il 50% delle spese sono per gli antinfiammatori, una minima parte per gli oppiacei, come la morfina». E sulla cannabis aggiunge: «Ben venga. Io la prescrivo, ma le famiglie se la sono pagata da sé. È un farmaco di cui bisogna sfruttare le potenzialità anche se non esistono prove schiaccianti per la sua efficacia. Molti malati ne traggono benefici ed è questo che conta».

Corriere 19.9.14
Se Putin minaccia di occupare in 2 giorni mezza Europa dell’Est
di Fabrizio Dragosei


Anche questa volta il Cremlino ha smentito tutto, senza nemmeno entrare nei dettagli: «Sono balle». Nulla di vero quindi nella vanteria attribuita a Vladimir Putin: «Se volessi, le forze russe potrebbero arrivare nel giro di due giorni anche a Riga, Vilnius, Tallin, Varsavia e Bucarest». E’ chiaro però che le uscite attribuite al presidente russo nelle sue conversazioni con i leader europei o con quelli ucraini non sono rassicuranti. L’ultima affermazione «inquietante» è di terza mano. Sarebbe stata fatta da Putin al presidente ucraino Petro Poroshenko, poi da questi sarebbe stata riferita a Manuel Barroso, presidente uscente della Commissione europea. E sarebbe finita in un rapporto della diplomazia comunitaria passato al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung . Lo stesso Barroso aveva riferito nei giorni scorsi un’altra affermazione di Putin: «Se avessi voluto avrei potuto prendere Kiev in due settimane».
In questo primo caso si è trattato di una frase riportata «fuori dal contesto», come ha ammesso alla fine una fonte dell’Unione Europea. Certo, Putin non ha minacciato direttamente l’Ucraina. Magari ha risposto a velate accuse di Barroso smentendo la sua intenzione di scatenare una guerra per conquistare tutta l’Ucraina. E in questo contesto, chissà, potrebbe aver risposto con foga qualcosa come «Ma figuriamoci, se avessi voluto…». Rimane il fatto che la cosa è assai poco rassicurante. Anche perché tutti sanno che se la Russia decidesse veramente di usare le sue armate, sarebbe assai difficile contrastarla. In quanto all’Ucraina, alla Nato non hanno molti dubbi, come ha chiarito recentemente il Comandante delle forze alleate Philip Breedlove: per una eventuale invasione, il Cremlino «dispone di tutte le risorse militari; e una operazione simile raggiungerebbe i suoi obiettivi entro tre/cinque giorni». Anche per quanto riguarda il resto d’Europa la situazione militare non è affatto allegra. L’istrionico leader liberaldemocratico Vladimir Zhirinovsky ha detto che i tre Paesi baltici e la Polonia «verrebbero spazzati via». Diversi analisti americani non la pensano molto diversamente: all’Est la Nato è debole e la Russia ha migliorato enormemente le sue capacità dopo la guerra con la Georgia del 2008. L’ex vicecomandante supremo dell’Alleanza Atlantica Richard Shirreff è stato ancora più chiaro: «La Nato avrebbe grosse difficoltà a mettere sul terreno rapidamente una divisione (20 mila uomini), perché in Europa occidentale abbiamo assistito a uno smantellamento delle capacità militari». Gli ucraini sono particolarmente preoccupati, come ha detto ieri a Washington Poroshenko che ha chiesto armi a Barack Obama. «Non bastano visori notturni e coperte ai soldati male equipaggiati i quali sono l’unica cosa che si frappone fra la coesistenza pacifica e l’incubo di una ricaduta nel secolo scorso». Sul terreno effettivamente ci sono tanti russi, come ha ammesso anche un comandante ribelle, Aleksandr Khodakovskij: «Non centinaia, ma molti di più; interi battaglioni». Solo che non sarebbero stati mandati dal governo di Mosca: «Tutti volontari o in licenza».

Corriere 19.9.14
Sorpresa: ora la Cina dà una mano a Obama
di Massimo Gaggi


Vladimir Putin che, a giorni alterni, minaccia: se solo volessi, in pochi giorni potrei arrivare non solo a Kiev, ma anche nelle capitali baltiche e a Varsavia. Come dire che la legalità internazionale non gli interessa e che non teme l’impatto delle sanzioni economiche. E poi l’emergenza Isis in Medio Oriente che mette in rilievo gli errori commessi da Washington sia quando ha invaso l’Iraq rovesciando Saddam Hussein, sia con la decisione di Obama di ritirare completamente le truppe dal Paese e di non intervenire a sostegno dei ribelli «moderati» in Siria. Sono tempi difficili per il presidente americano, costretto di nuovo a indossare controvoglia i panni di capo delle forze armate. A bruciare è soprattutto il fatto che la filosofia di fondo di Obama — la convinzione che tensioni e ragioni di conflitto indietreggino davanti alle opportunità offerte dalla cooperazione economica — fin qui non ha trovato grandi conferme nei fatti: Iraq e Afghanistan sono a pezzi nonostante il fiume di denaro speso dagli americani per la ricostruzione, mentre Putin ostenta indifferenza per i danni economici che sta infliggendo a un’economia russa già in recessione e ora sottoposta a sanzioni sempre più dure.
Ma qui una buona notizia, per Obama, sembra arrivare dal fronte che forse temeva di più. Quello del quale si parla meno ma che forse ha il peso strategico maggiore nell’atteggiamento prudente della Casa Bianca che teme di trovarsi a battersi su tre fronti: Europa dell’Est, Medio Oriente e Mar della Cina. Nelle scorse settimane gli strateghi di Washington hanno temuto che Pechino potesse approfittare dell’accavallarsi della crisi Ucraina e di quella dell’Isis per sfidare gli Stati Uniti sul controllo delle isole Senkaku, occupate dal Giappone due anni fa ma rivendicate anche dalla Cina. E il rischio è sempre lì: navi e pescherecci cinesi continuano a entrare di tanto in tanto in tratti di mare rivendicati come acque territoriali di Tokio, l’ostilità dell’opinione pubblica giapponese nei confronti della Cina continua a crescere. E Pechino avanza rivendicazioni marittime anche nei confronti di altri Paesi, dal Vietnam alle Filippine. Ma da Xi Jinping non sono venuti colpi di mano e, anzi, dicono gli analisti, la tensione sta calando: gli sconfinamenti negli ultimi mesi sono diminuiti, una piattaforma petrolifera che era stata portata in acque rivendicate dal Vietnam è stata ritirata. E a Pechino la propaganda nazionalista ha subito un netto ridimensionamento. È possibile che il presidente cinese stia allentando la pressione semplicemente per non compromettere le prospettive del vertice economico dell’area Asia-Pacifico che verrà ospitato proprio da lui a Pechino a novembre e al quale parteciperà anche il premier giapponese Abe (oltre allo stesso Obama). Ma la sensazione è che, mentre Putin va in guerra perché, con l’economia a pezzi, pensa che solo il nazionalismo può salvarlo, Xi punta sullo sviluppo economico e quindi fa scelte più responsabili (ieri era a Delhi a discutere di cooperazione economico con gli indiani, altri nemici secolari). Se così fosse, chi considera totalmente fallimentare la strategia di Obama forse dovrebbe, almeno in parte, ricredersi.

Corriere 19.9.14
La democrazia spiegata nelle scuole in Cina è solo un gioco per bambini
di Guido Santevecchi


Come si dice democrazia in un Paese dove la democrazia non esiste? In cinese suona minzhu , che significa letteralmente «autonomia del popolo». A Hong Kong una buona parte della popolazione sta inseguendo questo sogno democratico e si sta scontrando con Pechino, che si dice pronta a concedere elezioni a suffragio universale per il chief executive , il sindaco-governatore (caso unico nelle grandi città della Repubblica popolare), ma affidando la designazione dei «due o tre» candidati a un comitato ristretto di seguaci del partito comunista. Una finzione. Ora però a Hangzhou, nella provincia orientale dello Zhejiang, una scuola elementare ha organizzato un’elezione tra i bambini di una seconda. I quaranta scolari hanno potuto scegliere tra di loro i rappresentanti, in piena libertà: tutti candidati. Così sono stati eletti il capoclasse, il sovrintendente alla merenda, quello addetto a controllare che alla fine delle lezioni le luci siano spente, quello alla pulizia delle scodelle del latte, quello che deve custodire i dolcetti, anche uno sceriffo responsabile del buon comportamento. Alla fine tutti sono stati eletti, tutti hanno avuto una carica assegnata democraticamente.
La scuola elementare Cahie N°1, istituto pilota molto quotato, è stata tanto orgogliosa dell’iniziativa da aver invitato una giornalista del Financial Times ad assistere. Un modo giocoso per insegnare ai piccoli la virtù della responsabilità e la competizione leale, ha spiegato la maestra senza citare la parola minzhu . Ma l’inviata del giornale inglese ha voluto chiedere comunque ai bambini se sapessero di aver partecipato a una prova di «democrazia». Risposta disarmante da parte del neocapoclasse: mai sentito quella parola. Un altro scolaretto ha detto che quel termine strano forse significa «bambino cattivo».
La maestra, un po’ preoccupata, è intervenuta dicendo che ogni cinese che abbia compiuto 18 anni ha il diritto e il dovere di votare ed è giusto che lo impari fin da piccolo. Peccato che nessun funzionario a livello nazionale sia eletto a suffragio universale. Pensa a tutto il partito comunista con il sistema del «centralismo democratico» teorizzato da Lenin e ancora in vigore a Pechino.

La Stampa 19.9.14
I dubbi su Dio dell’arcivescovo di Canterbury
di Andrea Tornielli


«Ci sono dei momenti in cui pensi: c’è un Dio? E dov’è Dio?». Se a fare queste affermazioni davanti all’occhio indiscreto delle telecamere della Bbc è l’arcivescovo di Canterbury, cioè il capo della Chiesa anglicana, il clamore è assicurato. L’arcivescovo Justin Welby ha infatti «confessato» davanti ai fedeli di essere talvolta assalito da «dubbi» sull’esistenza di Dio. Il primate anglicano era nella cattedrale di Bristol e rispondendo alla domanda di uno dei presenti a proposito dei dubbi di fede ha ricordato che il dubbio è presente nelle stesse Scritture: «Io amo i Salmi e c’è il salmo 88 che è pieno di dubbio». Poi Welby ha ammesso: «L’altro giorno stavo pregando mentre correvo e ho finito per dire a Dio: “Guarda tutto questo va benissimo, ma non sarebbe ora che Tu faccia qualcosa, se ci sei”... Una cosa che probabilmente l’arcivescovo di Canterbury non dovrebbe dire», ha aggiunto subito dopo. Il primate della Chiesa d’Inghilterra ha quindi spiegato che il dubbio è un’esperienza accettabile per un cristiano: «La cosa straordinaria di essere cristiani è che Dio è fedele anche quando noi non lo siamo». Anche se a prima vista potrebbe apparire curioso e forse bizzarro che a fare questa ammissione sia un pastore e il responsabile di una Chiesa, non bisogna dimenticare che proprio l’esperienza del dubbio, del buio, della notte spirituale, si rintraccia di frequente nella vita di grandi mistici e di santi oggi canonizzati e venerati.
I teologi ricordano a questo proposito anche il grido di Gesù sulla croce, poco prima di morire: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Sono le parole di un salmo, un appello - commentava in proposito Benedetto XVI - rivolto a un Dio «che appare lontano, che non risponde e sembra averlo abbandonato».
Un buio spirituale durato molti anni è stato quello vissuto da Madre Teresa di Calcutta, l’apostola dei più poveri tra i poveri beatificata da Papa Wojtyla. In una lettera al suo confessore, pubblicate postume, scriveva: «Nella mia anima sperimento proprio quella terribile sofferenza dell’assenza di Dio, che Dio non mi voglia, che Dio non sia Dio, che Dio non esista veramente». Anche Padre Pio, il santo del Gargano, mentre era circondato da folle di fedeli, scriveva lettere nelle quali confessava di non «sentire» più Dio. È quella che san Giovanni della Croce chiamava «notte oscura dell’anima». L’affermazione di Welby è molto meno drammatica. In ogni caso il primate anglicano può ben dire di essere in buona compagnia.

Repubblica 19.9.14
L’arcivescovo di Canterbury si confessa “Anch’io ho dubbi sull’esistenza di Dio”


ROMA Il primate della Chiesa anglicana, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, confessa davanti alla Bbc di essere talora assalito da «dubbi» sull’esistenza di Dio. «Ci sono dei momenti in cui pensi: c’è un Dio? E dov’è Dio?», ha dichiarato Welby. Il prelato ne ha parlato con i fedeli a Bristol. E a una domanda a proposito del dubbio e della fede, Welby ha risposto che il dubbio è presente nelle stesse Scritture: «Io amo i Salmi e c’è il salmo 88 che è pieno di dubbio». Poi ha ammesso: «L’altro giorno stavo pregando e ho finito per dire a Dio: guarda tutto questo va benissimo, ma non sarebbe ora che tu facessi qualcosa, se ci sei? Una cosa che probabilmente l’arcivescovo di Canterbury non dovrebbe dire». Il primate della Chiesa d’Inghilterra ha poi spiegato che il dubbio è accettabile per un cristiano: «La cosa straordinaria di essere cristiani è che Dio è fedele anche quando noi non lo siamo».

La Stampa 19.9.14
Florida, pregiudicato uccide la figlia e sei nipoti
Un cinquantunenne di Bell, in cura per problemi psichici, ha compiuto la strage e poi, di fronte agli agenti accorsi, si è tolto la vita

qui

Corriere 19.9.14
La religione in politica e le contraddizioni arabe
risponde Sergio Romano

Il Sole24 Ore pone una domanda alla Amministrazione Usa: «Per spegnere l’incendio (in Medio Oriente), vi rivolgete ai piromani, come Arabia Saudita e Qatar, dai quali continuano a partire ingenti risorse per alcuni gruppi terroristici? Può anche essere una tattica giusta, basta non rivestirla di richiami alla morale a alla democrazia». Riesce a ripescare dalla sua memoria storica casi analoghi?
Carmen Bellavista

Cara Signora,
Nella storia c’è di tutto e non sarebbe difficile trovare qualche precedente, ma preferisco rispondere alla sua domanda cercando di spiegare perché nella grande crisi medio-orientale questi matrimoni di comodo fra Stati alquanto diversi siano più frequenti che altrove. I maggiori protagonisti, benché uniti in linea di principio da una stessa fede religiosa, perseguono nella realtà obiettivi nazionali spesso contrastanti. L’Arabia Saudita è uno Stato teocratico fondato su una missione terrena (la custodia dei luoghi santi) e la rappresentanza di una particolare versione dell’Islam, il wahhabismo, dal nome di Aba Al-Wahhab, un riformatore sunnita che morì alla fine del Settecento. Per lo Stato sunnita dei Saud, quindi, l’Iran è uno Stato scismatico e un potenziale nemico. Il Regno ha cercato di impedire i negoziati nucleari avviati dagli Stati Uniti dopo l’elezione di un nuovo presidente iraniano e, in qualche circostanza, ha avuto verso Barack Obama un atteggiamento fortemente polemico. Ma non è meno ostile e aggressivo quando trova sulla sua strada un movimento sunnita che potrebbe insidiare il suo primato religioso.
Il maggiore avversario in questo campo è la Fratellanza musulmana, fondata al Cairo nel 1928. Quando nel luglio del 2013 il generale Al Sisi ha organizzato al Cairo un colpo di Stato militare contro il leader della Fratellanza Mohamed Morsi, eletto alla presidenza della Repubblica egiziana un anno prima, l’Arabia Saudita non ha esitato a sostenere i militari. Abbiamo assistito così alla paradossale alleanza tra uno Stato teocratico e un regime che non esita ad arrestare e processare i militanti di una delle maggiori organizzazioni musulmane. Di questa convergenza fra interessi egiziani e sauditi abbiamo avuto conferma anche durante l’ultima guerra di Gaza. Tutti i Paesi arabi avrebbero dovuto sostenere Gaza contro Israele, ma l’Egitto e l’Arabia Saudita non avevano alcuna intenzione di favorire Hamas, una organizzazione che il Cairo considera una costola della Fratellanza musulmana. Questa linea sembra essere condivisa dagli Emirati Arabi Uniti e spiega perché le loro forze aeree abbiano recentemente partecipato con quelle dell’Egitto al lancio di missili contro i gruppi militari ispirati dalla Fratellanza in Cirenaica.
Questi episodi dimostrano quanto sia poco realistico rappresentare l’Islam come una minaccia globale per l’Occidente democratico e la civiltà cristiana. Anche nel mondo musulmano, come negli Stati europei dopo la Riforma di Lutero, la religione diventa rapidamente strumento di ambizioni politiche e gli interessi politici finiscono per prevalere sui valori della fede.

La Stampa 19.9.14
L’iraniano Zarif
“Contro Isis una coalizione di pentiti”
di Paolo Mastrolilli


«Quella che l’America sta mettendo insieme per combattere l’Isis è la coalizione dei pentiti, perché intorno al tavolo non c’è un solo Paese che non abbia contribuito in qualche modo a far nascere questo gruppo terroristico». Il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif prende in giro Washington e i suoi alleati, intervenendo al Council on Foreign Relations di New York in occasione della ripresa dei negoziati sul problema nucleare, ma in realtà sta spiegando la linea di Teheran per debellare la minaccia: «I raid aerei, le azioni militari, non basteranno. Per sconfiggere l’Isis è necessario che i Paesi arabi responsabili di averlo finanziato, aiutato e incitato, decidano davvero di abbandonarlo. Hanno creato un mostro che si è rivoltato contro loro stessi». Zarif condivide l’analisi del presidente Obama, secondo cui «l’Isis non è uno stato e non è islamico». Considera la sua nascita «un effetto delle dinamiche messe in moto dall’occupazione straniera in Iraq», sfruttato poi da chi voleva usarlo contro Assad. Non crede al contrario, invece, è cioè che Assad abbia favorito l’ascesa del gruppo terroristico come elemento per bilanciare l’opposizione moderata del Free Syrian Army: «Se crediamo a questo, allora c’è anche chi dice che gli Usa hanno creato l’Isis». Zarif non è contrario ai raid americani in Iraq «se a chiederli è stato davvero il governo iracheno». Non li accetta nel caso della Siria, però, perché Assad non ha dato il via libera e sollecita un’intesa col rais: «Se non ci fosse stato lui, ora al-Baghdadi governava la regione da Damasco». Quanto alla collaborazione richiesta e negata agli americani, «noi daremo il nostro sostegno, e gli Usa il loro. Poi toccherà al governo iracheno coordinare gli aiuti, perché sono gli iracheni che devono sconfiggere l’Isis». Sul nucleare ritiene possibile un accordo, magari dopo la scadenza di fine novembre, a un patto: «Gli Usa devono capire che le sanzioni non servono. Fanno soffrire il nostro popolo, ma prima avevamo 200 centrifughe e ora 19.000. Fatevi il conto a ditemi se vi è convenuto»

Repubblica 19.9.14
Un libro inedito di Gershom Scholem rievoca il kabbalista giacobino Moses Dobrushka, che incarnò i legami tra occultismo e Rivoluzione
Quella passione esoterica nel cuore dell’Illuminismo
di Roberto Esposito


IL 5 aprile 1794, Sigmund Gottlob Junius Frey è ghigliottinato, insieme a Danton e ad altri, nella piazza della Rivoluzione per cospirazione contro la Repubblica, pur proclamandosi innocente e strenuo difensore della libertà — come il nome di Junius, datosi in onore dell’eroe romano Junius Brutus, lascia immaginare. Tale nome era in realtà il terzo che egli aveva assunto dopo quello, originario, di Moses (Levi) Dobrushka e l’altro, successivo, di Franz Thomas von Schönfeld. Ciascuno di essi aveva ricoperto, come una maschera cangiante, il suo volto sfuggente.
Nelle fasi diverse della sua vita avventurosa — di ebreo convertito, seguace di un ordine massonico di orientamento kabbalistico, di letterato fedele suddito dell’imperatore austriaco e, infine, di fervente giacobino, autore di una Filosofia sociale dedicata al popolo francese . Nipote acquisito del profeta eretico Jacob Frank al punto di apparirne il successore, legato all’alta borghesia austriaca di cui condivideva gli interessi finanziari, austero esperto di dottrine teosofiche, ma non alieno dai piaceri della carne, illuminista e mistico, chi era in realtà quest’uomo nato in Moravia nel 1753 e morto, quarantenne, sul patibolo?
Una risposta, tutt’altro che conclusiva, a questa serie di domande è fornita dal grande ebraista Gershom Scholem, nell’edizione italiana del saggio inedito Le tre vite di Moses Dobrushka , edito da Adelpi con una dotta e brillante postfazione di Saverio Campanini. Si tratta della stesura ampliata di una conferenza pronunciata a Parigi nel 1979 su invito dello storico della Rivoluzione François Furet, che conclude, sia pure in forma aperta e problematica, una ricerca complementare ai fondamentali studi sulle sette ebraiche avviati da Scholem alcuni decenni prima. E si situa al punto di tensione tra esoterismo e illuminismo cui, attraverso un percorso accidentato e ricco di pieghe, perviene il movimento, insieme mistico e nichilista, fondato da Shabbatay Zevi nel Seicento e proseguito, nel secolo seguente, dal successore Jacob Franck. Moses Dobruschka, figlio della cugina di Jacob, ebbe la classica educazione rabbinica, ma insieme fu iniziato alla fede sabbatiana. Intrapresa la carriera letteraria con il nome di Franz Thomas von Schönfeld, si convertì esteriormente al cristianesimo, come altri adepti, rimanendo però fedele al proprio credo segreto.
Stabilitosi a Vienna, fu introdotto nei circoli illuminati lealisti verso Giuseppe II, entrando in contatto con scrittori come Klopstock, Gleim, Ramler e Voss. Fu allora che aderì alla società massonica dei Fratelli Asiatici, di tendenza esoterica ed occultista, in una sorta di singolare miscela di razionalismo e misticismo, espressa dal doppio triangolo della Stella di David e del Candelabro a sette braccia. Spostatosi in Francia con il nome di Junius Frey, senza rinunciare alla radice kabbalistica, secolarizzò la propria prospettiva in senso politico, accostandosi agli ambienti rivoluzionari giacobini. Tuttavia la sua personalità controversa destò presto sospetti, tanto da essere accusato di spionaggio a favore degli austriaci con l’intenzione di salvare Maria Antonietta dalla ghigliottina, sotto la cui lama finì egli stesso insieme ai fratelli e al cognato, il deputato Chabot.
I pareri sulla sua effettiva posizione — di patriota repubblicano o di traditore della Francia — divergono. Scholem, influenzato anche dall’accorata protesta di innocenpiano za lasciata al figlio insieme allo scritto sulla Filosofia sociale , propende per la prima tesi, ritenendo possibile la commistione tra l’anima sabbatiana e quella rivoluzionaria, Nel saggio, incluso nella presente edizione, sulla Metamorfosi del messianismo eretico sabbatiano in nichilismo religioso l’autore individua il punto di possibile convergenza in un messianismo fin dall’inizio orientato in direzione rivoluzionaria e anche anarchica. Al centro della dottrina di Frank vi è la tesi, di matrice gnostica, secondo cui il mondo in cui viviamo non è stato creato da Dio, ma da un suo alter ego demoniaco alle cui leggi occorre sfuggire, infrangendole anche attraverso atteggiamenti apparentemente peccaminosi. Da qui la tesi, più tardi fatta propria da Bakunin, che «la distruzione è una forza creativa». Ciò spiega la compresenza di mistica e sovversione sul pubblico e di fede e vita dissoluta su quello privato. «I soldati della fede — sostiene Frank, sempre affascinato da immagini guerriere — non possono scegliere per quale via penetrare nella fortezza. Se necessario devono esser pronti a percorrere le fognature più immonde».
Nella sua sapiente postfazione Campanini, ricostruendo la storia del testo e anche l’ambiente in cui fu elaborato da Scholem, avanza qualche riserva sulla sua interpretazione innocentista — per un trasformista di mestiere del calibro di Moses farsi credere innocente per il prestigio proprio e degli eredi era tutt’altro che impossibile. Ciò non revoca in causa il procedimento dialettico di Scholem, teorizzato già nel 1937 nello scritto La redenzione attraverso il peccato ( edito, sempre da Adelphi, nel suo libro L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica ). Tale dialettica passa per il concetto antinomico di “pia colpa” o di “casta meretrix”, termine rivolto al “messia femmina” Eva Frank, ma anche alla Chiesa nel suo complesso: la disattivazione della legge è l’unico modo di operare senza cedere al male prima della venuta del Messia. Un’idea non lontana dalla prospettiva paradossale di Kafka e dal pensiero di Benjamin, incrociati da Scholem anche attraverso la frequentazione di Max Brod. Ma non estranea neanche alla dialettica negativa di Adorno, che infatti teorizza la compresenza di illuminismo e mito. Tale conclusione, assunta da Scholem come chiave esplicativa della concezione sabbatiana, fu contrastata, per esempio da Jacob Taubes, come una punta avvelenata nel cuore dell’ebraismo. Se qualcuno è arrivato ad avvicinare la dottrina di Frank all’hitlerismo, Lukács ha visto nel suo nichilismo il nucleo segreto del comunismo. Ma ciò che, poco prima della morte, Scholem cercava nelle infinite metamorfosi di Moses Dobrushka era probabilmente qualcosa di più che la verità su una figura controversa. Era uno specchio deformante in cui rinvenire il tratto più estremo della propria inquietudine.
IL SAGGIO
Le tre vite di Moses Dobrushka
di Gershom Scholem (Adelphi, trad.
di E. Zevi, pagg.
231, euro 22)

Corriere 19.9.14
L’enigma Nietzsche abita nel futuro
Nel suo pensiero si percepiscono in filigrana le grandi tragedie del Novecento
di Armando Torno


Con il titolo Volontà di potenza si è cercato di definire l’ultima opera, della quale sono rimasti frammenti, di Friedrich Nietzsche. È d’obbligo in tal caso utilizzare termini dubitativi, ché ci sono almeno cinque sistemazioni tra loro diverse del possibile libro. Non le elencheremo, aggiungiamo soltanto che l’edizione critica, curata da Colli e Montinari e tradotta da Adelphi, scelse di pubblicare per la prima volta quanto di Nietzsche era rimasto di quel superbo progetto. In ordine cronologico. Lacerti, appunti, schemi di lettura, frasi lasciate tronche, tutto.
Senonché tale scelta andava a scontrarsi con la più nota edizione della Volontà di potenza , ovvero quella curata da Elisabeth Förster-Nietzsche e Peter Gast nel 1906 (tradotta in italiano nel 1927), che si presentava con 1.067 paragrafi. Su di essa pendeva l’accusa di arbitrarietà; o meglio: ricostruzione con censure irrispettosa del pensiero del filosofo, assemblata con malafede. Comunque, lo stesso Nietzsche aveva indirizzato all’amico e compositore Gast uno dei suoi ultimi biglietti. Era ormai immerso nella follia, si firmò «Il Crocifisso».
Nel 1992 presso Bompiani, Maurizio Ferraris e Pietro Kobau ripubblicarono la Volontà di potenza nell’edizione curata dalla sorella e dall’amico, sottolineando che è quella autentica dell’opera, che non venne contraffatta, che ha seguito le indicazioni del filosofo. Ferraris, inoltre, offrì una spiegazione di questa scelta nel saggio La questione dei testi , contenuto in Guida a Nietzsche (Laterza 1998). Le reazioni non si fecero attendere, ma codesto discorso lo abbiamo cominciato non per offrire un inventario delle controversie bensì per segnalare un libro dello stesso Ferraris di notevole interesse: Spettri di Nietzsche (Guanda, pp. 272, e 18). Un lavoro che ripercorre la vita del pensatore senza adeguarsi alla cronologia, ma enucleandone grandi momenti, creando delle stazioni di riflessione che vanno dalla Torino della follia alla Sils Maria della Volontà di potenza , dall’universitaria Basilea alla Silvaplana dell’Eterno ritorno . Un itinerario ricco di stimoli e pensieri. Una Volontà di potenza applicata alla biografia. Parte dalla lapide posta sulla casa di via Carlo Alberto 6 a Torino, dove finì la «vita cosciente» di Nietzsche, in cui ora c’è lo studio del commercialista dello stesso Ferraris. Il quale, oltre ad essere brillante e non scontato, ha il vantaggio di pagare le tasse «nella stanza di Zarathustra».
Il libro è godibilissimo anche per i non addetti ai lavori, comunque offre una quarantina di pagine di riferimenti bibliografici per chi desiderasse approfondire. Ma non è soltanto la vita o il personaggio di Nietzsche che queste pagine trattano: in esse, per utilizzare una locuzione del sottotitolo, si vedono in filigrana, o direttamente, le anticipazioni delle «catastrofi del Novecento». Quel filosofo impazzito nei giorni del Natale 1889 aveva capito quanto sarebbe successo, anche se i suoi libri allora non trovavano un pubblico e sovente finivano al macero.
Ferraris, dopo aver proposto un tema di riflessione, immette Nietzsche nel futuro (a volte parte dal passato remoto, come con Platone) e trae conclusioni decisamente interessanti. Se il capitolo «Rapallo, 20 gennaio 1883» può intitolarlo Nuovo cinema Zarathustra , è altresì vero che dal Tigullio egli vi porta, tra suggestioni darwiniane o tra le pagine dell’esemplare dei Saggi di Emerson (dove si notano alcune sottolineature), entro suggestioni cinematografiche (non manca Al di là del bene e del male della Cavani) o dinanzi agli «spettri di Hitler». Nietzsche, in altri termini, si comprende macinando il futuro.
Morale della storia: questo libro di Ferraris offre un metodo per capire meglio quell’enigma che chiamiamo Nietzsche. Un filosofo che si contraddice, che non propone un sistema, che non crede quello che noi crediamo di lui. Da maneggiare con cura. Senza troppa filologia, per favore.

Corriere 19.9.14
Giacometti tra gli Etruschi e noi
Un contemporaneo a proprio agio di fronte all’antichità
di Gillo Dorfles


Basterebbe una brevissima sosta a Volterra — una delle cittadine medievali meglio conservate della Toscana etrusca — per permetterci di recuperare le fila del discorso (che non sarà mai cancellato) riguardo alle ovviamente famose statuine allungate definite ormai popolarmente «ombre della sera»; che sono state più volte alla base di una disputa, non solo sulla loro esteticità, ma sul fatto che le loro sagome, così anomale rispetto alle misure convenzionali, abbiano potuto influenzare il grande scultore italosvizzero Alberto Giacometti nella sua ben nota opera bronzea L’homme qui marche , spesso estremamente allungata rispetto alla normale dimensionalità umana.
La disputa, che ormai si trascina da quasi mezzo secolo, e che ha dato filo da torcere a numerosi studiosi, è favorevole a considerare spontaneo il rapporto istituito tra le «ombre» e l’opera di Giacometti; la quale per altro ancora una volta ripropone il quesito sulla effettiva valenza del singolo «gusto» nella valutazione di un’opera d’arte contemporanea o antica che sia. Naturalmente il giudizio circa le «ombre della sera» sarà sempre favorevole ad accettare quel tipo di operazione che si avvicina al nostro tempo, proprio per la discrepanza dall’epoca della sua produzione.
Eppure, di fronte a capolavori «antichi», non si potrà certo sollevare un problema del «gusto». Nel caso tuttavia delle «ombre della sera» si tratta di un’opera di cui non va dimenticato l’aspetto simbolico e magico che la informa. Se non fosse noto che la statuetta allungata era posta nella culla dell’infante con lo scopo di farlo crescere rapidamente, non sarebbe facile giustificarne l’anomalia dimensionale; mentre in questo modo cade ogni stupore per l’insolita sagoma dell’opera d’arte.
Si dirà che se questo vale per dei capolavori datati, non vale invece per le sculture di Giacometti mentre è certo che l’autore dei nostri giorni può «permettersi» quello che gli autori del passato non si concedevano. Del resto, non si dimentichi, per quanto appartiene alle «ombre della sera», di considerarne il valore magico simbolico come è appunto quello di agire sulla crescita dell’infante.
Il problema più squisitamente critico che si presenta tanto a chi conosce bene le «ombre della sera» quanto a chi per la prima volta le incontra, è soprattutto il carattere generalizzato delle stesse: come appaiono dal punto di vista estetico queste figurine allungate!
Si dirà che possono far pensare a un’opera surrealista; ma è ovvio che basta la loro tessitura e costruzione plastica a denunciarne la provenienza antica. E allora l’inquietudine che la loro anomalia dimensionale provoca fa sì che si tenda a non considerarla come positiva, ma come un errore dell’artista. Al contrario, credo che la nostra «fede» nella autenticità di qualsiasi opera d’arte del passato escluda ogni dubbio. Anche contro qualsiasi argomentazione razionale del nostro giudizio.
Analogamente la giustificazione «simbolica» attribuibile alle «ombre della sera» e la «non giustificazione» (da parte di un incompetente) per quanto riguarda l’opera di Giacometti, evidenzia il fatto che ai nostri giorni tutto è permesso nel settore estetico, mentre non lo era (per fortuna) nel caso dell’antica Etruria. Ancora una volta siamo portati ad accettare ogni «sbaglio» ossia ogni anomalia, quando si tratta di un’opera certamente autentica. Non solo, ma di accettarla senza nessun disagio; mentre dinanzi a una statua di Giacometti, proveremo un leggero dubbio per la sua originalità dimensionale.
Ho sistemato una «mia» Ombra della sera — da poco conquistata — accanto ad altre sculture di artisti contemporanei: nessun contrasto a parte la «patina» del vetusto bronzetto; che forse significa come le insolite dimensionalità di un’opera d’arte davvero autentica non possono mai suscitare disagio o proteste del «buon gusto» vigente.

Corriere 19.9.14
Messico e amore
Le tele di Frida Kahlo e Diego Rivera
Una lunga storia di estasi e dolore
di Melisa Garzonio


Diego Rivera (1886-1957), pittore e muralista messicano (sopra, in un ritratto della Kahlo del 1937), conobbe la giovane Frida (1907-1954) nel 1922 e la sposò sette anni dopo. Una vita fatta di passione ma anche di continui reciproci tradimenti (lei — in alto il suo «Autoritratto con collana» del 1933 — ebbe amanti di entrambi i sessi, tra cui Trotsky, André Breton e Tina Modotti). Le nozze terminarono con il divorzio nel 1939. Ma poi seguì un nuovo matrimonio appena l’anno dopo. Dopo la morte di Frida, Rivera si risposò con Emma Hurtado

L’articolo è disponibile qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/frida_kalo_e_diego_rivera/0

Corriere 19.9.14
Quel caldo ventennio di arte e politica tra rivoluzione e sogni dipinti sui muri
di Rocco Cotroneo


Dalle utopie rivoluzionarie alla nascita del Messico moderno, il periodo che vede l’esplosione del movimento rappresentato da Diego Rivera e Frida Kahlo è un esempio della frequente coincidenza nella Storia tra fermento politico e artistico. Se i muralistas e gli altri grandi intellettuali dell’epoca siano stati figli sinceri del loro tempo, o appena astutamente cooptati dal potere, è un dibattito che si trascina fino ai giorni nostri: restano però le straordinarie produzioni di quel ventennio, tra il 1920 e il 1940. Mentre il mondo vive il confronto tra totalitarismi e democrazia che culminerà nella guerra, il Messico cerca una sua strada. Influenzata certo dai grandi eventi, ma autonoma. In politica e nell’arte.
La Rivoluzione messicana scoppiata nel 1910 era stato un periodo confuso di rivolte militari, contadine e indigene; assassini politici, ingerenze dall’estero, parole d’ordine disparate contro il postcolonialismo e l’eredità controriformista della Conquista. La ricostruzione dello Stato inizia con la presidenza di Alvaro Obregón (1920-1924). È un generale, come lo saranno altri presidenti del secolo, l’esercito è con lui, ma riesce ad isolare i vari caudillos locali sorti con la rivoluzione e dedicarsi alla politica, l’economia e l’istruzione. Il ministero di «Educacion Publica» affidato nel 1921 a José Vasconcelos è una svolta. Oltre alla campagna massiccia di alfabetizzazione — l’idea che i maestri rurali diventino i nuovi missionari nelle campagne — viene riorganizzata la scuola su una base di orgoglio nazionale ed esaltazione della cultura popolare messicana, meticcia e separata dai modelli stranieri. Quando chiama Rivera a collaborare con i suoi progetti, Vasconcelos crede all’idea dell’arte pubblica come pilastro dell’educazione. Iniziano dunque i murales sugli edifici, con libertà totale agli artisti.
Molti di loro restano rivoluzionari e comunisti — mentre il Messico di quegli anni è piuttosto un impasto di populismo e corporativismo forse più vicino al fascismo europeo — ma la scintilla tra politica pubblica e arte sociale scocca ugualmente. L’altro grande presidente dell’epoca, Lazaro Cárdenas (1934-1940), è più a sinistra, legato ai movimenti sociali e sindacali: le missioni culturali proseguono e il legame con gli artisti si rafforza. Cárdenas apre le porte a 40.000 rifugiati repubblicani della guerra civile spagnola, ed è proprio il suo rapporto personale con Diego Rivera a permettere che il Messico accolga in esilio anche Lev Trotsky, in fuga dallo stalinismo. L’artista lo ospita nella Casa Azul di Coyoacán, dove vive con Frida Kahlo, riesce a garantirgli una certa protezione. Fino a quando il pensatore russo non andrà vivere in un’altra casa della città e finirà vittima di un sicario stalinista, che lo uccide a picconate nel 1940.
È assai distante il Messico di quegli anni dalle convinzioni trotskiste di Rivera, o da quelle più filosovietiche della Kahlo. Lo Stato si va riorganizzando su un blocco di potere tra militari, politici, agrari e sindacati che ha creato una curiosa comunanza tra ideali rivoluzionari e poteri che si autoperpetuano. È nato l’ibrido Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale, che resterà al governo per 70 anni senza quasi opposizione, dove il presidente nomina il suo successore e il voto popolare è quasi una formalità. La «dittatura perfetta» come definì il Messico lo scrittore Mario Vargas Llosa. Ma lo sguardo sull’artista pubblico, nazionale e popolare, resiste. Gli intellettuali appoggiano senza riserve le naziona-lizzazioni in economia, le opere pubbliche, la riforma agraria, il confronto aspro con gli Stati Uniti. L’arrivo degli esiliati spagnoli, molti di loro artisti e professori, fa diventare Città del Messico una delle metropoli dalla vita culturale più frizzante del mondo. Il potere politico è pragmatico e avvolgente, reprime in modo selettivo: seda le rivolte dei campesinos delle province a schioppettate, ma la libertà intellettuale nelle città è totale. Il muralismo di Rivera ne è l’esempio migliore: è pittura ufficiale, «oficialista», come si definisce nel mondo latino la prossimità all’esecutivo di governo, è propagandistica e coincide con il progetto di nazione voluto dal potere, smussa le differenze e permette l’incorporazione anche delle idee più radicali, rendendole innocue sul piano politico.

Corriere 19.9.14
Il mito creato con una maschera ambigua
Frida usò passioni e malanni anche per costruire un personaggio da rotocalco
di Francesca Bonazzoli


«Non dal volto si conosce l’uomo, ma dalla maschera», scriveva Karen Blixen in una delle più affascinanti storie da lei inventate, «Diluvio a Norderney». Una lezione che Frida Kahlo, come ogni grande artista, conosceva bene. Lungi dal mettersi a nudo, nei suoi oltre 55 ritratti, quasi un terzo di tutta la sua opera, ci ha mostrato la maschera di Frida, personaggio da lei accuratamente recitato in una pièce che, ad un certo punto della carriera, ha previsto una parte anche per i rotocalchi, moltiplicatori di notizie sulla strana coppia che Frida formava con il celebre pittore muralista Diego Rivera. Nel tentativo di interpretare in chiave biografica i suoi quadri, sono state scritte migliaia di pagine e naturalmente la lettura psicoanalitica, o pseudo tale, ha avuto la parte maggiore. Eppure, se Frida non fosse stata sempre volutamente ambigua, non avremmo esegesi così discordanti, addirittura in contrasto l’una con l’altra, al punto da apparire alla fine come ridicoli esercizi di non senso.
A spiazzare i chiosatori professionisti è soprattutto il fatto che pochi artisti, prima di Frida, hanno dipinto il corpo femminile al di fuori del consueto ruolo di modella e ancor meno sono quelli che l’hanno utilizzato per descrivere temi come l’aborto, operazioni chirurgiche o, persino, la nascita dell’artista stessa. La francese Louise Bourgeois, in America, stava facendo qualcosa di simile; ma mentre lei lavorava sulle ferite della psiche, la Kahlo aveva abbondante materiale per affrontare i traumi del corpo, il quale le si presentava come un continuo ostacolo. A sei anni fu colpita dalla poliomelite che la costrinse a letto per nove mesi e le lasciò una zoppìa che le valse il soprannome di «Frida gamba di legno» da parte dei compagni di classe. A diciotto anni l’autobus su cui stava viaggiando venne investito da un tram e nella collisione un corrimano le trafisse la schiena procurandole danni permanenti. Nel 1930 i medici le consigliarono di abortire per non compromettere le già fragili ossa del bacino. Seguirono altri due aborti, un’operazione al piede destro, sette interventi alla spina dorsale con convalescenze che le procuravano «vomito costante e dolori cronici», dolorose infezioni e una cancrena alla gamba, amputata nel 1953. Infine una polmonite la portò alla morte nel 1954. Ma Frida era troppo intelligente, troppo manipolatrice e troppo artista per pensare di fare dei suoi quadri un semplice diario, una specie di irrazionale sfogatoio. Al contrario, le immagini le servivano per trasfigurare, sublimare, raccontare. In una parola imbrogliare. Prendiamo per esempio «Ospedale Henry Ford», che ha per tema l’aborto. Tutto, e il suo contrario, è stato detto sui simboli che compaiono nel quadro e sul desiderio frustrato di maternità. La verità è che Frida, nello stesso tempo, nel diario scriveva quanto fosse infastidita e stanca di sopportare nausee e disturbi della gravidanza e quando i medici le prescrissero il riposo assoluto, lei decise invece di prendere lezioni di guida. La stessa ambivalenza che manifestava verso il matrimonio: da una parte rappresentava se stessa come la moglie devota nell’autoritratto con il marito cui lascia tenere in mano una tavolozza riservando per sé l’aspetto di fragile mogliettina. Dall’altra non rinunciò mai ai suoi incontri bisessuali, al fumo, all’alcool, alle droghe, al parlare osceno, lasciandosi insomma andare a comportamenti tutt’altro che da moglie borghese. Non fu mai una sottomessa, sebbene pretendesse di giocare la parte della povera moglie tradita dal marito macho le cui avventure erotiche erano ben documentate dai rotocalchi.
Sebbene nei dipinti costruisse di sé un’immagine di donna dei dolori, molti amici dell’artista sostengono che Frida lacerava le ferite e aggravava le conseguenze delle operazioni per manipolare sadicamente l’attenzione del marito e per amplificare la leggenda del suo personaggio. Fin dall’adolescenza la Kahlo manifestò nella vita privata il rifiuto delle norme convenzionali che riguardavano il sesso femminile, e tuttavia pubblicamente mantenne un basso profilo: di fatto anche lei era un macho messicano, ma lasciò questo ruolo pubblico al marito.
Frida non era una fredda calcolatrice. Era un’artista che, come tutti coloro che possono fregiarsi di questo titolo, sapeva controllare il proprio linguaggio dando una forma alle proprie nevrosi. Fu questo che alla fine le consentì di trionfare nella considerazione dei posteri mentre la pittura retorica del marito si andava sgonfiando.

Corriere 19.9.14
Margot Wolk, l’assaggiatrice di Hitler
«Costretta a rischiare la vita per lui»
«Assaggiavamo il cibo di Hitler con la paura di morire»
È l’unica sopravvissuta delle 15 ragazze usate dal Fuhrer per testare i suoi pasti
A 96 anni dice alla tv tedesca: «Non l’ho mai visto di persona, non mangiava mai carne»
di Simona Marchetti

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Corriere 19.9.14
Martin Walser: la Shoah è inespiabile
di Paolo Lepri


BERLINO — È nei fatti un’autocritica, compiuta da un uomo che nella sua lunga vita ha spesso cambiato idea ma non ha mai ammesso di aver sbagliato. Sarà anche per questo che non passerà inosservata. Martin Walser (nella foto ), 87 anni, il grande scrittore che aveva fatto discutere la Germania intera, parlando, nel 1998, di Auschwitz come «clava morale» e della memoria dell’Olocausto come «un esercizio che non dovrebbe essere obbligatorio», è giunto oggi a conclusioni differenti e ha rovesciato il suo pensiero come si può fare con una medaglia in una mano. A suo giudizio, «le dimensioni della colpa dei tedeschi nei confronti degli ebrei sono difficilmente immaginabili ed è grottesco parlare di espiazione». Si tratta di un debito perenne, assoluto e incondizionato. E non si può far niente, o quasi, per limitarlo. Parole forti, contenute in un saggio dedicato all’opera di uno dei più grandi interpreti della letteratura yiddish, Sholem Yankev Abramovich, che sta per arrivare nelle librerie tedesche e che «Die Welt» anticiperà domani. L’omaggio a uno dei fondatori della moderna letteratura ebraica è però lo spunto per una riflessione più ampia sul marchio indelebile della responsabilità tedesca nella Shoah. Quello che è stato compiuto non si potrà mai dimenticare, sostiene Walser, e domina la percezione del mondo e della storia.
Sono passati sedici anni da quel giorno in cui l’autore di Un cavallo in fuga , ricevendo nella Paulskirche di Francoforte un riconoscimento tra i più prestigiosi come il Friedenspreis, aveva esordito dicendo: «Tremo per quello che sto per dire». Fu effettivamente un discorso controcorrente, in cui Walser stigmatizzava «l’esibizione permanente della vergogna», utile a suo parere per essere «strumentalizzata», e definiva Auschwitz un mezzo di intimidazione e una minaccia. Nel mirino anche il progetto del memoriale dell’Olocausto che sarebbe sorto a Berlino, giudicato «un incubo grande come un campo di calcio». La reazione dell’allora leader della comunità ebraica tedesca, Ignatz Bubis, che accusò lo scrittore di essere «un incendiario degli animi», fu molto dura. Ne nacque un dibattito ampio, che coinvolse non solo gli intellettuali ma un’intera nazione desiderosa di riflettere sul rapporto tra la ricerca di normalità del presente e la terribile eredità del passato. Di questo sicuramente Walser non si è mai pentito.

Corriere 19.9.14
Palinsesto addio: lo streaming supera la tv


In un piccolo punto percentuale si nasconde una grande rivoluzione in atto nelle nostre abitudini. Il numero di italiani che accede ai video in modalità streaming per la prima volta ha superato quello degli affezionati alla tv tradizionale: si tratta di un 80% contro il 79%, con le due realtà che si sovrappongono. Ma il dato, raccontato dal ConsumerLab di Ericsson ieri a Milano, è di quelli importanti. Così, mentre in termini assoluti di consumo la televisione si conferma regina del tempo libero — con 15 ore di media settimanale contro le 8 per video «consumati» su computer e le 6 per quelli su smartphone e tablet —, gli streamer guadagnano consensi per 7 punti sul 2013, mentre i traditionals ne perdono ben 11. Il lungo addio ai palinsesti televisivi, secondo i dati della multinazionale svedese, è dunque arrivato a un punto di svolta. A vincere infatti è la formula on demand , e se i dati italiani sono fondamentalmente in linea con quelli mondiali, il sorpasso vero e proprio è una caratteristica solo di alcuni Paesi. Complici del cambiamento è il numero e la qualità sempre maggiori dei servizi di streaming, che negli anni hanno avuto la forza di combattere con armi intelligenti il peer-to-peer . E a giocare un ruolo chiave sono senz’altro le cosiddette serie tv, vero fenomeno di questi anni. Per spiegare la forza della «serialità», e il cambiamento delle abitudini di fruizione degli schermi, c’è il dato del 43% degli intervistati che vorrebbero tutti gli episodi di un’intera stagione di una serie, per esempio la presidenziale «House of cards», subito disponibili all’inizio della stessa. Per poter personalizzare al massimo la fruizione del contenuto.
Abitudini di consumo «televisivo» che cambiano radicalmente anche in un altro capitolo della ricerca di Ericcson. Uno schermo, infatti, pare non basti più. Non siamo ancora alla maggioranza, ma poco ci manca: il 44% degli italiani intervistati, mentre guarda la tv utilizza anche smartphone e tablet per approfondire i contenuti che sta guardando, mentre il 29% ne discute sui social network in tempo reale. Si chiama «social tv». Mentre è forse più vicina alla frenesia l’abitudine di quel 24% che, mentre è davanti alla televisione, guarda un altro programma sul proprio device mobile.