domenica 21 settembre 2014

Repubblica 21.9.14
Cambia solo la lingua
di Giorgio Diritti

QUANTO è distante Marzabotto? Settant’anni…?
Settanta miglia prima che lo scafista butti a mare i suoi naviganti “clandestini,” settanta giorni di prigionia prima che il combattente rivendichi la gloria di esporre al mondo la morte per decapitazione del suo prigioniero inerme, settanta bombe, settanta razzi prima che una, due, tre cadano sulla scuola, nel mercato, prima di vedere i brandelli di sangue come a Casaglia o Cerpiano. È molto vicina la stage di Marzabotto, ha cambiato lingua, territorio, ma poco altro nello scempio di vita altrui che certi uomini continuano a fare.
Nello scempio di un società evoluta dove la ricchezza si fonda anche sul mercato delle armi, sullo sfruttamento dei simili, sulla schiavitù, e dove il confine dello spettacolo televisivo mischia ogni sera la realtà drammatica e violenta a quella effimera della pubblicità. Il pianto cammina ancora sui sentieri di Monte Sole nell’animo di chi c’era o di chi ha ascoltato la voce di chi c’era. Credo sia fondamentale nella vita un giorno andare lì.
La memoria è il più importante patrimonio da difendere.
E forse un giorno, finalmente, il progresso non sarà solo un nuovo oggetto tecnologico ma il bene per l’umanità.
(L’autore nel 2-009 ha diretto il film L’uomo che verrà sulla strage di Marzabotto)

Repubblica 21.9.14
Ritorno a Marzabotto
“Per i tedeschi non eravamo persone ma bestie, piante, polvere”
«E tu, quanti?». Come ogni anno davanti a questo altare sbrecciato ci si rinfresca la memoria: «Io cinque, e tu?», «Io sette». Non sono i figli. Neppure i nipoti. Sono i morti ammazzati. I passi di Tina van da soli, fra questi ruderi. Da settanta dei suoi ottantasei anni viene a trovarli, i suoi fantasmi, su questo calvario di  settecentosettanta cristi in croce che si chiama Monte Sole, nome splendente di una storia buia. Gli italiani la conoscono, ammesso che la ricordino ancora, come “la strage di Marzabotto”, ma a Marzabotto non accadde quasi niente, quel 29 settembre 1944
di Michele Smargiassi


MARZABOTTO (BOLOGNA) pronunciano il loro bla-bla di circostanza», mormora Tina, «i nostri morti sono quassù». Passeggiamo sullo sterrato verso Casaglia. Sui pendii galleggiano i ruderi di sasso delle case bruciate, delle chiese fatte esplodere coi fedeli dentro. «La nostra Pompei», scrive un vecchio partigiano, Francesco Berti Arnoaldi. Com’è vero. Una colata di lava sanguigna seppellì tutto, qui, lasciando la pace disabitata delle pietre. «Ecco, qui spararono alla Vittoria, perché non voleva camminare, era paralitica... Questa croce di ferro... Qui fucilarono don Ubaldo Marchionni». Sull’altare, come Thomas Becket. Aveva appena ingoiato tutte le ostie consacrate, per proteggere col suo corpo almeno Cristo. Un cagnolino da tartufi guizza da chissà dove, cerca il padrone. «Qualcosa di vivo, finalmente... Solo le lumache fanno compagnia ai morti». Furono centoquindici massacri che in una settimana fecero il grande massacro. È un trekking, oggi, il golgota dei contadini. Prendi la mappa giù al centro visitatori, tra boyscout in gita e famigliole al picnic, calchi i passi delle SS di Walter Reder, 16esima Panzergrenadier-Division , vieni su dalla valle del Setta o da quella del Reno, su su fino al crinale, e ogni cento passi trovi una lapide, una croce. «Qui sono morti tre dei miei cinque: zia Maria, le cugine Dirce e Marisa». Tina Lera Bugané non c’era, nei giorni dell’apocalisse. Abitava a Serravalle Scrivia, Alessandria, con papà che costruiva la prima autostrada d’Italia. Una lontananza che le è pesata, che sublimò vent’anni dopo, diventata redattrice di riviste, romanzando le storie di famiglia in un libro, Sole nero a Casaglia. «Pensi che eravamo noi, là, ad aver paura, dicevano: gli Alleati sbarcano in Liguria, arriva la guerra...». E i parenti rimasti qui le scrivevano preoccupati: «Torna da noi... Qui sei al sicuro...». Sì, certo, sull’Appennino bolognese il fronte vero era vicino. Linea Gotica. Gli americani poco più su. Lampi nel cielo di notte. Bombe sulla ferrovia. Ma come immaginare l’inimmaginabile, visto che i tedeschi già da mesi bussavano alle porte, cercando i partigiani, e «a donne, bambini e vecchi non avevano mai fatto nulla». Quel giorno, invece, qualcuno capì che il vento era cambiato. «Ma questo glielo racconta mio cugino Lillo. Lui c’era. Aveva quattordici anni».
Scendiamo a Gardelletta. Lillo Bugané è appena tornato a casa dalla dialisi. È un po’ frastornato, ma ricorda tutto. «Si vedeva il fumo. I tedeschi vengon su, bruciano le case!», i suoi occhi chiari li vedono ancora. Scappare, ma dove? Dove si è abituati ad andare, tutte le domeniche: lungo il sentiero medievale dell’Enfialugo, quello coi cippi antichi, su fino a Casaglia, alla chiesa parrocchiale di San Michele. Il 29 settembre è il suo giorno, il giorno dell’angelo custode, ci custodirà. Una cappella di pochi metri quadri, bastano poche decine di persone per stiparla, «in chiesa non ci faranno nulla ». Ma Lillo ha paura, mica di morire, no, «paura che i tedeschi mi prendano per portarmi in Germania». E allora, la mamma gli grida dal sagrato «Lillo vieni dentro!» ma lui in un secondo prende la decisione, «mi volto indietro e corro nel bosco», la voce gli si rompe, «io sono vivo perché ho disobbedito a mia madre». Nascosto fra querce e larici, vede tutto. La pattuglia che scardina la porta della chiesa, fa uscire tutti facendo il verso beffardo che si fa ai maiali, «brrr! brrr!», la colonna di donne vecchi bambini avviata verso il cimitero, appena cento metri, ecco, saltano anche i cancelli del camposanto, tutti in fila lungo il muro, la mitragliatrice montata, i colpi... Lillo non va più avanti, ora piange come il ragazzino terrorizzato che era.
Eccolo, il cimitero di Casaglia. C’è la tomba di don Giuseppe Dossetti, “l’onorevole di Dio”, il monaco che riconsacrò Monte Sole. Ci sono poche vecchie croci di ferro. Qualcuna mostra ancora i fori dei proiettili. «Volevano uccidere anche i morti...». Sono fori bassi. Ad altezza di bambino. «Volevo tornare a cercare la mamma», si riprende Lillo, «lì in quel mucchio di morti. Ma i tedeschi non se ne andavano. Ho girato due giorni nei boschi. Poi ho preso un camion che andava a Firenze», piange ancora. Sì, Lillo, basta, basta così.
«Forse, fossero scappati tutti nei boschi... disperdendosi, come Lillo...», si chiede Tina. «Ma credevano nell’inviolabilità della Chiesa. Rimasero tutti assieme e facilitarono il lavoro ai tedeschi». Scrisse con triste sintesi una delle sentenze dei processi del dopoguerra: “Rimase chi credeva di essere protetto dalla propria debolezza”. O magari dai partigiani. Ma loro avevano già perso la partita, fin dalla mattina. All’alba i tedeschi avevano sorpreso e ammazzato a Cadotto il Lupo, il capo della brigata Stella Rossa. Qualcuno dice: avevano fatto festa la sera prima, erano certi che gli americani stessero arrivando, che fosse ormai finita. Chissà. Di certo, in quei giorni non ci fu nessun vero combattimento. Solo massacro, che i partigiani ormai sbandati guardarono attoniti dalla cima di Monte Sole, poche centinaia di metri più su di Casaglia, impreparati e impotenti di fronte a una guerra fatta così. Perché non fecero un tentativo disperato? È la domanda che da settant’anni infiamma le polemiche fra le due narrazioni rivali del martirio, quella partigiana-comunista che rivendica la lotta impari, e quella cattolica che li accusa di aver attirato l’ira dei tedeschi per poi lasciar sola la popolazione coi suoi sacerdoti. Ma ormai si sa, che cosa vennero a fare i tedeschi. Di andare a stanare ribelli armati uno per uno, nei boschi, sul loro terreno, non avevano la minima intenzione. Il piano di Reder era chiaro, lucido, razionale. Era “guerra sterminazionista”, come l’hanno definita gli storici Luca Baldissara e Paolo Pezzino nel libro Il massacro. L’ordine era: fare terra bruciata attorno ai partigiani. Case, cibo, persone, distruggere tutto. L’obiettivo, primario e anzi unico, erano i civili. Tutti i civili indifferentemente. Il massacro di Monte Sole non fu un’eruzione inspiegabile di bestialità, di “male assoluto”, non fu un crudele inutile irrazionale supplemento alla guerra: era la guerra. Era la guerra ai civili, la guerra inventata dal Novecento, la guerra che non punta a sconfiggere il nemico, vuole annientarlo, la stessa guerra che continua a seminare, nel mondo, anche oggi, la domanda agghiacciante: «E tu, quanti?».
A Monte Sole niente follia disumana, ma genocidio militarmente pianificato. Auschwitz sull’Appennino. La lapide nel sacrario, giù a Marzabotto, celebra le vittime «dell’amor di patria», ma di quale patria erano mai patrioti i settecentosettanta abitanti di questa prua di rocce e boschi, mondo di storia lenta, di uova sotto la cenere e mele sotto il letto? Vittime senza neppure la ricompensa dell’eroismo, scrive Tina nel suo romanzo, «morirono l’uno sull’altro, senza nessun motivo che li inorgoglisse per il sacrificio », senza nomi di condottieri o di ideali da gridare, solo quelli di figli, sorelle e madri. Testimoni rovesciarono al processo cataratte di episodi atroci, stupri, sevizie indicibili, un groviglio di terribili verità e mitologie dell’orrore che gli storici fanno ancora fatica a dipanare. Ma basterebbe dire: duecentosedici bambini. Una delle lapidi riporta «Ferretti Annamaria, di mesi uno». Come può un uomo, Tina? «I tedeschi erano ragazzi, sì, avevano madri, sorelle, forse figli. Ma per loro quelle erano persone. Razza dominatrice del mondo. Noi no, per loro eravamo bestiame, piante, polvere». Andiamo a trovare nonno Mingòn. Lo ammazzarono a Cerpiano, un chilometro oltre il crinale. I tedeschi lo trovarono seduto sulla panca di legno che aveva scavato in un tronco. Prima di sparargli, il soldato del Reich gli tolse dal taschino l’orologio d’oro, orgoglio di una vita, e glielo fece dondolare davanti agli occhi, ridendo. Ecco, fra gli sterpi, la chiesa distrutta con le bombe a mano con quarantanove persone dentro. «Zia Amelia cercò di uscire dall’inferno, la falciarono sulla soglia». Vide tutto Antonietta Benni, la maestra della scuolina degli sfollati, che si salvò fingendosi morta fra i cadaveri, e salvò due bambini tappando loro la bocca. «Lasciarono lì la zia per due giorni. I maiali le mangiarono la testa». Come riesce a raccontarlo, Tina? Esita. «Vede, quando Reder ci chiese la grazia, a noi sopravvissuti, disse che doveva rivedere la madre inferma prima che morisse». Tina è una dolce signora, una nonna da libri d’infanzia. Sospira: «Lei capisce, vero? Perdonare sarebbe stato disumano».
Tina saluta in silenzio i suoi spiriti, è un saluto speciale, «non so quante altre volte potrò tornare». Risaliamo la mulattiera verso Casaglia. Ha piovuto tutta la notte, proprio come settant’anni fa. La macchina scivola, s’impantana. Il salvatore che ci trascina fuori col suo fuoristrada mormora con disapprovazione: «i morti, bisogna lasciarli in pace».

il Fatto 21.9.14
Sondaggi: il 64% con lo Statuto Il Colle sotto il 40%

I SONDAGGI non danno ragione a Matteo Renzi. Così almeno si deduce dalla rilevazione Ixé, l’istituto di Roberto Weber, relativa all'articolo 18. Si dice contrario all'abolizione del cuore dello Statuto, il 64% degli intervistati. Il dato sembra riflettersi sui consensi al partito guidato da Matteo Renzi che passa dal 41,5% della scorsa settimana al 40,4%. Lieve ripresa di Forza Italia (+0.3) in leggero aumento anche il M5S che si attesta al 20,5%. Renzi resta saldo in quanto a fiducia con il 50 per cento delle preferenze. A seguire il presidente Napolitano al 39%, per la prima volta sotto il 40.

il Fatto 21.9.14
Che fai, li cacci?
Il premier aizza la base contro Bersani & C. “Basta vecchia guardia. Non tornerete”
Dopo il video anti-Cgil, lettera agli iscritti per attaccare la sinistra
Guerra aperta nel Pd sull’art. 18 in vista del voto parlamentare di questa settimana
Bonanni (Cisl) sull’attenti si sfila dalla Cgil e dalla Fiom
Le aree anti-renziane si riuniscono martedì sera per coordinarsi
Insieme valgono il 30% del partito, di più nei gruppi parlamentari
di Marco Palombi


L’equivoco del Pd forse sta per sciogliersi. L’equivoco umano, politico, ideologico per così dire. Le minoranze interne - dopo lo schiaffone del congresso e il pugno allo stomaco del 40,8% raccolto dal one man show di Matteo Renzi alle Europee - si stanno svegliando e il premier non ha intenzione di lasciargli il tempo di organizzarsi. Se martedì le varie anime anti-renziane del partito hanno convocato una riunione per darsi una qualche forma di coordinamento, ieri Renzi ha reso pubblica una lettera agli iscritti che è quasi un avviso di sfratto: “Il 29 settembre presenterò in direzione nazionale il Jobs Act... Chi oggi difende il sistema vigente difende un modello di disuguaglianze dove i diritti dipendono dalla provenienza o dall’età... Ci hanno detto che siamo di destra per questo. Ci hanno paragonato ai leader della destra liberista anglosassone degli anni Ottanta”.
CONCLUSIONE: “Anche nel nostro partito c’ è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il Pd del 25%. Noi no. Noi siamo qui per cambiare l’Italia e non accetteremo mai di fare le foglie di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova”. Traduzione: se proprio non siete convinti di tutto, gentili iscritti, ricordatevi che con me si vince e con quelli no. Non torneranno, no pasaran. Lo scontro tra Renzi e i rimasugli della “ditta” (copyright Bersani) era inevitabile, che il terreno principale su cui si eserciterà sia la riforma del mercato del lavoro è solo un felice piegarsi delle cose alla gioia del simbolismo. Finora il premier ha avuto vita facile: le minoranze interne sono state divise e spesso tendenti all’appeasement col capo: è il caso, in particolare, del capogruppo alla Camera Roberto Speranza e dell’attuale presidente del partito Matteo Orfini, che hanno rispettivamente spaccato le componenti - all’ingrosso - bersaniana e dalemiana scegliendo sostanzialmente di “entrare in maggioranza” col segretario e Dario Franceschini. È uno degli equivoci di cui si parlava e la riunione di martedì servirà a scioglierlo: Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Pippo Civati, Cesare Damiano pezzi di partito che fanno capo alle vecchie aree di Rosy Bindi ed Enrico Letta (è stato invitato anche il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, che non ha ancora risposto) tentano di darsi una strategia e una voce comune. “L’insieme di tutti questi pezzi vale il 30-35% del partito, di più se si parla dei soli gruppi parlamentari: è chiaro che Renzi senta il bisogno di attaccarli”, spiega una fonte democratica. Sono loro la “vecchia guardia”, anche nel caso che abbiano cominciato a fare politica dopo il premier, che l’ha sempre fatta. Uno dei campi di battaglia sarà sicuramente la commissione Lavoro della Camera: il Jobs Act, infatti, passerà quasi sicuramente in carrozza in Senato (la discussione comincia in Aula la prossima settimana), mentre il fuoco di sbarramento della minoranza Pd ha bisogno di un luogo favorevole alle imboscate. L’XI commissione di Montecitorio è perfetta: il presidente è l’ex Cgil Cesare Damiano e i sindacalisti vi abbondano come neanche in fabbrica (a spanne se ne contano una decina su 46 membri), come pure la sinistra Pd.
COME PROCEDERE non è così difficile. Il primo obiettivo è rendere la legge delega del governo meno ambigua: per com’è scritta adesso è così generica da consentire al governo di fare praticamente quel che vuole coi decreti attuativi (il cosiddetto “eccesso di delega” potrebbe in realtà anche essere motivo di incostituzionalità, ma inutile illudersi). Un esempio. Nessuno - nemmeno la Cgil - contesta il “contratto a tutele crescenti”: se si limitasse ai primi tre anni e servisse a sfoltire la giungla dei contratti precari non ci sarebbero problemi, ma il governo questo non lo dice e preferisce usare formule tipo “andare oltre i tabù” (Delrio). D’altronde si tenterà di intervenire anche su altri contenuti del Jobs Act: la possibilità di demansionare i dipendenti, ad esempio, o quella di applicare i contratti di solidarietà (riduzioni di orario/stipendio) in cambio di assunzioni; la restrizione della possibilità di accedere alla Cassa integrazione senza che sia chiaro come e quando potrà essere applicato il futuro “sussidio di disoccupazione universale” (i due miliardi che Renzi ha promesso non bastano affatto).
Il governo, però, ieri ha almeno ottenuto un risultato: il fronte sindacale è già rotto. Ai distinguo di Luigi Angeletti (Uil) di venerdì, infatti, ieri s’è aggiunta la defezione di Raffaele Bonanni (Cisl): “Il casino di questi giorni tra il Pd e la Cgil è solamente una faccenda di partito, che attiene a quelli là. L’articolo 18 è ormai diventato un’ossessione”. Pieno schema degli anni berlusconiani, anche se all’epoca non portò benissimo al governo e nemmeno ai sindacati.  

il Fatto 21.9.14
Renzismi
Matteo Orfini, il presidente che cambia sempre verso
di Sa. Can.


Non credo che un dirigente del Pd dovrebbe provare imbarazzo a stare vicino a metalmeccanici che difendono il proprio lavoro e i propri diritti solo perché qualche estremista passa di li”. Con queste parole Matteo Orfini argomenta l’editoriale di Leftwing, la rivista della sua area, intitolato “Perché sarò in piazza con la Fiom”. Che succede? Il Pd si appresta a una rottura definitiva? Si torna agli antichi schieramenti? Niente paura, non è una conversione radicale dell’altro Matteo, il presidente del Pd. Per quanto ci abbia abituato a “cambiare verso”, l’editoriale citato porta la data del 22 febbraio 2012.
Allora si parlava di Fiat e di Marchionne e ci si preparava alla riforma dell’articolo 18 targata Fornero. Oggi, invece, Orfini rilascia interviste, come quella al Corriere della Sera, per dire che “se ci sarà una manifestazione della Cgil, lui la guarderà in tv”. Sulla scia di Renzi, infatti, sostiene che sulla precarietà il sindacato “ha la responsabilità di essersi voltato dall’altra parte”. Insomma, bisogna che ognuno si faccia un esame di coscienza. Nessuna discesa in piazza, allora, nessuna barricata da erigere. Non è più tempo per queste cose specialmente per chi è diventato presidente del Pd in asse con Matteo Renzi e ha ormai salutato quella che il premier chiama “la vecchia guardia”.
EPPURE, NEL MARZO del 2012, Or-fini criticava da sinistra la riforma del lavoro di Elsa Fornero. Ora è “la professoressa degli esodati” a contestare, da sinistra, la riforma di Renzi. Che Orfini, invece, sostiene sia pure con qualche distinguo. Nelle polemiche di due anni fa il dirigente tirato su a pane e D’Alema se la prendeva con Enrico Letta, allora vicesegretario del Pd, che pretendeva di dettare la linea “con un tweet”. Esattamente come fa il leader attuale del Partito democratico che ha ormai scoperto anche la potenza del video. “È la politica, bellezza” dicono quelli rassegnati agli eterni voltafaccia.
Il presidente Pd è tra coloro che nel novembre del 2013, alla vigilia delle primarie che avrebbero incoronato Renzi con il 70 per cento dei voti, esultava per “il risultato straordinario per Gianni Cuperlo che emerge dal voto dei circoli: la partita è aperta”, diceva. In realtà, la partita si sarebbe chiusa qualche giorno dopo e l’alleanza tra lui e Cuperlo sarebbe rimasta un ricordo. Dopo le elezioni di febbraio 2013, l’ex “giovane turco” - ci ha ripensato anche su quello - si spinse ad attaccare le “larghe intese”: “Grillo e Berlusconi sognano la stessa cosa: un governo di Pd e Pdl. Ci dispiace, resteranno delusi. Non lo faremo mai'”. Lo faranno. Pochi giorni dopo. All’epoca, per Matteo Orfini, il Pd sarebbe dovuto stare “solo in maggioranze dove ci sia l’M5S”. Altrimenti, meglio tornare alle urne. Ora, il Pd dei “due Matteo”, è in maggioranza con Angelino Alfano e fa le riforme con Silvio Berlusconi. Quando Renzi si candidò al governo disse sobriamente: “È un’idea folle”. Non sapeva che di quel partito sarebbe diventato presidente. In un partito che “cambia verso”, un presidente migliore non si sarebbe potuto trovare.

Repubblica 21.9.14
Il ministro "coop" Giuliano Poletti
“Pronti a mediare sull’articolo 18 e la lotta alla precarietà altrimenti via al decreto”
intervista di Roberto Mania


ROMA Ministro Poletti, per tanto tempo il governo ha detto che il problema non era l’articolo 18. Ora, invece, il problema è proprio l’articolo 18. Può dirci come intendete modificarlo?
«Una cosa che va detta in termini chiari per evitare fraintendimenti è che il diritto al reintegro in caso di licenziamento discriminatorio non è mai stato, e non è, in discussione. D’altronde la legge delega fa riferimento esplicito alla normativa europea in materia».
E negli altri casi che ancora sono previsti rimarrà il diritto al reintegro?
«È aperta una discussione e non sono in condizione di anticipare nulla. Ci sono opzioni diverse sulla formulazione da dare al contratto a tutele crescenti, a fine mese è prevista la riunione della Direzione del Pd che discuterà anche di questo e di tutta la legge delega. Credo che sia bene che questa discussione si faccia in modo esplicito, chiaro, lineare. Poi il governo ne trarrà le conclusioni nei decreti attuativi della delega».
Non sarebbe più corretto che il governo dicesse chiaramente cosa vuole fare anziché aspettare i decreti e alimentare la discussione sulle ipotesi?
«Il governo cosa vuole l’ha detto. Vogliamo che l’esame della riforma del mercato del lavoro sia fatta tutta insieme e non a pezzetti. Noi proponiamo un cambiamento radicale che renda drasticamente più semplice tutta la materia. Vogliamo cambiare profondamente gli ammortizzatori sociali per estenderli a tutti quei lavoratori che attualmente non ne hanno diritto e passare alle politiche attive per il lavoro. In sostanza vogliamo spendere i soldi perché la gente vada a lavorare, non perché stia a casa ad aspettare. È su tutto ciò che vorremmo si discutesse».
Il governo è disponibile ad accettare modifiche che dovessero essere approvate in Parlamento?
«La legge delega non è un provvedimento blindato. Sarebbe assai strano che il governo non accettasse modifiche dal Parlamento a cui chiede una delega legislativa. Certo le eventuali modifiche non dovranno stravolgere l’impianto della delega presentata dal governo ed avere il consenso della maggioranza».
Sta dicendo che è tramontata l’ipotesi avanzata dal presidente del Consiglio Renzi di un decreto legge?
«Il presidente è stato molto chiaro: se i tempi di approvazione della delega dovessero dilatarsi il governo è pronto a ricorrere al decreto».
Forza Italia vi sta implicitamente offrendo il voto. Se arrivasse sarà ben accetto?
«Ogni partito ha la facoltà di scegliere come comportarsi. Il governo si confronta con la sua maggioranza. I voti in più che dovessero arrivare fanno piacere se servono a fare cose buone».
Come sarà il contratto a tutele crescenti?
«Nella delega c’è scritto che ai neoassunti sarà applicato il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti sulla base dell’anzianità di servizio. Probabilmente andrà prevista una diversa modulazione tra imprese con più di 15 dipendenti e quelle che stanno sotto questa soglia. È un ragionamento aperto».
Ci sarà l’indennizzo monetario o il reintegro per i neoassunti licenziati senza giusta causa?
«È una discussione aperta».
Qual è la posizione del governo?
«Questo è il nodo politico. Vedremo quale posizione emergerà anche dal dibattito alla prossima Direzione del Pd».
La Cgil dice di smetterla con gli insulti e di confrontarsi. Lei che ne pensa?
«Sottoscrivo totalmente questa dichiarazione. Gli insulti non servono mai e sono d’accordo che serva un confronto».
Dunque siete pronti a discutere con i sindacati? Li convocherà?
«Con i sindacalisti e con i rappresentanti delle imprese mi incontro tutte le volte che è necessario. Ciò che è importante è che la discussione si faccia sull’insieme della legge delega».
La legge delega, appunto, prevede anche la semplificazione e il riordino delle tipologie contrattuali. Quali contratti eliminerete? Resteranno le false partite Iva, gli associati in partecipazione, i parasubordinati, i co.co.pro?
«La delega prevede il riordino e la semplificazione dei contratti. È un lavoro complesso che ci porterà a decidere, pragmaticamente, di tenere solo quelli che servono davvero. Ciò che posso dire è che ci sarà un principio di fondo che guiderà il riordino: nessun contratto deve essere avvantaggiato dal punto di vista dei costi. Insomma bisogna semplificarli, ridurli se necessario e fare in modo che non ci sia un contratto che costi meno di un altro, ad esclusione della fase di avviamento dei contratti a tempo indeterminato che vanno promossi».
Quindi conferma che ridurrete il costo del lavoro agendo sull’Irap o sui contributi sociali?
«È uno dei nostri obiettivi fondamentali. Dovremo farlo con la legge di Stabilità».
Ma perché questo governo ce l’ha con la Cgil? È un vostro nemico? Non fa parte dello schieramento della sinistra?
«Non abbiamo certo un atteggiamento pregiudiziale nei confronti della Cgil e di nessun altro. Mi pare però che la discussione in corso sia un po’ sopra le righe: non credo che si possa paragonare Renzi a Margaret Thatcher: noi vogliamo estendere i diritti e le tutele, non abrogarli».
Forse non si possono nemmeno accusare i sindacati di essere i responsabili della precarietà.
«Forse tutta la classe dirigente italiana dovrebbe domandarsi perché siamo finiti in questa situazione. Nessuno può pensare di non portare una parte della responsabilità».
Un’ultima domanda, ancora sull’articolo 18: supponiamo che venga superato pensa davvero che possa dare un impulso all’occupazione?
«Solo un impianto ideologico può far pensare che tutto dipenda dall’art.18, nel bene e nel male. Sicuramente toglierebbe un alibi che non raramente viene sollevato dal mondo delle imprese. Ma questo non vuol dire che produca automaticamente effetti sull’occupazione. Una situazione di maggiore certezza favorisce gli investimenti».
Accetteremo le modifiche fatte dal Parlamento a patto che non stravolgano l’impianto della riforma
Noi ci confrontiamo con la nostra maggioranza I voti in più fanno piacere se servono a fare cose buone

Repubblica 21.9.14
Finita la luna di miele torna il Rottamatore: i gufi non bastano servono più nemici
E Matteo affila la rottamazione versione retrattile
di Filippo Ceccarelli


COME quasi tutte le cose della politica, e di Matteo Renzi in particolare, la famosa Rottamazione è retrattile.
Ossia: un giorno c’è e un giorno non c’è, ma poi ritorna, per quindi sparire di nuovo, a seconda delle necessità e delle convenienze del suo inventore, che legittimamente ne conserva il marchio e perciò usa la Rottamazione ora come una speranza, ora come un’opportunità, ora come una minaccia, ora — ed è il caso di ieri — come un’arma vera e propria.
La “vecchia guardia”, se un po’ saggia oltre che certamente vecchia, dovrebbe averlo capito da un pezzo. Su questa storia del lavoro e delle resistenze “ideologiche” alla sua riforma, Telemaco — come Renzi umilmente si autoproclamò nel suo discorso europeo all’inizio di luglio — si è infatti rotto le scatole e vuole mandare a casa i suoi anziani oppositori.
Quelle di Omero, dopo tutto, sono solo favole. Così, dismesse le vesti del devoto figlio di Ulisse, sul sito del partito, con lettera aperta agli iscritti e nessuna considerazione per quello che un tempo si diceva “gruppo dirigente”, il giovane segretario-premier in camicia bianca ha puntato diritto su D’Alema, Bersani, i sindacati, gli ex comunisti in giacca e cravatta, comunque su quelli che gli remano contro, gli intralciano la strada e gli mettono i bastoni fra le ruote. Messaggio chiarissimo, io 40,8 per cento, voi 25. Dunque si toglie ai vecchi per far posto ai giovani, nel jobs act come all’interno del Pd e nel potere in generale.
Lo scavalcamento della direzione, d’altra parte, è pienamente giustificato. Nell’ultima riunione, l’altro giorno, non una sola voce si è levata a contestare Renzi, ma nemmeno a discuterne le intenzioni. Delega totale al capo, niente perdite di tempo, sembrava una riunione di Forza Italia dopo le elezioni del 2001 o del 2008.
Com’è ovvio l’autocrazia — e si vede in questi giorni a occhio nudo nel mondo berlusconiano — ha i suoi rischi. Come ne offre parecchi la pavidità, e moltissimi la guerra fra le generazioni. Ma al momento, proprio perché giovane, il leader non ha concorrenti. E a tal punto non ne ha che fino a ieri si è potuto permettere il lusso di rallentare, sfumare, abbassare tono e attenuare l’enfasi su questa specie di formula magica della postpolitica che è la Rottamazione.
Forse inutile ricordare che quando Renzi la lanciò, fu accolta da reazioni per certi versi ultimative. Chi la qualificò “fascistoide”, chi populista, chi nuovista. Ma conserva ancora oggi un impatto molto forte. Pochi giorni orsono è stato chiesto al socialista spagnolo Sanchez se conosceva la pabe rola, ha risposto di no. Una volta tradotta, ha risposto diplomaticamente: “Noi diciamo ricambio”.
Il linguaggio di Renzi è molto più sorvegliato di quel che sembra. E anche più furbo. Più si avvicinava la sua ora e meno rottamatore gli conveniva di apparire. Così, subito dopo le elezioni, diede alle stampe, per Mondadori, un libretto intitolato “Oltre la rottamazione”. “Oltre”, capito? Piccolo capolavoro di dissimulazione, per non dire di conclamata spudoratezza, nel testo si spiegava addirittura che a tale pratica si doveva la promozione di Enrico Letta al governo. Figurarsi. “Adesso che la rottamazione è riuscita — prometteva Renzi — voglio essere il primo a dire basta con la rottamazione. E spiegare finalmente, un volta per tutte, che nessuno di noi ha mai inteso fare una battaglia squisitamente generazionale” eccetera.
Sia pure anche loro a rischio di rottamazione, i giornalisti politici hanno imparato a leggere i libri dei leader senza minimamente credere a ciò che scrivono. Talvolta, anzi, è necessario interpretarli all’incontrario. Da questo punto di vista Renzi offre spunti di grande interesse. E infatti, divenuto prima segretario e poi presidente, ha praticamente smesso di usare la parola, pur mettendola crudamente in pratica nel Pd e nel governo (un po’ meno nelle nomine degli enti).
Con qualche pedanteria si potrebil ricostruire come negli ultimi mesi egli si sia sforzato di modificare, aggiustare e addomesticare la sua fama di rottamatore presentandosi — l’ultima volta al ripristinato festival dell’Unità — come uno che non vuole gettare alle ortiche il passato e anzi ama la storia. Su questo rimane qualche ragionevole dubbio. Ma quando dice che i politici “hanno la scadenza come lo yogurt” e che anche lui è entrato in lista è onesto e veritiero.
Ma il punto ancora più vero — e l’uscita di ieri lo conferma — è che considerandosi anche a ragione il depositario della parola d’ordine e della sua applicazione, se le vuole giocare come gli pare e piace. Insomma, decide lui chi, in che modo, quando, dove e perché rottamare.
Archiviata ormai la luna di miele e pure l’eco della vittoria europea, una serie di circostanze (stato dell’economia, difficoltà nelle riforme, impicci famigliari) concorrono oggi a logorarlo. E allora Renzi ha bisogno di nemici. Nel tempo un po’ selvaggio in cui dominano le rappresentazioni, i leader, certi leader, vivono di conflitti. Guai a non averne, a costo di inventarsene. Gufi, rosiconi, professoroni, burocrati, banchieri e governanti europei non gli bastano. E compiuto un giro di potere, il giovane premier ritorna in qualche modo dove era partito. Far fuori la vecchia guardia. L’anno zero gli torna utile anche a rate.

L’Huffington Post 21.9.14
Piegato il sindacato, Renzi muove sulla minoranza Pd

qui

Corriere 21.9.14
Camusso non strappa. Renzi avverte il Pd
Il leader accusa la «vecchia guardia» del partito: vogliono scontri ideologici per tornare al 25%
Il sindacato: basta insulti, guardiamoci negli occhi
di Francesco Di Frischia


ROMA — «Noi siamo qui per cambiare l’Italia e non accetteremo mai di fare la foglia di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova». Il premier Matteo Renzi, nel respingere le accuse della Cgil sul Jobs act, attacca la sinistra Pd. Il sindacato, però, non molla e ribatte: «Basta insulti — è il monito lanciato su Twitter —. Guardiamoci negli occhi e discutiamone, ma mandare tutti in serie B non significa estendere i diritti e le tutele».
Il premier, in una lettera agli iscritti del suo partito, replica come sempre, senza peli sulla lingua, a chi lo ha accusato di essere come la Thatcher: «Ci hanno paragonato ai leader della destra liberista anglosassone degli anni Ottanta — scrive l’ex sindaco di Firenze —, ma a me hanno insegnato che essere di sinistra significa combattere un’ingiustizia, non conservarla». Poi affonda la lama contro chi lo ha criticato sul Jobs act: «Anche nel nostro partito c’è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il Pd al 25%. Noi no». E va oltre: «Chi oggi difende il sistema vigente, difende un modello di diseguaglianze dove i diritti dipendono dalla provenienza o dall’età. Noi, invece, vogliamo difendere i diritti di chi non ha diritti: quelli di cui nessuno si è occupato fino a oggi». «Davanti a un problema c’è chi trova soluzioni provando a cambiare e chi organizza convegni lasciando le cose come sono — rincara la dose il presidente del Consiglio —, ma la nostra sfida è bloccare l’emorragia dei posti di lavoro e tornare a crescere, semplificare il fisco pagando meno (ma pagando tutti, finalmente!) e, prima di tutto, investire sull’educazione e sulla scuola». Visto che non c’è tempo da perdere, Renzi annuncia: «Il 29 settembre presenterò il Jobs act in direzione nazionale del Pd». Il premier spiega che «dobbiamo attirare nuovi investimenti, perché senza nuovi investimenti non ci saranno posti di lavoro e aumenteranno i disoccupati. Ma dobbiamo anche cambiare un sistema ingiusto che divide i cittadini in persone di serie A e di serie B e umilia i precari».
Pensieri condivisi dal sottosegretario Graziano Delrio che promette: «Non verranno ridotti i diritti, ma si abbatteranno vecchi tabù». Aggiunge il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia: «L’articolo 18 è un falso problema, non è una priorità dei giovani». E la presidente della Camera, Laura Boldrini, auspica: «Mi auguro che da questo scontro, anche aspro, si arrivi ad una tutela effettiva dei lavoratori, sia di quelli più garantiti, sia dei precari: sull’articolo 18 non do pagelle».
Se rimangono molto lontane le posizioni del governo e della Cgil sulla modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (il licenziamento senza «giusta causa» nelle grandi aziende), il sindacato guidato da Susanna Camusso su Twitter lascia uno spiraglio al dialogo dichiarandosi disponibile «al contratto di lavoro a tutele crescenti, ma solo se si cancellano i tanti contratti che producono precarietà e i licenziamenti senza ragione». Per il momento non ci sono appuntamenti in programma, ma una parte del partito starebbe lavorando per favorire un incontro tra Renzi e i vertici della Cgil, dopo la direzione del 29. Il sindacato indica tra i punti da avviare per la riforma del lavoro: «Malattia e maternità: estendiamo a tutti i diritti e le tutele»; «niente declassamenti di qualifica» e soprattutto «dignità a chi lavora». Al termine di una raffica di tweet, il sindacato di Corso d’Italia lancia un interrogativo: «Da sempre ci battiamo per estendere diritti e tutele. Renzi vuole fare lo stesso?».
Più dure le critiche mosse al premier dal leader di Sel, Nichi Vendola: «Stai per realizzare il grande sogno della destra politica ed economica abbattendo tutte le regole che danno dignità e diritti a chi lavora. E lo fai usando il pretesto sgradevole e insopportabile dei precari». Anche Luigi Di Maio (M5S) attacca: «La modifica dell’articolo 18 serve solo alle multinazionali per schiavizzare altri italiani».
Se Raffaele Bonanni (Cisl) dice «sì» alla rimodulazione dell’articolo 18 purché il contratto a tutele crescenti sia applicato a tutte le forme di precariato mentre Luigi Angeletti (Uil) si schiera con Camusso: «Questa sorta di duello rusticano tra Renzi e la Cgil ci sta veramente stufando. Il fatto che in passato non abbiamo avuto la forza di difendere quei lavoratori poco tutelati, non è una buona argomentazione per togliere protezioni a chi ce l’ha».

L’Huffington Post 21.9.14
Jobs Act, i pontieri Pd e Cgil al lavoro per evitare scissione nel partito e rottura con sindacato. Ipotesi incontro dopo il 29
di Andrea Carugati

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Corriere 21.9.14
«Non si può perdere tempo» Il premier ha pronto il decreto
Ai suoi spiega: non voglio uno sciopero, ma non lo temo
di Maria Teresa Meli


ROMA — «La partita in questo momento non è solo con i sindacati, ma anche con Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo. Per questa ragione ho voluto scrivere agli iscritti del Partito democratico, per far capire loro quale è la vera posta in gioco».
Matteo Renzi fa Matteo Renzi. Ossia non mostra di voler arretrare sulla battaglia che riguarda il Jobs act. E non solo: «Noi non ci fermiamo su nulla: sulla giustizia, sul lavoro, sull’articolo 18, sulla Pubblica amministrazione». Deve essere chiaro anche agli elettori del Pd, perché la battaglia non è «come vorrebbe far credere Camusso» tra «destra e sinistra», ma «tra conservatori e riformisti». Ed è superfluo dire a quale categoria il presidente del Consiglio iscriva D’Alema, Bersani, Cuperlo e il segretario della Cgil.
«Sarà finalmente chiaro a ognuno — si infervora il premier dopo aver scritto quella lettera aperta — che o si risolve tutto insieme o non si risolve nulla». Per questa ragione, e non per inseguire le elezioni, l’inquilino di Palazzo Chigi mette nel calderone delle riforme anche quella che riguarda la legge elettorale.
Ma ora è il Jobs act l’oggetto del contendere, il provvedimento che sta accendendo lo scontro più aspro nel mondo del centrosinistra e tra il governo e i sindacati. Il decreto, di fatto, è già pronto. Perché Renzi non può consentirsi il lusso di mandare le cose troppo per le lunghe. Lo ha spiegato ai fedelissimi e agli alleati di governo a lui più vicini: «C’è un’unica cosa che non possiamo proprio fare: perdere tempo». Già, perché quella riforma «va fatta prima del Consiglio europeo». Perché è sempre la flessibilità quella che il presidente del Consiglio va cercando e la potrà ottenere soltanto così. «Sarà una grande operazione», assicura agli alleati. E aggiunge: «È chiaro che io non voglio lo sciopero generale e non lo auspico, però non mi preoccupa, io mi devo occupare di chi non è tutelato e non è garantito. Questa situazione non può più andare avanti, altrimenti i giovani non avranno un futuro».
Perciò se l’intenzione dei «conservatori» è quella di mantenere lo status quo, di mettere i bastoni tra le ruote, «io il decreto lo faccio».
Da Camusso, a dire il vero, il premier si aspettava questa levata di scudi. Sa che il segretario della Cgil gliel’ha giurata e che non ha intenzione di fargli nessuno sconto. La sua, a giudizio dei renziani, è ormai una posizione pregiudiziale e difficilmente potrà cambiare. E, riflettendo ad alta voce con i collaboratori, Renzi si interroga se tra i motivi di tanto livore da parte di Camusso non vi sia anche il fatto che i «sindacati prendono per i patronati più di quattrocento milioni di euro che con la dichiarazione dei redditi precompilata varata dal governo per il prossimo anno potrebbero sparire».
Ma è soprattutto l’atteggiamento che giudica pretestuoso della minoranza del suo partito che in questo momento infastidisce il premier. Il quale, essendo come si auto-definisce lui stesso, non un improvvisatore, ma uno «che studia con costanza», ricordava dichiarazioni assai diverse di coloro che adesso gli fanno la fronda. Le ricordavano bene anche alcuni parlamentari di più lungo corso rispetto alla nuovissima leva renziana. E le hanno ritrovate dopo una breve ricerca. Ne hanno ripescata una di Cesare Damiano, del 2005, entusiasta, dopo un viaggio in Danimarca, in cui sosteneva che la flexsecurity è «un modello funzionante». Ce ne è un’altra, di Pier Luigi Bersani, del 2009, che suona così: «Non va bene che ci sia una parte protetta e la metà senza tutele. Ci vuole una riforma del mercato del lavoro che superi questo dualismo. Questo doppio regime nel lavoro non funziona. E sono pronto alla battaglia con i sindacati perché pure loro si dimostrano miopi». E il presidente del Consiglio ricorda ancora un Massimo D’Alema entusiasta della proposta di contratto unico di Pietro Ichino, nel 2009, che, en passant, prevedeva l’eliminazione dell’articolo 18. E qualche senatore a lui vicino è andato a cercare la prima edizione del Codice semplificato del 2009, quello che riscrive integralmente lo Statuto dei lavoratori e, ovviamente, anche l’articolo 18. La prima firma è di Ichino. La terza è di Vannino Chiti.

Corriere 21.9.14
Landini: sui precari non abbiamo fatto abbastanza
«Noi per primi per le tutele crescenti ma alla fine devono includere l’articolo 18»
intervista di Fabrizio Roncone


La Cgil dice a Matteo Renzi: guardiamoci negli occhi e discutiamo.
«Dice proprio così?».
Esattamente così. E pure la Cisl apre alla modifica dell’articolo 18.
«Mhmm...»
Sorpreso?
«Sono in viaggio... non sapevo che...».
(Da Reggio Emilia, dove abita, a Lecco, dov’è atteso a una festa di Sel: il lider máximo della Fiom, Maurizio Landini, resta in silenzio, tra stupore e perplessità, solo per alcuni secondi; le continue partecipazioni ai talk show televisivi lo hanno allenato ad avere tempi di reazione veloci. La voce gli torna come in un lampo ).
«I programmi della Fiom, comunque, non cambiano! Confermo la manifestazione del prossimo 18 ottobre e invito le Rsu a usare il pacchetto di 8 ore di sciopero per organizzare assemblee nei luoghi di lavoro...».
Scioperi, assemblee, conflitto.
«No, sbaglia. Non siamo noi che vogliamo il conflitto: noi chiediamo di riformare il mercato del lavoro, di cancellare la precarietà e...».
Renzi sostiene che, per anni, voi sindacalisti avete difeso le ideologie, non i lavoratori: lei, Landini, dov’era quando esplodeva il fenomeno del precariato?
«È Confindustria che fa pura ideologia chiedendo di cancellare i contratti nazionali, così come è un esercizio altrettanto ideologico chiedere di modificare l’articolo 18...».
Mi permetta di insistere: cos’ha fatto, il sindacato, in questi anni, per i precari?
«Non sono i sindacati che fanno le leggi, sono i partiti. Compreso quello di cui Renzi è segretario. Detto questo...».
Ecco, detto questo?
«Beh, certo, il sindacato ha i suoi difetti, non c’è dubbio che debba cambiare... e se poi insiste a chiedermi cosa abbiamo fatto per difendere i precari, le rispondo che non abbiamo fatto abbastanza, questo è chiaro, e naturalmente non deve venire a dircelo Renzi».
Renzi viene a proporvi cambiamenti concreti: come il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
«Guardi, Renzi non viene a proporci proprio un bel niente, non porta alcuna novità, perché siamo stati noi, per primi, al nostro congresso, a immaginare uno schema di assunzione simile. Il punto è che se si parla di un contratto a “tutele crescenti”, vuol dire che poi, ad un certo punto, le tutele diventano complete, compresa quella dell’articolo 18. Che, invece, il governo ha intenzione di eliminare».
C’è questa ammirevole difesa dell’articolo 18: eppure gli esperti fanno notare come l’80% delle assunzioni avvenga già senza la tutela dell’articolo 18, un po’ perché il 70% dei contratti è a termine e un po’ perché poi quelli a tempo indeterminato riguardano anche le aziende con meno di 15 dipendenti. Quindi ...
«Quindi cosa? La prego di scriverlo, perché ogni occasione è buona per ricordare un concetto fondamentale: cancellare l’articolo 18 equivale a cancellare la Costituzione. Significa prendere il Paese, infilarlo nella macchina del tempo e farlo ripiombare in pieno Ottocento».
Landini, il suo discorso è di grande fascino, ma devo ricordarle che il governo Monti ha già cambiato, quasi radicalmente, l’articolo 18: il reintegro non è più automatico, c’è sempre un giudice che deve decidere.
«Ecco, perfetto: e allora, visto che l’articolo 18 è già stato parzialmente modificato, sa dirmi quanti posti di lavoro ci abbiamo guadagnato? Nessuno. E sa perché? Perché le aziende straniere sono frenate non da ciò che resta dell’articolo 18, no: non vengono a investire in Italia perché qui c’è corruzione, perché l’Italia è divorata dalla corruzione... Lei non dovrebbe intervistare me, ma il presidente di Confindustria e domandargli: perché si preoccupa tanto dell’articolo 18 e non si impegna invece a cacciare dalla sua associazione gli industriali che pagano tangenti?».
Con Renzi, a differenza di Susanna Camusso, lei ha avuto un’intesa forte: si pente di essere stato un suo interlocutore privilegiato?
«Assolutamente no. La Fiom si confronta con tutti, premier compreso. Quando dette gli 80 euro, approvammo: era atto buono e giusto. L’accordo con la Electrolux ci piacque e firmammo. Però ora gli dico: invece di abolire l’articolo 18, pensa a come far rientrare i capitali dall’estero, ripristina il falso in bilancio, vara una seria legge contro l’autoriciclaggio, scatena una guerra all’evasione fiscale... Fare il liberista e accettare, senza discutere, ordini dall’Europa e da Confindustria non va bene. La verità è che Renzi purtroppo...».
Purtroppo?
«Renzi purtroppo è spesso un po’ troppo renziano. Molto veloce ma anche furbo e tattico: invece, a volte, dovrebbe riuscire a dire di no».
Ha visto l’ultima gag di Maurizio Crozza, su La7? Imita lei e la Camusso e vi descrive come molto vecchi: usate il telefono a gettoni, girate in Fiat 128, siete insomma l’immagine di un sindacato datato e polveroso.
«Ah ah ah! Divertente, sì... Però ho notato che Crozza non aveva la magliettina della salute che io, invece, indosso sempre... Ce l’ha presente, no? La magliettina bianca che mi spunta da sotto la camicia...».

Corriere 21.9.14
L’affondo del leader dem compatta la minoranza: ci usa come capro espiatorio
L’idea di un «coordinamento unico» dell’opposizione interna
di Alessandro Trocino


ROMA — La luna di miele del Pd con il segretario Matteo Renzi — e la relativa pax interna —, se mai è cominciata, sembra finita. Se serviva un ultimo segnale è arrivato ieri, con la lettera del premier e l’attacco frontale alla «vecchia guardia» che cerca «lo scontro ideologico» e vuole «riportare il partito al 25 per cento». È il segnale che non si torna indietro. La faglia con la minoranza è destinata ad allargarsi e già martedì potrebbe essere ufficializzata con la riunione indetta per fine mattinata alla Camera, nella quale si parlerà per la prima volta apertamente di «coordinamento unico» dell’opposizione.
Il Pd è in piena ebollizione, ma Renzi non sembra temere i contraccolpi dello scontro. Anzi, c’è chi dice che il suo obiettivo sia proprio questo, dirottare l’opinione pubblica dalle polemiche sulla riforma del lavoro e costruirsi un «nemico». Lo sostiene Stefano Fassina, che non ha apprezzato affatto la lettera agli iscritti di Renzi: «È inaccettabile, una caricatura della realtà. Gli fa comodo rappresentare la discussione in corso con lo schema vecchio-nuovo su cui ha vinto le primarie. Ma non c’è nulla di ideologico. Lo scontro è tra chi, come noi, vuole innovare e contrastare la precarietà e chi è subalterno all’impianto liberista e strumentalizza le condizioni drammatiche dei precari». Per Fassina, lo schema è chiaro: «Renzi si rende conto dell’impossibilità di mantenere la valanga di promesse che ha fatto e cerca un capro espiatorio».
Alfredo D’Attorre, tra i più vicini a Pier Luigi Bersani, è in sintonia: «È Renzi che cerca lo scontro ideologico, per coprire una svolta a 180 gradi sui contenuti. Da tempo sta provando a cavalcare un sentimento popolare, che in effetti c’è, di critica diffusa nei confronti dei sindacati. Lo stesso ha fatto per la magistratura. Ma si illude se pensa di sfuggire al merito».
La rivolta cova sotto le ceneri, ma è pronta a trasformarsi in un incendio in aula al Senato, dove potrebbe approdare la riforma del lavoro, prima della direzione del 29 settembre, nella quale Renzi presenterà il Jobs act. Bersani ha annunciato che ci saranno molti emendamenti. E il rischio di agguati è altissimo. Anche perché il voto al Senato può essere un modo per disinnescare quello che D’Attorre chiama «la disciplina bolscevica, per cui dovremmo votare in maniera rigida seguendo le decisioni della direzione».
Ufficialmente all’opposizione ma in una figura istituzionale (è presidente dell’Assemblea) e non lontano dalla maggioranza c’è Matteo Orfini. Che, pur critico sulla riforma, ieri è stato durissimo: «Chi ha perso il congresso lavori all’unità del partito, non all’unità della minoranza». Riferimento palese alla riunione che potrebbe ricomporre bersaniani, dalemiani, civatiani, bindiani e lettiani.
Rosy Bindi ci sarà: «Certo, sono una dei promotori. Parliamo a viso aperto, non amo le riunioni carbonare». Francesco Boccia ha ricevuto l’invito ma non ha ancora dato la sua disponibilità. Però ha le idee chiare: «Se le direzioni durano 30 minuti, restano solo due alternative: andare a parlare al bar o autoconvocarsi». L’opposizione interna, dunque, potrebbe risorgere in forma organizzata, con un’alleanza non più solo tra le vecchie correnti ma anche tra i vecchi big, i «dinosauri» intramontabili del Pd, e i giovani leoni dell’opposizione.
L’ombra della «vecchia guardia», dei D’Alema, Bindi e Bersani, incombe su Renzi, ma soprattutto sui giovani oppositori. Gianni Cuperlo non ci bada e pensa ad altro: «Spero ancora in un sussulto di buon senso di Renzi, nel suo senso di responsabilità». Anche perché, aggiunge Boccia, «con i vaffa non si governa». «Ascoltiamoci senza scomuniche» dice Orfini. Ma l’incendio ormai divampa. Lorenzo Guerini spiega che si cercherà una mediazione «nel segno del cambiamento». Cesare Damiano non vede il cambiamento, se non nel verso sbagliato: «Renzi fa cose di sinistra e di destra. Questa riforma del lavoro non è nel profilo di un partito che appartiene al socialismo europeo».

Repubblica 21.9.14
Renzi spacca il Pd
Ma la fronda cresce: “110 pronti a votare no”
E torna lo spettro scissione
di Goffredo De Marchis


ROMA La minoranza del Pd ha letto la mail di Renzi come una dichiarazione di guerra. «Dica quello che crede. Su questo piano io non mi ci metto», sibila Pier Luigi Bersani in una versione insolita: è furioso. Il modo - un messaggio agli iscritti del Pd per additare i compagni di partito come nemici del partito e del Paese, le parole durissime contro «la vecchia guardia» che ha preso il 25 per cento e ora vorrebbe riconquistare il Pd sono il «piano» che ha offeso non solo Bersani ma tutto il blocco di opposizione al Jobs Act. È già cominciata la conta, antipasto della battaglia. Fra deputati e senatori la componente bersaniana unita alle altre anti-Renzi, può contare all’incirca su 110 dissidenti. Martedì si riuniranno, dopo il vertice che vedrà allo stesso tavolo Fassina, Cuperlo, Bindi, Civati. L’ex sfidante delle primarie pronuncia chiaramente la parola che altri non vogliono nemmeno sentire, ma che in caso di scontro nessuno può escludere. «Se Renzi pensa di andare alle urne sulla riforma del lavoro credo che troverà una nuova forza di sinistra in campo — dice Pippo CIvati —. È uno choc, lo capisco. Ma il fantasma della scissione aleggia e non solo dalle mie parti».
Stefano Fassina aiuta a capire qual è la strada che sta imboccando il Pd. Ed è una strada che a un certo punto si divide in due. «La posta in gioco è un partito progressista utile all’Italia o un PdR, ossia il partito di Renzi, incapace di un cambiamento progressivo», spiega l’ex viceministro. Lui ha già scelto, sa bene come comportarsi se il premier non tornerà indietro. «Ho vinto le parlamentarie grazie a migliaia di consensi. Il mio mandato di deputato è chiaro: votare riforme diverse da quelle della destra come invece vorrebbe Renzi. La direzione può decidere ciò che vuole. Per me è prioritario l’impegno che ho preso con gli elettori». Ecco, come in una fotografia, i contorni della spaccatura. Il bersaniano Alfredo D’Attorre fa i conti: alla riunione convocata martedì dovrebbero essere presenti 110 parlamentari. Tutti potenziali voti contrari alla riforma dell’articolo 18, se l’atteggiamento di Fassina sarà maggioritario. «Non voglio sentire richiami alla disciplina di partito da Renzi. Non può dare lezioni. Ricordo bene che fu lui a sabotare l’indicazione a maggioranza di Marini per il Quirinale. Con una pubblica dichiarazione », ricorda l’ex viceministro.
L’ipotesi scissione diventa tanto più concreta quanto più aumentano i sospetti sul vero obiettivo del premier. «Penso che la sua sia una manovra politica. Andare alle elezioni accusando il Parlamento di impedirgli la rivoluzione del Paese», dice Fassina. Ma proprio per questo la minoranza cerca di evitare strumentalizzazioni. «Renzi sta trasformando un problema serio in un referendum. O me o Bersani e la Camusso. Ma non è questo il punto », dice D’Attorre. Dice Civati: «Matteo ha grossi problemi con la legge di stabilità. Non sa dove trovare i soldi e in Europa non ha ottenuto niente. Allora prende tutti a pallonate e nasconde il suo fallimento».
Adesso la minoranza vuole organizzarsi, con alcuni argomenti a favore e a sfavore. Sa che la Cgil è impopolare in larghi strati della società. Sa anche che il tema «vecchia guardia » può avere una certa presa. Ma userà la legge delega per sostenere le sue tesi. «Lì l’articolo 18 non c’è e quel testo l’ha scritto il governo, non io», ricorda Fassina. «Renzi era a favore del modello tedesco, ora ha cambiato idea. Noi presenteremo al Senato e alla Camera emendamenti che vanno verso quel modello e verso l’estensione degli ammortizzatori ai precari». Il vertice di martedì serve anche a saldare la sfida sul Jobs Act alle proposte sulla Finanziaria, «il punto debole della strategia renziana», dicono gli oppositori. La successiva riunione dei parlamentari dovrà fornire la consistenza della «fronda». Senza rinunciare alla battaglia nella direzione del 29 settembre. «Finora in quella sede non ci siamo mai contati davvero. Lo faremo questa stavolta. E se i contrari alla riforma del lavoro saranno il 40 per cento, Renzi dovrà scendere a patti», dice un bersaniano. Volutamente i giovani turchi di Matteo Orfini non stati invitati a questi appuntamenti. «Gliel’avevo detto - sottolinea Civati -- . Il renzismo è totalizzante. È impossibile fare la sinistra di Renzi. Anche perché uno dei suoi obiettivi è ammazzare i “comunisti”». Sullo scontro peserà molto la possibile alternativa al governo attuale, che al momento non si vede. Se l’obiettivo nascosto è il voto in primavera la minoranza sarà costretta a muoversi con maggiore cautela. Renzi del resto in privato ammette: «Voglio arrivare al 2018. Ma l’approvazione dell’Italicum mi può servire come strumento di pressione...». Perché non è solo Civati a pensare che il premier punti alla soluzione finale: cancellare la componente ex Ds dal Pd.

La Stampa 21.9.14
Il partito dell’articolo 18 affila le armi in Commissione
“Il reintegro è un diritto”
Un quarto dei componenti ha un passato nella Cgil
di Antonio Pitoni


Il «partito» del sindacato popola la commissione Lavoro della Camera. Dodici seggi su 46, quasi un monocolore. Con undici ex Cgil: nove del Pd, uno di Sel e uno di Socialisti europei. Più un ex Ugl in quota FI. Oltre un quarto del totale dei componenti.
Un numero che il premier, Matteo Renzi, farebbe bene a tenere a mente. Specie ora che la partita della riforma del mercato del lavoro sta per entrare nel vivo. Le parole del presidente della commissione, Cesare Damiano (Pd), pure lui ex Cgil e già ministro del Lavoro, hanno d’altra parte già dato un’idea dell’aria che tira: «E’ opportuno che l’attuale tutela dell’art. 18, rivista appena due anni fa, rimanga anche per i nuovi assunti». Indirizzo largamente condiviso nella pattuglia degli ex Cgil del Nazareno. «Sono preoccupata per la contrapposizione in atto tra il mio vecchio sindacato e il mio nuovo partito», ammette Luisella Albanella. «Spero che alla fine nel Pd si arrivi ad una sintesi - aggiunge - ma non nego che, se dovesse prevalere l’interpretazione di Ncd all’emendamento del governo, mi troverei in seria difficoltà». Categorica Cinzia Maria Fontana: «Fortunatamente la linea di Sacconi non è quella del Pd, ma se finisse per prevalere non la voterei - assicura -. Una linea, figlia anche dell’ambiguità del governo, cui ora chiediamo chiarezza, e che metterebbe in discussione il valore della tutela dei diritti, per noi centrale». Poi ricorda che «il contratto a tutele crescenti prevede la sospensione e non l’abolizione dell’art. 18». E avverte: «Se la linea cambiasse, sarebbe doveroso consultare gli iscritti con un referendum». Marialuisa Gnecchi ammette che «l’emendamento del governo si presta a tutte le interpretazioni possibili». E Sacconi «sta giocando» proprio su questo, «mettendo in difficoltà il Pd». Presto per dire come voterà in mancanza di un testo definitivo. Ma una cosa è certa: «Il reintegro - conclude la Gnecchi - è un valore non monetizzabile». Patrizia Maestri si rivolge al premier: «Non si supera l’apartheid sottraendo diritti». L’impostazione Sacconi «non va bene», perché sarebbe «un errore ridurre la riforma al gioco art. 18 sì, art. 18 no». D’altra parte, osserva Giorgio Piccolo, «ci sono da sciogliere anche i nodi del demansionamento e del controllo a distanza». Giuseppe Zappulla fissa due paletti. «Le tutele crescenti presuppongono il disboscamento dell’attuale giungla contrattuale. Al termine del percorso, l’art. 18 deve tornare applicabile». Si dice certo che si troverà un punto di sintesi. Ma se non accadesse? «Sarebbe una grande sofferenza non seguire le indicazioni del partito - conclude Zappulla - ma dovrei riflettere seriamente». Anna Giacobbe è diretta: «La posizione di Renzi sui licenziamenti ingiustificati è sbagliata. La Cgil reagisce come ci si aspetta che faccia». Monica Gregori, licenziata a capodanno e oggi precaria, ha un messaggio per il premier: «Chi difende il reintegro per licenziamento discriminatorio sa cosa dice perché lo sta vivendo in prima persona come la sottoscritta. Lo invito per spiegargli le conseguenze sulla vita delle persone, forse scenderà dalla luna e tornerà sulla terra».
Dall’opposizione, Giorgio Airaudo di Sel picchia duro: «Sacconi? Da ministro ombra del governo Renzi è riuscito a fare ciò che non gli era riuscito con Berlusconi. L’impostazione va cambiata radicalmente e Sel non aspetterà che la riforma arrivi alla Camera, inizierà subito presentando emendamenti al Senato». Critica anche l’ex leader dell’Ugl, oggi in FI, Renata Polverini: «E’ una delega a maglie talmente larghe che può contenere tutto e il contrario di tutto. Credo sia voluto, per nascondere la difficoltà di mettere insieme le visioni opposte di Sacconi e del Pd». E l’art. 18? «Lo difenderò con tutte le forze».

Il Sole 21.9.14
Bersani: bene le tutele crescenti, sì al tempo indeterminato flessibile
intervista di Fabrizio Forquet


Bersani, il presidente del Consiglio e leader del suo partito dice che sul lavoro in questi anni i sindacati hanno difeso l'ideologia e non le persone. Si sente anche lei tra i conservatori sul banco degli imputati?
Passare per conservatore proprio no. Con la mia storia mi fa venire l'orticaria. Il problema è che qui serve una vera riforma del mercato del lavoro, non operazioni gattopardesche.
Pensa che Renzi voglia far finta di cambiare tutto per non cambiare niente?
Ho l'impressione che si stanno alzando delle bandiere, si fanno battaglie su slogan, ma poi si raccontano cose che non esistono. Bisogna essere precisi, rigorosi, pragmatici. Sono questioni molto delicate.
Sono indignato che si possa dire che noi stiamo riducendo la precarietà quando la stiamo aumentando.
Veniamo al merito allora. Renzi dice: alleggeriamo un po' la rigidità dei contratti a tempo indeterminato e nello stesso tempo introduciamo vere politiche attive e sussidi per chi perde il posto di lavoro. Cosa c'è che non va?
Il governo in realtà ha fatto una norma che può consentirti di andare a nord, ovest, sud o est. Dopodiché è venuta fuori una interpretazione delle sue intenzioni che, se fosse vera, significherebbe fallire su tutta la linea.
È l'impostazione dei Paesi del Nord Europa, dove il mercato del lavoro funziona e chi perde un posto di lavoro ha ragionevoli possibilità di trovarne un altro.
Il problema è che non basteranno di certo due miliardi a introdurre quel sistema in Italia. La flexicurity alla danese costa almeno 15 miliardi, come facciamo a introdurla domani mattina con la situazione della finanza pubblica che ci ritroviamo?
Si può cominciare a lavorare in quella direzione. Sarebbe ora. Anche perché il mercato del lavoro oggi è spaccato in due e oltre l'80 per cento dei giovani non solo non ha la protezione dell'articolo 18 ma nessuna delle tutele del tempo indeterminato. Il contratto a tutele crescenti, in sostituzione di quello a tempo indeterminato, permetterebbe una maggiore unificazione del mondo del lavoro, eliminando l'attuale discriminazione.
Su questo non c'è nessuna chiarezza da parte del governo. Io penso che il problema numero uno in Italia sia la produttività. Dobbiamo aumentarla. E per farlo è giusto intervenire sul mercato del lavoro. Allora dico innanzitutto che va bene un contratto a tutele progressive, ma questo non può valere solo per i nuovi contratti come è stato detto. Così si andrebbe nella direzione di aumentare la segmentazione del mercato del lavoro mentre si dice di volerla ridurre. Questo sarebbe inaccettabile. Noi abbiamo bisogno appunto di un percorso unificante. Il contratto a tutele crescenti dovrebbe quindi sostituire gran parte dei contratti esistenti, riducendo a tre-quattro le altre tipologie.
Ma cosa vuol dire per lei tutele crescenti? Il nodo della flessibilità è anche qui: non possiamo correre il rischio, in un momento di crisi, di irrigidire ulteriormente il mercato del lavoro. Che poi è quello che è successo con la legge Fornero.
La flessibilità è appunto nelle tutele crescenti. In un periodo iniziale l'imprenditore ha più facoltà di interrompere il rapporto di lavoro, passati due-tre-quattro anni non più.
Quindi dopo tre anni tornerebbe il contratto a tempo indeterminato come lo conosciamo oggi? Articolo 18 incluso?
Possiamo pensare a una maggiore flessibilità, su questo sono apertissimo, anche sull'articolo 18 si può tornare a intervenire cercando di farlo funzionare meglio, ma alla fine la reintegra deve rimanere.
Già con la Fornero si è provato a semplificare la procedura dell'articolo 18, ma l'esito è stato opposto. Oggi il processo è ancora più farraginoso. Non è meglio, invece di inventare formule che non funzionano, sostituire la reintegra con il risarcimento monetario?
Mi rendo conto che l'applicazione dell'articolo 18 sia farraginosa e crei problemi all'azienda, so che c'è un problema enorme di lentezza della giustizia, perciò io dico: interveniamo, proviamo a trovare soluzioni per farlo funzionare meglio, per accelerare tutto. Ma ribadisco: alla fine la reintegra deve rimanere, magari dopo più anni, ma deve rimanere. È una tutela che va garantita.
Non c'è il rischio, in questo modo, di lasciare comunque sulle spalle delle imprese l'onere della garanzia sociale per il lavoratore e la propria famiglia, laddove questa garanzia dovrebbe essere assicurata dallo Stato? Forse nel capitalismo protetto di una volta questo era possibile, ma oggi in un mercato aperto le aziende non riescono più a sostenere questo ruolo.
Mi rendo conto. E infatti io credo che le aziende vadano anche incentivate su questo fronte rendendo il contratto a tempo indeterminato meno oneroso, attraverso sgravi fiscali. Ma soprattutto qui viene il secondo punto della mia proposta. Quella relativa agli ammortizzatori sociali. Va detta la verità agli italiani. È ovvio che bisogna andare verso un sistema universalistico, ma dobbiamo fare un lavoro progressivo, perché i costi non sono sostenibili nell'immediato.
Al di là delle risorse c'è da far funzionare il sistema delle politiche attive per ricollocare le persone al lavoro. Oggi in Italia non funzionano...
Ecco, fare una riforma seria significa fare in modo che quel sistema funzioni. Io credo abbia ragione Carlo Dell'Aringa: in un'organizzazione statuale chi deve fare le politiche attive deve essere lo stesso soggetto che eroga i sussidi. Da noi invece l'Inps fa la seconda cosa, le Regioni la prima. Non funziona. Che interesse hanno le Regioni a portare il lavoratore verso un nuovo posto di lavoro se l'uscita dal sussidio non le riguarda, se l'ente che paga il sussidio è un altro? Vanno unificate le agenzie, altrimenti non va.
C'è un altro tema di cui si discute poco ma che è cruciale: la contrattazione aziendale. Mario Draghi nel suo discorso a Jackson Hole lo ha citato come uno dei punti di forza del sistema tedesco. Anche questa è flessibilità.
Ed è quella che forse conta di più, la flessibilità in azienda. Questo è il vero punto che ci differenzia da Germania e Spagna. In Germania decentrano di più perché hanno un particolare rapporto di lavoro: i temi organizzativi, le mansioni, la contrattazione salariale, la solidarietà nei momenti di crisi vengono gestiti a livello aziendale perché lì c'è la cogestione.
La cogestione non c'entra nulla con il modello italiano di impresa.
Non dico che bisogna arrivare lì. Ma introduciamo elementi di partecipazione del lavoratore e in virtù di questo decentriamo le decisioni contrattuali. Se inseguiamo la produttività, questa è la sfida. Va introdotto un nuovo equilibrio tra capitale e lavoro.
Non pensa anche lei che da parte della Cgil ci siano state in questi anni posizioni arcaiche e conservatrici? Renzi ha usato parole molto dure, ma nel merito è difficile dargli torto...
C'è la tendenza, da parte del premier, a crearsi bersagli di comodo. Ora è la Cgil. Ma un partito di governo deve pensare all'Italia. Quando sento parole insultanti penso che stiamo perdendo l'oggetto del riformismo di governo: che è trovare soluzioni pragmatiche ai grandi problemi che abbiamo davanti. E quello più grande è appunto il lavoro.
Il Pd rischia di spaccarsi in modo irriversibile su questo punto? O è possibile una mediazione nella direzione convocata per fine mese?
Io ho sempre detto che lavoro per la ditta. Ma la ditta è il luogo dove si elabora e si propone. Non è un luogo che si convoca per dare schiaffoni a cose fatte. Si deve discutere prima, non si può arrivare in direzione con un prendere o lasciare.
Se sarà così, cosa succederà in Parlamento? Una parte del Pd potrebbe votare contro la proposta del Governo?
Così come c'è stata libertà di voto sul Senato, credo che ci sia anche su un tema delicato come il lavoro. Ma io sono fiducioso che al di là delle asprezze, si trovi un punto di convergenza ed equilibrio.

Il Sole 21.9.14
La sinistra Pd e la trincea ideologica del lavoro
di Pietro Reichlin


L'opposizione della sinistra del Pd al contratto a tutele crescenti è la prova definitiva che sul lavoro si gioca una battaglia politica che ha poco a che fare con l'obiettivo di portare il nostro Paese fuori dal ristagno economico. Tutti sanno che l'art. 18 non crea e non conserva neanche un posto di lavoro per i giovani. Poche imprese sono oggi disposte a offrire un contratto a tempo indeterminato a chi entra nel mercato del lavoro. Pesano le incertezze legate all'inserimento e alle capacità dei nuovi assunti, la difficoltà di dimostrare la giusta causa nel caso di risoluzione del contratto e, soprattutto, i costi fiscali e contributivi che gravano sui contratti a tempo indeterminato. La conseguenza è che i giovani si devono accontentare di contratti a termine o a progetto o sono costretti ad aprire una partita Iva sopportando costi esorbitanti.
Il contratto a tutele crescenti non sarà la panacea. Nella migliore delle ipotesi dovrebbe facilitare un'assunzione regolare, eliminare il percorso a ostacoli del rinnovo sequenziale di contratti a termine, portare il rapporto tra giovani e datori di lavoro su un sentiero di stabilità e reciproca fiducia, rendere più conveniente l'addestramento professionale. Basterà ad eliminare l'abuso dei contratti atipici? Il recente decreto Poletti che semplifica l'uso dei contratti a termine è coerente con l'ipotesi di fare del contratto a tutele crescenti la strada maestra per l'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro? Non è detto che tutto funzionerebbe come promesso dagli estensori del progetto. Non bisogna dimenticare che la chiave di volta del successo della Germania sul versante della ripresa economica e dell'occupazione è stata principalmente il decentramento della contrattazione e la flessibilità nella gestione della manodopera.
Tuttavia, la battaglia che hanno aperto il sindacato e la sinistra Pd non si occupa delle questioni importanti aperte dal progetto di legge in discussione. Si è deciso, invece, di agitare lo spettro dell'art. 18. Un atteggiamento speculare a quello del centrodestra che vede invece nell'art. 18 un'occasione per aprire nuove ferite a sinistra. Ma quale sarebbe la lesione dei diritti che il contratto a tutele crescenti verrebbe a creare? Si crede veramente che la preoccupazione di non essere adeguatamente protetti da un giudice in caso di licenziamento per ragioni disciplinari immotivate, o per discriminazione sindacale, sia in cima ai pensieri di un giovane interessato a un rapporto di lavoro stabile e duraturo? È forse meglio rinunciare a ogni cambiamento e rimanere con un vero precariato senza neanche un indennizzo monetario per chi perde il lavoro?
Si può comprendere che il sindacato veda nel contratto a tutele crescenti il pericolo di indebolire la propria forza contrattuale. Si tratta di una reazione poco lungimirante ma, tuttavia, tipica di un'organizzazione che rappresenta interessi sociali. Viceversa, il fatto che la sinistra Pd sposi in pieno la visione del sindacato su tale questione è frutto di una mancanza di maturità politica. Chi si oppone a Renzi all'interno del Pd ha scelto di farlo sulla base di una divisione ideologica tra destra e sinistra. Ma una sinistra lontana dai problemi veri del Paese rischia di apparire conservatrice e minoritaria di fronte ad un'opinione pubblica sempre più consapevole che il lavoro non si crea con avvocati e carta bollata e che le riforme strutturali sono necessarie.

Corriere 21.9.14
I tanti scontri e la spallata finale
La battaglia tra il premier Matteo Renzi e la Cgil ricorda altri scontri
Stavolta non si tratta di corteggiare gli elettori del centrodestra, in ballo gli assetti della società italiana
di Dario Di Vico

qui

La Stampa 21.9.14
Qualcosa è cambiato
di Luca Ricolfi


Nell’ultima settimana qualcosa è cambiato. E’ cambiata la situazione, perché tutti gli organismi internazionali e i centri studi hanno smesso di scommettere sulla ripresa italiana: il 2014 sarà ancora un anno di recessione, e il 2015 chissà. Ma è cambiata anche la risposta della politica, almeno sul versante governativo: Matteo Renzi ha (finalmente) deciso di dare la priorità che meritano alle riforme economico-sociali, e in particolare al Jobs Act. Questa svolta, non ancora evidente nel discorso di martedì in Parlamento, troppo avaro di impegni precisi, è diventata invece chiarissima nei giorni successivi, con le dichiarazioni sull’articolo 18 e con il video-messaggio di venerdì, in cui Renzi ha attaccato frontalmente i sindacati, accusandoli di aver sempre privilegiato i lavoratori garantiti e trascurato gli occupati precari e chi un lavoro non ce l’ha.
Renzi ha ragioni da vendere, perché la divisione fra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, garantiti e non garantiti, insider e outsider, è effettivamente uno dei nodi fondamentali dell’Italia, se non il nodo fondamentale.
E il fatto che sindacalisti, politici e osservatori impegnati gli oppongano, nel 2014, i medesimi argomenti di 20 o 30 anni fa, non fa che confermare le buone ragioni di Renzi.
E tuttavia…
Per vincere una battaglia non basta avere sostanzialmente ragione, o che i propri avversari non dispongano di soluzioni praticabili. Occorre anche che le proprie soluzioni siano tali. In poche parole: che funzionino.
Per questo penso che quella che si annuncia sembrerà (ai mass media) una battaglia fra «renzismo» e «camussismo», ma sarà invece (per l’Italia) una partita, dagli esiti imprevedibili, fra due renzismi entrambi possibili.
Il primo renzismo possibile è quello «di tipo Craxi». In questo scenario Renzi abolisce l’articolo 18 per i neo-assunti (come Craxi aveva fatto con la scala mobile), introduce il contratto a tutela crescente, riforma gli ammortizzatori sociali estendendoli a tutti gli occupati e rendendoli più severi (corsi di formazione, obbligo di accettare le offerte di lavoro). In poche parole: modernizza il mercato del lavoro. Se Renzi fa solo o principalmente questo (che comunque non è poco) è possibile che l’occupazione non riparta, che l’Italia continui ad essere uno dei Paesi Ocse con meno occasioni di lavoro, e che fra qualche anno ci tocchi sentir dire che «aveva ragione la Camusso, togliere l’articolo 18 non crea nuovi posti di lavoro».
C’è però anche un secondo renzismo possibile, chiamiamolo «di tipo Blair» giusto per dargli un nome. Il suo punto di partenza è la constatazione che le imprese, oltre al problema di un mercato del lavoro rigido, di una burocrazia asfissiante, di una giustizia civile lentissima e inaffidabile, hanno anche un serissimo problema fiscale: il costo aziendale di un’ora di lavoro è eccessivo, e la tassazione sul profitto commerciale (il cosiddetto Ttr) non ha eguali in nessuno dei 34 Paesi Ocse. Detto altrimenti: se le imprese non assumono non è solo, o principalmente, perché poi non possono licenziare, ma perché non hanno margini sufficienti. Questo significa che, per creare occupazione, occorre anche allentare la morsa fiscale sui produttori, il che costa molto in termini di risorse, e alla fine fa sempre arrabbiare qualcuno: se finanzi gli sgravi aumentando il debito pubblico si arrabbiano l’Europa e i mercati finanziari, se li finanzi tagliando la spesa pubblica si arrabbiano la Camusso e i sindacati.
Quale renzismo prevarrà, ammesso che la sinistra Pd e i sindacati non ci rispediscano subito al voto?
Io tendo a pensare che Renzi non disdegni il renzismo di tipo Blair, ma che alla fine sarà costretto ad adottare quello di tipo Craxi. E la ragione è molto semplice. Ammettiamo per un momento che Renzi, che finora si è preoccupato soprattutto dei garantiti (bonus di 80 euro), e anche per questo ha goduto della benevolenza dei sindacati, abbia deciso finalmente di occuparsi di chi un lavoro non ce l’ha, giovani e donne innanzitutto. Ammettiamo che sia persuaso che ridurre i costi delle imprese sia una precondizione per metterle in grado di assumere. Ammettiamo che sia convinto che nella Pubblica amministrazione ci sia «grasso che cola», e che sia da lì che debbano provenire le risorse per riformare gli ammortizzatori sociali e ridurre il costo del lavoro. Anche assumendo tutto ciò, ossia una ferrea volontà di creare lavoro, resterebbe un problema politico enorme: sconfiggere la Cgil in una battaglia campale sull’articolo 18 è più facile, molto più facile, che tagliare 15 o 20 miliardi di sprechi nella Pubblica amministrazione. Nel primo caso (abolizione articolo 18), Renzi non avrebbe contro né i garantiti (che resterebbero tali, perché l’articolo 18 verrebbe abolito solo per i neo-assunti), né gli esclusi, la cui prima preoccupazione è quella di trovare un lavoro, ma solo i settori più politicizzati e conservatori della società italiana. Nel secondo caso (tagli di spesa pubblica), invece, Renzi avrebbe contro un po’ tutti: dipendenti pubblici, sindaci, governatori, percettori di prebende e sussidi, lobby legate alle commesse pubbliche. Insomma, vincere una battaglia ideologica è più facile che battere una rete di interessi. Il renzismo del primo tipo (alla Craxi) è più facile di quello del secondo (alla Blair).
Può darsi che, come il solito, io sia troppo pessimista. Ma ho l’impressione che, incassato il sostegno dei lavoratori dipendenti e di tanti elettori delusi da Berlusconi, a Renzi manchi ancora un tassello fondamentale: convincere gli uomini e le donne che stanno fuori o ai margini del mercato del lavoro che la sua battaglia è anche la loro.

La Stampa 21.9.14
Berlusconi tifa per Matteo Renzi
Pronto il soccorso azzurro: “Renzi eviti compromessi”
Lavoro, Berlusconi verso il sì: la Cgil è indebolita, il premier può batterla
di Amedeo La Mattina


Berlusconi tifa per Matteo Renzi, è pronto a votare il Jobs Act. «Purché la riforma del lavoro non venga annacquata dai compromessi al ribasso e non finisca come i debiti della P.A, promessa non mantenuta», precisa Giovanni Toti. Silvio tifa per Matteo e aspetta di capire come finirà lo scontro interno al Pd: se al governo dovessero mancare i voti della sinistra interna, il Cavaliere sarebbe pronto con il «soccorso azzurro». A quel punto, però, cambierebbe lo scenario politico e la maggioranza in Parlamento. In sostanza, si aprirebbe, anzi si riaprirebbe la strada delle larghe intese organiche, come quelle che hanno sostenuto prima Mario Monti e poi Enrico Letta.
Berlusconi abbandonò la grossa coalizione quando il Senato votò la sua decadenza in seguito alla condanna per frode fiscale. Ora il Cavaliere spera nel giudice di Strasburgo, nella «riabilitazione politica» grazie alla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha dichiarato ammissibile il suo ricorso contro la condanna per il caso Mediaset. Se alla fine il ricorso dovesse essere accolto, sarebbe più facile agli occhi dell’opinione pubblica trasformare il Patto del Nazareno in un’alleanza piena, oltre le riforme istituzionali ed elettorale.
Bisognerà vedere cosa ne pensano Renzi e il capo dello Stato. Tutto invece potrebbe precipitare verso le elezioni anticipate ventilate dallo stesso premier durante il suo discorso in Parlamento sui mille giorni. Oppure la maggioranza e il Pd si ricompattano, lasciando le cose come stanno, come sperano alcuni azzurri che vorrebbero una Forza Italia di lotta. Raffaele Fitto è il capofila di questa linea politica: «È un fatto positivo che sulle riforme istituzionali, sulle regole del gioco, ci sia la possibilità di un dialogo ampio, ma è evidente che questo non può in alcun modo coinvolgere altri livelli come l’azione di governo, sulla quale ritengo indispensabile marcare la nostra opposizione». Daniele Capezzone non vuole morire «renziano». «Se ci fossero misure positive da parte del Governo, è chiaro che andrebbero esaminate. Ma noi siamo opposizione - rimarca Capezzone - e dobbiamo rendere visibile questo profilo. È surreale che il centrodestra subisca da mesi l’agenda politica e mediatica di Renzi».
Tornato iperattivo e ottimista, Berlusconi invece considera Renzi il suo epigono e non crede che sarà deluso. Osserva lo psicodramma dentro il Pd e attende sulla riva del fiume. Nel vertice di mercoledì Renzi gli ha assicurato che sul terreno del lavoro, e non solo, andrà avanti come un treno. E Berlusconi ci crede, convinto che questa è la volta buona. «Renzi ha tutte le condizioni per vincere il braccio di ferro con la Cgil e la sinistra Pd. Il sindacato non ha più la forza di un tempo - ragiona Berlusconi con i suoi fedelissimi - la Cgil non è più quella di Cofferati che portò al Circo Massimo tre milioni di persone. Ha il vento dalla sua parte». E ha pure i voti di Forza Italia, almeno di una buona parte dei gruppi parlamentari azzurri.
Toti però è prudente. Dice che se la riforma del lavoro resta questa, Fi deve votarla: «Ma io non credo che resti così: se verrà snaturata noi non ci sfileremo». Maurizio Gasparri consiglia di attendere. «Non dobbiamo farci utilizzare da Renzi, che si sta giocando una vecchia partita interna alla sinistra. Potrebbe usarci per trattare da una condizione di forza e poi lasciarci con il cerino in mano». Il vicepresidente del Senato vuole aspettare di capire se siamo alla Bad Godesberg del Pd: «Allora ci sarà una vera spaccatura della sinistra e senza i nostri voti in Parlamento non passa nulla. Potrebbero aprirsi scenari dirompenti, anche di un nuovo governo. Ma è presto per dirlo».
Un Pd spaccato su una questione come il lavoro scatena un sisma nel sistema politica. Ne è convinto anche Renato Brunetta, che garantisce i voti del suo gruppo alla Camera se Renzi farà quello che ha promesso. «Ma già metà del suo partito gli ha detto di no. Quindi, quello che probabilmente succederà è che il Pd si dividerà, dimostrando di essere un partito inesistente». In un momento come questo, spiega il capogruppo di Fi, «un partito che esprime il premier, spaccato in due o in tre tronconi, è un elemento di grande instabilità e di grande preoccupazione per la vita politica, economica e sociale».

il Fatto 21.9.14
Il salvavita dell’articolo 18
Licenziati senza giusta causa e reintegrati, ecco le storie di chi ha portato l’azienda in tribunale
di Salvatore Cannavò


Quando c’era l’articolo 18 poteva capitare di essere licenziati per il solo fatto di andarsi a sposare. Oppure, che una volta licenziato un lavoratore, la ditta ne assumesse altri, facendoli lavorare 12-13 ore al giorno. A quel tempo, molto spesso il giudice reintegrava il dipendente. Con le “riforme di Renzi” questo non accadrà più. Le storie di coloro che hanno utilizzato l’articolo 18 per difendere il proprio posto di lavoro si possono leggere nelle sentenze dei Tribunali del lavoro. Sono episodi di vita quotidiana nota a chiunque abbia davvero lavorato (e non è certo il caso del premier).
Quel matrimonio non s’ha da fare
Si prenda, ad esempio, il ricorso presentato a Mantova dopo l’approvazione della nuova legge Fornero (luglio 2012). La lavoratrice affigge le pubblicazioni di matrimonio a marzo del 2013. Deve sposarsi ad agosto. Il 16 luglio l’azienda la licenzia. Motivo ufficiale: un calo della clientela. Subito dopo il licenziamento, però, la titolare assume una nuova commessa. Il Tribunale ha dichiarato nullo il licenziamento, con sentenza del 25 marzo scorso, perché “in concomitanza di matrimonio” e ha disposto il reintegro della lavoratrice. La vicenda della Ivri, leader italiano della vigilanza privata, è ancora più eclatante. Il licenziamento viene comminato per “motivo oggettivo”, determinato dalla perdita di alcune commesse e dalla “contrazione dell’attività imprenditoriale”. Il giudice, però, si accorge che la società, poco prima di disfarsi del dipendente, “dichiarava che il fatturato era in crescita”. Dai 200 ai 300 milioni di euro grazie all’acquisizione di clienti come Unicredit, Lottomatica, Carrefour. Non solo, pochi mesi dopo il licenziamento, assumeva alcuni dipendenti alle stesse mansioni e richiedeva, a causa della forte mole di lavoro, un orario giornaliero “anche di 12/13 ore”. Il licenziamento viene annullato e il dipendente reintegrato al proprio posto di lavoro.
Se dodici ore vi sembran poche
Il signor M. G. invece, ha ormai una certa età. Lavora presso la Z. W. Dal 1981 con la qualifica di operaio edile di 2° livello, “addetto al montaggio e smontaggio di ponteggi, attività di rimozione, smaltimento e bonifica dell’amianto”. Lavoro duro, quindi, che dopo 35 anni di attività produce inevitabili acciacchi. E così, MG ottiene una prescrizione medica che gli vieta di sollevare pesi oltre i 12 chili. Il 18 febbraio 2013 l’azienda dispone il licenziamento “per inidoneità fisica alla mansione”. Per il giudice, però, quel licenziamento è discriminatorio perché avviene in conseguenza di una malattia professionale, riconosciuta come tale dall’Inail e che rientra “a pieno titolo” nel novero delle malattie invalidanti, “assimilabili al concetto di handicap”. Il licenziamento è quindi nullo per “la natura discriminatoria”.
Attento a come rispondi alla email del capo
Lo stesso avviene nel caso di P. C. Il lavoratore è in azienda dal 2007 e ha la qualifica di Responsabile del reparto qualità. Non ha mai avuto reclami o precedenti disciplinari, “neppure minimi”. Nel luglio del 2012 si vede recapitare una mail dal suo superiore che gli chiede di controllare dei disegni che nel frattempo sono stati modificati. P.C. risponde: “Confido per martedì 24 luglio di avere i rilievi con le tempistiche di modifica dei programmi”. A quel punto, il suo capo replica: “Non devi confidare, devi aver pianificato la data. Se hai dato come data il 24 luglio deve essere quella. Altrimenti indichi una data diversa che non è confidente ma certa, per favore”. Lettera che fa infuriare il dipendente il quale risponde: “Parlare di pianificazione nel gruppo è come parlare di psicologia con un maiale, nessuno ha il minimo sentore di cosa voglia dire pianificare una minima attività in questa azienda. Pertanto, se Dio vorrà, per martedì avrai tutto quello che ti serve”. Risposta nervosa, ovviamente, che fa scattare la lettera di licenziamento. Ma per il tribunale, da una “serena e complessiva valutazione del fatto” emerge la “modestia dell’episodio in questione, la sua scarsa rilevanza offensiva e il suo modestissimo peso disciplinare”. Insomma, il dipendente si è sempre comportato bene e per ragioni interne all’azienda è sbottato di fronte a una lettera che lo stesso giudice considera “inutilmente denigratoria”. Di storie così se ne possono trovare migliaia.
Quando arriva la lettera senza preavviso
Altre ancora sono cominciate a giungere presso la nostra redazione. Come quella di Mauro, dal 2005 al 2010, tecnico commerciale presso un’azienda di informatica con meno di 15 dipendenti. Al rientro delle ferie estive, nell’agosto 2010, “il datore di lavoro mi consegnò una lettera senza preavviso“ di cessazione del rapporto lavorativo”. Licenziato con una “motivazione fasulla”. Sotto i 15 dipendenti non c’è l’articolo 18 e quindi Mauro si è spostato in un call center come lavoratore a progetto. Ora è disoccupato.
Domenico, invece, era dirigente di un’azienda farmaceutica. Il direttore gli chiede un incontro e gli consegna una lettera di licenziamento parlando genericamente di “riorganizzazione”. “Pensai di rivolgermi a un Caf, ma poi andai da un avvocato. Il quale fu poi contattato dall’avvocato della controparte per trovare una transazione economica. Oggi dovremmo essere in una fase conclusiva, visto che pare abbiano accettato la nostra richiesta”. L’articolo 18 ha questo pregio: è un deterrente per evitare i comportamenti peggiori. Forse anche per questo Renzi vuole abolirlo.

Corriere 21.9.14
«Il miraggio "Garanzia giovani". Dopo 4 mesi nessuna risposta»
di Rita Querzé


MILANO — Quello che fa più male sono la sfiducia e la disillusione, quel tono di resa nella voce di un giovane. Berzo Inferiore, Bassa bresciana, 2.500 abitanti o poco meno. Ma che se ne fanno i ragazzi della Valle Camonica della Garanzia giovani? Se ne fanno, eccome. Qui la meccanica tiene ancora. Ma per chi ha scelto settori legati al mondo dell’edilizia farsi assumere non è facile. È il caso di Stefano Cominini, 25 anni, perito elettrotecnico. Uno che il 2 maggio si è iscritto di corsa al portale nazionale della Garanzia, quand’era aperto da un giorno soltanto. «Peccato che oggi, dopo oltre quattro mesi, non abbia ancora avuto una risposta, una proposta. Ma non dovevano contattarmi entro quattro mesi?». Dovevano. Anzi, il portale www.garanziagiovani.gov.it dice che «dopo l’adesione la Regione che hai scelto ti contatterà entro 60 giorni per indirizzarti ai servizi per l’impiego». Come è andata lo racconta in un sol fiato lo stesso Stefano. «L’inserimento dei dati sul portale è stato abbastanza semplice. Dopo qualche giorno mi è arrivata una mail in cui mi ringraziavano per essermi iscritto. Però mi dovevo accreditare anche sul portale Clic lavoro . Ok, mi sono detto. Il problema è che dopo mi è arrivata un’altra mail. Questa volta della Regione Lombardia, che mi chiedeva di iscrivermi ancora a un altro portale. Il terzo, quello regionale. Eh no, ho pensato, qui mi stanno prendendo in giro. Allora sono andato al centro per l’impiego a chiedere spiegazioni. “Lei sta seguendo il percorso sbagliato, per prima cosa deve registrarsi qui da noi”, mi ha rimproverato l’impiegato. Ho compilato tutti i moduli e credevo fosse finita lì. “No, guardi, serve un curriculum”. Sono tornato a casa e ho stampato un cv. Già ci credevo poco a questa storia della Garanzia giovani. Quando l’impiegato ha scosso di nuovo la testa e mi ha restituito il curriculum perché non conforme agli standard Ue, mi sono detto: “Siamo alle solite. La Garanzia giovani non è che l’ennesimo miraggio”». Stefano ha scritto tutta la sua disillusione su Twitter, rispondendo alla campagna #maqualegaranzia dell’associazione Adapt. Si potrebbe dire che avrebbe dovuto insistere. E iscriversi anche al portale della Lombardia, che poi è una delle Regioni in cui i servizi per l’impiego funzionano. Ma lui non ci crede più: «Sul lavoro per noi giovani solo parole e promesse».

il Fatto 21.9.14
Bologna
Alla festa del Pd lavoro nero e furbetti
di Annalisa Dall’Oca


Tra un dibattito sullo “sviluppo della legalità” e una visita in camicia bianca del premier Matteo Renzi, venuto a monologare di “giustizia sociale”, alla Festa dell’Unità di Bologna non si aspettavano di sentir parlare di lavoro in nero. Se non da qualche palco. Invece tra gli stand c’è un bar gestito da privati che ha impiegato giovani camerieri per 4 euro l’ora. L’ha raccontato una giovane barista al giornale online Zic.it  : “Ho lavorato per tre sere: le prime due per nove ore e la terza per sette ore, senza pause e senza contratto. In tutto 111 euro”. Imbarazzo in casa Pd, con Fabio Querci, responsabile delle Feste, che ha garantito: “L’attività responsabile non sarà più ospitata”. La brutta figura, però, resta, anche perché la kermesse era già finita nel mirino della Forestale: due ristoranti usavano prodotti surgelati senza avvisare i clienti.

il Fatto 21.9.14
Jobs act: Ichino, chi era costui?
di Pierfranco Pellizzetti

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il Fatto 21.9.14
I pagamenti alle imprese
Debiti Pa: è San Matteo, manca il miracolo
di Marco Palombi


“Se entro la fine dell’estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. Il 13 marzo, sulla comoda poltrona di Porta a Porta, il premier aveva fatto una scommessa con Bruno Vespa: per lui, se avesse perso, niente pellegrinaggio (“so dove mi mandano gli italiani tanto”), ma il rischio assai più rilevante di sentirsi dare del “buffone”. Oggi, come si sa, è proprio San Matteo e quindi andrà verificato intanto se il problema dei debiti commerciali pregressi della P. A. sia stato risolto e, secondariamente, dove dovrà recarsi Matteo Renzi e con che qualifica.
LA CGIA, sempre attenta alle scadenze mediatiche, ieri ha fornito alcuni numeri: “Nel biennio 2013-2014 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi di euro e entro il 21 luglio 2014 (ultimo aggiornamento disponibile) ne sono stati pagati 26,1: alle imprese mancano 30,7 miliardi. La promessa non è stata mantenuta”. I numeri degli artigiani di Mestre, però, non coincidono con quelli del Tesoro: i soldi stanziati dai due governi precedenti – come ha riporta, sempre ieri, uno studio di Confartigianato – sono più o meno 47 miliardi e mezzo, esattamente l’indebitamento ulteriore che Mario Monti contrattò a più riprese con la Commissione europea: “All’appello mancano 21,4 miliardi di euro che gli imprenditori aspettano di riscuotere – ha spiegato il presidente Giorgio Merletti –. Allo scorso 21 luglio erano stati pagati alle aziende 26,139 miliardi, pari al 55% dei 47,519 stanziati con lo Sblocca-debiti e la Legge di Stabilità 2014”.
In realtà, e sempre a stare ai dati presenti sul sito del Tesoro (sempre aggiornati al 21 luglio), ai 26 miliardi che risultano pagati direttamente dalle amministrazioni coinvolte vanno aggiunti oltre sei miliardi di crediti certificati online dalle aziende e scontabili in banca secondo un decreto del governo Renzi che coinvolge anche Cassa depositi e prestiti come garante. A quanto risulta al Fatto Quotidiano, infine, a inizio settembre il totale dei debiti commerciali complessivamente saldato dallo Stato ammontava a circa 43 miliardi, cioè quasi l’intero margine di nuovo debito concesso dalla Ue all’Italia a questo fine.
Se questi dati saranno confermati, bisognerà ammettere che c’è stata una discreta accelerazione nei pagamenti durante l’ultimo anno. La cosa va peraltro di pari passo con un complessivo miglioramento dei tempi di pagamento delle fatture grazie a un lavoro impostato già dal governo Letta: i tempi di attesa medi per essere saldati – dice lo studio già citato di Confartigianato – si sono ridotti da 104 a 88 giorni (ma al Sud si aspetta fino a 108), un miglioramento anche se “siamo ben lontani dal traguardo di 30 giorni imposto dalla legge”, spiega Merletti. Per Francesco Boccia (Pd), presidente della commissione Bilancio della Camera, la situazione non è più drammatica: “Per la fine dell’anno riusciremo a pagare i debiti accumulati a fine 2012 aumentando il debito pubblico. Comunque non farei diventare questo discorso sui debiti delle P. A. oggetto del conflitto politico: abbiamo fatto abbastanza, adesso completiamo l’opera con la Legge di Stabilità”.
IL PROBLEMA VERO, antico come sanno i cultori della materia, è sapere di che cifre si parla, quale sia cioè lo stock dei debiti commerciali dello Stato e dunque quanto bisogna ancora pagare (anche se la formula della certificazione con sconto in banca e garanzia di Cdp porta la questione fuori dal perimetro dei conti pubblici, almeno per un po’). I tempi in cui volavano i 90 o addirittura i 120 miliardi sono finiti, ma anche le analisi più recenti basate sui dati di Banca d’Italia concordano nel fatto che la cifra è superiore allo stanziamento di 47 miliardi: anche secondo il Tesoro è probabile che la cifra, alla fine del processo, supererà i 60 miliardi complessivi. Insomma, se Renzi non si fosse impiccato come al solito alle sue promesse (“entro il 21 settembre”), stavolta gli si poteva pure concedere il risultato. E invece no: fa di tutto per farsi smentire.

La Stampa 21.9.14
“Debiti dello Stato. Mancano rimborsi per oltre 20 miliardi”
Artigiani e aziende all’attacco sui ritardi nei pagamenti
Il Tesoro: dati non aggiornati, siamo vicini al traguardo
di Paolo Baroni


Il giorno di San Matteo è arrivato, il premier può festeggiare, le imprese italiane un po’ meno. «Entro il 21 settembre – aveva promesso Renzi la scorsa primavera durante una intervista a Porta a porta – pagheremo tutti gli arretrati della pubblica amministrazione». «Il traguardo è ancora distante» ha denunciato invece ieri il presidente di Confartigianato Giorgio Merletti snocciolando tutta una serie di dati: sino a tutto lo scorso 21 luglio risultavano pagati appena 26,1 miliardi di euro su un totale di 47,5 stanziati. Insomma siamo ad appena il 55% del totale: a 163 giorni dalla fine dell’anno gli imprenditori devono ancora riscuotere 21,38 miliardi. Addirittura, secondo la Cgia di Mestre, che basa i suoi calcoli partendo da uno stock di 66,5 miliardi, il «conto» ancora da saldare ammonterebbe a 35 miliardi.
E mentre Forza Italia attacca il governo, dal Tesoro, che aggiornerà ufficialmente i suoi dati nei prossimi giorni, arrivano però altre cifre. Negli ultimi 60 giorni sarebbero stati infatti liquidati almeno 5-6 miliardi in più cui vanno aggiunti altri 6 miliardi di crediti che le imprese hanno chiesto di certificare per ottenere la garanzia dello Stato. Insomma, secondo via XX Settembre, dove si è fatto di tutto per accelerare mettendo in campo ogni tipo di strumento, saremmo già a quota 38 ed il traguardo dei 47 sarebbe ormai prossimo.
«Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi due anni, che hanno portato a un calo del 15,4% dei debiti commerciali dello Stato, l’Italia – lamenta invece Merletti - rimane il Paese europeo con la più alta quota di debiti commerciali della Pa, pari al 3,3% del Pil». La colpa dei ritardi? Lo scarto tra fabbisogni assegnati e cifre effettivamente versate, ma soprattutto i tempi richiesti dalle varie procedure e le troppe complicazioni che le imprese, soprattutto le piccole, si trovano a dover affrontare.
In tutto, alla data dell’8 settembre, al ministero del Tesoro risultava che fossero 15.613 le imprese registrate sulla piattaforma che certifica i crediti per un totale di 56.189 istanze di pagamento ed un controvalore complessivo di 6 miliardi e 55 milioni. Confartigianato parla di vera e propria «maratona». Dal 24 agosto le registrazioni sono cresciute al ritmo di 49 al giorno, che si traducono in 252 richieste in più al giorno per un controvalore di 22 milioni (importo medio delle richieste 107.762 euro). La quota maggiore riguarda gli enti locali (3,09 miliardi), seguiti da Asl (1,29) e Regioni (885 milioni).
Strada in salita, insomma, come rivela anche un sondaggio Ispo/Confartigianato su un campione di piccole e medie imprese interessate al saldo degli arretrati: il 61% degli imprenditori intervistati non conosce l’esistenza della piattaforma governativa. Del restante 39% che invece la conosce, solo il 9% l’ha utilizzata «promuovendola» con un voto più che sufficiente. Tra chi ha deciso di non usarla, prevale lo scetticismo sulla sua efficacia e il timore che la certificazione allunghi i tempi di riscossione. Intanto, rispetto all’inizio dell’anno, si registra un sensibile miglioramento sul versante dei tempi di pagamento della Pa: tra gennaio e settembre si è passati da 104 a 88 giorni, con un “record” di 75 giorni per le Asl (rispetto ai 106 rilevati di gennaio). Più lenti i Comuni (89 giorni contro 104). Soltanto il 15% degli imprenditori intervistati da Confartigianato dichiara di essere stato pagato entro il termine di 30 giorni previsto dalle nuove normativa. In crescita, invece, dal 12% al 19% la percentuale di imprese che segnala comportamenti anomali da parte della Pa come la richiesta di ritardare l’emissione delle fatture, o la pretesa di una loro remissione con la contestazione pretestuosa dei beni e servizi forniti.
«Governo e imprese – sottolinea Merletti - ce la stanno mettendo tutta, ora, però, i debiti vanno certificati, e soprattutto, bisogna pagarli. Se perdessimo anche questa occasione, gli imprenditori non saprebbero davvero più a che Santo votarsi per vedersi riconosciuto il diritto ad essere pagate dalla Pa. Da parte nostra, continuiamo a essere convinti che la strada più semplice sia la compensazione secca, diretta e universale tra i debiti della Pa con i debiti fiscali e contributivi che le imprese devono allo Stato».

Repubblica 21.9.14
Il caso Bruno, canditato alla Consulta e inquisito
Felice Casson:
“Non si può votarlo deve ritirarsi è un caso politico”
intervista di L. M.


ROMA Da 24 ore Felice Casson, ex giudice istruttore a Venezia ed ora senatore del Pd, da giurista qual è sempre stato, analizza la strana situazione che si è venuta a creare con le figure di indagati che potrebbero entrare a far parte delle alte istituzioni di garanzia, come il Csm e la Consulta.
Quali sono i suoi dubbi?
«Una prima situazione anomala si è già risolta ed è quella che riguardava l’on.Luigi Vitali, candidato al Csm, il quale ha preso doverosamente atto delle forti perplessità sollevate, in quanto indagato, e ha rinunciato alla candidatura ».
Passo scontato, visto che c’era un processo in corso per abuso d’ufficio e una richiesta di rinvio a giudizio per falso ideologico. Ma che succede con Bruno solo indagato?
«Vorrei fare una riflessione pacata e distinguere i due profili della questione. Da un punto di vista giuridico non esiste alcun obbligo di passi indietro, né eventuali situazioni di incompatibilità. L’altro profilo, invece, è più delicato, perché concerne l’opportunità politica e sociale di qualsiasi membro del più alto organismo giurisdizionale eventualmente implicato in indagini penali».
Lei dice che Bruno, da indagato, può essere votato per la Corte. Ma le pare opportuno che non solo il Pd, ma un intero Parlamento, tra tante personalità giuridiche integerrime, scelga uno sotto inchiesta?
«Questa è la novità degli ultimi giorni che dev’essere affrontata sia dal punto di vista personale, che da quello dei gruppi politici. In prima battuta, è lo stesso candidato che deve fare questa valutazione e cimentarsi con la propria sensibilità civica e istituzionale. In secondo luogo, questa valutazione deve essere svolta dai partiti e dai parlamentari elettori».
Lei è insolitamente prudente. Come mai?
«Ho sempre distinto il doppio piano, quello giuridico da quello politico. Lì dove le norme sono chiare e nette, non si discute nemmeno. Quando invece si tratta di una questione di sensibilità istituzionale è evidente che la discrezionalità personale e politica devono risolvere la situazione ».
Facciamo un paragone. Quando Cancellieri, da Guardasigilli, telefonò alla moglie di Ligresti appena arrestato per darle solidarietà, Renzi fu durissimo sulle dimissioni. Ora come fa il Pd a votare per un candidato che già potrebbe avere il telefono sotto controllo?
«Per certi versi la situazione è analoga, bisognerebbe essere coerenti».
E quindi?
«La coerenza è un valore anche in politica».
Ma non sarà che negli ultimi tempi la durezza del Pd quando di mezzo c’era Berlusconi si è del tutto sciolta?
«A me non pare perché quando si è trattato di votare sulle richieste della magistratura di autorizzazione a procedere il Pd non si è mai tirato indietro».
Anche di recente?
«Soprattutto di recente, penso ai casi Galan e Genovese quanto agli arresti, e al via libera all’uso delle intercettazioni per Verdini».

il Fatto 21.9.14
Tra Bruno e Violante
Il nostro triste e muto Parlamento senza qualità
di Furio Colombo

Il Parlamento è bloccato e non può funzionare. Il Parlamento fermo vuol dire che è fermo il motore del Paese, persino se i giri del motore governo fanno pensare a una velocità impazzita. Quello che sfugge è il disegno che si manifesta con ostinazione in una forma molto strana. Primo, si impongono al Parlamento decisioni ineludibili. Secondo, il Parlamento recalcitra. Terzo, il governo insiste nella imposizione e il Parlamento insiste nel rifiuto. Tredici volte (ricordare che le votazioni per la presidenza della Repubblica sono state solo due “per non fermare il Paese”). Quarto, il presidente della Repubblica rimprovera il Parlamento e dichiara futili e faziose le sue ragioni. Ovvero non offre un pensiero o una preoccupazione ma un giudizio sulla disciplina di un Parlamento in cui la disciplina riguarda il regolamento ma non l'obbedienza ai partiti o al governo, rispetto ai quai è autonomo. Quinto, si impone al Parlamento di continuare con lo stesso ordine del giorno (che non è del Parlamento ma dell'esecutivo) e si dichiara in anticipo che non sottomettersi è una sorta di tradimento.
Sembra sfuggire, anche ai costituzionalisti silenziosi che intervengono con fervore se è in discussione la soglia di sbarramento della legge elettorale, che nessuno può imporre un ordine del giorno al Parlamento se non il Parlamento stesso. Questa non è una esaltazione del Parlamento. È la descrizione della legalità in normali condizioni di vita istituzionale e politica. Importa poco analizzare le cause interne, fatte di opinioni, giudizi e decisioni di gruppi parlamentari contro altri gruppi parlamentari, che hanno portato a questo disastro (fermata assoluta e per ora irrisolvibile delle Camere) perché non si tratta di un braccio di ferro tra Parlamento e governo. Si tratta di un Parlamento da molti anni assoggettato al governo – ovvero ai partiti di maggioranza – che non decide ma riceve gli ordini del giorno di ciò che deve fare. Attenzione. L’impossibilità di decidere non è né legge né Costituzione né regolamento.
È TRISTE PRASSI dettata, in altri contesti, dalla partitocrazia, e denunciata già in tempi lontani (nel cuore della Prima Repubblica) dalla pattuglia dei deputati Radicali allora presenti alla Camera, che arrivavano al punto di autoconvocarsi al mattino presto per discutere ciò che altrimenti, nell’orario regolare di seduta, era vietato discutere. Questa volta i parlamentari in dissenso (prevalentemente il Movimento Cinque Stelle) contro l’imposizione dell’esecutivo, hanno meno fantasia dei Radicali (ora si protesta di solito solo con cartelli e dichiarazioni) oppure meno prestigio (i deputati della Lega Nord).
Però l’evidenza ci dice che, accanto a nuclei identificati di opposizione (che sono comunque parte essenziale della vita di un Parlamento), c'è un vagare di parlamentari zombie che sembrano non sapere da dove vengono e dove vanno e chi rappresentano e perché. Insomma il lungo massacro del Parlamento, mai rispettato nelle sue prerogative di indipendenza da un potere e dall’altro, sta dando i suoi frutti. Infatti né Camera né Senato hanno mai discusso chi e perché doveva andare alla Corte costituzionale o al Csm. I nomi ti appaiono sul cellulare non per essere discussi ma per eseguire. Se vogliamo parlare di dolorosi ed esemplari precedenti italiani, possiamo ricordare il trattato di fraterna e perenne amicizia con Gheddafi, votato in pochi giorni da un Parlamento già deformato da “larghe intese” (tutto il Pd meno due, tutto il Popolo delle libertà, tutta la destra, tutta la Lega) prima delle vere larghe intese, volute dalla stessa ditta, mentre tutti i votanti sapevano dell’orrore che fra poco avrebbe fatto crollare il regime con cui si votava il perenne legame. Anche in quella occasione solo il gruppetto di Radicali (con un paio di deputati Pd, poi prontamente esclusi da ogni attività di quel partito) si sono appassionatamente e inutilmente opposti. E anche in quel raro episodio si toccava con mano il fastidio creato da parlamentari che mettono in discussione decisioni già prese altrove da adulti che sanno. “I trattati non si discutono, si ratificano” ti dicevano fermi e autorevoli coloro che facevano da cerniera fra partito (dove gli adulti prendono le decisioni) e il parco giochi delle Camere.
SE VOGLIAMO parlare di altri Paesi, in cui i partiti, come organizzazione e come centro di decisione politica, non mettono piede in aula, ricordiamo gli Stati Uniti. In piena presidenza Reagan (una presidenza forte e popolare) la nomina presidenziale del giudice Thomas a giudice a vita della Corte suprema (nomina che richiede l’approvazione della Commissione giustizia del Senato) ha dovuto attendere mesi di pubbliche testimonianze, di denunce, di violenta opposizione contro la decisione di Reagan, prima di spuntarla, con un solo voto di maggioranza. Per parafrasare Humphrey Bogart nel suo celebre film, “È la politica, bellezza”.
Non da noi. Da noi ordini incoerenti, confusi e ostinati bloccano e umiliano un Parlamento senza qualità. Infatti non ha l’iniziativa e il coraggio (sarebbe bello se avvenisse sotto la guida dei due presidenti) di autoconvocarsi, di stilare e votare una sua lista di candidati per la Corte costituzionale e il Csm, e poi di decidere da quale parte della disordinata matassa di Renzi, ricominciare il lavoro per non fermare il Paese.

La Stampa 21.9.14
Che barba e che noia
di Mattia Feltri

Che barba e che noia. Anche ieri si è stati lì, stravaccati sui divani, si è controllato twitter, si è chiacchierato sulla Roma, si è fatti due passi lungo il Transatlantico, si è andati alla buvette a bere il caffè, si è usciti in cortile a fumare una sigaretta, non si sapeva davvero come arrivare a ora di pranzo, allora si è ridata un’occhiata al giornale, e finalmente all’una è arrivata la fumata nera: erano i parlamentari che si facevano un barbecue.

il Fatto 21.9.14
Renzi e il garantismo ‘a orologeria’
di Valeria Pacelli

qui

il Fatto 21.9.14
Tiziano Act
10 aziende in trent’anni e un solo assunto: Matteo
Renzi accusa i sindacati di creare precarietà. Ma il padre, inquisito per bancarotta, è uno specialista del ramo: in tutta la sua attività imprenditoriale (che ha fruttato oltre 8 milioni di euro) ha usato sempre e solo contratti atipici
Intanto l’inchiesta dei pm di Genova s’allarga ad altre imprese collegate
di Davide Vecchi


Genova Dieci società in trent’anni e appena un dipendente a tempo indeterminato: il figlio Matteo. Della vita imprenditoriale di papà Tiziano Renzi, ora sotto la lente degli inquirenti di Genova che lo hanno indagato per la bancarotta della Chil Post, colpisce anche la gestione del personale. Dal 1984 a oggi, le dieci società che impegnano Renzi senior fanno uso quasi esclusivo di lavoratori atipici. Anche le sorelle di Matteo, del resto, sono tuttora inquadrate nell’azienda di famiglia, la Eventi 6, con contratti co.co.co. E l’attuale premier è stato regolarizzato appena una settimana prima della candidatura alla poltrona sicura di presidente della Provincia di Firenze così da vedersi versare i contributi previdenziali prima da Palazzo Medici Riccardi e, una volta diventato sindaco, da Palazzo Vecchio. Lui si è affidato alla politica, mica ai sindacati.
NEI CAPANNONI renziani nessun problema di licenziamenti per l’articolo 18, picchetti per la tutela dei diritti, cause di lavoro e via dicendo. Tutto dribblato alla radice. E ora, da premier, Renzi junior vuole adottare il Jobs act, una riforma del lavoro che secondo Cgil, Cisl e Uil cancella un paio di secoli di lotte. Lui difende la sua creatura. E attacca. “A quei sindacati che vogliono contestarci io chiedo: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia, tra chi il lavoro ce l’ha e chi no, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi precario? ”. Insomma è colpa dei sindacati se l’esercito più numeroso d’Italia, dopo i pensionati, è quello dei precari. Una convinzione forse maturata vedendo le attività del padre. Proprio sui contratti atipici, infatti, sembra fondarsi il Tiziano Act. E le società di Renzi senior, per quanto rimanessero in vita spesso meno di due anni, avevano comunque un’attività importante. Alcune hanno registrato anche risultati economici di rilievo. Come la Chil Post che nel 2009 supera i 4 milioni di euro di fatturato o la Mail Service che nel 2006, prima di essere ceduta, chiude il bilancio indicando nello stato patrimoniale un attivo di 4 milioni. La Uno Comunicazione e la Arturo, società attive tra il 2002 e il 2008, registrano rispettivamente ricavi di 458 mila e 954 mila euro.
Insomma le aziende di lavoro ne hanno. In settori per lo più legati all’editoria: distribuzione di giornali e volantini, attività di marketing e promozione di iniziative specifiche legate a determinati prodotti, solitamente allegati alle riviste. Attività che richiedono dunque molta manodopera. Lo stesso Matteo Renzi, prima di darsi alla politica, lavorava alla Chil Post e consegnava il materiale da distribuire in vari punti di Firenze agli strilloni. In gran parte studenti universitari. Giovani.
IN CITTÀ molti hanno collaborato con la Chil, alcuni sono poi diventati giornalisti di testate locali. Quelli che abbiamo rintracciato ci hanno concesso il ricordo di quell’esperienza in cambio dell’anonimato. “Era faticoso perché ci svegliavamo all’alba, ma per il resto era il classico lavoro da studenti e ci ripagavamo sigarette e qualche uscita di sera”. Il contratto era atipico. “Ma era regolare, cioè potevano farlo e fra l’altro devo dire che era onesto perché oltre al fisso ci riconosceva una percentuale, seppur minima, su ogni copia che riuscivamo a vendere”. Lo stipendio più alto ricevuto? “400 euro, mi sembra di ricordare, su un annetto buono di lavoro”.
QUANTIFICARE i contratti atipici firmati da Tiziano Renzi è impossibile. Ma dai bilanci e dalle visure risulta che ha firmato un solo tempo indeterminato, al figlio Matteo. Dalla prima società, la Speedy, creata nel luglio 1984 e poi liquidata nel 2005, alla Chil Post, ultima azienda di cui il padre del premier è stato titolare. Nel 2007 figurano tre “addetti” alla Arturo, indicati dalla Camera di Commercio come dato “ufficioso”. La società gestiva un forno e la compravendita di beni alimentari, attività che possono essere svolte solo con l’impiego di alcune specifiche figure professionali. Lo dice la legge, in effetti, mica i sindacati.

il Fatto 21.9.14
Stato-mafia, tutti gli intrecci tra 007 e pentiti a libro paga
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


DA FLAMIA, STIPENDIATO 150 MILA EURO, A DI MAGGIO, CONFIDENTE DEL ROS: COSÌ L’INTELLIGENCE HA TENTATO DI MANIPOLARE LE DICHIARAZIONI DEI COLLABORATORI SVIANDO LE INDAGINI DEI PM

L’intercettazione è chiara e il suo contenuto viene definito da chi indaga “inequivocabile”: Sergio Flamia, killer della famiglia di Bagheria, racconta al figlio i suoi rapporti, pluriennali, con un esponente dei servizi segreti dai quali, davanti ai pm, ammette di essere stato stipendiato, circa 150 mila euro.
Rapporti intensi, risalenti a meno di una decina di anni fa e proseguiti sino al 2013, anno dell’avvio della sua collaborazione con la giustizia, come riferisce lo stesso pentito, e oggi riletti dalla Procura di Palermo alla luce di una frase pronunciata da Flamia che rimette in discussione l’intero impianto accusatorio della mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso nel ’95: “Ilardo lo tenevamo lontano perché era un confidente”. I magistrati lo considerano l’ultimo siluro alle indagini sulla trattativa Stato-mafia proveniente dai servizi e sul neo collaboratore hanno avviato una serrata attività di indagine che verrà depositata a giorni nel processo d’appello agli ufficiali del Ros Mori e Obinu.
È SOLO UNA PARTE dell’indagine avviata da mesi che punta alle zone più oscure delle agenzie di sicurezza già sotto i riflettori della procura per l’attività nelle carceri, dopo che Alberto Lorusso aveva informato Riina dell’idea, solo ventilata e mai messa in atto dai magistrati di Palermo (e circolata solo nella mailing list interna), di presenziare tutti all’udienza sulla trattativa per manifestare solidarietà a Di Matteo, dopo le prime notizie delle minacce. I pm hanno interrogato Alberto Lorusso sui suoi eventuali rapporti con uomini dei servizi, ma il boss della Sacra Corona Unita è stato lapidario: “È meglio non parlare di queste cose”. Non sarebbe la prima volta che gli apparati tentano di condizionare le dichiarazioni di pentiti di mafia, finalizzandole a depistare indagini. Emblematico è il caso del ritorno dei pentiti “in armi”, a metà degli anni 90 in Sicilia. Era stato Giovanni Brusca, nel ‘96, ancora dichiarante, ad avvertire di stare attenti a Balduccio Di Maggio, l’uomo che fece arrestare Riina, che se ne andava in giro a ordinare omicidi a San Giuseppe Jato. E l’anno dopo si torna a sparare nel regno dei Brusca. Ai primi di ottobre la Procura di Palermo fa arrestare Giuseppe Maniscalco, che confessa di essere uno dei killer di Balduccio e inizia a collaborare: rivela di essere in stretto contatto con il boss Provenzano, e che il suo amico Di Maggio, con gli altri due pentiti di Altofonte, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo, ha approfittato dell’arresto di Brusca per riprendersi il controllo del mandamento. Vengono tutti arrestati nell’ottobre del ‘97. Anni dopo, l’ex pm di Palermo Alfonso Sabella, che coordinò le indagini sul cosiddetto “clan dei pentiti” nella procura di Gian Carlo Caselli, ricorda: “C’è un particolare che ho riletto in chiave diversa, alla luce delle ultime scoperte sulla trattativa”. Riguarda Maniscalco, uomo di Provenzano: “Era stato lui, nel 1992, ad avvertire Di Maggio che Riina lo voleva morto salvandogli la vita: infatti Balduccio era fuggito a Borgomanero. Per gratitudine, Di Maggio non aveva mai parlato di Maniscalco, ricordo perfettamente che il Ros venne a chiedere alla Procura di non fare appello contro la sentenza che assolveva Maniscalco. Cioè un uomo di Provenzano. E quando propongo di arrestarlo per gli omicidi di San Giuseppe Jato, mi viene detto in Procura che era un confidente del Ros.
ALLA FINE, Caselli decide di farlo arrestare ugualmente e, dalla sua collaborazione, si scopre che i killer di San Giuseppe Jato sono, oltre a lui e ai tre pentiti, almeno altri due confidenti dell’Arma: Michelangelo Camarda (‘fonte’ del colonnello Giancarlo Meli, comandante del Gruppo carabinieri di Monreale e legatissimo al Ros) e Nicola Lazio (che mi hanno detto essere confidente del Ros) ”.

il Fatto 21.9.14
Preti pedofili, muore il medico che denunciava abusi: “Istigazione al suicidio”
di Chiara Pracchi

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il Fatto 21.9.14
Lombardia, più soldi a Cl che al Festival di Mantova. “Meeting di Rimini è unico”

L'assessore regionale alla Culture Identità e Autonomie Cristina Cappellini risponde così all'interrogazione del consigliere del Pd Marco Carra
"Il Festivaletteratura - dice - ha sponsor forti e può campare anche senza il supporto della Regione"
di Emanuele Salvato
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Corriere 21.9.14
La mossa di Francesco

Una commissione sulla nullità delle nozze Il piano per diminuire i ricorsi alla Rota 

CITTÀ DEL VATICANO — L’omaggio ai martiri del comunismo, la convivenza possibile tra religioni diverse. Papa Francesco parte stamattina per l’Albania, undici ore serrate a Tirana con rientro la sera a Roma per il suo primo viaggio (a parte quelli in Italia) in Europa, «un quinto continente un po’ invecchiato», ha osservato ieri parlando ai vescovi: «Alcuni dicono che l’Europa non è la “madre Europa” ma la “nonna Europa”. Non so se è vero! Ma questo continente è una “periferia”...».
Un’Europa «stanca» che «dobbiamo aiutare a ringiovanire, a ritrovare le radici che ha rinnegato», aveva detto il 15 giugno a Sant’Egidio: un po’ come la stessa Chiesa, sempre meno eurocentrica, che Bergoglio sta riformando anche nelle strutture. Proprio ieri il Vaticano ha annunciato la nascita di una «Commissione speciale di studio per la riforma del processo matrimoniale canonico» che Francesco ha voluto istituire il 27 agosto per «preparare una proposta di riforma del processo matrimoniale, cercando di semplificarne la procedura, rendendola più snella e salvaguardando il principio di indissolubilità del matrimonio». Traduzione: si tratta di rendere meno barocche le norme che regolano l’annullamento delle nozze e quindi più rapidi i processi. Un annuncio significativo, alla vigilia del Sinodo sulla Famiglia che dal 5 ottobre discuterà anche delle «situazioni difficili o irregolari», a cominciare dai divorziati e risposati cui è tuttora negata la comunione. Non è un mistero che cardinali e vescovi siano divisi, come dimostrano le polemiche degli ultimi giorni. Ma il Papa ha ammonito i pastori a «non sprecare energie per contrapporsi e scontrarsi» e l’altro giorno è stato molto chiaro: davanti alle tante persone «stanche e sfinite» che «soffrono» e attendono dalla Chiesa «vicinanza e prossimità», bisogna guardarsi dalla «tentazione della sufficienza e del clericalismo, quel codificare la fede in regole e istruzioni, come facevano gli scribi, i farisei e i dottori della legge del tempo di Gesù».
Così la commissione per snellire i processi sulla nullità matrimoniale — e quindi l’attività della Rota Romana — è un segnale importante. Un primo passo per affrontare il problema dei divorziati risposati, già suggerito da Benedetto XVI e contemplato anche dal fronte conservatore. La commissione sarà guidata dal decano della Rota, monsignor Pio Vito Pinto, ne faranno parte il cardinale Francesco Coccopalmerio e altri canonisti ed esperti. La discussione è aperta ma esiste già un’ipotesi fondata che avrebbe un impatto rivoluzionario. Ne ha parlato una settimana fa l’arcivescovo Bruno Forte — grande teologo che Francesco ha voluto come segretario speciale del Sinodo — in una relazione sulla famiglia rivolta ai nuovi pastori su invito della Congregazione dei vescovi: «Per accertare in maniera efficace e snella l’eventuale nullità del vincolo si fa strada da varie parti l’ipotesi di eliminare l’obbligatorietà della doppia sentenza conforme, procedendo al secondo grado solo se c’è appello da una o entrambe le parti entro un tempo definito», si legge sull’Osservatore Romano. Oggi sono obbligatori due gradi di giudizio nel tribunale diocesano: una volta arrivati a sentenza, ce ne vuole una seconda di un altro tribunale. Solo se è identica, diventa definitiva; se no si passa alla Rota di Roma, sorta di Cassazione. Eliminare la doppia sentenza significherebbe risparmiare anni: il secondo grado ci sarebbe solo in caso di ricorso di una delle parti. Tutto si risolverebbe prima, in diocesi. E a Roma arriverebbero solo i casi (si immagina rari) di ricorso nei quali la seconda sentenza fosse diversa dalla prima. In ogni caso si tratta di semplificare le norme, con relativo contorno di formalismo ed ermellini.
G. G. V.

Corriere 21.9.14
La lettera a Xi Jinping, prove di dialogo con la Cina
Bergoglio a Pechino: parliamo di pace
L’invito a visitare la Santa Sede
di Guido Santevecchi


PECHINO — La lettera, sigillata con la ceralacca e firmata dal Papa, è partita il 3 settembre. Contiene l’invito al presidente cinese Xi Jinping a visitare il Vaticano per «parlare di pace in un mondo multipolare». La rivelazione arriva da Buenos Aires, perché sono argentini i due emissari ai quali Francesco ha affidato il messaggio personale per il leader di Pechino. La notizia ha cominciato a correre sul web e si è diffusa sui blog dei cattolici cinesi. L’iniziativa è maturata in una riunione a Santa Marta, la foresteria vaticana dove vive il Papa, a cui hanno partecipato la sera del 3 settembre con Bergoglio il cardinale Piero Parolin, segretario di Stato, monsignor Dominique Mamberti, incaricato per i rapporti con gli Stati e i due argentini, Ricardo Romano, del Partido Justicialista e José Lujan. «Io sono un clinico, ho già detto che voglio andare in Cina, ma sui temi dell’Asia il chirurgo è Parolin», avrebbe detto il pontefice nella discussione secondo Romano. Tre giorni dopo i due argentini hanno consegnato a mano la lettera a un diplomatico di fiducia di Xi Jinping.
In un discorso rivolto ai vescovi radunati in un seminario sull’evangelizzazione e diffuso ieri il Papa ha scritto: «Come vorrei che i vescovi cinesi ordinati negli anni recenti fossero presenti oggi. In fondo al cuore però auspico che non sia lontano quel giorno». Tornando dal viaggio in Corea del Sud, mentre volava nei cieli di Pechino, Francesco aveva detto di essere «pronto ad andare in Cina, anche domani!». Ora scrive personalmente a Xi Jinping per chiedergli di venire in Vaticano e insieme «contribuire così alla presa di decisioni in modo multipolare per garantire un superiore grado di governance al servizio di una società planetaria più fraterna e con maggiore equità sociale». Un mondo multipolare non può che piacere alla dirigenza cinese, che cerca di proporsi come interlocutore globale oltre alla superpotenza americana.
Nessun commento ufficiale finora dalla Santa Sede, silenzio sulla stampa controllata dal partito comunista a Pechino. Ma dopo la missione di Bergoglio in Corea i giornali di qui avevano osservato che il Papa «è gesuita e latinoamericano, due qualità che potrebbero aiutare a migliorare i rapporti tra Vaticano e Repubblica popolare». Rapporti che sul fronte diplomatico sono stati rotti nel ‘51 e che vedono una Chiesa patriottica cinese che agisce indipendentemente da quella di Roma, ordinando vescovi senza il suo consenso e costringendo i cattolici fedeli alla Santa Sede alla clandestinità.
Abbiamo chiesto un giudizio a Ren Yanli, studioso del cattolicesimo in Cina ed ex membro del principale think tank governativo. «Non sono un teologo, perché un teologo è dentro la Chiesa e io ne sono fuori», premette il professore. Poi ricorda: «Già cinquant’anni fa, ai tempi di Paolo VI, fu spedito un invito a Mao Zedong e Zhou Enlai per un incontro sulla pace mondiale. Allora la lettera viaggiò per telefax, un modo più diretto non si poteva immaginare a quei tempi. Ma non arrivò risposta. Ora ci sono nuovi leader a Pechino». Perché quest’apertura è stata svelata così presto? Non avrebbe dovuto rimanere riservata? «Posso fare delle ipotesi: pubblicare notizie come questa rende più difficile la strada per arrivarci; pensiamo ai contatti di Kissinger a Pechino nel ‘71: tutto rimase segreto fino a quando non fu annunciata la visita di Nixon. Ora invece oltre al sito argentino l’indiscrezione è stata ripresa da fonti vaticane, dietro potrebbe esserci una manovra a fini propagandistici. Ma io penso possa esserci qualcuno di buona volontà che vuole spingere l’iniziativa per il dialogo».
A Hong Kong dicono che Pechino, in cambio di rapporti con il Vaticano, chiede che la diocesi cattolica di lì abbandoni il fronte democratico che si batte per il suffragio universale e candidati liberamente scelti dalla gente. «Non si conoscono i dettagli della trattativa, ma per un vero miglioramento è inutile ascoltare supposizioni e parole, bisogna guardare ai fatti. E questi fatti ora riguardano la situazione reale del cattolicesimo in Cina: se si continuano a demolire chiese non si può dire che i rapporti migliorano». Insomma, un viaggio di Xi in Vaticano sarebbe possibile? «I rapporti Cina-Vaticano, tra conflitti e miglioramenti, non sono mai stati evidenti, non è come guardare una pianta che cresce. È questione di idee: se le idee cambiano ci si può incontrare anche domani; se non cambiano, anche mai».

Repubblica 21.9.14
Amici cinesi e stile americano così il comunista Jack
Ma ha creato il tesoro di Alibaba
di Federico Rampini


NEW YORK Nove anni sembrano un’era geologica se ti chiami Jack Ma. Oggi è il più ricco dei cinesi, con un patrimonio personale che dopo il collocamentoboom della sua società a Wall Street si aggira sui 25 miliardi di dollari. È balzato fra i primi trenta del mondo.
Nel 2005 il fondatore di Alibaba si aggirava, semi-sconosciuto, tra i Vip del World Economic Forum di Davos. Era stato invitato quell’anno come uno dei Young Global Leaders al summit sulle montagne svizzere. Aveva appena compiuto i 40 anni, era una delle tante giovani promesse, un volto sconosciuto per gli occidentali. Non ancora abituato ai riflettori dei media, offriva i suoi biglietti da visita a chiunque volesse degnarlo di attenzione. Lo intervistai, uscì su Repubblica un ritratto del “comunista più ricco”. Il titolo non era una forzatura, uno dei segreti dietro il successo di Jack Ma (vero nome: Ma Yun) è proprio la sua capacità di coltivare eccellenti rapporti con la nomenclatura comunista, pur essendo al tempo stesso il più americano di tutti i grandi imprenditori cinesi. Capitalista rosso, davvero: scrive articoli sul Quotidiano del Popolo, e proprio dalle colonne dell’organo ufficiale del partito comunista ha lanciato uno dei suoi ultimi business, un fondo comune d’investimento per raccogliere il risparmio delle masse. Ma è sensibile alle regole del business che studiò da vicino sulla West Coast degli Stati Uniti. La sua è la perfetta storia del self-made man che incanta il pubblico americano. Quando aveva dieci anni, si faceva 45 minuti in bicicletta ogni mattina, per raggiungere dalla periferia di Hangzhou un hotel del centro dove poteva attaccare bottone coi turisti stranieri, e così imparare l’inglese da autodidatta povero, scroccando lezioni gratis ai viaggiatori venuti dall’America.
Quella tenacia gli porta fortuna: è proprio fra i visitatori americani che stringe un’amicizia gravida di conseguenze, Bill Aho, un prof d’inglese che lo invita a casa sua a Seattle. Nella città di Microsoft e di Amazon, a trent’anni Jack Ma ha la sua folgorazione. Non è un esperto d’informatica, anzi a scuola ha sempre avuto pessimi voti in matematica, ma ha il fiuto degli affari. Capisce prima di molti altri, quale potrebbe essere il potenziale sviluppo di Internet in Cina. Di quel soggiorno “iniziatico” in America, gli sono rimasti addosso tanti insegnamenti. Il comunista rosso sa essere “politically correct” come piace ai liberal della West Coast. Ha pubblicamente aderito all’appello di Bill e Melinda Gates, impegnandosi a dedicare in beneficienza almeno la metà del suo patrimonio personale (ha già versato fondi per la ricerca medica). Per piacere agli animalisti americani ha annunciato urbi et orbi che non mangerà mai più la zuppa di pine di pescecane, una prelibatezza della gastronomia cinese. Manda sua figlia alla University of California- Berkeley. E imitando gli exploit alla Richard Branson, per il decimo anniversario della fondazione di Alibaba nel 2009 ha riunito i 16.000 dipendenti in uno stadio di Hangzhou, dove si è presentato con una lunga parrucca bionda e si è lanciato in una interpretazione-karaoke di “Can You Feel The Love Tonight”. Un genio della fusione e contaminazione tra le due culture, cinese e americana. I suoi legami con gli Stati Uniti hanno attraversato crisi tempestose, come i ripetuti litigi con l’azionista Yahoo, che alla fine ha dovuto ridimensionare la propria quota in Alibaba e accettare lo stile dittatoriale con cui Jack Ma dirige il gruppo. In compenso la quotazione di Alibaba ha fatto molto più felici gli americani che i cinesi: il collocamento è andato in larga maggioranza alle banche di Wall Street e ai grandi investitori istituzionali Usa, mentre i piccoli risparmiatori cinesi sono stati tagliati fuori.
Il trionfo di venerdì non era scontato, l’ascesa di Jack Ma non è stata priva di incidenti di percorso, anche gravi. La crisi più seria risale a soli due anni fa, nel 2012, quando il titolo Alibaba già quotato a Hong Kong (nel 2007) fu costretto ad abbandonare la Borsa. L’infortunio seguiva una serie di scandali interni, il più importante dei quali fu un episodio di corruzione tra i dipendenti. Ben cento manager di Alibaba vennero licenziati dopo la scoperta che avevano accettato dei venditori disonesti sul sito di commercio online, in cambio di tangenti. Un altro episodio controverso fu lo scorporo di Alipay, la redditizia filiale per i pagamenti online, che Jack Ma si è attribuito come una proprietà personale insieme a pochi amici. L’americano Jack Ma è cinese al 100% quando si tratta di coltivare il “guanxi”, la rete di relazioni su cui ha costruito il suo potere.

La Stampa 21.9.14
“Pregano, sparano, pregano”. Vi racconto le macchine di Allah
L’inviato de La Stampa ricorda i viaggi in Siria e l’incontro con gli jihadisti che hanno annientato i ribelli laici e oggi in Iraq lottano per il Califfato
di Domenico Quirico


I miei primi jihadisti li incontrai a Saif al-Daula, il quartiere terribile di Aleppo intorno al quale si raccontavano, sottovoce, tante fosche storie, tanti segreti raccapriccianti. L’aria tremava per il sordo rumore delle artiglierie. Erano una quindicina, di statura un po’ sopra la media, magri, dalle membra agili e vigorose. Sembravano, sulle prime, molto giovani; ma era un inganno del viso. Fra i 25 e i 30 anni, direi. Erano vestiti di una uniforme semplice: il barracano nero lungo fino ai piedi, sulla testa il turbante o la fascia con la scritta «non c’è altro dio che dio». Ai piedi qualche scarpone militare, i più sandali e ciabatte ormai sformate. Attorno agli occhi diffusa per tutta la tempia una ragnatela di piccole rughe, vive e sensibili, che palpitavano come la nervatura nelle ali delle libellule. Stavano seduti lungo un muro appoggiati alla macchia d’olio del sole al tramonto: indifferenti, sembrava, e al tempo stesso attentissimi. Un sospetto si nascondeva sotto quella fredda e liscia indifferenza. La macchia del sole nel muro si restringeva sempre più, divenne alla fine una piccola macchia lucida nel viso di uno di loro.
La maschera intensamente illuminata dall’ultimo fuoco del sole morente era fissa, immota, ferma la bocca stretta, ferma la fronte liscia, ferme le occhiaie senza ombra: soltanto quelle due ragnatele di rughe intorno agli occhi vibravano sottili e delicate. «È il comandante Khatab, di Liwa al-Towheed», mi sussurrò il miliziano della Armata siriana libera che mi accompagnava. E c’era nella sua voce una incrinatura strana, non capivo se di ammirazione o di paura. E poi svelto, voltandosi come per un gesto vergognoso, gettò via la sigaretta che stava fumando.
Eccoli, dunque, i guerrieri di al Qaeda di cui tanto si mormorava in occidente: Liwa al-Towheed, una parola oscura, una parola terribile, eppure una bella parola. C’è dentro come un coltello che taglia piano piano… Liwa al-Towheed… Dicevano che avevano linciato cinque uomini della famiglia al Barry, un clan legato a Bashar al-Assad che dominava il quartiere dallo stesso nome. Parvero destarsi solo quando anche il cielo sembrò crollare frantumato dalle esplosioni. Fuochi gialli e bianchi pendevano nell’aria incerta e si spegnevano come cadessero nell’acqua. Era il dodicesimo giorno di battaglia. All’inizio i ragazzi della Armata siriana libera avevano resistito; poi i soldati governativi erano sbucati di sorpresa a 50 metri dalla linea dei ribelli, senza preparazione di artiglieria, ed erano passati. Fu allora che avevano chiamato quelli di al Qaeda. Erano tutti, mi aveva spiegato il ragazzo, «fedayn stranieri» senza precisare di più.
«Non so spiegarmi, anch’io ho voglia di battermi, non ho paura, da due anni sfido la morte ogni giorno, tutti dicono che sono un buon combattente… eppure loro sono diversi. È come se avessero un fuoco dentro, sono macchine, sparano pregano sparano, sembrano immortali anche se non lo sono. Fanno tutto con calma come se fosse da sempre la loro vita. Anche i soldati di Bashar lo sanno… E hanno paura».
Arrivarono di corsa dei ragazzi dell’armata libera, trascinavano un compagno su un telo da tenda, penzolava fuori col busto, aveva il viso mezzo bruciato, l’altra metà gonfia e paonazza, i denti erano bianchissimi come calce bianca. Non c’era alcuna possibilità di fasciarlo, e del resto, forse, sarebbe stato inutile. I jihadisti non mossero muscolo, guardarono il moribondo e i suoi soccorritori come fossero oggetti, calcinacci, cose.
Khatab si sollevò come se l’arrivo di quella gente cominciasse a infastidirlo. A voce piana disse agli altri: yalla… alzatevi. Non era un ordine, semmai un invito. Raccolsero le armi, senza fretta. Si udiva adesso distinto un lento boato che si perdeva nelle spelonche delle rovine come un gemito profondo. Era il cannone. Ci avvicinammo, sentivo come un senso di paura nuovo, non legato alla battaglia, come deve avvertire chi avanza verso una bestia pericolosa. Il mio miliziano e il comandante parlarono piano, capii che spiegava chi ero. Gli altri jihadisti si erano allontanati di qualche metro come se temessero un contagio: «Cristiano, che fai qui? Vai via, qui si muore per il vero dio… noi siamo votati al martirio, che ne vuoi sapere tu?». Si voltò come se semplicemente non esistessi, e cominciò a camminare tra le macerie, il fucile tenuto in mano con negligenza, i suoi uomini si incolonnarono a segnare una riga nera serpeggiante tra il cemento devastato. «Molti di loro stasera non torneranno… la loro missione è un suicidio». E ancora lo disse con quel misto di riverenza e di stupita ammirazione che molte volte in Siria ho incontrato tra i ribelli laici. La rivoluzione islamica si apriva in quei giovani silenziosamente, come un fiore di ferro. L’avevano tra i denti, la masticavano, noi siamo l’islam guerriero che vince e avanza, con una fisicità impressionante. Questo vento terribile che si leva. Il Califfato di Mosul era solo un annuncio, una promessa, allora. Così avvengono i grandi rivolgimenti umani semplici e tremendi.
Un anno dopo ad al Quesser, ma questa volta sono loro prigioniero, vivo con loro per mesi. Prigioniero di Jabhat al-Nusra, un’altra sigla islamista. È lì che ho incontrato, tra gli altri, Kara, libanese, abbigliato come un giovane Bin Laden, il viso affilato, la barbetta assira. Arrivava alla mia prigione in moto, insieme a un miliziano corpulento, barba e capelli rossi, «l’afghano»: «Lo vedi come sono vestito, cane cristiano? Io ho ammazzato i soldati di Bush in Afghanistan». Il fratello, mi avevano spiegato con tono riverente, ha fatto saltare in aria il quartier generale dei servizi segreti ad Homs, e soffiavano per farmi capire sul palmo della mano: un martire, un martire… Parlava, Kara, in modo chiaro e distinto, senza gettare le parole a manciate come uno scialacquatore, no, le distribuiva con cura come un buon padrone di casa le pietanze.
Era convinto di aver dinanzi non uomini ma mattoni, da cuocere in un crogiolo di dolore per le nuove costruzioni, e lanciava entusiasta parole terribili: eliminare, ripulire, uno ad uno...il califfato costruiremo, il califfato... uno, dieci, cento anni che importa? È il tempo di dio!». Guardava, sorrideva e gli occhi appena socchiusi si spalancavano in una così infantile ebbrezza che restavi sorpreso. Pregava vicino a me, compunto, e poi tirava fuori il coltello, la lama ricurva, un arnese contadino, che teneva nella tasca del barracano e mi diceva: «Questa è per te cristiano». Uomini così una volta vivevano negli eremi: pregavano, fasciavano le ferite, donavano acqua e cibo ai viandanti. Fuori del mondo erano col mondo. Avevano letto il Libro, ma in cuore custodivano un amore candido, un tenero distacco dalle cose del mondo. Oggi in Siria, in Iraq, in molti luoghi uccidono.
Era crudele Kara. Voleva che lo chiamassi «sidi», in arabo è più che signore, è la parola che il servo rivolge al padrone. Ho capito più tardi. Nelle carceri di Bashar è così che i prigionieri si rivolgono ai guardiani. È stato un oppositore che le ha attraversate che mi ha raccontato questa abitudine, ed altre cose: le torture e le punizioni, per esempio. Anche alcune di quelle le conoscevo, su di me: ecco dove le avevano imparate i miei carcerieri jihadisti.
Ci sono oggi migliaia e migliaia di giovani al servizio del califfo come Kara, mossi da una buia ferocia primigenia, qualcosa di amorfo, pura irrazionalità di sentimenti elementari e ferini, da cui sono banditi la pietà, l’amore, l’onore di essere uomini tra altri uomini. È così totale il loro orgoglio di puri, di eletti, che preferiscono una morte universale a una rinuncia in cui noi vedremmo un segno di misericordia, un riconoscimento della propria umana miserabilità, l’affidarsi al provvido dio dei vinti che è l’unico che esiste e si può davvero amare. In una follia di cupe disumane coerenze ed obbedienze vanno combattendo verso la loro notte, il califfato, con una specie di inerzia suicida delle facoltà raziocinanti, foscamente orgogliosi nella inesorabilità della propria volontà di distruzione.
Abu Omar era, anche lui, un emiro jihadista, un altro dei miei carcerieri. Guidava la sua brigata nella ritirata generale da al Quesser, braccati da soldati e dagli hezbollah. Una umanità migrava dalla città maledetta, ormai frantumata pezzo a pezzo dalle bombe con una grandiosità da cataclisma cinese. File di veicoli cigolavano sui sentieri pietrosi; ma quelli erano per i combattenti. Li avvolgeva la fuga miserabile e brulicante di migliaia e migliaia di vecchi, donne, bambini. La gente non si distingueva più dalle cose. Si tiravano dietro, in quelle prime ore, ancora tutta la casa vuotata a furia, tutta la miseria che vuole vivere nascosta nel segreto di quattro mura. La città assassinata ha rigurgitato queste cose, questi visi, questi fiati. Tra i veicoli carichi di armi sciamavano i fuggenti carichi di fagotti, arrancavano tra strilli di bimbi, voci di vecchi, anche loro artigliati alle loro povere cose.
In un bosco quieto, a lato della pista, l’emiro riunì i suoi uomini. I fuggiaschi sfilavano senza fermarsi avvolti di polvere, ciabattando. Dalle file vennero estratti due prigionieri, dalle divise capii che erano hezbollah libanesi, per i jihadisti sunniti uomini di Satana. L’emiro avanzò con un coltello e tagliò loro la gola. Poi i guerrieri si riunirono in file ordinate, Abu Omar piantò il suo mitra per terra e cominciò a pregare: «Tu che sei onnipotente, per il Tuo nome venerabile, concedici il martirio, portami nel tuo paradiso dove si trovano il Profeta e i veri credenti».

L’Huffington Post 21.9.14
L'intervista a Hadi al-Bahra, capo dell'opposizione laica siriana: "Il Califfo nemico di comodo per Assad"
di Umberto De Giovannangeli

qui

Corriere 21.9.14
Da Milano alla Germania, islamici contro il Califfato
Marcia nel capoluogo lombardo
Appello degli imam britannici a favore degli ostaggi occidentali
di Giampiero Rossi


Le comunità islamiche d’Europa si mobilitano contro l’Isis e le violenze dei gruppi terroristici che dichiarano di agire in nome dell’Islam. Venerdì è accaduto in nove città della Germania, oggi tocca all’Italia, con una manifestazione a Milano.
L’appuntamento è per le 18.30 in piazza Affari, dove è prevista una «fiaccolata per la vita» alla quale hanno aderito numerose comunità musulmane, centri culturali islamici e moschee di tutta Italia. «Ci ritroveremo uniti per dire che siamo contro la violenza dell’Isis e il suo barbaro progetto di morte e di sopraffazione — recita il manifesto dell’iniziativa —. Siamo contro le dittature che opprimono i popoli, siamo contro chi nega la libertà e la democrazia. Siamo contro chi vorrebbe incendiare il mondo con l’odio della propaganda, con la violenza e la barbarie delle crociate, con l’odiosa umiliazione delle persone per il loro credo, qualunque esso sia». Lo slogan è «Ammazzateci tutti», che richiama volutamente quello lanciato dai ragazzi calabresi contro la mafia: «Perché organizzazioni criminali come l’Isis minacciano il futuro dei giovani islamici — spiega Luca Bauccio, fondatore della web radio Dirittozero — proprio come le mafie in Calabria o in Sicilia».
Hanno aderito anche la Comunità di Sant’Egidio, il Pd e il Psi milanesi e della Lombardia e il giornalista Gad Lerner, che si è impegnato a sua volta nell’invitare alla partecipazione. Ma, soprattutto, saranno rappresentate le numerose comunità islamiche d’italia: «È un’iniziativa necessaria e dovuta — spiega Mohamed Danova, del Caim (Coordinamento associazioni islamiche di Milano, Monza e Brianza) —, dobbiamo mobilitarci contro questo cancro intollerabile e allo stesso tempo far capire a tutti che quella gente non rappresenta l’Islam, per noi sono solo fango». Già in agosto, sempre a Milano, le comunità musulmane avevano aderito all’incontro di «riflessione e preghiera» contro le persecuzioni dei cristiani nel nord Iraq promosso dalla Diocesi e dal Tribunale rabbinico. Ma il coordinatore del Caim, Davide Piccardo, tiene però a sottolineare che «noi non dobbiamo né scusarci né dissociarci, perché non abbiamo commesso nulla né ci siamo mai associati a quei criminali. Vogliamo però ribadire con forza la nostra condanna all’Isis e a tutti i terrorismi. In Italia vivono quasi due milioni di musulmani e non mi pare che siano mai sorti problemi dovuti alla religione».
Ieri, intanto, è stato diffuso un appello dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia) per la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria lo scorso 31 agosto, e di padre Dall’Oglio. Si tratta di un video, che verrà diffuso sui principali newtork arabi come Al Jazeera e Al Arabiya , in cui parla Elzir Izzedin, presidente dell’Ucoii e imam di Firenze, che in arabo si rivolge direttamente ai rapitori: «Invito voi credenti, o che almeno dite di esserlo, di liberare questi nostri concittadini italiani. La nostra comune fede in Dio ci impone il rispetto dell’altro, del diverso, dell’uomo in generale, e la sua salvaguardia». Il giorno prima, in Gran Bretagna, sono stati gli imam della Scuola salafita del pensiero islamico ortodosso — non immuni da accuse e sospetti di fiancheggiamento a gruppi estremisti — a lanciare un loro appello per la liberazione del cooperatore inglese Alan Henning.
Sempre venerdì, la mobilitazione ha attraversato la Germania. In occasione della preghiera del venerdì nelle circa duemila moschee tedesche è stata scandita la condanna alle brutalità commesse dall’Isis: «Dicono di agire sotto le insegne del Profeta ma mostrano con i loro crimini di non aver capito nulla della parola di Allah». Al tempo stesso è stata ribadita anche «l’esclusione e l’ostilità sempre maggiori» subite dai musulmani in Germania, dove dal 2012 si contano 80 attentati contro le moschee. Il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, ha apprezzato la «straordinaria iniziativa» perché «solo insieme possiamo riconoscere quando i giovani rischiano di scivolare nell’estremismo».

La Stampa 21.9.14
“Io, fuggito dal gulag in Nord Corea sto imparando cos’è la libertà”
“Le bestie mangiavano meglio di noi. Chi sgarrava poteva scegliere tra le botte o la fame”
di Shin Dong-hyuk


Ogni volta che vado negli Stati Uniti e passo da Washington DC c’è un posto in particolare che torno sempre a visitare: l’Holocaust Museum. Ci sono stato per la prima volta nel 2008 e, sebbene io stesso sia vissuto in un campo di concentramento e sia riuscito a fuggirne, fino a quel momento non mi ero reso conto di quanto tremendo e orribile fosse.
La realtà mi ha colpito mentre guardavo un video lì nel museo, lasciandomi sconvolto. Il video mostrava una clip in cui i nazisti si disfacevano dei corpi degli ebrei morti nei campi buttandoli in fosse e poi coprendoli con la terra portata da un bulldozer.
In quel momento ho rivisto il campo in cui sono nato e cresciuto. Le somiglianze erano impressionanti.
Ciò che i nazisti hanno fatto non è qualcosa che appartiene al passato: succede ancora oggi. La differenza è che ora si tratta di un altro folle dittatore; dittatore che un giorno potrebbe fare la stessa, identica cosa ai prigionieri politici detenuti nei campi. E se la comunità internazionale e il mondo intero non se ne occuperanno e non agiranno, un domani quello che è già successo potrebbe succedere di nuovo, e il mondo finire per vederlo in tv, o in un documentario. Tutti vedranno ripetersi questa indicibile tragedia della storia; vedranno un dittatore malvagio che tormenta e uccide la sua gente nello stesso modo. Ciò che i nazisti hanno fatto non è finito. La crudeltà e l’orrore si stanno ripetendo, e continueranno a ripetersi, e se non lo raccontiamo alla gente, e non rendiamo nota quest’atrocità, questa situazione orrenda finirà semplicemente nello stesso modo, come allora, come durante la Shoah.
Da quando sono nato, da quando ho cominciato a osservare il mondo con i miei occhi e a udirlo con le mie orecchie, ho visto guardie in uniforme che imbracciavano fucili e picchiavano altri prigionieri.
Non c’era mai nessuno che si opponesse, perché quella era solo la punta dell’iceberg della vita dei campi. I prigionieri venivano puniti per i loro peccati. Anche io non ci facevo caso. Non conoscevo altro. Dopo essere fuggito e aver scoperto la verità sulla vita, mi ferisce anche il solo pensiero, di quella situazione. Le azioni del regime e delle guardie sono orribili, senza pietà. Sarebbe difficile per chiunque anche solo immaginare quel che succede lì dentro. Il solo pensiero del male che stanno facendo mi disgusta.
Sì, sono nato in un campo per prigionieri politici, e non so perché. La prima cosa che ho visto aprendo gli occhi nel campo sono stati prigionieri e guardie. Nessuno mi ha detto per quale ragione io sia dovuto nascere in un campo di prigionia. La volontà dei prigionieri non contava nulla. L’unico cibo che potevamo mangiare era quello che ci davano le guardie. Gli unici abiti che potevamo indossare ce li davano le guardie. Facevamo i lavori che le guardie ci obbligavano a fare. Per tenerci sotto controllo ci costringevano alla fame. Ci picchiavano. Ci facevano assistere a esecuzioni pubbliche ogni primavera e autunno. Quando ero un ragazzo, le guardie del campo mi punivano se facevo qualcosa di sbagliato. Potevo scegliere tra due tipi di punizione. Il primo erano le botte, l’altro la fame. Io e i miei compagni di prigionia sceglievamo sempre le botte, perché morire di fame ci faceva più paura. Non si può spiegare a parole il dolore sofferto dai prigionieri politici. Molte persone descrivono la condizione dei campi dicendo che è una vita da schiavi o da animali, ma io credo sia molto peggio di quanto le parole possano dire. Nei campi c’erano molti animali: cani, maiali, topi, uccelli... mangiavano meglio dei prigionieri ed erano liberi di andarsene in giro. Credo che l’unica parola adatta a descrivere la vita dei prigionieri sia inferno.
Nel 2005 sono riuscito a fuggire dal campo. Sono arrivato in Corea del Sud nel 2006. Da allora sono passati 8 anni. In questo tempo ho girato il mondo, ho visto l’Europa e gli Stati Uniti, ho incontrato tante persone appartenenti a organizzazioni e programmi umanitari, sono stato anche alle Nazioni Unite. In quanto attivista dei diritti umani per la Corea del Nord mi sono rivolto all’opinione pubblica, ho cercato di risvegliare l’attenzione su questi problemi.
Sfortunatamente, pare che in questi 8 anni non sia cambiato nulla, e che forse, anzi, alcune cose siano perfino peggiorate. Una sola cosa è cambiata: il nome del dittatore; era Kim Jon-Il, adesso è suo figlio Kim Jung-Eun. La leadership è passata dal nonno, al padre e infine al nipote, che è mio coetaneo. Il potere è rimasto nella stessa famiglia.
Sebbene non possa esserci un cambiamento immediato in Corea del Nord, alcune cose stanno cambiando nella coscienza internazionale e spero che un giorno questo permetterà di portare alla luce la questione dei diritti umani e di superare la situazione attuale.
Nel 2013 le Nazioni Unite hanno istituito una Commissione di indagine (COI - Commission of Inquiry) sulle violazioni dei diritti umani nella repubblica popolare democratica della Corea. Ho partecipato ai lavori della commissione e quando i risultati del lavoro sono stati resi pubblici ho fatto sentire la mia voce.
Forse sarà un processo lungo e lento, ma dobbiamo agire subito perché molte vittime stanno soffrendo e morendo in questi campi. Ecco perché credo sia importante raccontare queste cose alla comunità internazionale, fare del mio meglio affinchè la gente conosca questa tragica verità.
Quando ero nel campo non ho mai capito, neanche per un momento, cosa fosse la libertà: non la conoscevo. Col tempo mi sono reso conto che questa parola, libertà, non è qualcosa che si possa insegnare o imparare a scuola. È qualcosa che si sprigiona dal corpo e dalla mente. Mi ci vorrà molto tempo per comprendere appieno o ridefinire il concetto di libertà.
Uno dei cambiamenti più grandi, è che ora posso vedere il mondo con i miei occhi, decidere con la mia testa e il mio cuore cosa è buono e cosa no e persino quando è il momento di mangiare. Posso mangiare qualunque cosa abbia un gusto buono, tutto ciò che desidero. Questo forse è, in definitiva, il cambiamento più sorprendente della mia nuova vita.
Il mondo deve conoscere i campi per i prigionieri politici, deve sapere le cose tremende che avvengono lì dentro. Questo è ciò che spero.

Corriere 21.9.14
Gli abusi sessuali a Oxford e Cambridge
di Fabio Cavalera


«Sono stata stuprata all’Università di Oxford e la polizia ha cercato di convincermi a non presentare denuncia». Il 29 agosto, una ragazza si è messa davanti al computer e ha scritto un racconto nel blog di medium.com che raccoglie «fatti e idee» del mondo giovanile. Ha scelto lo pseudonimo di Maria Marcello. «All’inizio del secondo anno mi sono trovata priva di sensi nel mio letto, violentata al college». Aveva invitato alcuni amici, oxoniani pure loro, perché voleva imparare a giocare a poker, avevano bevuto, poi l’aggressione. E la richiesta di aiuto, non ascoltata.
La storia, che «Maria Marcello» ha coraggiosamente pubblicato, è diventata un caso perché, con il consenso dell’allieva di Oxford, il Guardian ha rilanciato per intero il testo della testimonianza. E così e venuto fuori il mondo nascosto di una istituzione educativa e formativa che è fra le più autorevoli. Non solo Oxford. Pure Cambridge. È saltato il velo: sessismo e violenza nei bellissimi corridoi e nelle bellissime aule di due dei fiori all’occhiello dell’istruzione britannica. Al punto che tanto Oxford quanto Cambridge, preso atto della realtà, hanno deciso di avviare corsi obbligatori di educazione sessuale per insegnare agli iscritti un concetto semplice e basilare: che l’attività sessuale presuppone consenso e volontaria partecipazione e che «entrambe le parti devono avere la libertà di fare la loro scelta». Mai accaduto in 8 secoli di rispettata tradizione di entrambi gli atenei. Il bullismo e le sbronze collettive, si sa, sono sempre stati i vizi della comunità studentesca di Oxford e Cambridge. Il premier Cameron e il cancelliere dello scacchiere George Osborne oggi parlano di «pagina vergognosa della loro vita» ma ci sono passati da protagonisti nel «Bullingdon club» oxoniano. Adesso si scopre che la goliardia volgare sconfina e si trasforma in machismo e violenza sulla ragazze. A Cambridge, l’associazione degli studenti quest’anno ha condotto 2.100 interviste alle allieve, la metà ha dichiarato di avere subito «palpeggiamenti e approcci fisici», 100 hanno confessato «serie aggressioni e stupri». Problema molto serio. Una vergogna taciuta, nascosta e dimenticata. La fama e la serietà di Oxford e Cambridge restano intatte ma occorre che ai ragazzi insegnino a essere uomini perbene oltre che premi Nobel.

il Fatto 21.9.14
In vendita a Berlino
La villa sul lago dove si aggira il fantasma di Goebbels
di Carlo Antonio Biscotto


Il posto è bellissimo ancora oggi. Per chissà quale miracolo il lago Bogensee è rimasto un’oasi di pace e di natura incontaminata. Sorge qui Villa Bogensee, una residenza lussuosa circondata da una proprietà di oltre 500 ettari che il municipio di Berlino decise di regalare a Joseph Goebbels, ministro della propaganda e fanatico nazista, in occasione del suo 39° compleanno. “È un idillio di solitudine”, amava dire Goebbels che pure non era appassionato di vita ritirata tanto che la sua villa – ad appena 40 km da Berlino – ospitava frequentemente feste e ricevimenti all’epoca leggendari cui partecipavano tutti quelli che contavano nel regime: politici, militari, gente di spettacolo, scrittori di regime e, naturalmente, le donne più belle e desiderate del Terzo Reich. Tra le tante attricette passate per Villa Bogensee, una divenne quasi di casa: la cecoslovacca Lida Baarova per la quale Goebbels perse la testa al punto da progettare con lei una fuga in Giappone. Da quei tempi sono passati molti anni e sappiamo come andò a finire: Goebbels e sua moglie avvelenarono i loro sei figli e si suicidarono nel bunker della Cancelleria. La famosa villa ebbe una sorte migliore. Le bombe alleate – pur puro caso – la risparmiarono e dopo la guerra divenne un centro esclusivo destinato ai giovani comunisti della Ddr. Alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, la villa passò sotto il controllo del Comune di Berlino. Da allora il Consiglio comunale ha tentato di trovare una soluzione anche per impedire che la villa e il parco circostante divenissero metà di pellegrinaggio dei neonazisti. Negli anni 90 il Comune di Berlino fece di tutto per trasformare la villa in un albergo di lusso, ma non trovò nemmeno un imprenditore. Nel 2006 il Comune mise la villa all’asta.
NESSUNA OFFERTA. Solo recentemente il Consiglio comunale è tornato alla carica bandendo una nuova asta. “Ci sono molte persone e società interessate”, dice Marlies Mache, portavoce dell’agenzia che amministra la proprietà per conto della cittadinanza di Berlino. “Stiamo valutando le offerte. Non vogliamo che il complesso finisca in mani equivoche, gli interessati debbono dire chiaramente quale uso intendono farne”. Il Comune spera che la proprietà possa diventare una clinica, un complesso turistico o un centro culturale. “Sarebbe perfetta per convegni e conferenze internazionali”, commenta Marlies Mache. Ma quanto hanno offerto gli interessati? Nessuno lo sa. La stampa ritiene che il valore della proprietà si aggiri intorno ai 15 milioni di euro. “Non abbiamo fretta di vendere”, dice Marlies Mache. Ma nessuno le crede. Solo per la manutenzione dell’enorme proprietà, il Comune spende 225.000 euro l’anno pagati ovviamente dai contribuenti berlinesi. La vendita della proprietà è resa ancor più complicata da due motivi: il fatto che si trovi in una zona di interesse storico, e le numerose richieste di acquisto arrivate da prestanome di gruppi neonazisti. Forse per questo si fa sempre più nutrito il partito di chi tra i berlinesi ne vorrebbe la demolizione.

Repubblica 21.9.14
Mia sorella l’ultraortodossa
“Diciannove anni fa morì, adesso ha undici figli”
Cosa succede se uno scrittore (ateo) israeliano improvvisamente si ritrova un’hassidim in casa
di Etgar Keret


DICIANNOVE ANNI FA , in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, morì la mia sorella maggiore; e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Ho passato uno degli ultimi weekend a casa sua. Era il primo Shabbat che trascorrevo là. Vado spesso a trovarla verso la metà della settimana, ma quel mese, con tutto il lavoro che avevo e i viaggi all’estero, o ci andavo sabato o niente. «Sta’ attento», disse mia moglie mentre uscivo. «Non sei più tanto in forma, sai. Vedi di non farti convincere a diventare religioso o chissà cosa». Le risposi che non doveva preoccuparsi di nulla. Quando si tratta di religione, io non ho proprio nessun Dio. Quando sono sicuro di me non ho bisogno di nessuno, e quando mi sento di merda e dentro mi si apre questo grosso buco vuoto, so solo che non c’è mai stato un dio capace di riempirlo, e non ci sarà mai. Così, anche se cento rabbini evangelizzatori pregassero per la mia anima perduta, non servirebbe a niente. Io non ho alcun Dio, ma mia sorella sì, e le voglio bene, così cerco di mostrarGli un po’ di rispetto. Il periodo in cui mia sorella stava scoprendo la religione fu il più deprimente nella storia della musica pop israeliana. Era appena finita la guerra del Libano, e nessuno era dell’umore giusto per i motivetti allegri. Ma poi, anche tutte quelle ballate dedicate a soldati belli e giovani che erano morti nel fiore degli anni cominciavano a darci sui nervi. La gente voleva canzoni malinconiche, ma non quelle che facevano un cancan su una guerra brutta e pusillanime che tutti stavano cercando di dimenticare. Che è il motivo per cui improvvisamente nacque un nuovo genere: il lamento funebre per un amico che è diventato religioso. Queste canzoni descrivevano sempre un amico intimo o una ragazza sexy che erano stati la ragione di vita della o del cantante, quando tutt’a un tratto era successo qualcosa di terribile ed erano diventati ortodossi. L’amico si faceva crescere la barba e pregava in continuazione, la bella ragazza era coperta da capo a piedi e non voleva avere più niente a che fare col cantante immusonito. I giovani ascoltavano queste canzoni e scuotevano cupamente la testa. La guerra del Libano aveva portato via così tanti dei loro amici che l’ultima cosa che volevano, tutti, era vedere gli altri sparire per sempre in qualche scuola talmudica nel quartiere più degradato di Gerusalemme. Non era solo il mondo della musica che stava scoprendo gli ebrei rinati. Erano roba grossa per tutti i media. Ogni talk show aveva un posto fisso o per un’ex celebrità diventata religiosa che si sentiva in dovere di raccontare a tutti come non avesse proprio alcun rimpianto per la propria dissolutezza, o per l’ex amico di un noto rinato che rivelava quanto l’amico fosse cambiato da quando era diventato religioso e come non potevi più nemmeno rivolgergli la parola. Anch’io. Dal giorno in cui mia sorella fece il grande passo nella direzione della Divina Provvidenza, io diventai una specie di celebrità locale. Vicini che non mi avevano mai neanche rivolto la parola si fermavano, solo per stringermi energicamente la mano e porgermi le loro condoglianze. Hipster adolescenti tutti vestiti di nero venivano a darmi affettuosamente un cinque prima di entrare nel taxi che li avrebbe portati in qualche discoteca di Tel Aviv. E poi abbassavano il vetro del finestrino per urlarmi il loro dispiacere per la vicenda di mia sorella. Se i rabbini avessero preso una ragazza brutta, si sarebbero anche rassegnati; ma portarsi via una bella donna come lei: che spreco!
Intanto, la mia compianta sorella studiava in un seminario femminile di Gerusalemme. Era venuta a trovarci quasi ogni settimana, e sembrava felice. Se c’era una settimana in cui non poteva venire, andavamo noi a trovarla. Allora io avevo quindici anni, e sentivo terribilmente la sua mancanza. Non l’avevo vista molto spesso nemmeno quando faceva il servizio militare, prima di diventare religiosa, come istruttore di artiglieria nel sud del paese, ma allora, per qualche motivo, mi era mancata di meno. Ogni volta che ci incontravamo la studiavo atten- tamente, cercando di capire in che modo era cambiata. Avevano forse sostituito la luce che aveva negli occhi, il sorriso? Parlavamo tra noi come sempre. Lei continuava a raccontarmi le storie buffe che aveva inventato apposta per me, e mi aiutava a fare i compiti di matematica. Ma mio cugino Gili, che apparteneva alla sezione giovanile del Movimento Contro la Coercizione Religiosa e la sapeva lunga sui rabbini e tutto, mi diceva che era solo questione di tempo. Non avevano ancora finito di lavarle il cervello, ma appena l’avessero fatto lei si sarebbe messa a parlare yiddish, e loro le avrebbero rasato la testa, e lei si sarebbe sposata con un tipo sudato, flaccido e repellente che le avrebbe proibito di vedermi. Poteva volerci ancora un anno o due, meglio che mi preparassi, perché una volta maritata forse avrebbe continuato a respirare, ma dal nostro punto di vista sarebbe stata come se fosse morta.
Diciannove anni fa, in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, la mia sorella maggiore morì, e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Ha un marito, studente di una yeshiva, proprio come aveva promesso Gili. Non è né sudato né flaccido né repellente, e in realtà sembra contento ogni volta che mio fratello o io li andiamo a trovare. Gili allora, circa vent’anni fa, mi garantì che mia sorella avrebbe avuto orde di figli, e che ogni volta che io li avessi sentiti parlare yiddish come se vivessero in un desolato shtetl dell’Europa orientale mi sarebbe venuta voglia di piangere. Anche su questo argomento aveva ragione solo a metà, perché mia sorella ha veramente un mucchio di bambini, l’uno più carino dell’altro, ma quando parlano yiddish mi vien solo da sorridere.
Mentre entro nella casa di mia sorella, meno di un’ora prima di Shabbat, i bambini mi salutano all’unisono col loro «come mi chiamo? », una tradizione che ha avuto inizio dopo che una volta li confusi tra loro. Considerando che mia sorella ha undici figli, e che ognuno di essi ha un doppio nome, come hanno di solito gli hassidim il mio errore era sicuramente perdonabile. Il fatto che tutti i ragazzi sono vestiti nello stesso modo e dotati di coppie identiche di riccioli laterali costituisce una notevole attenuante. Ma tutti loro, da Shlomo-Nachman in giù, vogliono ancora essere sicuri che il loro strano zio abbia le idee abbastanza chiare, e dia il regalo giusto al nipote giusto. Mia madre sospetta che non sia ancora finita; perciò, tra un anno o due, a Dio piacendo, ci sarà un altro doppio nome da imparare a memoria.
Dopo che ebbi fatto l’appello con pieno successo, mi venne offerto un bicchiere di cola strettamente kosher mentre mia sorella, che non mi vedeva da molto, voleva sapere cos’avevo combinato. È molto contenta quando le dico che me la passo bene, ma poiché il mondo in cui vivo io è per lei un mondo frivolo, non ha un vero interesse per i particolari. Il fatto che mia sorella non leggerà mai uno dei miei racconti mi dispiace ma il fatto che io non osservo lo Shabbat e non mangio kosher a lei dispiace ancora di più.
Un giorno ho scritto un libro per bambini e l’ho dedicato ai miei nipoti. Nel contratto, la casa editrice accettava che l’illustratore preparasse una copia speciale dove tutti gli uomini avrebbero avuto yarmulke ( il copricapo, ndt ) e riccioli laterali, mentre le sottane e le maniche delle donne sarebbero state abbastanza lunghe per essere considerate modeste. Ma alla fine anche questa versione fu respinta dal rabbino di mia sorella. Il libro raccontava la storia di un padre che scappa con un circo. Deve averla considerata troppo audace, e io ho dovuto riportare la versione “kosher” del libro a Tel Aviv.
Fino a circa dieci anni fa, quando finalmente mi sposai, la parte più dura del nostro rapporto fu che la mia ragazza non poteva accompagnarmi nei giorni in cui andavo a trovare mia sorella. Per essere proprio sincero, dovrei dire che nei nove anni che abbiamo passato insieme ci siamo sposati dozzine di volte con cerimonie di ogni genere inventate da noi: con un bacio sul naso in un ristorante di pesce a Giaffa, scambiandoci abbracci in un fatiscente albergo di Varsavia, facendo il bagno nudi sulla spiaggia di Haifa e persino dividendoci un uovo Kinder sul treno Amsterdam-Berlino. Solo che, disgraziatamente, nessuna di queste cerimonie è riconosciuta dai rabbini o dallo Stato. Sicché, quando andavo a trovare mia sorella e famiglia, la mia ragazza doveva sempre aspettarmi in un caffè o in un parco. M’imbarazzava, ma lei capì la situazione e l’accettò.
Diciannove anni fa, in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, la mia sorella maggiore morì, e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Allora c’era una ragazza che amavo da morire, ma che non mi amava. Ricordo che due settimane dopo le nozze andai a trovare mia sorella a Gerusalemme. Volevo che pregasse perché quella ragazza e io potessimo stare insieme. A tal punto era arrivata la mia disperazione. Mia sorella restò in silenzio per un minuto e poi mi spiegò che non poteva farlo. Perché, se lei avesse pregato e poi quella ragazza e io ci fossimo messi insieme e la nostra vita insieme fosse diventata un inferno, lei si sarebbe sentita terribilmente in colpa. «Pregherò, invece, che tu possa incontrare una persona con cui essere felice», disse, e mi rivolse un sorriso che cercava di essere consolante. «Pregherò per te ogni giorno. Lo prometto». Capivo che avrebbe voluto abbracciarmi e mi dispiaceva che non le fosse consentito, o forse me lo stavo solo immaginando. Dieci anni dopo incontrai mia moglie, e stare con lei mi rese davvero felice. Chi ha detto che le preghiere non vengono esaudite?
(Traduzione di Vincenzo Mantovani)


il Fatto 21.9.14
Palestina, diario di bordo: la missione di Tarek
di Kento

qui

La Stampa 21.8.14
Torino, 150 anni fa la prima strage dell’Italia unita
Nel 1864 i carabinieri spararono sulla folla che protestava contro il trasferimento della capitale a Firenze anziché a Roma: 55 morti e 133 feriti
di Alessandro Barbero

qui

Corriere 21.9.14
Firenze, Palazzo Strozzi
Nel segno di Picasso
Paure, amori, ossessioni
di Marco Gasperetti


Palazzo Strozzi racconta l’artista e i suoi rapporti con Miró, Dalí e altri. In un dialogo serrato alla ricerca del moderno Le sale del Palazzo, nove per l’esattezza consacrate alla mostra, non si percorrono in modo lineare, passo dopo passo. Non esiste partenza, né arrivo, manca un centro, non s’intravedono confini cronologici. Ci si muove, in un improbabile ipertesto, tra monadi di segni e di colori, nella luce e nell’oscurità, nel tormento e nell’estasi, nella mutazione dell’arte.
L’unicità di «Picasso e la modernità spagnola», sontuosa rassegna che si è aperta sabato a Palazzo Strozzi, curata da Eugenio Carmona, ordinario di Storia dell’arte all’Università di Málaga, si avverte immediatamente dopo aver varcato la «soglia» nella quale 90 opere (dipinti, disegni, incisioni, sculture) ci raccontano storie simili e diverse, parallele e convergenti, raccolte in un unicum che a volte disorienta, ma poi dopo l’assimilazione, sorprende.
Picasso è raccontato soprattutto nella sua interiorità, percorrendo gli abissi della psicanalisi. Accade quando nella sala 1 (ma la numerazione è solo formale) un libro e un’installazione multimediale ci svelano la leggenda di Frenhofer, l’ombra di Pablo. Frenhofer è il pittore, inquieto e sfortunato, protagonista di un racconto di Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto , che negli anni Venti l’imprenditore e mercante d’arte francese Ambroise Vollard, volle trasformare in libro di lusso con le illustrazioni di Picasso. Perseguitato dall’idea di creare un capolavoro assoluto, Frenhofer si uccide perché dopo anni di lavoro la sua opera non è compresa.
Il genio di Malaga s’identifica con il protagonista del racconto, lo descrive, ma ha la capacità (con la narrazione della sua vita fortunata) di invertire il destino, di creare capolavori difficili e di successo. «Il terrore di non essere compreso era uno dei mostri che opprimevano l’inconscio di Picasso», spiega Carmona.
E quel libro, forse, è un atto di creazione scaramantica. Uno specchio deformato, come Il pittore e la modella (1963) l’olio che trionfa nella stessa sala. Nella mostra (nata dalla collaborazione tra Fondazione Palazzo Strozzi e il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, insieme alla Soprintendenza PSAE e per il Polo Museale della città di Firenze) non mancano i capolavori: Ritratto di Dora Maar (1939) per la prima volta in Italia, Testa di donna (1910), illuminano il percorso, insieme all’Arlecchino di Salvador Dalí (1927), Figura e uccello nella notte (1945) e Siurana, il sentiero (1917) di Miró. Eppure non sono così essenziali.
Perché l’essenza di «Picasso e la modernità spagnola» si conquista decifrando i chiaroscuri dell’anima e leggendo la descrizione dell’universo femminile (le donne di Picasso sono qui rappresentate nelle molte forme della carne e dello spirito) anch’esso traboccante di significati esoterici e psicanalitici. Nella sala 7, «Verso Guernica : la Tragedia, Minotauromachia » (1935) Pablo si trasfigura nel Minotauro-violentatore, mentre una bambina saluta.
È la rappresentazione di Marie-Thérèse Walter, la modella 17enne che Picasso, sposato, conobbe a 45 anni e accettò come amante (con il placet della famiglia della ragazza), non senza turbamenti che nell’ambigua vicenda del Minotauro cerca di sublimare nell’arte, ybris che diventa nemesis con la cecità del mostro, la peggiore maledizione per l’artista. Nelle sale-monadi si ha una visione completa di quell’arte. Si resta abbagliati nella sala 4, «Lirismo. Segno e superficie», dove Pablo e altri spagnoli lavorano con segni sintetici per provocare le stesse emozioni della poesia, linee e curvature di pennello e di materia scultorea. Ci si perde (sala 5) nella sopra-realtà del realismo magico, tra il surrealismo di Dalí e il pragmatismo di Antonio López García.
E ancora si assiste alla metamorfosi (sala 8) di natura e cultura, un’altra ossessione di Pablo, idealizzata nella pittura. E ci si muove (sala 9) verso un’altra modernità. «Nella quale Picasso riflette sulla pittura, mentre Miró la espande e apre nuovi orizzonti», spiega Carmona. Ma sono ancora le sale 6 e 7, «Verso Guernica : il Mostro» e «Verso Guernica : la Tragedia», che tornano ad aprire i bastioni della città dei mostri. Cavalli e minotauri, tori e volti trasfigurati. Stavolta c’è anche un’evidenza temporale: 26 aprile del 1937 il bombardamento della città basca di Guernica. Picasso trae da quel genocidio l’ispirazione per il suo capolavoro.
Ma ne rimarrà travolto. Come stordito dal massacro continua a disegnare per mesi le stesse immagini, cavalli-donna travolti dal dolore, sofferenza di segni e di colori. «Una modernità spagnola che non può che essere unica in questa dimora rinascimentale nel cuore di Firenze — conclude Carmona —, anch’essa interprete dell’arte di Picasso».

Corriere 21.9.14
La coscienza civile nata da quegli incubi
«Guernica», la prima opera creata sotto i riflettori dei mass media
di Francesca Bonazzoli


Per realizzare la grande tela di Guernica (3,49 X 7,77 metri) a Picasso servirono solo una cinquantina di studi, eseguiti in dieci giorni. Poi l’artista spagnolo, che fin da piccolo fu riconosciuto come un grande virtuoso, passò subito a dipingere, impiegando solo cinque settimane: dal 1 maggio al 4 giugno del 1937.
Come se già intuisse che quella che stava per realizzare sarebbe diventata un’icona della storia dell’arte, lavorò sotto l’obiettivo della compagna, la fotografa Dora Maar, che documentò giorno per giorno la progressione dell’opera. Ecco perché, nella storia della pittura, Guernica è considerata un «oggetto primo»: era la prima volta che un’opera aveva origine sotto i riflettori dei mass media , che ne gestiranno la fama.
Quando la tela apparve al pubblico, in occasione dell’Expo di Parigi del 1937, la tela era già il vessillo della lotta contro il fascismo e neanche dieci anni dopo, alla fine della seconda guerra mondiale, Guernica diventò l’immagine simbolo che denuncia la barbarie di tutte le guerre nonché il più celebre manifesto politico del Novecento. La circostanza che portò alla nascita di Guernica fu il bombardamento del 27 aprile dell’omonima cittadina basca.
L’attacco, ad opera dell’aviazione tedesca alleata del dittatore spagnolo Francisco Franco, causò la morte di milleseicento civili e suscitò sdegno e commozione. Il governo repubblicano decise subito di commissionare a Picasso un’opera a sostegno della causa democratica e a futura memoria. Guernica divenne un simbolo visivo portentoso, riprodotto fin dal suo apparire in cartoline che circolavano anche nella Parigi occupata dai nazisti o nell’Italia fascista. Gli fu attribuito il ruolo di manifesto di propaganda politica per raccogliere fondi e consensi a favore della Spagna repubblicana e, a questo scopo pubblicitario, la tela fu fatta viaggiare incessantemente: dal 1953 al 1956 toccò 31 città straniere per sostenere la causa repubblicana.
Finita la guerra, venne esposta in Italia, Germania, Brasile e molti altri Paesi, per fermarsi al Museum of Modern Art di New York, dove è rimasta fino al 1981. Su esplicita richiesta testamentaria di Picasso l’opera non sarebbe potuta entrare in Spagna prima della caduta di Franco. Dopo la morte del dittatore, avvenuta nel 1975, Guernica ritornò in patria su un moderno jumbo, ma il suo valore era considerato così inestimabile che nessuna compagnia volle assicurare l’opera.
La sua prima destinazione fu il Prado di Madrid e poi, nel 1992, il Museo Reina Sofía da dove non è stata più spostata, nonostante l’amministrazione basca ne abbia più volte chiesto almeno il prestito temporaneo. Il governo spagnolo ha sempre opposto un netto rifiuto per paura che la tela non venga restituita.
I simboli nel dipinto furono spiegati dallo stesso Picasso: il toro rappresenta la brutalità, il cavallo il popolo, e la lampadina la Verità che fa luce sul luogo dell’orrore e smaschera la menzogna del regime fascista. Per quanto riguarda invece l’uso del bianco e nero, i commentatori hanno elaborato ogni tipo di interpretazione, ma la più interessante resta quella di J. L. Ferrier, che collega il bianco e nero alla prima pagina del «Ce Soir» del 1 maggio 1937 dove venne pubblicata la foto della città basca bombardata sotto il titolo «Vision de Guernica en flammes». E sempre come un giornale, secondo lo studioso francese, anche Guernica si può leggere a pezzi, senza seguire un ordine preciso. Ancora una volta, dunque, Picasso sarebbe stato «il primo pittore a concepire la sua opera secondo la nuova influenza dei mass media ».
La prova di quanto sia ancora forte la potenza simbolica della tela si è avuta il 5 febbraio 2003, quando il segretario di Stato americano Colin Powell si presentò nella sala stampa del Consiglio di sicurezza dell’Onu per illustrare ai giornalisti le ragioni della guerra all’Iraq. Alle sue spalle il grande arazzo che riproduce in dimensioni reali Guernica fu coperto con un telo azzurro (il colore dell’Onu): sarebbe stato infatti imbarazzante dover sollecitare un bombardamento su Bagdad sullo sfondo del quadro diventato simbolo universale degli orrori della guerra.

Corriere 21.9.14
Unì realisti e astratti nella stessa lingua
Ma De Chirico disse: «È provincialismo»
di Rachele Ferrario


«Dalli con li mostri, con losanghe e tubi / riempiamo le biennali con i cubi / e mai ci mancherà la ciccia e il pan / finché al suo posto ci sarà L’Argàn / e con Venturi e con la Bucarelli / verranno a noi gli acquisti e i giorni belli. / Abbiamo la libertà, la confusione / sputiamo sulla nostra tradizione / quello che più ci importa è far fracasso / evviva il nostro duce, il gran Picasso!». I versi satirici del pittore Luigi Brunello sono tra i tanti che circolavano a Roma nell’autunno del ‘49. A Trastevere, intellettuali e pittori si affiancano ai delegati comunisti e socialisti di tutto il mondo, riuniti nel comitato mondiale per il secondo congresso della pace. All’occhiello, hanno la colomba disegnata da Picasso. Lui stesso è a Roma, corteggiato dai colleghi che lo riconoscono come maestro, e dai politici della sinistra, che l’hanno eletto a paladino della causa.
Da quando all’Esposizione universale di Parigi nel 1937 ha urlato la sua indignazione contro il bombardamento nazista di Guernica, Picasso è il simbolo di arte e di vita. Anche in Italia la sua opera rappresenta un modello per correnti ed espressioni diverse: il realismo postcubista di Guttuso (un’eco di Guernica si ritrova nella Crocifissione del ’41), la scomposizione delle forme di Pizzinato nel Bracciante ucciso del ’49, pittura tinta di rabbia e dolore; l’astrazione — geometria e colore — del gruppo Forma 1 di Turcato e dei più giovani Consagra, Perilli, Sanfilippo, Dorazio e Accardi, che nasce paradossalmente proprio nello studio di Guttuso in via Margutta. E anche il grande pittore informale Emilio Vedova, agli inizi, guarda alla scomposizione del Picasso successivo a Guernica .
La vicenda non è solo artistica, è anche ideologica. Se Guttuso, appoggiato da Antonello Trombadori, è presto riconosciuto come il pittore del Pci, gli astratti sono stroncati da Togliatti in persona, che su «Rinascita», con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia riduce la loro opera al rango di «ghirigori».
Per questo quando Picasso arriva a Roma nel ’49 l’aspettativa è enorme, ma suscita qualche delusione: gira voce che entrato nella sala della Cisterna il maestro abbia confuso anonimi affreschi quattrocenteschi con un’opera di Michelangelo. L’ha sussurrato a Guttuso, ma giornalisti e curiosi hanno sentito e hanno montato un caso.
Picasso è iscritto al partito comunista francese, ma quando, nel 1953, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna si inaugura la sua prima mostra pubblica in Italia, in Francia infuria la polemica: la nomenclatura non ha gradito il ritratto che il maestro ha fatto di Stalin e che Aragon ha pubblicato su «Les Lettres Françaises». Lui si è giustificato dicendo di non aver mai visto Stalin e di averlo dipinto per commemorarlo. L’aneddoto spiega come in Picasso possano riconoscersi sia gli astratti sia i realisti. «È irrimediabilmente grande e irrimediabilmente comunista» scrive Guttuso dandogli il benvenuto sull’«Unità», mentre gli artisti più giovani stampano un giornale di mostra con una lettera dai toni così entusiastici che oggi risultano imbarazzanti.
E ad attenderlo sulle scale di Valle Giulia, all’ingresso della Galleria, c’è il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi. Picasso però non è venuto: è rimasto a casa sua a Vallauris. De Chirico, suo rivale in pittura a Parigi già negli anni Venti, tuona contro il provincialismo: «Da mezzo secolo si fanno mostre su Picasso, e nessun capo di Stato di nessun Paese si è mai scomodato per inaugurarne una»; e parla di «massoneria modernista internazionale che impone una specie di dittatura intellettuale e artistica».
Tutti avevano voluto entrare nel comitato della mostra, affollatissimo di scrittori e artisti, da Sibilla Aleramo a Moravia, da Cagli a Casorati, da Afro a Vedova.

Corriere La Lettura 21.9.14
Anche Pericle e Augusto sotto il fuoco dei pettegoli
di Luciano Canfora


Grazie alla prodigiosamente ricca documentazione di cui lo storico Svetonio disponeva finché ebbe accesso agli archivi imperiali, conosciamo una lettera di Antonio ad Ottaviano (non ancora Augusto) piuttosto vivace nel contenuto e ruvidamente soldatesca nello stile: «Che cosa ti è successo? Che cosa ha causato il tuo cambiamento verso di me? Che io mi faccio una regina? Ma è mia moglie. Non ho mica incominciato adesso! Sono ormai nove anni. E tu? Forse che ti fai solo Drusilla? Ti pigli un accidente se non è vero che, quando ti arriverà questa lettera, ti sarai già fatto Tertulla, Terentilla, Rufilla o meglio tutte insieme. Che importa dove e con chi?». Poiché Antonio parla di nove anni ormai con Cleopatra vuol dire che siamo a ridosso dello scontro finale di Azio (31 a.C.). Dopo qualche anno Augusto lancerà la campagna moralizzatrice e restauratrice dei sani costumi, del mos maiorum . Il risultato è descritto così da uno storico servile verso il potere, Velleio: «Terminate le guerre civili, seppellite per sempre quelle esterne, ripristinata la pace, restituita la forza alle leggi, l’autorità ai tribunali, la maestà al Senato [...] risorge l’agricoltura, il rispetto per la religione, la tranquillità di tutti, la proprietà salvaguardata, le riforme attuate».
Eppure la realtà era altra: in certe occasioni Augusto si recava in Senato con la corazza sotto la toga e faceva perquisire i senatori prima di farli accedere alla seduta. Da Seneca (nel De clementia ) apprendiamo che congiure, sventate non senza spargimento di sangue, si ripeterono negli anni dell’interminabile governo di Augusto. Una, la più clamorosa, coinvolse Giulia, figlia del princeps e della sua prima moglie Scribonia, da lui ripudiata poco dopo la nascita di Giulia. La tradizione, compattamente, prende per buona la versione ufficiale. Che cioè Giulia fu allontanata ed esiliata, e il suo amante Iullo Antonio ucciso, a causa della sua condotta immorale. «La sua impudenza — scrive Seneca (De beneficiis , libro VI) — aveva superato quanto di più vergognoso è implicito in questo termine», e segnalava la scelta di lei di prostituirsi «qua e là per la città, nel foro e presso i rostri dall’alto dei quali il padre aveva proclamato le leggi sull’adulterio». Eppure, dietro questo terremoto, c’era anche dell’altro: uno storico bene informato come Cassio Dione (libro 55) dice chiaro che Iullo fu ucciso — secondo Tacito fu «suicidato» — perché epicentro di un piano eversivo contro il princeps . Non è privo di importanza che Iullo fosse figlio del triumviro Marco Antonio e Giulia figlia della ripudiata Scribonia, che era la sorella del consuocero di Pompeo. I rampolli di due rami politicamente sconfitti si incontravano.
Sono vicende delle quali non verremo mai del tutto a capo, perché la propaganda del potere è non meno depistante della malignazione permanente della letteratura «del dissenso». Quest’ultimo ha come ragion d’essere il «fare agitazione» e gettare discredito sul potere; e trova sempre e comunque ascolto presso nemici interni ed esterni. Aristofane, nella commedia intitolata Acarnesi , suscitava le risate degli Ateniesi inventandosi una pochade , a base di ratti di prostitute «allevate» da Aspasia, la grande amica di Pericle oltre che dei filosofi e degli artisti. E la additava come responsabile della guerra con Sparta. Aggiornava e «degradava» l’archetipo, cioè la saga troiana: Elena come causa della rovinosa decennale guerra dei Greci contro Troia. Gli Ateniesi ridevano, ma nessuno prendeva sul serio la greve trovata escogitata dall’astro nascente del teatro comico. Mettiamo in fila questi pezzi. Aspasia causa della guerra tra Atene e Sparta, Cleopatra causa della guerra tra Antonio e Ottaviano o — come si disse allora persino da parte di un «uom prudente e saggio» come Orazio — tra l’Impero romano e l’Egitto; e addirittura Giulia come causa della più grave crisi che abbia mai scosso il governo augusteo. Il cerchio si chiude dunque ben prima che i cristiani demonizzassero la donna come strumento del Maligno: precorritori, in questo, dei ben più radicali musulmani, che la ridussero a semplice oggetto velato.

Corriere La Lettura 21.9.14
Oltre Darwin
Il cosmo funziona come le star di Hollywood
Alla vigilia della conferenza di Lucca sui sistemi complessi il “guru delle reti” Albert-Laszlo Barabasi spiega perché ci riguardano: i loro meccanismi si ripetono, dalle celebrità alla biologia
“Queste categorie già adesso sono più utilizzate di temini come evoluzione o meccanica quantistica. La posta in gioco è alta”
di Anna Meldolesi


More is different recita uno slogan che è nato all’inizio degli anni Settanta ed è diventato un classico. Il di più è un’altra cosa. Vale per cervelli, città, economie, ecosistemi. La complessità è ovunque, fuori e dentro di noi. I sistemi complessi sono composti da tanti elementi in relazione fra loro: neuroni, strade, imprese o specie. Ciò che conta è che, una volta messi insieme, esibiscono comportamenti diversi da quelli delle singole parti.
Se esistesse un asse che parte dall’ordine e finisce nel caos, sarebbe difficile stabilire dove collocare questi sistemi. Di certo crescono, evolvono, ci colgono di sorpresa nel bene e nel male. Riusciremo mai a prevederne i comportamenti? Albert-László Barabási, della Northeastern University (Boston), è uno dei massimi esperti del campo ed è ottimista al riguardo. Il fisico di origine ungherese ha contribuito a inaugurare una nuova stagione negli studi sulla complessità e la prossima settimana sarà a Lucca, per l’undicesima edizione della European Conference on Complex Systems. «La posta in gioco è alta. I sistemi complessi nel loro insieme racchiudono la maggior parte delle principali sfide che l’umanità ha davanti a sé», dice a «la Lettura». Parliamo di società, finanza, ambiente, medicina. E dunque della possibilità di eseguire calcoli sulla prossima crisi finanziaria, la prossima pandemia, il punto di non ritorno dei cambiamenti climatici.
Il primo passo per capire come funzionano i sistemi complessi è comprenderne l’architettura, ci spiega quello che la stampa internazionale ha ribattezzato il «guru delle reti». «È come se dovessimo assegnare delle funzioni alla Cappella Sistina. Non è possibile provarci senza sapere quanti ingressi ha, la sua capienza, il flusso d’aria che l’attraversa, il progetto da cui è nata». Per questo la scienza dei sistemi complessi coincide in gran parte con la scienza delle reti. Tanti pallini per le componenti di base, tante lineette per le loro relazioni. Rappresentandoli graficamente così, si scopre che molti sistemi complessi, da Internet alla Silicon Valley al metabolismo cellulare, hanno un’impronta comune.
Possibile che dietro alla complessità che ci disorienta tanto si nascondano poche e potenti leggi di natura? Gli scettici ovviamente non mancano. Negli anni Novanta, in uno dei libri scientifici più iconoclasti di sempre (La fine della scienza , Adelphi), John Horgan ironizzava: «Ma è possibile che gli scienziati arrivino a una teoria unitaria della complessità, se non riescono neanche a mettersi d’accordo su cosa sia esattamente la complessità?». Il paradosso è che persino circoscrivere la complessità sembra un’operazione complessa.
Barabási di fronte a questa obiezione alza le spalle, riproponendo la celebre frase pronunciata da un giudice americano per definire la pornografia: «Quando la vediamo, la riconosciamo». Di sicuro la scienza dei sistemi complessi è molto cambiata negli ultimi anni, grazie all’esplosione di Internet. Proprio un lavoro ispirato dalla mappa del web, pubblicato nel 1999 da Barabási e Réka Albert su «Science», ha innescato un ripensamento generale: le reti non sono statiche e neppure connesse in modo casuale, come si era a lungo creduto. In origine il web aveva un solo nodo, la famosa prima pagina di Tim Berners-Lee, ricorda il ricercatore nel suo libro più fortunato, Link. La scienza delle reti (Einaudi). Poi, man mano che fisici e informatici hanno iniziato a creare le proprie pagine, il primo sito ha guadagnato link e la Rete da allora ha continuato a crescere seguendo un principio: i vertici più connessi sono quelli che accumulano più connessioni. Quando decidiamo quali pagine linkare, la scelta spesso cade su quelle che sono già molto linkate.
Lo stesso accade nelle altre reti definite «a invarianza di scala», in cui pochi fulcri altamente connessi tengono tutto il resto insieme. Pensate all’industria cinematografica: gli attori di Hollywood che ricevono più proposte di lavoro sono quelli che hanno già molti contatti e hanno già girato molti film. Il gergo tecnico è freddo (si parla di «connessione preferenziale»), ma ne abbiamo avuto tutti esperienza diretta. Ad arricchirsi di più è chi è già ricco o, se preferite, piove sempre sul bagnato. Un tempo veniva chiamato «effetto San Matteo», per il versetto del Vangelo che recita: «A chiunque ha sarà dato» .
Nel frattempo altri ricercatori hanno messo in luce dinamiche aggiuntive, come l’invecchiamento dei nodi. La teoria delle reti insomma non è un Graal da rincorrere: è già un frutto maturo, per Barabási. Gli chiediamo se sia davvero così importante e potente da meritare un posto accanto alla meccanica quantistica, alla relatività, all’evoluzione darwiniana. Questione insidiosa, ma il fisico non tradisce imbarazzi: «Il termine rete — replica — è già più utilizzato di quanto o evoluzione ».
Guido Caldarelli è più cauto. Il fisico dell’Istituto Alti studi Imt di Lucca, che farà da chairman alla Conferenza europea, ricorda che per arrivare a formulare una nuova teoria sono necessari diversi passaggi. Si osserva un fenomeno, si procede alla sua misurazione, si scoprono le regolarità che presenta e se ne trova la spiegazione. È così che dalla mela caduta si arriva alla legge della gravità. «Nella scienza dei sistemi complessi — dice a “la Lettura” — siamo alla fase in cui abbiamo identificato delle regolarità e sono state avanzate idee sul perché si manifestino. Ma siamo lontani dalle verifiche sperimentali e in qualche caso sappiamo che la teoria non funziona». Se una proteina ha molti collegamenti all’interno di una rete molecolare, ad esempio, è ragionevole pensare che sia per ragioni di tipo chimico-fisico piuttosto che per la connessione preferenziale.
Caldarelli studia le istituzioni finanziarie, che formano una rete di reti (multiplex ). «Lo stress finanziario — ci spiega — può propagarsi da un livello all’altro. Quando uno scoppio sembra provenire dal nulla, arriva da un collegamento che non conoscevamo. Questo non significa che riusciremo a prevedere con precisione le prossime crisi, ma almeno cercheremo di identificare le criticità e di capire come rendere più robusti i sistemi». La rivoluzione di Big Data sta regalando agli studiosi delle reti un’opportunità storica. «In tutto il mondo viene annotata ogni transazione economica, Google registra le nostre ricerche, siamo in tantissimi ad avere uno smartphone in tasca, il Gps traccia i nostri movimenti», si entusiasma Caldarelli. Insomma produciamo tutti miriadi di informazioni, che possono essere studiate da fisici, matematici, sociologi, psicologi ed economisti, estendendo agli uomini e alle società umane l’indagine scientifica che per secoli era rimasta confinata alle scienze naturali.
Forse tempi e modi con cui mandiamo email, abbiamo rapporti sessuali, ci esponiamo ai virus non sono così casuali come potrebbe apparire. Si è notato, ad esempio, che in molti casi sembra non accadere nulla per molto tempo e poi succede tutto in una volta. Il fatto che il comportamento umano non sia, almeno in linea teorica, imprevedibile un po’ conforta e un po’ inquieta. «Come approccio assomiglia alla psicostoria dei libri del Ciclo delle Fondazioni », scherza il fisico italiano. Qui Isaac Asimov immagina una disciplina che è «la quintessenza della sociologia», «la scienza del comportamento umano ridotto ad equazioni matematiche». Ma queste sono più che altro suggestioni. Caldarelli sceglie un esempio rassicurante: prevedere che tutti i tifosi di una curva si alzeranno quando la loro squadra farà gol non ci rende degli automi. Conoscere qualcosa in più di noi stessi — sostiene il fisico italiano — ci renderà più liberi, non meno. Nessuno dovrebbe essere contento di sapere più cose sugli elettroni e sui pianeti che sull’uomo, afferma anche Barabási nel suo libro più recente (Lampi. La trama nascosta che guida la nostra vita , Einaudi). «Dimenticate il lancio dei dadi o le scatole di cioccolatini come metafore della vita. Pensatevi come un robot sognante guidato dal pilota automatico e sarete molto più vicini alla verità».

Repubblica 21.9.14
Piccoli grandi eroi dell’antinazismo
Storia dimenticata della Mano Nera, i giovanissimi ribelli che ancora minorenni si opposero al Terzo Reich in Alsazia
di Susanna Nirennstein


QUANTO è stato dimenticato — oltre ai grandi numeri, ai grandi nomi — dei crimini del Terzo Reich, e delle sue vittime, e degli eroi antinazisti? Frediano Sessi, dopo numerosi titoli sull’antisemitismo hitleriano e non solo, ci racconta un piccolo grande nuovo capitolo quasi ignorato della Seconda Guerra Mondiale, avvenuto in Alsazia, una regione che insieme alla Mosella nel giro di poco più di 70 anni fu costretta a cambiare appartenenza quattro volte dopo altrettanti conflitti, da francese a tedesca nel 1871, poi di nuovo francese nel 1918, ancora tedesca con l’annessione al Terzo Reich del 1940, e grazie agli americani, liberata definitivamente tra il ‘44 e il ‘45. Con Hitler e la sua teoria della razza, l’idea che questo popolo fosse perfettamente ariano, tutto precipitò: la germanizzazione si impose nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni, per le strade. Furono espulsi gli impuri, si proibì di parlare, di cantare, in francese. Si spedirono al fronte i “Malgré-Nous”, i soldati arruolati nella Wehrmacht malgrado non volessero: 100.000 ragazzi, 22.000 mo- rirono, 10.000 i mutilati gravi. Ci furono anche i collaborazionisti, chiaro.
È in questo drammatico vortice che si incrociano due storie quasi cadute nell’oblio, quella di un aguzzino e quella di un manipolo di giovanissimi ribelli, minorenni tra i 14 e i 17 anni (solo uno era maggiorenne), che a Strasburgo resistettero all’invasore in nome della Francia, della libertà, e anche di Dio. Fu Marcel Weinum a fondare la Mano Nera. Era il 1940 e lui era un sedicenne molto credente. Creò un gruppo d’azione insieme ad altri pulcini di uomini. Raccoglievano armi e esplosivi, scrivevano “Viva de Gaulle” sui muri, infrangevano le vetrine con immagini naziste, danneggiavano le auto degli ufficiali fino a far saltare quella del Gauleiter, minavano depositi, prendevano contatto oltre frontiera con diplomatici inglesi per fornire dati sul nemico. Incredibile, erano degli eroi. Furono catturati, torturati, mandati a Schirmeck, lager di rieducazione dei ribelli, talvolta per essere poi arruolati di forza, talvolta giustiziati. Eroi.
La loro nobile storia si incontrò con quella buia di Eugen Haagen, virologo tedesco di fama a capo dell’Istituto di Igiene di Strasburgo. Nel campo di Schirmeck e più tardi in quello del vicino Struthof (dove c’era anche una camera a gas per chi non resisteva alla prova) si dedicò a testare i suoi vaccini per la febbre gialla, il tifo ed altre malattie contagiose su esseri umani. Quando gli mancavano, ne chiedeva di nuovi, zingari e polacchi preferibilmente, subumani dal suo punto di vista. Ne morirono molti. I nostri ragazzi tentarono di colpirlo. Lui morì tranquillo nel suo letto nel 1972 da stimato scienziato, dopo aver ripreso il suo lavoro di ricerca nel 1956. Eppure tra tutti i medici dell’Alsazia fu quello che utilizzò più cavie umane.

MANO NERA di Frediano Sessi MARSILIO PAGG . 256 EURO 17

Il Sole Domenica 21.9.14
Epistolari
Togliatti lettera per lettera
Un volume edito da Einaudi raccoglie una nutrita silloge di lettere scritte e ricevute dal leader comunista dal 1944 al 1964
Incompleto il carteggio con Ambrogio Donini
di Luciano Canfora


l'anticipazione
Questo testo è un'anticipazione dell'articolo di Luciano Canfora pubblicato su «Il Calendario del Popolo», in questi giorni in libreria. Dedicato a «Femminismo e politica», contiene anche un'intervista a Nichi Vendola e interventi, tra gli altri, di Nicolò Cavalli («Il welfare dei ricchi») e Maria Serena Sapegno («Le donne ai vertici: un vero cambiamento?»).

Nel gennaio 1991 un supplemento speciale de «l'Unità» commemorativo, post mortem, della nascita del Pci nel gennaio 1921, comprendeva una notevolissima lettera datata dicembre 1954, di Palmiro Togliatti ad Ambrogio Donini (all'epoca direttore dell'Istituto Gramsci). L'edizione era curata da Albertina Vittoria, benemerita studiosa della storia del Partito comunista italiano e in particolare dei rapporti tra Togliatti e gli intellettuali italiani del suo tempo. Pochi mesi più tardi Albertina Vittoria ripubblicava l'importante documento nel volume apparso presso gli Editori Riuniti intitolato Togliatti e gli intellettuali. Entrambe le volte il testo veniva presentato come inedito. La lettera di Togliatti prendeva spunto da un convegno organizzato dall'Istituto Gramsci nelle settimane precedenti, curato da Ambrogio Donini e aperto da una relazione introduttiva di Arturo Colombi, considerato all'epoca particolarmente competente nel settore agricoltura. Il tema del convegno era «La storiografia marxista in Italia».
Le critiche che Togliatti formula nella sua lettera a Donini sono molteplici, come il lettore può constatare, ma si affissano su due punti soprattutto: la identificazione tra storiografia marxista e storiografia sul movimento operaio; le critiche rivolte da Colombi e da altri agli scritti (si intende carcerari) di Gramsci per il loro carattere non perfettamente marxista. Il lettore può vedere agevolmente la dovizia di argomenti con cui Togliatti si esprime e l'efficacia con cui difende il diritto di Gramsci a essere un intellettuale che parla un linguaggio che trascende il lessico scolasticamente di parte.
Nel mese di maggio 2014 è apparso un interessante volume che raccoglie una nutrita silloge di lettere di e a Togliatti per gli anni 1944-1964. Titolo: La guerra di posizione in Italia (Einaudi). Curatori del volume: Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi. Con scrupolo i due curatori segnalano, nel presentare la lettera di Togliatti a Donini del dicembre 1954, che essa era stata in realtà pubblicata per la prima volta da Ambrogio Donini su «Il Calendario del Popolo» nel fascicolo datato dicembre 1989 e rivelano che in quella occasione Donini aveva pubblicato anche la propria risposta a Togliatti, molto lunga e dettagliata, che però non viene inserita in questo volume einaudiano quantunque in altri casi venga fornita anche la replica dei vari interlocutori. Non comprendiamo la ragione di questa esclusione, ma possiamo rimediarvi pubblicando qui di seguito anche la replica di Donini. Non è un grande testo; colpisce anzi il carattere formalistico, difensivo e sulla questione Gramsci totalmente elusivo di tale risposta. Si può immaginare che Donini non abbia osato confutare le osservazioni di Togliatti sul diritto di Antonio Gramsci a non parlare come un funzionario di partito. Il fatto che comunque non replichi su questo punto suggerisce che, persuaso o meno che fosse, Donini "incassò". L'esperienza insegna tuttavia che Gramsci continuò a non essere l'autore di riferimento dell'establishment più tradizionalista del Pc (Sereni, Colombi, Donini eccetera), i quali probabilmente condividevano intimamente quella celebre e famigerata aspra critica di Ruggero Grieco contro Gramsci, pubblicata su «Il lavoratore» del 1923 (e parzialmente ripubblicata da Paolo Spriano nella sua Storia del Partito comunista italiano), culminante nell'accusa: Gramsci ha letto Croce e Gentile, ma non ha letto Marx!
Formalistica la difesa che Donini fa dell'impianto del Convegno storiografico del dicembre 1954, allorché puntualizza che, alla intitolazione Sulla storiografia marxista in Italia, seguiva ma poi fu, per risparmiare spazio, eliminato un sottotitolo: e la storiografia sul movimento operaio. Dopo di che Donini si affretta a ostentare presso Togliatti le proprie ricerche intorno al cristianesimo antico per parare la critica togliattiana mirante a ribadire che si può fare storiografia marxista anche occupandosi della caduta dell'Impero romano.
In realtà su questo terreno sarebbero necessari chiarimenti che porterebbero a vanificare l'uso stesso, dogmaticamente praticato ma mai scientificamente motivato e fondato, della categoria «storiografia marxista». La tradizione di studi sul cristianesimo antico e sulla crisi dell'Impero romano cui Donini faceva capo nelle sue ricerche, specialistiche in gioventù e divulgative in età matura, non ha granché a che fare con una ipotetica ortodossia marxista in tale campo, ma piuttosto risente della maturazione in senso storico-critico degli studi sul cristianesimo antico, nella scia della importante corrente di pensiero definita "modernismo" cui aveva aderito con suo rischio il maestro di Donini, Ernesto Buonaiuti. Analogamente le ricerche intorno alla crisi dell'Impero romano che hanno posto al centro gli aspetti economicosociali, religiosi, culturali, ma anche di altra natura, ebbero inizio perlomeno all'epoca di Saint-Évremond e di Montesquieu, a tacere di Rollin, Gibbon, Otto Seeck, Rostovtzeff, Bloch, Piganiol, Momigliano, Mazzarino, A.H.M. Jones eccetera. Si infligge un serio danno alla cosiddetta «storiografia marxista» se si pretende di attribuirle orientamenti e scoperte che erano già presenti in una lunghissima tradizione storiografica: essa preparò la originale riflessione di Marx, e da un certo punto in poi ne fu influenzata. Mi piace ricordare a questo punto che una delle ragioni fondamentali della crisi del movimento comunista è stato il suo scolasticismo.
Alla luce di quanto oggi ci è noto, grazie all'esperienza dei 60 anni che ci separano da quel dicembre 1954, possiamo dire che fin troppo timide erano state le critiche che giustamente Togliatti aveva rivolto ad Ambrogio Donini. Se i curatori del recente epistolario togliattiano avessero incluso la replica di Donini nella loro antologia, avrebbero reso un buon servizio a Togliatti e all'efficacia della sua militanza culturale.

Il Sole Domenica 21.9.14
Le scatole del leader
Un libro in gocce
di Giorgio Dell'Arti


Inchiostro. Togliatti in esilio a Parigi visto in un caffè «mentre cerca di mimetizzare con l'inchiostro della stilografica i buchi delle tarme in una manica della giacca».
Disonesti. «Bisogna accogliere molti ma espellere senza esitazione coloro che deturpano l'immagine del partito: "Là dove in qualche nostra sezione sono riusciti a infiltrarsi elementi disonesti, malsani, di cattiva indole morale, elementi che non fanno onore al Partito, l'opera di reclutamento viene ostacolata perché i lavoratori onesti non amano sedere accanto ai disonesti"».
Animo. «Gli chiesi un giorno – racconta Secchia – qual è lo stato d'animo preferibile in un comunista. L'ottimismo o il pessimismo? Mi rispose: in politica sono ambedue pericolosi. Si tratta di giudicare la situazione quale essa è realmente».
Resistenza. «A Codignola, uno dei comandanti delle formazioni Giustizia e Libertà che hanno liberato con i garibaldini la Toscana, Togliatti, in visita a Firenze il 3 ottobre 1944, dice: "Voi mi proponete il blocco della sinistra, ma vi sbagliate: l'Italia è cattolica, la maggioranza dei contadini è cattolica. Possiamo sperare in una loro alleanza con i comunisti e i socialisti. Voi del Partito d'Azione siete un doppione o socialista o liberale; dovreste fondervi con la Democrazia del lavoro". Il tono offensivo usato con un partito secondo solo al comunista nella guerra di liberazione non è casuale: Togliatti vuol far sapere che considera la Resistenza un episodio passeggero e di scarso rilievo. Necessario, d'accordo, ma fabbrica di guastafeste, di avventuristi».
Compagni. «Vengono a dirgli che sono a Roma i compagni di Schio, quelli ricercati dalla polizia per la giustizia sommaria che hanno fatto dei fascisti incarcerati. "Vorrebbero parlarti" lo informa Caprara. "Ma sono pazzi" dice Togliatti. "Digli che non posso assolutamente occuparmi di loro". Del resto, c'è la sua mano anche nell'ordinanza governativa che ha disarmato l'esercito partigiano. Tutto rientra nella linea politica, ma i capi della Resistenza non possono capire».
Scatole. «La Resistenza gli rompeva le scatole» (Valiani).
Princìpi. «Quando il cambiamento è più difficile, proprio allora è indispensabile il richiamo ai princìpi, la chiarezza delle idee, la precisione più grande nel dedurre i compiti da incrollabili posizioni di dottrina» (Rinascita, 1944).
Lingue. Conferenza stampa del 31 marzo 1944. «Erano presenti giornalisti di tutto il mondo. Con un po' di arroganza, uno di costoro chiese se Togliatti avrebbe parlato l'inglese o il russo e Togliatti, che pur non sa parlare inglese, con altrettanta altezzosità replicò che avrebbe parlato italiano, ma era disposto a dare spiegazioni in una qualsiasi delle lingue dell'Europa occidentale» (testimonianza di Marcella e Maurizio Ferrara).
Militare. Togliatti, amore assoluto per l'arte militare.
Spagna. Guerra di Spagna, Togliatti e Vidali si sono buttati in una buca del giardino per ripararsi dalle bombe che cadono senza sosta. Togliatti: «Cosa fai adesso?». Vidali: «Cosa vuoi che faccia? Controllo la paura». Togliatti: «Voglio dire: che incarichi hai?». Le bombe continuano a cadere. Vidali, zitto. Togliatti: «Fai troppe cose insieme, Carlos. Chi fa troppi lavori insieme, li fa male tutti». Vidali, probabilmente urlando per via delle bombe: «D'accordo, ne parliamo dopo». Togliatti: «Ecco un'altra brutta abitudine, rimandare a domani quello che può essere fatto oggi».
Menzogne. «Non si può scrivere una biografia di Togliatti se non si esce dall'abitudine provinciale di negare la funzione della menzogna. Le menzogne dette nel quadro di grandi istituzioni hanno una loro grande verità» (Franco Rodano).

Notizie tratte da Togliatti, Giorgio Bocca, Feltrinelli, Milano, pagg. 640 € 22,00

Il Sole Domenica 21.9.14
Protagonisti
Quando Marx si sdoppiò
L'autore del «Capitale» considerò inizialmente la Russia una nazione inadatta ad accogliere le idee marxiste. Poi cambiò idea
di David Bidussa


Nel dicembre 1917 Gramsci scrive che Il capitale di Marx in Russia era il libro dei borghesi, di coloro che erano convinti della «necessità che in Russia si formasse una borghesia, s'iniziasse un'èra capitalistica, s'instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse pensare alla sua riscossa,..» (Antonio Gramsci, La città futura, Einaudi, pagg. 514).
Eppure all'inizio, quando esce la prima traduzione de Il Capitale in russo, nella primavera del 1872, non era questa la situazione. Ettore Cinnella con questo suo studio di scavo intorno a un Marx per molti sconosciuto (giusto il titolo L'altro Marx), ci aiuta a comprendere perché.
All'inizio Marx non ha un fascino per la Russia che relega a periferia della storia. Il futuro si gioca tutto sul continente, tra Germania, Francia e soprattutto Inghilterra, il luogo dove ha preso forma la società industriale.
Schema già consolidato alla fine degli anni '40 e che non si modifica nei successivi venti anni. La Russia gli appare sotto le spoglie di un mondo lontano e se non nemico, certamente avversario anche in quelle figure con cui si trova a confrontarsi: da una parte Alexander Herzen, l'esponente più importante della prima generazione del populismo; dall'altra Michail Bakunin, il rivoluzionario che gli ha sottratto l'egemonia politica in Spagna, in Italia (ma anche nella Svizzera romanda) negli anni della Prima Internazionale (1864-1876).
All'inizio degli anni '70, nell'ultimo decennio della sua vita, il suo quadro concettuale, ma anche la sua sensibilità culturale, cambiano radicalmente. Lo si comprende meglio partendo dalla fine.
Nel febbraio 1881 (Marx morirà due anni dopo, nel marzo 1883) Vera Zazuli (1849-1919), esponente di punta del movimento populista in avvicinamento a Marx gli scrive chiedendogli se sia necessario o no l'abolizione della vecchia comune agricola russa, perché si avvii un processo d'industrializzazione e si definisca nel tempo un percorso di avvicinamento al socialismo. In breve la domanda è se la Russia debba percorrere lo stesso iter economico e sociale dell'Occidente per giungere al socialismo. La risposta di Marx (che stende in più versioni) è possibilista, soprattutto rifiuta l'idea di un passaggio meccanico anche per la Russia come nel mondo economico occidentale dal XV secolo in poi. Solo se posta in condizione d'isolamento quel passaggio sarebbe obbligato. Ma la comune agricola russa, precisa Marx, può assorbire i vantaggi dello sviluppo economico e tecnologico permessi dal processo d'industrializzazione senza dover passare per lo stesso processo.
La rivoluzione, dunque, secondo una visione già allora "globalizzante" si direbbe oggi, ha più chance di avviarsi nei paesi "arretrati" che non in quelli avanzati (secondo un paradigma che poi sarà fatto proprio da Lenin e soprattutto da Trockij).
Marx alla vigilia della sua morte, dunque, non riconosce più una centralità del l'Occidente nel processo rivoluzionario. Un'affermazione, sottolinea Cinnella, che ha un riscontro con il dato che dopo la Comune di Parigi (18 marzo-28 maggio 1871) Marx non accenni più alla possibilità della rivoluzione all'Ovest.
Secondo Cinnella, non è un segnale improvviso. È una convinzione che si è affermata lentamente, a partire dal 1872, segnata da un'immersione totale di Marx nella discussione russa e dal confronto con le figure del pensiero economico e politico russo.
Una riflessione cui sono indispensabili più che i testi pubblicati, i molti quaderni di appunti, soprattutto su temi di antropologia e etnologia, che Marx stende in quel decennio. Il risultato è l'approdo a una visione che segna uno stacco profondo rispetto alle convinzioni che fino a tutti gli anni '60 Marx ha avuto rispetto alle realtà economicamente arretrate o coloniali (esemplari sono le sue note sull'India) e che consente appunto, di parlare di un «altro Marx».

Ettore Cinnella, L'altro Marx, Della Porta, Lucca-Cagliari, 2014, pagg. 182, € 15,00

Il Sole Domenica 21.9.14
Tutto è falso per Adorno e Popper?
di Armando Massarenti


«Il tutto è falso», scriveva Theodor W. Adorno nel più lapidario aforisma dei suoi Minima moralia. E certamente Karl Popper, su un'asserzione così generale, e apparentemente anti-hegeliana, non gli avrebbe certo dato torto. Ma i due filosofi non potevano essere più diversi tra loro e in queste settimane i loro anniversari (il 45° e il 20° dalle loro morti) sono stati ricordati separatamente. Forse però un bell'esercizio potrebbe essere proprio quello di ricordarli insieme, per sottolinearne le affinità e le differenze. Soprattutto le differenze, così come emersero in un famoso dibattito su «La logica delle scienze sociali» che li vide protagonisti a Tubingen nel 1961, dove Popper fu presentato nelle vesti improbabili di un «positivista». D'altro canto è naturale che lo considerasse tale un filosofo come Adorno, i cui autori di riferimento – Hegel, Marx, Freud – sono quelli su cui Popper aveva appuntato le sue critiche più feroci. Da quella disputa emerse chiaramente che il pensiero critico, che è il vero sale di ogni impresa filosofica, può prendere strade assai diverse, persino opposte e inconciliabili. Popper, prima di spiegare come il suo approccio fallibilista potesse essere applicato, oltre che alle scienze esatte, a quelle sociali, enuncia due tesi generalissime e apparentemente opposte: 1) «noi sappiamo una quantità di cose» che ci consentono «una profonda penetrazione teorica e una sorprendentemente elevata comprensione del mondo». 2) «la nostra ignoranza è illimitata e tale da toglierci ogni illusione». Il fatto è che «proprio l'irresistibile progresso delle scienze naturali» ci spinge a «constatare la nostra ignoranza, anche e proprio nel campo delle scienze naturali». È grazie a esse però che «il sapere di non sapere» socratico ha assunto una forma nuova: «a ogni passo in avanti che facciamo, a ogni problema che risolviamo, non scopriamo solo problemi nuovi e insoluti, ma scopriamo anche che là dove credevamo di trovarci su un terreno stabile e sicuro, in realtà tutto è incerto e precario». Nasceranno sempre nuovi problemi e nuove domande, proprio grazie al progresso costante delle nostre conoscenze, che comunque saranno reali e tangibili. Per questo la ricerca non ha mai fine, e dovremo concentrarci su sempre nuove contraddizioni tra le nostre teorie e i fatti che esse vorrebbero spiegare. Su questo Adorno poteva ben convenire, ma certo non gli poteva bastare per fondare la francofortese «teoria critica della società». Non solo vi è contraddizione tra fatti e teorie, ma è la società stessa a essere costitutivamente contraddittoria. E lo è se la si studia nell'unico modo che egli considera possibile: a partire dalla sua «totalità». Ma non si era detto che «il tutto è falso»? Sì, ma il pensiero di Adorno è pervaso appunto da una profonda, dialettica, nostalgia per la totalità. Piuttosto che falso, direbbe invece Popper, il tutto non è falsificabile: si sottrae cioè, per definizione e per il suo valore essenzialmente metaforico, a quel sapere critico che si chiama semplicemente scienza.

Il Sole Domenica 21.9.14
Chimica
Musica per gli elementi
La tavola di Mendeleev anticipata da Newlands 150 anni fa
L'analogia con la legge delle ottave lo coprì di ridicolo e gli costò la carriera
di Gianni Fochi


Nel 1999 gli fu chiesto d'indicare una fra le idee più geniali partorite dall'umanità nel millennio che stava finendo. Oliver Sacks, celebre neurologo autore di Risvegli e chimico per hobby, pensò allora alla tavola periodica degli elementi, summa d'innumerevoli conoscenze condensate e organizzate in uno spazio ristrettissimo.
Nata dalla fervida mente del russo Dmitrij Ivanovich Mendeleev e da studi d'altri chimici, in particolare del tedesco Julius Lothar Meyer, ha subìto numerose integrazioni e modifiche nel corso dei decenni, e fino a non molto tempo fa è stata conosciuta in vari paesi, compreso il nostro, col nome di sistema periodico. Lo troviamo, per esempio, nel titolo d'un bel libro di Primo Levi, nel quale chimica e vita s'intrecciano e si rispecchiano. Poi ha cominciato a prevalere anche da noi quello di "tavola", derivato dall'uso anglosassone.
Mendeleev compilò nel 1869 la prima tabella che, per estensione e aspetto, rappresenta il nucleo da cui poi sono derivate le versioni recenti. Ma l'idea di classificare in qualche modo gli elementi chimici è più antica. Nel 1829 il tedesco Johan Wolfgang Döbereiner, molto stimato da Goethe, raggruppò in "triadi" alcuni elementi con proprietà simili: cloro, bromo e iodio; litio, sodio e potassio; zolfo, selenio e tellurio...
Nel 1862 il parigino Alexandre-Émile Béguyer de Chancourtois notò per primo che le somiglianze si presentavano a intervalli regolari: periodicamente, nell'ordine crescente dei pesi atomici. Collocò i simboli degli elementi sulla superficie laterale d'un cilindro, disponendoli a spirale come sul filetto d'una vite. Se ogni giro attorno al cilindro si completava ogni sedici unità di peso atomico, su ogni verticale venivano a trovarsi allineati elementi dal comportamento simile.
Purtroppo il lavoro uscì senza disegni, che vennero pubblicati solo su una rivista letta più che altro da geologi e non da chimici. Oggi sappiamo bene quanto l'occhio voglia la sua parte nel trasmettere le idee: in effetti quelle del francese passarono praticamente inosservate. Ebbe così tempo di farsi notare la proposta d'un inglese, che era rimasto indietro perché aveva tralasciato gli studi per un po': nel 1860 s'era unito a Garibaldi e ai Mille nelle Due Sicilie.
Si trattava di John Alexander Reina Newlands, nato a Londra da un Newlands, scozzese, e da una Reina, donna d'origine italiana. La partecipazione alla campagna dei Mille l'aveva tenuto lontano dai fermenti scientifici di quegli anni: proprio nel 1860 s'era svolto a Karlsruhe il primo congresso internazionale di chimica, che aveva visto giganteggiare l'italiano Stanislao Cannizzaro. La popolarità da questi guadagnata aveva portato all'attenzione dei chimici il suo metodo per la determinazione dei pesi atomici, che eliminava le incertezze su molti di essi. Béguyer de Chancourtois poté trarne vantaggio per i suoi ragionamenti.
Newlands dunque arrivò un po' in ritardo, ma riuscì subito a far conoscere la tavola periodica che pubblicò un secolo e mezzo fa, nell'agosto del 1864, e che quindi va considerata la prima forma tabulare di classificazione degli elementi chimici in periodi e gruppi.
L'anno dopo egli poté parlarne a Londra, in una delle assise scientifiche più prestigiose dell'epoca. Ahimé! Fu un fiasco, che lo coprì ingiustamente di ridicolo. L'analogia musicale che spinse Newlands a parlare di legge delle ottave – cioè della somiglianza di ciascun elemento con l'ottavo fra quelli che lo seguono – offrì il destro al sarcasmo degli avversari scientifici.
Pochi anni dopo, i suoi stessi compatriotti onorarono Mendeleev e Meyer con la medaglia Davy, una sorta di Nobel ante litteram. Ci volle quasi un quarto di secolo dalla prima tabella di Newlands, perché quella medaglia fosse finalmente concessa anche a lui. Inutile dire che in tutto quel tempo non gli s'era aperta una carriera nell'università: egli fu apprezzato invece per le analisi chimiche compiute da libero professionista e per il lungo lavoro in uno zuccherificio, dove introdusse varie innovazioni tecniche utili.
Ebbe dunque ampio sfogo nell'attività pratica. E pensare che per la tavola periodica quell'idea delle ottave sembra invece un imprinting di tipo artistico: da Sacks e Levi quest'anima segreta avrà poi la conferma narrativa.

Il Sole Domenica 21.9.14
Neuroimmunologia
Mente e corpo, uniti è meglio
I due sistemi immunitario e nervoso hanno in comune alcune caratteristiche chiave come il riconoscimento, utile per i trapianti, e la memoria
di Alberto Mantovani e Gilberto Colbellini


Due sistemi fisiologici separati secondo l'inquadramento disciplinare della ricerca e dell'insegnamento, apparentemente privi di connessioni e con funzioni differenti. Il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale appaiono così, a prima vista. In realtà, hanno in comune più di quanto si potrebbe pensare.
Innanzitutto la complessità, che per entrambi è il risultato di pressioni selettive che si sono esercitate nel plasmare darwinianamente la loro organizzazione anatomo-fisiologica, e che fa sì che il sistema nervoso e il sistema immunitario di un mammifero e soprattutto di un essere umano siano estremamente più sofisticati e articolati di quelli di un organismo più semplice e primitivo quale, ad esempio, un granchio.
Nei millenni, l'evoluzione darwiniana ha forgiato non solo la forma e la sostanza di questi due sistemi, ma anche le loro funzioni nell'organismo singolo. Ad esempio, nel sistema immunitario le cellule che costituiscono la parte più sofisticata delle nostre difese, ovvero le cellule dell'immunità cosiddetta specifica o adattativa – per intenderci quelle che fanno gli anticorpi – sono selezionate in base alla stessa logica darwiniana che governa le risposte adattative delle popolazioni biologiche alle sfide ambientali: quelle non funzionalmente adatte vengono eliminate durante lo sviluppo e quelle che rispondono in modo appropriato si moltiplicano differenzialmente quando interagiscono con un antigene specifico. Anche i neuroni, dopo la nascita, vanno incontro a processi di proliferazione "spontanea" e selezione darwiniana, dettati dalle esperienze con l'ambiente, che lasciano sopravvivere quelli che stabiliscono le connessioni anatomiche funzionali; inoltre, per tutta la vita i processi di sinaptogenesi (formazione di sinapsi) che scolpiscono l'anatomia fine del cervello sono modulati da dinamiche di potatura selettiva e "rassodamenti" differenziali.
I due sistemi condividono non a caso alcune parole chiave. La prima è riconoscimento: sia il sistema nervoso sia quello immunitario, infatti, riconoscono se stessi e i loro componenti come tali – il cosiddetto self – e distinguono tutto ciò che gli è invece estraneo (non-self). È il motivo, ad esempio, per cui rigettiamo un trapianto. E per entrambi i sistemi, la mancata «coscienza di sé», ovvero l'incapacità di differenziare il self dal non-self, è causa di malattia: nel caso del sistema immunitario, ad esempio, è alla base dello sviluppo delle patologie autoimmuni. Le patologie psichiatriche, in modo particolare le psicolosi, sono a loro volta frutto di apprendimenti disadattativi condizionati da predisposizioni genetiche e da esperienze che sfavoriscono un funzionamento integrato della coscienza del cosiddetto sé psicologico.
Un'altra parola chiave accomuna i due sistemi: memoria. Una proprietà, quest'ultima, fondamentale ovviamente per il sistema nervoso centrale, ma anche per l'immunità. È infatti sulla base della memoria immunologica che, se siamo vaccinati contro il virus dell'epatite B, il nostro sistema di difesa ci protegge dall'epatite B ma non, ad esempio, dal virus dell'epatite A. E sempre sulla base della memoria immunologica, se abbiamo contratto il morbillo, pur venendo a contatto con lo stesso virus non ci ammaliamo più. Ricordiamolo sempre, ma soprattutto in questi tempi di propaganda delinquenziale contro i vaccini, che le vaccinazioni sono una strategia sofisticata, efficace e sicura per comunicare con il sistema immunitario, insegnandogli da quali patogeni proteggerci!
Fino a qualche anno fa si pensava che la memoria fosse una caratteristica della sola immunità specifica o adattativa. In realtà, recenti studi stanno portando a un vero e proprio cambiamento di paradigma. È stato dimostrato che anche l'immunità più primitiva, chiamata innata, che condividiamo con gli organismi evolutivamente più semplici, ma che è assolutamente fondamentale anche per organismi complessi quali siamo noi – come ha scoperto tra gli altri il Premio Nobel per la Medicina Jules Hoffmann, in autunno ospite di Humanitas University in qualità di visiting professor – ha una forma di memoria. Il contatto con i microbi, ad esempio quelli che ci accompagnano nel nostro intestino, viene «ricordato» e contribuisce a fare maturare le cellule dell'immunità innata. Si tratta di una prospettiva nuova che potrebbe aprire a straordinarie opportunità anche di tipo terapeutico. Mentre alla base dell'immunità adattativa, inclusa la memoria, vi è un riarrangiamento strutturale dei geni che codificano per i recettori (anticorpi e recettori della cellula T), le basi molecolari della «memoria» immunitaria innata sono probabilmente di tipo epigenetico: in sostanza mutano i sistemi di regolazione dell'espressione di alcuni geni importanti per l'espressione e le interazioni delle molecole dell'immunità innata. In qualche modo, dunque, questa «memoria» contribuisce a dare forma all'intero sistema immunitario e potrebbe spiegare fenomeni ereditarietà dell'immunità acquisita, che in passato erano stati usati impropriamente per sostenere la validità del lamarckismo in biologia.
Al di là delle similitudini e delle parole chiave condivise, sistema nervoso centrale e sistema immunitario comunicano, inoltre, tra loro. Negli ultimi anni sono emerse conferme ed elementi esplicativi di fenomeni "neuroimmunologici" già intravisti in passato. Ad esempio, mediatori del sistema nervoso della famiglia delle ammine aromatiche – l'esempio più noto è l'adrenalina – sono stati isolati negli organi linfoidi, cioè lontano dal sistema nervoso centrale e nel cuore del sistema immunitario. Inoltre, recentemente è emerso che il nervo vago, importante elemento del sistema nervoso centrale, ha un importante ruolo nel controllo dell'infiammazione sistemica che, se non correttamente governata, si traduce nella sepsi o shock settico, cioè in un quadro clinico molto grave. Non dimentichiamo poi che le citochine, mediatori del sistema immunitario, esercitano un controllo sui mediatori del sistema nervoso centrale causando febbre, sonnolenza e mancanza di appetito, che si manifestano quando le nostre difese naturali si attivano per sconfiggere un'infezione. Infine, nel cuore stesso del sistema nervoso centrale sono presenti cellule dell'immunità – chiamate microglia – che appartengono alla grande famiglia dei macrofagi: queste cellule danno forma al sistema nervoso e contribuiscono al suo funzionamento.
Per il futuro, la speranza – e la frontiera della ricerca – è che una sempre migliore comprensione dei segnali di comunicazione fra questi due così importanti e complessi sistemi che convivono e rendono così straordinariamente performante il nostro organismo possa tradursi non solo in nuove conoscenze, ma soprattutto nello sviluppo di terapie innovative per molte malattie.
Humanitas e Università degli Studi di Milano
Sapienza Università di Roma

Il Sole Domenica 21.9.14
Daniel Merton Wegner (1948-2013)
Passione psic-illogica
La sua morte, avvenuta un anno fa passò inosservata
Pioniere della neuroetica, ha svelato le trappole e le ironie della mente
di Elisabetta Sirgiovanni


Perché se tentiamo in tutti i modi di smettere di pensare a qualcosa di specifico, finiamo per esserne ossessionati? Più cerchiamo di smettere, più è difficile toglierci quel l'oggetto del pensiero dalla testa. La concentrazione per l'attività che stiamo svolgendo svanisce, e ci agitiamo sempre più. Senza poterci fare niente. Non riusciamo a liberarcene! Quanto descritto capita più o meno a ognuno di noi, e ne attribuiamo la perseveranza alla valenza emotiva che il pensiero intrusivo, positivo o meno – si tratti di amore o lutto – ha per le nostre vite. Ed è così. Ma pensate ora a un orso bianco. E adesso smettete di pensarvi. Con grande difficoltà ci riuscirete, soprattutto nel l'immediato. A questo fenomeno paradossale, che ci rende impossibile sopprimere un pensiero non voluto e insignificante come un orso bianco, dedicava i suoi esordi nella ricerca alla fine degli anni Ottanta Daniel Merton Wegner, pioniere della psicologia sociale contemporanea, di origine canadese. È scomparso a luglio dello scorso anno all'età di 65 anni. Era affetto da sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una condizione che nelle ultime settimane ha attirato, con risvolti ludici, l'attenzione dei media.
La morte di Wegner, un anno fa, passò del tutto ignorata in Italia. Ma fu poco notata anche all'estero. Eppure le sue ricerche sulla coscienza e l'inconscio in ambito cognitivo e sociale sono imprescindibili. Il suo lavoro ha coperto tre tematiche cruciali quali il controllo della mente, la percezione che abbiamo della nostra mente e di quella degli altri e la cosiddetta causazione mentale apparente. In altre parole, una serie di situazioni in cui ci capita di credere di aver prodotto volontariamente azioni, eventi o pensieri che in realtà non sono affatto sotto il nostro controllo. Di questo si occupava il Mental Control Lab, di cui era direttore presso l'Università di Harvard, dove insegnava psicologia dal 2000, più recentemente con una carica onorifica in memoria di William James. Wegner aveva inaugurato una stagione di studi e teorie oggi ricompresa anche nella neuroetica, quando si interroga su come la scoperta di possibili autoinganni del nostro "mondo mentale", alla luce di quanto accade invece al livello dei nostri processi cerebrali che ne sono i reali determinanti inconsci, possa intaccare concezioni ritenute consolidate in occidente in ambito etico, giuridico o politico. Innanzitutto, l'idea che libero e responsabile è chi agisce sulla base di decisioni prese coscientemente, un'idea di senso comune che guida i nostri giudizi nelle relazioni quotidiane e perfino nei tribunali. Wegner ne è stato tra i più convinti oppositori, con il classico The illusion of conscious will (MIT Press, 2002). Dove ha fornito prove che la volontà cosciente è una fabbricazione, che deriva dal percepire, spesso erroneamente, un nesso di causalità tra pensieri e azioni. Possiamo attribuirci in modo erroneo sia gli uni sia le altre. In un famoso esperimento realizzato con Thalia Wheatley, a fine anni Novanta, i due chiedevano a 51 studenti di scegliere di fermarsi o di puntare con un mouse sullo schermo di un computer alcune figure tratte dal libro di illustrazioni I spy, sulla base di istruzioni ricevute in cuffia (ad esempio la figura "cigno" all'ascolto della parola "cigno"). Il movimento del mouse era in realtà controllato dallo sperimentatore. Ora, se il pensiero indotto dalla registrazione veniva prodotto 1-5 secondi prima dell'azione forzata, i partecipanti si percepivano responsabili dell'azione, pur non essendolo affatto.
Per Wegner, l'«errore teorico fatale» è pensare che ci sia un "controllore", un io, a dirigere i comportamenti. Quello che conta è quanto accade al di sotto della nostra coscienza. L'auto-controllo è un "processo ironico", diceva, e molte sono le illusioni percettive radicate, alcune delle quali hanno effetti positivi e prosociali. Altre ci fanno riflettere, come il fatto di percepire i pazienti in stato vegetativo persistente come «più morti dei morti», come facevano vedere con Kurt Gray e Anne Knickman nel 2011 in uno studio apparso su Cognition.
Svelare i raggiri della mente e spiegarli come adattamenti all'ambiente è fondamentale anche per comprendere meglio la psicologia generale, a cui ha dedicato un manuale: unico suo testo tradotto in italiano (Daniel L. Schacter, Daniel T. Gilbert e Daniel M. Wegner, Psicologia generale, Zanichelli, 2009). Da giovane e precoce studente di fisica si era appassionato al ramo sperimentale della "psic-illogica", come la chiamava negli anni 1982-83 nella rubrica mensile su Psychology Today con William Ickes e Robin Vallacher. Un glossario umoristico delle espressioni del linguaggio psicologico, lo "Psych-Illogical Dictionary" appunto, in cui il condizionamento all'indietro diventava l'applicazione di saliva sulla bocca di un cane nel tentativo di far suonare una campana, e lo studio pilota la parte dell'aeroplano in cui il pilota conserva libri e riviste. A chi polemizzava contro gli studi scientifici non multipli, Wegner, raccontando della sua attitudine alla ricerca sin dall'età di 11 anni, rispondeva che anche il solo experiment può essere buona scienza, perché promuove creatività, dinamismo e interazione tra scienziati.
Al suo funerale a Winchester, nel Massachusetts, è stato chiesto agli invitati di indossare camice hawaiane e di celebrare la vita. Il lascito di Dan Wegner è che l'unico modo in cui possiamo viverla è quali abili prestigiatori della realtà, perfino con noi stessi. Per lui esisteva una vocazione tutta umana, cioè la scienza, che va coltivata e diffusa perché fornisce strategie che ci permettono di smascherarci.
Insomma, possiamo ingannarci, ma ciò può avere dei benefici. E al contempo possiamo affrancarci, anche se talvolta non completamente, dalle nostre costruzioni. Quel che rimane da capire è quindi: cosa fare di queste trappole immaginifiche in cui ci rinchiudiamo, una volta che ci rendiamo conto di essere solo dei prigionieri di noi stessi?

Il Sole Domenica 21.9.14
Tertulliano e le donne
di Maria Bettetini


Forse a Dio è sfuggito di creare «pecore purpuree e scarlatte»? è Dio che ferisce i lobi dei neonati per appendervi delle perle? Perle che poi cosa sono, un'escrescenza di conchiglia, che giustamente la natura nasconde nel fondo dei mari. E che dire delle pietre luccicanti, anch'esse strappate dal cuore della terra, dove stavano quiete nell'ombra (si dice che anche dalla testa dei serpenti si estragga una pietra preziosa, e il serpente si sa di chi è simbolo). L'oro, poi, che scorre nelle vene delle montagne, perché mai dovrà essere estratto, quando sono ferro e bronzo i metalli davvero indispensabili alla vita umana. Tanta fatica per ornare una caviglia, un braccio di donna, fatica inutile e ingiusta: perché un corpo femminile, così esile, dovrebbe «portare addosso la materia di grandi redditi»? Il portagioielli conserva «un ingente patrimonio: in un solo filo si inserisce un milione di sesterzi; un collo sottile porta attorno poderi e palazzi; lobi delicati di orecchie lasciano pendere un libro di conti e la mano sinistra si trastulla con un sacchetto di soldi per ciascun dito». L'avvocato Quintus Settimius Florens Tertullianus (ca. 150-230 d.C.), che fino ai quarant'anni si era dato alla bella vita, non lesina ironia e giochi retorici per invitare le donne alla modestia e alla castità. Nelle pagine del suo libello sull'Eleganza delle donne (probabilmente scritto nel 202-203) scatena tutto il rigore del neoconvertito, che dimentica la comprensione e la dolcezza della pagina evangelica, in favore della rigidità di alcuni passi di San Paolo portati all'eccesso.
Nato a Cartagine, Tertulliano era probabilmente figlio di un centurione proconsolare, come scrive Gerolamo nell'unica fonte biografica a nostra disposizione, il De viris illustribus. Avvocato di successo, dopo un periodo a Roma torna a Cartagine e sviluppa un forte senso di insofferenza verso il potere centrale, una forma di particolarismo diffusa tra i romani d'Africa. Il sarcasmo non risparmierà i cartaginesi che abbandonavano gli usi locali per vestirsi come i romani nello scritto De pallio (la toga). I suoi lavori sono colti, ma vivaci e pungenti, dicono di un uomo che conosce la cultura pagana e la sa utilizzare: il contrario di alcune visioni manualistiche che presentano una presunta inconciliabilità tra paganesimo e cristianesimo come tratto saliente della figura di Tertulliano. Nei primi e forse più noti scritti (Apologetico e Ai gentili) difende i cristiani dalle solite accuse di omicidio, cannibalismo e turpi riti, mentre accusa invece i pagani per usanze come l'esposizione dei neonati. Dopo la conversione, forse avvenuta per ammirazione verso i martiri, Tertulliano scrive sia di temi teologici, sia di temi morali e pratici: sull'obbligo per le donne di andare velate, contro il servizio militare, contro gli Gnostici, definiti "scorpioni" velenosi soprattutto per la negazione del valore del martirio e della bontà del corpo umano. E così via, contro la sessualità fuori dal matrimonio, contro ogni forma di idolatria. Tanto rigore condurrà Tertulliano ad aderire al Montanismo, un cristianesimo carismatico proteso alla (imminente) fine del mondo, quindi forte del disprezzo di tutto ciò che è questo mondo: i seguaci di Montano erano contrari alla vita politica e a ogni forma di autorità.
Si sfinivano di digiuni, proibivano le seconde nozze prediligendo la castità assoluta, non perdonavano coloro che durante le persecuzioni (sono i tempi di Settimio Severo) cedevano a Roma per aver salva la vita. Invitavano anzi ad autodenunciarsi come cristiani alle autorità. Dopo qualche anno, a Tertulliano non bastò nemmeno questa durezza, e fondò un suo gruppo all'interno del gruppo, i Tertullianisti, ancora esistenti ai tempi di Agostino di Ippona. Peccato, tutte queste energie buttate nell'intransigenza, la mente di Tertulliano negli anni successivi alla conversione aveva prodotto testi di teologia importantissimi. È considerato il creatore del latino teologico: sua è la definizione della Trinità come tre persone in un'unica sostanza, sempre a lui si deve l'elaborazione che poi diverrà dogmatica della compresenza di due sostanze nella sola persona del Figlio. Per primo utilizzò in teologia proprio il concetto di persona, che poi sarà approfondito e diffuso da Severino Boezio, più di tre secoli dopo. Definì "madre" la Chiesa, e tale la considerò anche quando si allontanò dal Cattolicesimo romano. Nelle opere contro gli Gnostici si trovò ad approfondire il tema della bontà della materia creata e redenta da Cristo, in particolare quella del corpo umano, destinato alla resurrezione. Insisteva, Tertulliano, sul fatto che la risurrezione sarà proprio di «tutta la carne». Poi l'insofferenza per le debolezze, la ricerca di una purezza assoluta.
E la condanna di ogni forma di cura per il corpo, fatta salva la necessaria pulizia. Non solo del corpo femminile, anche gli uomini scoprono diaboliche lusinghe di bellezza: «Rasare la barba con gran cura, sfoltirla qua e là, raderla tutt'attorno, acconciarsi i capelli, tingerli anche, eliminare ogni inizio di canizie, spalmare sulla peluria di tutto il corpo una crema da donna, levigare le rimanenti parti con polvere abrasiva, consultare poi lo specchio a ogni occasione».
Per fortuna sono follie degli antichi, noi ci siamo lasciati alle spalle sia queste cure ossessive, sia il disprezzo ostentato per la cura del proprio corpo. Figurarsi, maschi depilati e gente che si veste di stracci pur essendo ricca, cose dell'altro mondo, noi siamo civili.

Il Sole 21.9.14
Vizi capitali
Il volto torvo dell'invidia
Il trattatello di Cipriano, vescovo di Cartagine nel III secolo, tenta di definire l'angoscioso sentimento e i suoi disastrosi effetti
Ma ne indica anche gli antidoti: umiltà e carità
di Gianfranco Ravasi
S.J.

Nel 2004, un paio d'anni prima di morire nell'amata Firenze, la scrittrice scozzese Muriel Spark pubblicò un romanzo intitolato semplicemente Invidia (imitato due anni dopo da un omonimo testo di Alain Elkann). In quelle poche pagine l'autrice ci conduceva nella grotta tenebrosa dell'anima ove questo, che è il penultimo dei sette vizi capitali, si rifugia non solo per secernere tutto il suo veleno ma anche per autoflagellarsi. Infatti, paradossalmente nessuno come l'invidioso o il geloso soffre e si tortura nella sua detestazione dell'altro. Aveva, perciò, ragione il sapiente del libro biblico dei Proverbi quando definiva «l'invidia come carie delle ossa», o Cervantes che la classificava nel Don Chisciotte come «un verme roditore, radice di mali infiniti», mentre Shakespeare la vedeva simile a «un mostro dagli occhi verdi». È, perciò, naturale che questo vizio appartenga alla letteratura morale sia classica sia cristiana, a partire dalle stesse Scritture Sacre (chi non ricorda la gelosia accecante di Saul nei confronti di Davide?), per giungere ai Padri della Chiesa, prima di approdare a un'immensa tipologia letteraria (per tutti pensiamo a Dante e al suo secondo girone del Purgatorio dedicato proprio agli invidiosi o all'invincibile gelosia dell'Otello shakesperiano e verdiano). Ebbene, uno studioso di patristica, Lucio Coco, ha estratto da questo mare letterario un piccolo testo, forse un sermone, di un importante personaggio del III sec., il vescovo di Cartagine Cipriano, un esponente dell'alta borghesia africana, battezzato in età adulta, autore di trattati teologici e di un ricco epistolario e decapitato il 14 settembre 258, sotto la persecuzione dell'imperatore Valeriano, un senatore console eletto per acclamazione dall'esercito romano.
Originale latino e traduzione a fronte sono ora disponibili agli occhi dell'uomo moderno che si è nutrito di tante altre e ben diverse letture al riguardo: è facile rimandare, ad esempio, a quell'"invidia del pene" sulla quale ha ricamato i suoi arabeschi psicologici Freud, identificando il «complesso di evirazione della bambina messo in moto dalla vista del genitale maschile», tesi però smentita e altrimenti impostata dall'Invidia e gratitudine di Melanie Klein. Cipriano, certo, non esclude un suo approccio psicologico, ricorrendo a un vivace apparato simbolico: tarlo (tinea) dell'anima, marciume (tabes) dei pensieri, ruggine (rubigo) del cuore che produce «il volto minaccioso, lo sguardo torvo, il pallore del volto, il tremore delle labbra, lo stridore dei denti, le parole rabbiose, gli insulti sfrenati, la mano pronta alla brutalità dell'omicidio».
Naturalmente il topos della condanna del vizio che dilagherà in tutta la letteratura moralista, ha nello scritto ciprianeo una specifica matrice teologica che si aggrappa alla Bibbia, a partire dallo scontro primigenio tra Caino e Abele e dall'opera tentatrice diabolica, come già sosteneva il libro della Sapienza, uno scritto biblico del tardo giudeo-ellenismo alessandrino: «È per l'invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo» (2,24). Di fronte a questa onda irresistibile che dilaga sulla terra quale diga è possibile opporre? O, per stare alla metafora ignea di Cipriano, all'«invidioso che brucia, nelle fiamme del livore, di un incendio sempre più grande quanto più colui che è invidiato progredisce» quale antidoto può essere somministrato? La seconda parte del testo è dedicata proprio a quest'opera catartica.
La terapia principale è ovviamente quella dell'umiltà e della carità, proprio perché l'invidia sboccia dalla superbia e fiorisce in odio. È la via abbozzata da Cristo in quella celebre autopresentazione: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Matteo 11,29) e nella regola dell'autorità cristiana: «Chi sarà stato il più piccolo tra voi tutti, questi sarà grande» (così Cipriano rende il testo di Luca 9,48). L'apostolo Paolo fra le qualità della carità-agápe porrà proprio l'assenza di ogni invidia (1Corinzi 13,4). Si tratta, quindi, di sostituire alla meschinità del geloso, che non sopporta le superiori doti intellettuali e spirituali dell'altro, la nobiltà d'animo, la consapevolezza dei propri limiti, «il rigetto del veleno del fiele, l'espulsione del tossico delle discordie», come afferma Cipriano. È ciò che il re Salomone, che funge da pseudonimo nel citato libro della Sapienza, confessa di se stesso: «Senza frode imparai, senza invidia io dono» (7,13).
Il trattatello (o sermone) del vescovo di Cartagine è quasi una goccia nel vasto mare letterario che questo vizio capitale ha generato. Pur nella sua netta impostazione morale cristiana, può diventare uno stimolo a un esercizio etico personale, consapevoli come siamo che, tra le tante ramificazioni perverse, la gelosia può trasformarsi in ossessione e in smania di possesso che conduce fino all'annientamento dell'altro non solo con la calunnia ma con una vera e propria eliminazione fisica. Facile è il rimando alla tragica sequenza delle donne uccise da maschi gelosi fino all'aberrazione. Nietzsche nella Gaia scienza ironizzava: «Non augurate all'invidioso di aver figli: sarebbe geloso di loro perché non può più avere la loro età!». In realtà il cervello dell'invidioso/geloso è in fiamme e partorisce incubi, e aveva ragione Alberto Moravia quando in uno dei suoi Nuovi racconti romani comparava l'invidia a «una palla di gomma che più la spingi sotto e più ti torna a galla».
Concludiamo con una nota in controtendenza. Come accade per tutti i vizi capitali, anche l'invidia è paradossalmente il rovescio della medaglia di una virtù. Karl Kraus, infatti, ammoniva che «il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti» che hanno alla base la stessa componente, il carbonio, ma con esiti ben diversi. Ebbene, una sana emulazione, una solerzia nel perfezionarsi tenendo come riferimento modelli alti, una sfida rivolta a se stessi per il proprio miglioramento sono il volto etico e luminoso dell'invidia superata e trasfigurata. San Paolo esortava così i Romani: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (12,10), e a lui faceva eco l'ignoto autore della Lettera agli Ebrei: «Emulatevi a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). Col suo ben noto tocco ironico british Oscar Wilde, però, idealmente continuava: «Tutti sono capaci di condividere le sofferenze di un amico. Ci vuole, invece, un'anima veramente bella per godere del successo di un amico».

Cipriano di Cartagine, Quando l'uomo diventa istrice, edizione bilingue a cura di Lucio Coco, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), pagg. 62, € 7,90

Repubblica 21.9.14
L’analisi
Perché la via breve ci porta lontani dalla soddisfazione
Si può raggiungere l’appagamento solo attraverso la rinuncia al risultato immediato
di Massimo Recalcati


FREUD ha proposto le metafore della “via breve” e della “via lunga” per identificare due diversi processi dell’apparato psichico di fronte alla esperienza di una soddisfazione disattesa o differita. Come rispondiamo quando facciamo una esperienza frustrante? Quando non possiamo realizzare immediatamente quello vorremmo poter realizzare? Quando, insomma, ci troviamo esposti all’alterità spigolosa del limite?
La “via breve” indica una risposta che non vuole accettare il limite, che non intende assumere la non-coincidenza tra le nostre aspettative e quello che accade nella realtà. Essa trova la sua massima e più drammatica espressione nel fenomeno dell’allucinazione che consiste nel rendere presente ciò che non è presente, nel realizzare, per “via breve”, quello che, in realtà, è impossibile realizzare. Si tratta di una scorciatoia poiché tollerare l’assenza, la perdita, il limite, differire la soddisfazione o la scarica pulsionale, sopportare il peso della frustrazione non è un compito facile. Per questo la via breve dell’allucinazione lo evade completamente illudendoci che tutto è possibile. Si tratta di un modello pulsionale che cortocircuita il tempo nell’istante estatico dell’appagamento che si vuole imperiosamente immediato. È quello che avviene, per esempio, per il tossicomane che non a caso Bion definisce come “colui che non sa aspettare”: la scarica della pulsione non può essere differita ma esige di raggiungere il suo oggetto in un presente continuo.
La seconda risposta – quella della “via lunga” – procede col registrare la non-coincidenza tra le aspettative del nostro desiderio e l’impatto con la realtà per poi cercare di raggiungere la soddisfazione in un tempo secondo, non schiacciato sull’urgenza imperiosa del bisogno. Il suo modello è quello della sublimazione: si può raggiungere la soddisfazione solo attraverso un lavoro psichico che suppone la rinuncia al soddisfacimento pulsionale immediato. Per incamminarsi lungo questa via è necessario tempo e fatica. Il modello sublimatorio della “via lunga” prevede la sospensione del cortocircuito allucinatorio con l’oggetto del godimento. La sua è la via che trova nel lavoro e nel desiderio le sue massime espressioni. Si tratti di fabbricare un tavolo o di leggere un libro di filosofia, di costruire un legame d’amore o di dar vita ad una impresa collettiva, la soddisfazione non può mai essere immediata, ma prevede sempre un differimento iniziale. È superfluo chiedersi quale tra le due vie prevalga nel nostro tempo. Il nostro tempo sponsorizza ciecamente il modello allucinatorio di fronte a quello sublimatorio. È un tempo che inneggia la “via breve” contro la fatica della “via lunga”. Potremmo fare diversi esempi per illustrare questa egemonia psicotica dell’allucinazione.
Mi limito a farne tre molto semplici. Il primo è quello della lettura che è un esercizio, come ricordava recentemente Stefano Bartezzaghi su queste pagine, che esige tempo, nel quale la soddisfazione è strettamente legata al movimento, necessariamente lento, del pensiero. In contrasto con questa lentezza necessaria l’attuale cultura dell’immagine sembra invece incentivare l’assimilazione avida e priva di pensiero; l’attività faticosa della lettura viene di colpo sostituita con la recezione passiva del flusso delle immagini. La televisione riempie chi ne fruisce senza esigere la fatica soggettivata dell’assimilazione.
Il secondo esempio riguarda il mondo del lavoro: l’economia finanziaria – tra i maggiori responsabili della crisi che sta colpendo l’Occidente – ha relegato il “lavoro” ad una sorta di scoria “improduttiva” dell’Ottocento. L’accumulazione rapida del profitto non può avvenire attraverso la faticosa impresa del lavoro, ma attraverso operazioni astratte che consentono una realizzazione del profitto immediata. Con la conseguenza che il carattere orgiastico di questa economia – demolendo la centralità etica del lavoro – ha fatto straripare i debiti.
Il terzo esempio è quello dei social network: mentre la costruzione di un legame – d’amore o d’amicizia che sia – implica tempo e cura – la dimensione artefatta dei legami che si moltiplicano con un clic possono dare l’illusione che tempo e cura non siano più necessari. L’amicizia diventa allora come quel pezzo di legno che una madre travolta dal lutto per la perdita del suo bambino culla (allucinatoriamente) tra le sue braccia chiamandolo con il nome del suo piccolo traumaticamente scomparso.

Repubblica 21.9.14
San Pietro era sposato ma seguì Gesù e lasciò a casa la moglie
di Eugenio Scalfari

qui

Repubblica 21.9.14
Territori della psiche
a cura di Doriano Fasoli


PSICOANALISI DELLA VITA QUOTIDIANA
Scritto da un grande psicoanalista, il libro restituisce il senso dell’impresa psicoanalitica, letteralmente rivoluzionaria, che ha dischiuso all’umanità prospettive realistiche di emancipazione e libertà.
DI ANTONIO ALBERTO
SEMI RAFFAELLO CORTINA
PAGG. 209, EURO 14

IL MARE DI FERENCZI
Il volume è ancora la più completa ricostruzione della vita e dell’opera del psicoanalista ungherese Sándor Ferenczi. Una particolare attenzione è stata riservata allo straordinario lessico impiegato da questo pioniere della psicoanalisi.
DI GIORGIO
ANTONELLI ALPES
PAGG . 1232 EURO 80

RICORSIVITÀ IN PSICO-TERAPIA
Perché la clinica diventi una buona prassi, sostengono gli autori, occorre “prendersi cura del processo di cura”, ossia sottoporla a una costante valutazione ricorsiva che operi sulle proprie operazioni, tra rigore e flessibilità, accettando come un dono l’equilibrio instabile tra le proprie conoscenze, le zone cieche e la processualità in atto.
DIMARCO
BIANCIARDI, UMBERTA TELFENER BOLLATI BORINGHIERI
PAGG. 181, EURO 23

IL LAVORO CHE NON C’È
Lo status di disoccupato comporta una perdita di senso, altera dimensioni profonde dell’individuo, manda in crisi equilibri familiari, destruttura il nostro tempo.
Comprendere cosa accade, quali conseguenze si produrranno, può aiutare a governare meglio la situazione.
DI FAUSTO ROGGERONE CASTELVECCHI
PAGG . 237 EURO 18,50
DORIANO FASOLI

Corriere Salute 21.9.14
Le Basi Biologiche dell’Ottimismo
di Claudio Mencacci

direttore Dipartimento Neuroscienze Ospedale Fate benefratelli-Oftalmico, Milano

Tempi bui, complessi, per alcuni di guerra, durano da oltre sei anni e ci appare lontano quel «Yes we can» di obamiana memoria. Ottimisti, pessimisti, questione di genetica, di interazione con ambiente (epigenetica) o casualità? Certo è che vi sono luoghi nella corteccia cerebrale, aree cerebrali (corteccia cingolata anteriore, amigdala) che decrittano e registrano l’ottimismo, che aiutano a guardare i cambiamenti come opportunità, non concentrandosi sulle difficoltà e sui problemi. Etnologicamente l’ottimismo ci ha orientato e facilitato nello sviluppo. Il cervello umano tende a non focalizzarsi sul peggio. I lobi frontali, deputati a prevedere il futuro, negli ottimisti selezionano solo i dati positivi e tendono a ignorare quelli negativi, mettendo in luce prevalentemente un futuro migliore da come sarà realmente. I pessimisti invece, i cui lobi frontali processano in maniera diversa le informazioni che raccolgono, pur avendo uno sguardo più realistico, razionale e oggettivo della realtà, faticano di più
a superare le difficoltà
e a mettere in atto
dei cambiamenti. Il cervello genera speranza e soffre quando non vi riesce,
o quando sviluppa depressione. La disoccupazione, il crescere della povertà mettono a dura prova i circuiti dell’ottimismo che devono fare un lavoro supplementare soprattutto in alcune fasi: adolescenza e vecchiaia, ingresso e uscita dalla vita. I pessimisti hanno inoltre rischi più elevati di depressione, nonché rischi cerebro cardiovascolari e metabolici. Il «think positive» fa bene anche alla salute oltre che all’economia. Le persone affette da depressione e ansia hanno un assetto cognitivo che le spinge a ritenere gli eventi futuri negativi, e tendono a giudicare la possibilità di eventi futuri positivi come meno probabili. In questo caso siamo
di fronte a vere e proprie alterazioni della cognitività, come quelle di cogliere dal volto solo i segnali negativi e non gli altri perché il cervello «non li vede». Alla psichiatria, disciplina attenta alla complessità della persona, il compito di ridurre lo stigma nei confronti delle patologie psichiche e di combattere il binomio «depressione-pessimismo» epidemia di questi tempi, richiamando investimenti nella ricerca e mettendo in luce l’importanza della salute mentale anche come volano per ridare slancio e fiducia all’economia dell’intera nazione.

Corriere 21.9.14
La tarda adolescenza fa bene al cervello (Ma siamo sicuri?)
Lo psicologo: così restiamo curiosi e attivi
di Maria Laura Rodotà


PROLOGO. Vicecaporedattore (sui 45 anni): «Sei occupata? Ti disturbo?». Giornalista (cinquantenne): «No, no, sto guardando i Simpson». Vicecaporedattore: «Oh, scusa. Volevamo chiederti un pezzo sui vantaggi dell’adolescenza ritardata». È un argomento che ci riguarda. Tutti, in effetti. Eccoci qua.
SVOLGIMENTO. La maturità procrastinata nell’Occidente tutto, la glorificazione della gioventù ardita e non tanto responsabile nelle serie tv e nei film, il limbo dilatato in cui vivono i giovani ormai neanche troppo giovani, i comportamenti giovanili (a volte pure troppo) di parte della nuova classe dirigente quando c’è, sono argomento di gran discussione negli Stati Uniti come altrove. Il New York Times , in questi giorni, lo sta affrontando in vari modi. È partito domenica scorsa, con un saggio perplesso, The Death of Adulthood , la morte dell’età adulta, del critico cinematografico A. O. Scott. Ha scritto un bel necrologio dei patriarchi cinematografici-televisivi-reali Tony Soprano, Don Draper di Man Men, e in generale della supremazia dei maschi bianchi di mezza età. Che continuano a governare e gestire l’economia, ma sono socioculturalmente travolti dal culto della gioventù ganza. In America parte dell’identità, poi (anche tra i personaggi dei romanzi fondativi: e avere un eroe giovane avventuroso come Huck Finn invece di Renzo Tramaglino deve aver influenzato l’immaginario collettivo, chissà). È in corso, secondo Scott, un’«erosione dell’idea tradizionale di adulto»; e «un’ondata» di narrazione «goffa, tenera, autoindulgente e irritante». Giovane, insomma.
Ma non c’è da essere pessimisti per questo, ha replicato qualche giorno dopo (lui, più alcune migliaia di lettori-commentatori sul sito del giornale) Laurence Steinberg, psicologo della Temple University di Philadelphia. Autore di Age of Opportunity , sottotitolo inquietante «Lezioni dalla Nuova Scienza dell’Adolescenza». L’adolescentologo Steinberg promuove la sua materia: «L’adolescenza prolungata, nelle giuste circostanze, è una buona cosa. Favorisce la ricerca di novità e l’acquisizione di nuove competenze». Insomma, le disperate cacce al lavoro, i master accumulati, i corsi e ricorsi alla fine produrranno qualcosa. E la vita da eterni teenager, curiosi e ipersensibili, aiuta a conservare una certa «plasticità neurologica»; secondo Steinberg, un lavoro sicuro, un legame stabile, magari l’acquisto di un trilocale possono essere la causa del declino dei neuroni. E allora, si esalta lo studioso, ben venga la vida loca del trentenne precario: «La finestra della plasticità del cervello adolescente può essere tenuta aperta più a lungo dalla deliberata esposizione a esperienze stimolanti che segnalano al cervello stesso che non è ancora pronto alla fissità dell’età adulta». E insomma, «chi può prolungare la propria adolescenza ne avrà dei vantaggi, se vive in un ambiente ricco di stimoli e sfide». Steinberg non si riferisce ai call center, ma agli «studi universitari; è stato provato che sono in grado di stimolare lo sviluppo del cervello». Una laurea, aggiunge, «paga dividendi sia economici, sia neuronali».
Poi, per trovare/cambiare lavoro, serve la «deliberata esposizione a esperienze stimolanti», cruciale nella Silicon Valley, difficile e improduttiva a Enna. Può funzionare in paesi dinamici, con opportunità professionali, e possibilità di trovare finanziamenti per gagliarde, giovanili iniziative (quindi gli Usa, non noi). Crea qualche problema quando l’adolescenza prolungata riguarda milioni di giovani con limitato accesso a un’istruzione superiore sempre più costosa, spiaggiati in zone stagnanti e senza stimoli (quindi gli Usa, e in tanti casi pure noi). Può anche finire come nella commedia del 2014 Smetto quando voglio : degli adolescenti di lungo corso con un curriculum accademico spettacolare — economia, filosofia, soprattutto chimica — diventano creativi e imprenditoriali in una Roma sfiancata. Producendo e spacciando droghe ben temperate (oddio, lo fa anche Walter White, padre di famiglia in Breaking Bad , uno dei maschi bianchi adulti da tv di cui si annuncia la fine; forse è la mutazione economica globale, più del valore dell’adolescenza, la questione, ora).

Corriere Neuroscienze 21.9.14
Il caso dei «Pandas»
Il caso della bambina «psicotica»  guarita con gli antibiotici
A Firenze trattamento con esito positivo di una piccola con disturbi psichiatrici attribuiti a un’infezione sostenuta da un comune batterio
di Cesare Peccarisi

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