martedì 23 settembre 2014

il Fatto 23.9.14
Tratta e schiavismo Il Consiglio d’Europa bacchetta l’Italia
MIGLIAIA di vittime ogni anno, ma poche decine di condanne per gli sfruttatori. Il Consiglio d’Europa boccia l’Italia sulla prevenzione e il contrasto della tratta di esseri umani. Il termine riguarda un’ampia gamma di sfruttamenti: prostituzione, caporalato e costrizione a chiedere l’elemosina. Le vittime sono state 925 nel 2013 ma, secondo gli analisti internazionali, questi rappresentano solo una piccola parte delle persone effettivamente sfruttate. La maggior parte provengono dalla Nigeria (434), seguita da Romania (84) e Marocco (52). Tra le vittime, la maggior parte sono donne (650), poi uomini (230) e bambini (45). Il rapporto sottolinea che le leggi italiane permettono di mettere di condannare solo una piccola parte dei cosiddetti mercanti di schiavi. A fronte di migliaia di sfruttatori indagati infatti, nel biennio 2009-10 sono state condannate solo 23 persone. Uno dei problemi principali riguarda la legge Bossi-Fini che, invece di tutelare le vittime di abusi, spesso impone di condannarli per reati legati all’immigrazione. Secondo gli analisti europei, il fronte su cui i legislatori dovrebbero impegnarsi di più è quello dello sfruttamento lavorativo.

Repubblica 23.9.14
Se la Ue diventa una dittatura
di Luciano Gallino

«QUEL che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa — una rivoluzione silenziosa in termini di un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi. Gli Stati membri hanno accettato — e spero lo abbiano capito nel modo giusto — di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Così si esprimeva il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, in un discorso all’Istituto Europeo Le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri. Tutti, intendiamoci, immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale, in merito alle quali disposizioni della direzione Ce impongono che i cittadini europei non ne sappiano nulla sino a che non si è presa una decisione. Non esiste alcun organo elettivo — nemmeno il Parlamento Europeo — che possa interferire con quanto tale gruppo decide.
Pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione — come vari giuristi hanno messo in luce — viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi. La dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici. Italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri. Quali sciagure debbono ancora accadere, di Firenze nel giugno 2010.
Non parlava a caso. Sin dal 2010 la Ce e il Consiglio Europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni Ue, che per la sua ampiezza e grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita — non prevista nemmeno dai trattati Ue — della sovranità degli Stati stessi. Non si tratta solo di generiche questioni economiche. Il piano del 2010 stabilisce indicatori da cui dipende l’intervento della Ce sulla politica economica degli Stati membri; indicatori elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione da funzionari della CE. Se gli indicatori segnalano che una variabile esce dai limiti imposti dal piano, le sanzioni sono automatiche. Il piano è stato seguito sino ad oggi da nuovi interventi riguardanti la strettissima sorveglianza del bilancio pubblico, al punto che il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Ce. Il culmine della capacità di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri Paesi da parte della Ue è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto fiscal compact , che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, «preferibilmente in via costituzionale». I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno — la modifica dell’art. 81 della Costituzione.
Questi sequestri di potere a carico dei singoli Stati non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria. I supertecnici della Ce (sono più di 25mila), ma anche di Fmi e Bce, mostrano di essere dilettanti allo sbaraglio. L’aumento del debito pubblico degli Stati dell’eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011, viene imputato dalle istituzioni europee a quello che essi definiscono il peso eccessivo della spesa sociale nonché al costo eccessivo del lavoro. Oltre a documenti, decreti, direttive, ad ogni occasione essi fanno raccomandazioni affinché sia tagliata detta spesa. Pochi giorni fa Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insisteva sulla necessità di tagliare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato. Dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza. Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato di circa 90 miliardi l’anno non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri Paesi sono a carico della fiscalità generale.
Dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce, a parte qualche alzar di voce di Renzi. Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia della Ce, esigeva riforme dello Stato sociale sono state eseguite. La “riforma” del lavoro di cui si discute in questi giorni potrebbe essere stata scritta a Bruxelles. Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata. Combattere la crisi non è nemmeno il loro scopo. Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la Sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo. Il vero nemico delle istituzioni Ue è lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge; è questo che esse sono volte a distruggere.
Si può quindi affermare che la Ue sarebbe ormai diventata una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti? Certo, il termine ha lo svantaggio di essere già stato usato dalle destre tedesche, le quali temono — nientemeno — che la Ue faccia pagare alla Germania le spese pazze fatte dagli altri Paesi. Peraltro abbondano i termini attorno all’idea di dittatura: si parla di “fine della democrazia” nella Ue; di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico.
Il termine potrà apparire troppo forte, ma si dia un’occhiata ai fatti. I poteri degli Stati membri di cui le istituzioni europee si sono appropriati sono superiori, per dire, a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati. quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce — meglio se sono tante — per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?

il Fatto 23.9.14
A favore del reintegro
Sondaggio Ispo: il 55% dei giovani preferisce lo Statuto

SECONDO IL SONDAGGIO Ispo sono i giovani i più contrari all’abolizione dell’articolo 18. A fronte del 45% degli intervistati che ritiene che l'abolizione del reintegro comporterebbe un peggioramento delle condizioni per tutti i lavoratori, la pensa così il 55% delle persone tra i 25 e i 34 anni. Il 43% degli intervistati ritiene che l’abolizione della norma renderebbe più dinamica l’economia del Paese. Il 47% non pensa che l'abolizione dell’articolo 18 porterebbe più uguaglianza tra lavoratori precari e lavoratori dipendenti, a fronte del 39% che è invece di questo parere.

La Stampa 23.9.14
Articolo 18, Camusso:“Andremo in piazza anche senza Cisl e Uil”
Il segretario della Cgil conferma la mobilitazione
Minoranza Pd critica: scontro Lotti-D’Attorre
di Francesca Schianchi

Una decina di emendamenti, di cui cinque particolarmente qualificanti. Cuore, ovviamente, l’articolo 18, e il diritto al reintegro che non deve essere toccato, ma si parla anche di limiti al demansionamento, risorse aggiuntive per estendere gli ammortizzatori sociali, sfoltimento delle forme di contratto precarie. Ne hanno discusso ieri sera in una prima riunione i senatori della minoranza Pd di Area riformista, stamane saranno nero su bianco e verranno proposti anche alle altre minoranze, in una riunione ristretta a mezzogiorno a Montecitorio che include Civati, Cuperlo, D’Attorre, Fassina, Damiano, il lettiano Francesco Boccia ma anche Rosy Bindi, per tentare un’azione comune sulla questione riforma del lavoro. Il famoso Jobs act all’inizio del suo percorso parlamentare in Senato, che continua a provocare toni alti e bellicosi: mentre l’opposizione interna del Pd cerca di organizzarsi, dalla Cgil il segretario Susanna Camusso conferma l’intenzione di una mobilitazione, che gli altri sindacati ci stiano oppure no: «Sarebbe utile per tutti che fosse unitaria ma comunque non ci tireremo indietro». 
«Mi dicono: non vorrai far arrabbiare i sindacati, i tuoi parlamentari, i tuoi amici. Ma arriva il momento in cui forse qualcuno lo facciamo arrabbiare, ma facendolo arrabbiare facciamo star bene tutti», tira dritto però anche Renzi, dall’America. E a sottolineare la fermezza del governo ci pensa anche il suo plenipotenziario, il solitamente silenzioso sottosegretario Luca Lotti sbottato ieri contro l’esponente della minoranza Alfredo D’Attorre, per lamentarsi di chi ha perso le primarie e «non solo pensa di dettare la linea ma lo fa prima ancora che si svolga una discussione nei luoghi preposti, com’è la Direzione del partito», già convocata per lunedì prossimo. Ma nel programma di Renzi mica c’era di abolire l’articolo 18 (ipotesi ieri definita « un segnale molto forte» dal presidente di Confindustria Squinzi), ripetono in tanti, dallo stesso D’Attorre a Pippo Civati, «altrimenti non so se avrebbe vinto con quelle percentuali…», dice. Il giovane leader lombardo è tra quelli che hanno proposto un referendum tra gli iscritti sul tema «perché si esprima la nostra base: primarie sulle cose, non sulle persone», un’ipotesi che il vicesegretario Guerini allontana nel tempo («prima di discutere delle modalità attraverso le quali mettere in discussione una decisione, quella decisione dobbiamo prenderla») ma che anche D’Attorre evoca come «estrema ratio, se le posizioni rimanessero divaricate». Ma è lui a chiedere un incontro alla maggioranza, perché invece si riesca a raggiungere un compromesso e la Direzione del 29 con un documento unitario. Che certo deve però cambiare di molto la delega così com’è, «così non è votabile, perché è sostanzialmente una delega in bianco e si presta a interpretazioni alla Sacconi».
Stamattina ci sarà un incontro dei senatori Pd con il ministro Poletti e il responsabile economico Taddei. Poi la riunione ristretta di vari leader di minoranza (per far sì «che la riforma del lavoro sia un cambiamento e non una prosecuzione delle leggi berlusconiane», spiega la Bindi) e in serata un altro incontro, dei parlamentari di Area riformista, potrebbero arrivare a circa 110, tra loro molti contrari al provvedimento del governo. Anche se c’è anche chi, come il capogruppo Speranza, predica l’unità: «Non facciamo un derby, lasciamo prevalere il merito e faremo un’ottima riforma». Unità come chiede il ministro Boschi. Senza rinunciare a una stoccata alla «vecchia guardia»: «Per anni ci siamo sentiti dire che dobbiamo essere un gruppo unito, che dobbiamo voler bene alla ditta: adesso è il momento di dimostrarlo».

il Fatto 23.9.14
Articolo 18, garanzia per poter lottare
di Lino Balza

Mio figlio era un ragazzino quando quel sabato mattina mi consegnarono la lettera di licenziamento. Io pensavo: questa volta sarà dura, preparo subito il ricorso ma mi gioco tutta la mia vita. Mio figlio mi sentì dire: nessun problema, vincerò in tribunale. Questo licenziamento non arrivava inaspettato, ma era la logica conclusione della “escalation” di una vicenda ventennale fatta di esposti, denunce, manifestazioni, scioperi della fame, incatenamenti, chilometri di firme di solidarietà, udienze in tribunale, eccetera.
Il licenziamento. Una mazzata. A questa età non trovi più lavoro. L’unica speranza era il tribunale. Vinsi. E ritornai al lavoro. Grazie all’articolo 18. Sarei invece stato costretto a troncare questa “missione” se l’azienda, anziché l’obbligo del reintegro in fabbrica, avesse avuto la possibilità di liberarsi di me semplicemente pagando una indennità.
È già così difficile oggi trovare il coraggio per lottare e rischiare sulla propria pelle, che non si può chiedere a nessuno di votarsi al sicuro martirio senza l’articolo 18. Dunque è giusto estendere l’articolo 18 anche a chi lavora nelle aziende con meno di 15 dipendenti.
  
il Fatto 23.9.14
Il privilegio di un figlio, suggerimento a Renzi
di  Valentina Felici

Caro Matteo, ti ringrazio dell’opportunità di esprimere i nostri suggerimenti al governo. Noto con piacere che nella tua proposta non menzioni le donne, certo ormai piene di diritti e di tutele. Prendi la maternità, ad esempio. Già che siamo in tema di articolo 18, ma perché non abolite anche quella tutela che impedisce il licenziamento durante la gestazione? Se una decide di mettere al mondo un figlio, che se la cavi da sola! Che poi, parliamoci chiaro . Queste qui non fanno altro che mettere al mondo altri precari, che verranno a bussare alla porta dei prossimi governi.
   Credo quindi sia giusto che il compito di metter al mondo dei figli spetti a chi se lo può permettere. Prendi la Madia, per esempio, lei sì che è un esempio di stakanovismo. Lei che riesce a incarnare la mamma lavoratrice perfetta; una che da un lato non si ferma di lavorare neanche durante il travaglio (purtroppo!) e dall'altro non si perde una puntata di Peppa pig, neanche venisse nominata ministro! Oppure prendi la Boschi. Ha dichiarato di voler fare 3 figli. E se permetti, ho già prenotato tutte le prossime esclusive di “Chi” riguardo all'eventuale dolce evento! Quindi, cari Marta e Giuseppe, non vi affannate a mettere al mondo figli che poi non potete mantenere. Voi non dovete fare altro che lavorare (naturalmente gratis), visto che il governo sta pensando proprio a tutto, anche al ricambio generazionale.
 
il Fatto 23.9.14
Il confronto democratico dimenticato dal Pd
di Albarosa Raimondi

Una cosa è apparsa chiaramente in questi ultimi tempi: Renzi e la Boschi non amano, ma forse non ne conoscono il significato, la democrazia. In democrazia si ascoltano tutti, particolarmente quelli di parere opposto al nostro, e si cerca di mediare. Insultare e tentare di intimidire quelli che non la pensano come noi appartiene al sistema dittatoriale, tanto amato da chi vuole il potere assoluto. Adesso stanno cercando di esportare tale modello di vita dalla politica al lavoro. Conoscono il significato del licenziamento senza giusta causa? Significa che i lavoratori e le lavoratrici saranno continuamente ricattabili. Non potranno esprimere un loro parere, non potranno chiedere miglioramenti sul luogo di lavoro, non potranno pretendere l’uso di strumenti di protezione nelle lavorazioni a rischio, non potranno protestare per trattamenti ingiusti e discriminatori, le donne dovranno subire in silenzio le “avances”, per non dire di peggio ecc. Ma poi, possono spiegare in modo da essere facilmente compresi come l’abolizione dell’art. 18 porterà a facilitazioni nell’inserimento nel mondo del lavoro e a estendere i diritti a tutti i lavoratori?
 
il Fatto 23.9.14
Articolo 18 sì, articolo 18 no
di Luciano Casolari
qui

Repubblica 23.9.14
Dal Colle arriva un aiuto al Premier
L’intervento di Napolitano non può essere interpretato come conferma dell’asse tra Quirinale e Palazzo Chigi. C’è qualcosa di più
di Claudio Tito

DIETRO la battaglia sulla riforma del lavoro e in particolare sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non c’è soltanto una resa dei conti all’interno del Pd. Nel confronto emerge anche un’altra questione. Distinta ma in grado di condizionare e orientare il dibattito politico. Si tratta del rapporto tra l’Italia e l’Unione europea e più complessivamente con la comunità internazionale. Lo scontro generazionale dentro il Partito democratico ne è una conseguenza.
QUESTIONI distinte, dunque, ma una sovraordinata rispetto all’altra. L’intervento svolto ieri dal presidente Napolitano, allora, non può essere interpretato come la semplice conferma dell’asse tra il Quirinale e Palazzo Chigi. C’è qualcosa di più. Le modifiche al nostro impianto giuslavoristico, infatti, sono ormai considerate a Bruxelles e nelle Cancellerie europee come un test. In cui l’Italia deve dimostrare di fare sul serio. Anche l’articolo 18, al di là della sua concreta e attuale applicazione, costituisce una sorta di prova del nove sulle buone intenzioni riformatrici del nostro Paese. Cambiare quella legislazione attraverso l’abbattimento di un totem è il modo per mostrarsi davvero decisi rispetto al contesto e agli investitori internazionali. La spinta del presidente della Repubblica ad abbandonare “conservatorismi e corporativismi” tiene quindi conto di questo fattore. La difesa del governo è un modo per assicurare la tenuta del sistema-Paese. Una sconfitta su questo terreno o, ancora peggio, una dilazione sine die si trasformerebbe al contrario in un colpo letale.
Ovviamente una linea di questo tipo ha delle immediate ripercussioni sulla seconda questione: quella “interna”. Le parole del capo dello Stato non solo blindano l’esecutivo di Renzi e allontanano i sospetti di chi teme che ci possa essere un cambio in corsa con una “squadra” capace di offrire più garanzie all’Europa. Ma soprattutto determinano all’interno del Partito democratico dei nuovi rapporti di forza. Per la minoranza, capitanata in questa fase da Bersani, diventa assai più difficile attaccare da sinistra la posizione di Palazzo Chigi. Se un uomo come Napolitano, figura istituzionale e dalla consolidata militanza progressista, assicura la necessità di “politiche coraggiose” per l’occupazione, allora per il fronte anti-Renzi — in larga parte composto da ex diessini — viene meno un argomento. Quello che concerne la potenziale lesione dei diritti storicamente tutelati dalla sinistra italiana.
Per di più bisogna tenere presente che proprio la minoranza interna si mostra composita, se non addirittura divisa. È evidente, ad esempio, che anche in quel campo è scoppiata una guerra generazionale. I più giovani iniziano a vivere con insofferenza la leadership dei più anziani. In molti prendono le distanze — nel metodo — dal gruppo dirigente che ha guidato fino al 2013 il Pd. Tutti sanno che in direzione la maggioranza conta sul 70% dei voti. E che una corposa dissidenza in Parlamento — superiore ad esempio al gruppo che ha respinto le riforme istituzionali — avrebbe come esito la crisi di governo e il voto anticipato. La colpa dell’interruzione della legislatura ricadrebbe su di loro e la pagherebbero anche al momento della formazione delle liste elettorali. Non a caso nelle ultime ore il tentativo di organizzare una mediazione è venuto proprio dal fronte “anti-segretario”. L’idea di convocare un referendum tra gli iscritti è così scivolata tra le ipotesi scolastiche. Soprattutto sono stati presentati emendamenti alla delega del governo che segnano il tentativo di ricucire. Lo stesso Bersani l’altroieri a Modena confidava in privato di non voler fare nulla per rompere la corda e che l’articolo 18 poteva rimanere per i soli casi di discriminazione.
Nello steso tempo il presidente del consiglio ha bisogno di alzare i toni continuamente. Fa crescere costantemente la tensione e la statura degli obiettivi. È convinto di essere costretto ad una corsa senza sosta. Nella paura che se si fermasse, tutto crollerebbe. O meglio, tutto cadrebbe nella palude del negoziato improduttivo. Ma questa tattica ha anche un altro obiettivo: evidenziare plasticamente che c’è un vincitore e un vinto. Renzi vuole trasformare la riforma del lavoro nella partita della vita. Sicuro che i suoi argomenti sono più popolari tra i giovani e meno garantiti. Chi vince, prende tutto. Chi vince, cambia per sempre il Partito Democratico, la sua natura e i suoi uomini. E nello stesso tempo ridimensiona la vecchia tradizione sindacale. Un po’ come accadde nei laburisti inglesi quando Tony Blair nel 1995 cancellò dallo statuto la famosa “Clause IV” sulla proprietà dei mezzi produzione e sulle nazionalizzazioni delle imprese. Da quel momento nulla fu più come prima.

il Fatto 23.9.14
Re Giorgio affonda l’articolo 18
Napolitano, assist micidiale al premier alla vigilia della conta interna Pd e “botta” alla Cgil: “L’Italia non sia prigioniera dei conservatorismi, sul lavoro politiche coraggiose”. Renzi apprezza e dagli Usa insiste: “Ora cambiamento violento”. Lo scontro inizia domani in Senato
di Marco Palombi

NAPOLITANO INTERVIENE PER SEDARE I DISSIDENTI PD: “BASTA CONSERVATORISMI”. MA NEL 2010 NON FIRMÒ UNA LEGGE DI B. SULL’ARTICOLO 18: “SERVONO GARANZIE”

Magari non ha padrini politici, come ha detto ieri, ma almeno un dante causa sì. Per la terza volta da fine luglio, Giorgio Napolitano arriva in soccorso dei progetti “rivoluzionari” del giovane Renzi proprio mentre il Parlamento, compresi pezzi rilevanti del Pd, tentano di modificarli. Era accaduto con la riforma del Senato (“non si agitino macchinazioni autoritarie”), s’era ripetuto qualche giorno fa sui candidati alla Consulta (“quorum alti implicano tassativamente convergenze ”, basta con “immotivate preclusioni” e “pretese settarie”), ieri è toccato alla riforma del lavoro, articolo 18 compreso (“sarà superato”, ha dichiarato Delrio): “In Italia dobbiamo rinnovare istituzioni, strutture sociali, comportamenti collettivi”, ha scandito Napolitano, “non possiamo più restare prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie”. Non è chiaro? Il capo dello Stato si spiega meglio: “Confidiamo nella concretizzazione degli impegni annunciati dal governo per superare situazioni ormai insostenibili, che le politiche del passato non hanno risolto”. Nel 2010 il nostro era più cauto: si rifiutò, infatti, di firmare una legge del governo Berlusconi che modificava anche l’articolo 18 chiedendo “garanzie” su un tema “di indubbia delicatezza sul piano sociale”.
IL PRESIDENTE della Repubblica, ovviamente, parla a tutti, ma un po’ più forte in direzione della minoranza Pd, che oggi dovrebbe riunire le sue varie anime per tentare di darsi un coordinamento (a spanne si tratta del 30% del partito e qualcosa di più nei gruppi parlamentari): anche sull’abolizione del Senato, ad esempio, il monito del Colle arrivò poco prima della riunione dei senatori “dissidenti” del gruppo democratico. Anche dalle parti di Renzi e cioè dal sottosegretario Luca Lotti arrivano avvertimenti ai non allineati (domani, d’altronde, nell’aula del Senato inizia la discussione generale): “Il segretario del Pd è stato scelto con le primarie sulla base di un programma chiaro. Qualcuno ha perso le primarie e ora pensa di dettare la linea ancor prima che si svolga la discussione in Direzione. Dalla riforma del lavoro passa la spinta di cambiamento di cui ha bisogno il paese. Qui si tratta del futuro di milioni di giovani non di far sopravvivere retaggi ideologici”. Il bersaniano Alfredo D’Attorre ha fatto notare che “l’abolizione dell’articolo 18 non era nel programma”, ma tant’è: il dibattito è questo.
Ora che c’è pure il Quirinale, gli schieramenti sono definiti: il JobsAct-tantocaroaUeeBceoltre al governo e a gran parte della maggioranza ha tra i suoi sostenitori Forza Italia, Confindustria (“l’articolo 18 è un mantra da smontare”, secondo Giorgio Squinzi, che però mesi fa diceva il contrario) e persino Cisl e Uil, che hanno già aperto la trattativa. Sull’altro lato del campo restano soli sinistra Pd e Cgil: “Abbiamo già detto che inizieremo la mobilitazione: sarebbe utile fosse unitaria, ma non ci tireremo indietro”. Cesare Damiano, che guiderà il dibattito alla Camera, prova a uscire dall’isolamento: “Renzi dovrebbe rifiutare i voti di Berlusconi su questo”. Solo che a Renzi servono appunto a rifiutare quello di Damiano.

La Stampa 23.9.14
E il vecchio presidente spiazza gli ex compagni
“Non possiamo più restare prigionieri di conservatorismi”
di Federico Geremicca
qui

La Stampa 23.9.14
Ma il Colle invita anche a evitare lo scontro
di Marcello Sorgi

La riforma del lavoro va fatta, dice Giorgio Napolitano, e adesso tutti diranno che, schierandosi apertamente con Renzi e contro «conservatorismi e corporativismi», il Capo dello Stato ha dato una bella botta alla minoranza di sinistra del Pd che si oppone al premier e al sindacato che minaccia una lotta senza quartiere contro la cancellazione dell’articolo 18.
Ma sebbene obbligato dal suo ruolo a un linguaggio cauto, il Presidente dice chiaramente che la riforma è necessaria, ma invita contemporaneamente a trovare un accordo, evitando lo scontro che si preannuncia da quando Renzi ha scoperto le carte, e rispetto al quale il premier non si è per nulla sottratto. Lo scambio di polemiche tra Palazzo Chigi e gli uomini della minoranza Democrat ha avuto toni molto alti. Da Bersani a Damiano a D’Attorre, gli avversari del premier temono che alla fine la riforma possa passare con i voti di Forza Italia (e Brunetta lo conferma), con un capovolgimento della maggioranza del governo che giudicano inaccettabile. Ecco perché Napolitano insiste sulla necessità di trovare una mediazione all’interno del Pd e sembra raccomandare a Renzi di non muoversi dando la sensazione di voler schiacciare la minoranza.
Un atteggiamento come questo deriva anche dalla lunga esperienza del Capo dello Stato, e probabilmente del ricordo della vicenda dello scontro sulla scala mobile di 25 anni fa, che Napolitano visse da protagonista, essendo allora uno dei più alti dirigenti del Pci, e innescò una crisi senza rimedio del maggior partito della sinistra.
Ma c’è anche una ragione più contingente che spinge il Presidente a premere per una soluzione rapida e senza tensioni: il quadro economico dell’Europa continua a peggiorare ed è sempre più pressante l’urgenza, per l’Italia, di realizzare le riforme che le autorità di Bruxelles chiedono. Ieri davanti al Parlamento europeo è stato il presidente della Bce Mario Draghi a spiegare che la politica monetaria da sola non può produrre effetti miracolosi, senza affiancarle «riforme strutturali che sostengano consumi privato e investimenti». Draghi parlava dopo il risultato limitato, con richieste delle banche europee minori delle previsioni, del nuovo intervento deciso a Francoforte per introdurre liquidità nel sistema, e reagiva alle critiche del governatore della Bundesbank Jens Weidmann, contrario a qualsiasi allentamento delle politiche di rigore.
In documento dedicato espressamente all’Italia, pure la Commissione europea ha dato atto ai governi in carica dal 2011 (da Monti in poi) di aver dato impulso alle riforme, ma ha sottolineato le difficoltà di metterle in pratica con decreti attuativi, che invece, o tardano o restano bloccati nelle strettoie burocratiche.

Repubblica 23.9.14
Un assist per Matteo: “Per il Colle c’è solo questo governo”
di Goffredo De Marchis

ROMA Confermata la riunione delle minoranze di oggi. Confermata l’assemblea serale dei 110 parlamentari bersaniani. Sullo sfondo, in caso di scontro duro, rimane il referendum della base, minaccia che ha fatto infuriare l’ala renziana del Pd e persino il braccio destro del premier Luca Lotti, solitamente poco loquace. «Ma è un’extrema ratio », continuano a dire gli oppositori.
Le parole di Giorgio Napolitano sulla riforma del lavoro hanno però spiazzato la sinistra interna. Che adesso ha capito di avere pochi margini per il non detto della battaglia sull’articolo 18, ovvero il sogno di una rivincita su Renzi, l’idea di giocarsi la partita della vita per riconquistare un ruolo di primo piano. Questo tipo di messaggio, soprattutto questo, è arrivato forte e chiaro. «Per il Quirinale c’è solo il governo Renzi — dicono a Palazzo Chigi — . Non esila stono ipotesi di esecutivi tecnici a guida Visco o Draghi». Lo hanno capito così anche i dissidenti. Non esistono alternative. Tantomeno il voto. Con questa realtà bisogna fare i conti.
Per ora la cosiddetta “vecchia guardia” non si ferma. «Dice bene Napolitano — premette Stefano Fassina — . Ma non c’è una sfida tra conservatori e innovatori. Le riforme coraggiose possono essere anche di destra. Quindi, il punto è un altro: se Renzi vuole una riforma di destra o di sinistra ». Spiega Miguel Gotor, che insieme ad altri 10-15 senatori firmerà gli emendamenti alla legge delega ricordando che al Senato la maggioranza ha solo 6 voti di scarto: «La Serracchiani definisce l’articolo 18 un privilegio. È incredibile. Noi pensiamo invece che il reintegro deve rimanere una possibilità accanto all’indennizzo». Molti scommettono su una retromarcia delle minoranze dopo le dichiarazioni del presidente della Repubblica. Ovvero su un’onesta quanto dolorosa ritirata. Eppure ieri sera la chat dei dissidenti brulicava di messaggi di battaglia. Pippo Civati ha sentito gli altri e ha avuto conferma di una larga partecipazione al vertice di oggi. Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, Fassina, Cesare Damiano. Alfredo D’Attorre. La presenza di Fassina e D’Attorre dimostra che anche Pier Luigi Bersani non si fa condizionare dal Colle in questo confronto. «Andiamo avanti. Cercando il confronto», ha detto l’ex segretario indicando la linea ai suoi. «Napolitano è molto preoccupato e c’è da capirlo — dice un bersaniano di ferro —. Ma sull’emergenza ci abbiamo già rimesso le penne con il governo Monti. La linea di responsabilità a prescindere non ha funzionato, è un dato. Noi abbiamo perso le elezioni immolandoci sull’altare di Monti e l’economia non è uscita dal baratro». Come dire che stavolta non si faranno sconti non solo a Renzi ma nemmeno al Quirinale.
Eppure, nel fronte del dissenso, le posizioni moderate non mancano. «Sono convinto che alla fine troveremo una sintesi — dice D’Attorre —. Noi vogliamo il contratto a tutele crescenti e la riforma. Ci sono i margini per discutere». Ma le armi restano affilatissime.
Per togliere dal tavolo l’ipotesi di un decreto legge e trovare un compromesso con la minoranza, Renzi aspetta di vedere l’atteggiamento nella direzione di lunedì. In particolare, chiederà di scoprire le carte. Verificando se esiste la volontà di rispettare le scelte, visto che sia Bersani sia Fassina si sono riservati la libertà di voto e le firme sugli emendamenti alla legge delega lasciano intravedere una maggioranza in bilico a Palazzo Madama. Civati lo dice con chiarezza: «Se il dissenso in aula si limita a dieci voti, non ci sono problemi. Ma se sono cento i parlamentari contrari, puoi anche abolire l’articolo 18 con Forza Italia. Poi però devi salire al Quirinale».
Ecco il nocciolo della questione: le opposizioni del Pd sono pronte ad arrivare al limite di uno strappo che potrebbe far saltare la legislatura? Andare contro Renzi, sembrano dire le parole del capo dello Stato, significa andare contro Napolitano e il Paese. Perché se l’interpretazione del premier è corretta, il Colle non vede alternative tecniche all’esecutivo. Questa è la posta in gioco, in fondo al duello finale nel Pd.

il Fatto 23.9.14
Il Partito di Renzi (che non è De Gaulle)
di Giuseppe Borgioli
qui

il Fatto 23.9.14
Metodi da stato di Bananas
di Antonio Padellaro

Chissà come saranno fischiate le orecchie ai vari Bersani, D’Alema, Civati, Fassina, Chiti, Bindi, Cuperlo, Cofferati e aitanti altri che nel Pd non intendono piegarsi all’editto di Matteo Renzi sull’abolizione dell’articolo 18. E chissà come si comporterà adesso la minoranza formata dai 110 deputati e senatori democratici decisa a dare battaglia nelle aule parlamentari sul Jobs Act, ma anche sulla legge di Stabilità, quando ieri sera si è vista arrivare tra capo e collo il super editto di Giorgio Napolitano. Perché se il Colle intima lo stop ai “corporativismi e conservatorismi” che impediscono l’avvio di “politiche nuove e coraggiose per la crescita e l’occupazione” c’è poco da fare. O si piega la testa e ci si ritira in buon ordine o si prosegue la battaglia in un clima di caccia alle streghe. Perché nella lunga storia repubblicana mai era accaduto che il confronto democratico nella stessa maggioranza e nello stesso partito subisse una pressione così prepotente e su materie sensibili come i diritti e il lavoro a opera del suo stesso leader e premier in combutta con il Quirinale. Appena la sinistra pd e la Cgil hanno provato a dire che sui licenziamenti senza garanzie non erano d’accordo,cosa del tutto naturale, è partita la katiuscia. Con tanto di videomessaggio alla nazione, Renzi si è scagliato contro la “vecchia guardia che vuole lo scontro ideologico”, mentre con metodi da prefetto di disciplina la Serracchiani ha ricordato ai reietti “di essere stati eletti con e grazie al Pd” quando peraltro segretario non era Renzi, ma Bersani. Poiché non era bastato a fermare la fronda, ecco che scende in campo il capo dello Stato, che da tempo ha smesso i panni del super partes per schierarsi con il patto del Nazareno. Gli è andata bene quando ha spinto per la riduzione del Senato a ente inutile. Meno quando ha preteso l’elezione dell’indagato Bruno e di Violante alla Consulta. Adesso entra a gamba tesa nel dibattito interno del Pd e sulle decisioni del Parlamento. Metodi non da democrazia costituzionale, ma da libero Stato di bananas.

Il Sole 23.9.14
La fine di troppi alibi
di Stefano Folli

Non è la prima volta che il Quirinale offre il suo sostegno a Renzi, ma forse mai come oggi l'appoggio arriva nel momento più utile per tagliare il nodo gordiano del conflitto fra innovatori e "conservatori". Conflitto di cui la riforma del lavoro costituisce uno snodo decisivo.
La linea nella sabbia, come tutti hanno visto, l'ha tracciata il presidente del Consiglio già da qualche giorno. Per cui la riforma del lavoro (e della procedura per i licenziamenti) diventa l'occasione per una generale resa dei conti a sinistra. Tuttavia non è detto che lo scontro debba concludersi con una scissione del Pd e la nascita di una nuova formazione tipo il Sel di Vendola ma più grosso. E non è nemmeno sicuro che da una simile spaccatura prenderebbe forma un Renzi stile Tony Blair, pronto a raccogliere i voti trasversali di una sinistra modernizzante e di un'opinione di centro-destra desiderosa di rimettersi in gioco.
Questi sono tutti esiti di là da venire. Per adesso la partita è complicata perché s'intrecciano ragioni di merito e manipolazioni politiche da entrambe le parti. Al dunque, trovare un punto d'accordo sulla riforma non dovrebbe essere impossibile. I "conservatori" alla Bersani non sembrano attrezzati per espugnare Palazzo Chigi. Vogliono davvero ribaltare la linea di Renzi come era emersa dalle famose «primarie» del Pd che portarono Renzi alla segreteria? Se è così, si fanno delle illusioni: ed è altrettanto poco realistico sognare un referendum interno sulla riforma. Più facile pensare che molti della minoranza interna siano preoccupati circa il loro futuro. Non saranno ricandidati alle elezioni, salvo qualche eccezione. E tentano una battaglia sul tema più congeniale appunto il lavoro per ottenere qualche correttivo nel merito, sperando di obbligare Renzi a un compromesso politico. In sostanza, puntano alla sopravvivenza più che a una morte gloriosa. È anche possibile che riescano nel loro obiettivo, almeno in piccola misura.
In fondo, la riforma può sopportare qualche emendamento che non la snaturi. Viceversa, una rivolta nel Pd o peggio ancora una scissione rischierebbe di portare a una crisi di governo e a un pericoloso rimescolamento di carte nelle aule parlamentari: con i berlusconiani di Forza Italia ben lieti di tornare a essere decisivi, mentre il Pd contempla le proprie macerie. Così ragionano i mediatori. Ma la condizione per un'intesa è che i "conservatori" non si sentano incoraggiati nelle loro posizioni. Ecco allora la rilevanza dell'uscita di Giorgio Napolitano. Con la sua autorità di antico esponente del Pci, il presidente ha, per così dire, tolto l'acqua in cui la minoranza del Pd cercava di nuotare. E ha rafforzato Renzi come guida degli innovatori, rispettando in pieno la linea sabbiosa tirata dal premier.
Del resto, se i partiti quasi non esistono più, ha poco senso entrare nelle dinamiche interne di gruppi in cui si riflettono liturgie che il capo dello Stato, al pari del giovane fiorentino, considera fuori tempo. Ciò non significa che si debba procedere a strappi, cercando in ogni dove nemici da sgominare. Nella discussione sul lavoro Renzi sa di dover apparire privo di incertezze, altrimenti il compromesso sulla riforma diventa troppo oneroso.
Sa anche che colpire il sindacalismo della Cgil e il conservatorismo del suo stesso partito, lo rende molto popolare agli occhi delle persone. Ma ciò non toglie che la riforma, specie quella del lavoro, va realizzata e non solo declamata. Il premier negli Usa è tornato ad annunciare cambiamenti radicali in Italia. Eppure le trasformazioni richiedono abilità politica, non solo maestrìa in una campagna elettorale permanente.

Repubblica 23.9.14
Brunetta
“Il Colle prenda atto di un nostro sì alla riforma”

ROMA «Quando sento Renzi sostenere quelle cose lì, io dico: bene, ci sto, proviamoci, è anche la nostra riforma del lavoro. Pronti a votarla, perfino con la fiducia. Ma attenzione: senza compromessi, senza azzardo morale. Dopo, lo scenario cambia però, al Quirinale dovranno prenderne atto».
Volete entrare in maggioranza, presidente Renato Brunetta?
«Per niente. Quella sarebbe una conseguenza naturale, obbligata, come dire, un dato di fatto, se saremo determinanti».
Facciamo un passo indietro.
Questa riforma vi piace proprio tanto.
«Noi finora ci siamo attenuti a quanto dichiarato da Renzi. Si tratta di una legge delega, quindi il testo è per sua natura generico e per giunta può essere modificato in aula ».
E stando appunto alle parole del premier?
«Stando a quelle, al superamento dello statuto dei lavoratori, dell’articolo 18, della balcanizzazione del mercato del lavoro e dello scontro tra insider e outsider, ecco se le parole saranno poi tradotte in norme coerenti e in decreti legislativi, bene, ci stiamo. Per il semplice motivo che si tratta del nostro progetto di riforma: per superare le cattive regole e il cattivo sindacato che producono solo precariato, ineguaglianze, ideologia, costi esagerati del lavoro e bassi salari».
Vi siete astenuti in commissione, in aula invece pronti a votarlo? Anche con la fiducia?
«Noi non ci poniamo il problema della crisi. Le regole del gioco le conosciamo noi, le conosce il presidente della Repubblica, le conoscola no tutti. Se Renzi mette la fiducia noi la votiamo, sempre che la riforma non venga stravolta rispetto agli annunci. Poi, se i voti di Forza Italia saranno aggiuntivi, dunque non determinanti, poco male. Ma se si sostituissero a quelli di una parte del Pd, allora lo scenario cambierebbe».
Pensa che Renzi vinca la battaglia interna con la sinistra pd?
«Non ci facciamo gli affari altrui e non ci facciamo illusioni. Conosco quelle resistenze della sinistra sindacale, conservatrice, comunista. Da vecchio socialista, ho ancora ben chiaro cosa accadde nell’84: con Giuliano Amato sono stato tra gli estensori del decreto di San Valentino sulla scala mobile. La battaglia si concluse col referendum e la sconfitta di quella sinistra. L’auspicio è che accada la stessa cosa. Anche perché la riforma del lavoro ce la chiedono i mercati, l’Unione europea, la Bce».
Siete pronti a sostenere per le stesse ragioni anche la legge di stabilità del governo?
«Finora Renzi ha negato che una manovra sia necessaria. Nega tutto, come i debiti ancora da pagare alla pubblica amministrazione. Se la legge di stabilità risponderà ad alcuni requisiti, noi per il bene del Paese non avremmo difficoltà. Da inguaribile ottimista mi fido di lui. Se poi prevarrà il richiamo della foresta lo scopriremo a giorni». (c. l.)

La Stampa 23.9.14
Renzi: serve un cambiamento violento
di Paolo Mastrolilli
qui

il Fatto 23.9.14
Yes we can violentemente Il sogno americano di Renzi
di Wanda Marra

NELLA SILICON VALLEY RILANCIA: “CAMBIO L’ITALIA, ANCHE SE SI ARRABBIANO”

Io cambio l’Italia, voi cambiate il mondo”. Dietro Matteo Renzi c’è una grande foto di una barca, davanti i responsabili di 150 start-up italiane della Sili-con Valley. “Alcune cose vanno cambiate in modo violento”: la location è americana, il riferimento è alla battaglia italiana sull’articolo 18. Sono le 6 del pomeriggio ora italiana (le 9 ore locale) quando il premier allo Yacht club di San Francisco apre ufficialmente il viaggio negli States. L’inquadratura è informale. Le immagini raccontano già la costruzione del romanzo americano del giovane premier: la discesa con passo baldanzoso dalla scaletta dell’aereo, l’ingresso alla Stanford University (dove domenica sera è stato a cena ospite del presidente, John Hennessy) accanto alla moglie Agnese, tubino marrone e sguardo un po’ perplesso davanti alle battute chiassose degli statunitensi, la tavolata insieme a Condoleeza Rice, l’ex segretario di stato americano. Il giro di ieri dà il segno e il sapore di un’avventura, che è una via di mezzo tra una vetrina, l’occasione di tessere rapporti che contano (anche finanziariamente) e una vacanza nei luoghi simbolo del futuro.
LA SCENOGRAFIA di ieri per Renzi è perfetta. In Italia sul lavoro è guerra e lui ha scatenato tutti i suoi, persino Luca Lotti, in genere silente, per dire che “chi ha perso le primarie non può dettare la linea”. E allora, parlando dagli States, usa una serie di costruzioni tipiche del sogno americano. Per ribadire un concetto: il sogno italiano è lui. E non torna indietro. Parla dunque di “rivoluzione sistematica”. Avverte che “arriva il momento che facciamo arrabbiare qualcuno per far contenti tutti”: la filosofia della spallata, sindacati e affini nel mirino. Invita a “smettere di piangersi addosso”. Perché “San Francisco è la capitale del futuro. Il rischio dell’Italia è di città straordinariamente belle ma città del passato”. E poi, eccolo citare lo “Yes we can” obamiano che imperversava negli Usa quando decise di candidarsi alle primarie per Sindaco di Firenze. “Mi dicevano ‘un se po’ fare’”. Ragiona ancora così. E non a caso è pronto a tutto, sul lavoro: alla fiducia, a prendere i voti di Forza Italia, a costo di spaccare la maggioranza e di costruirne una nuova. Perché, poi, spiegano i suoi, questo è un modo per inglobare anche la destra, azzerandola. Metodo asfaltatore noto. E se non funziona? Va bene anche andare alle urne. D’altra parte, Napolitano ormai addossa tutta la colpa delle riforme che non si fanno a questo Parlamento. C’è una frase rivelatrice in questo senso da San Francisco: “Sono importanti anche le storie di fallimento, perché dai fallimenti si impara e si fa meglio”.
Allo Yacht Club introduce, poi ascolta per un’ora gli imprenditori,
Renzi. Uno sguardo al cellulare e l’intervento di Napolitano gli è noto. E poi, conclude.
Dunque, via verso Twitter (un sogno nel sogno per uno come lui che ha fatto dei Tweet uno stile di comunicazione politica), dove viene accolto dal Ceo, Dick Costolo e da Katie Stanton. Battute, racconti delle vacanze fiorentine di Costolo. Non a caso la Stanton twitterà: “Great to have Italian Prime Minister @matteorenzi @twitter today. &proud of @dickc who knows his Italian art history! (Grande avere il primo ministro italiano Matteo Renzi a Twitter oggi. E orgogliosa di Costolo che conosce la storia dell’arte italiana). Non manca la foto dell’uccellino, il simbolo di quel cinguettio che è diventato un grande affare. Renzi invita Costolo a venire in Italia per incontrare un gruppo di imprenditori e capire le possibilità di sviluppo nel nostro paese. Lui si impegna. E twitta addirittura entusiasta: “Fun and enlightening visit with Italian Prime Minister @matteorenzi” (Divertente e illuminante visita del primo Ministro italiano). Due chiacchiere con Luca Maestri (Apple) e Diego Piacentini (Amazon) Ancora, via verso Yahoo. Lo guida l’Ad, Marissa Mayer.
DA OGGI a giovedì Renzi sarà a New York: meeting ufficiali, incontro con i Clinton, intervento conclusivo all’Onu. E poi, la photo opportunity che conta: venerdì sarà a Detroit per visitare lo stabilimento Fiat con Marchionne. Nella settimana in cui si avvia la riforma dello statuto dei lavoratori l’America è la sua opportunità, il messaggio è chiaro.

La Stampa 23.9.14
Domani ricomincia la guerra dell'articolo 18, la priorità è il lavoro
Riparte al Senato la battaglia sul simbolo che divide conservatori e innovatori, ma che riguarda solo 8 mila casi all'anno
di Walter Passerini
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Repubblica 23.9.14
Matteo Orfini
“La delega sul Jobs Act va rivista ma alla fine del confronto non ci sarà libertà di coscienza”
intervista di Tommaso Ciriaco

ROMA . Il Jobs act, così com’è, non va. «È necessario modificare il testo della delega ». Eppure il Presidente del Pd Matteo Orfini resta molto critico con la minoranza dem — «nel voto non può esserci libertà di coscienza» — e con i sindacati: «Hanno fallito».
Napolitano chiede di innovare. Un assist al governo?
«Mai strumentalizzare le parole del Presidente. Ciò detto, è condivisibile che il governo intervenga di fronte al disastro del precariato».
Renzi parla di «cambiamento violento» e attacca la minoranza dem. Una strategia controproducente?
«Se sto agli obiettivi enunciati, sono gli stessi per tutto il Pd. Lavoriamo per risolvere il dramma di milioni di persone senza tutele, frutto di politiche sbagliate. Anche a sinistra».
E il Jobs act va in questa direzione?
«Il testo della delega non è sufficiente. Occorre esplicitare il disboscamento delle 40 forme contrattuali per i precari, riducendole a due: una a tempo determinato e una indeterminato a tutele crescenti. E ancora, correzioni per evitare torsioni autoritarie nei posti di lavoro».
A proposito, bisogna toccare anche l’articolo 18?
«Su questo punto la delega è ambigua, bisogna dettagliarla. Possiamo discutere sulla progressività per il raggiungimento delle piene tutele — per un periodo di anni — ma il reintegro per i licenziamenti senza giusta causa deve essere mantenuto. Ha ragione Poletti quando sostiene che non si tocca il reintegro per i licenziamenti discriminatori: ma chi ti licenzia per discriminarti non dice che lo fa per quella ragione..» Renzi non sta esagerando nei confronti del sindacato?
«Se milioni di precari non si sentono rappresentati, non è colpa mia o di Renzi: il sindacato dovrebbe rappresentare tutto il mondo del lavoro e non solo una parte, altrimenti è il fallimento della sua funzione storica».
È vero che non sarà possibile appellarsi alla libertà di coscienza sulla riforma?
«È sempre stato così. Questa è politica, non certo un tema di coscienza. Abbiamo il dovere di trovare una sintesi dopo una discussione comune. Questo comporta che anche Renzi ascolti. La discussione è iniziata molto male, con scomuniche reciproche. Meglio abbassare I toni e cercare un accordo».
E gli emendamenti della minoranza dem sul Jobs act?
«Abbiamo una direzione il prossimo 29 settembre sul Jobs act. Riterrei opportuno e serio attendere quella discussione prima di assumere iniziative parlamentari di corrente».
Ipotesi referendum tra gli iscritti. Cosa ne pensa?
«È un’idea molto curiosa. Siamo eletti per fornire soluzioni. Dobbiamo trovare una sintesi, non dare il via libera a un derby tra iscritti. Altrimenti non siamo un gruppo dirigente».
Sui social la sfottono: “Ora Orfini è ultra renziano...”.
«È una sciocchezza. Lo dimostra il fatto che ho detto a Renzi che il Jobs act così non è accettabile. Per me il congresso è finito il 9 dicembre: semplicemente, non sono pregiudizialmente ostile a Renzi. Lavoro per unire il Pd, non per unire la minoranza Pd».

Repubblica 23.9.14
“Articolo 18 così com’è e nuovi ammortizzatori” i paletti della minoranza Pd
Pronti gli emendamenti contro la riforma immaginata da Renzi Ma la sinistra del partito condivide il contratto a tutele crescenti
di Luisa Grion

ROMA Coperture finanziarie per i nuovi ammortizzatori, riduzione drastica della marea di contratti, limiti nell’utilizzo del voucher e articolo 18. Che per la minoranza del Pd non va cambiato: la possibilità di reintegro sul luogo di lavoro dopo un licenziamento senza giusta causa deve restare. Prevederlo, per tutti, solo in caso di discriminazione sarebbe «una presa in giro». Ecco il cuore degli emendamenti attraverso i quali la minoranza del Pd quella che non condivide la linea di Renzi sullo Statuto dei lavoratori si prepara a dare battaglia alla legge delega sul lavoro. La scadenza per presentare gli emendamenti al testo già arrivato al Senato è fissata per le ore 13 di oggi, ma per l’ala di sinistra del Pd i punti sui quali insistere sono decisi. La minoranza che va da Bersani a Fassina, da Damiano, a Cuperlo, a Gotor e che ha affidato la scrittura dei testi a Cecilia Guerra ribadisce piena adesione sul contratto a tutele crescenti, ma precisa che al momento dell’assunzione a tempo determinato il diritto di reintegro sul luogo di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa deve essere garantito anche ai «nuovi ». La richiesta sarà specificata in uno degli emendamenti: dovrà decidere il giudice, come già oggi previsto, se il dipendente va reintegrato o solo risarcito. La possibilità del solo risarcimento non deve essere ammessa. «Si continua a parlare di modello tedesco, ma noi il modello tedesco già lo abbiamo precisa il presidente della commissione lavoro alla Camera ed ex ministro Cesare Damiano Lo abbiamo introdotto due anni fa con il governo Monti: seguiamo il ragionamento di Poletti, monitoriamone gli effetti».
Per Damiano non serve altro: «La richiesta d’innovazione che ci arriva dall’Europa va soddisfatta con l’allungamento del periodo di prova». Quindi sì al contratto a tutela crescenti («purché legato ad un drastico disboscamento delle altre forme»). «Alla fine dei tre anni il datore di lavoro potrà decidere se assumere a tempo indeterminato o meno, intanto arriviamo al 2018, possiamo sperare che la crisi sia finita». Ma una volta assunto, per il nuovo dipendente la «moratoria » sull’articolo 18 deve finire: se licenziato senza giusta causa deve poter ottenere il reintegro.
Nel pacchetto di modifiche che la minoranza del Pd intende presentare c’è anche altro. «Vogliamo che la copertura finanziaria per gli ammortizzatori sociali non sia generica o demandata al 2015 specifica il senatore Miguel Gotor L’introduzione del contratto a tutele crescenti deve essere accompagnata da una netta riduzione delle altre forme. Deve essere limitato, e non ampliato come si vorrebbe, l’ambito d’applicazione dei voucher». Non è detto poi che, in tempi di crisi, gli incentivi ai quali il governo sta lavorando possano convincere le imprese: non è andata così per il bonus giovani dall’esecutivo Letta. Delle 100 mila nuove assunzioni attese, ad un anno dal via ne sono arrivate solo 24. 439.

Corriere 23.9.14
Cuperlo avvisa: «Gli appelli alla disciplina? Non siamo in caserma»
intervista di Alessandro Trocino

ROMA — «Non vale la logica del prendere o lasciare. Chi vince il Congresso ha il diritto e il dovere di dirigere un partito, non di comandare. Però, per citare una persona molto amata da Renzi, Don Milani, siamo in grado di sortirne insieme». Gianni Cuperlo, anima di sinistra del Partito democratico, tra i protagonisti della ribellione al nuovo corso sul lavoro impresso da Matteo Renzi, fa una premessa, prima di cominciare: «Non dirò neanche mezza parola in polemica con Renzi, che è negli Stati Uniti, perché non si polemizza con il premier mentre all’estero rappresenta gli interessi del Paese».
C’è chi, come Pippo Civati, agita l’ipotesi di un referendum con la base del Pd nel caso in cui non troviate l’accordo.
«È uno strumento previsto, ma io sono per discutere nelle sedi giuste. I tempi stringono, faccio un appello a tutti al dialogo».
Lei si sente un conservatore?
«Per nulla, io sono per una discontinuità coraggiosa. I panni del conservatore li lascio alla destra che teorizza la flessibilità spinta fino alla precarietà. Li lascio a chi usa gli incentivi pubblici per abbassare il costo del lavoro senza innovazione. A chi non dice una parola sul fatto che le nostre imprese hanno un patrimonio inferiore al risparmio delle famiglie».
Eppure l’immagine che rischia di dare la sinistra del Pd è proprio quella, di non voler cambiare.
«Io non so che farmene di una sinistra rivolta al passato. Non leggo Marx, anche se lo trovo molto più attuale di Davide Serra, ma Piketty. La diseguaglianza è la radice di questa crisi».
L’articolo 18 è lo scoglio su cui rischia di infrangersi la riforma.
«L’ex articolo 18, vorrà dire, visto che è già stato cambiato e in modo non banale. Sono io che chiedo: per risvegliare l’Italia sono più importanti 5 mila cause all’anno sull’articolo 18 o il recupero anche solo di metà dei 120 miliardi di evasione? È più importante l’articolo 18 o ricordare che siamo il fanalino di coda nell’occupazione femminile?».
Se è così marginale, perché ne fate una battaglia?
«Rovescio la domanda. Se è così marginale, perché farne il fulcro? È un depistaggio dopo che abbiamo perso il 25 per cento della produzione industriale? Perché non si parte dal fatto che la Germania per l’inserimento al lavoro spende 9 miliardi e noi 500 milioni? Perché non si mette al centro il fatto che l’accesso ai servizi per il lavoro oggi è un diritto di cittadinanza?».
Ma siete disponibili a parlarne?
«Non c’è nessun tabù, io voglio trovare una soluzione. Lo scriviamo che il reintegro non si discute in caso di discriminazione per motivi religiosi, politici e sindacali, di etnica, genere e orientamento sessuale? Sono numeri piccoli, i reintegri, ma questo anche perché la norma ha avuto un effetto deterrente. Anche lì c’è un pezzo della dignità del lavoro da difendere. Per il resto possiamo discutere della durata in cui si arrivi alla tutela, dopo il periodo di prova. Discutiamo di tutto, ma rispettando quei principi».
Che emendamenti presenterete?
«Bisogna sfoltire la giungla dei contratti. Bisogna mettere sul tavolo le risorse per estendere tutele e formazione. E poi entrare nel merito del salario minimo per chi non ha un contratto e dei nuovi ammortizzatori».
C’è chi dice che lo scontro sull’articolo 18 è uno strumento di lotta interna nel partito.
«Spero che nessuno pensi a regolamenti di conti. Non mi sento un gufo, né un guastatore. Ma non accetto nemmeno toni ultimativi. Credo di essere stato il primo a riconoscere la legittimità del successo di Renzi alle primarie. Il nemico non è mai in casa e io mi sento parte della scommessa per il cambiamento».
Se non si trovasse un accordo, accetterebbe la disciplina di partito?
«Un partito non è una ditta né una caserma. È una comunità. E non apprezzo gli appelli alla disciplina a stagioni alterne: alcuni di quelli che ora la invocano, sul capo dello Stato hanno votato come gli garbava».
Come se ne esce?
«Con meno battute, meno offese e più rispetto. Io mica dico che la riforma Poletti è la traduzione italiana del liberismo thatcheriano. Non lo penso. La responsabilità di tutti è di trovare una soluzione. Lo so, sono un uomo fuori contesto, ma sarei per adottare uno sciopero dei tweet per 15 giorni, come elemento di salute pubblica».
La scissione è fantascienza?
«Non voglio nemmeno evocare il termine. E non voglio neanche pensare che ci sia chi lavora, magari implicitamente, perché qualcuno se ne vada. Hic manebimus optime ».

La Stampa 23.9.14
Gotor: “Il reintegro non è un privilegio. Deve rimanere”
Il senatore bersaniano: “Operazione ideologica”
intervista di F. Sch.

«Renzi dice che non vuole fare la foglia di fico della vecchia guardia Pd: giusto, ma magari non la faccia nemmeno di Sacconi e Berlusconi…», consiglia il senatore del Pd Miguel Gotor, esponente della minoranza di Area riformista, vicino a Bersani.
Il punto è sempre il discusso articolo 18…
«Quando c’è un licenziamento ingiusto, per noi deve rimanere la possibilità di reintegrare il lavoratore».
Una possibilità che resta di certo per quelli discriminatori.
«E ci mancherebbe! Ma siccome che ci sia una discriminazione è difficile da dimostrare, rimaniamo nel campo dell’astrattezza. Invece il diritto alla reintegra deve rimanere per tutti i licenziamenti ingiusti. Posizione che fino a venti giorni fa era di tutto il Pd: ora siamo molto sorpresi che si sia voluta alzare questa bandierina ideologica».
Perché, se fino a venti giorni fa nel Pd eravate tutti d’accordo, c’è stata questa accelerazione del governo e di Renzi sull’articolo 18?
«Io credo sia un’operazione ideologica che ha anche un contenuto propagandistico, tiene impegnati a discutere di questo mentre si prepara il vero nodo politico che è la legge di stabilità».
E ora, dice lei, ci si sta avvitando su un discorso ideologico?
«Mi dispiace molto leggere un’intervista alla Serracchiani in cui definisce il diritto al reintegro un “privilegio”: si tratta di una forma di civiltà. E dico anche che il segretario della Cgil Camusso ha sbagliato a definire Renzi come la Thatcher, ma ha sbagliato anche Renzi facendo quel video in cui imita in falsetto la voce della Camusso… Così non si va da nessuna parte».
Come si va da qualche parte? Ci dica un po’ degli emendamenti di cui avete discusso ieri sera in una riunione tra senatori.
«Cercheremo di intervenire sulla delega che ci sembra un po’ troppo ampia e generica. Ci sono alcune direzioni a cui stiamo lavorando: vogliamo sostenere il contratto a tutele crescenti, ma all’interno di questa forma contrattuale chiediamo che vengano fissati alcuni criteri, prima di tutto coperture chiare e definite per gli ammortizzatori sociali. Chiediamo inoltre il disboscamento delle forme contrattuali precarie e che non vengano estesi i contenuti del cosiddetto voucher».
E poi c’è, appunto, la questione dell’articolo 18.
«In un momento in cui un giovane su due è senza lavoro, il governo dovrebbe occuparsi di dare lavoro, non di toglierlo più facilmente a chi ce l’ha. Con l’ipotesi della delega, in uno stesso tavolo potrebbero lavorare persone coperte dall’articolo 18 e altre no: questa sì che è apartheid».
Se la delega restasse così com’è lei la voterebbe?
«Il punto del reintegro per me è discriminante. Nel proposito di toglierlo ci vedo una volontà di carattere pretestuoso».
Secondo lei sareste tanti pronti a non votare la legge se non ci fosse chiarezza sul reintegro?
«Non lo so. Ma immagino che, visto che al Senato la maggioranza è tale per sei-sette voti, potrebbe rendersi necessario il concorso di Forza Italia».
Sarebbe paradossale se passasse coi voti di Fi e non di una parte dei democratici…
«Infatti noi stiamo facendo di tutto per evitarlo».

Corriere 23.9.14
Alta tensione tra renziani e sinistra
Ma i dissidenti faticano a unirsi
La minoranza verso la conta: o noi o FI. Divisi sul referendum
di Monica Guerzoni

ROMA — «I renziani? Attaccano perché sono preoccupati, hanno paura che passi il referendum... È previsto dallo statuto, possiamo farlo e possiamo anche vincerlo». Stefano Fassina ha indossato l’elmetto e non intende uscire dalla trincea dei «duri», sui quali ieri si è scatenata la controffensiva del Nazareno. Un attacco che sembra aver indebolito la «resistenza» bersaniana dei riformisti-senza-elmetto.
Uno dopo l’altro, i colonnelli renziani hanno sparato metaforiche pallottole sull’opposizione interna e il resto lo ha fatto il severo monito del capo dello Stato. Tanto che Cesare Damiano vede sfumare il sogno di appellarsi alla base: «La possibilità reale di un referendum interno la vedo abbastanza remota». Non è una resa, però. Lo stesso presidente della commissione Lavoro della Camera lancia infatti a Renzi un brusco avvertimento: «Sulle questioni economiche dovrebbe essere rifiutato il soccorso azzurro. Se fossero determinanti i voti di Forza Italia per tenere in piedi il governo ci sarebbe una conseguenza politica...».
Prima di volare negli Usa il premier ha chiesto ai suoi di picchiare duro sull’ala sinistra, che contesta il cuore della riforma del lavoro. E così dal Nazareno (come da Palazzo Chigi) sono partiti i razzi. Lorenzo Lotti, per chiarire la determinazione del leader, ha preso di mira Alfredo D’Attorre: «Chi ha perso le primarie non detta la linea. No ai retaggi ideologici». E il deputato bersaniano: «Argomento fuori luogo, non mi pare che Renzi alle primarie abbia proposto l’abolizione dell’articolo 18». A sera in soccorso del collega è arrivata la replica di Fassina a Lotti: «Con gli insulti e le caricature non facciamo passi avanti. Il principio democratico con cui il Pd procede è davvero singolare. Il capo decide, il Senato approva e poi facciamo la direzione per discutere».
Toni che oscurano il lavoro dei mediatori, intenti a cercare un accordo da portare lunedì 29 al «parlamentino» del Pd, dove la riforma sarà messa ai voti. I renziani fanno la voce grossa, mostrando di non temere una conta dolorosa. «Ci sono tutte le condizioni per arrivare a un punto di equilibrio — spera Debora Serracchiani — La scissione? Ipotesi fantascientifica». Il clima però è pessimo. «Le minacce di non rispettare le indicazioni di voto non aiutano — avverte Lorenzo Guerini, rivolto a Bersani — In un partito si discute, poi si decide e quella decisione impegna tutti». Come ci si arriva? Con sanzioni ed espulsioni? «Sono convinto che ci si arriverà non per via disciplinare, ma attraverso il dibattito».
Se Guerini media, Rosy Bindi attacca. Per la presidente dell’Antimafia il premier «ama rilanciare per impedire che si facciano i bilanci» e l’idea di una rottura insanabile non è affatto lunare: «Una scissione? Sicuramente no, se non la provoca chi continua a richiamare all’obbedienza...». Dove quel qualcuno, per la Bindi, è ovviamente Renzi: «Se lui sbaglia le alternative ci sono, basta costruirle».
Pippo Civati avverte il segretario: «Rischia di compromettere definitivamente i rapporti con la minoranza», che per lui non sono pochi giapponesi, ma un’area molto più larga: «Se cinque democratici non votano il decreto si va in commissione di garanzia, se non lo votano in cento si va dal presidente della Repubblica». Tifa per la caduta del governo? «No, dico che a qualcuno piace giocare pesante... La legge di stabilità dovrà prendere decisioni difficili, se il clima è questo auguri!». Per Civati, che nutre «dubbi di costituzionalità», il referendum non è affatto uscito dai radar. Serve il 5 per cento degli iscritti e lui è sicuro di averlo in tasca: «Se i renziani sono così convinti della loro forza, perché non convocano il popolo del Pd?».
Lo scontro si sposta a Palazzo Madama, dove tutte le correnti di minoranza del Pd stanno cercando di riunire le forze in un fronte unico. I capibastone, da Cuperlo alla Bindi, fanno pressing su Roberto Speranza (che stasera riunirà i suoi cento parlamentari) perché accetti di dare battaglia insieme a loro. Nella riunione di Area Riformista Fassina e D’Attorre si faranno sentire, ma la gran parte della corrente non sembra disposta a seguirli sul terreno di quel referendum interno la cui sola ipotesi ha fatto infuriare il Nazareno. «Se proprio volete un referendum facciamolo con gli elettori — minaccia il renziano Giachetti — Mattarellum e al voto.#cestate?». Sempre via Twitter era arrivata la provocazione di Fassina: «Sacconi e Forza Italia cheerleaders del Jobs Act. Sono diventati di sinistra o il Pd segue la destra?» .

Il Sole 23.9.14
Dem. L'opposizione interna studia le modifiche
Nel Pd è guerra Il premier: non tratto con la mia minoranza
di Emilia Patta

ROMA «Non si tratta con la minoranza del proprio partito, casomai si tratta con gli alleati». Più monta la polemica dentro il Pd, più escono allo scoperto atteggiamenti che appaiono di revanche da parte di chi ha perso la battaglia congressuale, più Matteo Renzi si convince che è necessario andare fino in fondo sulla questione del Jobs act e dell'articolo 18 per i neoassunti a tempo indeterminato. Perché la discussione si è incagliata tutta lì, attorno al pluridecennale "totem" della reintegra («siamo disposti a discutere di tutto, anche di articolo 18, solo a patto che si mantenga la possibilità della reintegra», riassume il bersaniano Alfredo D'Attorre confermando la posizione dei vari leader della minoranza). Agli occhi di Renzi, che il Jobs act così com'è lo aveva già abbozzato nel programma delle primarie per la premiership del 2012, si tratta di una discussione tutta ideologica. E il premier-segretario non ha nessuna intenzione di farsi insabbiare nelle trattative interne al suo partito su questo punto. Il timing resta quello deciso nei giorni scorsi: presentarsi alla conferenza Ue sul lavoro dell'8 ottobre, che si svolgerà a Milano, con in tasca il via libera del Senato (per ora c'è il sì in Commissione) alla delega sulla riforma del lavoro.
Al fuoco amico della minoranza, che da Pier Luigi Bersani a Stefano Fassina passando per Gianni Cuperlo e Cesare Damiano accusa Renzi di voler fare una politica di destra e di non rispettare il confronto interno, risponde il fedelissimo del premier Luca Lotti: «Ricordo che il segretario del Pd è stato scelto con le primarie sulla base di un programma chiaro. Qualcun altro ha perso le primarie e ora non solo pensa di dettare la linea ma lo fa prima ancora che si svolga una discussione nei luoghi preposti, come è la direzione del partito». Tutti i renziani, dalla ministra Maria Elena Boschi ai vicesegretari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, scendono in campo per ricordare che il partito decide a maggioranza e poi tutti si devono adeguare in Parlamento. E tutta la minoranza replica con l'argomentazione che l'abolizione dell'articolo 18 non era nel programma con cui Renzi ha vinto le primarie del Pd lo scorso 8 dicembre. Da qui la richiesta-minaccia di un referendum tra gli iscritti. Ma a parte la fattibilità di un referendum di tal genere in mancanza di regolamento attuativo previsto dallo statuto del Pd e a pochi giorni dal voto in Aula, quel che Renzi pensa del referendum tra gli iscritti lo dice chiaro un uomo a lui molto vicino come Roberto Giachetti: «Se proprio volete un referendum facciamolo con gli elettori. È l'unico che conta, lo dico da tempo. Mattarellum e al voto. #cestate?», scrive su twitter.
Piuttosto, più che la paura della minoranza del Pd, a far pendere un po' l'ago della bilancia dalla parte di chi a Palazzo Chigi e all'interno del governo studia un possibile punto di caduta (si veda l'articolo in pagina 3) è la preoccupazione del premier riguardo al rischio e all'opportunità di fare una riforma di tale portata con tutti i sindacati contro. Un punto alto di compromesso, come potrebbe essere quello di prevedere la tutela della reintegra dopo un lungo periodo (10 o 15 anni), avrebbe il pregio di smorzare l'ostilità del sindacato o almeno di una sua parte. La discussione tra "trattativisti" e "falchi" c'è in effetti stata negli ultimi giorni, ed è in corso anche in queste ore. Ma alla fine conterà la decisione di Renzi. E le parole pronunciate ieri dal premier da San Francisco – forte dell'ala protettiva di Giorgio Napolitano che è si esposto in favore di una «riforma coraggiosa» del mercato del lavoro – non lasciano molti dubbi su quale sia la decisione presa: «Alcune cose vanno cambiate in modo quasi violento». Insomma il Pd si prepara alla guerra. Oggi un primo assaggio con l'assemblea mattutina dei senatori del Pd alla presenza del ministro del Lavoro Giuliano Poletti e del responsabile economico del Pd Filippo Taddei. In serata la prova di forza della minoranza Pd, che si riunirà alla Camera per decidere la linea e preparare gli emendamenti: circa 100 parlamentari, un numero che è quasi un promemoria per il premier.

il Fatto 23.9.14
Jobs act e non solo: il Pd si cuoce nella sua acqua
di Sergio Caserta
qui

il Fatto 23.9.14
Una strana idea del lavoro
risponde Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, non ti sembra che il famoso Jobs Act sia finito per essere la solita limitazione e diminuzione dei diritti (quei pochi che restano) di chi lavora (quei pochi che lavorano)?
Andrea

SE QUESTA PAGINA prevedesse fotografie pubblicherei un’inquadratura di SkyTg24 del 17 settembre, ore 14. Dopo avere introdotto il tema “lavoro” e il prossimo decreto del governo, tratto dal tanto preannunciato Jobs Act, il Tg ha messo a confronto le opinioni che contano: il sen. Ichino, solido e competente nemico dei sindacati, un tempo (ma non più) nelle file del Pd, e l’ex berlusconiano Sacconi, solido e competente nemico dei sindacati, che sarebbe “la destra” anche se al momento non ricordo di quale frazione. Avrebbe dovuto essere un modo di aiutare gli spettatori a vedere le due facce del problema. L’esempio, spiega, credo, la confusione del momento. Infatti la situazione del lavoro in Italia si può riassumere così. 1) La soluzione Marchionne: deprezzare e disprezzare i sindacati fino a piegarli o a escluderli. Poi ha portato tutto in America, dove la Chrysler paga la metà del salario sindacale. 2) La soluzione di governo espressa dalla ministro Guidi (citazione testuale): “Il lavoro pesa troppo”. È l’antica posizione di Confindustria: tagliare o i lavoratori o la paga. 3) La soluzione Fornero: pensioniamo chi ha lavoro e sgombriamo posti per i giovani. Ha inventato gli esodati (semi anziani senza lavoro e senza pensione) e nessun giovane al lavoro. 4) La soluzione Sacconi-Ichino: si può forse provvedere a qualche soluzione, prima o dopo, per i senza lavoro. Mai nel lavoro. Chi lavora si accontenti del privilegio di lavorare. 5) La soluzione Renzi: contratto a tempo indeterminato senza ostacoli al licenziamento, ma con miglioramenti progressivi (non precisati) per chi riesce a non essere licenziato nei primi tre anni. Sembrano tutti giochi tipo quelli della serie americana “Hunger Games” (libro e film per adolescenti avventurosi) nei quali il premio per il giocatore è che solo lui/lei viene messo a rischio come posta del gioco. E nessuno sembra occuparsi del vero problema: come si crea il lavoro, che continua a non esserci (mentre aumentano le file dei senza lavoro)? Su questo non c'è un grande affollamento di idee. Eccoci di nuovo alla casella uno. Invece della riforma del sistema produttivo, si torna alla riforma del lavoro, che vuole sempre dire: pagare poco, pagare meno, licenziare subito e non assumere. Si può sempre fare, intanto, una riforma della scuola “che avvicini gli studenti al mondo del lavoro attraverso gli stage” e a un ingresso dei privati nella scuola (parola del ministro Giannini). E dopo? Dopo un altro discorso e la promessa che ha già elettrizzato il mondo del lavoro. “Visiterò una fabbrica alla settimana”, ha promesso Renzi. In che modo questo fatto (come le visite del mercoledì promesse a tutte le scuole) produrrà il miracolo non si è capito

Repubblica 23.9.14
Procura di Isernia
L’inchiesta su Bruno “Al senatore 2,5milioni senza contratto”
di Giuseppe Caporale

ISERNIA Il senatore di Forza Italia Donato Bruno, candidato per la Corte costituzionale, ottenne due milioni e mezzo di euro come parcella del fallimento della holding Ittierre, senza aver sottoscritto alcun contratto, senza un incarico ufficiale. E fu il suo collega di studio e commissario straordinario ministeriale, Stanislao Chimenti, a pagargli le fatture milionarie.
Non solo, ma oltre al coinvolgimento del figlio, Nicola Bruno, per una retribuzione da 150 mila euro, nel “fallimento d’oro” del colosso molisano della moda — gestito dall’allora ministro allo sviluppo economico Claudio Scajola — spunta una ricompensa da 400 mila euro anche per un altro avvocato dello “studio legale Bruno”, Valerio Giorgi. Sono questi i nuovi elementi di indagine che emergono dall’inchiesta della procura di Isernia che vede indagati per il reato di truffa aggravata (e concorso in interesse privato del curatore in atti del fallimento) lo stesso Bruno, Chimenti e gli altri due commissari della società Roberto Spada e Andrea Ciccoli. Fu il governo Berlusconi nel 2008, a nominare i tre commissari. E invece di sanare la holding i tre professionisti scelti dal ministero — secondo l’accusa — avrebbero prodotto 24 milioni di euro di consulenze. Nello specifico, delle prestazioni effettuate dal senatore di Forza Italia in realtà non c’era nemmeno traccia negli uffici della Ittierre, almeno fino alla consegna agli agenti della guardia di finanza da parte dello stesso Bruno di «tre valigette piene di documenti». Sul materiale presentato dal senatore ora verrà redatta una perizia tecnica per valutare il reale valore del lavoro svolto. Gli inquirenti hanno disposto anche una analisi della «congruità» dei compensi ricevuti da Bruno.
L’inchiesta in questione è partita da un esposto presentato nel 2012 dall’avvocato Ennio Mazzocco per conto di alcuni ex dipendenti dell’azienda tessile. «Su questa vicenda non posso dire nulla: non confermo e non smentisco» ha precisato ieri il procuratore Paolo Albano. Bruno ha fatto presentare ai suoi avvocati formale istanza per conoscere la sua posizione nella vicenda.

Corriere 23.9.14
Cresce la fronda su Bruno
E per i dem è difficile rinunciare a Violante
Consulta, verso una nuova fumata nera Il candidato di FI: via solo se mi processano
di Giovanni Bianconi

ROMA — Oggi il Parlamento torna a votare nel tentativo di eleggere i due giudici costituzionali che mancano da giugno, nonostante fino all’ultimo si sia tentato di scongiurare con un rinvio in extremis una nuova, possibile doppia bocciatura per il ticket di candidati Luciano Violante-Donato Bruno. Impantanato per via del probabile arretramento dei consensi per Bruno, dopo le notizie (non smentite) del suo coinvolgimento nell’indagine della Procura di Isernia nell’inchiesta sul fallimento della società Ittierre. Lui e il suo partito al momento rifiutano il passo indietro per una notizia pubblicata dal Fatto quotidiano , ma nel Partito democratico sono sempre più i parlamentari indisponibili a votarlo. Ma il suo destino porta con sé quello di Violante, giacché senza garanzie per Bruno il centro-destra non lo vota; ecco perché ieri sera Bruno ha partorito una dichiarazione nella quale promette di farsi da parte qualora, una volta eletto alla Consulta, da Isernia arrivasse un rinvio a giudizio. Non da «semplice» inquisito, quindi.
«Escludo qualsiasi tipo di condotta illecita posta in essere da me nella vicenda Ittierre — afferma il senatore di Forza Italia —. Ad oggi ribadisco che non ho ricevuto alcun avviso di garanzia. È evidente che qualora ci fosse un provvedimento di rinvio a giudizio non avrei nessuna remora a prendere le opportune decisioni». Un annuncio fatto nel tentativo di salvare la propria posizione e quella del candidato indicato dal Pd, senza il quale Bruno non avrebbe nessuna possibilità di passare.
Basterà? Difficile. Ieri sera molti prevedevano l’ennesimo nulla di fatto per la Consulta e semmai la remota eventualità di nominare i due componenti «laici» mancanti del nuovo Consiglio superiore della magistratura. Se ciò avvenisse (i «papabili» restano l’avvocato Paola Balducci indicata da Sel e il senatore di Fi Zanettin), il Csm potrebbe insediarsi e cominciare a lavorare. In caso contrario, è probabile che si decida uno spacchettamento delle votazioni per i due organismi, in modo da risolvere al più presto la questione Csm e dare il tempo ai partiti di sbrigliare la matassa della Corte costituzionale. Tutt’altro che semplice.
La possibilità che la candidatura di Violante decada a seguito alla bocciatura di Bruno, infatti, porta con sé un rischio di vera e propria paralisi. Nessuno è in grado di garantire un voto compatto del Pd su un altro nome. Anzi, all’interno del partito c’è la quasi certezza che una quota consistente del gruppo parlamentare faccia muro per ostacolare scelte diverse. Del resto l’ex magistrato ed ex presidente della Camera ha toccato quota 542 voti (una maggioranza con la quale, secondo la Costituzione, si può eleggere il presidente della Repubblica ma non un giudice della Consulta, poiché per questa carica il quorum resta fissato a tre quinti degli aventi diritto), e dovrebbe uscire dalla corsa per problemi non suoi bensì dell’altro candidato del ticket. Una situazione paradossale, che al momento porta a escludere, in casa democratica, altre designazioni.
Nello stesso Pd, ancora ieri c’era chi segnalava un altro paradosso: il fatto che un’istituzione come il Parlamento in seduta comune sia chiamato a scegliere un’importante carica senza poter avere informazioni ufficiali su un candidato (Bruno) da un’altra istituzione, la magistratura inquirente. Tuttavia questo prevedono le leggi. Una via d’uscita ci sarebbe, ma può aprirla solo l’interessato. Codici alla mano, l’unica possibilità che la Procura di Isernia ufficializzi l’eventuale status di indagato di Bruno (o lo smentisca) risiede in una richiesta dell’interessato alla Procura; altre comunicazioni da parte degli inquirenti non sono previste.
Il senatore di Forza Italia non pare al momento intenzionato a compiere questo passo, forse nel timore di una conferma delle indiscrezioni giornalistiche, e si limita alla promessa di dimissioni in caso di rinvio a giudizio. Probabilmente sollecitata da chi vorrebbe sbrigare la questione, dentro e fuori il suo partito. Senza troppe speranze, però. Anche a causa dei tentennamenti di chi, nel Pd, ritiene ingiusto che l’eventuale ritiro di Violante dalla corsa debba dipendere dalla posizione giudiziaria del nome abbinato dal centro-destra al suo. Per affermare questo principio sono stati lanciati segnali abbastanza chiara di indisponibilità a votare altri nomi proposti dal vertice del partito. Da tempo circolano voci sulle candidature alternative di Augusto Barbera e del più giovane Stefano Ceccanti, considerati più vicini a Renzi; ma dopo quanto è accaduto la loro eventuale investitura sarebbe tutt’altro che scontata. Forse anche per questo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti nei giorni scorsi ha tenuto a rassicurare i parlamentari sul fatto che Violante era e sarebbe rimasto il candidato prescelto da Renzi.
Ammesso che invece il segretario-premier abbia davvero altre preferenze, dovrebbe comunque fare i conti con l’orientamento dei gruppi parlamentari che per composizione risalgono a quando non era lui a governare il partito e la definizione delle liste elettorali. Un motivo in più, se oggi la situazione non si sbloccasse, per prendere tempo e provare a studiare altre soluzioni.

Repubblica 23.9.14
Consulta, in bilico anche Violante
Mezzo Pd si rifiuta di votare il candidato di Forza Italia, indagato
Ma questo potrebbe portare al ritiro dell’ex presidente della Camera
Oggi probabile fumata nera. Poi lo stop per la missione di 25 parlamentari
di Liana Milella

ROMA Non votare Bruno senza bruciare Violante. Un obiettivo quasi impossibile. Ma è questo il dramma in cui si sta dibattendo il Pd da tre giorni. Ben sapendo che l’esito è scontato. Oggi alle 12 si vota di nuovo per dare alla Consulta i due giudici mancanti e al Csm i due membri laici, ma mezzo Pd si rifiuta di votare per un indagato. Con la secchezza di sempre l’ha detto ieri sera in tv Rosy Bindi, la presidente dell’Antimafia: «Bruno? No, non voterò un indagato alla Consulta». Una «questione politica» l’ha definita Felice Casson su Repubblica . Che i vertici del Pd hanno cercato di risolvere con un pressing su Donato Bruno, il candidato alla Corte per Fi, chiedendogli di fornire dettagli certi sulla sua posizione nell’inchiesta di Isernia. È o non è iscritto nel registro degli indagati? Ha o non ha ricevuto un avviso di garanzia? Bruno ha risposto a suo modo, «nessuna condotta illecita», «nessun avviso», e la promessa che «qualora ci fosse un provvedimento di rinvio a giudizio non avrei nessuna remora a prendere le opportune decisioni». Un’affermazione anodina che non può far votare per lui i Pd convinti che non si può mandare alla Corte un candidato con opacità giudiziarie. Soprattutto perché, una volta lì, godrebbe dell’immunità.
Sono caduti nel vuoto i tentativi di convincere Fi a cambiare subito il candidato, mantenendo però Violante. Un modo, dicono le fonti Pd, per evitare a Bruno la brutta figura, ma soprattutto per salvaguardare Violante, che rischia di essere “trascinato” dal caso Bruno nella sconfitta. Ma Fi si è incaponita su Bruno. «Abbiamo già rinunciato a Catricalà, adesso basta». Impossibile rinunciare in anticipo a Violante che, spiega il Pd, «è sostenuto anche da chi è schierato contro il jobs act, per cui l’esclusione suonerebbe come un’epurazione».
Nelle frenetiche telefonate tra largo del Nazareno e i capigruppo di Senato e Camera (Guerini-Zanda-Speranza) s’è profilato con nettezza lo scenario di oggi: Bruno precipita nei consensi (era a 527 voti), ma cala pure Violante (era a 544) per via dei forzisti che gli sfilano l’appoggio certi che il Pd non voterà per Bruno. Toccherà all’ex presidente della Camera decidere il da farsi.
A questo punto non resta che rinviare di una settimana. Lo sanno già i presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso, anche per via dei 25 parlamentari in missione a Ny per l’Onu da domani. Lo sa pure Napolitano che avrebbe sollecitato almeno il voto per i due del Csm. Dice Luigi Zanda, il capogruppo Pd al Senato: «Eleggiamoli, perché non possiamo bloccare il lavoro di un importante organo costituzionale». Più facile a dirsi che a farsi. Le premesse non sono buone. Perché la Lega continua a snobbare Pierantonio Zanettin, il candidato di Fi, e voterà scheda bianca, lanciando Mario Bertolissi, ordinario di diritto costituzionale a Padova. Finora gli uomini di Salvini avevano reso riconoscibili i voti compattandosi su un candidato e dietro la scheda bianca c’è chi vede un’intesa sotterranea su Bruno, ma non su Zanettin. In alto mare pure l’intesa con Sel, perché Vendola vuole incassare Paola Balducci, bocciando Zanettin in quanto genero di Coppi, avvocato di Berlusconi. Nonostante il quorum sia basso (3/5 dei presenti) oggi si rischia il flop.

il Fatto 23.9.14
Verdini rinviato a giudizio, il Nazareno va a processo
di Fabrizio d’Esposito

L’AFFARE SU VIA DELLA STAMPERIA COSTA CARO AL POTENTE COORDINATORE DI FI OGGI PER LA CORTE COSTITUZIONALE RISCHIANO ANCORA BRUNO E VIOLANTE

Morire per Donato (Bruno). Morire per Denis (Verdini). Morire per Silvio (Berlusconi). Il patto del Nazareno si trasfigura ancora una volta in una fiera di indagati, pluriprocessati e condannati, ma il Pdr, il Partito democratico renziano, non flette e oggi a mezzogiorno in punto rivoterà nel Parlamento riunito in seduta comune il ticket per la Consulta composto da Luciano Violante e dal previtiano Donato Bruno. E a questo punto nel segreto delle urne artistiche di Montecitorio non si scaricheranno solo i mal di pancia per l’inchiesta di Isernia su una consulenza plurimilionaria per il previtian-berlusconiano, ma anche quelli per l’ennesimo rinvio a giudizio ai danni di Denis Verdini, banchiere fallito e collezionista di avvisi di garanzia nonché padre della Patria in estrema confidenza con il premier e tutto il suo giglio magico, a partire dal biondo Luca Lotti. Tra Bruno e Verdini, i mal di pancia dovrebbero essere da colite cronica, ormai.
Compravendita milionaria
Il senatore azzurro Verdini è il regista del patto del Nazareno tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato e ieri il gup di Roma ha deciso che deve essere processato per un milione di euro intascato da un altro senatore forzista, Riccardo Conti. Il reato è quello di finanziamento illecito ai partiti ed è legato a una plusvalenza di 18 milioni di euro nella compravendita di un palazzo romano, in via della Stamperia. Laddove in politica girano soldi e affari sovente c’è lo zampino di Verdini. A metà luglio, per esempio, il padre costituente Verdini è stato rinviato a giudizio dal gup di Firenze per il buco da oltre 100 milioni di euro della sua banca, il Credito cooperativo fiorentino. Reati, secondo l’accusa: associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato. Nello stesso processo sono coinvolti un parlamentare verdiniano di ferro, Massimo Parisi, e finanche Marcello Dell’Utri, ministro della mafia del magico mondo berlusconiano. Il curriculum giudiziario di Verdini è così denso da far sviluppare piantagioni sterminate di peli sullo stomaco dei garantisti senza se e senza ma: una truffa per fondi pubblici all’editoria, la tela della P3 per salvare B. dai processi, gli amici imprenditori nella cricca del G8 e del terremoto dell’Aquila, il business dell’eolico in terra sarda. L’unica assoluzione di Verdini che si ricordi è quella a Firenze per l’infamante accusa di stupro, dopo la denuncia di una cliente della sua banca.
L’accordo di ferro dei renzusconiani
Il rapporto tra Verdini e Renzi è così stretto che quando in Forza Italia il cerchio magico di B. (la Badante Rossi, Toti e Dudù) ha cercato di rovesciare il tavolo del Nazareno, il toscano “Denis”, che viene dalla provincia come l’amico “Matteo”, ha fatto sapere a B. e in giro: “Se si rompe il patto me ne vado da Forza Italia e mi ritiro”. Nel patto segreto con il premier, Verdini ha investito anche il suo futuro in politica ed è per questo che è diventato l’ideologo del Pur, il Partito unico renzusconiano. Lo sherpa plurinquisito delle riforme è il punto più basso dell’accordo e con notevole ritardo se n’è accorto pure Pier Luigi Bersani, novello rivoluzionario della vecchia Ditta del Pd: “Da Renzi meritiamo lo stesso rispetto che lui ha per Berlusconi e Verdini”. E abbiamo detto tutto. Alessandro Di Battista, deputato grillino, ha scritto ieri su Facebook, rivolto al Pd: “Vi imploro, aprite gli occhi!”.
La palla passa ai parlamentari
Secondo le previsioni, oggi dovrebbe naufragare definitivamente il ticket Violante-Bruno per la Corte Costituzionale. I parlamentari del Movimento 5 Stelle ne ha chiesto ufficialmente il passo indietro. Se i due arriveranno al voto e finiranno sotto quota cinquecento (il quorum è 570) è probabile che si andrà su nomi nuovi. A dare il colpo di grazia alla coppia, in particolare a Bruno, è stata la notizia rivelata da Antonio Massari sul Fatto dell’inchiesta sul fallimento Ittierre in Molise. Per una consulenza da due milioni e mezzo di euro, il previtiano Bruno è stato iscritto nel registro degli indagati. Ma lui non si rassegna e continua a smentire, per tranquillizzare i suoi elettori renzusconiani: “Escludo qualsiasi tipo di condotta illecita posta in essere da me nella vicenda Ittierre. A oggi ribadisco che non ho ricevuto alcun avviso di garanzia. È evidente che qualora ci fosse un provvedimento di rinvio a giudizio non avrei nessuna remora a prendere le opportune decisioni”. Se oggi Bruno dovesse essere giubilato, sarebbe il secondo azzurro nel giro di due settimane. Il primo è stato il giannilettiano Antonio Catricalà, imposto da Berlusconi ma indigesto proprio a Verdini, che assecondò la rivolta dei ribelli forzisti contro l’uomo del Gran Visir andreottian-berlusconiano. E adesso il fallimento di Bruno, in base a sofisticati ragionamenti che circolano in vari ambienti bipartisan, potrebbe mostrare il vero volto del Nazareno. Renzi e Verdini (con Berlusconi) sceglieranno finalmente i loro candidati.

La Stampa 23.9.14
La Corte europea gela Berlusconi
“Ricorso non ancora preso in esame”
Sentenza Mediaset, il legale Longo aveva annunciato: è stato ammesso
di Marco Zatterin

Poche righe, secche e decise. «Nessuno dei ricorsi presentati da Silvio Berlusconi alla Corte europea dei diritti dell’uomo è stato sinora oggetto di una decisione sull’ammissibilità», afferma una nota del tribunale di Strasburgo, con un tono gelido che cela a malapena l’irritazione. Venerdì scorso l’avvocato Pietro Longo, che segue da sempre il capo dell’opposizione, aveva annunciato il via libera sull’esame dell’azione legale avviata «contro l’Italia» per la presunta illegittimità della sentenza di quattro anni comminata al termine del processo Mediaset. La reazione nel campo di Forza Italia era stata euforica: «Tornerò leader a tempo pieno», aveva annunciato l’ex premier. Sempre possibile, ma non subito, a vedere la reazione dei magistrati alsaziani.
Hanno ragionato per due giorni sulle «informazioni pubblicate di recente sulla stampa italiana», quelli della Ced, finché hanno ritenuto non fosse più il caso di restare in silenzio. «Notizie di positiva drammaticità», le aveva chiamate sabato «il Mattinale» di forzisti della Camera. Non esatte, si scopre adesso, e sfruttate da Berlusconi per ridare speranza ai suoi, chiedere un risarcimento e far balenare l’idea di una revisione del processo.
La Corte dice che dovrà aspettare. Una ricostruzione è che Longo abbia avuto notizia da una fonte amica dell’accoglimento formale di uno o più ricorsi. Quella che, spiega una fonte, «è la certificazione del fatto che la domanda è stata compilata correttamente». Passato questo ostacolo procedurale, la regola prevede che ci si muova verso il secondo stadio, in cui si ragiona sull’ammissibilità effettiva del ricorso. E’ qui che non siamo ancora arrivati. è questo che richiederà ancora molti mesi.
Il comunicato della Ced ricorda che sono tre i ricorsi di Berlusconi pendenti davanti alla Corte. «Il primo, che concerne l’applicabilità della legge Severino, è stato registrato il 7 ottobre con il numero 58428/13. Il secondo, registrato il 15 aprile di quest’anno con il numero 8683/14, riguarda la condanna per frode fiscale. Il terzo, registrato il 10 aprile 2014 col numero 23554/14, concerne la procedura civile per danni e interessi sul Lodo Mondadori». Nessuno, precisa la Ced, è ancora entrato nella fase di analisi in vista di un verdetto.
La facoltà di rivolgersi ala Corte è l’ultima ultima istanza quando tutti i livelli giudiziari nazionali non hanno soddisfatto il cittadini. Il caso della legge Severino, fa notare una fonte europea, è pertanto quello che rischia di più, perché la Strasburgo non può deliberare sul contenuto delle leggi, bensì sui loro effetti. A sentire le voci europee, comunque, non sembra esserci grande fretta. L’elevata politicizzazione del caso consiglia grande prudenza ai magistrati.
La nota della Corte «è apprezzabile» in quanto «aiuta a fare chiarezza rispetto alle notizie uscite sulla stampa», reagisce Forza Italia, che svela anche una «comunicazione ufficiale inviata dalla Corte» ai legali di Berlusconi: «Il presente ricorso (diritti tv) sarà portato all’esame quanto prima possibile sulla base dei documenti e delle informazioni da Lei forniti». Sugli altri nulla. Ma gli uomini di Silvio sono andati avanti lo stesso.

La Stampa 23.9.14
L’ombra del conflitto d’interessi sul candidato del Pd in Emilia
Balzani, sfidante di Bonaccini alle primarie, e gli affari nella sanità
di Antonio Pitoni

Fuori per abbandono Matteo Richetti, dentro Roberto Balzani. Nella corsa alle primarie del Pd per la candidatura a governatore dell’Emilia Romagna, l’ex sindaco di Forlì lancia la sfida a Stefano Bonaccini. Che, a differenza di Richetti, ha deciso di restare in pista nonostante l’avviso di garanzia che, nelle scorse settimane, lo ha raggiunto in merito all’inchiesta sulle spese pazze in Regione.
Balzani, invece, è appena uscito indenne da un’indagine della procura di Forlì, nata nel 2013 da un esposto anonimo circa presunti trattamenti di favore alla clinica Villa Serena (di cui l’ex sindaco è socio) da parte dell’Usl locale. Ma, anche dopo la richiesta di archiviazione, su di lui continua ad aleggiare l’ombra del conflitto di interessi. Per le sue partecipazioni azionarie in alcune società che operano nella sanità privata convenzionata, settore di competenza di quella stessa Regione che Balzani si candida ora a governare. L’ex sindaco di Forlì è proprietario dell’1,7% (valore 68.106 euro) della Vi.Se. spa, con capitale sociale di 4.003.998 euro. Il fratello Marcello possiede un altro 3,5% (140.106 euro) mentre la moglie del candidato alle primarie del Pd, Monica Mancini, ne detiene il 2,27% (90.899 euro). In totale, la famiglia Balzani è titolare del 7,47% della spa. La Vi.Se. è, a sua volta, proprietaria del 67,58% dell’Ospedale privato Villa Serena spa (capitale sociale 2.737.800 euro) che gestisce l’omonima clinica. Villa Serena spa, infine, è proprietaria al cento per cento di Ospedale privato accreditato Villa Igea spa (capitale sociale 165.360 euro). Ricapitolando, la Vi.Se. spa controlla Villa Serena che è proprietaria di Villa Igea.
Nel 2009, in vista delle elezioni a sindaco di Forlì, Balzani spiegava che «la mia partecipazione al capitale azionario dell’Ospedale privato Villa Serena, ereditata da mio padre e comunque largamente inferiore al 5% della società di controllo (la Vi.Se. spa, ndr) non mi ponga nella condizione di condizionare alcunché». E aveva preso un impegno preciso: «Nel caso diventassi sindaco abbandonerei immediatamente qualunque ruolo attivo nelle società». Lo avrà mantenuto? Effettivamente, il 2 dicembre 2009, qualche mese dopo l’elezione, alla Camera di commercio di Forlì-Cesena venne iscritto l’atto di cessazione dalla carica di consigliere vice presidente del Cda della Vi.Se. La cessazione dalle cariche dai consigli di amministrazione di Villa Serena e Villa Igea, invece, è stata iscritta pochi giorni fa, il 17 settembre. «Solo perché, dopo la fine del mio mandato di sindaco, il 25 maggio, i soci mi hanno rieletto nei cda delle sue società, ma, in entrambi i casi, ho rifiutato per ragioni di opportunità», chiarisce Balzani a «La Stampa».
Resta comunque un dubbio. Se eletto governatore dell’Emilia Romagna come potrà occuparsi di sanità senza la tentazione di favorire società di cui è comunque proprietario? «Esistono strumenti giuridici che, preservando i legittimi diritti degli eredi, impediscono che ipotesi di questo genere possano verificarsi. Penso, ad esempio, al blind trust. Ovviamente mi riferisco alle quote di mia proprietà e di mia moglie, nulla potendo rispetto a quelle di mio fratello», promette Balzani.

il Fatto 23.9.14
Inchiesta nigeriana L’Ad in difesa (con autogol)
Tutti i guai di Descalzi, l’Eni annaspa
di Stefano Feltri

Per Claudio Descalzi, l’amministratore delegato dell’Eni, ogni giorno è peggio. Ieri il titolo dell’azienda energetica è sceso del 3,21 per cento a Piazza Affari. Effetto fisiologico dell’acconto del dividendo 2014, 0,56 centesimi per azione, deciso mercoledì scorso? Sicuramente, ma anche del clima negativo attorno al gruppo dopo che i giornali hanno rivelato l’avviso di garanzia a De-scalzi. L’accusa è di aver partecipato a un complesso affare in Nigeria: l’Eni comprava un colossale giacimento dal governo, ma decine di milioni sono finiti su conti svizzeri. Dovevano andare ai mediatori, il nigeriano Obi e gli italiani Luigi Bisignani e Gianluca Dinardo, ma anche ai manager Eni, inclusi l’ex Ad Paolo Scaroni e Descalzi. Questa l’accusa (anche se i soldi poi sono stati fermati in Svizzera).
Dopo aver incassato il colpo, Descalzi ha reagito. Con risultati discutibili, chissà se colpa del suo carattere meno istrionico di quello di Scaroni, o della riduzione annunciata del budget destinato a pubblicità e giornali (200 milioni) oppure dell’uscita dall’azienda dello storico capo delle relazioni esterne, Stefano Lucchini. Scaroni, indagato per la presunta mazzetta nigeriana ma anche per un’operazione della controllata Saipem, riusciva a stendere una cortina di silenzio attorno all’azienda. Descalzi no. La scelta di affidare il suo punto di vista a Gad Lerner, in un colloquio su Repubblica di domenica, gli si ritorce contro. Lerner nota che il manager ha “la voce strozzata dal pianto”, e un capo azienda in lacrime non è quello che vogliono vedere i grandi fondi internazionali azionisti dell’Eni. Descalzi dice a Lerner: “Da mesi io non prendo più le chiamate di Scaroni, qui dentro sto cambiando tutto”. Ma sul Giornale esce un informato (e velenoso) articolo del vicedirettore Nicola Porro secondo cui Descalzi “non prende le chiamate di Scaroni ma pare che accetti gli inviti a cena. Un tavolo per pochi, compresa sua moglie congolese Madò”. L’ad Eni capisce il messaggio e si trova costretto a smentire se stesso, smentita sollecitata da Bisignani in un’intervista al Fatto: non comandava solo Scaroni sull’Eni e “non è vero che non parlo da mesi al telefono con Scaroni”. L’offensiva mediatica di De-scalzi prosegue sulla Stampa, dove appare un retroscena del vice direttore Francesco Mana-corda sul “futuro dell’Eni” che avverte: “L’indagine sul manager potrebbe indebolire il processo di rinnovo”: più esplorazione che raffinazione, asse Nord-Sud invece che Est-Ovest, ulteriore vendita di preziosi giacimenti (come faceva Scaroni per far tornare i conti), vendita di Saipem. Il senso è chiaro: Descalzi sta ribaltando le scelte strategiche di Scaroni, le inchieste possono solo danneggiare lui e l’azienda. Che è quello che ha detto il premier Matteo Renzi in Parlamento. Lo riconosce anche l’ultima relazione semestrale dell’Eni, firmata da Descalzi: i processi per corruzione contro l’Eni possono determinare “significative perdite nei prossimi anni”.
Il contesto non è facile. Ma poteva essere peggiore: come ricorda il senatore Pd Massimo Mucchetti, oggi Renzi è garantista con Descalzi che ha voluto alla testa dell’Eni sei mesi fa. Ma il premier, ad aprile, invocava la modifica dello statuto Eni chiesta dal governo Letta: i manager imputati (Descalzi, come Scaroni, è solo indagato), decadono e non sono eleggibili. “È vero quello che dice Scaroni, il criterio di onorabilità non c’è negli altri Paesi ma noi siamo contenti che ci sia”. L’assemblea degli azionisti ha poi messo in minoranza il Tesoro, che ha il 30 per cento, e la clausola non è passata. E Renzi deve aver cambiato idea. Ma la situazione di Descalzi è sempre più complicata.

il Fatto 23.9.14
Il coraggio dei pm tra silenzio e veleni
di Gian Carlo Caselli

Palermo: bella, antica e nobile. Ma protagonista – ieri come oggi – di vicende complesse, a tratti indecifrabili. Spesso ambigue. Di conseguenza, coloro che nella città hanno posizioni di responsabilità svolgono un compito difficile. In particolare tutti coloro che devono affrontare problemi riconducibili al mondo infido della mafia, con magistratura e forze dell’ordine in prima linea per il loro ruolo istituzionale. “Cosa Nostra” per lunghissimo tempo è stata l’organizzazione criminale più pericolosa al mondo, rafforzata da torbide alleanze con pezzi consistenti del mondo legale. Lo Stato ne ha delegato il contrasto quasi esclusivamente a giudici e polizia. Come se fosse un problema di ordine pubblico da considerare solo in situazioni di emergenza (quando scorre il sangue): dimenticando che la storia della mafia è sì violenza, ma anche straordinaria capacità di condizionamento, che ha fatto di un’associazione criminale un “sistema” di potere criminale.
Ma nel delegare, lo Stato pone un limite (mai esplicitato e tuttavia ben riconoscibile) da non oltrepassare, soprattutto nel campo delle complicità politiche-economiche-istituzionali che del potere mafioso sono la vera spina dorsale. Per oltrepassare questo limite ci vuole coraggio, perché farlo significa attirarsi attacchi e calunnie assortiti. Si comincia con il classico “professionisti dell’antimafia” o peggio “giustizia politicizzata” e si finisce (non senza passaggi intermedi di varia infamità) con gli anonimi, i corvi e i veleni.
È SUCCESSO al pool di Falcone e Borsellino; è successo, dopo le stragi, ai magistrati che hanno processato – fra gli altri – Andreotti e Dell’Utri; si sta ripetendo oggi per il convergere di molteplici fattori. E sempre, in ogni fase, tutto va ricondotto a un quadro mediatico-politico che assegna alla Sicilia una posizione di rilievo centrale, in quanto formidabile bacino di voti.
A rendere la situazione di oggi particolarmente “difficile” contribuisce innanzitutto il processo sulla “trattativa”, che è entrato nella fase nevralgica della verifica dibattimentale.
Un processo che basta leggere il capo d’imputazione (col suo intreccio di boss, uomini politici e ufficiali del Ros) per rendersi subito conto che inoltrandosi in questo “labirinto” insidioso i pm han dato prova di coraggio e senso del dovere al servizio della ricerca della verità. Per cui meritano, quali che possano essere le conclusioni del processo, un sincero apprezzamento e non le contumelie con cui spesso vengono gratificati.
IL CLIMA È avvelenato anche dalle furibonde polemiche che alimentano, in una specie di guerra di religione, quegli “osservatori” che sono convinti di possedere verità assolute, anche quando in realtà si tratta di presuntuose semplificazioni cinematografiche. Le difficoltà sono poi appesantite dalle ricadute del conflitto di attribuzioni sollevato dal capo dello Stato (sia pure allegando di voler tutelare il proprio successore) verso la procura. Che in un momento così difficile avrebbe bisogno di poter contare su un organico completo, mentre manca addirittura il capo.
Il Csm (individuato in commissione referente il candidato con più titoli) era a un passo dalla nomina, ma ha dovuto accantonare tutto – su segnalazione del capo dello Stato – finché non saranno coperte le sedi divenute vacanti prima di Palermo. Una novità nella prassi consiliare, che significa rinviare Palermo a chissà quando, anche al netto della travagliata nomina dei componenti laici del nuovo Csm.
Fa da cornice al tutto, intorbidando ulteriormente le acque, la singolare logorrea di Riina, che con lo strano aiuto di un assillante compagno di galera, interviene sproloquiando su un’infinità di argomenti, processo compreso, oltre a manifestare sentimenti di odio profondo e desiderio di vendetta cruenta nei confronti di Nino Di Matteo che del processo è il pm di punta. Ed ecco che in questo contesto già di per sé “difficile”, piombano come macigni le intromissioni nella sfera privata e professionale (con un evidente corredo di pesanti intimidazioni e minacce) che hanno colpito Roberto Scarpinato, procuratore generale di Palermo, Roberto Tartaglia, altro pm del processo “trattativa” e il procuratore di Trapani, Marcello Viola.
È EVIDENTE che il livello di guardia deve essere innalzato al massimo. E che intorno ai magistrati più esposti deve ergersi un argine di solidarietà e sostegno da parte di tutti: istituzioni, società, cultura e informazione.
È inconcepibile che siano lasciati soli proprio coloro che rischiano la vita per dare serenità e sicurezza a tutte le persone oneste.

il Fatto 23.9.14
Il nostro triste e muto Parlamento senza qualità
di Furio Colombo
qui

La Stampa 23.9.14
Scarafaggi
di Mattia Feltri
Increscioso episodio ieri alla Camera dei deputati: intorno all’ora di pranzo alla mensa è comparso uno scarafaggio che l’AdnKronos definisce «di generose proporzioni». Sconcerto, spavento e anche ribrezzo, soprattutto per il motivo che a quell’ora la mensa era frequentata da alcuni parlamentari. «Mi sono davvero preso un colpo, anche perché è la prima volta che vedo qua dentro uno di quei cosi grossi, sporchi e voraci», ha detto lo scarafaggio.

il Fatto 23.9.14
W droga e sesso: il “nuovo Pil” evita al governo la manovra
Coi criteri statistici voluti dall’Ue il prodotto dal 2011 risulta più ricco di 60 miliardi l’anno, il doppio delle stime
Risultato: non sforeremo il 3%
di Marco Palombi

Dio benedica l’Istat e il nuovo metodo europeo di calcolo del Pil (il cosiddetto Sec 2010), quello che conteggia le attività illegali come droga e prostituzione e, tra l’altro, inserisce i costi di ricerca e sviluppo tra gli investimenti. Se Matteo Renzi non l’ha pensato è un ingrato: aveva detto che sarebbe stata “robetta” e gli esperti parlavano di una revisione al rialzo tra l’1 e il 2% e invece dai dati diffusi ieri il Prodotto italiano nel 2013 coi nuovi metodi di calcolo è risultato più grande di 58,8 miliardi, cioè del 3,8% rispetto a prima (stesse grandezze, all’ingrosso, per il 2011 e 2012). L’effetto è benefico pure per i conti pubblici, ovviamente: il debito dello Stato al 31 dicembre scorso, ad esempio, cala in rapporto al Pil di oltre quattro punti e mezzo (al 127,9% invece che 132,6) ; il deficit migliora di 0,2 punti e passa dal 3% al 2,8.
OVVIAMENTE non cambia niente, non siamo davvero più ricchi e come vedremo la recessione è tutt’altro che finita, ma per il governo è un’ottima notizia. Il Tesoro, infatti, sta riscrivendo il Documento di economia e finanza (Def) proprio coi nuovi criteri statistici e l’effetto sui numeri anche se per il 2014 non ufficiali dovrebbero essere gli stessi: lo dice la serie storica Istat col nuovo calcolo (l’aumento nominale è sempre attorno ai 60 miliardi) e alcune indiscrezioni parlamentari. La cosa non è senza effetti per la vita travagliata di Pier Carlo Padoan e del suo premier: significa che per il 2014 nonostante il peggioramento del quadro generale probabilmente non sarà necessaria una manovra per restare sotto il 3% nel rapporto deficit/Pil (non che Renzi avesse intenzione di farla comunque il Sec 2010 gli regalerà almeno uno 0,2%, tre miliardi e un po’) e una bella mano potrebbe arrivare anche sul 2015. Tradotto: se vuole confermare gli 80 euro, il taglio dell’Irap e tutte le altre cosette annunciate (a partire dai nuovi ammortizzatori sociali post-Cassa integrazione) deve tagliare sempre 20 miliardi nel 2015 come promesso, ma almeno non farà fatica a tenersi lontano dal rispetto dei parametri di Maastricht (dando per scontato che le previsioni del Fiscal compact, tipo il pareggio di bilancio, rimarranno solo sulla carta intestata di Bruxelles).
I motivi per gioire, però, finiscono qui. Per quanto attesi, al ministero dell’Economia hanno guardato con terrore ai dati pubblicati ieri (l’Istat dà e l’Istat toglie) sull’industria italiana: il fatturato del settore, a luglio, ha fatto registrare un calo dell’1%, che contribuisce a produrre un calo cumulato per i primi sette mesi dell’anno dell’1,3; sempre a luglio anche gli ordinativi sono risultati in discesa (per il terzo mese di fila) di un rilevante -1,5% con un risultato negativo su base annua 0,7.
Numeri che certificano, anche solo intuitivamente, che il Pil italiano cresce solo grazie ai nuovi metodi statistici, mentre nella realtà la situazione è persino peggiore di quella che l’opinione pubblica e la politica sembrano percepire.
Questi due numeri sono infatti assai più preoccupanti nel momento in cui si scende nei dettagli. La prima notazione, e forse la più importante, è che tanto il fatturato che le commesse calano sia in Italia che all’estero: il buon andamento delle esportazioni, finora, era l’unica notizia positiva sull’economia italiana di questi ultimi anni. Ora anche la domanda estera crolla.
IL SECONDO dato notevole è che la dinamica degli ordini all’industria è considerato un dato spia, nel senso che è capace di anticipare l’andamento del ciclo di sei-otto mesi: ebbene quell’indice è in calo da tre mesi. Spiega Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma, il centro studi fondato da Romano Prodi: “Il dato Istat sul fatturato di luglio è in linea con quello, già noto, relativo alla produzione industriale. Inoltre non è solo il mercato interno a flettere: anche quello estero si è indebolito durante l’estate. Più preoccupante è l’informazione sugli ordinativi che prefigurano la tendenza futura”, prosegue De Nardis: “Il calo rilevato in luglio segnala la prosecuzione della fase negativa sul mercato interno e ancor più su quello estero. Questi indicatori sembrano puntare a un terzo trimestre peggiore del secondo. Essi ci dicono inoltre che la recessione, iniziata a metà 2011, non si è mai interrotta”. E ancora c’è da aggiungere non si sono manifestati appieno gli effetti delle sanzioni economiche alla Russia, paese in cui esportiamo abbastanza. A questo punto bisogna solo capire se arriveranno prima le elezioni o il brusco risveglio degli italiani.

Repubblica 23.9.14
L’amaca
di Michele Serra

MOLTI storcono il naso per il “ricalcolo” del prodotto interno lordo comprensivo dei proventi illeciti (prostituzione, droga, malavita), sia pure calcolati in modo presunto. Effettivamente, anche se non è quella l’intenzione, l’effetto è di oggettivo sdoganamento di attività non solo fuori legge, ma spesso violente e umilianti. Ma specie in paese come il nostro, qualcosa ci dice che il concetto di “ricchezza nazionale” non può essere misurato solo compulsando scartoffie: e in questo senso anche il precedente Pil “pulito” non era meno discutibile di quello nuovo e “sporco”. La vita delle persone, il loro benessere, la loro salute fisica e mentale, la loro sopravvivenza alla penuria e alla crisi non sono una somma di numeri, sono un intreccio di quantità e di qualità poco percepibili con la mera misura economica. Eppure la misura economica, così arbitraria, è ciò che regola da molto tempo, con ferrea determinazione, le scelte politiche dei governi nazionali e dell’Europa. Nessun altro criterio sembra poter fare breccia, tanto che la crisi della politica è riassumile soprattutto nella sua totale impotenza di fronte all’economia. E dunque non è una cattiva notizia che criteri considerati aurei e intoccabili, come quelli utilizzati per calcolare il Pil, siano soggetti a possibili variazioni. È una morsa che si allenta. Un Verbo che diventa un po’ meno dogmatico.

il Fatto 23.9.14
Omicidio e corteo
Scene di guerra etnica a Torpignattara “Non viviamo più”
Il quartiere con il 17enne che ha ucciso un pachistano
E anche il barista cingalese dice: “Troppi stranieri”
di Antonello Caporale

Imi, il barista cingalese, non manda sua figlia alla scuola del quartiere, la Pisacane. “Ci sono troppi stranieri”, dice. Le parole di Imi rappresentano il centro di gravità del paradosso di Torpignattara, spicchio violento di Roma, adagiato tra la Casilina, appena dietro a Porta Maggiore, appena fuori dall’orizzonte del centro storico. Quello che Pasolini definiva una Shanghai di orticelli è divenuto teatro stabile della criminalità metropolitana. Non è vero, non è così, ma certo che Roma solo da qualche giorno sembra essersi accorta che esiste Torpignattara, stupìta dopo aver appreso che un corteo si è formato per difendere Daniel, il 17enne che ha colpito a morte un pachistano insolente, sicuramente ubriaco, sicuramente a spasso per le vie della zona, come tanti, troppi lo sono appena l’alcol fa il suo corso. Roma pensava di tenere quella gente nascosta sulla Casilina, dopo aver assistito, senza muovere un dito, a come si gonfiava di collera.
COME LA PANCIA di una rana, Torpigna – così i residenti la chiamano – negli ultimi anni ha ingoiato migranti di tutte le nazionalità, di ogni età e propensione. Cingalesi e cinesi, rumeni, maghrebini o trans sudamericane dal carattere violento, spesso spacciatrici. Negli ultimi anni gli scantinati sono divenuti case multiuso, i garage trasformati in efficienti Money Transfert o anche in piccole moschee, le aiuole in luoghi di sosta e di transito dell’eroina. Torpignattara non è uno spuntone abusivo della Capitale, ma un quartiere normale a uno sputo da piazza San Giovanni, con una edilizia che a tratti si fa gradevole, una pianta urbanistica decente, un luogo dignitoso in cui vivere. Poi la svolta. Il passaparola della comunità cingalese, e l’ospitalità pelosa dei residenti che a suon di euro hanno affittato le cantine a chiunque ne facesse richiesta, ha fatto sì che in pochi anni i dimoranti si vedessero circondati da famiglie assai allargate del Sud-est asiatico, o clan romeni, gruppi ucraini, o anche tunisini e marocchini. Banglatown, scrive Shaima sul suo biglietto da visita di stiratrice. Banglatown e naturalmente Chinatown. E se il rapporto demografico tra italiani e stranieri nella popolazione adulta è ancora a favore dei primi, tra i bambini non c’è partita. Si parla orientale.
“È una bugia dire che sia invivibile questo posto, ma è una verità affermare che questo miscuglio di etnie provoca difficoltà quotidiane. Se in venti vivono in un sottoscala è chiaro che faranno la fila per andare a dormire, ed è superfluo aggiungere che le loro necessità, il loro tempo lo trascorrono sul marciapiedi, davanti casa. Normale per loro, per te un po’ meno”, dice Fabio che abita appena prima del Parco degli acquedotti, una radura di erbacce e siringhe, uno spazio abbandonato dal Municipio, dimenticato da ogni autorità.
QUALCHE MESE FA una donna fu stuprata, e non era notte fonda. Se l’era cercata forse? E il cinese, titolare di uno delle decine di Money Transfert, e sua figlia che vennero uccisi tre anni e mezzo fa? Quella loro attività era adiacente alla stazione dei carabinieri. Significa che manca ogni controllo del territorio in un luogo dove invece lo Stato dovrebbe farsi vedere. Invece cos’è successo? Che il commissariato di polizia non c’è più (i tagli fanno il loro corso, come si vede) e ogni luogo dove la vita comunitaria potrebbe prendere forma resta sepolto dal nulla, interdetto alla vita. Via della Marranella, dall’altro lato della Casilina, aspetta una piazza. È in costruzione, da tempo immemore si è nel perenne assaggio della sua inaugurazione. Persino le aiuole sono divenute una rarità, e i diversi comitati civici combattono perché non sia tolto il minimo vitale. Si ritrovano su Facebook, scattano foto (“ecco la siringa trovata sul citofono del mio palazzo”, scrive Rosalba), si organizzano. L’unica piazza è un cantiere, l’unico cinema, l’Impero, è chiuso e pericolante. Torpignattara sembra la destinataria naturale di un lungo elenco di omissioni. Tutta la polvere di Roma è stata nascosta quaggiù, nella speranza che nessuno vedesse e nessuno sentisse la puzza dell’illegalità. Chiunque ha potuto fare quel che ha ritenuto utile: un gruppo di romeni ha occupato un intero stabile. Si sono piazzati qui, in via Rovetti e sono urla quotidiane. Romeni contro trans, appostate in coabitazione sul marciapiede opposto. Di là, oltre via Serbelloni l’ordine è garantito da un barista con un notevole passato giudiziario. “Nun ce la famo più”, dice Aldo, ferroviere in pensione. La terza età italiana è riposta su un lato della via principale, all’angolo di via Casilina, e assiste, bar di fronte all’altro, alla gioventù cinese, al via vai di ombre che animano il retrobottega, al corso silenzioso degli affari a volte illeciti e alle volanti della polizie che a scadenze regolari perquisiscono, fermano, arrestano.
Poi tutto riprende il suo solito standard. I cingalesi non fanno ammuina pubblica, ma i conti li regolano tra di loro e a volte capita di vederli prendersi a cinghiate. La crisi fa divenire insopportabili gli alcolisti, che aumentano di numero, e sono diventati anche violenti. Sembra che il pachistano ucciso qualche giorno fa avesse sputato in faccia a Daniel, insolentito con parolacce, e lui, questo diciassettenne che il quartiere difende con un corteo, figlio di una famiglia perbene e devota, si è trasformato in pugile. Del resto è così che si fa?

La Stampa 23.9.14
Immigrati attaccano gli autobus. E a Roma scatta la rappresaglia
”Guerra fra poveri” in periferia. Tutto è cominciato per un pullman in ritardo
La violenza inascoltata della periferia Est di Roma
Raccolta di firme ieri sera contro i centri di accoglienza per rifugiati nel quartiere di Corcolle
di Francesco Grignetti
qui

Repubblica 23.9.14
Due autiste aggredite, i finestrini sfondati a colpi di pietra Così a Corcolle è scattata la rappresaglia contro gli stranieri “Da qui se ne devono andare. E se restano li costringeremo a non uscire più di casa”
Bus assaliti, ronde anti neri nella banlieue di Roma in guerra con gli immigrati
di Federica Angeli

ROMA «Qui i neri non li vogliamo: devono andare via». Due autobus che corrono nella landa della periferia romana accerchiati da una quarantina di immigrati. Sassi e bottiglie che volano, finestrini in frantumi, autiste terrorizzate alla guida che cercano di sfuggire all’assedio. Ed ora qui a Corcolle, a est di Roma, è rivolta. «Abbiamo già cominciato domenica sera e continueremo a oltranza a fare ronde nel nostro quartiere: gli immigrati non devono più girare per le nostre strade». Alle 18 scatta il coprifuoco per i profughi: nessuno di loro può lasciare il centro che li ospita. E alle 20 in cento sfilano per le strade al grido di «qui gli immigrati non li vogliamo». Sono gli stessi che domenica notte sono scesi a manifestare contro gli extracomunitari della zona dopo aver saputo dei due assalti ai bus. «Non ce la facciamo più — sostiene Rita Cavi — non è questione di razzismo, ma non si può più scendere in strada: i marciapiedi sono occupati da gruppi di extracomunitari che bivaccano».
Nella periferia più grande della capitale — 1.700 strade che si intrecciano a cavallo del Grande raccordo anulare — la rabbia degli «onesti» (così si definiscono) è esplosa con una inaspettata violenza. «Non siamo razzisti », spiegano più volte, ma soltanto «cittadini stanchi che si trascinano la rabbia di chi non riceve risposte concrete dalle istituzioni, di chi ha subìto per anni senza mai vedere soluzioni ». Le due aggressioni in due giorni contro autobus dell’Atac guidate da donne sono state la miccia che ha fatto esplodere una bomba a orologeria. Sabato sera lungo l’arteria principale di Corcolle, via Polense, alla guida del bus 042, Elisa De Bianchi, 32 anni, è stata accerchiata da «quaranta immigrati di colore — racconta — che volevano salire alla fermata. Non ho aperto le porte, ho avuto paura, e loro hanno spaccato un vetro della vettura lanciando una bottiglia di birra. Al ritorno mi hanno aspettato, accerchiato di nuovo, insultata e minacciata di morte». Stessa scena domenica quando, spiega un’altra autista, Federica Galesso «in via Formignano alcuni stranieri hanno lanciato sassi contro il bus della linea 508». E quando in serata si è sparsa la voce del secondo assalto, alcuni residenti sono scesi in strada e hanno dato vita a una ronda contro gli immigrati picchiando tre extracomunitari scesi da un bus. Due sono riusciti a fuggire.
Il tempo delle parole sembra ormai essere finito in quel pezzo di città dove, a detta di chi ci vive, finisce tutto quello che Roma rifiuta. Ma è davvero così drammatica la vita di questa periferia? «Qui la situazione è esasperata — spiega il presidente del VI municipio, Marco Scipioni — c’è un allarme sociale che resta inascoltato. È assolutamente necessario allontanare gli immigrati dal nostro municipio: il 50% dei rifugiati ospitati a Roma, ovvero circa 2000 persone, si trova nel nostro municipio gravato già dal campo nomadi più grande della città e da altri campi abusivi. Ho segnalato la cosa più volte 2-3 mesi fa al Campidoglio ma non ho ricevuto alcuna risposta ». L’ostilità cresce di ora in ora tanto che se si prova a parlare con gli immigrati — una quarantina di stranieri arrivati dal Maghreb e dal Ghana 5 giorni fa — ospitati in una palazzina di via Novafeltria, ad aprire il cancello sono tre stranieri che indossano maglie con scritto “Security”. Non vogliono parlare di quanto accaduto due giorni fa. «Ci è stato chiesto, per motivi di ordine pubblico e in attesa di nuove indicazioni da parte della Prefettura di tenere i migranti all’interno del centro perché sarebbe rischioso farli uscire in questo momento », fa sapere Paolo Berti, coordinatore dell’area asilo e immigrazione Cara. Uno di loro però, a cancelli chiusi, si avvicina alla rete e spiega che nel quartiere non li accettano e che gli autisti dell’Atac quando li vedono alle fermate non si fermano e tirano dritto. Appena 5 giorni fa il presidente del comitato di quartiere Danilo Proietti era stato lì per chiedere ai nuovi arrivati se volessero contribuire insieme ai cittadini a pulire assieme i giardini del quartiere. «Non deve passare l’idea che siamo razzisti, qui non faremo ronde».
Tuttavia il clima è tesissimo e lontano da logiche di convivenza pacifica. Si avvicina l’ora del tramonto. Il dirigente del commissariato Casilino, Francesco Zerilli, assicura che: «qui non ci sarà nessuna giustizia fai da te», tanto che volanti e gazzelle si alternano in turni di vigilanza 24 ore su 24 fuori dal palazzo di via Novafeltria. E alle 19 arrivano tre camionette blindate.
«Stiamo lavorando sugli ultimi due episodi, ma le assicuro che non abbiamo registrato alcuna impennata di denunce che vedono protagonisti questi profughi ».
Ronde e rabbia sono dunque un pretesto di un clima di intolleranza razziale che sta inghiottendo la periferia? Se così fosse certo la politica — di destra — non stempera il clima. Al contrario gettato per tutto il giorno benzina sul fuoco con slogan quali «il limite della tollerabilità è stato ampiamente e definitivamente superato» (Giordano Tredicine, vice presidente dell’assemblea capitolina) e «basta buonismo, è arrivata l’ora di alzare la guardia » (Alemanno). Francesco Storace, capogruppo del La Destra in consiglio regionale, parla di rintracciare gli «appartenenti alla tribù che ha tentato il linciaggio», il leghista Mario Borghezio di «invasione di centri per immigrati a Corcolle» dove si dice «pronto a battersi al fianco dei cittadini ». «Borghezio? Io qua non l’ho mai visto e mai lo vedrò. Per questo ci faremo giustizia da soli», dice Claudio D’Amato. A Corcolle non c’è più spazio neanche per il gioco delle parti.

il Fatto 23.9.14
Spaghetti&mandolino l’Opera fa scena Muti
La grande tristezza del Maestro che lascia Roma alle sue guerre di cortile
“Volevo solo lavorare tranquillo”
Lo scaricabarile di sindaco e ministro
di Emiliano Liuzzi

Negli intrecci che corrono tra i palazzi, il maestro Riccardo Muti rischiava di rimanere stritolato e da solo, con la bacchetta in mano senza un’orchestra. E da Chicago ha fatto sapere che non avrebbe diretto più l’Opera di Roma. Via la sua firma, via il suo volto che doveva spingere la campagna abbonamenti. Rischiava di rimanere intrappolato in una battaglia sindacale alla quale assisteva da lontano e che non aveva la minima intenzione di giocare. Così, dopo quattro giorni di trattativa via telefono, la lettera scritta da Muti è stata tirata fuori dai cassetti dei destinatari, in primis il sindaco Ignazio Marino e il sovrintendente dell’Opera, Carlo Fuortes. Muti lascia, e il gesto vale più di qualsiasi parola. Non è Roma, ma è il Paese che offre la sua vera immagine.
CORRE l’indignazione del giorno dopo, quella del ‘c’ero, ma non sapevo’. Primo della lista, il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini: “Capisco le ragioni che hanno portato il maestro Muti alla scelta, dolorosa per lui e per tutti, di interrompere il rapporto con l’Opera, ma spero che almeno questo faccia aprire gli occhi a tutti quelli che ostacolano, con resistenze corporative e autolesioniste, l’impegno per quel cambiamento che la musica e la lirica italiana attendono da troppo tempo per stare al passo coi tempi e per cui lo Stato è impegnato con convinzione e risorse”. Convinzione forse, risorse un po’ meno, sicuramente in caduta libera rispetto al passato, quando veniva finanziato l’88 per cento della spesa delle fondazioni. Accadde poi che con il governo Monti la misura è stata dimezza ed è accaduto che nella crisi sono finiti tutti. Certo, restare col cerino in mano il giorno nel quale Muti dall’America scarica “la grande bellezza” romana può essere rischioso. E a seguire Franceschini è arrivato il sindaco Ignazio Marino, una delle tantissime grane in più della sua amministrazione, che parla di una scelta “una scelta senza dubbio influenzata dall’instabilità in cui versa l’Opera a causa delle continue proteste, della conflittualità interna e degli scioperi durati mesi, che hanno portato alla cancellazione di diverse rappresentazioni con gravi disagi per il pubblico internazionale e nazionale che aveva acquistato i biglietti”. E ancora: “Non esiste nessun problema tra il maestro Muti e il Comune di Roma”. Un problema in realtà ci sarebbe: Muti non ci sarà. Roma perde un’eccellenza, il mondo della lirica sarà ancora più fragile, l’immagine dell’Italia torna a quella che è sempre stata: “Spaghetti e mandolino. Forse qualche mozzarella di bufala importata dall’imprenditore guru del governo Renzi, Oscar Farinetti”. Con un Muti che manda i suoi saluti, il sindaco Marino può portare tutti i Rolling Stones che vuole. Colpa degli scioperi, probabilmente, ma se gli orchestrali hanno delle rivendicazioni da fare qualche motivo da portare sul tavolo ce l’avranno. E al ministro non le manda a dire Alberto Manzini, segretario generale della Slc Cgil di Roma: “Sarebbe bene che Franceschini si domandasse se questa non sia la conseguenza di una scelta politica volta allo smantellamento della lirica in Italia”.
Tradotto in numeri, significa che in dieci anni i teatri lirici hanno perso più di 250 milioni di euro e accumulato debiti per 328 milioni. È in crisi il Massimo di Palermo, il Petruzzelli di Bari e il Maggio di Firenze, ma anche il San Carlo di Napoli e La Fenice di Venezia. A dicembre dello scorso anno tutti avevano chiesto fondi salvezza.
A ROMA, con molta fatica la situazione è sempre stata abbastanza contenuta. E il lavoro di Muti era stato eccezionale. Nel 2011 aveva accolto l’incarico, a titolo gratuito e con pieni poteri, di diventare direttore onorario a vita. Una questione però aveva posto: “Voglio tranquillità”. E c’è stata. Poi tra debiti che sono apparsi all’improvviso e tenuti nascosti anche agli organi direttivi, e rivendicazioni sindacali senza risposta, il tappo è saltato. Muti che, insieme alla professionalità, garantisce un carattere duro e deciso, non ci ha pensato un attimo. E ha chiuso la sua esperienza. Non solo: anche Micha van Hoecke, direttore del corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma dopo la decisione presa dal maestro di non dirigere più i due titoli in cartellone, Aida e Le nozze di Figaro, spiega che non ha più senso rimanere a Roma.

il Fatto 23.9.14
Il critico Paolo Isotta
Riccardo? Gli hanno teso una trappola
di Silvia Truzzi

Siccome Paolo Isotta, decano dei critici musicali europei e firma del Corriere della Sera, è uno dei più intimi amici di Riccardo Muti, gli abbiamo chiesto lumi a proposito del gran rifiuto del maestro. La risposta, ancor prima dei convenevoli, è lapidaria: “Muti è caduto come un allocco nella trappola preparatagli da chi voleva farlo fuori dall’Opera di Roma”.
Un tranello ordito da chi?
Si figuri se lo so io! Però so a chi fa piacere che lasci l’Opera come direttore attivo e in pratica come direttore musicale, sostenuto da un direttore artistico di primissima categoria come Alessio Vlad.
Dice che c’è qualcuno cui può far piacere un addio così clamoroso e che costituisce un
bel danno d’immagine per le istituzioni culturali italiane?
Allora, io espongo un mio sospetto. Al sindaco di Roma Marino dà un enorme fastidio che il Teatro della Capitale sia in mano al più grande direttore d’orchestra vivente, cosicché a ogni pie’ sospinto lui deve preoccuparsi e preoccuparsene. Per un qualunque sindaco – a parte quello di Milano che ha la Scala – il Teatro dell’Opera della propria città, è una cosa da sottogoverno: la presenza di una grande personalità come Muti gli sottrae energie. Poi c’è il soprintendente Fuortes, da lui nominato. Costui è un egolatra che vuole comandare: la presenza di Muti fa ombra al suo ego e lo disturba nello scritturare le sue delizie dell’anima. Le faccio un esempio: un certo Rustioni e un certo Stefano Montanari, fra i peggiori direttori d’orchestra che conosco. Inoltre tra i favoriti di costui c’è Pappano.
Ovviamente si è aperto un totonomi per la successione. Pensa che Fuortes voglia mettere Pappano al posto di Muti?
Non dico questo: Pappano sta cercando un posto all’estero per quando avrà lasciato Santa Cecilia: anche se occorre vedere se e dove lo troverà. Ma forse Fuortes chiamerà Pappano a dirigere l’Aida in luogo di Muti. Inoltre anche al ministro Franceschini fa comodo che Muti se ne vada: è un problema di meno. Non è un uomo di grande coraggio: già si deve preoccupare della Scala... Dimenticavo: in questa partita c’è Salvo Nastasi, direttore generale dello Spettacolo al Mibact, che nel bene e nel male è una personalità. E delle personalità il ministro si spaventa. Franceschini, Marino e Fuortes avrebbero l’elementare dovere di offrire le dimissioni e le forze politiche – tutte – di esigerle.
Scusi: ha delle informazioni che supportano queste tesi?
Sono soltanto mie intuizioni. Ma pensi al comportamento del mio giornale, il Corriere della Sera. Ieri nessuno mi ha chiamato e oggi vedo la cosa trattata invece che da me da un Valerio Cappelli cocco di Ferruccio de Bortoli e vicino sia a Fuortes che a Pappano. E naturalmente da Armando Torno.
I dissapori nelle redazioni sono come quelli tra moglie e marito, meglio non metterci il naso....
Ah no, parlo a ragion veduta. Torno scrisse la recensione dei Troiani di Berlioz alla Scala, diretti da Pappano, quando de Bortoli mi estromise tal quale ieri, senza che nessuno avesse mai capito il perché di tale decisione. Ogni volta che ai miei danni c’è da ostentare cupiditas serviendi verso de Bortoli, Torno è sempre in prima linea.

Corriere 23.9.14
Il regista dell’«Aida»: non me lo aspettavo, ha avuto coraggio
di Laura Martellini

ROMA — Insieme avrebbero dovuto inaugurare la stagione del Teatro dell’Opera di Roma, il 27 novembre. Un’Aida fra modernità e tradizione, senza eccessi, «come piace al maestro». Ora il regista Pier ‘Alli, dopo la rinuncia di Riccardo Muti, non si dà pace.
Come si sente?
«Sono sconfortato, e anche amareggiato. È stato un colpo di scena che non mi aspettavo. Ai primi di maggio ci siamo incontrati per progettare insieme lo spettacolo: lui era sereno, direi entusiasta, e anche molto motivato. Qualcun altro salirà sul podio, certamente, ma la produzione, che è già molto avanti, nasce da un dialogo con Muti ed è stata pensata in funzione di una visione estetica armonica con la sua arte, con le sue idee».
Sarebbe stato questo il vostro terzo connubio.
«Il quarto, se consideriamo un Crepuscolo degli dei alla Scala cui dovetti rinunciare per miei impegni. Ho avuto la fortuna di lavorare con Riccardo Muti anche in occasione di Mefistofele di Boito, per il Teatro alla Scala, e nel Moïse et Pharaon di Rossini, per l’Opera di Roma».
Com’è andata?
«Una simbiosi totale, mai uno scontro. Hanno detto di lui che sia severo, esigente, attento più alla musica che alla visione: non è vero! Il suo senso dell’estetica mi ha stregato. È molto rigoroso nel realizzare i suoi obiettivi, ed è forse per questo che deve aver sentito su di sé il peso di un clima di guerra che non si addice certo al suo lavoro. Vuol vivere tranquillo».
Ne condivide la decisione?
«Fa parte della sua personalità. E se lo può permettere. Io non so se avrei trovato il coraggio».
La causa scatenante è stata proprio la «mancanza di serenità».
«Sento un grande dolore davanti a una Bohème accompagnata dal solo pianoforte a causa di uno sciopero. Il momento è drammatico e servono sacrifici, da una parte, e dall’altra. Serrate e minacce non sono la via giusta. L’effetto che producono è mettere ulteriormente in crisi istituzioni, già piegate dalle difficoltà. I piccoli teatri, poi: così si firma la loro fine. Non è un momento da prove di forza».
L’hanno chiamata?
«Da tutto il mondo! Da Madrid alla Cina le persone con cui ho lavorato non si spiegano. Hanno però la percezione che sia una conseguenza del clima pessimo».
Chi salirà sul podio di Aida ?
«Stiamo a vedere. Chissà. Non si sa mai...».

Corriere 23.9.14
L’Opera, Muti e lo scandalo di un addio
non date più Soldi all’Opera di Roma
di Paolo Conti

Il Teatro dell’Opera di Roma, cioè l’antico Costanzi. Ovvero il luogo in cui il sindacalismo capovolge con arroganza, e spesso con violenza, qualsiasi elementare regola: una minoranza che impone il proprio diritto di sciopero e nega alla maggioranza il proprio, di diritto: voler lavorare. II Teatro Costanzi, l’unica realtà musicale al mondo capace di disgustare un protagonista della scena internazionale come Riccardo Muti, prima nominato direttore artistico a vita e poi costretto a subire rabbiose rivendicazioni, autentici assalti personali tanto umilianti quanto impensabili in qualsiasi altro teatro d’opera al mondo. Scena iniziale, siamo a febbraio nelle convulse ore della prima di Manon Lescaut, poi fortunosamente rappresentata.
Muti è nel camerino, una dozzina di musicisti aderenti alla Fials e alla Cgil entrano urlando e senza chiedere alcun permesso: «Deve dire se lei sta con noi o contro di noi!». Non è il film di Fellini sulla Prova d’Orchestra ma pura realtà. Ancora, sempre nei giorni della Manon Lescaut . Alla prova anti generale l’orchestra proclama un’assemblea selvaggia e improvvisa. Muti attende il ritorno dei musicisti. Un’attesa di quasi mezz’ora. Poi gli orchestrali tornano. I macchinisti, dal palcoscenico, protestano gridando: «Vergognatevi, tornate a lavorare» . Altro che la necessaria concentrazione per una prova delicata e importante. E infine l’oltraggio dei venti musicisti, incluso il primo violino, che si rifiutano di seguire Muti nella tournée in Giappone tre mesi fa. In qualsiasi altro teatro al mondo, i Maestri dell’orchestra avrebbero fatto a gara per il privilegio di partire con lui e rappresentare una capitale in un importante Paese così importante, per di più pieno di melomani appassionati.
Muti lascia Roma e col suo gesto svela ciò che è già chiarissimo. Un teatro lirico capitolino, certo non tra i più stimati nel mondo, che riesce a perdere un vero Maestro per di più ribaltando qualsiasi regola democratica: la minoranza che ha la meglio sulla maggioranza. Trenta-quaranta orchestrali che bloccano il lavoro di cinquecento persone, proclamando scioperi che poi impediscono il compenso alla maggioranza che li ha subiti.
Carlo Fuortes, che dal 2003 amministra con successo l’Auditorium Parco della Musica progettato da Renzo Piano, vive una condizione schizofrenica da quando, nel dicembre 2013, è stato chiamato con urgenza dal sindaco Ignazio Marino a governare l’Opera. All’Auditorium convive con l’Orchestra di Santa Cecilia che rispetta impegni e programmi, mai si sognerebbe di organizzare incursioni nel camerino di un grande direttore e soprattutto non proclama assemblee che mostrano una concezione dittatoriale del sindacalismo. Dall’altra si ritrova nel caos dell’Opera, sovvenzionato con ben 18 milioni dalle disastrate casse del Campidoglio, dove qualsiasi accordo viene negato il giorno dopo mostrando una concezione distruttiva della rappresentanza sindacale. C’è infatti da chiedersi se Fuortes non avesse davvero ragione già a luglio quando parlò di una possibile chiusura e liquidazione dell’Opera: Fials e parte della Cgil avevano rimesso in discussione l’intesa, appena raggiunta, sul piano industriale. La stessa idea di sindacalismo distruttivo è tornata pochi giorni fa, quando la solita minoranza ha boicottato il referendum sul piano industriale, dichiarandolo illegale. Perché l’assurdo è che Muti viene costretto ad andarsene mentre l’Opera sta riuscendo faticosamente a risanare il proprio devastato bilancio grazie alla legge voluta, alla fine del 2013, dall’allora ministro Massimo Bray.
Ora l’Opera resta senza Muti ma è costretta a tenersi la minoranza antidemocratica che paralizza il teatro. Le domande si accumulano: il Teatro dell’Opera di Roma è irriformabile? Chi e come potrà mai, in simili condizioni, proporre un nuovo progetto di rilancio dopo il caso Muti? È giusto che la collettività continui a sostenere economicamente una struttura incapace non di imitare modelli europei ma semplicemente di comportarsi come l’orchestra di Santa Cecilia? Il ministro Dario Franceschini e il sindaco Ignazio Marino hanno materia sulla quale riflettere, dopo la vicenda Muti. Anzi, dopo il vero e proprio scandalo di questo addio.

Corriere 23.9.14
Cristina Acidini
Indagata per gli appalti
Si dimette dopo 8 anni la regina degli Uffizi
Avviso a Paolucci, capo dei Musei vaticani
di Marco Gasperetti

FIRENZE — L’inchiesta della procura, con perquisizioni della guardia di finanza nel tempio amministrativo dell’arte fiorentina, è clamorosa. I magistrati raccontano la storia di una presunta storia di convenzioni assicurative stipulate senza bando di gara per inviare capolavori all’estero. Quattro indagati per abuso d’ufficio, due eccellenti: l’ex ministro e attuale direttore dei Musei vaticani, Antonio Paolucci e Cristina Acidini, sovrintendente di tutti i musei fiorentini, Uffizi e Accademia compresi. Cristina Acidini si è dimessa dall’incarico, che detiene dall’ottobre 2006. «Non per l’inchiesta della magistratura, sulla quale niente ho da dire e sono assolutamente serena perché, in oltre 38 anni di servizio, ho sempre agito nell’interesse dello Stato — precisa —. La mia lettera di dimissioni l’ho spedita dodici giorni prima dell’avviso di garanzia e riguarda l’esito della riforma Franceschini». La sovrintendente è coinvolta anche in una seconda indagine, stavolta non penale ma della Corte dei conti, per aver concesso gratuitamente Palazzo Pitti e lo storico Giardino di Boboli per concerti di musica classica, lirica e leggera. Tra i beneficiari ci sarebbe l’associazione culturale Multipromo. Si ipotizzano danni erariali per 250 mila euro. Gli altri due indagati sono il funzionario della sovrintendenza fiorentina Marco Fossi e un alto dirigente dell’assicurazione, la Axa-Art, società partecipata dal Monte dei Paschi, nella cui deputazione era stato eletto Antonio Paolucci che poi si era dimesso.
E al centro dell’indagine c’è proprio una convenzione stipulata nell’autunno del 2006, e firmata da Paolucci, tra la sovrintendenza al polo museale e la Axa-Art, specializzata nella copertura assicurativa delle opere d’arte e dei capolavori che da Firenze partivano per l’estero. Secondo le indagini condotte dal pubblico ministero Luigi Bocciolini, la convenzione sarebbe stata firmata nonostante gli importi superassero i 211 mila euro, soglia che obbliga a indire una gara europea per la selezione delle imprese. Il polo museale fiorentino e i Musei vaticani sono i maggiori «esportatori» di opere d’arte all’estero e si sospetta che le polizze assegnate alla Axa-Art, e pagate dagli organizzatori delle mostre, superassero premi per un milione e 500 mila euro annui. Alcuni prestiti, con trasporto assicurato senza bando di gara, finirono a Tokyo nel marzo del 2013 per una sontuosa mostra dedicata a Raffaello e altri dipinti, nell’ottobre dello stesso anno, furono spediti a Budapest per una rassegna dedicata a Canaletto e Caravaggio. Ma gli esempi sarebbero molti altri.
Cristina Acidini è stata rinviata a giudizio, sempre dalla Corte dei conti, per la proposta d’acquisto di un crocifisso da lei attribuito a Michelangelo. A far scattare le indagini un libro (A che cosa serve Michelangelo ) del critico d’arte Tomaso Montanari. In primo grado la sovrintendente è stata assolta ma la procura generale ha presentato appello e tra poco ci sarà un secondo dibattimento.
L’avvocato della sovrintendente, Antonio D’Avirro, si è detto certo di poter chiarire ogni minimo particolare della vicenda. «Presenteremo la richiesta di riesame per avere a disposizione gli atti e verificare le vere risultanze processuali — ha detto il legale —. La mia assistita ha sempre avuto un comportamento trasparente e può comprovare, documenti alla mano, che nessun vantaggio ha attenuto agendo nell’esclusivo interesse pubblico per scopi istituzionali».

il Fatto 23.9.14
Isis, nuovo messaggio: “Attaccate i civili. Cristiani, conquisteremo la vostra Roma”
qui

il Fatto 23.9.14
Jihad horror show
“Arriveremo fino a Roma a farvi schiavi”
di Rob. Zun.

L’horror show dell'Isis prosegue senza sosta. La nuova puntata di ieri, diffusa via twitter, è un messaggio video lungo 42 minuti pronunciato dal portavoce ufficiale dello Stato Islamico, Abu Muhammed al-Adnani al-Shami. La novità è la violenza verbale nei confronti dei cittadini del mondo occidentale. Mentre sul campo la manovalanza minaccia di usare le donne yazide rapite come scudi umani, il portavoce promette: “Conquisteremo la vostra Roma, romperemo le vostre croci, schiavizzeremo le vostre donne”. Poi continua rivolgendosi a Obama per insultarlo: “Sei un ciuco degli ebrei, sei un vile. Tu e i tuoi alleati crociati, che per codardia non intervenite sul campo, non otterrete nulla. Come fai a non capire, o ciuco degli ebrei, che la situazione non può essere risolta con i bombardamenti dall’alto, con una guerra su commissione, o pensi di essere più furbo di Bush? No, tu sei solo più pazzo di lui... ”
Al-Shami quindi passa a minacciare e al contempo a spiegare a noi occidentali perché ce l'hanno così tanto con noi: "O americani, o europei, lo Stato Islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, come i vostri governi e i vostri media cercano di farvi credere. Siete voi che avete iniziato a trasgredire, e per questo meritate di pagare. Pagherete con il collasso della vostra economia... Pagherete il prezzo quando avrete paura di viaggiare nel mondo. Oppure pagherete nelle vostre strade, circondati da musulmani, e non sarete al sicuro nemmeno nel vostro letto. Pagherete il prezzo quando la vostra crociata fallirà e noi invaderemo le vostre case e vi faremo soffrire”. A questo punto passa ai jihadisti della Libia e del Sinai affinché facciano di tutto per uccidere i soldati del presidente egiziano Al Sisi, accusati di lavorare per Israele. Poi inizia a spiegare ai musulmani che se uccidono un non musulmano non commettono alcun reato. Il finale, come in tutte le sceneggiature di successo, deve rimanere impresso ai più e quindi nulla di meglio di questa sequenza di modi per uccidere: “Se non siete in grado di trovare un’arma da fuoco, allora prendete una pietra e con quella spaccate le teste, squartateli con un coltello, investiteli con la macchina, buttateli giù da un dirupo, strangolateli o avvelenateli. Se non siete in grado di fare tutto ciò, bruciate le loro case, le loro attività, i loro campi. Se ancora non potete fare questo, sputategli in faccia e se proprio non riuscite a fare tutte queste cose, mentre loro bombardano le vostre terre e uccidono i vostri fratelli, allora cambiate credo”.

Corriere 23.9.14
I curdi denunciano: la Turchia aiuta l'Isis
Mentre a Kobane, sul confine siriano turco, si continua a combattere, Ankara apre e chiude le frontiere
di Floriana Bulfon
qui

Corriere 23.9.14
Le ambiguità di Erdogan e i legami con i fanatici
di Antonio Ferrari

È logico e comprensibile l’entusiasmo per la liberazione di 49 cittadini turchi, tra diplomatici, personale della sicurezza, impiegati e i loro famigliari, che erano stati catturati a Mosul dai criminali dello Stato Islamico nello scorso giugno. Gioia, d’accordo, ma anche un nugolo di domande: alcune decisamente imbarazzanti. Perché, se è doveroso aver riportato a casa decine di innocenti, è altrettanto imperativo chiedersi che cosa sia accaduto e quale sia stato il prezzo di quello che tutti ormai chiamano «swap», che significa scambio.
C’è stato uno scambio, allora? Sì, anche se probabilmente nessuno ha pagato (con denaro sonante) il riscatto. La verità è probabilmente più complessa e per certi aspetti inquietante. Occorre quindi fare un passo indietro, e tornare ai momenti più drammatici della guerra civile siriana, quando Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro e oggi presidente della Repubblica, dopo aver sostenuto Bashar al Assad, cambiò strategia e abbracciò l’opposizione. Ma quale opposizione? Si riteneva che l’astuto leader islamico moderato turco volesse distinguere tra le forze ribelli ma riformiste, quindi degne di sostegno, e le avanguardie dell’islamismo più feroce e assassino. Non è stato così. In pochi mesi Erdogan ha guardato ai fanatici, e pur di colpire Assad è stato pronto a compiere passi avventati. Quei passi che furono denunciati dalla magistratura, dalle forze di sicurezza e dai politici interni al partito di maggioranza Akp, preoccupati dalla disinvoltura dell’uomo forte del Paese.
Dalla porosa frontiera turco-siriana in quel periodo entrava di tutto, dalle armi ai sostenitori stranieri. Non solo. Ospedali e cliniche della Turchia furono aperti ai massimi dirigenti dell’Isis, cioè dello Strato Islamico di Al Baghdadi, rimasti feriti negli scontri, sia in Iraq sia in Siria.
È chiaro che il sequestro collettivo di tutto il personale del consolato turco a Mosul, conquistata dall’autoproclamato Stato Islamico, era sconcertante. Anche perché, nonostante i pressanti avvertimenti del ministero degli Esteri di Ankara, che invitava i dipendenti, a cominciare dal console generale, ad abbandonare la città, il capo della diplomazia aveva deciso diversamente, sostenendo che non vi erano rischi per la comunità turca.
Vi è stata molta comprensione, fra i Paesi della Nato, per la decisione della Turchia di non concedere le basi del Paese per gli attacchi aerei allo Stato Islamico. Tuttavia, le polemiche che stanno infiammando il dibattito politico nazionale stanno confermando che vi è stato un patto segreto, che non si vuole ammettere ma che nessuno è in grado di negare. Ostaggi in cambio dei ribelli islamici feriti e curati. Erdogan dice che è stato un grande successo riportare a casa i suoi 49 connazionali. Ma non risponde a chi gli contesta non soltanto lo scambio, ma il fatto che la Turchia si sia seduta al tavolo per trattare con lo Stato Islamico. Di fatto, riconoscendolo.

La Stampa 23.9.14
Quelle guerriere peshmerga che fanno paura ai jihadisti
Gli islamisti rinunciano alla lotta perché temono di non andare in Paradiso se uccisi da una donna
In Siria 130 mila profughi curdi in fuga verso la Turchia
di Maurizio Molinari

Tagliateste sanguinari, capaci di eccidi di massa e di trasformare bambini in kamikaze ma intimoriti dalla sola vista di una donna in divisa: a svelare un possibile tallone d’Achille dei miliziani jihadisti dello Stato Islamico (Isis) sono i servizi d’intelligence americano e britannico che hanno rilevato una ricorrente anomalia nei movimenti delle unità fedeli al Califfo Al-Baghadadi.
Ad alzare il velo sui contenuti dei rapporti militari è Ed Royce, presidente californiano della commissione Affari Internazionali della Camera dei Rappresentanti di Washington, facendo sapere che «i soldati di Isis sembrano credere che se vengono uccisi in battaglia da un uomo vanno in Paradiso accolti da 72 vergini mentre se a ucciderli è una donna la sorte è differente perché non trovano le vergini». È stata l’osservazione dei movimenti delle unità di Isis nel Nord della Siria e soprattutto dell’Iraq a portare a tale deduzione perché in più occasioni quando i jihadisti si sono trovati di fronte unità femminili di peshmerga curde hanno preferito evitare rischi.
Le prime a notare tale anomalia nel comportamento di un nemico altrimenti spietato e apparentemente indomabile sono state proprio le donne-peshmerga, comunicando ai comandi di Erbil e Suleymania la «propria soddisfazione per essere riuscite a fermare l’avanzata di Isis» quasi senza colpo ferire. In alcuni casi, le combattenti curde hanno testimoniato di aver visto con i loro occhi «i combattenti di Isis voltare le spalle e andare via». Alla base di tali comportamenti vi sarebbero dei sermoni di imam salafiti fedeli ad Isis che avrebbero detto ai jihadisti di «non essere sicuri» sulla destinazione «in un Paradiso con 72 vergini» per «chi viene ucciso in combattimento dalle mani di una donna».
Per Usa, Gran Bretagna e Francia, impegnate ad accelerare l’invio di armamenti pesanti ai curdi iracheni, si tratta di una notizia che può avere conseguenze tattiche, ovvero portare ad addestrare e dunque schierare un maggior numero di donne-peshmerga. Al momento i jihadisti del Califfo infatti premono sulle aree controllate dai curdi tanto in Iraq quando in Siria, dove l’offensiva attorno alla città di Kobani ha portato nelle ultime 72 ore oltre 130 mila civili a cercare rifugio oltre il confine turco.
Il reggimento femminile dei peshmerga è uno dei punti di forza della difesa del Kurdistan iracheno dal 1996, quando venne creato con appena 11 reclute dall’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani per sottolineare la volontà di integrare le donne nel nascituro Stato. Ora il reggimento conta quattro battaglioni, con un comandante per brigata e un corpo ufficiali fino al grado di colonnello. Lamiah Mohammed Qadir è uno dei comandanti più popolari, tiene le sue donne-soldato schierate nella provincia di Dyala e spiega così le mansioni svolte: «Siamo in prima linea a Daquq, Jalawla e Khanaqin, partecipiamo alle battaglie e contribuiamo anche a trasportare equipaggiamenti ai reggimenti di uomini».
Finora le donne-pershmerga non hanno subito vittime e Chelan Shakhwan, una delle veterane, descrive così la formazione all’arte del combattimento: «È un addestramento duro, con esercizi su armi, resistenza fisica e preparazione intellettuale». Il soldato Shaimaa Khalil spiega alla Bbc che «la nostra motivazione contro Isis è forte, vogliamo combattere per difendere il Kurdistan e anche difendere noi stesse perché da quanto visto a Mosul i jihadisti attaccano proprio noi donne». Non poche delle donne-pershmerga sono tiratori scelti ed hanno alle spalle la guerra del 2003 contro le truppe di Saddam. «Molte di noi hanno figli e mariti aggiunge Shakhwan ma sono felice di fare il mio dovere proteggendo il Kurdistan». D’altra parte le prime donne curde combattenti di cui si ha notizia risalgono al XII secolo quando fu il Saladino a volerle al suo fianco, apprezzandone dedizione e addestramento.

il Fatto 23.9.14
L’ultimo mistero di Harari, il “cacciatore di palestinesi”
Muotre a 87 anni il vendicatore degli esecutori della strage di Monaco ‘72
di Valerio Cattano

Gli amici lo ricordano come amante della musica e suonatore di piano, anche se accanto alla tastiera teneva sempre una pistola Be-retta. Per i nemici era solo un “cacciatore di palestinesi”. Spesso le carriere degli agenti segreti sono controverse: quella dell'israeliano Mike Harari, morto domenica scorsa a 87 anni, lo è stata di certo. “La maggior parte delle azioni di Harari nella difesa dello Stato di Israele non sarà mai conosciuta – ha detto il ministro della Difesa Moshe Ya'alon a Time of Israel – ma chi ha avuto il privilegio di conoscerlo, sapeva che era un uomo raro, la cui influenza sul Mossad sarà evidente ancora per molti anni”. Entrato nel Mossad nel 1954, Harari passò alla guida dell'unità speciale Caesarea, che partecipò ad azioni eclatanti, come l'operazione Tuono (1976) che permise di liberare nell'aeroporto di Entebbe, in Uganda, 248 passeggeri e dodici membri di equipaggio di un aereo Air France dirottato da un commando di terroristi (due palestinesi e due tedeschi); ma, soprattutto, il nome di Harari è legato al piano – operazione Ira di Dio – che Israele mise in atto dopo le olimpiadi di Monaco 1972, durante le quali i militanti palestinesi di Settembre Nero uccisero subito due atleti ebrei, e poi, durante la fuga, determinarono la morte di altri nove membri della delegazione israeliana. Il governo di Tel Aviv decise di esportare la lotta al terrorismo in Europa. Una storia raccontata dal regista Steven Spielberg nel film Munich: la figura di Harari fu interpretata dall'attore israeliano Moshe Ivgy. Harari fondò il gruppo Kidon, 48 agenti suddivisi in squadre di 4 (in genere 3 uomini e una donna) a cui fu assegnato il compito di stanare tutti i dirigenti e i militanti palestinesi che avevano contribuito al massacro. Non sempre le cose andarono bene: in Norvegia fu ucciso un cameriere marocchino, Ahmed Bushiki, al posto di Ali Hassan Salameh, considerato da Tel Aviv la “mente” di Settembre Nero a Monaco: Harari offrì le dimissioni al primo ministro Golda Meir, ma lei rifiutò. Nel 1980, dopo 37 anni di servizio, Harari andò in pensione. Per i detrattori, Harari, che aveva comandato la sezione del Mossad in Centro America aveva rapporti ambigui con Noriega, il dittatore di Panama dal 1983 al 1990. David E. Pitt, del New York Times, il 2 gennaio 1990 scrisse: “Un israeliano noto per essere il più stretto collaboratore del generale Manuel Antonio Noriega potrebbe aver eluso la cattura, la notte dell'invasione degli Stati Uniti: gli era stato detto di fuggire quasi 6 ore prima che le truppe americane arrivassero nella capitale. Si dice che Harari abbia addestrato ed equipaggiato le forze di sicurezza d’élite del generale Noriega: ma il suo ruolo resta un mistero”.

La Stampa 23.9.14
E ora 6 milioni sono gli ebrei in Israele
di Elena Loewenthal

«Vittoria del sionismo», titolava ieri a tutta pagina «Israel HaYom», il quotidiano a distribuzione gratuita più diffuso del paese. Non si tratta di campo di battaglia, non si tratta di lotta per l’indipendenza, non si tratta nemmeno di occupazione.
Non è una vittoria conquistata con le armi ma raggranellata un numero dopo l’altro nelle sale parto, con tenacia e pazienza e voglia di esistere. «Storia» in ebraico si dice mi dor ledor: di generazione in generazione. Mai facile, ma meno che mai nel secolo appena passato. Eppure oggi vivono in Israele più di sei milioni di ebrei: così dice il censimento annuale i cui dati vengono pubblicati alla vigilia del Capodanno ebraico, ogni anno.
Israele conta quasi nove milioni di abitanti, cioè di cittadini dello Stato d’Israele (esclusi ovviamente i territori occupati). Il che testimonia un trend di cresciuta per noi europei davvero inconsueto: quasi centottantamila nascite nel corso dell’anno (con un gap di cinquemila fiocchi rosa in meno di quelli celesti), ventiquattromila nuovi immigrati, quest’anno giunti soprattutto dalla Francia. Centoequarantamila matrimoni e trentaduemila divorzi. Cifre modeste, forse. Proporzionate a un paese grande, cioè piccolo, grosso modo quanto la Lombardia, anche se la sovraesposizone mediatica sembra dilatarne confini e misure.
Ma al di là di queste cifre, ce n’è una che non si può non definire storica, e ci vuole un attimo prima di capirlo perché bisogna chiamare in causa la memoria, fare una terribile equazione mentale ed emotiva. Perché sei milioni di persone – qui vive e allora morte non è un numero qualunque. Sei milioni è il numero dei morti sterminati nella Shoah: nel fumo dei forni crematori, nei ghetti, nelle fosse comuni, nelle fucilazioni di massa, nei giochi dei nazisti che usavano i neonati ebrei per il tiro al piattello, negli angoli dei ghetti, nei treni merci che attraversavano l’Europa pieni di vite e vuoti di morte. E ora, a settant’anni di distanza dal buco nero della Shoah, in Israele vivono sei milioni e centoquattromila ebrei. Il sorpasso è d’un soffio o poco più. Ma è la prima volta che succede nella storia di questo piccolo paese, nella storia del movimento politico e spirituale che l’ha creato – il sionismo -. Ed è una vittoria che mette i brividi, tanto da meritarsi il titolo di giornale a tutta pagina, anche se il censimento è una consuetudine annuale in Israele, quasi a segnare una millenaria continuità biblica. Nel testo sacro, infatti, gli israeliti vengono ripetutamente contati. Prima da se stessi, poi dai romani, come capita nei Vangeli al tempo della nascita di Gesù.
Ma soltanto in questa contemporaneità che ha significato per l’ebraismo il capovolgimento di un destino bimillenario in due direzioni opposte – quella di morte nella Shoah e quella di vita nella rinascita dello Stato ebraico – il fatto di contarsi ha assunto un significato cruciale. Dopo la Shoah si è contato il silenzio di sei milioni di persone che non rispondevano più perché erano diventate fumo. Il censimento israeliano di quest’anno è a suo modo un tiqqun olam, come si direbbe in ebraico: una riparazione del mondo. Oggi almeno i numeri in terra d’Israele hanno rimediato a quella terribile assenza che ancora ci accompagna tutti, a settant’anni di distanza.

Corriere 23.9.14
L’orrore e la paura della guerra nei quaderni dei bambini di Gaza
Corpi senza braccia. Lampi rossi, neri, viola. Aerei che lanciano bombe
Così gli alunni della Hafsa Bint-Omar ricordano i 50 interminabili giorni di bombardamento
di Francesco Battistini
qui

Repubblica 23.9.14
In fuga dalla guerra uccisi dagli scafisti Ora Gaza piange i fantasmi del mare
Mai così tanti hanno cercato di evadere dalla Striscia come dopo l‘ultima offensiva israeliana che ha lasciato dietro di sé una distesa di lutti, macerie e disperazione. Il sogno di una vita normale
in Europa per duemila persone è divenuto tragedia
di Fabio Scuto

GAZA È UNA “Spoon River” araba senza lapidi e, spesso, anche senza nome. La Striscia non ha ancora assorbito il lutto dei duemila morti della guerra di queste estate e già piange altre centinaia, più probabilmente migliaia, di vittime. Ma lo fa sommessamente, perché Hamas non vuole che se ne parli. A un mese dalla fine della guerra i “desert rats” di Gaza sono già al lavoro e nuovi tunnel sono stati scavati sotto il confine con l’Egitto. Non come quelli dei “tempi d’oro” — quando ci passavano dentro auto e camion, c’erano pure i ventilatori e la luce — questi sono cunicoli per strisciare sui gomiti e le ginocchia, lunghi cinquanta-cento metri. Servono solo per il traffico degli umani. Per questa “strada” sono passati nelle ultime settimane oltre tremila palestinesi che una volta in Egitto hanno cercato di imbarcarsi sulle navi della morte gestite dai contrabbandieri legati ai gruppi mafiosiislamisti. Quasi duemila di questi ragazzi, uomini e donne, bambini, interi gruppi familiari, non hanno dato più notizie facendo temere il peggio, alcune centinaia sono certamente morti nel naufragio del sei settembre al largo delle coste di Malta mentre erano diretti in Italia come hanno raccontato i sei sopravvissuti salvati da un mercantile finlandese, altre decine nell’affondamento di un altro barcone al largo della Libia. La speranza è sempre stata l’ultima risorsa per i “maledetti di Gaza”, ma centinaia di famiglie hanno già eretto le tende del lutto davanti alle macerie di casa per ricevere le condoglianze di amici e parenti, come si conviene nell’uso arabo. Halil Abu Shamala, del Gruppo per i diritti umani “Adamir”, mostra un primo elenco con più di cinquecento nomi di vittime raccolti in pochi giorni fra parenti e amici degli scomparsi. E gli altri? «Nessuno sa dove sono, tutta la Striscia ne parla anche se Hamas non vuole. Una tragedia immane, come se non bastasse quello che è successo durante l’ultima guerra».
Samir Asfour, un commerciante che nell’affondamento di uno dei battelli ha perso suo figlio Ahmed e quattro nipoti, racconta come funziona il sistema. «Alcuni hanno lasciato Gaza regolarmente, ottenendo un visto per motivi sanitari, ma la maggior parte passa attraverso questi nuovi tunnel per raggiungere il lato egiziano di Rafah e da lì ci si mette nelle mani dei trafficanti umani». Samir, si fa scappare il nome di un capo contrabbandiere palestinese che sovrintende alla “rete” che porta la gente fuori da Gaza vendendo il sogno dell’Europa da raggiungere via mare. Vive in Egitto, ma ha i suoi rappresentanti nella Striscia, alcuni dei quali sono delle figure piuttosto note e protette da Hamas. Mentre racconta la moglie Nawal piange, urla. Insulta il marito che china la testa. Per lei è il primo colpevole della morte del primogenito maschio, perché ha dato al figlio i soldi per pagarsi la fuga dalla Striscia. Samir si difende: «Si è guardato intorno? Ha visto? Ci metteremo 30 anni per rimetterci in piedi. Ahmad è venuto da me dopo la fine della guerra e mi ha detto “aiutami adesso e vi aiuterò dopo, andrò in Europa per lavorare”. Ho preso la decisione da solo e gli ho dato tutti i risparmi che avevo». Samir vorrebbe almeno andare su una lapide al cimitero di Sheik Radwan a piangere la morte del figlio invece che su una vecchia foto, ma sa per certo che la tomba di Ahmad sono invece gli abissi del Mediterraneo.
Un altro padre che preferisce non dire il suo nome racconta che nel prezzo che si paga a Gaza — dai 3 ai 4 mila dollari — è compreso anche un falso timbro del visto egiziano. «Dal lato egiziano di Rafah ci sono minibus che aspettano per raggiungere Port Said o Alessandria dove si attende il momento adatto nascosti in fattorie o vecchi impianti del porto, anche per giorni. Poi arriva il messaggio e si parte, prima su pescherecci e poi — passate le acque territoriali — su barche sempre più piccole ». Spesso la gente si ribella, le barche sono piccole e il mare è agitato, come è accaduto il 6 settembre al largo di Malta. Sono stati gli stessi contrabbandieri a speronare il barcone e tornarsene indietro come ha raccontato uno dei naufraghi all’ambasciatore palestinese in Grecia, dov’è arrivato dopo essere stato salvato in mare con altri quattro da una nave di passaggio in mare aperto.
Khaled S. stava già raccogliendo i soldi dai parenti per cercare di scappare da Gaza nei prossimi giorni. Ma ha cambiato idea dopo aver sentito le storie sugli annegamenti. «Sai... vengono delle persone e ti raccontano della bella vita, di condizioni di vita normali, naturalmente ovunque in Europa è meglio di questa prigione a cielo aperto diroccata. Difficile non essere tentati».
Mai la fuga dei palestinesi da Gaza è stata così copiosa e tragica. Il perché è facile scoprirlo, basta percorrere strade sventrate e sterrati ancora segnati dai cingoli dei tank israeliani per vedere interi quartieri e i piccoli abitati di confine interamente distrutti, con loro piccole fabbriche e fattorie. Ci sono ancora oltre centomila senzatetto, sessantamila accalcati in venti scuole dell’Unrwa, qualche migliaio da parenti o amici. Ma decine di migliaia sono invece accampati fra le macerie della loro — ex — casa. Una coperta come tetto, un fornelletto poggiato fra mattoni sconnessi, i campi di pomodori arati dai mezzi corazzati come toilette. In zone come Beit Hanoun o Shajaya le abitazioni rimaste in piedi si contano sulle dita di una mano. Un dramma quotidiano che sembra insostenibile, ma presto sarà peggio: tra un mese come è consueto inizierà la stagione delle piogge e la Striscia galleggerà sopra un impasto di acqua, sabbia e liquami che si sversano senza controllo verso il mare. L’odore nauseabondo avvolge con le sue spire intere città come Khan Younis, dove i 5 chilometri di lungomare non sono percorribili per il fetore. Così come la centrale elettrica anche il sistema di filtraggio delle acque nere è fermo e milioni di metri cubi di liquami non trattati finiscono ogni giorno in mare.
Non ci sono speranze di una rapida ricostruzione — Hamas e l’Anp da oggi cominciano a discutere al Cairo per trovare un accordo politico su come gestire i fondi che, si spera, verranno stanziati dalla comunità internazionale. Ma Gaza non ce la fa ad aspettare i tempi diplomatici, se non al prezzo di una lenta agonia.

il Fatto 23.9.14
Genetica e razzismo, due buone notizie da Israele e dalla Scozia
di Andrea Bellelli
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il Fatto 23.9.14
Grecia, le mire di Pechino sui giacimenti di metalli rari. Che valgono 40 miliardi
di Francesco De Palo
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Repubblica 23.9.14
Un’Europa senza dissenso è una prigione
Il testo riscoperto di Bobbio sull’integrazione: “La politica divide, la cultura ci avvicina”
di Norberto Bobbio

UNA “LEZIONE” PER IL VERTICE DEI MINISTRI RIUNITI A TORINO
PRONUNCIATO alla XVIII assemblea generale ordinaria della Société européenne de culture fondata da Umberto Campagnolo, che si tenne a Mantova dal 26 al 28 ottobre del 1984, il discorso di Norberto Bobbio, di cui pubblichiamo ampi stralci, s’intitolava Trent’anni dopo: l’idea europea . Riportato con alcune varianti su Lettera internazionale (1985) e nel volume il dubbio e la scelta (Carocci, 2001), è stato ora edito dall’Einaudi insieme alla Città di Torino, al Centro studi Piero Gobetti (dove è conservato il testo originale) e alla Societé européenne de culture, nella versione del 1984, ma con il titolo che in seguito fu adottato da Bobbio: L’Europa della cultura.
Il volume in italiano, in francese e in inglese, curato da Cosima Campagnolo e da Pina Impagliazzo, ha una presentazione del sindaco di Torino Piero Fassino e una nota conclusiva di Pietro Polito (direttore del Centro Gobetti). Esce in occasione del vertice dei ministri europei della Cultura in programma a Torino oggi e domani.

L’EUROPA era stata distrutta. Si era da se stessa distrutta. Per la seconda volta nello spazio di trent’anni. Dai campi di Verdun alla battaglia di Stalingrado, erano state sterminate migliaia e migliaia dei suoi uomini, vittime innocenti del delirio di potenza degli uni e della cecità politica degli altri. Esisteva ancora l’Europa? Non potevamo non porci questa domanda di fronte allo spettacolo delle nostre case sventrate, degli immensi ossari umani dei campi di sterminio. Esisteva ancora l’Europa dopo che nel cuore di questa patria comune si erano incontrati due eserciti stranieri che l’avevano percorsa abbattendo giorno dopo giorno la resistenza del nemico?
No, l’Europa nonostante tutto era sopravvissuta. Era sopravvissuta grazie agli uomini che ne avevano custodito lo spirito non lasciandosi sommergere dalle dottrine della potenza o della razza o del sangue come unico criterio per distinguere il bene dal male. Ma per fare l’Europa occorre prima di tutto l’idea di Europa. E questo è il compito degli intellettuali.
L’Europa non era morta. Non era morta grazie ai suoi intellettuali migliori, che ne avevano serbato la memoria, ne avevano ricostruito la storia, ne avevano mantenuto vivo lo spirito. Era dunque venuto finalmente il momento di dar vita a un’Europa politicamente unita? Il progetto non era nuovo. Vi avevano posto mano fra gli altri Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini. A Lugano apparve nel 1944 l’opuscolo di Ernesto Rossi, Gli Stati Uniti d’Europa ; nel gennaio del 1945 apparve il Manifesto di Ventotene , scritto qualche anno prima al confino da Ernesto Rossi e da Altiero Spinelli, che conteneva il programma di quello che sarebbe diventato il Movimento per l’unità europea. Indipendentemente dagli autori del Manifesto, un altro rappresentante della diaspora antifascista, Umberto Campagnolo, si era posto lo stesso problema. Nel febbraio 1945 pubblicò un opuscolo, intitolato Repubblica federale europea , la cui idea centrale era che il momento era venuto di far passare il federalismo europeo dall’utopia alla scienza e che questo passaggio non poteva avvenire per opera degli stati che avrebbero cercato di conservare gelosamente la propria sovranità, ma soltanto attraverso un processo dal basso per l’iniziativa e l’opera dei popoli. Sulla possibilità di un’unificazione europea a breve scadenza caddero ben presto le illusioni. Con la conferenza di Yalta del febbraio 1945 la ragion di Stato, o per meglio dire degli stati vincitori, prevalse. Campagnolo se ne rese subito conto. Capì che la soluzione politica dell’Europa era prematura e che il problema europeo era ancora una volta, com’era stato durante gli anni di ferro e fuoco, un problema prima culturale che politico. In attesa dell’Europa politica perché non fare appello all’Europa della cultura? La politica divide, la cultura unisce. Sin dalle prime righe dell’articolo sulle Origines de la Société européenne de culture che Umberto Campagnolo pubblica nel primo numero di Comprendre , in occasione della assemblea costitutiva della fine di maggio 1950, si legge: «Il suo scopo principale doveva essere di salvaguardare la possibilità, così essenziale tra uomini di cultura, di un colloquio minacciato dall’esasperarsi della lotta politica tendente a dividere l’Europa in due campi sempre più irriducibilmente chiusi l’uno all’altro». Si parva licet, nello stesso fascicolo appare il mio articolo con cui ha inizio la mia collaborazione alla rivista. È intitolato Invite au colloque , e insiste sullo stesso tema del dialogo. Comincia con queste parole con cui ho cercato di designare il mio ideale d’intellettuale: «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda in modo irrevocabile una scelta perentoria e definitiva ».
La Società europea di cultura era dunque nata dalla convinzione che bisognasse salvaguardare l’unità spirituale dell’Europa e che questo fosse il compito specifico degli uomini di cultura, intendo, il compito politico degli uomini di cultura, di quella politica che è loro propria e che abbiamo sin d’allora chiamata e continuiamo a chiamare “politica della cultura”. Unità dell’Europa e politica della cultura erano problemi strettamente connessi. La nostra Società ha posto alla base della sua azione il principio del dialogo, inteso come apertura incondizionata verso l’altro, rispetto delle idee altrui, sforzo di comprensione del diverso. Ho bisogno di aggiungere che dialogo non vuol dire accordo a tutti i costi? Il primo numero della nostra rivista pubblicò un articolo di Père Maydieu, che non ho mai dimenticato. È intitolato La culture naîtra de nos désaccords . Un articolo paradossale ma profondo e veritiero. Il disaccordo nasce dalla coscienza dei nostri limiti: solo gli sciocchi non se n’accorgono. Ma è il disaccordo che pone rimedio alle nostre insufficienze, perché ci permette di riconoscerle. «Una società — conclude — in cui il disaccordo non avesse più spazio sarebbe la più terribile delle prigioni». Forse si potrebbe aggiungere che c’è disaccordo e disaccordo: il disaccordo tra coloro che credono fermamente nelle loro idee ma non rinunciano a metterle a confronto con quelle degli altri, e il disaccordo dei potenti che incombono su di noi, i quali credono solo nella loro potenza e vedono l’unica fine possibile del disaccordo nell’eliminazione dell’avversario. Non ho bisogno di precisare quale sia il disaccordo che noi amiamo. È il disaccordo da cui nasce non la contesa senza fine ma la possibilità di comprensione.

Corriere 23.9.14
Con Gesù la profezia si fece evento
Citati scava nel cuore dei Vangeli
Il Giusto sofferente di Isaia a confronto con la Passione di Cristo
di Emanuele Trevi

«Leggere un testo», ammonisce Pietro Citati alla fine del suo libro sui Vangeli, «è un’arte che abbiamo quasi dimenticato». Si direbbe che più il mondo si riempie di libri, di testi e di interpretazioni, più si rende palese questa singolare atrofia dello spirito, imprigionato in una rete di pregiudizi che corrodono il potere della parola, imprigionata nel suo significato più rapido e banale. Non c’è da stupirsi se la letteratura si è adeguata a questa perdita di potenza, perché la letteratura è pur sempre il riflesso fedele dei limiti e delle possibilità, storicamente variabili, dell’atto di leggere. Per fare l’esempio più evidente, oggi non esistono più dei poeti come Paul Valéry o Ezra Pound non perché manchi all’umanità la quantità di talento necessaria, ma più semplicemente perché quel tipo di scrittura, capace di creare l’inaudito portando sulle spalle interi secoli di tradizione, oggi sarebbe fatica sprecata. Nessuno o quasi sarebbe capace di afferrare il valore dell’implicito, della citazione nascosta e rivelatrice. E per un elementare principio di economia, ben presto si smette di fare ciò che il nostro prossimo né capisce né apprezza.
Tutto sommato, se l’impoverimento della lettura fosse un fenomeno esclusivamente letterario, si tratterebbe di un fatto circoscritto, e forse rimediabile, perché la sostanza stessa della letteratura è la solitudine, e il singolo individuo ha sempre il potere di liberarsi dalle costrizioni del suo tempo. Molto più spinosa è la questione della lettura dei cosiddetti testi sacri, che per essere tali sono anche il fondamento di identità collettive. La barbarie di ogni tipo di fondamentalismo consiste esattamente nel fatto che si brandisce in faccia al mondo, e si erige ad unico criterio di verità, qualcosa di cui non si capisce nulla al di là dello stretto significato letterale.
Nitido e sobrio come il distillato di lunghe meditazioni, il libro di Citati rappresenta prima di tutto una scommessa sulla possibilità di restituire il loro sapore massimo a parole incrostate fin dall’infanzia nella memoria di tutti. Tanto più preziose, quanto più l’abitudine non fa che spingerle sul bordo pericoloso dell’insignificanza. Con tutte le sottigliezze di cui noi moderni andiamo fieri, «se ci paragoniamo a un sacerdote ebreo o a un fedele cristiano del primo secolo, siamo immensamente rozzi e limitati».
Che cosa avevano quel sacerdote ebreo e quel fedele cristiano che noi, sapendola infinitamente più lunga di loro, non possediamo più? Ebbene, leggendo questi Vangeli secondo Citati (non saprei come altro definirli) ci si rende conto che per quegli uomini antichi, quasi incomprensibili ai nostri occhi, era rimasta intatta l’originaria alleanza fra la memoria e la scrittura. Altrimenti, né gli autori dei tre Vangeli sinottici né Giovanni avrebbero scritto così, confidando in un uditorio capace di afferrare al volo sia la superficie del nuovo annuncio, sia il suo ricchissimo retroterra.
In gioco, prima di tutto, sta la capacità di riconoscere tutte le molteplici ombre che dal Vecchio si proiettano sul Nuovo Testamento, in quel sorprendente gioco di anticipazioni e adempimenti che il grande Erich Auerbach rese evidente studiando il concetto medievale di «figura». Nulla si può capire delle vicende di Gesù dimenticando che, in quanto Messia lungamente atteso dalla tradizione giudaica, egli è il compimento delle profezie, finalmente riempite dalla luce salvifica della verità.
Prendiamo una sezione del racconto evangelico sulla quale giustamente Citati insiste molto: la Passione. È una storia che basta evocare la parola, e ci torna tutta intera in mente, come ce la immaginiamo noi o come l’abbiamo vista nei film di Pier Paolo Pasolini o Mel Gibson. La morte di Cristo è indubbiamente un fatto eccezionale, uno spartiacque della storia umana. Ma in che senso è profondamente diversa dalla morte, per esempio, di Socrate ? Gesù e Socrate sono entrambi dei maestri nel senso più alto del termine, dei guaritori di anime, dotati di una percezione sottilissima del prossimo. Entrambi subiscono un’ingiustizia esecrata da un manipolo di discepoli ed accettata da una società capace di macchiarsi di un tale delitto pur di ritornare all’ordine. Ma a differenza di quella di Socrate, la morte di Cristo era un fatto che simboli e profezie avevano annunciato da tempo immemorabile. Il nuovo evento non si limitava a irrompere nel tempo umano senza dare la possibilità di essere riconosciuto da coloro che erano in grado di esercitare la memoria e il senso delle sottili corrispondenze tra il passato e il presente. E dunque, il racconto della Passione rischia di essere deformato e almeno in parte «normalizzato» dalla dimenticanza di alcuni passi biblici (nel libro di Isaia e nel Salmo 22) dove si parla del «Giusto sofferente» e delle prove che gli sono inflitte.
È vero che Cristo, in qualche modo, distrugge le profezie nel momento in cui ne rivela la pienezza del senso, ma è solo all’interno di questa dialettica tra il passato profetico e il nuovo patto di redenzione proposto all’umanità che il suo agire e il suo patire diventano comprensibili.
Il bello è che, per un certo tempo, nemmeno Cristo stesso legge bene la sua storia. Quando chiedeva a Dio perché lo avesse abbandonato, «non era arrivato all’assoluta conoscenza», come osserva Citati. «Come il Giusto di Isaia e dei Salmi , l’uomo soffriva e veniva abbandonato da Dio; ed egli doveva essere uomo fino alla sventura assoluta». Potremmo affermare che con la venuta di Cristo lo Spirito non si è insediato tanto nella carne umana quanto nelle parole del Vecchio Testamento, conducendo entrambe al di là dei loro limiti.
Potrà stupire il lettore che conosca l’immensa cultura di Citati il suo limitarsi, quasi ascetico, ai quattro Vangeli canonici. Non solo il suo esercizio di lettura non si avvale degli Apocrifi, ma non c’è traccia in questo libro di quel Cristo gnostico che a metà del secolo scorso uscì dai papiri di Nag Hammadi con una tale forza di persuasione da turbare i sonni di più di un credente ortodosso. Ma Citati non è solo il grande tessitore di arazzi, capace di tenere in mano innumerevoli libri come altrettanti fili che danno forma alle sue visioni. Con i Vangeli, ha usato un metodo che non gli è meno congeniale: quello dello scavo in profondità, tanto più efficace quanto più spronato dal desiderio di meditare su argomenti dai quali sembra impossibile ricavare qualcosa di nuovo e personale.
Non gli si può dar torto: non esiste una storia che sopravviva da sé senza che qualcuno si prenda la briga di raccontarla ancora una volta. Altrimenti, potremmo cadere nel tipico equivoco umanistico di credere vive, in base al loro semplice prestigio, cose che sono già avvizzite e morte da tempo memorabile. Nemmeno i Vangeli sono al riparo da questo rischio.

Corriere 23.9.14
L’ombra di Lutero fantasma tedesco
di Paolo Isotta

La copertina del nuovo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco, la migliore opera narrativa di questo scrittore (I cinque funerali della signora Göring , Mondadori, pagine 177, e 18, oggi in libreria), è una foto raffigurante una giovane, bellissima donna seduta al fianco di Adolfo Hitler. Si tratta dell’attrice Inga Ley, protagonista del film L’amore al tempo degli Dei , nato dal libro del 1939 di Fanny von Wilamowitz-Moellendorff Carin Göring : che fu un tal successo letterario sotto il nazionalsocialismo da esser secondo solo a Mein Kampf («La mia battaglia») dello stesso Führer. Fanny nasceva von Fock da una nobile famiglia svedese: era una delle tre sorelle di Carin, la sposa di Hermann Göring.
Hermann, capitano, era stato un eroe aviatore della Prima guerra mondiale nella quale aveva fatto parte della squadriglia del Barone Rosso . Ma nel torbido e terribile dopoguerra s’era dovuto rassegnare a fare il pilota di aerei merci o da noleggio. Nel febbraio del 1920 approda a Rockelstad in Svezia con un carico: è il castello della famiglia Fock ove risiede anche il colonnello von Kantzow che ha sposato Alexina, destinata a essere immortalata siccome Carin; e lei fugge il giorno dopo sullo stesso aereo di lui, abbandonando anche il figlio Thomas.
Buttafuoco narra una storia d’amore meravigliosa e atroce. Carin è tisica e non vivrà che undici anni; Hermann la adora ed ella accetta e condivide l’amore essendo sempre la parte cercata e inseguita. Eppure lo stoicismo e la dedizione di questa creatura femminile sono immensi: dal 1923 Göring, che l’aveva ricevuta per lenire i terribili dolori d’una ferita alla coscia riportata durante il fallito colpo di Stato monacense, è dipendente dalla morfina: la droga diventerà la principale ragione di vita dello sventurato insieme colla politica. Buttafuoco scrive pagine di céliniana altezza, ma, come l’intero libro, rigorosamente sostenute dai documenti, sui ricoveri in clinica psichiatrica dell’obeso gigante, sulle sue allucinazioni, le sue escandescenze.
Carin avrebbe dovuto esser curata a fondo. Accettò una vita di miseria e di strapazzi fintantoché il suo Hermann non raggiunse, troppo tardi, la ricchezza e la gloria. Gloria posticcia: sebbene al suo matrimonio e poi al suo funerale fosse presente Goebbels, Hitler, che voleva a lei un bene profondo, disprezzava Göring tanto da dare, nel bunker della Cancelleria, l’ordine, non eseguito, d’impiccarlo dopo la sua morte. Ma Carin divenne pel popolo l’immagine ideale della donna nazionalsocialista entrando nella leggenda.
Venne tumulata a Rockelstad ma subito dopo trasportata dal marito nella tenuta di Carinhall. Questa venne fatta distruggere da lui stesso il 2 febbraio 1945 nell’imminenza dell’arrivo dei Sovietici: e sepolta in luogo segretissimo. La vicenda del rinvenimento da parte dell’attendente di Göring e dei disperati, ma coronati dal successo, tentativi per ricondurre le spoglie mortali di Carin in Svezia, è la parte più romanzesca del romanzo: persone eroiche sfidarono la morte, alcune affrontandola, per far giungere nel desiderato porto quelle spoglie.
E qui l’ammirazione per chi andò a morte per assolvere il compito si mescola a un interrogativo che in un cattolico non può non nascere. Pagani o presunti induisti, costoro, a partire da Göring, erano affetti da un singolare materialismo: le ossa non sono che vanitas vanitatum ; e un romano non ancor cristiano pensava lo stesso.
Uno dei fantasmi eterni della Germania, specie a partire dall’Ottocento in ambito anche estetico ma risalente a colui che distrusse l’unità dello spirito europeo, Martin Lutero, è il suo odio per la romanità; portando il quale il nazionalsocialismo, che senza ne sarebbe stato temperato, fu la cosa atroce che fu. Buttafuoco, ch’è sicano, e dunque greco e romano, ce lo insegna in una prosa appassionante perché limpida e asciutta.