mercoledì 24 settembre 2014

Corriere 24.9.14
Il nemico allo specchio
Renzi tema soprattutto se stesso
di Ferruccio De Bortoli

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il Fatto 24.9.14
Puntare all’articolo 18 per smontare il Pd
Perché lo Statuto dei lavoratori diventa così importante?
Renzi non è un invasato: ha messo in conto che andrà tutto in frantumi
di Oliviero Beha


NON SFUGGE immagino a nessuno il valore simbolico e strumentale del famigerato art.18, preso da sempre a icona dello Statuto dei lavoratori da qualunque punto di vista. Non poter essere licenziati senza giusta causa, con un giudice che può reintegrarti nel posto di lavoro, non ha solo un importantissimo peso pratico per chi è nelle condizioni di goderne, peraltro sempre di meno come segnalano i dati in materia, ma è un totem in lontananza anche per chi non se ne può avvalere. È il solo fatto che ci sia che può tingere il diritto del lavoro di un colore o di un altro. Le polemiche su questo aspetto si sono affastellate negli anni, rivestendo sempre un contenzioso addirittura più politico che sindacale. Tra chi sosteneva che non si investiva più in Italia per colpa dell’articolo incriminato, chi diceva che non era importante (e dunque perché se ne parlava tanto?), chi lo voleva eliminare come retaggio dell’antica Roma – ma all’epoca c’erano schiavi e liberti… come oggi dunque? –, è da sempre il caposaldo di qualunque posizione sul lavoro, e sul diritto al lavoro. Del resto, che in un Paese senza meritocrazia e decerebrato da tanti punti di vista lavoro e salario/stipendio si siano divaricati, abbiano preso a un bivio due strade diverse, è cosa stranota e ormai vecchia. Ma a questo lieve dettaglio non si fa cenno quando si discute del mercato del lavoro, o del diritto al lavoro. E invece ne sarebbe un aspetto cruciale. Provate ad associarlo alla formula con la quale si vorrebbe sostituire il reintegro eventuale nel posto di lavoro con un indennizzo: di nuovo denaro e lavoro scorporati, stavolta per legge.
CE NE SAREBBE abbastanza per insistere nell’analisi di questo benedetto art. 18, come del resto ci sono nuove avvisaglie che si è intenzionati a fare da parte del governo e dell’opposizione situata ben dentro l’attuale maggioranza, se appunto non esigesse tutta l’attenzione possibile l’aspetto strumentale della faccenda. Prendiamo l’ultima esternazione all’americana di Renzi in proposito: “Serve un cambiamento violento” recita da oltreoceano richiamando l’eco del Colle. Poiché ritengo che fino a quando sarà possibile nella vita e nella vita politica le parole siano importanti e non sostituibili né interscambiabili, magari al di là delle stesse intenzioni psicolinguistiche del premier devo prenderlo sul serio. “Cambiamento” e va bene, da oltre 200 giorni (e anche prima di Palazzo Chigi) non si parla d’altro. Ma poi c’è l’aggettivo “violento” immediatamente riferibile al Jobs Act, alla ferma posizione sul lavoro, dunque ovviamente all’art.18. Non si scherza con il lessico: ha detto proprio “violento”, volendo così manifestare la volontà di andare avanti a qualunque costo. Perché è un invasato anti-art. 18? Lo escluderei, Renzi sta dimostrando di essere tutto fuorché un invasato. Casomai si lascia trascinare dalla corrente della comunicazione e non vede o non vuol vedere le rapide davanti al suo kayak . E allora? E allora politicamente deve aver messo in preventivo che si spacchi il Pd, nel versante di sinistra o sinistro che sia, e magari si frantumi anche Forza Italia con Berlusconi stretto al patto del Nazareno e Fitto in libera uscita. Contando ovviamente sulla grana grossa della questione, cioè il far passare il tutto come la novità di estromettere da qualunque ponte o ponteggio di comando quella che chiama “la vecchia guardia”, cioè Bersani ma non Verdini: l’opinione pubblica esasperata dalla crisi e da tutti gli indicatori economici a capofitto potrebbe seguirlo. Si vedrà. Ma il paradosso è che, per l’ennesima volta, pur in una situazione drammatica la politica parlerà di una cosa mirando a realizzarne un’altra. Niente di nuovo, è solo la musica sul Titanic…

Repubblica 24.9.14
Pierre Carniti
“La novità è che la riforma la fa l’esecutivo da solo. L’articolo 18 non c’entra”
“Sindacato troppo diviso lascia spazio al governo”
intervista di Paolo Griseri


ROMA . la vera novità della discussione sulla riforma del lavoro? «È che viene fatta dal governo e non dai sindacati». E la modifica dell’articolo 18? «Discussione da macchina del fumo, un modo per parlar d’altro. Poi si troverà un accrocchio». Nel giorno delle dimissioni di Raffaele Bonanni da segretario generale della Cisl, Pierre Carniti interviene sullo scontro del Job’s act. E conclude: «A Bonanni dico che i sindacati meno divisi non avrebbero lasciato questi spazi a Renzi e avrebbero fatto loro la riforma».
Carniti, lei è d’accordo a modificare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori?
«Perché, verrà modificato?».
Così pare..
«Non credo che questo sia il vero obiettivo. Sull’articolo 18 non si può andare oltre quel che hanno già fatto i governi precedenti e si troverà alla fine un accrocchio».
Allora perché si è aperta questa discussione?
«Perché a Renzi conviene fare la voce grossa con i sindacati. Un atteggiamento per piacere a certi establishment italiani ed europei e gli dà visibilità presso l’opposizione».
Ma non crede che gli alieni una parte dell’opinione pubblica?
«Lei dice? Non penso che ci voglia molto coraggio a bastonare il can che affoga».
Pensa che i sindacati oggi siano messi così male?
«Beh, bene non stanno. E che cosa c’è di più facile di gettare loro la croce addosso?».
Ammetterà che le norme sul lavoro che avete fatto voi quarant’anni fa sono ormai superate. Bisogna continuare a difenderle?
«Certo che no. Lo vedo anche io che sono superate. Che si tratta di rappresentare giovani precari, persone senza lavoro, dare una prospettiva a chi si trova in condizioni molto diverse dal 1970».
E allora perché opporsi al cambiamento proposto dal governo?
«Intanto vorrei capire che cosa c’entrano le proposte che si leggono sui giornali con la soluzione dei problemi della precarietà e della disoccupazione».
Lei non crede che rendendo più semplice il licenziamento si favoriscano gli investimenti stranieri in Italia?
«Sento sostenere questa tesi. Se è cosi Renzi avrebbe potuto dire ai sindacati: “Il signor Brambilla di Lugano aveva intenzione di investire in Italia ma siccome c’è l’articolo 18, non lo fa. Volete voi sindacati e organizzazioni degli imprenditori trovare una soluzione?”».
Quanto tempo ci avrebbero messo sindacati e Confindustria per trovare una soluzione?
«Perché i governi di questi anni, da Berlusconi a venire in qua, quali soluzioni hanno trovato? Hanno progressivamente reso più flessibile il mercato del lavoro e nel frattempo la disoccupazione ha continuato ad aumentare».
Come si crea occupazione allora?
«L’occupazione si crea con investimenti pubblici e privati. Ma il governo Renzi non ha oggettivamente spazi di manovra. Sulla politica economica deve vivere nei limiti imposti dall’Europa. Altrimenti potrebbe destinare 20 miliardi ad estendere a tutti la cassa integrazione e a far ripartire investimenti e consumi. Non avendo soldi non resta che far girare la manovella della macchina del fumo con l’articolo 18».
Lei come la farebbe la riforma del mercato del lavoro?
«Coinvolgendo sindacati e parti sociali. Siamo tornati alla concezione della prima metà del Novecento italiano che aveva espropriato le parti sociali di ogni autonomia con una riforma del lavoro affidata alla politica».
Le dà fastidio che si modifichi radicalmente il vostro sistema di regole?
«Non assolutamente, è probabilmente necessario. Ma se io sindacalista devo cambiare mi metto a contrattare. Scambio la flessibilità con i diritti, non lascio che sia la politica a decidere senza contropartite».
In queste ore Raffaele Bonanni lascia l’incarico che lei ha ricoperto a suo tempo. Qual è il suo giudizio sulla segreteria Bonanni?
«Io ho lasciato la Cisl trent’anni fa. Non ho titolo per esprimere giudizi. Sono come uno al quale è stata ritirata la patente».
Non può più guidare ma stando sul balcone può dare un giudizio sul traffico no?
«Se mi posso permettere, penso che la Cisl in questi anni avrebbe potuto cercare di più le strade dell’unità con gli altri sindacati. Un mondo del lavoro diviso non è mai un fatto positivo, come dimostra la debolezza di oggi di tutti i sindacati confederali.. e anche la discussione sulla riforma del mercato del lavoro».
Per essere uniti bisogna essere in due...
«Lo dice a me che sono sposato da 54 anni? Bisogna essere in due e bisogna volerlo».

il Fatto 24.9.14
Lo scrittore Marco Belpoliti
Giovinezza, novità e velocità
È il brand del premier: sempre contro i “vecchi”
intervista di Luca De Carolis


Renzi è un brand, un marchio, con tre caratteristiche: giovinezza, novità e velocità. È comprensibile che attacchi vecchia guardia e sindacati”. Marco Belpoliti, scrittore, insegna Letteratura italiana e letterature comparate all’Università di Bergamo. Il suo ultimo libro è L’età dell’estremismo (Guanda).
Da alcuni giorni Renzi non fa che indicare nemici: i sindacati, la minoranza Pd, i cosiddetti frenatori in genere. Lo fa per spostare l’attenzione da altri problemi o per addossare altri la colpa?
Lo fa perché funziona, perché contrappone il giovane e il cambiamento al vecchio, alla casta. Ma attenzione, lui non dice certe cose dopo aver fatto ricerche di mercato. Renzi produce il suo pubblico, con la forza persuasiva del suo messaggio.
Perché?
È capace di fare ciò che riesce a gli attori o ai leader culturali: le sue parole producono la realtà. Renzi è un brand, come lo è Coca Cola. Vende se stesso, come nel marketing. Siamo come di fronte a una pubblicità. Lo faceva anche Berlusconi, anche lui aveva capito che in politica lo schema è cambiato.
Detto questo, l’attacco ai vecchi del partito...
Nello schema del brand Renzi funziona perché attira l’attenzione. E perché rientra nella “storia” che lui racconta: quella del cambiamento, del giovane che non ha paura, come accennavo prima.
Come si vende il premier, qual è la forza del suo messaggio?
I punti principali sono giovinezza, novità e velocità. Sono i messaggi che lancia a tutti gli elettori, trasversali, perché ormai siamo oltre la sinistra e la destra. E il fatto linguistico è perfino più importante del contenuto, a contare è la modernità della comunicazione.
Cioè?
Faccio un esempio: il video in cui Renzi attacca i sindacati e imita la Camusso. È una novità, non lo aveva mai fatto nessuno.
Come ci contrappone a Renzi?
Dal punto di vista del messaggio in questo momento non può farlo nessuno. E di certo non si può inseguire sui contenuti, sarebbe sbagliato. Il renzismo è una procedura di marketing che consiste nel raccontare storie.
Gli oppositori cercano sempre di assimilarlo a Berlusconi, lo accusano di intelligenza con il “nemico”.
Quell’aspetto non conta nulla. Renzi va in consiglio di amministrazione e discute con l’azionista Berlusconi. Ma è un qualcosa che rimane dietro la scena. Ciò che è importante all’esterno sono le sue battute, il far parlare di sè, la sua camicia bianca.
Perché la indossa sempre?
È un altro elemento del marchio. Evoca la pulizia, il candore, la giovinezza. E rimanda al terziario avanzato, ai white collar (colletti bianchi), ai manager.
Si è parlato molto del fatto che è ingrassato. Lei ha scritto Il corpo del Capo, incentrato su Berlusconi: che ne pensa?
Non lo ritengo un aspetto fondamentale. Forse lo rende più simpatico, sì. In fondo è anche un gesto di affetto dire a qualcuno che sta ingrassando. Ma credo che il suo peso dipenda essenzialmente dal tipo di vita che deve condurre.

Repubblica 24.9.14
Giustizia, dietrofront del governo su autoriciclaggio
Testo ammorbidito su pressing Ncd e Forza Italia
Critiche dalle procure
di Liana Milella

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Corriere 24.9.14
Grasso al premier: sulla giustizia stai sbagliando
«La riforma della giustizia non sia fatta contro i magistrati»
intervista di Aldo Cazzullo


«La riforma della giustizia non si può fare contro i magistrati — dice il presidente del Senato Grasso al Corriere —. Gli arbitrati non funzionano; meglio limitare appello e ricorsi in Cassazione. Le ferie? Falso problema». E su Renzi confessa: «Uso poco twitter».

Presidente Grasso, quand’era magistrato quanti giorni di ferie faceva?
«Ha trovato la persona sbagliata. Al maxiprocesso non ho preso un giorno di ferie per tre anni, sono stato 35 giorni in camera di consiglio senza uscire dall’aula bunker e senza comunicare con nessuno, neppure con la famiglia. Mia moglie sapeva che ero vivo perché arrivava la biancheria sporca. Poi sono stato 8 mesi chiuso in casa a scrivere la sentenza. Un isolamento che all’epoca mi costò il rapporto con mio figlio. Si tratta di un caso eccezionale; ma è evidente che il vero problema della giustizia italiana non sono le ferie».
Certo, però 45 giorni sono tanti, o no?
«I giorni sono 30, come per tutti gli statali; se ne aggiungono 15 per la stesura delle motivazioni delle sentenze. Si possono togliere, purché si sospendano i termini di deposito dei provvedimenti. Ma non mi sembra il punto centrale...».
Le ferie dei magistrati come i permessi dei sindacalisti?
«C’è la tendenza a concentrare il dibattito su elementi di consenso popolare immediato, perdendo di vista la complessità delle riforme. Il consenso è importante; ma poi i testi vanno discussi e votati dalle Camere».
Resta il fatto che ogni corporazione è impopolare. Lo è anche la magistratura?
«La magistratura viene raffigurata come una classe che ha potere e privilegi; ma ci sono giudici che non hanno neppure l’ufficio, lavorano a casa. In realtà, la magistratura non può avere consenso, perché è destinata a scontentare sempre qualcuno: l’imputato, i suoi familiari, i suoi avvocati. Anche nel civile, c’è sempre una parte che perde. La prova sono i regali di Natale. I burocrati li ricevono, i politici pure. I magistrati, almeno quelli che conosco io, no».
Ma la riforma della giustizia è urgente, non crede?
«Sono 15 anni che ne discuto. Quand’ero magistrato andavo ai convegni sempre con lo stesso testo. È ancora valido».
La riforma della giustizia civile punta sulle composizioni extragiudiziali, in particolare sui collegi arbitrali formati da avvocati. Lei che ne pensa?
«Non posso entrare nel merito: il presidente del Senato non deve soltanto essere imparziale, deve anche apparire imparziale. Faccio solo notare che si è già tentato di ridurre il contenzioso attraverso il giudice di pace o forme di soluzione extra-giudiziale, come la conciliazione; che però non hanno eliminato i milioni di processi arretrati. Si può anche mettere un termine entro cui decidere: ma se non lo si rispetta, cosa succede? Chi vince la causa, chi la perde? Chi è disposto a cedere alle ragioni dell’altro?».
In Italia ci sono troppi avvocati?
«Temo di sì. Di sicuro ce ne sono molti più che negli altri Paesi. Ricordo un avvocato che mi diceva: “Causa che pende, causa che rende”. Si potrebbe porre un limite, introducendo il numero chiuso agli esami di abilitazione. Ma la riforma della giustizia non può essere punitiva nei confronti delle varie categorie. Non si può fare contro gli avvocati, e tanto meno contro i magistrati».
Come si fa allora ad abbreviare le cause?
«È fondamentale riformare i motivi del ricorso in Cassazione, che troppo spesso oggi viene fatto per ritardare i tempi. Si possono poi semplificare le motivazioni, che altri Paesi non hanno o sintetizzano in forme estremamente concise; mentre in Italia il difetto di motivazione è una delle cause del ricorso in Cassazione, che così diventa un terzo grado di giudizio di merito».
È possibile riformare o anche abolire l’appello?
«Da tempo sostengo che è assurdo consentire di impugnare le sentenze di patteggiamento. Si può pensare di escludere l’appello anche in altri casi. L’importante è che accusa e difesa restino ad armi pari. In passato si tentò di abolire l’appello solo per i pm nel caso di assoluzione, ma la Corte Costituzionale annullò quella legge».
Non pensa a quante condanne di primo grado vengono ribaltate in appello?
«Dobbiamo creare un sistema di pesi e contrappesi che limiti gli errori giudiziari. Nei Paesi anglosassoni la giuria composta da cittadini stabilisce con un verdetto solo se l’imputato è colpevole o no. Ma appena una piccola percentuale dei casi sfocia in un processo e in una sentenza. Soltanto da noi i processi si fanno tutti, perché abbiamo l’obbligatorietà dell’azione penale”.
Va eliminata anche quella?
«No, ma la si può rivedere ad esempio per tenuità dei fatti».
Altri punti importanti?
«Interventi seri per colpire la corruzione, l’economia sommersa, l’evasione, i delitti societari e finanziari, il riciclaggio; per rafforzare le indagini finanziarie sui patrimoni illegali; per moralizzare la gestione delle risorse pubbliche; per ostacolare con la presenza dello Stato il radicarsi socio-economico del potere criminale. Il mio primo giorno da senatore avevo presentato un disegno di legge su questi temi: credo sia un modo per dimostrare che la politica interpreta il suo servizio per il bene comune e dei più deboli, non per interessi di parte».
Al Senato Renzi ha espresso l’intenzione di chiudere vent’anni di scontro tra giustizia e politica.
«Concordo. Ma vedo che nelle reazioni popolari e mediatiche, fortunatamente non in quelle politiche, si continua a parlare di giustizia a orologeria…».
Si riferisce all’avviso di garanzia al padre del premier?
«No, al caso Eni. Bisogna considerare che c’è anche un orologio della giustizia, tempi da rispettare, e convenzioni internazionali sulla corruzione cui l’Italia ha aderito».
Sulla Consulta lo stallo continua. Le candidature di Bruno e Violante sono bruciate, non crede?
«Vedremo. Ma non si possono bloccare all’infinito i lavori parlamentari. Ci sono provvedimenti indifferibili e urgenti da esaminare».
Il primo è la riforma del lavoro. Qual è la sua posizione sull’articolo 18? La reintegra deve restare o può essere abolita?
«Mi limito a ricordare che l’articolo 18 di cui si discute oggi non è quello dei tempi di Cofferati; la riforma Fornero l’ha già reso più flessibile. In ogni caso, credo sia essenziale proteggere tutti i lavoratori nei loro diritti, anche quelli che oggi non ne hanno, ma senza ideologismi; a cominciare proprio dal diritto al lavoro che non coincide con il diritto a uno specifico posto di lavoro».
Il secondo provvedimento che arriverà al Senato è la legge elettorale. Cosa pensa del ritorno delle preferenze?
«Le preferenze richiamano tempi segnati dai rapporti clientelari. Nel mondo dei miei sogni ci sono primarie regolamentate per legge e collegi uninominali, con i cittadini che scelgono il loro rappresentante tra candidati che risiedono nel collegio da almeno dieci anni. E che sono candidati solo lì, non altrove».
Nel mondo dei suoi sogni c’è ancora spazio per cambiare la riforma del Senato?
«Molto è già cambiato, e in meglio, rispetto al progetto iniziale del governo. Resto convinto che, per garantire in parte la rappresentanza, sarebbe meglio consentire agli elettori di indicare i consiglieri regionali che andranno a Palazzo Madama, magari con una semplice preferenza».
I dipendenti delle Camere, con le loro decine di sigle sindacali, protestano contro i tagli. Come se ne esce?
«Decideranno gli uffici di presidenza. La proposta mia e della presidente Boldrini è ampia e tocca tutti i dipendenti: se si mette un tetto allo stipendio massimo, è equo prevedere “sotto-tetti”, un meccanismo di gradualità che impedisca ai dipendenti di guadagnare più dei vertici. Penso poi che arriveremo presto, d’intesa con la presidente della Camera, ad unificare organici e servizi, oltre a provvedimenti sugli ex parlamentari».
Quali provvedimenti?
«Togliere i vitalizi ai condannati per mafia, corruzione e altri reati».
Com’è il suo rapporto con i 5 Stelle?
«Gli scontri con loro contribuiscono molto al mio corso di formazione alla politica…C’è in molti una passione autentica. Spero che la usino anche per costruire. Nelle discussioni sul lavoro e sulla legge elettorale garantirò la libertà di espressione di tutti; ma farò rispettare tempi certi. Il Paese non può aspettare sine die».
Il suo rapporto con Renzi?
«Quello istituzionale è ottimo. Per il resto, uso poco sms e twitter. Abbiamo ancora una sfida a calcetto in sospeso».
E com’è oggi il rapporto con suo figlio?
«L’ho recuperato dopo l’assassinio di Falcone. Giovanni non aveva figli e amava stare con i figli degli amici, con Maurilio giocavano a ping-pong. Nel ’92 lui capì che si può anche morire facendo il magistrato antimafia, ma senza la ricerca della verità la vita non è degna di essere vissuta. Oggi fa il funzionario di polizia».

Corriere 24.9.14
Consulta, Bruno vacilla e Violante rischia con lui
I limiti di un patto ambiguo e lo stallo politico
La dilatazione nel tempo del «no» alle scelte di Renzi e Berlusconi per la Corte costituzionale mostra il limite politico delle loro intese
di Massimo Franco


Più che l’ennesimo nulla di fatto, ormai è una partita che va oltre i due candidati del Pd e di FI per la Consulta. La dilatazione nel tempo del «no» alle scelte di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi per la Corte costituzionale mostra il limite politico delle loro intese. Si può anche attribuire la responsabilità delle votazioni a vuoto al Parlamento «paludoso», a rapporti di forza irrituali, a candidature controverse; e perfino a regole istituzionali viste di colpo come obsolete. Queste giustificazioni, tuttavia, non cancellano i contorni di un’operazione nella quale veti dentro e tra i partiti si mescolano ad un malessere più generale.
Il ricorso di ieri alle schede bianche per non subire l’ennesima umiliazione a Camere riunite, vela un monito a palazzo Chigi; e in parallelo al suo alleato sulle riforme, Berlusconi, e al loro «patto del Nazareno». E al di là del ritardo che si accumula su altre scadenze parlamentari, l’impossibilità di eleggere i giudici della Consulta rischia di diventare la metafora di una deriva governativa: l’immagine di un esecutivo che forza sulle riforme, addita come uno spauracchio le urne, eppure non riesce a piegare i propri gruppi. E deve constatare la distanza tra le decisioni annunciate e la possibilità di concretizzarle.
Cadono nel vuoto gli appelli del Quirinale. Il problema è che questo limbo insinua un dubbio nuovo: e cioè se, in una situazione politica tesa e incerta, sarà mai possibile ottenere un «sì» da tre quinti del Parlamento. Non è una domanda oziosa. La scelta, vincente, di eleggere prima i componenti del Csm, come è accaduto ieri, rinviando l’ennesimo scrutinio sulla Corte, è il riconoscimento che manca una soluzione. Ed è interessante registrare l’insistenza sulle candidature iniziali: Luciano Violante per il Pd, Donato Bruno per FI. Su Bruno penderebbe un avviso di garanzia che irrigidisce la sinistra.
Ma se il berlusconiano si ritira, è difficile che Violante resista. E allora viene spontaneo chiedersi se il «prendere o lasciare» su questi due nomi nasconda il timore che chiunque subirebbe lo stesso trattamento. Staccandosi dalla prospettiva della Corte, c’è però un’altra elezione da immaginare: quella del prossimo capo dello Stato, che richiede un quorum diverso. E i voti ai due giudici mancati dicono che comunque, dopo i primi scrutini a vuoto, un presidente della Repubblica targato Renzi-Berlusconi potrebbe farcela. Potrebbe: tra una simulazione e un’elezione vera per il Quirinale si consumeranno giochi di potere ben più pesanti.

Corriere 24.9.14
Rodotà: «Preoccupato per i giovani dell’età di Renzi senza lavoro»
Il giurista commenta il piano per l’emergenza lavoro del premier

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Repubblica 24.9.14
Renzi, altolà alla minoranza Pd “Pronto allo scontro, se vogliono” E rispunta l’ipotesi del decreto
L’opposizione interna presenta 7 emendamenti in difesa dell’articolo 18 L’attacco di Bersani: “Matteo governa con il mio 25%, mi deve rispetto”
di Rosaria Amato e Goffredo De Marchis


ROMA «Così non ci sono le condizioni per mediare. Andiamo in direzione e ci contiamo. E se tirano ancora la corda, userò l’arma del decreto legge». Da New York Matteo Renzi si informa sulle riunioni delle minoranze con i suoi a Roma. Quello che considera un vero gesto di sfida, «praticamente la nascita di un partitino parallelo», è il numero delle firme sotto gli emendamenti presentati al Senato per difendere l’articolo 18. «Quaranta senatori? Significa che non vogliono mediare. Pensano di costringerci a chiedere i voti di Forza Italia, provocando la crisi di governo. Bersani e Bindi non guardano all’articolo 18, puntano a riprendersi il partito. Ma si sbagliano».
Non è la giornata giusta per avviare una trattativa fra le anime del partito. Si ferma persino il vicesegretario Lorenzo Guerini che pure non ha mai smesso di parlare con tutti: «Spero che in quel campo prevalgano le posizioni di Speranza, Epifani, Maurizio Martina». Cioè, che mettano in un angolo i frondisti più scatenati dei quali, a Largo del Nazareno, Bersani viene considerato il capo. In effetti, l’ex segretario non sembra disponibile al compromesso, neanche dopo le parole di Napolitano. «Un patto con Berlusconi sul lavoro? Ma non esiste, non ha ragione d’essere né numerica né politica. Io non voglio il partito unico destra-sinistra. Renzi stia più sereno, sul serio. E parli col suo partito». Dice di più, l’ex segretario, ancora scottato dalla lettera di Renzi agli iscritti in cui lo si additava come un cacciatore di rivincite: «Renzi governa con il mio 25 per cento. Dovrebbe avere più rispetto».
I dirigenti più vicini al premier sono altrettanto scatenati: «È tornata alla carica l’alleanza dei perdenti. Il primo effetto? Il Pd perde qualcosa nei sondaggi. È più forte di loro, adorano perdere», scrive in un tweet il tesoriere Francesco Bonifazi. Renzi, giurano a Palazzo Chigi, non l’ha fatto ma avrebbe volentieri retwittato, ossia condiviso il giudizio. «Non accettiamo veti», avverte Debora Serracchiani. I toni sono quelli dello scontro finale. Anche perché la riunione delle minoranze di ieri sancisce un tentativo di darsi un coordinamento, di mettere insieme le forze per raggiungere percentuali vicine al 35-40 per cento. Invece l’assemblea notturna dei bersaniani, orientata dai mediatori, vira verso il dialogo. Restano i sette emendamenti al Jobs Act, che ne cambiano profondamente la portata. Non solo si recede sull’abolizione di fatto dell’art.18, visto che il “nuovo” art.4 del ddl parla di «pieno godimento» delle tutele del contratto a tempo indeterminato «vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge» a partire «dal quarto anno di assunzione». Ma si attenua anche la possibilità di controllo a distanza, che diventa «sugli impianti», e dunque non più sui lavoratori. Anche sul demansionamento c’è una parziale marcia indietro, e si introduce inoltre una nuova disposizione che impegna il governo a «promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto».

il Fatto 24.9.14
Minaccia renziana: “Jobs Act o dite addio al Parlamento”
La minoranza dem presenta 7 emendamenti, ma Palazzo Chigi non tratta
di Wanda Marra


Il Partito democratico non caccia nessuno. Diciamo che chi dovesse dire no alla riforma del lavoro risponderà davanti agli elettori di non voler bene alla ditta”. Così ragionano gli uomini del premier (e il vocabolo scelto per indicare il Pd non è puramente casuale, a proposito di appropriazioni) mentre le minoranze sono sul piede di guerra. Fanno riunioni su riunioni, presentano emendamenti alla legge delega sul lavoro, chiedono incontri, provano a mettere i puntini sulle i. In testa Bersani, che affonda: “Renzi governa con il mio 25%: mi va bene, non chiedo riconoscenza, ma rispetto”.
RENZI E I SUOI, però, tirano diritti. Fino alla minaccia finale: “Mettiamo che ci fosse un numero tale di no da mettere in discussione il governo. Mettiamo che si arrivasse a far cadere la legislatura: chi ne è responsabile certo non può pensare di essere ripresentato”. Con le liste bloccate previste dall’Italicum, certo. Ma con il proporzionalissimo Consultellum in vigore? “Le liste vanno votate dalla Direzione”, chiarisce un renziano. E in direzione - manco a dirlo - il segretario-premier ha la maggioranza assoluta. Per ora le quotazioni di una rottura finale vengono date al 10-12%. Un margine di rischio evidentemente c’è. Il voto in Senato è stato spostato alla settimana prossima (dopo la direzione prevista per lunedì). Le larghe intese con Berlusconi o la fine della legislatura le minacce di Renzi più o meno velate sul piatto, nel caso che la legge delega dovesse passare grazie ai voti determinanti di Forza Italia. Intanto, c’è una settimana di trattativa.
La giornata di ieri era iniziata con un’assemblea dei senatori del Pd, con il ministro del Lavoro Poletti e il responsabile economico del partito, Taddei. Segnali di apertura (condizionata e poco chiara) dal governo. Sulla possibilità di reintegra per un lavoratore licenziato per motivi illegittimi “ci sono soluzioni aperte”, dice Poletti. Il gruppo non vota. La giornata è lunga. Alle 12 alla Camera si riuniscono i capi delle sotto-correnti del partito. Ovvero leader (o aspiranti tali) delle minoranze che marciano “divise e invise” (copyright di un renzianissimo).
Ci sono Pippo Civati, poi Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre per Area Riformista (non a caso non c’è il capogruppo, Speranza, che a rompere con Renzi non ci pensa neanche). C’è Gianni Cuperlo (che ha fondato Sinistra Dem). E poi Rosy Bindi, Francesco Boccia (ex lettiano), Franco Monaco (prodiano). Insieme nel nome dell’anti-renzismo. Sull’articolo 18 si consuma la battaglia finale: da una parte la sinistra del partito gioca la sua ultima battaglia riconoscibile; dall’altra Renzi ci tiene, da una parte, ad offrire a Europa e imprenditori stranieri la sua eliminazione, dall’altra ha un gusto particolare ad asfaltare anche questo simbolo. Parla la Serracchiani: “Per come conosco io Renzi credo non accetterà diritti di veto da parte di nessuno. Nel metodo la ‘ditta’ ha le sue regole che funzionano allo stesso modo, indipendentemente da chi è in maggioranza: quando eravamo minoranza, le abbiamo accettate”.
Dalla riunione della mattina arriva l’indicazione per 7 emendamenti, firmati da circa 40 senatori. Ci sono bersaniani, ma anche civiatiani i “dissidenti” della riforma del Senato, da Chiti, a Mineo, da Tocci e Mucchetti. Il più importante, quello che chiede l’articolo 18 dopo tre anni di assunzione. Cruciale la richiesta che arrivino prima le misure per rinforzare gli ammortizzatori sociali e rendere efficienti i centri per l’impiego. Ma i 40 firmatari sono pronti a tradursi in 40 voti contrari? Difficile dirlo, anche se per mandare sotto il governo (senza il soccorso azzurro) ne servono molti meno (la maggioranza dispone di circa 12 voti di vantaggio). Il governo pensa a una mediazione. Per ora, il punto di caduta possibile potrebbe essere quello di rendere possibile il reintegro dopo 10 anni di assunzione. Un po’ poco. Magari col passar dei giorni l’asticella scenderà.
MENTRE i renziani continuano a mandare segnali di fuoco, Fassina e D’Attorre hanno chiesto una riunione col premier prima della direzione. Poi, ieri sera, a Montecitorio, l’Assemblea di Area riformista: un centinaio di parlamentari, big compresi. Anche chi c’era parla di “tanta buona volontà, ma nessun guizzo”. E nessuna strategia su come gestire lo scontro con Renzi. Aveva detto Bersani: “Leggo che starei lavorando per chissà quale piano. A Renzi e agli altri dico, state sereni, ma veramente”.

il Fatto 24.9.14
Lotta dura dei compagni Farinetti e De Benedetti:
“L’articolo 18 non si tocca, basta che lo aboliate”
di Ma. Pa.


IL COMPAGNO OSCAR. No, non si tratta di Niemeyer. E nemmeno dell’idolo dei Comunisti per Oscar Giannino. Il compagno Oscar è Farinetti, patron di Eataly e uno degli ambasciatori del renzismo nel mondo vero e in quello mediatico. Ieri il nostro s’è fatto intervistare da Radio 24 per chiarire che lui, i diritti dei lavoratori, non li vuole toccare: “L’articolo 18 così com’è va bene”. Svolgimento: “L’altro giorno me lo sono riletto attentamente, perché ho l’impressione che molta gente ne parla senza averlo letto”.
Ebbene, una volta superato il “legalese”, Farinetti l’ha capita così: “Dice sostanzialmente che chi è discriminato, quindi non è licenziato per giusta causa ma per problemi discriminativi, deve essere o reintegrato o pagato, il che è una cosa giusta”. Il problema, alla fine, sono i giudici: “L’articolo 18 si può tenere così com’è, ma ci dobbiamo intedere su cos’è la giusta causa” perché “la magistratura nel 90% dei casi reintegra”. Quindi, la riforma del compagno Oscar è così articolata: “Vale la buona fede dell’imprenditore, fatta salva la dimostrazione che c'è veramente una discriminazione”. In pratica “l’imprenditore ha diritto nel caso il lavoratore rubi oppure non abbia voglia di lavorare oppure si riducano gli ordinativi di mandarlo via”. Il che sarebbe un po’ come abolire del tutto l’articolo 18, ma il compagno Oscar non è uno che si metta a perdere tempo con riflessioni oziose o “problemi ideologici”. Vede un problema e zac, te lo risolve. Nella sua lotta Farinetti d’altronde non è solo. Anche il capo del Cnl in Engandina, nome in codice L’Ingegnere, ha fatto sapere ieri che sui diritti di chi lavora no pasaran: “Fermarsi a discutere dell’articolo 18 è un problema minore rispetto ai problemi di questo Paese”.
Il lettore avrà già riconosciuto lo stile oratorio di Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e altro, la cui opposizione alle politiche neoliberiste di Matteo Renzi è pura come acqua di fonte: “Il premier ha portato un’esplosione di energia, di empatia e di capacità politica importante non solo per il suo partito, ma per il Paese”. Certo, il giusto riconoscimento delle doti dell’avversario, ma sul “problema minore” non si passa: “Le resistenze della minoranza del Pd sono comprensibili, ma da superare: l’articolo 18 è stato storicamente importante nell’epoca in cui è stata previsto, ma ora le condizioni dell’Italia sono preoccupanti”. Che poi vuol dire che pure lui vuole abolire l’articolo 18. Ma siamo sicuri che no pasaran?

La Stampa 24.9.14
Lo spettro vero è il voto al Senato
di Marcello Sorgi


Sulla riforma del lavoro e sulla proposta di Renzi di introdurre un contratto a tutele crescenti, e di fatto cancellare l’articolo 18 (con il diritto alla reintegra del lavoratore ad opera della magistratura), si prepara la carica dei quaranta dissidenti del Pd e dei quattrocento emendamenti messi a punto da Sel e M5s. Quelli Democrat, firmati appunto dai quaranta senatori, sono solo sette, ma da soli bastano a far saltare l’impianto della riforma, che il premier al contrario vuol salvare, sottoponendolo a un voto preventivo della direzione e dei gruppi parlamentari del suo partito.
Ma a questo proposito la tattica dei dissidenti rischia di rivelarsi più insidiosa di quella adoperata per contrastare ad agosto la riforma del Senato. Dunque, niente ostruzionismo, ma anche rifiuto di sottostare alla volontà della solida maggioranza renziana che controlla il Pd. In altre parole, o si trova una mediazione, per emendare il documento con cui il partito dovrebbe dire la sua sul lavoro, oppure i dissidenti si riservano il diritto di votare contro.
Immaginarsi con quale stato d’animo Renzi, che si trova negli Stati Uniti, ed è solito presentarsi in direzione leggendo il testo da approvare prima che cominci il dibattito, abbia accolto una manovra del genere. Il premier continua a ostentare testardaggine e ottimismo, per due ragioni. La prima è che gli emendamenti proposti dai suoi compagni di partito, dietro una disponibilità di facciata a trovare un accordo, contengono una demolizione dei punti centrali della riforma. L’art.18 verrebbe sostanzialmente mantenuto, le «tutele crescenti» per i nuovi assunti dovrebbero arrivare alla completa equiparazione con quelle previste per i lavoratori già adesso titolari di un contratto a tempo indeterminato, la delega al governo dovrebbe essere fortemente limitata (prima un piano di ammortizzatori sociali e solo dopo l’intervento sui contratti). Una completa vanificazione delle ragioni per cui Renzi ha fatto la sua proposta.
La seconda ragione è la stessa che alla fine ha portato all’approvazione, sofferta quanto si vuole, della riforma del Senato: se il governo va sotto sul lavoro, cioè su un punto centrale del suo programma, è crisi. E se c’è crisi, le elezioni tornano ad essere lo sbocco più probabile (anche se il presidente Napolitano è fortemente contrario).
Così lo scontro sul lavoro si avvia a prendere lo stesso percorso di quello di due mesi fa a Palazzo Madama. Con un’incognita sui numeri che a Palazzo Chigi si tende tuttavia a non sopravvalutare: infatti se tutti i quaranta dissidenti restassero compatti sul «no» alla riforma, il «soccorso azzurro» dei voti di Forza Italia potrebbe non bastare, specie se, dopo quello del Pd, anche il gruppo dei franchi tiratori berlusconiani dovesse ingrossarsi.

il Fatto 24.9.14
Jobs Act, il Pd al Senato rischia di perdere 40 voti

E di avere bisogno di B.
di Sara Nicoli

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il Fatto 24.9.14
Art. 18, Landini: ‘Reintegro per discriminazione? Gli imprenditori non sono coglioni’

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La Stampa 24.9.14
Lavoro, quaranta dissidenti nel Pd
Bersani avvisa Renzi
L’ex segretario: “Governi col mio 25 %” e attacca sulla manovra Sette emendamenti, uno per reintrodurre l’art. 18 dopo i tre anni
di Carlo Bertini


«L’errore che proprio non possiamo permetterci oggi è interrompere il cammino di riforme. E il rischio c’è perché le resistenze sono forti», ammette il titolare dell’economia, Padoan. E non è un caso che rassicuri tutti che «per la nuova indennità di disoccupazione e la riduzione delle tasse sul lavoro le risorse ci saranno, pur con l’enorme fatica imposta dai vincoli di bilancio». Nel partito del premier infatti, la minoranza vuole vender cara la pelle: al summit dei cento parlamentari bersaniani l’opposizione interna alza il fuoco della contraerea sulla legge di stabilità. Nel timore che arrivino tagli al welfare (ticket, sanità e altro) dopo quello dell’articolo 18, si sposta il tiro su un terreno scivoloso per il premier, vista la difficoltà a far quadrare i conti della manovra da 20 miliardi che sarà scodellata il 15 ottobre. Anche perchè sul jobs act la trattativa offerta al premier chiedendo un incontro prima della Direzione (condita dalla minaccia di un referendum tra gli iscritti), potrebbe arenarsi in un vicolo cieco.
Che l’aria sia questa lo dimostra l’altra bordata di Padoan, che liquida tutta la discussione sull’articolo 18 come «paradossale, perché guardando i numeri riguarda pochissime migliaia di lavoratori». E invece, dopo la riforma «ci saranno più prospettive di lavoro, più prospettive di investimento e di crescita e soprattutto retribuzioni più elevate».
Renzi è determinato ad abbattere il totem e non ci sta a farsi dettare l’agenda: la Serracchiani avverte che sarà la Direzione a votare una linea cui tutti dovranno attenersi. Bersani rigetta il richiamo alla disciplina della «ditta», nega che il lavoro sia un simbolo, «è la dignità», insomma un tema che è la ragione sociale del Pd non può essere risolto in Direzione. «A Renzi dico stai sereno, ma davvero, io tento di trovare una soluzione». Ma l’ex leader mena fendenti per ottenere ascolto da Renzi, che avrà pure preso il 40% alle europee, «ma governa col mio 25% e quindi mi rispetti». A Otto e Mezzo si mostra «scettico che la soluzione alla manovra venga dalla spending review e il vero banco di prova per il governo sarà la legge di stabilità».
Ma se non si trovasse accordo, al momento della conta in aula al senato come alla Camera, la compagine disposta a votare no potrebbe restringersi di molto. Anche i duri come D’Attorre ammettono che il no a quel punto potrebbe tradursi in una non partecipazione al voto, che sarebbe già uno strappo di non poco conto. Ma che facendo abbassare il quorum in aula, comporterebbe meno rischi per la maggioranza.
In una partita che mette alla prova la tenuta del partito, le minoranze provano a fare blocco. Prima di pranzo si chiudono nella sala Aldo Moro i capicorrente, Bindi, Civati, Cuperlo, Fassina e D’Attorre, Boccia. Insieme partoriscono sette emendamenti qualificanti che al Senato firmano in trentanove, quasi il quaranta per cento del gruppo. E che al primo posto vedono il reintegro per i neoassunti dopo tre anni, poi il disboscamento dei contratti precari e la certezza dei fondi per finanziare l’assegno universale di disoccupazione.
In serata si ritrovano nella sala Berlinguer i cento della minoranza e partono le bordate. E l’irritazione del premier cresce. «Bersani e Bindi non vogliono difendere l’articolo 18 ma prendersi il partito», commenta dagli usa parlando con i suoi. Eloquente il tweet del tesoriere Francesco Bonifazi. «E’ tornata alla carica l’alleanza dei perdenti. Primo effetto? Il Pd perde qualcosa nei sondaggi. È più forte di loro, adorano perdere».

il Fatto 24.9.14
Jobs Act, Bersani: “Articolo 18 è dignità. Renzi governa col mio 25%”
L'ex segretario difende la norma e boccia l'ipotesi di un eventuale patto con Berlusconi sulla riforma del lavoro
“Dove è scritto che il Pd vuole abolire l’articolo 18?”
E Toti rassicura il governo

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il Fatto 24.9.14
Cesare Damiano. Il reintegro deve restare
“Questo non è il congresso Pd Serve un’intesa”
intervista di Salvatore Cannavò


Cesare Damiano è il presidente della Commissione Lavoro della Camera. Prima o poi la legge delega sul lavoro, con le modifiche sull’articolo 18, dovrà passare da lì. Quindi, oltre a essere un esponente della minoranza del Pd, protagonista di uno scontro interno al partito, è anche un interlocutore istituzionale.
Come si esce da questo confronto?
Con un accordo.
E che accordo avete in mente voi della minoranza Pd?
Noi abbiamo le idee molto precise e le abbiamo depositate negli emendamenti presentati al Senato.
Quegli emendamenti ripropongono l’intangibilità dell’articolo 18. Dove sta l’ipotesi di accordo?
Intanto è sbagliato inseguire l’articolo 18. Questa è sempre stata una bandiera della destra. Noi dovremmo concentrarci sulla crescita del Paese. E poi l’articolo 18 è stato cambiato solo da due anni e in modo assai significativo. Andrebbe fatto seriamente un monitoraggio della riforma Fornero.
Qual è la proposta che avete in mente?
La proposta si può riassumere con il fatto che il nuovo contratto a tutele crescenti deve fissare la durata della prova che proponiamo sia al massimo di tre anni. Al termine di questa, il datore di lavoro ha due possibilità: licenziare il lavoratore senza alcun contenzioso come se fosse un contratto a termine. Oppure assumerlo a tempo indeterminato con le regole attuali, quelle della legge Fornero.
L’imprenditore sceglierà probabilmente la prima opzione.
In cambio, però, noi proponiamo un bonus per il periodo di prova e un incentivo fiscale all’assunzione. In fondo, rispondiamo alle richieste dell’Europa che ci dice di allungare la prova e di ridurre il costo del contratto.
Presenterete questa proposta alla direzione Pd del 29?
Intanto abbiamo presentato gli emendamenti, insieme a quelli sul demansionamento o sulla precarietà. Vediamo se passeranno.
Se però saranno respinti?
Ragioniamo passo dopo passo. Non stiamo facendo un congresso di partito e nemmeno vogliamo mettere in minoranza il governo. La nostra è una battaglia di merito e ci interessa solo ripristinare le tutele.
Vi accusano di essere conservatori.
Neanche per sogno. A noi interessa innovare e siamo d’accordo quando si parla di diritti universali. Che riguardano gli ammortizzatori sociali, la maternità, la riduzione delle tipologie di lavoro precario. E che dovrebbero valere anche per la tutela dal licenziamento senza giusta causa.
Non si sente parte di una vecchia guardia?
Anagraficamente non mi sento di primo pelo. Politicamente, però, ho iniziato nel 2002, dopo Renzi. E comunque in una casa qualche vecchio mobile ci sta bene. Non solo i mobili Ikea.

il Fatto 24.9.14
Articolo 18
L’atto di fede nelle virtù del licenziamento
di Stefano Feltri


IL PUNTO non è se è giusto abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma come decidiamo se è giusto o sbagliato. Le imprese non assumono perché temono di non poter licenziare? Restano nane, sotto i 15 dipendenti, per evitare la soglia che fa scattare l’obbligo di reintegro del lavoratore cacciato senza giusta causa? Ha ragione Renzi o la Cgil? Per rispondere bisognerebbe avere dei dati che permettano di fare una scelta motivata e non ideologica. In teoria questa volta dovremmo averli. Perché a gennaio è stato pubblicato il monitoraggio della riforma Fornero del 2012 che ha modificato, tra l’altro, l’articolo 18: la novità è che in caso di licenziamento disciplinare o per ragioni economiche giudicato illegittimo (ma non discriminatorio, che è nullo), il giudice può decidere se applicare il reintegro del lavoratore o un risarcimento tra le 12 e le 24 mensilità. Qualcosa è cambiato: l’indice Ocse che misura la difficoltà dei licenziamenti in Italia è passato dal 4,5 del 2008 al 3,5 del 2013 e, come sottolinea il ministero del Lavoro nel documento, è la prima volta che la flessibilità del mercato aumenta grazie alla maggiore facilità di licenziamento di chi ha un contratto a tempo indeterminato (anche se il 75 per cento dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo avviene nelle aziende con meno di 15 dipendenti, e dunque senza articolo 18). Le assunzioni sono aumentate grazie alla modifica dell’articolo 18? La risposta, semplicemente, è che non lo sappiamo. Questo nel rapporto del ministero non c’è scritto. Sappiamo solo che – forse – un po’ di super precari (tipo lavoro a chiamata) hanno brevi contratti a tempo determinato, leggero miglioramento. Ma cambiare la disciplina del mercato del lavoro in piena recessione non permette di misurarne bene gli effetti. Qualche economista vi dirà che licenziamenti un po’ più facili rendono anche le assunzioni un po’ più facili, altri sosterranno che o si cancella del il reintegro dalle sanzioni o niente cambia, altri ancora vi spiegheranno che è irrilevante l’articolo 18. Ma di solito si tratta di convinzioni personali, viene richiesto un atto di fede più che di comprensione. Tutti i precari italiani scambierebbero il loro co.co.co., co.co.pro. o partita Iva con un contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti. Perché la loro condizione di sicuro non peggiorerebbe. Se invece chiedete loro: “Volete essere facilmente licenziabili il giorno (lontano) che sarete assunti?”, saranno meno entusiasti. Eppure il dibattito sul lavoro parte sempre dalla facilità di licenziamento, anche se non vi è proprio alcuna prova numerica che sia la variabile decisiva.

il Fatto 24.9.14
Riforma del lavoro: quali tutele? E quanto crescenti?
di Lavoce.info

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il Fatto 24.9.14
Articolo 18: Matteo, le ‘scelte violente’ e i nemici del lavoro
di Fabio Marcelli

giurista
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il Fatto 24.9.14
Articolo 18, i giovani italiani non seguono il ‘giovane’ Renzi
di Maso Notarianni

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il Fatto 24.9.14
Lavoro, ecco perché saremo tutti più poveri
di Elisabetta Ambrosi

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il Fatto 24.9.14
Primarie Emilia, Pd teme l’astensione dopo le polemiche. Pronti 100 seggi in meno
di Paola Benedetta Manca

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il Fatto 24.9.14
Miracolo in Vaticano: Francesco fa arrestare l’arcivescovo pedofilo
di Francesco Antonio Grana

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il Fatto 24.9.14
Barbie ispirate alla Vergine Maria, è polemica: vescovi e fedeli contro gli artisti
di Elisa D'Ospina

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Corriere 24.9.14
Fede e scienza s’interrogano sull’aldilà
Emanuele Severino con Vincenzo Vitiello e altri
di Armando Torno


Il Master «Death Studies & the End of Life», diretto da Ines Testoni (Università di Padova), ha organizzato un congresso internazionale dal titolo «Vedere oltre dinanzi al morire». Si terrà nella città veneta da domani a domenica 28 settembre nei Palazzi San Gaetano e Gran Guardia. Affronta il tema della morte e della spiritualità mettendo a confronto le diverse religioni, il pensiero, i saperi scientifici, anche i fenomeni paranormali. Previsti quasi 100 interventi di psicologi, medici e filosofi giunti da diverse nazioni; si terranno tavole rotonde, tra cui quella con Emanuele Severino e Marcelo Sánchez Sorondo (parlerà della salvezza intesa come partecipazione alla natura divina). Vincenzo Vitiello discuterà della finitudine assoluta della vita umana; Abdellah Redouan e Vincenzo Pace della religiosità musulmana; Gadi Luzzatto Voghera e Roberto Della Rocca di quella ebraica; Andrea Toniolo e Guidalberto Bormolini della cattolica. Inoltre Franco Battiato presenterà il documentario, di cui è regista, Attraversando il Bardo . I posti disponibili sono esauriti da tempo, comunque sarà possibile seguire gli incontri su Internet (informazioni su www.endlife.it). Ines Testoni, docente di Psicologia sociale, nota: «È il primo congresso grazie al quale, in Italia, si confronteranno le più disparate tendenze sulle ipotesi e i significati che attendono l’uomo oltre la vita. Desideriamo dare voce a tutti coloro che hanno un’intuizione dell’eternità. Non è una questione soltanto religiosa: essa investe da tempo filosofia, linguaggi, scoperte scientifiche, oltre l’esistenza».
* * *
Severino, uno dei protagonisti del congresso, ci ha confidato: «“Vedere oltre dinanzi al morire” (bello il titolo!) significa anche che noi siamo essenzialmente il guardare oltre la morte. Moriamo all’interno di noi stessi: moriamo come coscienza e volontà malata, errante; rimaniamo come apparire della verità. Leggiamo nel Faust di Goethe: “Due anime abitano, ah, nel mio petto”; una è la grande anima che ognuno di noi è, e che vede morire il nostro piccolo essere io; l’altra anima è questo piccolo essere io». E ancora: «Guardiamo oltre la morte anche perché il nostro stare oltre di essa non è qualcosa di quieto, ma è un cammino infinito; è l’infinito sopraggiungere di eventi che oltrepassano la sofferenza di questo nostro vivere; tale sviluppo merita il nome di gloria». Chi ha seguito l’evolversi del pensiero di Severino sa che ha chiamato in causa un concetto da lui approfondito negli ultimi anni. Prosegue: «Gli eventi che all’infinito ci verranno innanzi, e quindi infinitamente e oltre la morte, sono gli eterni. Non perché non ci sia qualche evento che non sia eterno, infatti il destino è l’innegabile apparire dell’eternità di ogni essente. Siamo in rotta di collisione non soltanto con le diverse forme della fede religiosa, ma con l’intera sapienza dell’uomo. L’eternità di ogni essente è scandalosa. Sembra concordare con l’essenza della teoria della relatività: Einstein diceva che il futuro e il passato non sono meno reali del presente, il che significa che ogni evento è eterno. Ma la logica di questa teoria è quella ipotetica della scienza e si riferisce soltanto al cronotopo quadrimensionale (la realtà spazio-temporale); mentre il destino non è affatto un’ipotesi, e cioè non può essere cambiato né da mutazione dei tempi o del pensiero, né da un Dio onnipotente».
E qui il discorso affronta il tema del congresso. Severino continua: «Anche le religioni monoteistiche sono fondate sul concetto di creazione ex nihilo , dove le cose di per se stesse sono nulla e hanno bisogno di un Creatore per esistere (e poi di un Salvatore per mantenersi nell’esistenza o per “risorgere”)». Conclude sottolineando un concetto decisivo: «Il destino vede che la più umile delle cose è eterna proprio perché è quella certa cosa, giacché pensare che questo filo d’erba sia stato e torni ad essere nulla, significa pensare che questo, che non è un nulla, sia un nulla».

il Fatto 24.9.14
Roma violenta
“I poliziotti a Corcolle: picchiateli, ma domani”
di Antonello Caporale


M. ha solo 21 anni, è una giovane donna che studia Giurisprudenza all’università di Tor Vergata, conosce il posto che deve avere la legge in una società civile. L’altra sera era a pochi passi dai bianchi italiani che volevano bastonare i neri, gli stranieri d’Africa, imputati di aver preso a sassate due autobus di linea e reso invivibile Corcolle, borgata confinata ai margini della Capitale, nella punta a est che inonda di cemento la Prenestina e la contorce fino a saturarla di traffico. M. ha visto alcuni suoi concittadini prendersela con i neri, soprattutto con un tizio ghanese, mercante pacifico di collanine. Ha visto che la protesta era monitorata da due pattuglie della polizia. Ha però sentito la voce di un poliziotto che dissuadeva un dimostrante con queste parole: “Ve li lasciamo domani. Adesso c'è troppa gente”.
M. È SBIANCATA: “Stavo vomitando per il disgusto, provavo vergogna, quegli agenti mi sembravano simili al gruppo di facinorosi. Ho pensato: questi se non avessero la divisa farebbero esattamente ciò che i violenti stanno facendo, gonfiare di botte un nero, uno a caso. Mi hanno detto che la frase valeva come consiglio, era un modo per stemperare, alleggerire, ridurre il contesto violento e infine disperderlo. Ma bisogna calcolare il peso delle parole, e giudicare se quella gente inferocita non potesse travisare quel consiglio e prenderlo invece come un via libera ai pugni e alle spranghe”.
Il ghanese è finito all’ospedale per le botte, senza che gli uomini in divisa riuscissero a sottrarlo ai calci (testimonianza di F. donna, italiana, di giovane età), l’assembramento si è sciolto fornendo ai giornali la notizia ghiotta della rivolta dei bianchi contro i neri.
Siamo a Corcolle, periferia est di Roma, quadrante urbano che vive ai margini, oltre il Grande raccordo anulare. Sono i pini marittimi a dare il benvenuto, e le villette che costeggiano la parte alta della borgata, sorta cinquant’anni fa in modo abusivo ma miracolosamente ordinato, a denunciare la distanza che separa l'apparenza dalla realtà. Cosa è successo qui tre sere fa? Secondo le cronache un autobus di linea sarebbe stato assalito da una umanità dolente e violenta. L’autista, una ragazza neanche trentenne, è stata bersaglio di un’ira funesta e improvvisa. Umanità migrante, facce di neri, gente disperata che frequenta le strade della borgata. Il primo assalto andato a vuoto, un secondo assalto e infine la protesta dei residenti italiani che, indignati, hanno reagito.
Fin qui l’apparenza. Corcolle conta diecimila abitanti. Le strade sono larghe e si sviluppano a scacchiera. Ci vivono gli italiani, soprattutto operai, migranti calabresi, campani, veneti, siciliani. Un appartamento costa centotrentamila euro, quando nella prima periferia di Roma il valore è circa il doppio. Con duecentomila una villetta a schiera, il sogno di tutti. Negli anni l'immigrazione si è ampliata e il sud del mondo ha fatto l'ingresso. Nigeriani, ghanesi, poi cinesi, poi rumeni.
“La convivenza è stata sempre assicurata. Noi soffriamo invece la lontananza da Roma e il completo disinteresse verso questa borgata. Non tutte le case hanno ancora l’allaccio alla rete fognaria, manca una palestra, non abbiamo una scuola media che accolga tutti i nostri ragazzi, ogni volta che piove ci allaghiamo perché siamo sotto la linea d’acqua dell’Aniene. Non esistono servizi comunali, o giardini, o cinema”, dice Danilo Petrucci, il presidente del comitato di quartiere.
VERO, NON ESISTE niente. Roma si ricorda di Corcolle quando pensa a una discarica. Oppure quando deve sistemare i migranti richiedenti asilo. Corcolle è la Lampedusa di Roma, circondata dai centri di trattenimento e identificazione. Uno è qui, via della Novafeltria. Un altro a Fossa del Loaso, al Villaggio prenestino, poi ancora a Roma est, a Colle Cesarano, a via di Rocca Cecina.
È un flusso ininterrotto di corpi che vanno e vengono dalla Capitale. Partono all’alba e tornano a sera. Sono i clienti della linea 508 dell’Atac, bus che li trasporta fino alle porte del centro storico. Ma passa quando può, e a volte non si ferma quando dovrebbe. Magari è successo proprio tre sere fa. L’autista, impaurita dal numero delle persone da far salire, e forse dal buio della prima sera, ha accelerato spaventata. Ha sentito un botto e si è fermata. Ha chiamato il capoturno che gli ha chiesto di tornarsene di corsa nella sede Atac. Marcia indietro e di nuovo i migranti, cambiato verso, hanno avanzato la richiesta. Di nuovo no. Da qui l’ira e anche la violenza ingiustificata.
Le fiamme della collera, quando la crisi economica si fa così dura, si sono presto fatte alte. Sul banco degli accusati i migranti del centro di prima accoglienza (che sta per essere svuotato), poi la giustizia di strada ha preso di mira il colore della pelle. Botte a prescindere, finalmente.

Corriere 24.9.14
L’estrema destra
Brindisi, cravatte e camicie nere
I fantasmi che agitano il Nord Europa
di Giovanni Sarcina


SJÖBO (Svezia) Domenica 14 settembre il signor Anders Robert ha compiuto 95 anni: festeggiamenti con una trentina di parenti e amici al Gastgifvaregard, antico ristorante di Sjöbo, un villaggio di seimila abitanti nel Sud della Svezia. Campi di patate, di foraggio. Villette di mattoni rossi a un piano con la bandiera nazionale piantata in giardino. In questo distretto, nelle elezioni del 15 settembre, gli Sverigedemocraterna, i Democratici svedesi, sono arrivati fino al 30% dei voti. Il loro leader, il trentacinquenne Jimmie Akesson, vuole ridurre del 90% l’immigrazione e tagliare il più possibile il miliardo di euro stanziato per l’accoglienza in bilancio statale che di miliardi ne conta 100. Il signor Robert, però, ha votato «per la socialdemocrazia», come ha sempre fatto dal dopoguerra in avanti. Ora il suo problema, quello di sua figlia Elizabeth, dei nipoti che lo guardano mentre, in abito scuro e cravatta bordeaux, brinda «al futuro della Svezia» è capire se bisogna davvero preoccuparsi o se «passerà anche questa volta», come è successo per il collaborazionismo con i nazisti o il referendum anti-immigrati indetto nel 1986 in questa circoscrizione.
Stefan Löfven, il segretario dei socialdemocratici, ha scalzato il premier moderato Fredrik Reinfeldt, ma non riesce a formare il governo, perché quel 12,9% di consensi raccolto a livello nazionale dai Democratici svedesi blocca il gioco delle alleanze. Per il momento tutte le forze politiche tradizionali rifiutano non solo un accordo, ma anche il semplice confronto con i populisti. E così il problema del signor Robert è anche il problema di Löfven, della Svezia (9,5 milioni di abitanti), dell’Unione Europea.
Sabato mattina, 13 settembre. Il signor Michael Mortensen, 53 anni, manager di una società hi-tech, si rilassa passeggiando nel parco di Aarhus, città portuale nella penisola di Jutland, Danimarca centrale. Dice che nel passato il suo Paese è stato il più aperto in Europa, ma ora questa condizione non è più «economicamente sostenibile». E allora anche lui, vecchio liberaldemocratico, appoggia la linea politica del Dansk Folkeparti, il Partito danese del popolo, che alle europee ha conquistato il primo posto con il 26,6%, staccando di sette punti i socialdemocratici al potere e di dieci i liberali. In Danimarca si vota tra un anno, ma la campagna è già cominciata. Il candidato da battere non è la premier socialdemocratica, Helle Thorning-Schmidt, bensì Kristian Thulesen Dahl, 45 anni, capo del Folkeparti, subentrato nel settembre 2012 alla fondatrice Pia Kjaersgaard. Le forze populiste del Nord Europa non sono più outsider fastidiosi, ma in definitiva irrilevanti. Ormai da tempo si sono liberate delle ferraglie neonaziste delle origini che risalgono agli anni Novanta. Rimangono tracce, comunque inquietanti, di raduni e camicie nere, specie nelle organizzazioni giovanili, in Svezia soprattutto. Ma il processo di dialisi politica è ormai completato in tutta la Scandinavia. In Norvegia il Partito del Progresso, lo stesso cui aderiva lo stragista Anders Breivik, adesso fa parte della coalizione di governo con i conservatori. La sua leader, Siv Jensen, 45 anni, è anche ministro delle Finanze e da lì insidia il bacino elettorale degli alleati. In Finlandia, i Perrussuomalaiset, i Veri finlandesi guidati da Timo Soini, 52 anni, sono il terzo partito con il 13% e stanno erodendo i consensi dei socialdemocratici. Il Dansk Folkeparti, pur restando sempre all’opposizione, condiziona dal 2001 le priorità in tema di immigrazione fissate dagli esecutivi liberaldemocratici. Tanto che oggi la legislazione danese in materia è tra le più spigolose d’Europa. Qualche esempio: età minima (24 anni) per sposare il partner extra comunitario; ostacoli enormi per il ricongiungimento familiare e così via. Ma anche i socialdemocratici si stanno riposizionando. Venerdì 12 settembre il governo di Thorning-Schmidt ha annunciato una clamorosa restrizione del diritto d’asilo rispetto agli standard delle socialdemocrazie scandinave: solo un anno di permanenza e poi, se ci sono le condizioni di sicurezza, i rifugiati potrebbero essere rispediti nei Paesi di provenienza.
I costi di almeno venti-trent’anni di apertura praticamente incondizionata cominciano a pesare anche per queste economie solide e dinamiche. Il welfare, lo Stato sociale svedese, assegna circa mille euro al mese ai disoccupati e altri 400 per pagare l’affitto di una casa popolare, senza fare distinzione tra cittadini e immigrati. Il sistema danese ora è un po’ meno generoso. In ogni caso le municipalità coprono le spese di luce, telefono e canone tv per chi resta senza lavoro, stranieri compresi. In realtà, come nota Peter Helvig, studioso dell’immigrazione all’università di Aalborg, Nord della Danimarca, è difficile valutare esattamente benefici e perdite collegate ai flussi migratori. Ma i populisti nordici spezzano in due ciò che dovrebbe rimanere unito, come la partita doppia (entrate e uscite) di un’azienda. È un’operazione già vista altrove e che trova condizioni particolarmente favorevoli nell’habitat scandinavo.
Quattro giorni di viaggio per rendersene conto: 493 chilometri, da Aalborg, estremo Nord della Danimarca a Sjöbo, Svezia meridionale, con tappe ad Aarhus e Malmö. Il paesaggio economico racconta anche qui le sofferenze dei vecchi complessi industriali. Ad Aalborg, di fatto, restano solo i cementifici, obsoleti e inquinanti, mentre i cantieri navali sono stati venduti ai coreani o smantellati, così come accaduto a Malmö. L’agricoltura intensiva tiene, ma ad Aarhus si capisce come la ricchezza sia concentrata nella produzione di tecnologia e nei servizi più sofisticati. La massa degli immigrati preme sulla base della piramide, l’antica manifattura, oppure sul terziario più elementare (le imprese di pulizie o di trasporto). Il numero uno del Dansk Folkeparti, Thulesen Dahl, osserva Susi Meret, ricercatrice italiana specializzata in studi sulla «migrazione e diversità» nell’università di Aalborg, si propone di impersonare la trasformazione danese. Si è laureato in Economia ad Aalborg, l’università più innovativa e sperimentale del Paese. È entrato molto presto in politica, iscrivendosi prima al Partito del Progresso, una formazione anti-tasse degli anni Ottanta, poi seguendo nel Folkeparti Pia Kjaersgaard, 67 anni. Due anni fa la fondatrice, figura storica del populismo danese, passò la mano a Thulesen Dahl. Nel corso della campagna elettorale per le Europee il nuovo leader si è fatto fotografare con un primo piano fin troppo rassicurante e lo slogan «Sicurezza e fiducia: si può». Le gigantografie dominano, incontrastate, le piccole stazioni ferroviarie che scendono lungo la penisola dello Jutland e poi fino a Nyborg, a Slagelse, a Ringsted, nelle due grandi isole. Tutto bene finché il treno non sbuca nella periferia di Copenhagen, dove qualcuno ha disegnato un paio di baffetti alla Hitler sul labbro perfettamente rasato di Thulesen Dahl. Un modo rozzo e sbrigativo per cogliere, però, un punto. Se fosse solo una questione economica, di manutenzione del bilancio pubblico, liberali e socialdemocratici avrebbero gli strumenti tecnici per correggere le storture del welfare, togliendo spazio alle nuove forze. Evidentemente c’è dell’altro. Le cifre lasciano spazio alle passioni, ai sentimenti e soprattutto ai pregiudizi del territorio. I populisti danesi si scagliano contro «le gang criminali» formate da immigrati lituani ed estoni, indicandoli come un pericolo per la tranquillità dei cittadini pacifici e operosi. Resiste inoltre, in modo particolare in Svezia, l’allergia all’Islam di importazione. Malmö, spiega Anders Hellstrom, 38 anni, professore aggiunto di Scienze politiche all’Università locale, è la città frontiera in questo momento: 270 mila abitanti, 164 nazionalità, cento lingue diverse. L’opinione pubblica è divisa, ma anche qui, nel Sud della Svezia, la maggioranza continua a difendere il modello di società aperta, disponibile all’accoglienza e all’integrazione. Nelle ultime europee molti elettori di Malmö hanno scritto sulla scheda il nome di Zlatan Ibrahimovic, stella del calcio mondiale, cresciuto nel quartiere di Rosengard, dove erano approdati i genitori bosniaci. A Sjöbo, cinquanta chilometri più a Ovest, i simpatizzanti dei Democratici svedesi, invece, si mimetizzano, sfuggono. Per ora non vogliono esporsi. Anche se tra loro i nostalgici di un’epoca solitaria e felice, forse, sono più numerosi dei razzisti.

in Italia invece Renzi non ci pensa proprio...
Corriere 24.9.14
La tentazione patrimoniale dei laburisti
di Fabio Cavalera


I laburisti riuniti a congresso a Manchester lanciano la volata di Ed Miliband (nella foto) verso Downing Street con la proposta di una patrimoniale sulle case di valore superiore ai 2 milioni di sterline e così, in futuro, intendono trovare le risorse per ricostruire la sanità pubblica (il Nhs) vicina al collasso. Nei prossimi otto mesi il centrosinistra si gioca la possibilità di riprendere la maggioranza a Westminster.
Nel 2010 la luna di miele con l’elettorato finì in malo modo perché la modernità di Tony Blair si trasformò nel peggiore dei matrimoni d’interesse, quello con i banchieri e la finanza fallimentare della City, carichi di arroganza e alla fine responsabili della grave crisi del debito. La punizione fu severa e giusta.
Esautorata la classe dirigente legata alla stagione della «terza via», il giovane Ed Miliband fu chiamato a ridare ossigeno e slancio al laburismo in ripiegamento. Che cosa è cambiato in questi quattro anni?
I sondaggi che con regolarità si affacciano nella lunga campagna per le consultazioni generali della primavera 2015 danno il centro-sinistra britannico avanti rispetto ai conservatori. Eppure non è tutto oro ciò che luccica. Il laburismo si destreggia fra totem populisti e sogni di riformismo.
I numeri reali (e non le statistiche virtuali) emersi nel 2014 dal voto locale e dal voto europeo con le emorragie nelle tradizionali roccaforti del partito e il mancato sfondamento nella Middle England delusa dai tory, sono un chiaro segnale dei dubbi che circondano il centrosinistra post blairiano: il laburismo è alla ricerca di una identità che non sia ondeggiamento trasformista e che non sia la riproposizione mascherata del bilanciamento sociale e di potere (mano libera alla City-assistenzialismo) dimostratosi disastroso in passato.
Ed Miliband è intelligente e ha seri propositi. Può naturalmente vincere e riportare i laburisti a Downing Street. Ma più per le divisioni dell’elettorato di centrodestra che per vigorosa fantasia politica. Le parole d’ordine di un tempo riaffiorano e non sono, nel lungo periodo, la medicina del progresso. La patrimoniale sulla casa non è sbagliata in astratto però è solo una bandiera simbolica. Da sventolare quando c’è poco altro da dire.

Corriere 24.9.14
Aborto, marcia indietro della Spagna
Il governo ritira la riforma restrittiva
l premier Rajoy si piega all’opinione pubblica e alle pressioni dall’interno del partito
di Andrea Nicastro


MADRID La riforma dell’aborto in Spagna non si farà. Non verso quell’«arretramento trentennale dei diritti delle donne» che era stato ipotizzato in un contestatissimo disegno di legge presentato a dicembre. Una riforma presente sì nel programma elettorale del Partido Popular al governo, ma che una volta messa nero su bianco dal ministro della Giustizia Alberto Ruiz Gallardón aveva scatenato l’opposizione di tutta l’Europa femminista e persino di ampi settori dello stesso partito di maggioranza assoluta spagnolo.
La nuova legge avrebbe voluto ridurre il tempo per l’interruzione di gravidanza e nel contempo esigere il parere di due medici per valutare le «conseguenze psicologiche» che un’eventuale gravidanza a termine avrebbe provocato sulla gestante. Si sarebbe così tolto, protestarono a migliaia in piazza, «il controllo delle donne sul proprio corpo e la propria psiche». I meccanismi per accedere alla Sanità pubblica erano così complessi da apparire mirati a rendere l’aborto quasi impossibile. Anche in caso di stupro, ad esempio, l’interruzione di gravidanza era subordinata a una denuncia penale e non solo a una certificazione medica.
Diedero una valutazione negativa le associazioni dei medici, i primari degli ospedali, gli assistenti sociali, tutti i partiti presenti alle Cortes. «Se la riforma spagnola dovesse essere adottata riporterebbe le donne all’età della pietra» disse la ministra francese agli Affari sociali e alla Sanità, Marisol Touraine. Vi furono cortei di sostegno alle donne spagnole in tutta Europa, Italia compresa.
Persino all’interno del Pp si levarono voci contrarie. Forte della sua maggioranza assoluta, il Pp non avrebbe avuto bisogno di voti di altri per far passare il disegno di legge, ma evidentemente è bastato il dibattito interno e le valutazioni sull’impatto che la riforma avrebbe potuto avere in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, a far decidere per il ritiro del testo. Ieri sera solo sparuti gruppi di estremisti cattolici protestavano davanti alle sede del Pp.
Ieri mattina è stato lo stesso presidente del governo spagnolo Mariano Rajoy ad annunciare la marcia indietro. «E’ la cosa più sensata da fare» ha detto il premier nel suo ormai classico stile sfuggente. Entro Natale il Pp si impegna però a varare un’altra legge, una «riforma light», limitata all’aspetto più controverso dell’attuale normativa: la libertà di aborto per le minorenni senza il consenso dei genitori. Su quest’aspetto non si annunciano levate di scudi anche perché l’aborto «express» voluto dal passato esecutivo socialista di Zapatero aveva scandalizzato anche molti progressisti.
Il ritiro del disegno di legge ha provocato le dimissioni dell’autore del testo, il ministro Ruiz Gallardón che lascia anche il seggio di parlamentare e la direzione del partito. «Dopo 30 anni lascio la politica. So anche che per qualche anno non potrò neppure esercitare la mia professione di avvocato, ma la realtà è che non sono stato capace di portare a termine il compito che mi era stato affidato e, in politica, chi sbaglia deve lasciare il posto ad altri che faranno meglio di lui». Nessuna fronda, nessuna spaccatura, nessuna polemica. Gallardón resta nel partito da semplice militante, professando fedeltà al presidente Rajoy e assumendo su di sé ogni responsabilità per la sua «incapacità a suscitare il giusto consenso». Un atteggiamento sconosciuto in altre culture politiche, quella italiana in primis.

Corriere 24.9.14
Uccisi i presunti killer dei tre ragazzi ebrei


GERUSALEMME (F. Bat. ) Lunedì notte, l’unità speciale israeliana Yamam ha circondato una falegnameria di Hebron e ucciso Marwan Qawasmeh e Amar Abu-Eisha, sospettati d’avere rapito e ammazzato in giugno Gilad, Naftali ed Eyal, i tre adolescenti che facevano l’autostop. L’ordine era di prenderli senza rischiare: chiusa l’area, i soldati hanno sfondato la porta della palazzina e ordinato ai due d’uscire. Nascosti in un seminterrato, uno di loro avrebbe cominciato a sparare da una delle brecce aperte col bulldozer: raffiche rapide, poi il silenzio. Proprio ieri mattina, al Cairo, ricominciavano i colloqui per la tregua di Gaza. Saputo di Hebron, la variegata delegazione palestinese ha abbandonato la sala. Poi qualcuno ci ha ripensato e s’è optato per un rinvio: oggi cominciano le festività ebraiche, seguiranno quelle musulmane, nel frattempo si riunirà la conferenza per la ricostruzione della Striscia.

il Fatto 24.9.14
Obama e la legittima difesa degli inermi contro i barbari
di Furio Colombo


L’ONU, E ANCHE L’ITALIA, STANNO A GUARDARE. IL NOBEL PER LA PACE SI MUOVE DA SOLO CONTRO DEI JIHADISTI CHE VOGLIONO ANNIENTARE TUTTI I NEMICI E CHE NON TRATTERANNO MAI

Su ciò che sta accadendo nel cuore del mondo, cioè il Medio Oriente, ci sono due domande rimaste senza risposta. Perché il Califfato ha un interesse così forte e ostinato di mostrare (mostrare, non annunciare) la sua ferocia? Che risposta si deve dare a una minaccia fondata sulla forza, sulla ricchezza e su una capacità di vincere che sembra difficile da fermare? Per rispondere bisogna sgombrare il campo da alcuni luoghi comuni. No, non è la rivolta dei poveri. Gli uomini in nero controllano gran parte di un Paese prodigiosamente ricco (l'Iraq) e sono in grado di espandersi, nella conquista e nella ricchezza. Sì, è una conseguenza del disastro americano, nei tre pilastri della cieca visione di George Bush (mai dimenticare però Blair): distruzione totale di ogni struttura fisica, dalle caserme alle dighe, messa allo sbando di ogni forma di aggregazione sociale, mano libera ai mercenari, senza regole e senza limiti. Eppure sarebbe fuorviante dire che c'è un rapporto di causa-effetto. Il Califfato (ci dicono fatti, gesti e tracotanti parole) non è vissuto come il secondo atto, la vendetta. Il Califfato è vissuto come l'inizio di un'epoca che non intende misurarsi con ciò che viene prima neppure come processo di accusa, imputazione, esecuzione. Le teste degli ostaggi vengono tagliate perché devono essere tagliate, con il pretesto di fatti che stanno comunque avvenendo adesso. Si invade e depreda un popolo per provocare una risposta (il bombardamento) e si taglia la testa perché il bombardamento è avvenuto. È bene notare che le impressionanti esecuzioni dei “bianchi” che ci vengono mostrate, sono poca cosa rispetto alle migliaia d’esecuzioni di cui i boia-speaker, con accento inglese o americano, ci parlano ogni giorno, dalle tv o dalle radio. E sono poca cosa rispetto ad alcune realizzazioni, come lo sterminio della popolazione di interi gruppi etnici e religiosi (tutti i cristiani, tutti gli yazidi) e l'uso, esibito, di fosse comuni.
NON FAREMO FINTA di credere che il Califfato sia, nella caccia a donne e bambini, più crudele di altri. Da decenni le guerre, tutte, sono guerre ai civili. Resta però l'esibizione che diventa un programma di presentazione e di propaganda, una sorta di nuova moralità. Rovescia la scala dei “valori” mettendo al primo posto la morte e lasciando aperta e mobile la definizione di nemico e l'occasione dell'offesa da lavare col sangue. Tutto questo non serve per dirci l'un l'altro come sono cattivi gli uomini e le donne del Califfato. Serve però a dire a noi in modo perentorio: non avvicinatevi per parlare. Qui nessuno vuole parlare. Questo è il quadro di fronte al quale si trova Obama, premio Nobel per la Pace e autore del discorso del Cairo. Se agisce, è l'imperialista americano di sempre, è il “potere bianco” (pensate l'ironia) causa di tutto. Se non agisce è un imbelle che non merita rispetto. Il messaggio ci dice che non merita rispetto soprattutto da parte dei suoi nemici, che dedicheranno presto a lui qualcosa di crudele e clamoroso.
Purtroppo Obama è solo. Dell’Onu non c'è traccia. L'Europa, quella vecchia, quella nuova, e quella del semestre italiano, non fiata. Neppure quando il portavoce del Califfato prevede la presa di Roma, forse l'unica svista di un sistema comunicativo finora molto accurato. Qui molti di noi si fermano sull'orlo di una contraddizione senza fine. Non vuoi la guerra ma la guerra vuole te, si muove come un potente meccanismo impersonale che uccide comunque. La fuga di 140 mila curdi che si presentano alla frontiera turca dice la vastità della paura che sappiamo (anche a cura del protagonista) fondata su fatti. Il vuoto e la cecità politica (aver lasciato l'Iraq distrutto e allo sbando) si pagano. Ma non si può lasciare il pagamento a carico d’intere popolazioni che ormai sono o stanno per esser braccate da una feroce persecuzione.
Bisognerà difenderle adesso e subito. Non siamo di fronte al realizzarsi del sogno degli xenofobi, ma alla reazione tempestiva e necessaria contro un grande potere che cresce. Non è guerra giusta. È legittima difesa in nome di coloro che muoiono da soli perché non possono difendersi da soli. Non è scontro di civiltà, perché la civiltà dei tagliatori di teste non esiste. È scontro inevitabile contro una colonna di barbarie che, pur munita della migliore comunicazione, viene avanti da un oscuro passato pieno di sangue e ha un progetto di deportazione. Impossibile fingere che il destino di tanti non ci riguardi e restare inerti e tranquilli.

Repubblica 24.9.14
Damasco è soddisfatta per i raid
Gli alleati arabi e la mano dell’Iran quello strano patto che piace ad Assad
Teheran, solo apparentemente è esclusa dai giochi: in realtà guida milizie sciite che godono dell’appoggio aereo Usa e si muovono in sintonia con i vertici di Riad, la potenza campione dei sunniti
di Bernardo Valli


ERA prevista da tempo. Ad affrettarla deve avere contribuito la pessima situazione militare in Iraq. Adesso l’estensione dell’offensiva aerea americana alla Siria dà al tentativo di contenere e col tempo distruggere l’autoproclamato Stato islamico tutti gli attributi di una guerra vera. La durata? Sarebbe azzardato fare pronostici. Barack Obama si è ben guardato dal farne. In quanto agli sviluppi il presidente americano non sembra invece avere dubbi. Lui non lascerà un solo “santuario” ai terroristi. Ma l’impresa chiede tempo e rischia di finire nella mani del prossimo inquilino della Casa Bianca.
Un intervento più ampio, sostenuto anche da paesi arabi, comunque si imponeva. Era urgente. Sul piano politico e militare. L’allargamento del conflitto a gran parte della regione del Tigri e dell’Eufrate, la Mezza Luna Fertile degli storici, un tempo “culla di civiltà” diventata valle di tragedie, non riesce tuttavia a dissipare la confusione creata da un groviglio di alleanze e di doppi giochi.
L’appoggio aereo degli Stati Uniti nelle ultime sei settimane ha consentito alle forze armate irachene e alle milizie curde alleate di fermare la marcia su Bagdad delle truppe del “califfato”, ma non ha evitato pesanti sconfitte nel resto dell’Iraq. Al punto che il governo nazionale perde terreno, non controlla più circa un quarto del paese. Nelle province a maggioranza sunnita, in particolare quella di Anbar, attigua alla capitale, intere unità sono state circondate e decimate. Anche con esecuzioni sommarie. La passività della popolazione sunnita, o addirittura la sua collaborazione, hanno favorito e favoriscono le forze jihadiste del califfato espressione dell’estremismo sunnita. La solidarietà più comunitaria che religiosa, gestita da un mosaico di tribù e dai residui dell’esercito di Saddam Hussein ansiosi di una rivincita sugli sciiti, è un’arma efficace nelle mani dello Stato islamico. Nella stessa Siria settentrionale quest’ultimo ha guadagnato terreno provocando l’esodo della popolazione curda verso la Turchia.
Era dunque indispensabile colpire al più presto l’avversario nella sua tana siriana, nella provincia settentrionale di Raqqa, la “capitale” dello Stato islamico. Da dove arrivano ordini e aiuti. Ed era altrettanto urgente coinvolgere nell’operazione i paesi arabi sunniti, per chiarire il loro fermo desiderio, armi alla mano, di distinguersi dall’estremismo sunnita. Dichiarandosi un califfato esso si è posto al di sopra di tutti gli Stati musulmani, e ne ha abolito virtualmente i confini poiché l’autorità del califfo abbraccia l’intero Islam. L’autoproclamazione ha urtato tradizioni e suscettibilità. In molte capitali è apparsa un’usurpazione. Una bestemmia. La partecipazione di Bahrein, della Giordania, del Qatar, degli Emirati arabi uniti e soprattutto dell’Arabia saudita alle incursioni sulla Siria è stata un’aperta dichiarazione di guerra a chi esercitando il terrorismo si è dichiarato successore del Profeta, e quindi si è collocato in una posizione di superiorità rispetto agli stessi custodi della Mecca e di Medina. La dignità offesa di presidenti, sovrani ed emiri al potere è tuttavia estranea al sentire di parte delle popolazioni, attente ai più azzardati richiami religiosi. Da qui il cospicuo numero di partecipanti alla grande coalizione promossa dagli americani desiderosi di non esporsi troppo. Barack Obama è stato garbato, ha detto che sono una quarantina, senza nominarli. I cinque paesi che hanno mandato i loro aerei sulla Siria sono un’avanguardia di non poco conto, ma gran parte del mondo arabo non ha osato andare oltre le dichiarazioni di principio o gli aiuti indiretti e il più possibile anonimi. La loro riservata solidarietà è in tutti i modi preziosa.
Barack Obama ha potuto affermare che nella battaglia non ci sono soltanto gli Stati Uniti. Ha aggiunto che farà di tutto per garantire la sicurezza dei membri della grande coalizione, della regione e «del mondo intero». Sebbene ambizioso l’impegno doveva essere esplicitato. Il conflitto non è limitato al campo di battaglia iracheno-siriano. Le ramificazioni dello Stato islamico sono larghe e imprevedibili. Lo ha rivelato nelle ultime ore la presa dell’ostaggio francese in Algeria da parte di un’organizzazione che si dice ispirata dal remoto califfato di Raqqa. Il gruppo originario, il «califfato», può essere eliminato o indebolito dalle bombe guidate dei droni e dai missili della US Navy, ma per neutralizzare la patologia micidiale dell’islamismo ci vorranno altre armi e tempi più lunghi. Il terreno di scontro è più vasto della Mezza Luna Fertile, cosi battezzata per la sua forma geografica e la generosità dei suoi raccolti, nel frattempo sfumata e sostituita dal petrolio. Insieme allo Stato islamico gli Stati Uniti hanno bombardato il gruppo armato Khorasan composto da ex militanti di Al Qaeda. Il suo capo, Muhsin al-Fadhli, era giovane, aveva 19 anni, l’11 settembre del 2001, ma ebbe un ruolo, pare, nell’organizzare l’attacco alle Torri gemelle. La guerra civile ha creato in Siria un imprecisato numero di movimenti islamisti. Spesso in concorrenza. Tutti sostengono di opporsi alle forze governative di Damasco, e considerano Bashar el Assad, il loro principale nemico, ma al tempo stesso si scontrano, nell’ambito della ribellione, con quelli di cui non condividono le idee. La mischia è feroce. La più presa di mira è la Coalizione nazionale, considerata laica, alla quale gli americani hanno deciso di fornire delle armi.
Si è cosi creata una situazione in cui gli Stati Uniti bombardano e al tempo stesso aiutano l’opposizione. Le bombe sono per le forze jihadiste e l’appoggio per i moderati. I quali si uccidono tra di loro, jihadisti contro laici, e simultaneamente combattono ognuno per conto proprio contro Bashar al Assad. Gli americani escludono di avere coordinato la loro azione con il presidente siriano. Rifiutano di collaborare con lui. Barack Obama l’ha accusato di torturare la sua gente e gli ha negato ogni legittimità. Ma Damasco assicura di essere stato informato da Washington dell’attacco allo Stato islamico e Bashar al Assad dice di essere favorevole ad «ogni sforzo contro il terrorismo internazionale». Si dichiara insomma soddisfatto delle incursioni americane contro il califfato.
Bashar al Assad, in quanto alawita appartenente a una comunità dell’area sciita, ha come principale alleato l’iraniano Hassan Rohani. Il quale è però più realista del re. Denuncia infatti l’azione militare degli Stati Uniti in Siria come illegale, perché avviene senza l’autorizzazione di Damasco. Le contraddizioni, i doppi giochi, le false dichiarazioni sono frequenti. L’Iran è in apparenza esclusa dai giochi, ma le milizie sciite sotto la sua influenza o i suoi ordini, si battono sul terreno contro lo Stato islamico e con il «non concertato» appoggio aereo americano. E in apparente sintonia con l’Arabia saudita. Quest’ultima notizia, se confermata, sarebbe una grande novità mediorientale. I sauditi, campioni dei sunniti, collaborano con gli iraniani, campioni degli sciiti. Due acerrimi nemici si parlano sottobanco, per eliminare il califfato.

Repubblica 24.9.14
Il pericolo di agire infrangendo le regole dell’Onu
di Enzo Cannizzaro


G LI Stati Uniti non hanno chiesto l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Non avrebbero superato il veto di Mosca o avrebbero dovuto venire a patti con una Russia non esattamente 'amichevole' all’indomani della crisi ucraina. Ma in assenza di un via libera del Consiglio, o di una esplicita richiesta di intervento da parte di Damasco, la liceità dell’azione appare discutibile. Essa non rispetta i meccanismi di sicurezza collettivi e non può dirsi appieno condotta in nome della comunità internazionale. Il segretario generale delle Nazioni Unite BanKi-moon ha salutato con favore i raid compiuti da Washington e dai suoi alleati arabi. Una dichiarazione senz’altro dettata dall’urgenza di fronteggiare il pericolo rappresentato dall’Is che non giustifica però azioni condotte al di fuori del quadro istituzionale Onu: una tendenza che sembra irresistibile ma che confina il Palazzo di Vetro ad un ruolo marginale nella gestione delle grandi crisi internazionali. Il coinvolgimento delle Nazioni Unite non risponde solo a esigenze formali. Esso ha lo scopo di stabilire un controllo multilaterale sull’uso della forza e di evitare le derive unilateraliste che hanno caratterizzato l’approccio recente alle crisi globali.

Corriere 24.9.18
Le domande sulla base legale per l’intervento
di Guido Olimpio


’attacco contro i terroristi in Siria ha una base legale? Non sembra proprio. Damasco non si è opposta ma non ha certo chiesto agli americani di agire. Le Nazioni Unite sono allarmate per gli eccidi compiuti dall’Isis e inquieti per il dramma umanitario che coinvolge molte popolazioni. Però non si sono espresse con una risoluzione che avrebbe avallato l’intervento. Per questo gli Usa si aggrappano all’unica giustificazione possibile. Quella del pericolo di un attentato terroristico di grandi proporzioni contro obiettivi americani o di altri Paesi. Le operazioni così, oltre a colpire i soldati del Califfo, hanno riguardato il gruppo qaedista Khorasan, accusato di preparare azioni contro gli aerei passeggeri. Minacce da non sottovalutare ma che sono una costante negli anni del post 11 settembre.

Repubblica 24.9.14
Preoccupa la minaccia alla città simbolo della cristianità Il tentativo di incitare i combattenti musulmani evocando il nemico storico che simboleggia da millenni il potere imperiale. E che l’Is punta ad abbattere
La presa di Roma l’ultimo incubo per l’Occidente
di Adriano Prosperi


«SPEZZEREMO le croci e faremo schiave le vostre donne». Il nome di Roma si è materializzato all’improvviso nel comunicato dell’Is. E così l’impero è tornato sui colli fatali. Ma questa volta non di un sogno si tratta. Quello che ci si para davanti sembra piuttosto l’incarnazione di un incubo, il ritorno di fiamma di un cupo riflesso periodicamente reviviscente della volontà di potenza: si tratta di fanatizzare i combattenti alla conquista ricorrendo al nome più ovvio, quello che simboleggia da millenni il potere imperiale. E’ da Roma che sono nate le scansioni degli imperi storici — la seconda, la terza Roma — è dal nome di Cesare che sono gemmate le denominazioni del potere autocratico russo — lo zar — o germanico (il kaiser). Il nuovo impero islamico dovrebbe dunque nascere saccheggiando la città che incarna quel simbolo.
Una cosa è certa: il linguaggio di quel comunicato, per quanto fatto di citazioni catechistiche elementari, ha creato un ponte di comunicazione tra loro e noi. E’ stato facile notare che chi ha usato queste parole lo ha fatto riprendendole dal Corano e dalla tradizione islamica più antica: ma non dobbiamo dedurre da questo che siamo davvero davanti alla rinascita dell’Islam combattente, di quell’incubo che per secoli ha turbato i sonni dell’Occidente cristiano, quando i pirati turcheschi cercavano di rapire la bella Giulia Gonzaga e a Roma si cantava «A tocchi a tocchi la campana sona/Li turchi so’arrivati alla marina». Maometto aveva parlato del Jihad: ma questa parola non aveva per lui il significato militare che doveva assumere in seguito durante l’espansione islamica. Come hanno osservato gli studiosi più esperti, il termine indicava piuttosto la lotta interiore del credente che investe le sue energie nella ricerca della perfezione. Tra i detti di Maometto c’era — è vero — anche la profezia che un giorno Roma sarebbe stata conquistata. Quella profezia sembrò prossima a realizzarsi quando i saraceni saccheggiarono Lampedusa nell’812, e ancor più quando poco dopo nell’846 risalirono il Tevere con ben settanta navigli e giunsero fino a San Pietro. Ma quella che era in atto allora non era il compimento di un disegno profetico, un intervento divino sul mondo. Era, come dimostrò Henry Pirenne nel suo classico «Maometto e Carlomagno», la grande svolta della storia del mondo occidentale, il mutamento dei rapporti di forza nel Mediterraneo, maturata lentamente e irresistibilmente con la fine dell’unità romana del mondo conosciuto e la nascita della moderna Europa degli stati. Ancora alle parole del Corano si ispirarono i combattenti vittoriosi quando nel 1453 i Turchi conquistarono Costantinopoli. Perchè fra i detti di Maometto c’era stato anche l’annuncio della futura conquista di quella capitale dell’Impero romano che anzi, secondo lui, doveva essere la prima ad accogliere la rivelazione del Profeta.
Chi oggi ricorre alle parole del libro sacro tenta di risollevare una bandiera antica: di fatto ricorre all’antica pratica del mascheramento sacrale delle ambizioni politiche. E’ la stessa strategia dei predicatori cristiani delle crociate medievali o degli autori di quei manuali del soldato cristiano che furono stampati nel ‘500 per incitare al massacro i combattenti delle guerre di religione all’interno dell’Europa moderna. La Bibbia veniva saccheggiata per mettere in fila una dopo l’altra le incitazioni più feroci.
Sappiamo quante guerre e quanti stereotipi dell’alterità e dell’intolleranza segnarono da allora in poi i rapporti tra i popoli. La tesi del «Dio lo vuole», l’imposizione del dovere sacro di versare il sangue per conto di Dio e in suo nome, furono lo strumento di una smisurata volontà di potenza mirata all’obbiettivo di fare del popolo una massa compatta e obbediente agli ordini dei sovrani benedetti dal clero. Non che mancassero voci più caute e razionali. Basterà ricordare come il massimo teologo della Compagnia di Gesù Francisco Suarez nelle sue lezioni sulla guerra agli allievi del Collegio Romano di fine Cinquecento (oggi appena edite e tradotte da Quodlibet), provasse a ragionare a freddo sul problema della guerra giusta: una questione che aveva fatto versare fiumi di sangue e di inchiostro . Suarez levava la sua voce contro i predicatori che brandivano la croce e si mettevano a capo di folle fanatizzate urlando che bisognava vendicare l’offesa fatta a Dio: Dio — osservava il gesuita — non aveva bisogno di uomini per vendicare le ingiurie: se voleva, poteva farlo benissimo da solo.

Repubblica 24.9.14
L’utopia del califfo una guerra santa per tutti gli islamici
di Marek Halter


QUANDO il califfo Abu Bakr Al Baghdadi minaccia di conquistare Roma e di frantumarne le croci non fa altro che usare le armi della sua guerra psicologica contro un doppio obiettivo. Da un lato si rivolge all’intera Cristianità, che Roma rappresenta, cercando di creare un antagonismo bellico con il suo Islam arcaico. Dall’altro, interpella direttamente Papa Francesco, il quale s’è schierato contro la barbarie dello Stato islamico anche durante la sua recente visita in Albania, quando ha detto che è «un sacrilegio uccidere in nome di Dio».
Ovviamente il Papa non poteva agire altrimenti, ma attaccando il califfo è finito nella sua trappola mediatica, che consiste appunto a voler contrapporre due religioni, o meglio, due eserciti di combattenti, quello musulmano e quello giudeo-cristiano. Infatti, il sogno dei chierici islamisti di Al Baghdadi è quello di mobilitare e di coinvolgere nella loro guerra santa tutta la popolazione islamica del pianeta, quel miliardo e trecento milioni di musulmani che, al momento, guarda con paura e sgomento quanto accade nel Califfato siro-iracheno. E ce la stanno mettendo tutta, i teorici della nuova jihad, per realizzare la loro chimera, anche perché rispetto a Osama Bin Laden loro dispongono di armi invasive e insidiosissime: Internet e le televisioni.
Purtroppo, la risposta all’offensiva islamista è partita male. Il discorso alla nazione di Barack Obama del 10 settembre, ossia la sua dichiarazione di guerra al Califfato, sembra ripreso pari pari da quello che tenne Urbano II al concilio di Clermont nel 1095, quando chiese l’aiuto degli eserciti occidentali per salvare Costantinopoli contro l’invasione dei turchi selgiuchidi. Allora, il Papa invocava l’intervento di re e principi per combattere il “musulmano”, proprio come più di un millennio dopo il presidente americano riunisce una coalizione per bombardare il nemico estremista. Nell’XI secolo, la risposta all’appello del Pontefice ebbe una grande eco in Europa, e fu all’origine di una spedizione militare in Oriente di 60.000 uomini che oggi chiamiamo Prima crociata. Ma quella crociata fu un disastro, che cominciò con la distruzione di Bisanzio e finì con uno spaventoso numero di morti, che si moltiplicarono quando i reduci riportarono a casa malattie ancora sconosciute in Europa. Soprattutto, quella spedizione in Terra santa provocò la prima grande unione tra popoli islamici della Storia: un’unione nata per combattere il “cristiano”, e che è sopravvissuta nei secoli.
Oggi, l’alleanza dei 40 Paesi creata da Washington contro l’Is ha cominciato a scaricare le sue tonnellate di bombe su Mosul, Falluja, Raqqa. Con quali risultati? Scarsi perché i raid aerei non bastano, come dimostrano le guerre ricorrenti di Israele contro Hamas. Lo Stato ebraico ha più volte raso al suolo Gaza, ma loro, i guerriglieri di Hamas, sono sempre lì, perché durante i bombardamenti si nascondono tra i civili, nelle scuole, negli ospedali. Lo stesso faranno adesso i miliziani del Califfato.
Una cosa, però, Obama l’ha capita. Il presidente americano sa bene che i suoi alleati più preziosi sono gli arabi. Per questo, prima di lanciare i suoi caccia contro le roccaforti siriane del califfo, ha spedito il segretario di Stato, John Kerry, in Egitto, Giordania e Arabia Saudita per convincere questi Paesi a partecipare ai raid. Senza gli arabi, agli occhi di molti musulmani la guerra allo Stato islamico potrebbe passare per una nuova crociata. Senza di loro, ogni bomba americana o francese o britannica rafforzerebbe l’obiettivo degli islamisti di trasformare il conflitto da loro scatenato in una guerra di religione. Immaginate, per esempio, che cosa accadrebbe se un missile sparato da un F/A-18 decollato da una portaerei americana nel Golfo dovesse colpire un ospedale in Siria. Che cosa si può fare, allora? Due giorni fa ero all’aeroporto di Rabat, dove ho visto centinaia di pellegrini, tutti elegantemente vestiti di bianco, in partenza verso la Mecca. Credo che basterebbe convincere i musulmani di tutto il pianeta a marciare verso le città conquistate dagli islamisti. Questi non potrebbero sparare, perché infrangerebbero la loro chimera. E sarebbero probabilmente costretti a scappare.

Repubblica 24.9.14
Turchia, governo abolisce divieto del velo islamico nei licei
Ondata di polemiche, sindacati in rivolta visto che si tratta uno dei pilastri dello stato laico voluto da Ataturk

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il Fatto 24.9.14
L’anno del dragone, nel salotto buono ormai si parla cinese
Nel giro di qualche settimana la Banca centrale di Pechino ha investito 6 miliardi in Eni, Enel, Telecom, Fiat, Generali, Ansaldo e Cdp
di Camilla Conti


Milano Attenti a Mister Hu, ex economista al Fondo monetario internazionale nonché ex presidente di Goldman Sachs in Cina, che dichiara di essere pronto a investire parecchi miliardi di euro in società del made in Italy. Nel 2010 ha fondato Primavera Capital, la più grande società di investimenti privata in Cina. Conosce bene John Elkann, presidente della Fiat, e il numero uno della Bce, Mario Draghi, “un amico dai tempi di Goldman”. Mister Hu ha battezzato la sua società Primavera, ispirandosi al celebre quadro del Botticelli e ora punta alle aziende Made in Italy. Come ha fatto Zhu ChongYun, ricca designer di Schenzhen, che ha comprato Krizia, storica griffe tricolore avviata però sul viale del tramonto che ora si prepara a essere rilanciata con un nuovo simbolo, l'Araba fenice, per celebrarne la rinascita. Prima di lei in Italia è arrivata Yan Haimei, che ormai tutti chiamano Clara. È la direttrice generale della QianJiang Motors, un’azienda produttrice di motocicli con sede a Wenling, 500 chilometri scarsi da Shanghai. Da poco più di nove anni tuttavia, la signora Clara è anche amministratore unico della Benelli, storica azienda motociclistica pesarese rilevata nel 2005 dalla famiglia Merloni. E poi c’è lui, Zhou Xiaochun, il governatore della People's Bank of China. Ovvero la banca più grande del mondo, con 8 miliardi di euro di investimenti in partecipazioni azionarie e titoli di Stato, mister Xiaochun oggi possiede quote intorno al 2% nei principali gruppi di Piazza Affari, da Eni a Enel, da Generali a Fiat. E la sua banca è entrata nella top ten dei paperoni della Borsa italiana piazzandosi all'ottavo posto con 3,1 miliardi di euro investiti, poco sotto la famiglia Agnelli che ha proprietà per 3,4 miliardi. Zhou, dunque, in pochissimi mesi ha creato quello che gli Agnelli hanno costruito in generazioni. Lo shopping dei mandarini Hu, ChongYun, Haimei, Xiaochun. Sono solo alcuni dei protagonisti della grande avanzata cinese, o meglio del grande shopping, in Italia. Prima gli yacht di Ferretti, l'anno scorso Berloni e Krizia. Ora è il momento delle aziende statali. Nel giro di poche settimane la Banca centrale cinese ha investito nel nostro Paese quasi 6 miliardi di euro. Con quote sempre appena superiori al 2% si è seduta di peso nel salotto buono della nostra economia: Eni, Enel, Telecom, Prysmian, Fiat-Chrysler, Generali, Ansaldo Energia oltre che Cdp Reti (lo scrigno societario che controlla Terna e Snam) tramite la controllata State Grid. E presto anche l'intero polo dei trasporti di Finmeccanica potrebbe finire nella rete del Dragone. Dal governo cinese danno tre ragioni ufficiali per spiegare l’intensificarsi degli acquisti: i prezzi, rispetto al 2009, in Italia sono crollati, fino a rendere gli interventi convenienti. Secondo: l'accoglienza politica di soci cinesi, rispetto all'atteggiamento ondivago dell’era Tremonti-Berlusconi, è migliorata, mentre Pechino ha bisogno di pulire la propria immagine. Non è un caso che le prime partecipazioni dichiarate, quelle in Eni ed Enel, siano arrivate subito dopo la strage in un’azienda tessile della città toscana, dove persero la vita sette persone. Terzo motivo: l'Italia è il Paese più adatto per penetrare in Europa, fino a condizionare le politiche Ue. E così i ricchi Mandarini hanno cominciato a puntare fiches milionarie su settori strategici, dall'energia alle comunicazioni, passando anche per la finanza. I prossimi passi potrebbero essere le infrastrutture, porti, aeroporti e presto le grandi banche. Le acquisizioni di Pechino in Italia sfiorano già quota 90 miliardi, il 10% di quelle effettuate nell'intera zona euro. Non solo. Dal 2007 al 2013 le aziende italiane partecipate da cinesi sono cresciute da 7 a 272, di cui 187 cinesi e 85 partecipate da multinazionali con sede a Hong Kong, con un’occupazione complessiva pari a quasi 12 mila addetti. Nel 2013 ha aperto una sede in centro a Milano anche la Icbc (Industrial and Commercial Bank of China), la più grande banca commerciale cinese e il colosso Ict Huawei – presente in Italia già dal 2004 – ha inaugurato tre anni fa a Segrate una nuova sede con un centro di ricerca sulle tecnologie wireless, primo centro globale di competenza del gruppo fuori dalla Cina. Chi sono gli italiani che fanno da apripista Una Via della Seta a flusso invertito cui hanno fatto da ciceroni alcuni personaggi noti in Italia. Come Cesare Romiti, ex Fiat e uomo della Mediobanca di Cuccia, con la sua Fondazione Italia-Cina tra sponsor e iniziative. O come l’ex capo di Goldman Sachs in Italia, Claudio Costamagna, e Alberto Forchielli, socio fondatore dell’Osservatorio Asia, centro di ricerche non-profit, e di Mandarin Capital Partners, il più grande fondo di private equity sino-europeo. Gli investitori sponsor del primo fondo sono Intesa Sanpaolo, China Development Bank e la Export-Import Bank of China (China Exim Bank). In Italia Forchielli si appoggia all’ufficio in Brera della Mandarin Advisory srl, società di consulenza costituita nel 2007 e controllata dalla lussemburghese Euro China Ventures S. A. che ha chiuso il bilancio 2013 in perdita per 74 mila euro rispetto ai 112 mila euro del 2012 e un calo dei ricavi del 9 per cento. Sia Costamagna che Forchielli sono vicini all’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Una delle personalità italiane che forse conoscono meglio la Cina: la frequenta regolarmente tre o quattro volte l’anno in quanto dal 2010 è professore alla Ceibs (China Europe lnternational Business School) di Shanghai. Prodi ha anche fondato il centro studi Nomisma che tra l'altro si cura d'indirizzare la Banca di Sviluppo cinese verso le Pmi italiane. In suo intervento apparso su Il Messaggero lo scorso 10 agosto, il professore bolognese spiega che oggi l’Italia riceve tra l’8 e il 10% degli investimenti cinesi in Europa. “Questi acquisti costituiscono quindi un filo della paziente rete che la Cina sta organizzando intorno al mondo per garantire il suo futuro. Il nostro compito è quello di non essere solo pesci catturati nella rete, ma anche pescatori capaci di trarre vantaggio da queste alleanze strategiche per garantirci un ruolo meno marginale nell’economia mondiale”, scrive Prodi che è stato capace di convincere l’agenzia di rating Dagong a stabilire a Milano il proprio quartier generale europeo. “Costruire un nuovo sistema di rating, dopo i severi danni arrecati al sistema creditizio internazionale da voti sbagliati assegnati da agenzie occidentali, che hanno portato a una riflessione profonda circa le relazioni tra il rating e lo sviluppo economico e sociale”, è il mantra di Guan Jianzhong, presidente di Dagong Global Credit Rating che vuole appunto contrapporsi alle tre big occidentali, Fitch, Moody’s e Standard and Poor’s per riflettere il punto di vista di Pechino. L’agenzia cinese ha fondato nel 2012 a Milano la sua branca europea in joint venture con il fondo Mandarin Capital di Forchielli e di recente ha annunciato di voler avviare la copertura con rating di almeno due società nel settore finanziario e assicurativo in Italia entro l'anno, mentre sono diverse le coperture di altre aziende di tipo confidenziale. Il cambio di strategia: obiettivo privatizzazioni “Gli investitori cinesi hanno sempre fatto shopping tenendosi al di sotto della soglia da dichiarare pubblicamente e spesso su società non quotate in Borsa, ma da qualche tempo investono più del 2% e sul quotato strategico”, fa notare Francesco Galietti, fondatore dell’osservatorio di rischio politico Policy Sonar aggiungendo che i cinesi hanno una predilezione per infrastrutture, “anche perché così possono accedere alle reti pan-europee e "assaggiare" mercati deregolati”. Ma la partita più ricca, e strategica, per i cinesi è quella delle privatizzazioni. Gli affari più ghiotti sono stati infatti conclusi con la Cassa Depositi e Prestiti, società a controllo statale ma partecipata dalle fondazioni bancarie dove appunto la tradizione sinofila democristiana di Vittorino Colombo non è mai morta e anzi vede in Prodi un abile interprete dei nuovi equilibri geopolitici. Il governo di Pechino ha infatti dato una precisa indicazione ai maggiori gruppi cinesi: cioè "go global", diventate globali. Si sono accorti che il Pil cinese, che ancora oggi cresce a ritmi di oltre il 7%, un giorno si potrà fermare. In generale "l’ordine di scuderia è: espansione internazionale”, spiega Stefano Beghi, Partner responsabile della sede di Hong Kong dello studio Gop (Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners) ossia il gruppo di super-legali che ha messo le mani su tutti i principali dossier del Tesoro e della Cdp. “L’obiettivo per le imprese statali – aggiunge Beghi – è assicurare al Paese un accesso diretto alle risorse; quello delle aziende private è differenziare la propria offerta sul mercato interno, proponendo prodotti e servizi a più alto valore aggiunto. I ritmi sono lenti, perché i privati non hanno esperienza internazionale e i manager pubblici rischiano la carriera di una vita per un errore; tuttavia il processo appare in costante consolidamento”. A giugno il premier Matteo Renzi ha scelto l’Asia come prima sua trasferta intercontinentale (un dettaglio: gli aerei su cui ha volato Renzi sono di proprietà dell’Eni, in cui i cinesi sono azionisti con il 2,10% e con cui hanno concluso una maxi-operazione in Mozambico). E a metà ottobre il premier cinese Li Kegiang effettuerà la sua prima visita nel nostro Paese. Sarà l'occasione per discutere dell'offerta della Brilliance, la casa automobilistica che in Cina produce su licenza Bmw e che ha annunciato di voler produrre auto in Italia. Nella sua recente visita a Termini Imerese Renzi ha ipotizzato che Brilliance possa subentrare a Fiat per far tornare a funzionare le linee di montaggio nello stabilimento siciliano. Altre ipotesi parlano di un interesse del costruttore per rilevare la ex De Tomaso di Torino. In ogni caso potrebbe arrivare da Pechino il primo costruttore di automobili a rompere il decennale monopolio nella Penisola della Fiat. Di cui, peraltro, i cinesi sono già azionisti.

La Stampa 24.9.14
India, il misurato abbraccio della Cina
di Zhao Minghao


Zhao Minghao è ricercatore del Charhar Institute, un think tank cinese di politica estera, è adjunct fellow al Center for International and Strategic Studies dell’università di Pechino e direttore della China International Strategy Review.

La visita di tre giorni in India del presidente cinese Xi Jinping, obiettivo principale del suo recente viaggio in Asia centrale e meridionale, getta nuova luce sull’emergere di un diverso approccio della Cina nei confronti dei Paesi vicini, in particolare degli altri giganti asiatici. I recenti, sottili mutamenti nelle relazioni sino-indiane potrebbero rivelarsi gravidi di conseguenze per il mondo nei prossimi decenni.
Sotto la guida di Xi, la Cina sta adottando una nuova, articolata strategia che potrebbe essere definita del «doppio riassestamento»: da un lato intraprendere coraggiose riforme interne per riguadagnare ascendente economico, dall’altro riposizionare la Cina nel panorama della diplomazia globale, focalizzandosi sulle fonti di rischio dell’area. La fascia economica della Via della seta, che ha il suo fulcro nell’Asia centrale, e la rotta marittima della Via della seta del 21 secolo, che si snoda lungo le vie d’acqua dei Paesi frontalieri dell’Oceano Indiano, sono le iniziative guida nell’agenda della politica estera cinese. Il loro successo dipenderà in gran parte dal supporto che la Cina potrà avere dalle altre grandi potenze, in particolare la Russia in Asia centrale e l’India in quella meridionale.
La Cina comprende che la posizione dell’India sulla scena internazionale è andata rafforzandosi dall’inizio di questo secolo. Il nuovo primo ministro indiano, Narendra Modi, un leader autorevole e aspirazionale originario del Gujarat, uno degli stati più sviluppati del Paese, ha promesso di far uscire l’economia indiana da uno stallo quinquennale, di migliorare le condizioni di vita dei più poveri e di far diventare l’India una potenza globale. La sfida per la politica cinese è quella di conciliare le ambizioni di Modi con gli obiettivi strategici nazionali.
Da quando Modi è a capo del governo l’India si crogiola nell’adulazione delle grandi potenze come il Giappone e gli Stati Uniti. Motivati almeno in parte dal desiderio di controbilanciare la crescente influenza geopolitica della Cina, Giappone e Stati Uniti hanno cercato di coinvolgere l’India in un’alleanza multilaterale tra i Paesi democratici della regione dell’Asia che affaccia sul Pacifico. Ed ecco il primo ministro giapponese Shinzo Abe esprimere la volontà di forgiare un «polo democratico per la sicurezza» con Stati Uniti, Australia e India.
Durante la visita di Modi in Giappone, ai primi di settembre, Abe ha offerto investimenti per 35 miliardi di dollari in cinque anni per progetti di infrastrutture in India, di accelerare i negoziati sull’uso dell’energia nucleare a scopi civili, e di sviluppare la cooperazione in tema di sicurezza marittima. Entrambe le parti hanno concordato di realizzare un «partenariato speciale, strategico e globale» lasciando gli analisti cinesi a cimentarsi con le implicazioni di un’ intesa più stretta tra India e Giappone.
Così, malgrado un rapporto di amore - odio con l’ India che risale alla presidenza di Bill Clinton, gli Usa continuano a considerare il Paese un «alleato naturale». Ministri del governo americano, il Segretario di Stato John Kerry e il Segretario alla Difesa Chuck Hagel, hanno visitato l’India nei mesi scorsi per accattivarsi Modi, promettendogli accordi economici e strategici. Negli ultimi tre anni gli Stati Uniti hanno superato la Russia come maggiori fornitori di armi all’India. Il governo Modi vuole disperatamente diversificare le sue forniture di armi tecnologicamente avanzate e diventare autosufficiente per quanto riguarda la difesa.
Ora ci si aspetta che l’amministrazione Obama faccia tutto il possibile per rafforzare le relazioni con l’India durante la prossima visita di Modi a Washington. Come ha acutamente osservato Nicholas Burns, un ex sottosegretario di Stato, gli interessi strategici statunitensi nel prossimo secolo collimeranno con quelli dell’India più che con quelli di qualsiasi altra potenza asiatica continentale, riservandole così un ruolo centrale nel riposizionamento strategico dell’ America in Asia.
Xi confida nel fatto che la Cina possa capire e soddisfare molte delle esigenze di Modi meglio di rivali regionali come il Giappone. Ma la Cina non dovrebbe sottovalutare la determinazione dell’India nel mantenere la propria autonomia strategica nel mutevole panorama geopolitco asiatico.
Durante la visita di Xi i due leader hanno firmato 15 accordi nei settori del commercio, della finanza e della cultura. Xi ha impegnato la Cina a investire 20 miliardi di dollari in India nei prossimi cinque anni, in particolare per modernizzare il decrepito e usurato sistema ferroviario indiano. Ciò a fronte di soli 400 milioni di dollari, lo 0,18% degli investimenti esteri dell’India, impegnati in investimenti in Cina dal 2000 al 2014.
La Cina ha anche promesso di istituire due parchi industriali, nel Gujarat e nel Maharashtra, oltre a fornire un più ampio accesso al mercato per i prodotti indiani, nel tentativo di dissipare le preoccupazioni dell’India per il crescente deficit commerciale bilaterale, che è passato dal miliardo di dollari del 2001 agli oltre 40 miliardi di oggi.
Gli sforzi di Modi per rilanciare la riforma pro mercato e migliorare l’ambiente imprenditoriale del Paese contribuiranno ad attirare le aziende cinesi desiderose di capitalizzare la grande forza lavoro dell’India, l’ampia base di competenze e i vantaggi geografici. Inoltre la Cina vuole rafforzare la cooperazione con l’India negli affari regionali e globali.
L’India dovrebbe con ogni probabilità ottenere presto l’ingresso a pieno titolo nella Shanghai Cooperation Organization, il club dell’Asia centrale e degli Stati asiatici formatosi dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La «Connect Central Asia policy» dell’India e i suoi sforzi per costruire un corridoio di transito Nord-Sud, favorirebbero lo sviluppo in Asia centrale, una regione che preoccupa molto la Cina, perché confina con l’irrequieta provincia cinese dello Xinjiang.
In quanto principali investitori e fornitori di aiuti all’Afghanistan, Cina e India hanno interessi comuni nella stabilizzazione di quel Paese e nella lotta all’estremismo religioso e al terrorismo, dopo la partenza delle truppe della Nato. Inoltre, i due Paesi condividono interessi comuni nel progetto di ridisegnare la governance economica globale, in particolare rafforzando ulteriormente la cooperazione tra i Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e garantendo che il cambiamento climatico sia affrontato in modo da non impedire lo sviluppo.
Ma l’amarezza dell’India per la guerra con la Cina del 1962 rimane. In molte occasioni, Modi ha dato voce ai suoi sospetti sulla crescente pressione cinese nelle zone di confine contese. La sensibilità dell’India per un potenziale accerchiamento cinese è simile ai timori della Cina per l’accerchiamento da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ecco perché è improbabile che la Cina sviluppi le sue relazioni con l’India e il Pakistan (che la Cina ritiene ancora il suo alleato per tutte le stagioni) su binari separati, come hanno fatto gli Stati Uniti durante l’amministrazione Bush.
La visita di Xi in India suggerisce con forza che la Cina è determinata a impegnarsi con Modi in modi intesi a far sì che la rivalità bilaterale non si intensifichi. Ma, nonostante le promesse di investimento di Xi, è tutt’altro che certo che i due giganti asiatici, entrambi con crescenti aspirazioni globali, possano colmare le differenze che continuano a gravare il loro rapporto.

Corriere 24.9.14
Bastoni e crudeltà
Ora la Cina esporta la tortura nel mondo
Il boom dei prodotti per «interrogare»
di Guido Santevecchi


PECHINO L’anno scorso la China Xinxing, azienda statale cinese, ha esportato in Africa prodotti per 100 milioni di dollari. Tra gli articoli sviluppati dalla fabbrica ci sono manette, sedie rigide per gli interrogatori, bastoni elettrici che possono essere usati per infliggere scariche estremamente dolorose su zone delicate del corpo, come i genitali, la gola, le orecchie.
La Xinxing non è sola: secondo Amnesty International ci sono almeno 134 imprese cinesi impegnate nella produzione e nel commercio di strumenti «intrinsecamente crudeli e inumani che dovrebbero essere messi al bando». Queste società dell’orrore sono in maggior parte di proprietà statale e stanno vivendo un boom nella Repubblica popolare «fabbrica del mondo»: il rapporto spiega che erano 28 dieci anni fa, si sono più che quadruplicate. La tortura può essere un grande business. Un business globalizzato.
Naturalmente, il mercato esiste se c’è domanda e la richiesta di strumenti catalogati come «anti-sommossa e per l’applicazione della legge» è aumentata sensibilmente a seguito degli sconvolgimenti della Primavera araba e delle continue crisi nei Paesi africani e asiatici retti da regimi autoritari e dittatoriali. La China Xinxing, per esempio, vanta 40 governi africani tra i suoi clienti. Ma l’export è florido anche in Cambogia, Nepal, Thailandia, dove gli agenti usano mazze fornite di punte metalliche prodotte solo in Cina.
«È un business multimiliardario», dice Patrick Wilcken di Amnesty International, che ha lavorato per quattro anni al rapporto. E aggiunge: «Pechino ha preso la testa nel segmento più orrendo di questo commercio, dalle catene pesanti per il collo che riducono la circolazione del sangue alle sedie per gli interrogatori, quella sorta di attrezzature di polizia considerate clandestine». Clandestine, ma nel corso delle sue ricerche Amnesty ha trovato prodotti del genere in fiere della sicurezza in Francia, Gran Bretagna, oltre che nel Medio Oriente e in Sud Africa.
Cinesi leader del settore, dunque, ma anche democrazie solide non hanno la coscienza tranquilla. Un funzionario della dogana di Londra per esempio ha risposto così alla domanda del Daily Telegraph : «La dogana di Sua Maestà valuta ogni caso di potenziale infrazione alle leggi sull’export. Comunque, una semplice brochure che pubblicizza prodotti sensibili non è necessariamente un reato».
Resta il fatto che la Cina sembra essersi specializzata nella produzione e commercializzazione di strumenti di tortura. I sistemi usati dalla polizia della seconda economia del mondo sono stati spesso denunciati. La prova principe di ogni inchiesta è la confessione e per ottenerla catene, bastoni, scariche elettriche sono pratica comune.
Per i funzionari del partito comunista accusati di «violazioni della disciplina», per esempio, vige il regime dello «shanggui»: che si traduce «doppia previsione» e significa che chi è inquisito deve ammettere la colpa entro il tempo previsto e nel luogo previsto.
La Corte suprema cinese a novembre del 2013 ha formalmente vietato la tortura come mezzo per ottenere la confessione. E ha elencato i metodi orrendi usati negli interrogatori: «Uso del congelamento del soggetto; esposizione forzata e protratta alla luce del sole, al calore; privazione del cibo; privazione del riposo».
A una richiesta di commento sul rapporto di Amnesty International, la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha risposto negando: «Ho il piacere di ricordarvi che questa organizzazione è sempre parziale verso la Cina, così io dubito profondamente che la relazione sia onesta».

Repubblica 24.9.14
La Cina cavalca il business della tortura: boom di aziende specializzate in strumenti del dolore
La denuncia di Amnesty International: in dieci anni i produttori sono passati da 28 a 130, anche se non ci sono cifre precise del giro d'affari
Alcune sono partecipate direttamente da Pechino, accusata di non porsi alcun limite etico
Nei cataloghi anche il bastone elettrico denunciato dai tibetani. Un analogo report condanna anche la Ue
di Andrea Tarquini

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La Stampa TuttoScienze 24.9.14
Da Sargon all’Isis le tragedie multiple della città di Ebla
Una storia millenaria, in migliaia di tavolette Ma ora rischia l’annichilimento definitivo
di Gabriele Beccaria


Paolo Matthiae si schiarisce la voce e racconta l’impresa, che è una sfida alla morte, dell’archeologo-eroe. «Fajar el-Abdo, figlio del guardiano del sito che scelsi tanti anni fa, quasi ogni giorno va dal villaggio di Tell Mardikh, il sito di Ebla, a Idlib, sede del museo di cui è conservatore e dove sono racchiusi reperti unici»: 25 km segnati dal sangue e dai check-point con il grilletto facile. Ribelli da una parte, governativi dall’altra. «Ogni volta che torna a casa è una fortuna, ma la sua testa potrebbe non finire bene. E infatti sono già stati uccisi diversi funzionari. Erano impegnati a difendere il patrimonio archeologico e storico della Siria».
Quelle odissee, sospese tra un conflitto-simbolo del XXI secolo e l’eccezionale testimonianza di una spettacolare città-fortezza che prosperò tra 2500 e 1600 a.C., sono come il pixel di una scena più vasta. E non a caso l’avventura che Matthiae - lo scopritore di Ebla - ha proposto nella conferenza alla Scuola Normale Superiore di Pisa è stata un continuo cortocircuito temporale, lungo quattro millenni. Oggi, Ebla, a 60 km da Aleppo, rischia l’ennesima catastrofe. Il cattivo è il leader dell’Isis, al-Baghdadi: non solo adora far sgozzare gli occidentali, ma spaccia i tesori siriani e iracheni per contribuire a finanziare il suo Terrore in stile taleban. Nel 2300 a.C., invece, il cattivo fu Sargon di Akkad, il fondatore del primo impero dell’umanità, che non esitò a inserire Ebla negli elenchi delle sue vittime illustri.
Ebla - ha ricordato Matthiae, ospite dell’iniziativa «Virtual Immersions in Science» - è stata più volte un oggetto del desiderio e citata da diversi conquistatori con il vizietto del racconto autocelebrativo. Annichilita per tre volte, non è ascesa all’Olimpo degli immortali come Troia e, non avendo avuto un Omero, non ci tormenta con gli alter ego di Elena, Achille o Ettore. Ma la sua persistenza è un dato di fatto. Solo più fantasmatica. «Nell’86, a Hattusa, la capitale degli Ittiti, vengono alla luce i frammenti di un poema sull’epica distruzione di Ebla, quella definitiva. Bilingue, in hittita e hurrita, si chiamava il “Poema della Liberazione”, perché all’origine della catastrofe ci sarebbe stato il rifiuto da parte della città stessa di liberare un principe illegittimamente detenuto, come Elena a Troia: nel testo, in cui compaiono divinità e re, ci sono assonanze straordinarie con l’Iliade e la mia convinzione è che una sua traduzione abbia circolato in altre regioni dell’Asia Minore, a partire dal 1180 a.C., quando Hattusa fu abbandonata, per arrivare alla Ionia, dove quei canti possono essere stati usati come base proprio dell’Iliade».
Forse che Omero deve a Ebla quasi quanto deve alla guerra di Troia? Di sicuro questa metropoli di 20-30 mila abitanti si fissò nella memoria dei potenti. «Un faraone egizio, Tuthmosis III, la registrò in un’iscrizione trionfale del tempio di Amone a Tebe, dedicata alle sue spedizioni, con altre 280 città, quando non era altro che una distesa di rovine dopo l’ultima distruzione, nel 1600 a.C.». E in precedenza un altro faraone, Hothep-ib-Ra, tra 1770 e 1750 a.C., dimostrò di tenerla in tale considerazione da inviare ai suoi signori un’insegna della propria regalità. «La mazza era in una tomba di Ebla, accanto a un’altra simile: un ritrovamento unico - sottolinea Matthiae -. Nemmeno in Egitto, finora, è stato mai portato alla luce un esemplare simile. D’avorio, con la sommità in calcare, esibisce a metà del manico un cilindretto dal nucleo d’argento su cui sono applicati splendidi geroglifici in oro con il nome del faraone, fiancheggiati da due cinocefali adoranti». Non si sa il motivo di tanta generosità. Forse fu il suggello di un’alleanza politica o di un legame matrimoniale, dato che la tomba ospitava una presunta principessa. Ebla, comunque, faceva sempre parlare di sé ed «è stata straordinariamente importante per un millennio: è, tra l’altro, l’incarnazione della seconda fase di urbanizzazione dell’umanità, quando la sfida diventò edificare le città lontano dalle valli alluvionali dei grandi fiumi, come il Nilo, il Tigri, l’Eufrate, l’Indo o il Fiume Giallo». E che sia stata un crocevia decisivo l’hanno testimoniato gli stessi eblaiti.
La passione della scrittura, infatti, sotto le forme molteplici di elenchi e registrazioni dell’amministrazione regia, oltre che di componimenti poetici con inni e incantesimi, contagiò la città come tanti altri luoghi di quello che gli archeologi chiamavano un tempo «Vicino Oriente». Se le tavolette - ricorda Matthiae - «sono il sale della nostra disciplina», evocando le 30 mila della biblioteca del re assiro Assurbanipal del VII secolo a.C., la scoperta a Ebla di migliaia di testi (risalenti al XXIV secolo a.C.) ha riportato alla luce un archivio, pressochè integro, degno dei massimi superlativi, al punto che un padre dell’assiriologia, Ignace Gelb, definì la scoperta made in Italy come quella «di una nuova cultura, di una nuova lingua, di una nuova storia». Aggiunge Matthiae: «Nessun archeologo può vivere un sogno più selvaggio». Diciassettemila «pezzi», tra cui veri e propri dizionari sumero-eblaita - i più antichi vocabolari del mondo - e libri contabili da cui emergono le testimonianze delle conquiste di Ebla, come quella dell’opulenta Mari.
Conflitti remoti che ci proiettano nel presente. «Da quattro anni gli scavi sono interrotti, i restauri bloccati, il sito semiabbandonato». Persa nella mezzaluna di un Islam feroce che dalla Libia si spinge all’Afghanistan, sterminando esseri umani e cancellando le meraviglie delle prime civiltà, Ebla è sull’orlo del precipizio. Un’altra volta.

La Stampa TuttoScienze 24.9.14
Le nanotecnologie spiegano l’origine della vita
Record a Torino: sintetizzate proteine con 16 amminoacidi (dei 20 esistenti)
di Luigi Grassia


A grandi linee sappiamo com’è andata. Nel brodo primordiale, 4 miliardi di anni fa, c’erano piccole molecole che poi, reagendo, hanno dato origine agli amminoacidi, e da questi sono nate le proteine, il Dna, la vita, insomma. Però la scienza non è tale se si ferma alle intuizioni e alle ipotesi indimostrate: bisogna ricostruire come sono andate le cose in concreto. Riprodurre l’intero processo. E qui, finora, è cascato l’asino: abbiamo riprodotto qualche spezzone, sì, ma il processo intero no, neanche lontanamente. Finora. La novità è che a Torino si è appena fatto un grande balzo in avanti, arrivando ad aggregare un polimero lungo 16 amminoacidi , cioè una piccola proteina. E le nanoscienze hanno dato un contributo fondamentale.
La ricerca è stata condotta dal dipartimento di Chimica e dal Centro Interdipartimentale per le Interfacce e Superficie Nanostrutturate (Nis) dell’Università di Torino, l’ha diretta il professor Gianmario Martra ed è stata pubblicata sulla rivista scientifica «Angewandte Chemie».
Il professor Piero Ugliengo, che a Torino si occupa di chimica computazionale, è stato tra gli ispiratori della ricerca, facendo simulazioni al calcolatore. Spiega: «Passare dagli amminoacidi alle proteine non è una reazione spontanea. E la presenza di acqua tende a separare le molecole prebiotiche anziché aggregarle». Questa è una sorpresa per noi profani, che credevamo che le acque degli oceani primordiali fossero un brodo di coltura ideale.
Pare, invece, che l’ambiente ideale per queste sintesi siano le rocce. «Sui minerali - dice Ugliengo - ci sono dei siti attivi che attirano le molecole e le concentrano alla superficie». Questo perché la struttura geometrica dei cristalli si presta a organizzare le molecole che vi si depositano. Se poi i siti attivi alla superficie della roccia riescono pure a fornire l’energia per accelerare la reazione chimica fra gli amminoacidi, abbiamo tutti gli ingredienti necessari.
Ma qui la faccenda si complica, perché l’acqua, pur nemica delle sintesi prebiotiche, a qualcosa è necessaria. «Non possiamo immaginare che in natura gli amminoacidi arrivino sulle rocce volando - osserva Ugliengo -. Devono esservi depositati dall’acqua». Che però, poi, deve discretamente farsi da parte, sparire, togliersi di mezzo. E dove succede questo in natura? «Sulle rocce esposte all’acqua di mare, dove si formano delle piccole pozze. Poi il liquido evapora e la roccia resta asciutta». Queste nicchie sono state la clinica di maternità della vita sulla Terra.
In laboratorio, a Torino, come «roccia» si è usato del biossido di titanio, in particelle nanometriche per aumentarne la superficie di contatto, che si è rivelato un ottimo catalizzatore ed aggregatore, organizzando polimeri lunghi fino a 16 amminoacidi. Un’altra «roccia», la silice amorfa, si è fermata a 11. Ora continua la ricerca per scoprire l’insieme di minerali che 4 miliardi di anni fa aggregarono i 20 amminoacidi in lunghe catene che potessero manifestare i primi comportamento enzimatici. Quel giorno la vita estrasse il biglietto vincente della lotteria.

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