giovedì 25 settembre 2014

il Fatto 25.9.14
Patto del Nazareno, Corriere: “Odore di massoneria, siano pubblici i contenuti”

Nell'editoriale che inaugura il nuovo corso grafico del quotidiano di via Solferino, il direttore Ferruccio de Bortoli esprime un giudizio netto sul premier, sulla squadra di governo ("in qualche caso di una debolezza disarmante") e sull'accordo alla base delle riforme stretto con Berlusconi, che "finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria"
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il Fatto 25.9.14
Mucchetti: “Dal Corriere quasi sfiducia a Renzi. È poco credibile come Berlusconi”

Il presidente della commissione Industria al Senato, commentando l'editoriale di Ferruccio de Bortoli, scrive che "Renzi può essere tentato di reagire alla reprimenda attaccando i giornaloni" e "potrebbe brigare per anticipare la sostituzione di de Bortoli da parte dell’azionista di maggioranza relativa della Rcs, che è poi la Fiat: quella Fiat marchionnesca filo governativa e forse in attesa di qualche supporto all’esportazione"
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il Fatto 25.9.14
Il Corriere affonda Renzi: puzza di massoni dietro il patto con B.
Editoriale durissimo del direttore De Bortoli che denuncia l’arroganza del premier e la debolezza dei ministri
di Stefano Feltri


Perché il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli attacca così frontalmente il premier Matteo Renzi? Perché evoca la troika, i segreti del patto del Nazareno e, a questo proposito, sente lo “stantio odore della massoneria”? Spiegazione giornalistica: ieri il Corriere ha cambiato formato e grafica, ci voleva un editoriale del direttore e De Bortoli è riuscito a scriverne uno che ha reso imperdibile la lettura del giornale. Ma il Corriere è anche il giornale dei poteri (un tempo) forti, quello che la loggia P2 comprò con i soldi del banco Ambrosiano di Roberto Calvi e nel cui azionariato tormentato tuttora si scontrano gli ultimi frequentatori dei salotti della finanza, Diego Della Valle contro Giovanni Bazoli di Intesa e la Fiat di Sergio Marchionne e John Elkann. E se il Corriere sfiducia il governo – a cui non ha mai riconosciuto grandi meriti – nei palazzi romani si passa la giornata a cercare il mandante o almeno un’interpretazione.
DE BORTOLI PARLA di “muscolarità che tradisce debolezza” e di una squadra di ministri “di una debolezza disarmante” (tranne Pier Carlo Padoan all’Economia), uomini e donne scelti in base alla fedeltà invece che alla competenza. Osservazioni molto condivise in quei settori di impresa e finanza che hanno accolto con entusiasmo Renzi ma ora non vedono alcun miracolo. Basta leggere il Sole 24 Ore di Confindustria o gli editoriali di Wolfgang Munchau sul Financial Times. Soltanto Sergio Marchionne, che si prepara ad accogliere Renzi alla Chrysler a Detroit e invoca la riforma dell’articolo 18, rimane decisamente renziano: “L’editoriale del Corriere? Normalmente non lo leggo”. Parole che evocano quelle che usò Silvio Berlusconi nel 2008 quando suggerì a Giulio Anselmi della Stampa e a Paolo Mieli del Corriere di “cambiare mestiere”. I due direttori furono cacciati. De Bortoli non corre lo stesso rischio perché è già stato licenziato, se ne andrà in primavera come da accordi con l’azienda, dopo ripetuti scontri con l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane. Per lunghi mesi, quindi, De Bortoli sarà al comando ma libero – più del solito – di dire quello che vuole.
E allora avanti con le suggestioni, a metà tra fantapolitica e analisi. Renzi aveva attaccato in Parlamento, con toni intimidatori, proprio il Corriere, reo di aver dato notizia dell’indagine per corruzione internazionale su Claudio Descalzi, il manager scelto dal governo per la guida dell’Eni. E il premier, il 16 settembre, alla Camera attacca: “Non permettiamo a un avviso di garanzia citofonato sui giornali o a uno scoop di cambiare la politica industriale nazionale”. E allora, zac, De Bortoli risponde alle minacce con l’editoriale “Il nemico allo specchio”. Il sito Dagospia riferisce anche che il premier avrebbe protestato perché da via Solferino avevano mandato un inviato nell’albergo delle vacanze presidenziali a Forte dei Marmi. Ma queste sono minuzie che non appassionano chi preferisce vedere disegni più vasti dietro l’attacco del Corriere. Tipo: Mario Draghi ha ormai deciso di lasciare la Bce l’anno prossimo per andare al Quirinale, dove Renzi non lo vuole perché si troverebbe commissariato, De Bortoli supporta Draghi e asseconda quei poteri che sarebbero rassicurati dal vedere il banchiere centrale al vertice della politica italiana (peccato che non è affatto detto che Draghi voglia e possa andarsene da Francoforte senza destabilizzare i mercati mondiali). Infine l’ipotesi più ardita: il direttore del Corriere pensa alla politica, ma non come sindaco di Milano (ipotesi di cui si discute da anni), bensì come portabandiera di uno schieramento alternativo al Pd renziano. I salotti non hanno più un loro uomo, visto che l’ambizioso Corrado Passera convince poco.
FANTAPOLITICA a parte, resta quel riferimento sorprendente alla massoneria. Forse De Bortoli ha indiscrezioni su indagini fiorentine? Siti e personaggi dalla discutibile attendibilità sostengono che ci siano legami tra Tiziano Renzi, il papà, Denis Verdini (Forza Italia) e logge toscane. Illazioni mai dimostrate. Dall’America Renzi commenta solo così: “Auguri al Corriere per la nuova grafica”. In privato si limita a dire: “Se c’è una cosa che è lontana da me e da mio padre è la massoneria”.
Vedremo se De Bortoli e i suoi cronisti produrranno elementi per smentirlo.

La Stampa 25.9.14
La popolarità del premier
di Mattia Feltri

Molto interessante l’inchiesta di ieri dell’AdnKronos: sono stati interpellati vari istituti demoscopici per verificare la popolarità del premier. Interventi di Nando Pagnoncelli di Ipsos, Maurizio Pessato di Swg, Renato Mannheimer di Ispo e Antonio Noto di Ipr Marketing. Tutti d’accordo, per gli italiani Matteo Renzi continua a incarnare la speranza di cambiamento del paese: chi spera di andare in America, chi in Australia, chi in Cina...

il Fatto 23.9.14
Jobs Act, il Pd al Senato rischia di perdere 40 voti. E di avere bisogno di B.

di Sara Nicoli
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il Fatto 25.9.14
Autoriciclaggio, non va bene neanche soft,il governo ritira la norma ancora prima di presentarla

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il Fatto 25.9.14
Autoriciclaggio stop
Orlando? No, i soliti Ghedini & Boschi
di Gianni Barbacetto


Tutto in poche ore: stop all’autoriciclaggio e via libera alla responsabilità civile dei giudici. Sconfitti coloro che nel Pd avevano lavorato per varare più efficaci norme contro la corruzione (il deputato Pippo Civati, la senatrice Lucrezia Ricchiuti, il capogruppo in commissione Finanze della Camera Marco Causi). A vincere è la strana coppia Maria Elena Boschi, ministro per le Riforme, e Niccolò Ghedini, avvocato-parlamentare di Silvio Berlusconi. Ieri, mercoledì, era annunciato come il giorno cruciale per la riforma della giustizia: in commissione Finanze si sarebbe dovuto approvare definitivamente il testo che introduceva il reato di autoriciclaggio e varava la “voluntary disclosure”, cioè le norme per favorire il rientro dei capitali nascosti all’estero. Invece l’appuntamento è stato rimandato di una settimana, a mercoledì 1 ottobre. In compenso, ieri pomeriggio il ministro Boschi ha presentato in Senato il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia paga, anche se questo renderà le toghe psicologicamente più deboli di fronte agli imputati potenti che hanno mezzi per rivalersi contro i loro giudici. È un segnale chiaro: mentre si frena il varo di norme più efficaci per combattere corruzione ed evasione fiscale, si accelera nelle misure punitive nei confronti dei magistrati. Resta la responsabilità indiretta, cioè sarà lo Stato a pagare le spese per gli errori giudiziari, ma cambiano le modalità: non ci sarà più il filtro iniziale di ammissibilità delle cause, con il probabile esito di moltiplicare i procedimenti contro i giudici; e aumenterà la quota di rivalsa dello Stato nei confronti delle toghe, che in caso di errore, pur senza dolo, dovranno ripagare la pubblica amministrazione con i loro soldi, rinunciando fino al 50 per cento dello stipendio.
NELLE LINEE GUIDA presentate dal ministro della giustizia Andrea Orlando già si leggeva che “uno degli obiettivi del progetto è il superamento di ogni ostacolo frapposto all’azione di rivalsa, nei confronti del magistrato, che lo Stato dovrà esercitare a seguito dell’avvenuta riparazione del pregiudizio subito in conseguenza dello svolgimento dell’attività giudiziaria”. Inoltre “l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato, esercitabile quando la violazione risulti essere stata determinata da negligenza inescusabile, diverrà obbligatoria”. E “sarà innalzata la soglia dell’azione di rivalsa, attualmente fissata, fuori dei casi di dolo, a un terzo dell’annualità dello stipendio del magistrato: il limite verrà incrementato fino alla metà della medesima annualità”. “Resterà ferma l’assenza di limite all’azione di rivalsa nell’ipotesi di dolo”.
Intanto è sparito di scena l’autoriciclaggio (cioè il reato che punisce chi ripulisce e mette in circolo i soldi incassati commettendo un reato). Se ne parlerà mercoledì prossimo. Ma già ieri era comparso un testo del governo, diverso e peggiorativo rispetto a quello discusso dalla commissione Finanze della Camera sulla base di un progetto proposto dalla commissione di studio presieduta dal magistrato di Milano Francesco Greco. Il nuovo testo introduce il “comma del godimento”: “L’autore del reato non è punibile quando il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla utilizzazione o al godimento personale”. Ma soprattutto alza la soglia di applicabilità: non c’è autoriciclaggio quando il reato presupposto (quello che ha prodotto i soldi sporchi) è punibile con una pena inferiore a 5 anni. Vuol dire che resteranno fuori reati come la truffa, l’appropriazione indebita, la dichiarazione fiscale infedele, l’elusione fiscale. “Tutti i casi concreti che noi incontriamo nel nostro lavoro quotidiano”, constata un magistrato della procura di Milano. “Fatta così, la norma sull’autoriciclaggio non serve a niente”.

Repubblica 25.9.14
Il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli
“Impuniti molti illeciti gravi, testo da cambiare”
intervista di L. Mi.


ROMA Ha storto il naso appena l’ha letto. Perché l’autoriciclaggio in versione Orlando «rischia di lasciar fuori comportamenti gravi che resterebbero impuniti ». Così lo stronca il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli.
Cosa c’è che non va?
«Voglio essere chiaro, non abbiamo mai chiesto un’indiscriminata criminalizzazione di condotte minimali, per evitare che si ripeta l’errore di punire a titolo di riciclaggio pure il taroccamento dei motorini. Però stabilire che l’autoriciclaggio non si applica ai reati con pena massima inferiore a 5 anni è sbagliato, perché esclude delitti con incidenza rilevante nel settore economico e finanziario».
Quali sono i reati e che succede a escluderli?
«La truffa, l’appropriazione indebita, il traffico di influenze, la cosiddetta corruzione privata prevista dal codice civile, il finanziamento illecito dei partiti politici. In materia fiscale la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione. Cioè tutti reati che hanno una pena massima inferiore ai 5 anni».
Delitti pesanti. Perché ignorarli? Non è un modo per favorire gli evasori e chi manda capitali all’estero?
«Io non faccio dietrologia. Capisco la volontà di evitare una criminalizzazione indiscriminata, ma è un errore fare riferimento alla pena massima, addirittura di 5 anni, che giudico
troppo alta».
Il reato diventa inutile?
«È chiaro che ne limita l’efficacia ».
Si fa un favore a chi delinque e sfrutta i proventi ripulendoli
da solo?
«Mi fermo all’analisi della norma. Così com’è stato scritto, il reato non consentirà di colpire chi autoricicla i proventi dei reati esclusi, alcuni molto frequenti. Si pensi alla truffa, all’appropriazione e ai reati di evasione».
Che senso ha decidere che l’uso personale di un capitale illecito è consentito?
«Ha un senso escludere la punizione del semplice uso personale e diretto dei beni ottenuti con un reato che ha già in sé la sua sanzione. Il problema è che la norma aprirà dei varchi pericolosi in tutti i casi in cui il soggetto, prima di fare uso personale del bene che si è procurato con un reato, si dà da fare per nascondere la provenienza illecita di quel bene».
È un rompicapo. Ci fa un esempio?
«Immaginiamo che un funzionario corrotto o un evasore trasferisca il denaro delle tan- genti o dell’evasione su vari conti esteri di copertura per nasconderne l’origine. E che alla fine di questi giri utilizzi il denaro per acquistare una villa lussuosa in cui va a vivere. Immaginiamo poi che il reato di corruzione o di evasione fiscale si prescriva: non si potrà confiscare la villa, da un lato perché corruzione o evasione sono prescritte, dall’altro perché l’autoriciclaggio non è punibile».
Come se ne esce?
«Abbassando la soglia dei 5 anni e con soluzioni che evitino, per le condotte non gravi, un’indiscriminata e inutile criminalizzazione ». ( l. mi.)

Il Sole 25.9.14
Legge elettorale, scontro sui tempi
di Barbara Fiammeri


ROMA L'Italicum resta in stand by. L'Ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato, che ieri avrebbe dovuto decidere la calendarizzazione della riforma elettorale, è stato rinviato alla prossima settimana. La ragione ufficiale dell'ennesimo stop è la pendenza della possibile ma sempre più remota nomina di Donato Bruno a giudice costituzionale. Del provvedimento il senatore di Fi è infatti il correlatore in pectore, assieme alla democratica Doris Lo Moro, e quindi la sua eventuale promozione alla Consulta imporrebbe di rivedere la scelta. «È un momento di tale disordine che è meglio rinviare», ha confermato la presidente della prima commissione Anna Finocchiaro (Pd).
Una giustificazione legittima ma dietro la quale si cela anche la volontà di cogliere al balzo qualunque possibilità per rallentare il percorso della legge elettorale. La ragione è semplice: sulla versione finale dell'Italicum non c'è ancora l'accordo e soprattutto il sì alla legge elettorale viene letta come un'accelerazione verso il ritorno al voto e comunque un'arma in più per Matteo Renzi. Non a caso lo schieramento dei frenatori è trasversale e trova sostenitori tanto in Fi che nel Pd per non parlare dei partiti minori a cominciare dal Ncd di Angelino Alfano.
Ecco perché Maria Elena Boschi, ministra per le Riforme e reenziana doc, ieri parlando alla Camera si è preoccupata anzitutto di rassicurare che l'approvazione della legge elettorale è sì «un'urgenza» ma «non perché vogliamo andare a votare» bensì perché assieme alle altre riforme rappresenta un «elemento di credibilità» sollecitato anche dal Capo dello Stato. Il ministro ha poi ribadito la disponibilità del governo a rivedere il testo dell'Italicum approvato a Montecitorio. «Probabilmente al Senato ci saranno alcune modifiche marginali che possono riguardare le soglie di accesso o le modalità di scelta dei candidati», ovvero i due punti su cui si erano maggiormente concentrate le critiche di una parte non irrilevante dello stesso Pd e di Ncd ma sulle quali per Renzi è fondamentale anche il consenso di Silvio Berlusconi con il quale ha sottoscritto il patto del Nazareno. La sovraesposizione del ruolo di Fi però è mal vista nella maggioranza tant'è che anche sulla scelta del corelatore si registrava ieri maretta soprattutto tra gli Ncd.
Il Cavaliere per il momento ha dato mandato ai suoi di mantenersi in stand by. Il leader di Fi non scalpita per approvare rapidamente l'Italicum. Per Berlusconi a oggi il sistema migliore sarebbe il Consultellum, il proporzionale con sbarramento uscito dalla sentenza della Corte costituzionale: gli garantirebbe dopo il voto di rimanere protagonista e di fare piazza pulita dei "partitini" del centrodestra.

il Fatto 25.9.14
F-35 e il gioco delle tre carte: sembrano la metà ma non è vero
di Toni De Marchis

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il Fatto 25.9.14
“Facite ammuina”
La Camera degli equivoci sugli F35: “Il governo li dimezzi. Ma anche no”
di Marco Palombi


Ieri alla Camera è avvenuta una straordinaria novità politica sull’acquisto degli F35: il Parlamento, attraverso ben tre mozioni, ha impegnato il governo a fare un po’ come gli pare. Non è una battuta, ma il frutto della lettura sequenziale dei tre dispositivi approvati dall’aula di Montecitorio: è vero che sui siti e in tv è stata data notizia che le Camere chiedevano di dimezzare il programma, ma la realtà come vedremo è leggermente diversa.
LA MAGGIORANZA ufficiosa che governa il Paese, cioè quella che comprende Forza Italia, ieri ha infatti deciso di dire sì a ben tre mozioni sul programma Joint Strike Fighter. La prima – presentata da Pd, Scelta Civica e centristi vari – prevede effettivamente di ridurre il peso economico degli acquisti: impegna, infatti, il governo “a riesaminare l’intero programma F35 per chiarirne criticità e costi con l’obiettivo finale di dimezzare il budget finanziario originariamente previsto”.
Bene, si dirà. Certo, però il problema c’è che le altre due di questa faccenda del dimezzamento non parlano affatto e impegnano parimenti il governo sempre grazie al voto della Camera. La mozione di Ncd ad esempio, primo firmatario Fabrizio Cicchitto, non parla nemmeno di ridurre la spesa per i caccia bombardieri, ma si limita genericamente a impegnare l’esecutivo “a ricercare ogni possibile soluzione e accordo con i partner internazionali al fine di massimizzare i ritorni economici, occupazionali e tecnologici, valorizzando gli investimenti già effettuati” (che superano i tre miliardi di euro complessivi) soprattutto nel sito produttivo di Cameri, Novara, dove si assemblano pezzi di ala.
Pure quella di Forza Italia – prima firma Renato Brunetta – non parla affatto di dimezzare il programma, ma di “contemperare le esigenze della difesa in materia di pianificazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma (...) con le più generali esigenze di contenimento della spesa pubblica”. La Camera, insomma, ha votato per il dimezzamento degli acquisti di F35? Sì, ma anche no. E il governo a cosa deve considerarsi impegnato? Nei fatti i deputati gli hanno chiesto di tagliare la spesa per i caccia prodotti dalla Lockheed Martin del 50% o magari meno o anche niente se proprio non è possibile visti gli accordi internazionali e i focolai di guerra che si aprono qui e là. Insomma, il governo di Matteo Renzi – che s’è impegnato a presentare un Libro Bianco sulle spese della Difesa entro il 2014 – farà un po’ quello che gli pare con gli F35 e con tutto il resto: se deciderà di ridurre gli acquisti dei caccia lo farà perché lo avrà deciso da solo, non certo per il voto schizofrenico del Parlamento.
IL PROBLEMA, ormai, è che il programma Joint Strike Fighter sta sostanzialmente colando a picco a livello tecnico e politico: sopravvive solo come accordo economico vincolante e per il peso politico degli Stati Uniti, dove i caccia sono stati pensati e vengono prodotti. Basti citare una delle mozioni bocciate ieri dalla Camera, quella di Giulio Marco di Sel, che chiedeva l’abbandono del progetto (come quella del M5S, mentre quella della Lega – bocciata anch’essa – ne chiedeva la completa conferma): un po’ per i costi che continuano a crescere e un po’ per i problemi tecnici che stanno funestando la fase di sperimentazione, Gran Bretagna, Olanda, Australia, Turchia, Canada e altri hanno ridotto la loro partecipazione al programma e pure il Pentagono rivedrà al ribasso il numero di velivoli di cui ha bisogno.
Risultato: “Ogni riduzione – e in particolare quelle più consistenti da parte degli Usa – comportano ulteriori e continui aumenti del costo unitario per tutti gli acquirenti” (oggi, per i primi tre già comprati, già siamo a 126 milioni di euro l’uno). Questo comporterà che il costo finale del programma potrebbe salire dai 14 miliardi previsti a tre volte tanto.

il Fatto 25.9.14
Cambiamenti climatici, i due volti di Renzi:

ambientalista a New York, ‘sblocca trivelle’ in Italia
di Greenpeace

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il Fatto 25.9.14
L’Agcom ha già pronto lo “scontone” a Mediaset
Il biscione risparmierà 80 milioni, la tv di Stato un centinaio
Chi paga? La 7 e le piccole emittenti
di Carlo Tecce


Ecco il cambio di verso per la televisione: i ricchi pagano di meno, i poveri pagano di più. Oppure: mercato sempre più comodo per i ricchi e sempre più scomodo per i poveri. Anzi, impossibile per i poveri.
Questo clamoroso cambio di verso, nonostante i rimproveri dell’Unione europea e la ribellione dei piccoli editori, verrà ratificato la settimana prossima dall’Autorità di garanzia (Agcom) che applicherà uno sconto milionario a Mediaset e Rai sul canone per la concessione delle frequenze televisive, un bene pubblico: in sette anni, il Biscione potrebbe risparmiare almeno 80 milioni di euro, la Rai addirittura più di 100 (quasi 126). In totale: 200 per due.
Il cambio di verso funziona così: Cologno Monzese e Viale Mazzini non dovranno versare più l’uno per cento del fatturato aziendale, ma un obolo (meno di 10 milioni ciascuno) estratto dai conti di quelle società controllate che gestiscono le antenne, cioè Elettronica Industriale e Rai-Way (che sarà pure quotata in Borsa e ceduta ai privati per il 40%). Con questa mossa masochista, lo Stato rinuncia a 131,7 milioni di euro nei 7 anni, a essere ottimisti. Perché l’Agcom crede di poter recuperare un po’ di denaro caricando i costi su La7, Persidera (Telecom-Espresso), H3G e, soprattutto, su quegli imprenditori locali che di certo non raggiungono i miliardi registrati dal duopolio.
IN MEDIA, in questi anni, il Biscione e Viale Mazzini garantivano assieme tra i 50-55 milioni di euro: in futuro non supereranno i 20, se va male. I dati qui riportati sono quelli che circolano all’Agcom per le proiezioni sul periodo 2014-2021. Oltre a un imperituro impegno politico per salvaguardare il patrimonio di Silvio Berlusconi il gran riformatore, non ci sono spiegazioni plausibili al provvedimento che l’Agcom si appresta a emanare. I dissidenti, su cinque componenti, sono la coppia Angelo Cardani (presidente) e Antonio Nicita (commissario). Agguerriti, più che favorevoli: Antonio Martusciello, ex dirigente di Publitalia, cioè Mediaset e sottosegretario nel governo di Berlusconi; Antonio Preto, ex collaboratore di Renato Brunetta e Antonio Tajani di Forza Italia e Francesco Posteraro, eletto in quota Udc. I numeri non danno scampo.
Il governo, tramite il sottosegretario Antonello Giacomelli, è intervenuto formalmente (in passato) per ottenere un rinvio. I giorni che restano sono una manciata, e neppure una lettera spedita a metà luglio da Bruxelles è riuscita a far desistere Martusciello e colleghi. I burocrati europei Linsley McCallum e Anthony Whelan
– come ha riferito Aldo Fontanarosa su Repubblica– ordinarono all’Agcom di rispettare “le pari opportunità tra i vari operatori economici” e notarono che “l’importo dei diritti non può ostacolare l’accesso al mercato”. Bruxelles aveva perfettamente inteso gli effetti di questi inediti criteri di tassazione sul canone per l’utilizzo delle frequenze: i ricchi pagano di meno, i poveri pagano di più (se riescono a pagare).
L’ex commissario Nicola D’Angelo, che già all’epoca del suo mandato s’era trovato a fronteggiare il problema, frantuma le eventuali giustificazioni di Agcom: “Non sono costretti a vidimare questo grave errore. La norma che viene richiamata per ridurre il canone, poteva essere interpretata diversamente, perché la revisione è sì obbligatoria, ma deve essere proporzionale e ragionevole per salvaguardare il pluralismo. E non devono copiare il sistema in vigore per le telecomunicazioni o avvantaggiare i soliti”.
Il governo, se ne avesse intenzione, ha un paio di giorni di tempo per contrastare l’Agcom, non è sufficiente promettere un ostruzionismo postumo. Perché una volta decretato lo sconto, non si potrà tornare indietro. A Palazzo Chigi, così disponibile con l’amico di Arcore, conviene evitare l’aiutino a Mediaset? Non conviene. Anche se i saldi Agcom non sono convenienti né per le casse statali né per la “figuraccia” con Viale Mazzini: prima Matteo Renzi impone un prelievo di 150 milioni di euro e poi li restituisce a rate. E tra una rata e l’altra, ci scappano (almeno) 80 milioni per Mediaset.

Repubblica 25.9.14
Canone frequenze, lo Stato perderà 131 milioni
di Aldo Fontanarosa


ROMA . Non sono bastate una severa lettera della Commissione Ue (il 18 luglio) e due altre del sottosegretario Giacomelli (il 19 luglio e il 4 agosto). Il Garante per le Comunicazioni (l’AgCom) sfida il governo e accelera nella riforma del canone delle frequenze tv. L’esecutivo avrebbe voluto regolare la materia con una sua legge, ma il Garante non intende aspettare oltre il 30 settembre, ed ora stringe i tempi. Proprio martedì 30 toccherà così i criteri di calcolo del canone che le emittenti dovranno all’erario. Quindi rimetterà la palla al ministero dello Sviluppo che stabilirà gli importi materiali della “tassa”. E la decisione è spinosa. Già a luglio il sottosegretario Giacomelli ha avvertito il Garante che il provvedimento in esame ha un punto molto debole. Perché ridurrebbe a lungo le entrate per lo Stato mentre riconosce un super sconto a Rai e Mediaset.
Stime ufficiali non ce ne sono. Ma ieri, alla Camera, circolava un appunto tecnicamente attendibile. Calcola che nel 2014, con il nuovo meccanismo, l’erario si ritroverà in cassa 39,52 milioni in meno rispetto al 2013 (effetto dell’abbuono per Rai e Mediaset alleggerite di 23,1 e 17,2 milioni rispetto all’anno scorso). Nei primi 4 anni, l’ammanco per lo Stato lieviterà a 104,8 milioni (mentre il beneficio per Viale Mazzini e il Biscione a 73,1 e 49,5). Le casse pubbliche conteranno ben 131,7 milioni smarriti, infine, tra il 2014 e il 2021.
La norma attualmente in vigore, introdotta dalla Finanziaria del 2000, prevede che ogni azienda televisiva versi allo Stato l’1% del fatturato. Fino ad oggi, dunque, pagavano più soldi le emittenti più ricche. Martedì il Garante tenterà di spostare il peso dalle imprese editoriali a quelle tecnologiche. Per la Rai pagherà RaiWay e per Mediaset, invece, Elettronica Industriale. Come è motivato questo cambio?
Soprattutto il Garante vuole che i grandi contribuenti (Rai e Mediaset, sempre loro) spendano meno e i nuovi protagonisti del mercato, di più. Angelo Cardani, presidente del Garante, non ha mai amato il provvedimento in esame. Quando i tecnici dell’AgCom gli hanno mostrato una prima bozza, l’ha bollata come impresentabile. Poi ha sempre votato contro nelle riunioni preliminari (insieme al commissario Nicita). Martedì però la riforma può ricevere il sì dei commissari Martusciello, Preto e del relatore Posteraro.

E’ rimasto solo Pippo Civati, in splendida solitudine, a dire che «se il premier insiste, la rottura sarà inevitabile». «Nessuno di noi vuole rompere, non ci capirebbe il Paese»
La Stampa 25.9.14
La minoranza Pd tratta sul reintegro ma è pronta alla resa
I bersaniani ritirano l’arma del referendum
di Carlo Bertini


E’ rimasto solo Pippo Civati, in splendida solitudine, a dire che «se il premier insiste, la rottura sarà inevitabile». «Nessuno di noi vuole rompere, non ci capirebbe il Paese», ammette in Transatlantico il colonnello bersaniano, Davide Zoggia. «Bisogna solo capire se è Renzi che vuole rompere con noi», si domanda il duro Stefano Fassina prima di accendersi una sigaretta nel cortile della Camera.
La trattativa è avviata, Lorenzo Guerini e Filippo Taddei provano a sbrogliare la matassa, ma sarà solo il premier, nel week end, a dire l’ultima parola prima della Direzione: a dire cioè se intende concedere qualcosa sull’articolo 18 agli oppositori interni, già scesi a ben più miti consigli. Ridotta all’osso la questione è in questi termini: Renzi sta valutando se cedere alla richiesta di prevedere la reintroduzione dell’articolo 18 dopo dieci anni dall’assunzione, caldeggiata dai suoi sherpa sul campo. Che in queste ore sono impegnati in un braccio di ferro con la sinistra del Pd, disposta invece a mettere sul piatto come massima concessione l’allungamento del periodo a cinque-sei anni.
A cercare una soluzione unitaria, spingendo anche loro per la tutela del reintegro «dopo un tot di anni» sono i «giovani turchi» del presidente Pd Matteo Orfini: che non a caso hanno ristretto la rosa di richieste a tre, senza far menzione dell’articolo 18, in una serie di emendamenti a firma Francesco Verducci appoggiati dai renziani al Senato. Dove ci si limita a chiedere di favorire le assunzioni a tempo indeterminato del nuovo contratto con incentivi fiscali, di impedire la «torsione autoritaria del demansionamento», di disboscare la giunga di contratti precari. Ma il nodo vero da sciogliere è se e come inserire nel nuovo contratto a tutele crescenti, oltre all’indennizzo monetario, la tutela piena in caso di licenziamento senza giusta causa: la sinistra prova a non far franare la diga, temendo il peggio, ma sperando che Renzi in zona Cesarini acconsenta ad una soluzione che non li costringa ad una resa campale. E se anche in caso di accordo nel Pd al Senato può rappresentare un’insidia il soccorso azzurro - che come fa notare la Bindi avrebbe un preciso «colore politico», allora l’arma della fiducia è sul tavolo: non solo obbligherebbe tutto il Pd alla disciplina, ma impedirebbe a Forza Italia di dare alla riforma del lavoro voti di destra che metterebbero in imbarazzo il premier di fronte al popolo della sinistra.
La minoranza comunque vuole scendere a patti col premier e non intende spaccare l’unità del partito sul tema che costituisce la ragione sociale del Pd: tanto che nei conversari privati rinfodera la minaccia di indire un referendum tra gli iscritti sventolata pubblicamente. Perfino i più barricaderi ammettono che non si farà nessun referendum, tradendo il timore che una conta tra i militanti possa produrre alla fine una sconfitta bruciante. L’altra sera Alfredo D’Attorre, braccio armato di Bersani in questa disputa, dopo aver evocato la conta tra i militanti al summit dei cento parlamentari della sinistra, in separata sede ha ammesso con Speranza che questo è solo un modo per spingere la trattativa più in avanti possibile. Perché in realtà il rischio è di portare a casa poco o nulla, la paura palpabile in queste ore è che Renzi non voglia trattare, inchiodando tutti alle proprie responsabilità.

Repubblica 25.9.14
Aut aut della minoranza “Matteo deve trattare o ballerà sulla Stabilità”
Lunedì alla direzione discussione anche sui conti della manovra Imbarazzo per la proposta M5S. Deciso no dei bersaniani
di Goffredo De Marchis


ROMA Spostare il tiro sulla legge di stabilità. O meglio aggiungere questo tema alla battaglia sulla riforma del lavoro. Le minoranze si preparano così alla sfida con Matteo Renzi nella direzione di lunedì. Già ieri sono partite le mail all’indirizzo del presidente del Pd Matteo Orfini: «Bisogna aggiungere un punto all’ordine del giorno: la manovra». Stefano Fassina attacca: «Sono molto preoccupato. Non è affatto chiaro dove si troveranno 20 miliardi, compresi quelli per l’estensione degli ammortizzatori sociali. L’impressione è che si userà il solito sistema: aumentare le tasse».
L’offensiva sulla manovra è il minimo comun denominatore che le minoranze hanno trovato per non arrivare in ordine sparso e quindi più deboli all’appuntamento di lunedì. La modifica dell’articolo 18 è stato a lungo oggetto del confronto nell’assemblea dell’area bersaniana martedì notte. C’è il sostegno ai 7 emendamenti presentati al Senato e firmati da 40 democratici (ovvero il 40 per cento dell’intera pattuglia di senatori), emendamenti che smontano l’ipotesi di modifica della norma sui licenziamenti. Ma nella sala del gruppo Pd alla Camera, ha prevalso la linea del dialogo con la maggioranza, non di una rottura. Si sono sentiti molti commenti critici alle parole di Susanna Camusso che paragonavano il premier a Margaret Tatcher, si avvertiva nell’aria il desiderio di non appiattirsi sulle posizioni della Cgil. Perché la preoccupazione principale di Pier Luigi Bersani e dei suoi alleati è non essere etichettati come «conservatori». Insomma, la mediazione di Roberto Speranza, Maurizio Martina e Guglielmo Epifani, finora, ha un consenso largo. Però sulla legge di stabilità gli oppositori pensano a una saldatura con il Jobs Act. Ci sono i soldi per far partire subito gli ammortizzatori universali che devono compensare il contratto a tutele crescenti? Questa è la domanda a cui deve rispondere Renzi svelando l’impianto della manovra.
La partita entra nel vivo nelle prossime ore, in attesa del rientro del premier. Ed è una partita tutta interna al Pd, visto che i bersaniani hanno respinto seccamente l’offerta di Beppe Grillo. «Non esiste, con loro nessun dialogo», taglia corto Fassina. Allora c’è solo il confronto con Renzi. Che fa sapere: «È impensabile che io mi tiri indietro sulla riforma del lavoro». I margini sono stretti, la maggioranza in direzione è abbondantemente renziana con in più l’aiuto dei giovani turchi. Lo spostamento sulla manovra però può dare fastidio. Come dimostrano le parole irritate di Orfini: «Ho ricevuto la mail. All’ordine del giorno c’è il Jobs Act più varie ed eventuali. In una sede politica si può parlare di tutto naturalmente. Spero solo che una corrente, per ragioni di corrente appunto, non strumentalizzi i lavoratori».
I giovani turchi stanno tentando una mediazione attraverso gli emendamenti presentati al Senato da Francesco Verducci. Che però non toccano la materia calda dell’articolo 18. A Palazzo Chigi sono convinti che, tra divisioni e forzature, i bersaniani «stiano facendo il gioco di Matteo». Senza dimenticare che l’ex sindaco ha ancora l’opzione del voto anticipato. Significherebbe la rivoluzione nei gruppi parlamentari, l’usci- ta di tanti eletti con la vecchia segreteria. Ma la Finanziaria va presentata a Bruxelles entro il 15 ottobre. Già mercoledì l’esecutivo dovrà depositare la nota di correzione al Def dove saranno certificati i dati negativi rispetto alle previsioni. Sulla legge di stabilità, dunque, la minaccia del voto anticipato non ha nessun effetto. E per fare giustizia, come dice Renzi, per dare diritti a tutti, servono le risorse.

Il Sole 25.9.14
Pd, i rischi di un divorzio
Sull'articolo 18 può succedere di tutto. C'è chi pensa che questo sia il terreno dello showdown decisivo tra Renzi e i suoi oppositori all'interno del Pd
Certo, la questione si presta allo scopo.
di Roberto D'Alimonte


La riforma del lavoro non è cosa astrusa come la riforma elettorale o quella costituzionale. È materia viva. Se c'è una questione su cui la minoranza del Pd potrebbe rompere è questa. Non si rompe sulle soglie dell'Italicum o sulla elezione diretta o meno dei futuri senatori. Cose incomprensibili ai più. L'articolo 18 è una questione identitaria. È questo che alza la posta in gioco per la sinistra del partito.
Ma non è affatto detto che comunque si arrivi a una scissione. Intanto, c'è da mettere in conto che per una parte degli attuali oppositori di Renzi l'unità del partito è un valore. Altri temono che una scissione porti a elezioni anticipate e, quindi, a un futuro politico incerto. Altri ancora – a ragione – si chiedono se di questi tempi ci sia uno spazio elettorale significativo per un partito di sinistra. E poi chi guiderebbe il nuovo partito? Dove è il leader capace di prendere voti di questi tempi? Insomma, una scissione è cosa complicata e rischiosa. Ma potrebbe succedere. Molto dipenderà da Renzi.
Anche le questioni identitarie si prestano a compromessi. E sulla riforma del lavoro se ne possono immaginare diversi sia all'interno dell'articolo 18 che tra l'articolo 18 e altri aspetti della riforma. Ma per arrivare a un compromesso occorre essere in due. Posto che la minoranza Pd sia disponibile, lo è Renzi? Un altro modo di porre la questione è chiedersi quale interesse potrebbe avere il premier a spingere fuori dal partito i suoi critici. Per ragionare su questo occorre fare un po' di conti.
È possibile che nonostante le defezioni il governo riesca a conservare la maggioranza alla Camera, ma è molto difficile che possa farlo al Senato. Se così fosse, una crisi di governo sarebbe inevitabile. Gli esiti potrebbero essere due: una diversa maggioranza o il voto anticipato. Ma una diversa maggioranza con chi? Con Berlusconi? È d difficile. Ma è complicato anche il ricorso al voto. Tanto per cominciare non si sa se si voterebbe con l'attuale sistema elettorale, quello della Consulta, o con l'Italicum che è in lavorazione. Più probabile che si voti con il primo che è – ricordiamolo – un proporzionale. E cosa potrebbe succedere? Il Pd da solo non può arrivare alla maggioranza assoluta dei seggi. Avrebbe bisogno di alleati. Il Ncd di Alfano però avrebbe un piccolo problema. Alla Camera la soglia di sbarramento per chi va da solo è al 4 per cento. Il Ncd potrebbe superarla e portare così un pacchetto di seggi al governo con il Pd. Ma al Senato la soglia è l'8 per cento. Solo per chi si allea diventa il 3 per cento. E con chi si allea Alfano per avere lo sconto? Con il Pd o con Forza Italia? Difficile che si possa alleare con Forza Italia e poi fare il governo con il Pd. Ma alleandosi con il Pd quanti voti prenderebbe? E in ogni caso basterebbero i suoi seggi a garantire a Renzi una maggioranza di governo?
È vero che in caso di elezioni anticipate l'offerta politica cambierebbe e quindi potrebbe venir fuori un esito oggi imprevedibile. Ma il punto è che un sistema elettorale proporzionale, pur con le soglie che ci sono, non può assicurare che dalle urne esca una maggioranza. Il governo si farebbe dopo il voto. Se il Pd fosse il partito di maggioranza relativa dovrebbe presumibilmente scegliere tra Grillo, sinistra e Berlusconi. Una prospettiva comunque complicata, anche se Renzi avrebbe il vantaggio di avere un gruppo parlamentare scelto da lui.
Il quadro non cambierebbe molto nemmeno se l'Italicum venisse approvato definitivamente prima di andare alle urne. Infatti, il nuovo sistema elettorale vale per la Camera ma non per il Senato. Il Senato attuale dovrebbe essere superato. Ma è del tutto improbabile che la riforma arrivi in porto prima di un eventuale voto anticipato. Quindi si voterebbe per la Camera con l'Italicum e per il Senato con il Consultellum. Un pasticcio. La differenza con lo scenario precedente è che in questo caso il Pd avrebbe la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, ma l'esito al Senato sarebbe comunque legato alle incognite che abbiamo descritto in precedenza.
Fatti i conti, il divorzio tra Renzi e i suoi oppositori interni non conviene né all'uno né agli altri. Ma in politica i conti fatti a tavolino, o sulle pagine dei giornali, non sempre colgono nel segno. Il caso ha sempre un suo peso. E così le passioni. Alla fine il gioco potrebbe scappare di mano. Per il paese sarebbe un salto nel buio.

Corriere 25.9.14
Articolo 18, l’offerta di Camusso
«Pronti a trattare sul numero di anni senza copertura»
Grillo cerca l’asse con la sinistra pd
di Alessandro Trocino


ROMA Nel giorno in cui Beppe Grillo attacca il capo dello Stato e lusinga la minoranza del Pd, arriva l’apertura della segretaria della Cgil, Susanna Camusso. Che a «Porta a Porta» prima mette un punto fermo: «Cancellare l’articolo vorrebbe dire rendere più servile il mondo del lavoro». Poi apre uno spiraglio sulla trattativa: «Se si parla di allungare il periodo di prova, sono per discutere dei tempi. Capisco che ci sia una stagione in cui l’articolo 18 non vale ma è necessario che sia transitoria. Tre anni non sono la stessa cosa di sette».
L’aula del Senato ha avviato l’esame del provvedimento sul lavoro. Dopo il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità inizierà la discussione generale che si protrarrà per tutta la settimana, mentre l’inizio delle votazioni sugli emendamenti è previsto per la prossima settimana, dopo la direzione del Pd di lunedì prossimo. Sul tavolo, le modifiche al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che potrebbero portare al superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La Camusso vuole trattare ma soprattutto discutere prima dell’approvazione del Jobs act: «È una delega e quindi c’è tempo per la discussione. Noi vorremmo parlare con il governo. Nel caso in cui invece l’esecutivo volesse restringere i tempi, allora non siamo noi che vogliamo lo scontro, ma sono loro che ci costringono allo scontro». Sul tema interviene anche Pier Luigi Bersani, che chiede a Matteo Renzi di «rafforzare il gioco di squadra». E soprattutto propone di discutere «insieme» legge di Stabilità e Jobs act».
Intanto Grillo scende in campo contro il Jobs act e prova a sparigliare le carte. Ottenendo però solo no dall’opposizione democratica, che respinge quello che considera un abbraccio mortale. Sul blog, ieri è comparso un post di Aldo Giannuli, docente di Storia contemporanea molto vicino al Movimento, che incita l’opposizione democratica a ribellarsi (post subito ritwittato e quindi «vidimato» da Grillo): «Renzi sta riuscendo dove non sono riusciti Monti e Berlusconi, sta trattando la Cgil come uno straccio per la polvere: compagni del Pd cosa aspettate ad occupare le sedi e far sentire la vostra voce? O siete diventati tutti democristiani?». Giannuli aggiunge: «Lo scontro che si sta profilando impone che abbiamo tutti molta generosità, mettendo da parte recriminazioni pur giuste, per realizzare la massima efficacia: non ci attendiamo solo il ritiro di questa infame riforma, quanto l’occasione per mandare definitivamente a casa Renzi». Parole ambigue, che sembrano alludere alla possibilità di un’azione comune con la minoranza del Pd. Anche se la deputata a 5 Stelle Giulia De Vita non è d’accordo e lo esprime con parole sue: «Scambiare il post del blog per un appello di Grillo ad un’alleanza con Bersani è disordine mentale, la stampa è fuori di testa».
I dissidenti pd replicano con nettezza. Rosy Bindi ragiona: «Noi non vogliamo affossare il governo. Noi vogliamo fare una buona legge sul lavoro». Niet anche da Gianni Cuperlo: «Non credo dobbiamo rispondere a stupide provocazioni. Far cadere Renzi sarebbe da irresponsabili». Lapidario Miguel Gotor: «Grillo è un piccolo Ayatollah e non sa cosa sia un partito».
Intanto il senatore Vito Crimi prova a bloccare il Jobs act chiedendo il parere preventivo del Cnel (che è in via di abolizione): «Lo prevede l’articolo 98 della Costituzione».

Repubblica 25.9.14
Contrordine Ocse il mercato del lavoro in Italia è meno rigido che in Germania
Superato l’errore di considerare il Tfr un indennizzo al licenziamento. E l’indice delle tutele ai lavoratori a tempo indeterminato è 2,51 da noi e 2,87 a Berlino
di Roberto Mania


ROMA Tutta colpa del Tfr. E di un errore dei ricercatori dell’Ocse. Perché la diffusa convinzione che il mercato del lavoro italiano sia più rigido tra quelli dei paesi più sviluppati nasce da lì. Dal fatto che all’inizio degli anni Novanta l’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico con sede a Parigi, considerò il Tfr, il trattamento di fine rapporto, istituto sconosciuto in tutti gli altri ordinamenti, come una sorta di indennizzo per il licenziamento. Cosa che invece non è. Il peso (e il costo) del Tfr condizionò però tutti i dati con il seguente, stranoto risultato: in Italia ci sono troppi vincoli al licenziamento; il mercato del lavoro è troppo rigido.
Poi, quasi dieci anni dopo, l’Ocse ritornò sui suoi passi, senza alcun clamore però, dopo che l’errore era stato denunciato dalla Banca d’Italia e anche da un giovane studioso del diritto del lavoro della Bocconi di Milano, Maurizio Del Conte. L’Ocse ricalcolò l’indice di rigidità del mercato del lavoro italiano. Per scoprire, fin da allora, che il livello di protezione, articolo 18 dello Statuto dei lavoratori compreso, non è affatto superiore a quello di molti nostri concorrenti. Non lo è di certo rispetto alla Germania, al cui modello ora tutti dicono di ispirarsi. Ma anche all’Olanda e alla Svezia. Mentre può fare poco testo il Portogallo che comunque ha maggiori rigidità di noi. «Il luogo comune, però, è rimasto. Noi continuiamo ad essere il paese dei luoghi comuni sul mercato del lavoro», commenta Emilio Reyneri, sociologo del lavoro all’Università di Milano Bicocca.
Torniamo all’Ocse, alle tabelle dell’organizzazione parigina. Nel 2013 l’Ocse assegna un indice 2,51 all’Italia relativamente alla protezione che viene accordata a un lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Protezione che riguarda soprattutto le tutele di fronte al licenziamento. Più l’indice è alto, più rigido è il mercato. Bene, la Germania ha un indice pari a 2,87, superiore al nostro. E superiori a quello italiano sono pure gli indici dell’Olanda (2,82), uno dei paesi della cosiddetta flexsecurity, e della Svezia (2,61), classico paese nordico dal welfare pesante. Ed è interessante osservare che tra il 2012 e il 2013 l’indice è rimasto invariato in Germania, Olanda e Svezia, mentre è calato proprio da noi (era stabile a 2,76 fin dal 1985) per effetto della legge Fornero sul lavoro che ha modificato non poco, e per la prima volta, la vecchia versione dell’articolo 18, lasciando la possibilità del reintegro automatico nel posto di lavoro solo nel caso di licenziamento discriminatorio e affidando al giudice l’eventualità di decidere il reintegro anziché l’indennizzo monetario nel caso di licenziamento motivato con ragioni economiche evidentemente fasulle.
Ma ad incrinarsi nelle tabelle dell’Ocse è anche un altro luogo comune: quello sulla scarsa flessibilità, rispetto agli altri paesi, dei nostri contratti per entrare nel mercato del lavoro. In particolare l’Ocse ha preso in considerazione i vincoli che un datore di lavoro si trova davanti quando intende ricorrere al contratto a tempo determinato. L’Italia — prima però dell’ultimo intervento legislativo del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ha liberalizzato i contratti a tempo, abolendo le causalità e consentendo tre proroghe in cinque anni — è (era, probabilmente) poco sopra la media Ocse: 2 contro 1,75. Ma ben più rigida è ancora la Francia (3,63), mentre la Germania si colloca esattamente un punto sotto l’Italia. La Norvegia è a 3 come la Spagna. Quella dell’Italia è stata una discesa ripida verso la flessibilità se si pensa che prima del pacchetto Treu (1997) il relativo indice Ocse era 4,75.
«Il problema cruciale è dunque un altro», spiega Reyneri. Ed è evidenziato anche questo in uno studio dell’Ocse del 2009 dove si analizzano i tempi di durata dei processi nelle cause di lavoro. In Italia durano in media circa 24 mesi, 12 mesi in più circa che in Francia o in Svezia. Sopra l’asticella dei 20 mesi siamo insieme a Slovacchia e Repubblica Ceca. In Germania durano intorno ai quattro mesi. In Italia si va in appello in più del 60 per cento dei casi, in Germania in meno del 5 per cento. E se fossero queste le vere anomalie italiane? E se fosse per queste ragioni che gli investimenti esteri arrivano con il contagocce in Italia e la colpa non fosse dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori?

Il Sole 25.9.14
Una sfida ancora lunga
La bandiera dell'art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull'altra sponda dell'Atlantico
Il premier Renzi l'ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti
di  Stefano Folli


Per gli americani la determinazione dell'ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L'articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di "marketing" volta a imporre all'estero l'immagine della "nuova Italia".
In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l'editoriale del direttore del "Corriere della Sera" ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un'altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d'oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell'arabesco che egli sta ricamando con l'opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull'articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po' è vero. A Roma c'è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.
Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i "conservatori" non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch'essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un'altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un'operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.
Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'"Italicum" in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c'è patto del Nazareno che tenga.
Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

La Stampa 25.9.14
Grillo flirta con la minoranza e in questo modo compatta il Pd
di Marcello Sorgi

Dal blog di Beppe Grillo arriva un insperato (e soprattutto non richiesto) aiuto alla minoranza del Pd in lotta contro la riforma del lavoro proposta da Renzi. Cosa aspettate - chiede il M5s - a rompere e ad allearvi con tutti quelli che in Parlamento si batteranno per non far passare l’abolizione dell’articolo 18? A suo modo Grillo (anche se il testo è ad opera di Aldo Giannuli, ideologo del movimento) si sforza di essere convincente. In un momento come questo tutti devono fare uno sforzo di generosità, abbandonare posizioni di parte e unirsi per sconfiggere il governo. In altre parole è la proposta di un ribaltone che dovrebbe portare Renzi in minoranza in Senato grazie a un’intesa tra tutte le opposizioni e i franchi tiratori presenti nei partiti della maggioranza.
Ma paradossalmente, l’effetto raggiunto dalla mossa di Grillo potrebbe essere opposto. In primo luogo perché riduce lo spazio di manovra di Bersani e della minoranza Pd, che hanno sempre detto che non si propongono di far cadere il governo, ma di trattare e ottenere ascolto su una versione più accettabile della riforma. Con Grillo in campo, e il numero dei franchi tiratori difficilmente valutabile, la “terza via” bersaniana diventa più stretta e rimane appesa alla pregiudiziale anti berlusconiana, che l’ex segretario del Pd ha spiegato martedì sera nell’intervista a Giovanni Floris: se avendo la possibilità di condurre il partito a una posizione unitaria, Renzi invece sceglie di non modificare per nulla le sue posizioni e di avvalersi dell’appoggio offertogli da Berlusconi, vuol dire che fa una scelta di campo e si allontana dalla linea sulla quale ha vinto il congresso ed è stato eletto segretario.
Sembra difficile che argomenti come questi possano far breccia sulla volontà del premier, il quale è sì disposto a esaminare la possibilità di aggiustamenti al testo della sua riforma, ma considera gli emendamenti della minoranza del Pd mirati in tutto e per tutto a vanificarla.
In questo quadro l’iniziativa del leader del Movimento 5 stelle s’inserisce più a svantaggio che non a favore dei dissidenti Democrat. Per Renzi infatti sarà gioco facile ribaltare il ragionamento e mettere i suoi oppositori di fronte all’alternativa: o con me o con Grillo. I margini per un eventuale negoziato interno al Pd si riducono perché l’alleanza con Grillo, anche per i termini in cui è proposta (il blog M5s attacca anche il Presidente della Repubblica Napolitano), diventa difficile da prendere in considerazione. Renzi in direzione potrà presentare l’eventuale soccorso azzurro di Berlusconi come uno stato di necessità: pur di approvare una riforma così urgente, insomma, non c’è da fare tanto gli schizzinosi.

«Non dovrebbe essere Vendola il leader di questa nuova fase, ma Landini, con Rodotà come padre nobile. I movimenti seguiranno»
La Stampa 25.9.14
Separati in casa nella lista Tsipras
Insieme solo contro le riforme di Renzi
Un direttorio pletorico e ancora nessuna decisione per le Regionali
di Giuseppe Salvaggiulo


Solo Renzi può salvare gli oppositori di Renzi. E a raccontarlo, in questi giorni, sono proprio gli oppositori di Renzi, almeno i più spiritosi e smaliziati. Lo spazio politico a sinistra del premier sembrava fino a pochi giorni fa un campo di Agramante, rissoso e inconcludente: minoranza Pd congelata, Sel depressa, Cgil divisa, movimenti spaesati, lista Tsipras morente in culla. L’accelerazione del governo sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non solo ha rianimato questo mondo magmatico, ma lo ha anche ridefinito, dandogli una ragione di esistenza e - forse - una prospettiva.
Iniziative che languivano nella più polverosa routine appaiono improvvisamente illuminate da coerenza, passione e visione. Almeno tre manifestazioni si annunciano nei prossimi due mesi: a organizzarle Sel, Fiom e lista Tsipras. Parte una legge di iniziativa popolare per cancellare il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio: a promuoverla, Sel; a presentarla, alla Camera, il giurista Stefano Rodotà e il segretario della Fiom, Maurizio Landini; a sostenerla, esponenti critici del Pd come Civati e Fassina. Si raccolgono le firme per il referendum promosso da un gruppo di economisti contro le politiche di austerity, c’è ancora una settimana prima del deposito in Cassazione e l’obiettivo è raggiungibile: decisivi i militanti di Sel e Cgil, ma anche nelle feste del Pd si sono dati molto da fare. Si riparla di «ricostruzione della sinistra», vagheggiando l’ennesimo nuovo contenitore in cui far confluire, oltre a tutte le anime perse, i dissidenti del Pd.
In realtà, un nuovo contenitore era appena stato creato: la lista Tsipras, sbocciata in primavera e appassita la sera del 25 maggio, dopo aver scavalcato per un soffio il quorum del 4 per cento alle elezioni europee. In quella lista erano confluiti Rifondazione, Sel (obtorto collo) e soprattutto centinaia di associazioni e movimenti.
Le liti non erano mancate già durante la campagna elettorale, ma dopo è accaduto di tutto. Barbara Spinelli ha cambiato idea, si è tenuta il seggio e ha così lasciato a casa Marco Furfaro, emergente di Sel. I movimenti hanno invano chiesto una gestione partecipata ai tre eurodeputati (oltre a Spinelli, il giornalista Curzio Maltese ed Eleonora Forenza di Rifondazione). Un gruppo di candidati indipendenti, molto votati e popolari tra i movimenti, ha presentato un documento duro, chiedendo una chiara e battagliera linea anti Pd. La prima assemblea di luglio ha partorito un comitato operativo di 221 persone, quanto di meno operativo si possa immaginare. La seconda ha nominato un comitato ristretto con sette commissioni che non hanno prodotto alcunché. La terza, sabato scorso, ha deciso di non decidere sul punto più delicato e controverso: che fare alle regionali? Una diaspora silenziosa ha fatto disamorare alcuni esponenti come il giurista Enzo Di Salvatore e l’ambientalista Domenico Finiguerra.
Dentro Sel, al di là delle clausole di stile, si considera l’esperienza della lista Tsipras esaurita. «Come una gita scolastica - sintetizza un dirigente -: quando si torna, al massimo resti amico con qualcuno delle altre classi». Ma anche il partito non se la passa bene. Dal punto di vista organizzativo, è ai minimi. E Vendola vive una stagione tormentata. Tanto in Puglia (dove sta per concludere un decennio di governo senza aver allevato un successore, tanto che alle primarie schiera il deputato Stefàno, poco più che un candidato di bandiera). La linea è ondivaga: né con Renzi (al quale si fa opposizione in Parlamento), né senza Renzi (con il quale si fanno alleanze alle regionali e alle amministrative).
Ora Renzi scompagina gli stagnanti equilibri. La lista Tsipras non viene rottamata, ma indirizzata su un binario morto. A bagnomaria, perché non si sa mai e potrebbe tornare utile in caso di emergenza elettorale con un Pd blindato. Ma Sel guarda altrove: ai dissidenti del Pd, al sindacato. Non dovrebbe essere Vendola il leader di questa nuova fase, ma Landini, con Rodotà come padre nobile. I movimenti seguiranno.

Corriere 25.9.14
Speranza: il reintegro deve restare
«Cancellerei dal nostro vocabolario la parola scissione, non esiste proprio».
I voti di FI? Uno scenario surreale
intervista di Monica Guerzoni


ROMA Scissione scongiurata?
«Cancellerei dal nostro vocabolario la parola scissione, non esiste proprio». Il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, è convinto che Renzi farà il miracolo: ricompattare il Pd accogliendo (almeno in parte) le proposte di modifica della minoranza. «Noi tutti siamo convinti che la riforma del mercato del lavoro sia importante e che il Paese ne abbia bisogno, ma questo non è il terreno su cui consumare uno scontro politico tra Renzi e anti-renziani o tra Pd e sindacato. Per me può e deve prevalere il merito».
Il merito è l’articolo 18: il governo vuole o no cancellare il reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa?
«Se stiamo al merito e utilizziamo anche quella cassetta degli attrezzi costituita dagli emendamenti di alcuni senatori del Pd, si può trovare una soluzione condivisa e costruire un documento unitario per la direzione».
Non è troppo ottimista? Per i renziani gli emendamenti della minoranza da lei guidata sono uno «strappo».
«Non deve prevalere il posizionamento e lo scontro politico. Io sono convinto che possiamo uscire più forti come Pd e con una riforma migliore. Sbaglia chi pensa che questa discussione è un referendum su Renzi, un redde rationem tra governo e sindacati o una conta fra renziani e non».
Non è una conta? Sulla carta al Senato il governo non ha i numeri e rischia di dover accettare i voti di Forza Italia.
«Sinceramente, trovo questa lettura surreale».
Surreale? Cesare Damiano dice che se la delega passa col soccorso azzurro ci sono solo due strade, le urne o le larghe intese con Berlusconi.
«Non avverrà. Sono convinto che Renzi userà le prossime ore per riunire il Pd e rafforzare la riforma».
Lei legge le parole del premier come un’apertura?
«Sì. Non voglio pensare a nessuna opzione B. Sono convinto che Renzi abbia tutta la forza per unire il partito e trovare una soluzione che superi le tensioni degli ultimi giorni».
Quale soluzione?
«L’Ocse dice che la residua rigidità del nostro mercato del lavoro è dovuta al periodo di prova troppo breve e all’indennizzo troppo alto, da subito, in caso di licenziamento illegittimo. Lavoriamo su questi due punti e troveremo le risposte».
Visto che per una parte del Pd l’articolo 18 è questione di vita o di morte, può essere ancora più chiaro?
«Si può costruire un modello in cui si allunga in modo considerevole il periodo di prova, da poche settimane a qualche mese, in cui si può licenziare senza reintegro né indennizzo».
E poi?
«Inizia un periodo in cui non c’è ancora il reintegro e c’è l’indennizzo, non alto, che crescerà col passare dei mesi. Dopo questo lungo periodo di tutele crescenti il reintegro deve rimanere. Chiarendo però i criteri che il giudice del lavoro utilizza per scegliere tra reintegro e indennizzo».
Se invece Renzi fa muro chiederete il referendum tra gli iscritti?
«Oggi non mi interessa parlare d’altro, questo è il momento di confrontarsi sul merito».
I renziani sospettano che Bersani e Bindi vogliano riprendersi il partito...
«Il modo peggiore di affrontare questa discussione è farlo con le lenti delle dietrologie».

Corriere 25.9.14
Il luogo del delitto
Di doppiezze è piena la storia della sinistra italiana
di Antonio Polito


Da molto tempo la sinistra italiana non contava così tanto. Dipende infatti dallo scontro che si sta consumando al suo interno, a metà tra uno psicodramma e un regolamento di conti, la credibilità del percorso di riforme promesso dall’Italia all’Europa. In una tragica coazione a ripetersi, è dunque tornata sul luogo del delitto: metaforicamente, perché l’articolo 18 la dilania da più di un decennio; ma anche letteralmente perché, è meglio non dimenticarlo, le ultime vittime delle Brigate Rosse sono stati due giuslavoristi di sinistra, ammazzati per aver osato discutere lo Statuto dei lavoratori.
Di questa lotta il Pd è l’arena. Forse anche perché ormai è l’unico partito, o il partito unico, rimasto sulla scena (gli altri fanno la figura delle correnti interne, con Berlusconi che si offre a Renzi e Grillo a Bersani). Come accadde nel New Labour di Blair, quando l’anacronistica «clausola 4» dello Statuto fu il pretesto per la resa dei conti tra il nuovo leader e la vecchia guardia; così ora un residuo del passato come l’«articolo 18» è diventato la prova del fuoco per Renzi.
In realtà il nostro mercato del lavoro è ingiusto, inefficiente, balcanizzato. È da quel dì che va riformato. Forse è perfino troppo tardi. Ha dunque ragione il premier a volerlo fare. Ed è davvero inimmaginabile che lo si possa fare lasciando in piedi l’articolo 18. Purtroppo però la discussione non è stata messa sui binari giusti, in ossequio alla moda del momento che preferisce l’annuncio all’esito. Intanto si litiga intorno a una delega di cui non si conosce ancora il contenuto. Non lo conosce neanche il ministro del Lavoro Poletti: interrogato in materia, ha risposto di chiedere a Renzi. Lo scambio diritti-ammortizzatori che dovrebbe risarcire i futuri occupati viene presentato con troppa superficialità: il ministro Madia assicurava ieri che «tutti avranno quello che avevano o di più». Siccome si tratta di molti soldi, è lecito sospettare che finisca come con il contratto degli statali, prima promesso e poi sparito. Né aiuta il fatto che lo stesso Renzi appena qualche mese fa, nella campagna per le primarie, abbia più volte affermato che dell’«articolo 18 non frega niente a nessuno», illudendo gli iscritti al Pd di poter evitare anche stavolta il problema, e privandosi così di un mandato chiaro.
Di doppiezze è piena la storia della sinistra italiana. Basti pensare a quegli esponenti della minoranza del Pd che nemmeno due anni fa hanno votato il pareggio di bilancio in Costituzione e ora si mobilitano per abrogarlo. Ma stavolta a Renzi non basta la prova di forza come ha fatto col Senato, magari con un voto di fiducia o addirittura con un soccorso azzurro. Stavolta deve vincere e convincere la sua parte, per non uscirne azzoppato. Come avrebbe detto Togliatti, uno che di doppiezza se ne intendeva, «hic Rhodus hic salta».

Corriere 25.9.14
Il premier prepara l’ultimo affondo
In direzione «Li fregherò tutti». Possibili concessioni solo dopo, al Senato. Stumpo: sapete come andrà a finire nella riunione del 29? Perderemo 15 a 85
di Maria Teresa Meli

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il Fatto 25.9.14
Presadiretta, dopo puntata su trasporti pubblici: sospesi dal servizio due autisti
Per “dichiarazioni inerenti il parco automezzi aziendale circolante e la relativa manutenzione delle vetture altamente lesive dell’immagine dell’azienda”

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il Fatto 25.9.14
Doppio cognome ai figli, la Camera dice sì. Libertà di scelta ai genitori
Alla nascita il figlio potrà avere il cognome del padre o della madre o i due cognomi

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Repubblica 25.9.14
Michela Marzano (Pd)
“Una rivoluzione finalmente le donne escono dall’invisibilità”
intervista di Caterina Pasolini


«È UNA rivoluzione, questa legge. Finalmente, dopo essere stati condannati, ci mettiamo alla pari con l’Europa. Facciamo quello che Spagna, Francia, Germania hanno messo in pratica da tempo». Michela Marzano, deputata del Pd è entusiasta.
Perché è una rivoluzione?
«In questo modo si tolgono finalmente le donne dall’invisibilità, si dà loro pari dignità, uguale valore alla loro storia familiare, alla loro memoria che nei secoli spariva nel cognome del marito. Annullate come non fossero mai esistite».
C’è chi dice che invece si distrugge la famiglia.
«Perché considerano famiglia quella racchiusa solo nel cognome paterno, perché così è stato sino ad ora. Non si tratta di distruggere ma, anzi, dare pari dignità alla storia maschile e femminile. E lasciare libertà di scelta ai genitori come tramandarle. È una possibilità che le coppie avranno, non un obbligo. E una volta deciso il cognome, uno o doppio che sia, sarà uguale per tutti i figli».
Quindi nessun caos?
«I contrari parlano di una Torre di Babele, di distruzione della memoria identitaria. Così non è. I figli bambini nati dopo questa legge si terranno il cognome ricevuto e chi è nato prima della sua approvazione potrà aggiungere il cognome materno velocemente senza lunghe attese come accade ora».
Deputati contrari?
«Esiste a volte un voto di genere, e sicuramente molti uomini anche in Parlamento hanno un forte problema all’idea di passare ai figli anche o solo il cognome della propria compagna. In questo caso, però, più che da colleghi maschi, c’era un’ostilità generica all’idea di dare ai genitori la possibilità di scegliere. Con esiti assurdi».
Comportamenti incomprensibili?
«L’onorevole Stefania Prestigiacomo, ex ministro delle Pari opportunità che ai suoi figli ha dato anche il suo cognome con le lunghissime pratiche attuali, ha votato contro la legge ».

Repubblica 25.9.14
Paola Binetti (Udc)
“Ma così sarà il caos è uno schiaffo alla famiglia”
intervista di Caterina Pasolini


«QUESTA legge non mi piace, porterà alla deregulation, al caos. Indebolirà i legami, il senso della famiglia e di appartenenza». L’onorevole Paola Binetti, dell’Unione di Centro, è delusa dall’approvazione del disegno di legge alla Camera».
Perché è contraria?
«Non mi piace l’individualismo esasperato, l’autodeterminazione selvaggia che stanno dietro a queste norme che porteranno ad una anagrafe liquida in cui tutti faranno quello che vorranno senza limiti».
Cosa intende per anagrafe liquida?
«Questa legge porterà fratelli ad avere cognomi diversi perché una volta arrivati alla maggiore età magari molti vorranno cambiare le scelte fatte dai genitori alla loro nascita. Identità in trasformazione, liquida appunto, a seconda dell’età».
Un cognome cambia i legami?
«Penso che con questo disegno di legge si indebolisca il senso di appartenenza al nucleo familiare, diventa meno riconoscibile la comune appartenenza».
Ma non è l’affetto che crea la famiglia?
«Certo, i legami si creano con l’amore, con la comune educazione, la condivisione dai principi, ma il cognome è e resta il simbolo esterno della nostra identità, delle nostre origini».
Contraria al cognome materno?
«No, assolutamente no. Io ero e sono favorevole al fatto che i bambini portino i cognomi dei due genitori, come in Spagna, è il giusto riconoscimento dell’importanza che ha la madre, ma vorrei una legge che codifichi esattamente come farlo. Prima il padre e poi la madre o l’incontrario, ma in modo stabilito, uguale per tutti. Così che si possa capire, ricostruire, avere chiari origini e rapporti. Altrimenti sarà il caos, non solo affettivo ma anche burocratico».
Il caos burocratico?
«Pensi solo a tutti i cambi di codice fiscale, dato alla nascita, quando uno deciderà di cambiare cognome, o le cartelle sanitarie... costi a cui nessuno ha pensato. Spero che il Senato apporti qualche modifica».

Corriere 25.9.14
Il presidente della Consulta Tesauro:

«Non si può limitare la libertà di avere dei figli, lo Stato garantisca l’eterologa»

«La libertà di autodeterminarsi per la formazione di una famiglia arricchendola con dei figli è una libertà che non si può limitare o annullare» afferma il presidente della Corte costituzionale, Giuseppe Tesauro. E aggiunge, a proposito di fecondazione eterologa: «Deve entrare nella normalità anche sotto il profilo dell’assistenza dello Stato. Una questione così delicata va sottratta agli aspetti economici e mercantili. Lo Stato si prenda questa responsabilità. Ma attenzione a non peggiorare la legge 40». La Consulta aveva dichiarato illegittimo il divieto di eterologa. Le Regioni si sono accordate su un ticket unico per le tecniche con donatore: 500 euro più le analisi. Protesta la Lombardia: «Per ora chiederemo la quota intera, circa 3.000 euro».

La Stampa
Eterologa, l’accordo tra Regioni
Un ticket unico da 600 euro entro gennaio
di Paolo Russo


Le regioni provano a mettere un freno al turismo sanitario sull’eterologa, anche se per un ticket unico nazionale bisognerà aspettare fine anno. Riuniti ieri a Roma in conclave gli assessori regionali alla sanità almeno su un punto hanno trovato l’accordo: chi deciderà di rivolgersi a un centro di procreazione assistita fuori della propria regione pagherà il ticket che gli sarebbe stato chiesto restando a casa propria. La differenza ce la metterà la sua regione di appartenenza in base a un tariffario fissato ieri dai responsabili sanità delle regioni e che varia da 3.500 euro per la più semplice pratica intrauterina, 4mila per la fecondazione in vitro con donatore maschio e di 4.500 euro per le più complesse pratiche di fecondazione, sempre in vitro, ma con donatrice donna. Tariffe che non interessano però le coppie, che dovranno buttare l’occhio solo sui ticket di casa propria. Ovviamente questo nelle nove regioni che hanno deciso di passare dalle parole ai fatti autorizzando i propri centri a praticare l’eterologa. Gratuitamente, come hanno fatto Umbria ed Emilia Romagna, con ticket proporzionati al reddito, vedi Marche, Friuli e Liguria o con ticket fissi come in Lazio, Toscana, Piemonte e Veneto, dove però si passa dai soli 36 euro dei centri veneti ai 1.800 richiesti alle coppie laziali. Che con l’accordo di ieri non avranno più alcun interesse economico ad emigrare altrove per veder realizzato il sogno di un bebè.
Fuori dall’accordo resta la Lombardia, che ha deciso di scaricare l’intero costo dell’eterologa sui futuri genitori. «Per gli assistiti delle altre regioni - ha chiarito il coordinatore degli assessori, il veneto Luca Coletto - il costo dipenderà dal ticket fissato in ciascuna regione per ogni singola prestazione necessaria, dall’ecografia all’inseminazione in vitro vera e propria», ma con una spesa intorno ai 5-600 euro. Regioni in piano di rientro escluse dove, come nel Lazio, i ticket saranno «super». «Ma a fine anno –assicura Coletto- chiederemo di inserire nei nuovi livelli essenziali di assistenza un ticket unico nazionale». Spetterà ai governatori imprimere oggi il suggello all’intesa raggiunta ieri.
Nel frattempo in Parlamento qualcosa si muove. La presidente della commissione sanità al Senato, Emilia Grazia De Biasi (Pd) ha presentato una proposta di 20 articoli che fissa un limite di 50 anni per la donna, garantisce l’eterologa a qualsiasi tipo di coppia ma dice stop alla selezione eugenetica.

Corriere 25.9.14
Fecondazione eterologa, la tecnoscienza non sostituisca l’etica
di Giovanni Belardelli


«Non ci sono donatori»: questo è l’allarme lanciato nei giorni scorsi dalla responsabile del centro di fisiopatologia della riproduzione dell’ospedale San Martino di Genova, Paola Anserini. Lo stesso problema viene segnalato anche altrove, dopo che varie Regioni hanno attivato le procedure per la fecondazione eterologa in seguito alla sentenza della Consulta dello scorso aprile. Ad essere problematica è soprattutto la donazione femminile, a causa dell’iter attraverso il quale deve passare la donatrice: «È necessaria — chiarisce la dottoressa Anserini, intervistata dal Secolo XIX — una stimolazione ormonale che si ottiene con due iniezioni sottocutanee al giorno per dodici giorni. Deve venire in reparto almeno cinque volte per fare un’ecografia, oltre a un prelievo del sangue. Quando è il momento giusto viene sottoposta al prelievo di ovociti, con una breve anestesia generale e quindi un ricovero in day hospital di almeno una mezza giornata». Perché una donna dovrebbe sottoporsi a una trafila del genere, non priva di possibili conseguenze negative per la sua salute, con la sola motivazione di fare un «regalo» a un’altra donna? Proporre come soluzione, come qualcuno fa, lo «sviluppo di una cultura della donazione» vuol dire poco, visto che la carenza di donatrici rivela appunto come in genere non di un dono veramente si tratti. Tanto che, in Paesi come la Spagna, «a donare sono di solito studentesse universitarie dietro compenso, stabilito per legge», come ha dichiarato il responsabile per la procreazione assistita del Policlinico di Milano, Edgardo Somigliana (Corriere del 16 settembre).
Come è a tutti noto, il dono è una modalità di relazione sociale che — nel caso di un regalo di compleanno come dell’impegno in un’associazione di volontariato — in tanto può esistere in quanto è basata sulla gratuità. Ma questo, appunto, di rado può verificarsi nel caso della donazione femminile, dove la possibilità per una donna di procreare si realizza attraverso il prelievo di ovociti da un’altra donna, indotta presumibilmente a questo, tranne casi particolari (come la donazione da parte di una sorella), dal fatto di trovarsi in una condizione di bisogno economico. Il termine donazione, allora, è un espediente lessicale che utilizziamo per sfuggire alla contraddizione che, nell’uso di un gamete femminile estraneo alla coppia (per gli uomini, come è ovvio, le cose sono diverse), si produce tra due principi fondamentali della nostra cultura: da una parte la libertà individuale di chi cerca di avere un figlio, dall’altra il divieto di sfruttare un altro essere umano. Quest’ultimo non è altro che il divieto contenuto nell’imperativo kantiano «agisci in modo di trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine mai come mezzo».
Peraltro quello di cui si è appena detto non è l’unico problema che si trovano di fronte i centri che si avviano a praticare la fecondazione eterologa. Nelle loro linee guida le Regioni hanno sostenuto che «il nato non potrà conoscere l’identità del donatore». Ma la disposizione, non priva di ragioni pratiche (senza l’anonimato sarà più difficile trovare donatori), contraddice il diritto del concepito a conoscere l’identità del genitore biologico, una volta raggiunta una certa età. Non a caso in altri Paesi quel divieto non esiste o — come in Gran Bretagna nel 2005 — è stato abolito (e alcuni esponenti del Pd hanno già presentato una proposta di legge in tal senso).
La difficoltà di avere donatori e la questione dell’anonimato segnalano il fatto che la fecondazione eterologa è qualcosa di sostanzialmente diverso, e non soltanto una variante «tecnicamente differente», rispetto alla fecondazione omologa. Ma di tutto questo poco si parla, anche per la difficoltà a sviluppare una discussione che superi le tradizionali divisioni tra destra e sinistra e tra laici e cattolici. Una discussione che sia in grado di affrontare anzitutto la questione fondamentale di fronte alla quale la fecondazione eterologa ci pone: tutto ciò che è tecnicamente possibile deve anche essere fatto? Dobbiamo lasciare che sia la tecnoscienza e non più l’etica a dirci ciò che è lecito e ciò che non lo è? Proprio il grande sviluppo, presente e futuro, delle biotecnologie è destinato a rendere questi interrogativi sempre più rilevanti e ineludibili.

Corriere 25.9.14
La piovra islamista nel Mediterraneo
di Franco Venturini


Stesso orrore, stessa macabra scenografia da trasmettere con le tecnologie del mondo globalizzato. Ma qualcosa di nuovo c’è, ed è proprio questo che non deve sfuggirci. L’assassinio mediatico di Hervé Gourdel non ha avuto luogo in Iraq, bensì in Algeria, sulla riva meridionale del «nostro» Mediterraneo.
Risulta atrocemente scontata la risposta di sangue che il fanatismo islamista ha dato ieri ai bombardamenti che aerei francesi hanno condotto in Iraq a fianco di quelli americani. L’escursionista Hervé Gourdel è stato decapitato come lo sono stati prima di lui due giornalisti statunitensi e un volontario britannico. Stesso orrore, stessa macabra scenografia da trasmettere con le tecnologie del mondo globalizzato. Ma qualcosa di nuovo c’è, ed è proprio questo che non deve sfuggirci. L’assassinio mediatico non ha avuto luogo in Iraq, bensì in Algeria, sulla riva meridionale del «nostro» Mediterraneo. E a lordarsi le mani di sangue non è stato un uomo di quell’Isis di cui abbiamo imparato a conoscere la ferocia, bensì l’affiliato di una semisconosciuta organizzazione alleata. In altri termini la morte di Hervé Gourdel dimostra a chi ancora ne dubitava che l’Isis dell’Iraq e della Siria è soltanto la testa di una piovra islamista che ha moltissimi tentacoli, anche vicini a noi. E dimostra altresì che non esistono vie di fuga, che non è possibile sottovalutare il fenomeno cullandosi in una falsa sicurezza.
Nessuno al mondo nega oggi che le forme deliranti di estremismo predicate e poste in pratica dall’Isis rappresentino la più grave minaccia esistente contro gli equilibri internazionali e gli sforzi (spesso inutili) volti a contenere le crisi regionali. I sunniti ultraradicali dell’Isis non si limitano a uccidere e a martirizzare le minoranze religiose a cominciare da quella cristiana. La creazione di un loro «Califfato» a cavallo tra Iraq e Siria può preludere alla fine delle frontiere uscite dalla Prima guerra mondiale, alla disgregazione sia dell’Iraq che della Siria, alla nascita di un Kurdistan iracheno indipendente che innescherebbe altre reazioni, a una totale perdita di controllo nella lotta interislamica tra sunniti e sciiti, alla proliferazione nucleare se l’Iran nelle nuove condizioni si dotasse dell’arma atomica. Ma non è tutto. L’Isis vuole colpire con il terrorismo l’America e l’Europa, oltre a Israele. Tremila europei hanno raggiunto i suoi ranghi con in tasca passaporti della Ue, e possono tornare addestrati a compiere attentati. E ora, sulla pelle di Hervé Gourdel, abbiamo anche la prova che di Isis ce ne sono tanti, forse anche a due passi da casa nostra (in Libia, per esempio).
Se il termine minaccia ha un senso, l’Isis lo riassume alla perfezione. E davanti alle minacce si possono fare due cose: cedere sperando di salvarsi, o reagire per vincere la sfida. Siamo della seconda scuola, quando la minaccia è indubbiamente autentica. Anche il pacifismo a zigzag di Barack Obama ha dovuto arrendersi all’evidenza di un clear and present danger e premere il grilletto. Nella coalizione araba che ha affiancato gli Usa attaccando l’Isis nelle sue retrovie in Siria si sono visti sunniti che sparavano su sunniti, Assad che si accontentava di essere stato informato in anticipo, l’Iran sciita che dialogava con l’America e aiutava ad ammorbidire Damasco. Non sono questi segni di una estrema gravità e urgenza, a prescindere dalle colpe di ognuno, anche recenti?
Quanto agli europei, dei francesi abbiamo detto e dobbiamo loro solidarietà. Gli inglesi ci stanno pensando su, e alla fine faranno come i francesi. L’Olanda medita di schierare sei F-16, come il Belgio. La Germania è impegnata sul piano umanitario, ma forse farà di più. L’Italia ha offerto addestratori e un aereo da rifornimento in volo. Di altri poco si sa. E poi (sia chiaro che la Mogherini non c’entra, e peraltro non è ancora in carica) si discute di politica estera e di sicurezza comune. Pur notoriamente spaccata, l’Europa adotta all’unanimità le sanzioni antirusse energicamente «consigliate» dall’America. Ma quando l’America scende in campo, e lo fa contro la più indiscutibile e riconosciuta minaccia globale del mondo odierno, allora l’Europa esita, pensa, non sa se mettere o non mettere il piede nell’acqua. Beninteso si tratta di decisioni nazionali, visto che una politica estera comune non esiste e non può esistere senza un balzo in avanti integrazionista. Ma questo sottolinea, semmai, un imbarazzo transatlantico e intereuropeo destinato a crescere.
Nessuno ha la certezza di poter battere l’Isis e i suoi imitatori. Anzi, una campagna aerea senza «stivali sulla sabbia» oltre a durare anni potrebbe non raggiungere l’obbiettivo di battere o almeno di contenere i discepoli di al Baghdadi. La guerra, come ha detto Obama, si annuncia difficile e molto lunga. Ed è vero che non dobbiamo e non possiamo dimenticare i nostri ostaggi e il pericolo che essi corrono. Ma se nessuno pensa di mettere stivali sulla sabbia, evitiamo almeno di mettere la testa sotto la sabbia.

Repubblica 25.9.14
Il terrorismo erede del Fis e la nuova minaccia sempre più vicina a noi
di Bernardo Valli


“Non nel mio nome”
Sta diventando virale su Twitter la campagna #Notinmyname dei giovani musulmani che si schierano contro l’Is denunciando come le efferatezze compiute dai seguaci di al Baghdadi non rappresentino tutto il mondo islamico.

PARIGI IL TERRORE ha compiuto un grande balzo. Non è più soltanto nella valle del Tigri e dell’Eufrate. Si è avvicinato all’Europa. L’avvertimento inquietante arriva dall’altra sponda del Mediterraneo, dall’Algeria, dove Hervé Pierre Gourdel, un alpinista francese di 55 anni, sequestrato mentre viaggiava tra gli altipiani della Cabilia, è stato decapitato. E per provare che gli è stata mozzata la testa sul serio, come è ormai loro abitudine, gli assassini hanno mostrato il video dell’esecuzione. La micidiale patologia islamista si è manifestata ancora una volta e ci ha fatto sapere che ha la capacità di scatenarsi anche lontano dalla guerra in corso nel Levante. Può colpire, e abbandonarsi a un macabro esibizionismo, anche vicino a noi, e forse domani anche tra di noi. Pur evitando le vampate di allarmismo, il nuovo omicidio accende qualche fantasma.
Prima gli americani James Foley e Steven Sotlof, poi il britannico David Hines e adesso il francese Hervé Pierre Gourdel sono stati sgozzati perché nonostante le intimazioni dello Stato islamico non sono cessati i bombardamenti sui luoghi controllati dal califfato terrorista in Siria e in Iraq. Alle bombe sganciate sulle zone di guerra i jihadisti rispondono tagliando le teste degli ostaggi. E invitano ad attaccare gli americani, i francesi, gli occidentali in generale con tutti i mezzi e in qualsiasi luogo.
La decapitazione del pacifico viaggiatore nizzardo, che ha pagato con la vita l’amore per la montagna, fa pensare che quelle minacce lanciate da lontane province possono concretizzarsi a due passi da noi. Non perché lo Stato islamico abbia il braccio tanto lungo da poter agire a migliaia di chilometri di distanza, ma perché l’azione dei gruppi terroristi stimola l’emulazione. Il califfato, con « capitale » a Raqqa, nel Nord della Siria, ha militanti provenienti da tanti angoli del mondo, Europa compresa, e quindi dispone di uomini che possono agire al rientro nei paesi di residenza. Questo è un pericolo reale di cui tutte le forze di sicurezza occidentali sono consapevoli.
Il terrorismo islamista è cosmopolita. Se il denominatore comune è l’adesione all’estremismo jihadista, tante nazionalità si mischiano nei movimenti islamisti dediti al terrorismo. Le origini dello Stato islamico risalgono alla ribellione provocata dall’invasione americana del 2003, quando al disperso esercito di Saddam Hussein si unirono via via i veterani delle guerre afgane, prima contro i sovietici e poi contro gli americani. Tra di loro c’erano egiziani, libici, algerini, sauditi, yemeniti. Aderenti al fondamentalismo sunnita e sensibili al mito di Al Qaeda. Quelle sono le radici dello Stato islamico formatosi più tardi per iniziativa di un chierico iracheno che si fa chiamare Abu Bakr al Baghdadi, e sulla cui testa gli americani hanno messo una taglia di dieci milioni di dollari. Al Baghdadi ha preso l’abitudine di tagliare le teste degli ostaggi dal giordano Zarqawi, suo capo e maestro, ucciso durante un’incursione aerea americana nel 2006.
Un tempo chiamati “afgani” i veterani jihadisti si sono dispersi nel mondo, dall’Iraq al Sinai egiziano, dalla Libia di Ghed- dafi al Mali, dallo Yemen alla Siria. La guerra civile in Algeria, scoppiata all’inizio degli anni Novanta, in seguito alla vittoria elettorale del FIS (Fronte islamico della salvezza) annullata dall’esercito, ha lasciato tanti gruppi estremisti dediti a un terrorismo cronico. Uno di questi, Jund al-Khilafa, ha rapito e decapitato Hervé Pierre Gourdel, ubbidendo ai sinistri insegnamenti dello Stato islamico. Del quale dichiara di essere una componente, un’appendice, non tanto perché parte della sua organizzazione ma per emulazione. Jund al— Khilafa si ispira insomma al califfato di al Baghdadi. Quanti altri gruppi islamisti formatisi clandestinamente in vari continenti hanno la stessa vocazione ? Una volta Al Qaeda era l’esempio da seguire, oggi è lo Stato islamico.
I jihadisti di Jund al—Khilafa sono annidati nelle montagne della Cabilia e l’alpinista francese è finito nella loro trappola micidiale. La realizzazione e la trasmissione dei video, prima per lanciare l’ultimatum a Parigi poi per esibire la decapitazione, rivelano che quel gruppo clandestino dispone di non poche complicità. Ed anche di buoni nascondigli poiché è sfuggito ai più di mille uomini dell’esercito algerino che gli davano la caccia.
Come Barack Obama quando furono uccisi i cittadini americani, cosi François Hollande ha detto con fermezza ieri che la Francia continuerà a partecipare alle operazioni aeree in Iraq. Non cederà ai ricatti. Nel frattempo a Parigi sono arrivati i messaggi di solidarietà dei paesi arabi impegnati più o meno direttamente nel conflitto contro lo Stato islamico. Questa solidarietà pesa più dei discorsi occidentali. È essenziale nella lotta al terrorismo. Senza il contributo dei governi musulmani, delle loro forze armate e dei loro servizi di sicurezza, l’azione degli americani e degli europei rischia di dare scarsi risultati. E quel contributo è apparso piuttosto sofferto in questi giorni, mentre la guerra si estendeva alla Siria. Anche le capitali che hanno partecipato alle incursioni aeree, dunque le più zelanti, hanno diffuso dichiarazioni lapidarie nel darne notizia. Alcuni si sono addirittura ben guardati dall’annunciare il loro impegno militare. Quasi non volessero suscitare reazioni negative nella popolazione. Insomma la grande alleanza contro il terrorismo creata da Barack Obama è apparsa piuttosto di circostanza.

Repubblica 25.9.14
La coscienza degli arabi
di Thomas L. Friedman


NEL cuore della campagna del presidente Barack Obama contro lo Stato Islamico si annida una tensione. Ed essa spiega perché gli risulti così difficile formulare e concretizzare la sua strategia. In termini semplici, si tratta della tensione tra due obbiettivi cruciali.
IL primo è promuovere l’«esame di coscienza » che l’affermarsi dello Stato Islamico ha innescato nel mondo arabo- musulmano, l’altro è procedere all’«individuazione» e all’«annientamento » del gruppo estremista nelle sue roccaforti in Siria e in Iraq.
Sarà meglio abituarsi all’idea, perché questa tensione non sparirà dalla sera alla mattina. Obama dovrà sapersi barcamenare in mezzo a essa. Una buona notizia c’è: l’ascesa dello Stato Islamico, ha dato il via a un processo di riflessione, un «esame di coscienza» — da tempo atteso e atrocemente schietto — da parte di arabi e musulmani su come abbia potuto emergere in mezzo a loro un culto sunnita della morte di così vasta portata e così violento. Del resto, è sufficiente pensare a pochi esempi, a cominciare dall’articolo intitolato “I barbari a casa nostra” scritto da Hisham Melhem, direttore a Washington di Al-Arabiya, il canale satellitare arabo, e pubblicato su “Politico” la settimana scorsa.
«Con la sua decisione di fare ricorso alla forza contro gli estremisti violenti dello Stato Islamico, il presidente Obama […] mette ancora una volta piede — con comprensibile enorme riluttanza — nel caos di un’intera civiltà al collasso. La civiltà araba, così come la conoscevamo, è pressoché scomparsa. Il mondo arabo oggi è violento, instabile, frammentario e spinto dall’estremismo — l’estremismo di chi comanda e di chi è all’opposizione — , molto più che in qualsiasi altro periodo da cent’anni a questa parte, quando crollò l’Impero ottomano».
«Tutte le speranze della storia araba moderna sono andate tradite», ha aggiunto Melhem. «La promessa del conferimento di poteri politici, le conquiste della politica, il ripristino della dignità umana sbandierata dalla stagione delle Primavere arabe nei primi tempi… Ogni cosa ha lasciato il posto a guerre civili, a lacerazioni etniche, settarie e regionali, alla riaffermazione dell’assolutismo, sia nella sua forma militare sia in quella atavica… I jihadisti dello Stato Islamico, in altre parole, non sono spuntati fuori dal nulla. Si sono arrampicati su un guscio vuoto marcescente — tutto ciò che restava di una civiltà collassata».
L’analista saudita progressista Turki al-Hamad ha risposto sul quotidiano “Al-Arab” che ha sede a Londra all’invito a contrastare l’ideologia dello Stato Islamico formulato dal re Abdullah ai leader religiosi sauditi. «Come possono farlo?», si è chiesto al-Hamad. «Abbracciano tutti la medesima ideologia sunnita wahabita anti-pluralistica e puritana che l’Arabia Saudita ha diffuso, in patria e all’estero, nelle moschee che hanno incoraggiato lo Stato Islamico».
«Sono incapaci di affrontare i gruppi che praticano la violenza, l’estremismo, le decapitazioni, e non perché siano svogliati o procrastinatori, ma perché condividono tutti quella medesima ideologia », ha scritto al-Hamad. «Come potrebbero dunque contrastare una dottrina che loro stessi condividono e che rientra nel loro modo di pensare?».
In un intervento pubblicato in agosto sul sito libanese “Now”, lo scrittore sciita libanese Hanin Ghaddar ha scritto: «Per combattere lo Stato Islamico e altri gruppi radicali, per scongiurare l’ascesa di nuovi despoti assolutistici, dobbiamo assumerci la responsabilità dei fallimenti collettivi che hanno generato questi atroci tiranni e i fanatici. Responsabili dei mostri che abbiamo contribuito a generare sono i nostri media, i nostri sistemi della pubblica istruzione…Dobbiamo insegnare ai nostri figli come imparare dai nostri stessi errori, e non come padroneggiare l’arte del diniego. Quando i nostri educatori e i nostri giornalisti inizieranno a comprendere il significato dei diritti dell’individuo, e ammetteranno che abbiamo fallito, che non siamo cittadini, allora potremo iniziare a sperare nella libertà, anche se la si raggiungerà lentamente».
Promuovere e incoraggiare questo esame di coscienza è una componente essenziale — e intelligente — della strategia di Obama. Decidendo di impegnare l’America esclusivamente in una campagna di bombardamenti aerei contro gli obbiettivi dello Stato Islamico in Siria e in Iraq, Obama di fatto ha dichiarato che la guerra sul terreno dovrà essere combattuta dagli arabi e dai musulmani, non solo perché questa è la loro guerra e dovrebbero essere loro a sostenere l’impatto più grave delle perdite, ma anche perché l’atto stesso di organizzarsi tra di loro, tra sciiti, sunniti e curdi, e superare le loro debilitanti divergenze politiche e settarie — fattore indispensabile per sconfiggere lo Stato Islamico sul terreno — è l’ingrediente necessario per la creazione di un qualsiasi tipo di governo dignitoso, frutto di consenso, che sarebbe in grado di sostituire lo Stato Islamico in modo auto-sostenibile.
La tensione nasce dal fatto che lo Stato Islamico è una macchina omicida, e ne occorrerà un’altra per cercare di snidarla e annientarla sul terreno. È impossibile che i siriani “moderati” che stiamo addestrando riescano da soli a combattere il gruppo militante e contemporaneamente il regime siriano. Anche l’Iraq e la Turchia, anche i vicini stati arabi dovranno schierare i loro combattenti.
Dopo tutto, questa è una guerra civile che si combatte sia per il futuro dell’Islam sunnita, sia per quello del mondo arabo. Certo, noi possiamo scalfire e svilire lo Stato Islamico bombardandolo dall’alto — e sono contento che in Siria abbiamo colpito questi psicopatici — , ma soltanto gli arabi e i turchi potranno annientare lo Stato Islamico sul terreno. In questo stesso momento il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan sta incoraggiando il despotismo, le intimidazioni alla stampa, il capitalismo clientelare e il tacito sostegno agli islamisti, incluso lo Stato Islamico. Non ci autorizza neppure a utilizzare la nostra base in Turchia per colpire lo Stato Islamico dall’alto. Che cosa ha in mente? Che cosa hanno in mente i regimi arabi che sono pronti a unirsi a noi nel bombardare dal cielo gli estremisti in Siria, ma escludono di fare intervenire le loro truppe di terra? Questa è una civiltà al collasso e, a meno che essa non si decida ad affrontare direttamente le patologie che hanno dato vita al mostro dello Stato Islamico, qualsiasi vittoria riusciremo a conseguire, dal cielo o sul terreno, sarà solo momentanea.
( Traduzione di Anna Bissanti) © 2-014 New York Times News Service

Repubblica 25.9.14
Tawakkol Karman, premio Nobel per la Pace
“Attenti, i raid non sono la soluzione”
intervista di Francesca Caferri


HA LA voce rotta dal pianto, Tawakkol Karman. La guerra che infiamma il Medio Oriente qualche giorno fa ha fatto irruzione anche nella sua casa: le milizie sciite di Ansar Allah, sostenute dall’Iran e dai fedelissimi dell’ex presidente Saleh sono entrate nella sua abitazione e minacciato i suoi figli e lei, premio Nobel per la Pace, voce simbolo delle Primavere arabe. «Non sono triste per me, è vedere lo stato yemenita vicino al collasso che mi ferisce: i ragazzi che si sono battuti per la democrazia uccisi nelle strade, quello che sta succedendo in Siria e in Iraq. E di fronte a tutto questo la cecità dell’Occidente. Ai vostri governi dico: attenti, tutto questo si ripercuoterà contro di voi».
Signora Karman, come giudica i bombardamenti contro l’Is?
«Per due anni Assad è stato lasciato libero di uccidere, nessuno ha aiutato la gente che chiedeva democrazia. Hanno lasciato fare lui, come Al Sisi, come altri emiri autoritari. Non c’è da stupirsi poi se nello Yemen gli Houthi hanno pensato di poter uccidere civili nelle vie di Sana’a: avevano capito che nessuno sarebbe intervenuto. È da questo vuoto che nasce l’Is, dalle promesse che l’Occidente non ha mantenuto. Pensare di risolvere ora questa situazione con i bombardamenti è sbagliato: mosse come questa non mettono a rischio solo il Medio Oriente ma gli equilibri del mondo. Le decapitazioni e le nuove minacce terroristiche lo dimostrano».
Può spiegarci cosa sta accadendo in Yemen?
«Gli Houthi, che sono sciiti e alleati dell’Iran, si sono schierati a fianco dell’uomo che per anni li ha oppressi, l’ex presidente Saleh. Insieme hanno dato l’assalto a Sana’a e al governo. Ora controllano la capitale, hanno neutralizzato l’esercito, ucciso centinaia di persone. È il momento più difficile della nostra storia».
Saleh è stato a lungo accusato di favorire l’ascesa dell’estremismo sunnita: perché ora si allea con gli sciiti?
«Saleh vuole vendetta perché è stato cacciato: non gli importa come la otterrà. Per anni ha favorito la crescita di Al Qaeda, in modo da presentarsi agli occhi dell’Occidente come un baluardo nella lotta globale al terrorismo. Oggi fa il contrario e la responsabilità è anche vostra».
Cosa intende?
«Ho girato il mondo chiedendo di non concedere immunità a Saleh. Non sono stata ascoltata. Gli Usa e l’Europa hanno promesso sostegno al nuovo Yemen ma nei fatti ci hanno lasciati soli, anzi ci hanno messi nelle mani dell’Iran. Volevano l’Iran dalla loro parte contro l’Is e hanno sacrificato noi. Insomma, errori su errori: qui, come in Siria, come in Iraq».

Corriere 25.9.14
Il ritorno dell’homo sovieticus nella Russia postcomunista
di Luigi Ippolito


Un fiume di voci che riemerge come un fenomeno carsico dalle macerie, materiali e spirituali, della storia russa recente. È questo il libro di Svetlana Aleksievic Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani) . Dove il titolo originale, Vremija Second Hand , metà in russo e metà in inglese, dà subito l’idea dello scarto mentale e culturale tra il «prima» e il «dopo» rappresentato dalla fine dell’Urss.
Un libro che scorre come un romanzo, ma che in realtà è un trattato di antropologia culturale, il cui oggetto è una specie umana tutta particolare apparsa e (forse) dissoltasi nel corso del XX secolo: l’homo sovieticus , ossia il prodotto di settant’anni di laboratorio marxista-leninista. Una specie, come scrive l’autrice, inconfondibile, diversa da tutte le altre, con un suo vocabolario, una sua idea del bene e del male, i suoi eroi e i suoi martiri.
L’autrice stessa fa parte di questa umanità: nata in Ucraina da genitori bielorussi e ucraini, vissuta in Bielorussia, cronista delle tragedie del suo Paese, dalla guerra afghana al disastro di Cernobyl, fino all’opposizione al regime di Lukashenko e all’esilio in Europa (terminato tre anni fa col rientro a Minsk).
La Aleksievic registra le tracce della civiltà sovietica, ma non pone domande sul socialismo, bensì «sull’amore, la gelosia l’infanzia, la vecchiaia. Sulla musica, i balli, le pettinature… Sui mille e mille dettagli di una vita che non c’è più». E attraverso una miriade di testimonianze, registrate in presa diretta, l’autrice racconta come questo homo sovieticus abbia reagito di fronte alla libertà inaspettata di cui si è trovato a godere, o a poter approfittare. Cita Dostoevskij, il Grande Inquisitore, il peso insostenibile della scelta: «Ci sembrava che la scelta fosse stata fatta, che il comunismo avesse definitivamente perso. E invece era soltanto l’inizio…».
Chi ha avuto la fortuna di assistere da vicino a quegli eventi, al tumulto della Russia negli anni Novanta, dalla caduta di Gorbaciov all’erratico regno di Eltsin, sa che si è trattato di un’epoca irripetibile. La fine della censura, la liberazione dalle pastoie burocratiche, l’arricchimento vertiginoso, la sensazione che il futuro stesse dietro l’angolo e che tutto fosse a portata di mano. Un’ubriacatura, un disorientamento che scorrono nelle pagine della Aleksievic attraverso mille ricordi e dettagli personali, declinati attraverso interminabili conversazioni in cucina attorno a una tazza di tè.
Ma l’autrice fa in tempo anche a registrare il contro-movimento, la «forte domanda di Unione Sovietica» che si è manifestata nella società russa negli ultimi anni: «Rinascono idee di vecchio stampo: quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa… E invece del marxismo-leninismo, l’ortodossia».
Ecco perché il libro della Aleksievic è importante per capire i giorni presenti. Perché ci mostra come, attraverso il marasma degli anni Novanta, l’homo sovieticus sia giunto fino a noi. E come si sia installato al vertice della piramide del potere. Perché cosa altro è Putin, se non l’homo sovieticus riplasmato attraverso la distruzione dei valori del postcomunismo?
L’autrice scrive di aver passato tutta la vita sulle barricate. E alla fine intravede una nuova battaglia. In quelle decine di migliaia di persone che scendono in strada con i nastri bianchi sulle giacche. «Simbolo di rinascita. Di luce. E io sono con loro». Ma oggi sappiamo che anche la stagione della protesta degli ultimi due inverni si è rivelata effimera. E che la mobilitazione generale per la guerra in Ucraina ha ricompattato il consenso neo-sovietico. C’è da chiedersi in ultimo quanto ci sia di nostalgico e quanto di propriamente russo in questo esito. «L’immobile mongolo», aveva scritto Marx. «Sono passati cent’anni — annota la Aleksievic — e di nuovo il futuro non è al suo posto. Siamo entrati in un tempo di seconda mano».

Repubblica 25.9.14
“L’animo russo vive ancora nei Gulag”
Dostoevskij, Solzenitsyn, la dissoluzione dell’Urss e il ruolo degli intellettuali
Parla Svetlana Aleksievic, di cui esce il romanzo “Tempo di seconda mano”
di Wlodek Goldkorn


ALCUNI decenni fa ormai, il mondo degli intellettuali e letterati russi fu diviso da una polemica fra due giganti. Da un lato Varlam Salamov, autore di Racconti di Kolyma, un capolavoro di importanza analoga a Se questo è un uomo di Primo Levi, e per 18 anni prigioniero dei Lager staliniani; dall’altro, Aleksandr Solzenitsyn, diventato famoso con Una giornata di Ivan Denisovic, autore dell’ Arcipelago Gulag , e con otto anni di lavori forzati alle spalle.
Solzenitsyn sosteneva che l’esperienza del Lager rendesse forti perché nelle condizioni estreme si rivela la vera natura di ciascun uomo. Insomma, il Gulag come scuola di resistenza spirituale. Salamov invece era del parere che la vita nel Lager finisse per distruggere la personalità del prigioniero e che l’essere umano vissuto nel Gulag fosse condannato a vivere il resto dei suoi giorni come se non ne fosse mai uscito. Questa discussione, una variante della secolare disputa tra slavofili, i sostenitori di una Russia autocratica, ortodossa e imperiale, e “occidentalisti” la cita Svetlana Aleksievic, anche lei scrittrice, 66enne, di padre bielorusso e madre ucraina, l’anno scorso candidata, data dai bookmaker per certa, al Nobel per la Letteratura, nel frattempo insignita da molti e prestigiosi premi tra Francia e Germania. In questi giorni Aleksievic è in Italia per ritirare un altro riconoscimento (Masi Grosso d’Oro Veneziano) e per incontrare i suoi lettori. Dice Aleksievic: «Oggi vediamo che aveva ragione Salamov. Nella Russia di Putin viviamo con la mentalità da Lager. Non si parla d’altro che del pericolo che viene da fuori, dal presunto accerchiamento da parte dei nemici esterni e della minaccia che viene da quelli interni. Il lessico è dei tempi del passato ».
L’occasione della visita in Italia e di questa conversazione è l’uscita dell’ultimo libro di Aleksievic, Tempo di seconda mano (Bompiani), un racconto corale ed epico, oltre 700 pagine, sulla dissoluzione dell’Urss e sulle sue conseguenze per l’uomo comune. Ci ha messo più di dieci anni per scriverlo: ha viaggiato nelle remote province, ha intervistato vecchi comunisti, contadine, minatori, professionisti. Molti rivendicano i tempi dell’Unione Sovietica e dicono: sebbene Stalin ci abbia fatto soffrire, ci ha permesso di credere negli ideali. Colpisce l’uso che Aleksievic fa della lingua: il suo, anche in questa intervista, è un russo ricercato, classico, quasi ottocentesco, non contaminato dal gergo dell’ex Urss. «Quando l’impero sovietico è crollato - racconta la scrittrice - noi democratici avevamo una visione romantica. Ci immaginavamo un avvenire simile ad altri popoli europei. Ci dicevamo: dopo decenni di isolamento, la Russia torna a far parte del mondo. Eravamo influenzati dalla perestrojka, il tentativo di democratizzare il Paese, di portarlo sulla strada di una riforma di stampo socialdemocratico. Pensavamo di essere alla vigilia di una specie di seconda vita (ma non di seconda mano): decente e dignitosa».
Poi abbassa la voce: «Oggi è diventato invece evidente che in Russia niente di buono riesce bene. A partire dal terzo mandato di Putin (2012) è chiaro che stiamo tornando indietro. Certo, siccome sarebbe difficile parlare della ricostituzione dell’Unione Sovietica, si usa il termine Unione euroasiatica». Si tratta di un’idea di Aleksandr Dugin, filosofo di estrema destra, ben visto nell’entourage del presidente e che risale ai circoli di emigrati bianchi dei primi anni Venti. Esuli che più tardi avrebbero dimostrato molta simpatia per Stalin; alcuni tornarono in Urss per finire ovviamente prigionieri del Gulag o fucilati. Aleksievic riflette: «Sta tornando il passato; senza idee nuove. O forse sì, qualcosa di nuovo c’è. Abbiamo una variante degli stalinisti, ma sono cristiani ortodossi. L’idea è quella di una Grande Russia e dell’unicità del popolo russo. Putin dice che il crollo dell’impero sia stato una catastrofe geopolitica. No, non è ridicolo. Basti vedere come la Crimea sia stata annessa manu militari e temo che la stessa sorte spetti all’Ucraina orientale. Tutto questo mentre l’86 per cento della popolazione appoggia il capo dello Stato».
Da vera scrittrice che la realtà la capisce se organizzata in uno schema narrativo letterario, Aleksievic cita Dostoevskij, acutissimo analista dell’animo umano. «Dostoevskij diceva che l’uomo russo “vuole sempre di più”. Non gli basta un po’ di benessere materiale. Per il russo l’idea, se appare nobile, è in cima a ogni cosa». Alza la voce: «Stando a un recente sondaggio, alla domanda “siete disposti a sacrificare la vostra vita e la vita dei vostri familiari perché la Russia torni grande?”, il 37 per cento del campione ha risposto di sì». E quando pronuncia la frase “La Russia torni grande” il tono della voce tra ironia e indignazione imita quello solenne degli speaker di radio Mosca di una volta.
Il sincretismo dei simboli lo si è visto alla parata militare il 9 maggio a Mosca: stella rossa e coccarde zariste di San Giorgio. «È l’ethos imperiale che ha vinto, non importa se zarista o stalinista», dice Aleksievic e aggiunge con tristezza: «Stalin non è più oggetto di critica. Sono usciti moltissimi film e libri che lo elogiano. A Perm stanno chiudendo il museo del Gulag». Il Lager Perm-36 è stato costituito nel 1946, come luogo di lavoro forzato e morte per stenti. Chiuso da Gorbaciov è stato trasformato in un luogo della memoria. Continua la scrittrice: «In Russia viene riscritto il passato. Si arriva a dire che i democratici siano stati dei delinquenti e c’è chi chiede di trascinare Gorbaciov davanti a un tribunale». Riflette: «Il 21 settembre ci sono state manifestazioni contro la guerra. A Mosca sono scese in piazza 20mila persone. Ma la grande maggioranza la pensa diversamente».
Le ragioni di questa involuzione? Aleksievic risponde: «Viaggiando nel Paese ho toccato con mano la sensazione di risentimento, sentivo racconti di gente derubata, ingannata dagli oligarchi». E poi introduce il concetto della “cucina”. Ai tempi del comunismo, i dissidenti stavano molto in cucina; a bere il tè e discutere dei libri proibiti. Dice: «Noi dalla cucina non siamo mai usciti. Pensavamo che il popolo volesse vedere stampati i libri di Solzenitsyn, di Lev Razgon (17 anni nel Gulag) di Salamov. E invece i libri sono rimasti invenduti. Ma sono fallite pure le élite. Si sono messe al servizio di Putin e dei potenti. Si tratta di interessi molto materiali: chi ha un ristorante, chi un figlio in carriera. Ognuno ha una giustificazione per il proprio conformismo». E conclude: «Erano belli i tempi in cui eravamo dissidenti nei confronti del potere. Essere invece in dissenso con il popolo, come avviene oggi, è terribilmente e tragicamente complicato ».
IL LIBRO Tempo di seconda mano di Svetlana Aleksievic Bompiani euro 24

Repubblica 25.9.14
L’impero Cina.com, così Pechino ha messo le masni sulla rete
Quando il gigante dell’e-commerce, Alibaba, ha sbancato Wall Street con la quotazione più ricca della storia, il mondo è cambiato
Ora, tra le prime 10 società della Rete, 4 sono di Pechino
Così il Dragone sta conquistando il business del secolo: lo shopping online
di Giampaolo Visetti


PECHINO VENERDÌ 19 settembre, alle 9.30, il mondo ha sentito di essere improvvisamente cambiato. Alibaba, gigante dell’e-commerce cinese, ha conquistato Wall Street con l’Ipo più ricca della storia. Investitori globali si sono contesi titoli per quasi 25 miliardi di dollari, riconoscendo alla creatura dell’ex professore d’inglese Jack Ma, una capitalizzazione da 240 miliardi. Un debutto simile non si è limitato a stabilire un primato finanziario. Indica la nuova direzione del business, la definitiva affermazione del web e il sempre più indissolubile intreccio degli affari che legano la Cina agli Usa e all’Europa.
L’Occidente, costretto a scommettere su hi-tech e classe media cinesi, ha ora più chiara la dimensione reale dell’Asia: da «fabbrica del mondo » è già mutata in «distributore del pianeta». La chiave è la Rete, l’universo politicamente incontrollabile che Pechino considera il peggior nemico, reprimendolo con la censura. Prima però, anche al di qua della Grande Muraglia, gli affari. Così, tra le prime dieci società mondiali del web, già quattro sono cinesi ed è proprio la «China.net» guidata dal miliardario fan di Forrest Gump ad insidiare il Paese simbolo di innovazione e imprenditorialità privata. Alibaba, la messaggeria istantanea di Tencent, il motore di ricerca Baidu e l’e-commerce di JD.com, hanno una capitalizzazione pari a 460 miliardi di dollari: secondi, per ora, solo agli 815 sommati da Google, Facebook, Amazon ed eBay. Alibaba fattura da sola più di Amazon ed eBay messe assieme, chiuderà un bilancio 2014 da 420 miliardi ed entro il 2020 controllerà un mercato online superiore alla somma di quelli di Usa, Giappone, Germania, Gran Bretagna e Francia. Sconvolta anche la classifica dei 1271 miliardari cinesi: tra i primi dieci, cinque gravitano ora attorno al web, retrocedendo i signori di cemento ed export low cost.
L’irruzione del colosso cinese dell’e-commerce al New York Stock Exchange segna così l’avvio del testa a testa Cina- Stati Uniti per il controllo della comunicazione e dello shopping online, cuore del business di questo secolo. Risorse energetiche e distretti industriali diventano meno strategici: fonti rinnovabili e moltiplicazione dei mercati dirottano su pubblicità e distribuzione la guerra per il monopolio di idee e consumi.
Grazie alla ribattezzata «generazione Alibaba», Pechino ha spinto in Rete 630 milioni di cinesi, il doppio della popolazione Usa. La galassia virtuale di Jack Ma, in cui orbitano anche il centro commerciale Taobao, la boutique Tmall e la banca Alipay, conta 7 milioni di fornitori solo in Cina e i clienti di 240 Paesi possono scegliere tra 800 milioni di prodotti. Il «coccodrillo dello Yangze» ha spiegato così l’esplosione di “China.net”: «Il futuro non è delle fattorie dove si alleva un solo animale, ma degli zoo, che offrono tutte le specie». Tagliare le vetrine tradizionali, portando qualsiasi merce dal produttore al consumatore tramite un clic, significa «piantare affari in ogni angolo del mondo». Lo stesso vale per le idee, l’informazione, la conoscenza. «La mia missione – ha detto il nuovo imperatore comunista delle democrazie capitaliste – è stabilire il contatto tra origine e destinazione, di un prodotto o di un pensiero».
La febbre delle Borse nasce dal riconoscimento di questa intuizione: la Cina del web congeda secoli di «vie della seta » per aprire l’era dei policentri diffusi sulle fibre ottiche. Copyright Usa ma esecuzione made in China, con il duello Pechino-Washington appaltato a Xiaomi-Apple e ad Alibaba-Amazon, al decimo e nono posto tra i siti più visitati del pianeta. In Cina la «rivoluzione di Ma» fa dimenticare quella di Mao. Le vie tra i grattacieli vengono sgomberate per fare spazio ai prodotti online, consegnati da eserciti di corrieri. Campus universitari e piazze dei villaggi assumono il profilo di depositi sconfinati: i fattorini di Alibaba consegnano il 76% dei pacchi spediti nel Paese, si arrampicano su montagne di scatole e convocano i clienti gridando le ultime tre cifre dello smart-phone. Nessun negozio, ma è boom di consumi. Si moltiplicano anche i «villaggi Taobao », paesi isolati che grazie al web si reinventano epicentri produttivi del 21° secolo. Uno è Peixie, mille chilometri da Shanghai. Restavano vecchi e bambini, giovani e famiglie si concentravano nelle metropoli. Grazie alla «rivoluzione. com» risorgono laboratori di tappeti in bambù e due sedicenni inondano l’Asia di cappelli-karaoke. «Chi controlla la Rete – dice il vice presidente di Alibaba, Joe Tsai, uno dei 6 mila miliardari partoriti da “Baba” in pochi minuti – guida la ricerca e domina il mondo: ma è l’e-commerce la cassaforte del sistema».
Nemmeno i mercati potranno così ignorare il problema che Stati Uniti ed Europa evitano, ufficialmente, di riconoscere. L’ascesa dei colossi cinesi del web rianima le Borse, ma fa suonare l’allarme in governi e imprese. I primi assistono all’avanzata dell’e- autoritarismo di Pechino tra le macerie delle democrazie, superate dalla velocità dei social network. Le seconde temono la moltiplicazione elettronica dei falsi, con i marchi in balìa di una Rete fuori controllo. Jack Ma ha trascorso l’estate in viaggio per convincere Usa e Ue che il capitalismo rosso «sempre connesso» non è l’arma segreta della Cina per conquistare più rapidamente l’Occidente. Ha fallito solo nella ribelle Hong Kong, che ha rifiutato la quotazione del campione «connazionale» per «problemi di trasparenza». Tradotto: non si sa bene chi controlli Alibaba, tra la giapponese Softbank, l’americana Yahoo e i «compagni fondatori » cinesi, fiscalmente rifugiati sulle isole Cayman.
Il passato però è passato. Per la prima volta, dopo l’eclissi del Celeste Impero, il mondo torna a puntare sulla Cina e una sua impresa privata, grazie alla tutela del partito comunista, domina anche nel salotto del capitalismo. L’ignota Alibaba è nell’empireo dei titoli, l’ex anonimo Jack Ma guida già la classifica dei nuovi e-miliardari del Dragone, il software cinese stacca l’hardware statunitense. Pechino comunica a Washington che il passaggio delle consegne, anche in business e innovazione, sta per compiersi. «Ma io – ha sorriso l’altra sera il pioniere di Hangzhou – penso solo ai clienti, mai a guerre e avversari. Se non hai il nemico del cuore, allora il nemico non esiste».

Repubblica 25.9.14
E adesso l’America ha paura di perdere l’egemonia sul web
di Federico Rampini


NEW YORK LA SFIDA per la leadership globale della Silicon Valley viene presa sul serio. L’euforìa di Wall Street per il collocamento- boom di Alibaba lascia il posto a un interrogativo geostrategico: quanto durerà l’egemonia americana sulla Rete? Cinesi, indiani, giapponesi, sudcoreani, insieme già rappresentano “l’altra metà del cyber-universo”. Di colpo l’America viene colta da un dubbio: siamo davanti a un bis della “sindrome Toyota”? Erano gli anni Settanta, e con la prima crisi energetica le auto made in Japan si affacciarono sul mercato Usa. La loro minaccia fu sottovalutata, perfino schernita. Piccole, bruttine, scomode (ma consumavano metà benzina), divennero lo zimbello dei capi di Detroit. Mal gliene incolse. Ci sono voluti tre decenni, è vero, ma all’inizio del terzo millennio Toyota toglieva a General Motors il primato mondiale nella produzione di auto. In quanto al primato su qualità, affidabilità, innovazione, modernità dei sistemi di produzione (il toyotismo invece del fordismo), era già finito a Oriente da anni.
Oggi i numeri della nuova sfida li ricorda il Wall Street Journal, lanciando l’allarme sugli «equilibri di potere di Internet che scivolano verso l’Asia ». Dopo il collocamento in Borsa di Alibaba, ben quattro su dieci delle maggiori aziende digitali sono in Asia (se si guarda al valore della capitalizzazione azionaria). Oltre al colosso cinese del commercio online ci sono altri tre gruppi cinesi: Tencent, Baidu, JD.com. Più indietro, ma in rapida ascesa, ci sono gruppi come Naver (Corea del Sud) e Rakuten (Giappone). Questa classifica si riferisce unicamente a società che non hanno attività manifatturiere ma solo di servizi, altrimenti bisognerebbe includere la sfida di colossi industriali tra Apple e la coreana Samsung negli smartphone. Se si sommano fra loro le capitalizzazioni dei quattro big della Rete in Estremo Oriente, si arriva ben oltre la metà del valore dei leader Usa che sono Google, Facebook, Amazon ed eBay. Non è poco se si considera che Internet è una “invenzione americana” almeno nella sua dimensione di business. D’altra parte anche il baricentro della popolazione digitale si sta evolvendo a una velocità impressionante visto che il 45% di tutti gli utenti online sono in Asia.
Nella sola Cina il numero di utenti di smartphone ha superato la soglia del mezzo miliardo. In quanto ai frequentatori di social media, coloro che si trovano nell’area dell’Asia-Pacifico sfiorano il miliardo cioè quasi il quintuplo rispetto al Nordamerica. E qui s’incontra una delle caratteristiche di questa sfida: quando si dice “utenti di social media”, noi occidentali automaticamente pensiamo a Facebook e Twitter; che invece sono assenti oppure marginali nei paesi in crescita. Qui entrano in gioco due tipi di barriere: culturali o politiche. La Corea del Sud, e in parte anche il Giappone, sono meno permeabili alla penetrazione dei social media occidentali per ragioni linguistiche, tendono a privilegiare quei netowrk nati in casa propria e quindi “pensati” localmente. In Cina interviene invece la censura vera e propria. La guerra tra il regime di Pechino e Google ha fatto scalpore. Ma si è chiusa con la sostanziale esclusione o auto-esclusione del motore di ricerca più importante del mondo, dal mercato più vasto. Facebook e Twitter sono all’indice in Cina e hanno subito censure anche in Turchia e Iran.
Lo spostamento dei rapporti di forze in favore dell’Asia, coincide dunque con una tendenza parallela, alla “balcanizzazione” o alla “ri-nazionalizzazione” della Rete. Le forze di cui sopra – barriere linguistico-culturali o censure dei regimi autoritari – fanno sì che la Rete sia meno unita e globale di quanto fosse all’origine. In questo senso la sfida tra i giganti della Silicon Valley e quelli cinesi avviene quasi su due campi di gioco separati. Ognuno esercita la propria egemonia su mercati che non sono totalmente comunicanti. Ci sono casi in cui la gara è davvero aperta, e i confronti tra le due Reti si possono fare. In termini di innovazione, la Silicon Valley californiana conserva parecchie lunghezze di vantaggio. I segnali sono evidenti. Continua ad esserci una fuga di cervelli dalla Cina verso l’America, e perfino la figlia del presidente Xi Jinping studia a Harvard, mentre non esiste un fenomeno paragonabile nella direzione inversa. Il fascino “magico” dei prodotti concepiti e progettati nella Silicon Valley continua a catturare anche i cinesi: il boom di acquisti dell’ultimo modello di iPhone della Apple in Cina è stato superiore a quello registrato qui in America. Si avvera una regola fondamentale: anche l’innovazione tecnologica fiorisce meglio dove c’è libertà di espressione, società multietnica, rispetto delle diversità. L’Asia per adesso si accontenta di innovazioni “pratiche”, sul modello della Jugaad Innovation indiana. Per esempio giapponesi e sudcoreani, ma ora anche i cinesi, sono all’avanguardia nelle applicazioni degli s

il Fatto 25.9.14
Incesto, il Consiglio etico tedesco chiede al governo la depenalizzazione del reato
"Considerare penalmente una relazione tra consanguinei adulti e consenzienti è un mezzo inappropriato per salvaguardare un tabù sociale"

qui

il Fatto 25.9.14
Prima Repubblica
Il rosso e il nero
Quei venerdì sul divano a parlare di terrorismo
I quattro incontri riservati tra Berlinguer e Almirante
di Fabrizio d’Esposito


Al quarto piano di Montecitorio c’è un corridoio lungo che porta alla commissione Lavoro. In fondo, c’è un divano. L’ultimo. Qui, tra il 1978 e il 1979, i cupi anni di piombo preludio alla tragedia di Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante si accomodavano per circa un’ora. Sempre di venerdì, quando la Camera si svuotava e i deputati tornavano nei collegi di provenienza. Berlinguer era il compagno segretario del Pci. Almirante, l’ex repubblichino fascista capo del Movimento sociale italiano. Quegli incontri furono in tutto quattro e sono rimasti segreti per oltre un quarto di secolo, fino a quando alcuni anni fa ne ha parlato per la prima volta Massimo Magliaro, storico portavoce di Almirante, giornalista del Secolo d’Italia, il quotidiano missino, infine uomo Rai.
Il doppio anniversario
Lo stesso Magliaro è tornato su quei faccia a faccia riservatissimi alcuni giorni fa. È successo alla festa dei giovani di Fratelli d’Italia, “Atreju”, a Roma. Una doppia circostanza ha favorito i ricordi dell’ex portavoce almirantiano. Da un lato i due anniversari caduti quest’anno, entrambi a giugno: il trentennale della morte di Berlinguer, l’11, e il centenario della nascita di Almirante, il 27. Dall’altro lo stile e la cifra diverse, se non opposte, dei colloqui altrettanto segreti tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, intesi rispettivamente come lo Spregiudicato e il Pregiudicato. Racconta Magliaro al Fatto: “Almirante e Berlinguer si stimavano tantissimo, condividevano un forte senso etico e sentivano il peso delle responsabilità verso le istituzioni. Oggi invece di cosa possono parlare Renzi e Berlusconi se non di poltrone o tornaconti personali? Oppure si soffermano sulla filosofia teoretica? ”. Magliaro poi strappa la penna al cronista e comincia a disegnare su foglio la mappa del quarto piano di Montecitorio: “Questo è il corridoio e qui c’era il divano”.
Il corridoio al quarto piano
Erano in quattro, alle cinque della sera di quei venerdì alla Camera. Berlinguer e la sua ombra inseparabile, Antonio Tatò detto Tonino. Almirante e Magliaro. Continua l’ex portavoce del segretario missino: “Sono l’unico sopravvissuto e questo mi imbarazza moltissimo, potrei raccontare quello che voglio, ma sinora nessuno mai mi ha smentito, nemmeno la famiglia Berlinguer”. Almirante e Berlinguer si sedevano sul divano e facevano allontanare Tatò e Magliaro. “Non abbiamo mai origliato. Io e Tatò parlavamo del più o del meno, di calcio, del tempo, del traffico. Le solite cose. Quando i due si alzavano, io e Almirante uscivamo e tornavamo a piedi al partito, lì dietro, in via della Scrofa. Non mi ha mai detto nulla, né io ho mai chiesto qualcosa”. Magliaro capì l’argomento degli incontri da altre frasi di Almirante: “Giorgio aveva vissuto una guerra civile dopo la caduta del fascismo e non ne voleva un’altra tra rossi e neri. E a Berlinguer aveva riconosciuto pubblicamente l’impegno a fare altrettanto, a non alimentare il terrorismo”. Ecco il punto, il segretario del Pci e il capo del Msi si parlavano e si aggiornavano su come arginare il fenomeno, quali iniziative prendere. A sinistra c’erano le Brigate rosse, a destra i Nar, per fare gli esempi più eclatanti. La loro paura era concentrata sulle possibili zone di contiguità tra partito e lotta armata. Gli anni di piombo ebbero vari strati di sangue: gli attentati dei terroristi a politici, magistrati e sindacalisti; la guerriglia tra “zecche” e “fasci”; le bombe della strategia della tensione. Spiega Magliaro: “Per quanto riguarda noi, le preoccupazioni maggiori erano rivolte a tutta quell’area accomunata dalla croce celtica, quella rautiana”. La stessa che Gianni Alemanno, ex ministro ed ex sindaco di Roma, porta ancora oggi al collo. Magliaro: “Nomi non ne faccio, ma era un’area vasta. Noi abbiamo sofferto e patito il terrorismo. Almirante, sulla scrivania, teneva la cartolina che Mario Tuti (terrorista nero, ndr) gli aveva spedito dal carcere”.
La cartolina di Mario Tuti
Sulla cartolina, Tuti aveva scritto ad Almirante: “Sei stato condannato a morte dal tribunale nazionalrivoluzionario”. Racconta Magliaro: “Mi sono sempre chiesto come sia potuta uscire da un carcere con il timbro di approvazione. Come si poteva autorizzare un messaggio del genere? ”. Tuti veniva da Ordine Nuovo, fondato da Pino Rauti, l’avversario movimentista di Almirante. In contrapposizione agli ordino-visti, lo stesso Magliaro, anche in rotta con il partito, aveva inventato Ordine Umano insieme a Massimo Brutti, poi dalemiano, e ad Arturo Diaconale, poi liberale. “Rientrai nel partito quando Almirante divenne segretario. L’avevo conosciuto negli anni sessanta, avevo appena quindici anni”. La storia degli incontri segreti tra Berlinguer e Almirante forse non sarà mai scritta per intero. Donn’Assunta, la vedova del capo missino, ha aggiunto che i due s’incontrarono anche a Villa Borghese, sempre a Roma. Ma qui il numero dei colloqui non si conosce. “Almirante ha sempre tenuto per sé questa cosa. Si organizzava da solo. Lui girava senza scorta e a volte si muoveva da solo con la sua Cinquecento. Nel Pci credo che Emanuele Macaluso fosse a conoscenza di quei venerdì. Più recentemente ho saputo che quando Napolitano ha letto della cosa ha disapprovato fortemente”.
La visita al Bottegone, Pajetta e Donna Assunta
Conclude Magliaro: “Il rapporto tra Almirante e Berlinguer fu quello tra due persone perbene e oneste, anche se di ideologia opposta. Quando Almirante seppe della morte di Berlinguer stette malissimo e sbiancò in volto. Sono convinto che avrebbe voluto morire allo stesso modo”. Quando quel fatale comizio di Padova compì il destino di Berlinguer, nel giugno del 1984, Almirante decise di andare al Bottegone, alla sede del Pci. Anche quella volta non disse nulla a nessuno. Né all’autista, né a Magliaro. Impose una deviazione all’auto e i due pensarono al peggio. “Ebbi tantissima paura. Ma non successe nulla. Almirante era stimato anche da Pajetta, il vero capo della Resistenza comunista. Quando uscì, dopo aver reso omaggio al feretro di Berlinguer, mi disse: ‘Chiama mia moglie e dille che è andato tutto bene’”. Donn’Assunta era l’unica a sapere.

Repubblica 25.9.14
Il gentleman che portò al massacro le truppe inglesi
Una scelta sbagliata. Un’intera divisione sterminata
Così andò la battaglia della Somme, pagina nera della Grande Guerra
di Stefano Malatesta


ALLE sette e mezzo di mattina del primo luglio 1916, 120mila ragazzi inglesi scrollarono dagli scarponi quel liquame disgustoso che stagnava perennemente nelle loro trincee e salirono sulla terra di nessuno, diretti verso le postazioni tedesche che erano allo stesso tempo vicinissime e invisibili. Il fronte scelto dal comando inglese per l’attacco attraversava per una ventina di chilometri le colline della Somme, una campagna della Piccardia fino a qualche anno prima conosciuta in Francia per le sue coltivazioni e ora trasformata in un lugubre territorio simile a una palude, da dove spuntavano frammenti anneriti di alberi. La notte i soldati avevano dormito male, innervositi dal rinvio di un giorno dell’attacco per le forti piogge, non previste in quell’area nel mese di giugno.
Molti soldati avevano avuto un addestramento precario: era la prima volta che andavano in combattimento e nessuno poteva dire come si sarebbero comportati. Si erano alzati dalle brande alle quattro di mattina, impiegando il tempo che rimaneva prima del segnale dell’attacco a inchiodare sopra le suole delle scarpe una striscia trasversale di cuoio per evitare di scivolare sulle scalette, mentre salivano dalle trincee. Faceva freddo, ma l’estate astronomica era già iniziata e più tardi la temperatura sarebbe salita di parecchi gradi.
Quel giorno, nella Somme, all’alba del «grande Push», come avevano soprannominato il grande attacco britannico, i soldati inglesi avevano un’aria stralunata e si dimostravano preoccupati più dello stato poco incoraggiante dei terreni, diventati per le piogge nelle settimane precedenti un mare di fanghiglia, che dell’incontro con il nemico. Nessuno di loro sembrava aver capito che erano arrivati fin lì per ammazzare o essere ammazzati. Il capo della spedizione britannica, il generale Haig, e il capo delle operazioni, Rawlinson, che comandava la quarta armata, avevano assicurato che sarebbe stata una passeggiata. Ma questo termine, spesso adoperato a vanvera dagli alti comandi e che non rispecchiava la realtà, non li aveva rassicurati.
Era dal dicembre del 1915 che il corpo di spedizione britannico stava meditando una vasta offensiva sul fronte occidentale. Il comandante, il generale Douglas Haig, era un militare supponente, che indossava magnifici stivali di cuoio sempre lucidissimi, una giacca tagliata dai sarti di Savile-Row e aveva una barba bionda pettinata a imitazione del re Giorgio V. Ma questa sua eleganza nascondeva un’anima priva di sentimenti, arida, che si applicava preferibilmente a compiti burocratici. Non era un gentiluomo, ne aveva solo l’aspetto. Era un tipo rigido, almeno con i sottoposti — con i suoi superiori molto meno — inflessibile e intollerante, specialmente con i francesi e completamente sprovvisto di umorismo. Si riteneva un grande tattico, ma in realtà era un comandate di reggimento con idee limitate e senza fantasia. Non inventava mai una battaglia, la copiava seguendo strettamente quello che gli avevano insegnato alla Scuola di Guerra. Era molto religioso, di quella religiosità fanatica che vuole avere sempre ragione. Era un acceso sostenitore della disciplina ferrea e aveva fatto fucilare trecento uomini per viltà di fronte al nemico. Mentre quasi tutti erano dei poveretti colpiti da shock durante i bombardamenti che non sapevano più dove era il nord e il sud e nella disperazione si erano allontanati dal loro posto.
Gli inglesi avevano sistemato, a difesa della loro linea, battaglioni da mille uomini ciascuno, concentrati in due sezioni maggiori: il saliente d’Ypres nelle Fiandre e la Somme in Piccardia. Durante la settimana precedente l’attacco, Haig aveva ordinato un bombardamento indiscriminato delle postazioni tedesche. Il parco di artiglieria inglese, che comprendeva oltre 1800 cannoni di diverso calibro, in una settimana riversò tre milioni di obici contro il nemico (per fare un paragone l’artiglieria di Napoleone in ogni battaglia poteva disporre di ventimila proiettili). Ma l’uso che ne faceva Haig era molto diverso da quello dell’imperatore francese. Napoleone era un maestro dell’artiglieria che usava sempre con grande abilità, a cominciare dalla sede di Tolone. Il comandante inglese puntava sulla quantità, più che sulla qualità e questa era la misura della rozzezza della sua tattica. Nell’organizzare il bombardamento, che non presentava difficoltà particolari, ma che aveva bisogno di essere controllato da cannonieri esperti, Haig si dimenticò di una cosa fondamentale. Gli obici, per loro stessa natura, contenevano un materiale deteriorabile, come l’esplosivo, che andava sempre esaminato. Invece i proiettili furono presi dai depositi e infilati direttamente nelle culatte dei cannoni: nessuno poteva dire se potessero veramente esplodere. Inoltre le bombe da settecento chili, che secondo quello che dicevano gli artiglieri avevano la forza di abbattere da sole un palazzo, in realtà avevano la potenza di un decimo del loro peso. Ma nessuno era al corrente di questa differenza. In una situazione simile sarebbe stato molto utile per gli inglesi conoscere l’effetto reale che avrebbe avuto il bombardamento, mandando qualche scout in avanscoperta. Ma il generale trovò inutile fare questo riscontro.
A partire dalle sette e trenta i soldati inglesi uscirono dalle trincee al ritmo di un battaglione al minuto. Le direttive date da Haig al generale Henry Rawlinson erano di sfondare a tutti i costi e di approfittare del bombardamento che aveva annientato le difese tedesche per raggiungere al più presto i paesi al di là della linea di confine, in modo che l’attacco non fosse destinato solo a eliminare le trincee tedesche, ma a raggiungere ed inserirsi il più profondamente possibile nel territorio nemico. Secondo il comandante questo sarebbe stato un colpo decisivo per tutto il fronte occidentale germanico che avrebbe tentato di arretrare nella confusione, inseguito dai soldati inglesi.
Quello che successe fu esattamente il contrario di quello che immaginava con sicurezza il comando inglese. I tedeschi non erano morti e nemmeno decimati: quando era iniziato il bombardamento, avevano previsto che sarebbero stati attaccati con ingenti forze proprio su questo saliente e avevano chiamato i giovani del Genio a scavare dei cunicoli profondi almeno quaranta metri dove potersi rifugiare al riparo dalle esplosioni. Quando gli scout lasciati sulle colline sentirono i fischi dei tenenti che chiamavano a raccolta le truppe inglesi, avvertivano i compagni ancora nascosti, e in pochi minuti quei soldati che do- vevano essere defunti, si erano di nuovo piazzati nei punti strategici della terra di nessuno. Dopo qualche minuto, guardando con il binocolo, i tedeschi si accorsero sbalorditi che stavano salendo lentamente verso di loro migliaia di uomini.
Quello che seguì non fu una battaglia, fu una esecuzione. I tedeschi avevano piazzato le mitragliatrici Maxim a tiro incrociato nei posti più strategici. Gli ordini di Rawlinson erano di non fermarsi ad attaccare le trincee che lui immaginava abitate solo da cadaveri, ma di oltrepassarle per andare a sfondare i reticolati finali ed entrare nelle retrovie tedesche per seminare il panico. Ma quando fu chiaro che le trincee non erano affollate di defunti ma da soldati in pieno assetto di guerra, tutti capirono che non sarebbe stata una passeggiata. Quel giorno il 180esimo reggimento tedesco contò 220 morti su tremila uomini, mentre l’ottava divisione inglese perse 5121 soldati su 12mila. In tutto le perdite inglesi arrivavano a 60mila uomini, di cui 21mila uccisi sul terreno. Era la più grande strage che avesse subito l’Inghilterra dal tempo della peste nera del 1300.
Il comandante Haig era un militare arido e supponente. I morti furono cinquemila

Repubblica 25.9.14
Single e senza pensieri meglio restare a casa
Ora i giovani americani non si sposano più
Nel 1970 solo un giovane su dieci era celibe dopo i 25 anni. Ora uno su quattro
Lo rivela l’ultima ricerca condotta dall’Istituto Pew. Ma è colpa della crisi
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON SUPERATE ormai le barriere del sesso, della religione, della necessità economica, della rispettabilità sociale, il matrimonio negli Stati Uniti sta diventando una prerogativa di classe, riservata, proprio come le classi sugli aerei, a chi se lo può permettere. La crisi, ormai quasi il collasso, della istituzione matrimoniale mai così disertata da quando i censimenti nazionali li registrano, segna il maniera sempre più evidente i confini fra le categorie di reddito, di istruzione, di collocazione sociale. Sposarsi è un lusso che, economicamente e psicologicamente, sempre meno uomini e donne possono permettersi. Meglio restare single, magari anche a casa dei genitori, senza “impegni” da rispettare.
Da anni, da quegli anni ‘70 che videro il picco dei matrimoni, i ricercatori si affannano a capire e a spiegare quale sia la causa dello sgretolamento progressivo e finora inarrestabile di quel contratto civile, o addirittura sacramento religioso, che è stato per generazione il fondamento della famiglia umana. Ogni ondata di ricerca ha portato le proprie spiegazioni, il femminismo, l’indipendenza economica crescente delle donne non più costrette a sposarsi per vivere e per allevare i figli, la disponibilità del sesso, la pillola, i contraccettivi, la frequenza deprimente dei fallimenti matrimoniali con tutti i possibili effetti disastrosi, economici e psicologici, sulla vita dei divorziati e dei loro figli. Ma la distinzione di “classe”, di censo, oggi affiora come la diagnosi che riassume e concentra tutti gli altri sintomi.
Il 40 per cento delle nuove mamme che danno alla luce bambini sono single, non sposate e neppure unite in coppie di fatto. Le famigerate “ragazze madri” di ieri si stanno avviando a essere la regola, non più la mortificante eccezione. Nel 1970, meno di un giovane americano su dieci, maschio o femmina, non era sposato dopo il venticinquesimo compleanno, Oggi, un americano adulto su quattro non è coniugato e soltanto una minoranza fra scapoli e nubili ha una relazione stabile con un partner, mentre l’età media delle prime nozze sfiora ormai i 30 anni per i maschi e i 27 per le femmine. È un rigetto diffuso del committment , dell’impegno reciproe co, che nel contratto di nozze ha la propria espressione più solenne.
L’ultima ricerca condotta dall’Istituto Pew, il più serio e accreditato fra i centri studio dei trend sociali, pubblicata ieri insinua nella tempeste di cifre elementi che vanno oltre i luoghi comuni e che si riassumono in una percentuale: il 78% delle donne single, soprattutto fra le afroamericane e le minoranze, cercano come prima cosa in un uomo con il quale sposarsi o unirsi, un lavoro stabile. Piuttosto che unirsi a marito o a un partner che porti a casa problemi, incertezze, frustrazioni, e possibile violenza, una schiacciante maggioranza di donne preferisce assumere in solitudine la responsabilità di avere figli e crescere una famiglia.
Il matrimonio, che ormai costa in media soltanto per la cerimonia, la festa, il viaggio di nozze quasi 30 mila dollari — reddito annuo di un lavoratore non qualiicato — torna a essere importante oltre quella barriera di reddito che segna il passaggio alla piccola classe media. Chi guadagna oltre i 60 mila dollari lordi all’anno ha almeno un diploma universitario quadriennale si sposa con frequenza doppia rispetto a chi galleggia sul filo della povertà. Proprio nelle categorie sociali dove l’evoluzione culturale e individuale delle donne si è fatta più reale, e dunque la sacra istituzione dovrebbe risentire dello scetticismo generazionale, il matrimonio è ancora popolare.
Ma se la condanna perbenista contro le “ragazze madri” è ormai superata, un’altra condanna, di fatto anche più crudele, attende loro e i loro figli: la povertà. Nessun programma pubblico, nessuna elargizione di aiuti e fondi, è riuscita a strappare dalla stiva della marginalizzazione le donne e i loro figli. I conservatori, come Marco Rubio, potenziale candidato repubblicano alla Casa Bianca 2016, ama ripetere una statistica raggelante: «Il matrimonio e dunque una famiglia stabile strappano l’82 per cento dei bambini alla povertà». Quello che Rubio e i nostalgici della cerimonia nuziale non spiegano mai, come osserva Isabell Sawhill, sociologa per anni aggregata alla presidenza Clinton sui problemi della indigenza, è «come» resuscitare una famiglia tradizionale che sempre più uomini e donne rifiutano. Ammesso che l’equazione fra «famiglia con papà e mamma» e serenità matura in casa sia, come sembra credere Rubio, automatica.
La buona notizia, in un quadro a tinte molto grigie, è che il decadimento del matrimonio come passaggio obbligatorio per i giovani adulti ha fatto emergere il “quinto elemento” nella formula nuziale, che la società non sempre aveva utilizzato: l’amore. Proprio la facoltatività del matrimonio, la libertà di scelta offerta a uomini e donne che non si sentono più in dovere di convolare, fa dire ai due terzi degli sposi di oggi che hanno preso quell’impegno per amore e dunque possono finalmente demolire il più trito dei luoghi comuni sul matrimonio, che esso sia «la tomba dell’amore». Se sopravviverà, oltre le sfide del nuovo tempo, sarà per quello. E rimane sempre buona l’osservazione attribuita a Socrate e diretta agli uomini, ma applicabile anche alle femmine: «Se troverete una buona moglie, diventerete un uomo felice. Se troverete una cattiva moglie, diventerete un filosofo».

Corriere 25.9.14
Bergoglio: «La Madonna, Maria, era più importante degli Apostoli, dei vescovi, dei diaconi e dei preti. Così la donna, nella Chiesa, è più importante dei vescovi e dei preti: come, è quello che dobbiamo cercare di esplicitare meglio»
Nominate cinque donne nella nuova Commissione Teologica Internazionale
di Gian Guido Vecchi

qui

Corriere 25.9.14
Sotto accusa altri due vescovi
Kasper: la Chiesa va purificata, si salva se guarda con la prospettiva delle vittime
«Per i sacerdoti è finito il tempo delle protezioni»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO «Siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma, è chiaro. C’è stato un tempo nel quale si sono protetti i sacerdoti. Ora si guardano le cose dalla parte delle vittime, dobbiamo farlo. Questo è il cambiamento della Chiesa: considerare ciò che accade secondo la prospettiva delle vittime». Il cardinale Walter Kasper, grande teologo vicino a Bergoglio — il Papa elogiò all’Angelus il suo libro Misericordia , gli ha affidato la relazione introduttiva al Sinodo di ottobre — tira un lungo sospiro: «Quando ho letto di questa vicenda sono rimasto sotto choc, conosco solo ciò che ho visto sui giornali, è tutto molto brutto e triste».
Eminenza, che cosa pensa dell’arresto?
«Va nella direzione che conosciamo. La linea del Papa è chiara, non ci si può fermare, tantomeno se è un vescovo. La Chiesa ha bisogno di purificazione e rinnovamento, dobbiamo essere conseguenti. Ci vuole chiarezza. Esattamente ciò che diceva Benedetto XVI: non c’è differenza tra i due Papi».
Eppure Ratzinger ha subito attacchi planetari, no?
«Lui ha avuto un grande coraggio. Penso sia stato frainteso da molti. È stato il primo nella Curia ad avviare questa linea, fin da cardinale. Un uomo molto coraggioso, chiaro e determinato».
Francesco, Papa della misericordia, parla di «tolleranza zero»...
«La misericordia non toglie la giustizia, va oltre ma presuppone la giustizia. Non significa ammorbidire i comandamenti del Signore, sarebbe un grave fraintendimento. La misericordia è essa stessa un comandamento, spesso molto duro: ci dice che si devono amare i nostri nemici. È molto esigente, non un cristianesimo a buon mercato».
Un vescovo ai domiciliari in Vaticano non s’era mai visto...
«Non sarà certo maltrattato, piuttosto un tempo di riflessione su ciò che ha fatto può aiutare la conversione. Non ci devono essere privilegi, la legge civile vale per tutti, perché non dovrebbe valere per un vescovo?».
Francesco dice che abusare di un minore «è come fare una messa nera». Ovvero?
«Esprime una posizione centrale, nel Papa. Nelle ferite dell’altro noi incontriamo e tocchiamo un membro del Corpo mistico di Cristo. Se lo maltrattiamo, maltrattiamo Gesù Cristo. D’altra parte, se invece abbracciamo un malato, abbracciamo Cristo. San Francesco d’Assisi, all’inizio del suo cammino spirituale, abbraccia un lebbroso. Nella pedofilia si abusa di una persona che fa parte del Corpo di Cristo. Tanto più grave se lo fa un vescovo e se la vittima è un minore. Come dice Gesù, “è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare”. I poveri e i piccoli sono i più amati da Dio».
E parlare di «sacrilegio»?
«Un sacerdote, un vescovo, è chiamato a servire la vita. La pedofilia è un crimine opposto alla vocazione: distrugge la vita. Abbiamo conosciuto gli effetti a lungo termine che la pedofilia ha nelle sue vittime».
Ma un vescovo «dimesso dallo stato clericale» è ancora vescovo?
«Sì, perché il sacramento dell’ordinazione ha un carattere indelebile. Però non può più mettere in atto questo potere presbiterale. Gli è vietato fare il vescovo in pubblico, esercitare la sua dignità episcopale. Del resto un vescovo colpevole di un crimine così grave ha perso la sua credibilità, davanti ai fedeli».
Perché ci furono coperture?
«C’era chi guardava all’istituzione e diceva: bisogna proteggere l’immagine della Chiesa. Ma la Chiesa si protegge solo scegliendo il punto di vista delle vittime».
È un punto di non ritorno?
«Si possono sempre fare passi indietro, ma sarebbe un grande male. Bisogna proseguire. Non credo abbiamo altra scelta».

Repubblica 25.9.14
I pedofili in casa
di Joaquìn Navarro-Valls


LA NOTIZIA è clamorosa. L’ex nunzio apostolico nella Repubblica Dominicana Jozef Wesolowski, già dimesso dallo stato clericale nei mesi scorsi dalla Congregazione per la dottrina della fede per pedofilia, è stato arrestato martedì pomeriggio dalla magistratura civile del Vaticano, nell’ambito dell’inchiesta penale avviata a suo carico.
Si tratta di una azione penale importante. Sotto molti punti di vista. Il prelato, infatti, è stato sottoposto a provvedimento restrittivo a causa delle accuse tremende che gli sono state contestate. Aggravate oltretutto da alcune dichiarazioni che egli stesso ha rilasciato nell’estate dell’anno scorso nelle quali confessava pubblicamente di frequentare una spiaggia malfamata per l’adescamento a pagamento di minorenni.
CERTO , i fatti offrono prove, ma ancora più provata appare adesso la dura reazione della Santa Sede, la quale si è trovata legalmente attrezzata e moralmente pronta per gestire un reato così estremo e vergognoso contro la persona. In effetti, e i media lo hanno riportato ampiamente, la reazione di papa Francesco è stata inequivocabile e ferma, autorizzando l’ufficio inquirente a disporre provvisoriamente, per problemi documentati di salute, agli arresti domiciliari Wesolowski all’interno dello Stato della Città del Vaticano. In tal modo non solo l’imputato sarà processato a Roma, ma sarebbe possibile, eventualmente, una successiva estradizione.
Una notazione da tener presente è, quindi, che l’efficacia dell’intervento del Papa è stato possibile all’interno di una linea di rigore giuridico che da vent’anni, ossia da quando si è saputo dei primi abusi, la Chiesa ha mantenuto contro la pedofilia. Mi ricordo perfettamente con quanta rapida sollecitudine Giovanni Paolo II nel 2001 stabilì le norme che attribuivano proprio alla Congregazione per la dottrina della fede, guidata dall’allora cardinale Ratzinger, poteri speciali, tra cui l’incarico di indagare, valutare e sanzionare questi abusi gravissimi. Inol- tre, anche cambiando le norme del diritto canonico, Giovanni Paolo II concesse che per fare più rapido il corso della giustizia, la procedura poteva essere istruita per via amministrativa anziché seguendo antiche norme canoniche. Sebbene in molti frangenti non sempre tutti lo abbiano ricordato, a partire dal 2005 Benedetto XVI ha continuato su questa strada rigorista, finita nella famosa Lettera pastorale del 2010 ai cattolici d’Irlanda, ma emersa già cinque anni prima, nell’esclamazione durante la Via Crucis, poco prima di essere eletto Papa: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui!».
Oggi, dunque, è giustissimo apprezzare la decisione di papa Francesco, ben sapendo però che essa è la logica e coerente conseguenza di un’impostazione pienamente attuata e totalmente condivisa dai suoi predecessori.
È però interessante quando si parla di que- sti temi porsi alcune domande di carattere generale. La prima è se vi sia qualche altra istituzione internazionale, al di fuori della Chiesa, che abbia deciso di combattere la pedofilia, allo stesso modo e con la stessa linearità.
Sì, perché i dati più recenti — pur sempre insufficienti poiché la maggioranza degli abusi non è dichiarata — ci forniscono un quadro tutt’altro che rassicurante: una ragazza su tre ha subito, nei paesi sviluppati, abusi sessuali, e un ragazzo su cinque è stato oggetto di violenza. L’Fbi, nel suo Law enforcement bulletin, afferma che le aggressioni sessuali a minori sono uno dei crimini meno denunciati: soltanto tra l’uno e il dieci per cento, vengono a alla luce. La Cnn calcola che i bambini sessualmente molestati sono il 5 % della popolazione media. Un numero a dir poco agghiacciante. Secondo Diana Russell, il 90 % degli abusi sessuali avviene in famiglia e resta chiuso nell’omertà. L’Ufficio statistico del ministero di giustizia americano afferma che in quasi la metà di abusi su minori, il ragazzo o ragazza era figlio o figlia oppure famigliare del colpevole di abuso.
I medici sappiamo qualcosa di tutto questo. Ma sappiamo anche che il profilo di un pedofilo non include mai adulti normali che sono attratti eroticamente da minori come il risultato di una astinenza temporanea o protratta nel tempo. Quindi non emerge clinicamente nessun legame tra pedofilia e celibato.
Allora, è necessario cercare di vedere il problema in tutta la sua tremenda dimensione. La vera malattia non è la Chiesa, ma la pedofilia. Soprattutto perché essa esprime con brutalità e violenza un perversione che si annida tra le persone “comuni” ed anche — purtroppo — dietro le mura domestiche, ossia proprio laddove i bambini generalmente vivono. Non si tratta di condannare nessuno, ovviamente, ma di chiedersi semmai chi affronta veramente questi abusi spalmati nella società; e con quali strumenti culturali, legali e penali è possibile accertarli e poi punirli.
Se, infatti, è vero che la pedofilia è una piaga umana che anche la Chiesa sta conoscendo, è anche vero che la Chiesa stessa è l’unica realtà comunitaria e istituzionale che stia efficacemente intervenendo per estirparla sia penalmente, sia canonicamente e sia culturalmente.
Il resto, fa solo notizia. Certamente notizia giusta, però incompleta.