venerdì 26 settembre 2014

il Fatto 26.9.14
Il testimone Napolitano
La Corte d’Assise di Palermo ha deciso: il Capo dello Stato dovrà chiarire sugli “indicibili accordi” solo accennati dal suo consigliere Loris D’Ambrosio
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Il Pd Luciano Violante, oggi in corsa per uno scranno alla Consulta con la benedizione del Quirinale, l’aveva definita una trovata “originale” dei giudici di Palermo, ma ora la Corte d’Assise lo ha stabilito con chiarezza: la citazione del presidente della Repubblica, in qualità di testimone, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, non è “né superflua né irrilevante”, dunque “deve darsi corso alla testimonianza”. E Napolitano, con una nota diffusa dall’ufficio stampa del Colle, ha dato prova di grande aplomb istituzionale: “Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza – ha fatto sapere – secondo modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso”.
SI CHIUDE COSÌ una controversia politico-giudiziaria che per circa un anno ha tenuto col fiato sospeso la diplomazia del Quirinale e ha arroventato il processo che fa fibrillare il cuore delle istituzioni. Ieri mattina, alla riapertura del dibattimento dopo la pausa estiva, il presidente Alfredo Montalto ha respinto le istanze di alcuni difensori che chiedevano un ripensamento sul coinvolgimento diretto del capo dello Stato nel dibattimento, e ha annunciato che la Corte di Palermo è pronta alla trasferta sul Colle: Napolitano deporrà in un salone ovattato del Quirinale, in base all’articolo 502 del Codice di procedura penale, che disciplina i casi di testi impossibilitati a recarsi in udienza e che sono ascoltati a domicilio. Per questo motivo, nella sala che verrà adibita alla testimonianza, scatterà “l’esclusione della presenza, oltre che del pubblico, anche degli imputati e delle altre parti, che saranno rappresentate dai rispettivi difensori”.
“Prendiamo atto della decisione”, commenta il pm Nino Di Matteo, “d’altra parte noi avevamo già illustrato i motivi per i quali ritenevamo rilevante la testimonianza del capo dello Stato, e la Corte d’assise aveva già ammesso la prova”'. Prima delle vacanze estive, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi aveva ribadito l’istanza di sentire Napolitano, osservando che “la lettera inviata dal presidente alla Corte non può essere intesa come sostitutiva della sua testimonianza”.
L’ALLUSIONE è alla lettera spedita il 31 ottobre 2013 con la quale il capo dello Stato fece sapere che sarebbe stato “ben lieto di dare un utile contributo all’accertamento della verità processuale”, indipendentemente dalle riserve sulla costituzionalità dei suoi predecessori, “ove ne fosse in grado”. Nella missiva, praticamente, Napolitano faceva capire che non intendeva sottrarsi alla deposizione, ma nello stesso tempo raffreddava notevolmente le aspettative, esponendo quelli che definiva “i limiti delle sue reali conoscenze”.
Ieri, però, la Corte ha deciso che “il contenuto rappresentativo” di quella lettera “non è utilizzabile nel processo, in assenza di un accordo delle parti, accordo che nella fattispecie non è intervenuto”. Montalto ha poi concluso che anche se si volesse “prendere atto del diniego di conoscenze già espresso dal teste”, non è venuto meno “l’interesse della parte richiedente ad assumere la testimonianza, anche soltanto per acquisire la dichiarazione negativa di conoscenza”. Il capo dello Stato, in sostanza, deve deporre perchè “non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di interrogare un testimone su fatti rilevanti, solo perché quel testimone ha escluso di essere informato su quei fatti”.
A nulla sono valsi, insomma, i “limiti” preventivi posti dall’inquilino del Quirinale, che nei prossimi giorni sarà chiamato a rispondere su un tema ben preciso: le preoccupazioni che il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio riversò nella lettera a lui indirizzata il 18 giugno 2012, poco prima di morire stroncato da un infarto, alludendo a “indicibili accordi” che lo avrebbero visto agire come un “utile scriba”, tra l’89 e il ’93. L’ipotesi della procura di Palermo è che nel ‘93, quando lavorava con Liliana Ferraro all’Ufficio studi degli Affari Penali, D’Ambrosio potrebbe aver avuto un ruolo nelle manovre che portarono alla nomina di Francesco Di Maggio ai vertici del Dap, l’ufficio chiamato a gestire l’applicazione del 41 bis: una nomina ritenuta cruciale nell’ambito del dialogo tra i boss e le istituzioni.

Il Sole 26.9.14
Il riferimento a «indicibili accordi»
Gli interrogativi dei Pm sulla lettera di D'Ambrosio
di Nino Amadore


PALERMO Lo hanno detto e ridetto: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deve deporre al processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Perché loro, i pubblici ministeri che sostengono l'accusa in questo controverso processo (Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi) ritengono che il capo dello Stato debba chiarire alcuni aspetti. Sanno di doversi muovere in un ambito limitato. Non possono, per esempio, fare domanda alcuna sulle telefonate fatte dal consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio (morto d'infarto), al capo dello Stato nel momento in cui l'ex presidente del Senato Nicola Mancino, imputato in questo processo, chiedeva con insistenza un intervento sul coordinamento delle indagini sulla Trattativa.
Ma è pur sempre la vicenda che riguarda D'Ambrosio a interessare i pm palermitani: in particolare il contenuto della lettera che il consigliere giuridico del Quirinale ha inviato al capo dello Stato il 18 giugno del 2012, successivamente pubblicata per volontà dello stesso Giorgio Napolitano. C'è un passaggio che i magistrati palermitani vogliono approfondire: la frase in cui D'Ambrosio – turbato dalla pubblicazione sui giornali delle intercettazioni telefoniche dei suoi colloqui con Mancino, ricordando ciò che ha scritto su richiesta della sorella di Giovanni Falcone, Maria, a proposito del periodo 1989-1993, trascorso in servizio all'Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia – scrive: «Lei sa che non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi - di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». A quali indicibili accordi si riferisce D'Ambrosio? Forse alla Trattativa Stato-mafia? E il presidente della Repubblica è a conoscenza di queste ipotesi? Domande scontate cui Napolitano però ha già risposto nella lettera inviata al presidente della Seconda sezione della Corte d'assise Alfredo Montalto il 31 ottobre dell'anno scorso in cui scrive di non avere «alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di poter fare se davvero ne avessi da riferire». E nel successivo paragrafo della lettera il presidente ha poi spiegato: «L'essenziale è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto dal dottor D'Ambrosio qualsiasi ragguaglio e specificazione circa le "ipotesi" - "solo ipotesi" - da lui "enucleate" e il "vivo timore", cui il mio Consigliere ha fatto generico riferimento sempre nella drammatica lettera del 18 giugno. Né io avevo modo e motivo di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato».
Con l'ordinanza di ieri la Corte presieduta da Montalto ha «preso atto della richiesta formulata dal pubblico ministero nell'udienza del 17 luglio 2014, affinché si proceda all'esame testimoniale del presidente della Repubblica, già ammessa con ordinanza del 17 ottobre 2013, sciogliendo la riserva formulata nell'udienza del 28 novembre 2013». Per Montalto «non si può di certo escludere il diritto di ciascuna parte di chiamare e interrogare un testimone su fatti rilevanti per il processo sol perché quel testimone abbia in una precedente deposizione testimoniale, escluso di essere informato dei fatti medesimi».

Corriere 26.9.14
Un retrogusto amaro
La trattativa Stato-mafia
di Michele Ainis

qui


Repubblica 26.9.14
“Giustizia caotica ora stop alle caste” Il Quirinale chiede la riforma
di Umberto Rosso


ROMA La magistratura non sia «una casta chiusa», il Csm deve avere un ruolo «alto». E la riforma della giustizia «non è più rinviabile». bisogna mettere mano ad una «macchina giudiziaria lenta e caotica». Giorgio Napolitano “officia” al Quirinale il passaggio delle consegne fra Consiglio superiore della magistratura uscente ed entrante, fa un bilancio di quattro anni difficili e al tempo stesso traccia il “vademecum” per il nuovo plenum, finalmente al completo dopo il lungo stallo in Parlamento. La prima riunione, per eleggere il vicepresidente al posto di Michele Vietti, è convocata martedì a Palazzo dei Marescialli. Nel Salone degli Specchi del Colle, con a fianco i presidenti Grasso e Boldrini, il capo dello Stato però ammonisce subito: basta con il correntismo. L’organo di autogoverno della magistratura, nella sua componente togata «non è un assemblaggio di correnti». Per cui sono dannosi «gli estenuanti, impropri negoziati nella ricerca di compromessi e malsani bilanciamenti» fra le componenti. Piuttosto Napolitano a tutti i consiglieri, togati e laici, chiede di reagire ad ogni condizionamento, a cominciare dal pregiudizio di genere: largo alle donne allora, quelle che occupano ruoli di vertice «sono ancora una esigua minoranza» mentre al contrario è molto cresciuta «la partecipazione femminile al rinnovamento della magistratura». Quasi un viatico per una vicepresidenza “al femminile”.
Il Csm è un servizio da rendere alla collettività, il contrario di un modello che invece è «il rendersi acritici interpreti di posizioni di gruppi politici o di singoli esponenti politici, nonché di gruppi dell’associazionismo giudiziario o di singoli magistrati anche solo per ragioni di appartenenza o di “debito” elettorale». Il primo problema che il nuovo Csm si ritroverà sul tavolo è il persistente blocco nelle nomine in molti uffici giudiziari, incarichi da affidare avverte Napolitano sulla base di «accertate professionalità» e «senza dare all’opinione pubblica l’impressione di logiche spartitorie». Il cuore però resta la riforma della giustizia che non può tardare oltre. Napolitano è «certo» che anche il nuovo Csm «non mancherà di fornire preziose valutazioni, osservazioni e proposte in merito ai provvedimenti di riforma, da poco approvati dal governo e portati all’esame del Parlamento». In questo delicato passaggio il capo dello Stato pone le speranze di «restituire efficienza, efficacia ed economicità ad una macchina giudiziaria lenta e caotica, il cui funzionamento è largamente insoddisfacente».
E non è solo un problema di riforma della giustizia in senso stretto. Perché il corretto e spedito funzionamento del sistema giudiziario «appaiono vitali al fine di dare le certezze e le garanzie di cui ha indispensabile bisogno lo sviluppo dell'attività economica e dell'occupazione». Insomma, anche dall’efficienza e dalla trasparenza della macchina del tribunali passa «lo sviluppo di iniziative e progetti d'investimento da parte di operatori pubblici e privati, italiani e stranieri». E questo, conclude Giorgio Napolitano, «è ormai un nodo essenziale da sciogliere per ridare dinamismo e competitività all'economia italiana».

Repubblica 26.9.14
L’ira del Colle. E Renzi avverte le toghe: “Il Presidente è con me”
di Liana Milella


ROMA «In gioco c’è l’autonomia e il primato della politica. E Napolitano è d’accordo con me». Matteo Renzi da New York coglie al volo il pressing del Quirinale per la riforma della giustizia. Lo scontro con le toghe ormai è a 360 gradi. Del resto la convocazione del presidente della Repubblica come testimone nel processo Stato-Mafia, ha più che indispettito l’inquilino del Colle. Anche il premier è preoccupato ma ora sa di poter contare sul capo dello Stato anche su questo versante.
Pure l’umore delle toghe è plumbeo. ma per il motivo opposto. L’asse Napolitano-Renzi, mai evidente come ieri in tutta la sua forza, li consegna a una riforma scritta dal governo e che il Quirinale condivide e sollecita. «Napolitano - è il ragionamento del capo del governo - ha difeso la nostra linea, è evidente che ci sta dando una grande mano in un momento complicato. Noi dobbiamo andare avanti decisi, senza più esitazioni». Orlando, al Quirinale, si apparta con il capo dello Stato. Parlano della riforma della giustizia. Il presidente la caldeggia. Dicono che gli abbia detto: «Bisogna recuperare i tempi morti».
Di certo Napolitano è infastidito per come il tribunale di Palermo ha voluto inserirlo nell’inchiesta. Per la prima volta un capo dello Stato è chiamato a deporre. Pur avendo detto chiaro, e per iscritto, che non ha nulla da dire. Non esistono precedenti. Cossiga e Scalfaro avevano rifiutato di deporre in un processo. Per la prima volta nella storia del Quirinale. Quando, allora, la notizia della decisione dei giudici siciliani arriva cambia il corso della giornata.
La coincidenza è fatale. Poteva essere un giorno di festa per la magistratura sul Colle. È diventato quello dei musi lunghi. Per la seconda volta in pochi giorni, dopo l’altolà di Renzi in Parlamento sugli avvisi di garanzia «citofonati o inviati a mezzo stampa», è un giorno che cambia definitivamente la storia dei rapporti tra il Pd e le toghe. “Colpa” di Palermo, ovviamente. Tant’è che quando proprio il magistrato che ha mandato a processo l’inchiesta Stato-mafia, il gip Piergiorgio Morosini, divenuto nel frattempo togato del Csm per Magistratura democratica, si avvicina per giurare nelle mani del capo dello Stato, in platea corre più di un brivido. Il presidente lo guarda gelido, tutto dura un attimo. Morosini torna al suo posto. Ma risuonano le parole durissime di Napolitano sui magistrati, una «casta chiusa», protagonisti di una giustizia «lenta e caotica», dal «funzionamento insoddisfacente», toghe divise in correnti, perse «in estenuanti e impropri negoziati alla ricerca di compromessi e malsani bilanciamenti».
Non è Renzi che parla, ma è Napolitano. Eppure le sue parole sembrano proprio quelle del presidente del Consiglio. Ormai è noto che il feeling Pd-magistratura è un lontano ricordo. Il discorso di Napolitano lo certifica. A palazzo Chigi annuiscono soddisfatti, perché la sinto- nia col presidente è ormai consolidata. Dice Renzi: «L’autonomia e il primato della politica, non solo sui problemi della giustizia: questa è la partita più importante che stiamo giocando. Non possiamo perderla. È importante che un uomo con la storia di Napolitano sia dalla nostra parte».
Certo, non solo sulla giustizia, ma anche sullo scontro per l’articolo 18 e la riforma del lavoro, nonché sulle riforme costituzionali e sulla la legge elettorale, il Quirinale ha fatto asse con Renzi. «Perché se ne vuole andare presto» dice più di un maligno. Nel Pd piace pensare invece che ci sia una visione sintonica della politica, delle necessità urgenti del Paese, delle riforme da fare. Ecco cosa si può strappare al vice segretario del Pd Lorenzo Guerini: «L’invito ad accelerare sulle riforme significa che Napolitano condivide l’obiettivo di un cambiamento strutturale del Paese».
«Purtroppo saremo noi a farne le spese per primi» commentano i magistrati basiti sulle mailing list. Intendiamoci, Napolitano era stato duro anche altre volte. Ma adesso la sua determinazione è estrema. Nel suo staff giurano che il discorso per il Csm era già pronto quando il presidente ha appreso di essere stato convocato come teste. «Nessun cambiamento» assicurano. Ma questo, anziché attenuare l’effetto delle sue parole, lo centuplica. Perché Napolitano, con assoluta evidenza, sta nettamente dalla parte della riforma della giustizia.
Sanno bene, al Quirinale, come i famosi 10 punti approvati alla fine di agosto non sono giunti integralmente in Parlamento. Un ritardo le cui colpe, almeno a sentire Orlando e i suoi, non sono da addebitare alla Giustizia. Di mezzo ci stanno le resistenze degli alfaniani di Ncd che, come per l’autoriciclaggio e il falso in bilancio, hanno fatto pressioni per cambiare i testi. Ci sono i malumori del Mise della Guidi, le richieste del Mef di Padoan. Un mix che sta frenando la riforma. Per questo Napolitano spinge il governo a chiudere in fretta la partita. E Renzi a sua volta spinge sui suoi ministri. Lo sanno anche i magistrati che già cercano di correre ai ripari. «Ci batteremo punto su punto. Non possono pensare che ci faremo mettere sotto i piedi così». Ma stavolta, come accadeva ai tempi di Berlusconi, non c’è per loro la porta sempre aperta al Quirinale. Lì c’è una porta chiusa. E la convocazione al processo di Palermo ha sbarrato anche l’ultimo spiraglio.

Il Sole 24.9.14
Il peso di una coincidenza
di Stefano Folli


È certo una coincidenza, ma fa pensare. Nel giorno in cui Napolitano richiama la magistratura, attraverso il nuovo Csm, all'esigenza di non frenare la riforma che la riguarda, nelle stesse ore si viene a sapere che il capo dello Stato dovrà testimoniare nel processo di Palermo.
Si crea così una singolare sovrapposizione. Da un lato il presidente della Repubblica che parla nella sua veste istituzionale più autorevole, essendo egli - come è noto - anche presidente dell'organo di autogoverno della magistratura. Dall'altro, lo stesso Napolitano che viene chiamato a rispondere alle domande dei pubblici ministeri in un processo che riguarda un'ipotetica trattativa fra lo Stato e la mafia. Senza dubbio la decisione dei magistrati palermitani è del tutto lineare, visto che essi ritengono necessario ascoltare il capo dello Stato (al Quirinale e a porte chiuse) al solo fine di accertare i fatti.
Tuttavia questa scelta viene inevitabilmente interpretata da molte parti, anche alla luce di vecchie e aspre polemiche, come un ulteriore tentativo di minare il prestigio del presidente della Repubblica, suggerendo il sospetto che al vertice dello Stato ci sono segreti e misteri da tutelare. Non sarà così, ma il contrasto fra i due momenti della giornata di Napolitano è stridente. Non a caso oggi c'è chi considera l'annunciata testimonianza del presidente una vittoria o una rivincita del "partito delle procure", in passato sconfitto. Ma anche questo è un modo di strumentalizzare la vicenda.
È probabile che il quadro alla fine sarà meno drammatico. Il capo dello Stato ha già detto di non avere niente da dire ai magistrati, ma di essere pronto. Gli inquirenti hanno replicato che «contano le domande, non quello che il testimone crede di sapere». Tutto sommato l'impressione superficiale è di un evento, sì, senza precedenti (un presidente della Repubblica che testimonia in un procedimento penale), ma il cui esito sarà molto circoscritto e deludente per chi è affamato di colpi di scena clamorosi. Avrà evidenti risvolti mediatici e per qualche giorno ridarà smalto alle tesi dell'accusa. Ma nel merito pochi pensano che offrirà novità significative.
Resta la sensazione che si voglia comprimere o inquinare in qualche modo l'autorevolezza del capo dello Stato nel momento in cui il secondo settennato si avvia alla sua conclusione prematura, peraltro sempre adombrata dal diretto interessato. Per cui si torna alla curiosa coincidenza richiamata all'inizio.
Napolitano tiene molto alla riforma di una magistratura che non può più essere, sono parole sue, una «casta chiusa». I provvedimenti preparati dal governo sono stati presi piuttosto male dalle associazioni che rappresentano la categoria e difficilmente il discorso del presidente ieri al Csm ha migliorato le cose. Per quanto l'aspetto possa suscitare facili ironie, è vero che uno dei punti più contestati riguarda la riduzione dei giorni di ferie.
Si vedrà. Fin d'ora si capisce che la testimonianza del capo dello Stato non vale per quel poco che realmente egli potrà dire, bensì per i riflessi della notizia rilanciata dai giornali. In ogni caso anche lo scontro con Palermo appartiene al passato ed è difficile credere che ci sia qualcuno in grado di riaccendere la tensione con il Quirinale a quei livelli. Il problema è che le riforme in Italia hanno bisogno di un capo dello Stato forte e in grado di affiancare lo spirito innovativo del governo. E fra tutte le riforme promesse o annunciate, quella della giustizia è fra le più urgenti, ma anche fra le più suscettibili di infrangersi contro un muro.

il Fatto 26.9.14
Renzi, De Bortoli e l’odore di massoneria
di Stefano Feltri

qui

il Fatto 26.9.14
Il renziano Gentiloni ribatte al direttore De Bortoli:
“Illazioni e riferimenti minacciosi”

qui

il Fatto 26.9.14
De Bortoli o Matteo Renzi?
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, dopo l’inconsueto editoriale del direttore del Corriere della Sera a proposito di Renzi, mi aspettavo un fitto discutere su Renzi. Invece c'è stato solo (quasi dovunque) un fitto discutere su Ferruccio de Bortoli. Tipico, lo so. Ma non smetto mai di meravigliarmi.
Alex

CAPISCO CHE sia una buona strategia quella di Renzi di non parlarne. In questo modo non deve rispondere. È un po' come quando dice: “Discutiamo pure, ma intanto decido io”. Capisco Marchionne, che pur possedendo il 20 per cento del Corriere della Sera, afferma spiccio: “Io non lo leggo mai”. Corrisponde quasi alla lettera alle battute di Berlusconi sui consigli ricevuti da Margaret Thatcher: “Mai leggere i giornali che non ti lodano”. Alla fine Berlusconi rideva (come fa sempre con le sue battute) però è ancora lì, è il consulente e il garante di Renzi, e i due, a quanto pare, governeranno a lungo. Ma se c'è una tecnica molto efficace di resistenza da parte dei nostri due governanti, c'è anche una tecnica di “assist” da parte di molti colleghi giornalisti che, senza sbilanciamenti apparenti, danno una mano grandissima a chi non vuole notizie. Si fa così. Tu fai una domanda sul tumulto dentro il Pd e quando un Berlusconi o un Renzi ti risponde che “ci si ascolta, si decide e poi si va tutti insieme, perché ci sono delle cose che vanno fatte”, tu stai bene attento a non obiettare: “Ma se non si va tutti insieme?”. Domanda imbarazzante perché creerebbe il problema del come governare il partito, non il Paese (per il quale bastano centinaia di ore al giorno delle televisioni unite per dare l'impressione ai cittadini che Renzi sia il giudizio universale). Allora saltiamo la domanda e passiamo alla prossima. Quando lui dice che “il mercato del lavoro italiano è focalizzato sul passato e alla fine crea disoccupazione”, basta non chiedere da quando crea disoccupazione. Lo statuto dei lavoratori c'è da decenni, ma i disoccupati non c’erano prima di questa crisi. E quando Renzi proclama (purtroppo anche davanti a un’assemblea di membri del Council on Foreign Affairs, uno dei più autorevoli luoghi politici degli Stati Uniti) che “io voglio cambiare in modo radicale, rivoluzionario il mio Paese sconfiggendo la ‘vetocrazia’ dei sindacati e di tutti quelli che vanno in ufficio per stare al telefono o nei social network invece di lavorare”, l'affermazione non può che disorientare gli ospiti americani. Se infatti un presidente del Consiglio di un Paese che fino a poco fa è stato tra le prime potenze industriali del mondo, deve combattere una guerra senza quartiere a sindacati incoscienti e a dipendenti fannulloni di tutto il suo Paese, la situazione in Italia deve essere molto grave e difficilmente salvabile da un uomo solo, per quanto sia un grande comunicatore toscano. Mi accorgo di essere caduto nella trappola segnalata dal lettore: ho parlato di Renzi, non di De Bortoli. Come scrive l'autorevole Il Giornale di proprietà di uno dei due governanti, vuol dire che la stagione di De Bortoli alla testa del Corriere della Sera volge alla fine. Renzi e Berlusconi no.

il Fatto 26.9.14
Grembiulini sempre al potere I più forti sono quelli occulti
Palazzo Giustiniani, Piazza del Gesù, reduci della P2, P3 e P4
Guida pratica per orientarsi nell’universo dei burattinai: “Che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa”
di Giorgio Meletti


Il protocollo d’ingaggio è a menù fisso: “Hai bisogno di parlare con Mario? Non c’è problema, è un fratello”. L’Alberto Sordi di turno, che impaurito e speranzoso si è rivolto al potente o presunto tale, eviterà di indagare la sfumatura. Mario Monicelli ce l’ha raccontato nel 1977, mentre la loggia P2 di Licio Gelli muoveva passi occulti a nostra insaputa. In Un borghese piccolo piccolo, Sordi, cattolicissimo impiegato statale (che tenerezza, erano ancora borghesi), entra in una loggia massonica per agevolare l’assunzione del figlio.
È ANCORA COSÌ. Quando il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli denuncia che il patto del Nazareno emana uno “stantio odore di massoneria” sbaglia solo l’aggettivo. Sgradevole, non stantio. Perché la massoneria è una fenice immortale giunta solo a metà dei 500 anni che il mito assegna alla sua prima vita. È fresca, innaffiata ogni giorno dai fiotti di vigliaccheria che il metabolismo italiano, disturbato dalla crisi, produce.
Siamo circondati, ma la massoneria è proprio un’araba fenice. “Che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa”, aveva previsto Metastasio quasi 300 anni fa, e davvero ciascun lo dice, mica solo De Bortoli. Nel libro-intervista Confiteor Massimo Mucchetti chiede all’ex potente banchiere Cesare Geronzi: “E nella finanza ci sono molti fratelli? ”. E quello, inconsapevolmente, copia la battuta di Walter Chiari chiamato a enumerare i sarchia-poni: “Pullulano”. Luigi Bisignani, giovanissimo iscritto alla P2 (ma a sua insaputa, a quanto gli risulta), non ha dubbi: “Seguendo per l’Ansa le forze armate, avevo capito perfettamente che, come mi ha ribadito tante volte Cossiga, l’influenza della massoneria tra i militari era per tradizione fortissima”. Ed ecco l’andreottian - prodian - berlusconiano Lamberto Dini distillare la più celebre cattiveria di sempre (“In Banca d’Italia, i governatori che ho conosciuto – Menichella, Carli e Baffi – non erano certamente iscritti alla massoneria”), salvo poi precisare che solo una deprecabile dimenticanza aveva escluso Carlo Azeglio Ciampi dalla lista dei senza peccato. Mai fare i nomi, certo. Gianni Letta è massone? “Fantasie. Illusioni. Invidie”, scandisce Geronzi, salvo precisare che “chi fa il mestiere che ho fatto io riesce a spiegare tante cose soltanto come il risultato di solidarietà occulte e inconfessabili”. Vedremo poi dove sbagliano i dietrologi, ma su una cosa hanno ragione. Siamo circondati, e non è sempre un male. La massoneria è un servizio diffuso, come la rete dei tabaccai, le parrocchie, le fermate dell’autobus. Entri in un ministero e ti bastano poche ore per sapere qual è il massone a cui proporre solidarietà inconfessabili.
IL DECENTRAMENTO della strizzata d’occhio è efficiente. Chiunque può illudersi di essere nel cerchio magico, protetto da amicizie bioniche. Ecco il presidente della banca vaticana Ior Ettore Gotti Tedeschi intercettato a tavola con l’amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi, la sera del 23 maggio 2012. Consiglia all’amico di mettersi nelle mani di Ignazio Moncada, apparentemente solo presidente della Fata, una delle decine di società controllate da Orsi, quasi un suo dipendente. Ma guai a fidarsi delle apparenze, avverte l’astuto Gotti, andiamo al sodo, cioè all’occulto: “Non semplificarlo come agente segreto della Cia, o un massoncello qualsiasi, è veramente un grandissimo burattinaio”. Burattinaio, come Gelli. Moncada, ex agente segreto, forte dell’amicizia di Giuliano Amato e Giulio Tremonti, è considerato l’anti-Bisignani. Il trio Gotti - Orsi - Moncada fa sfracelli. Il primo viene fatto fuori dallo Ior la mattina dopo, Orsi va in prigione senza passare dal via, poi arriva Mauro Moretti alla Finmeccanica e caccia Moncada senza nemmeno chiedergli di che loggia è. Strike.
È che la vigliaccheria non consente disciplina, ed è qui che sbagliano i dietrologi: la massoneria è un casino, una specie di Pd, una nebulosa di conventicole dove tutti sono l’un contro l’altro armati a contendersi poltrone a appalti per i rispettivi clientes. Loggia vince, loggia perde. Ci sono la massoneria di palazzo Giustiniani e quella di piazza del Gesù, la P2 dei reduci, la P3, la P4 e le altre informali: la loggia mafiosa, quella delle cliniche, quella dei palazzinari e quella della magistratura, ordinaria e amministrativa.
C’È ANCHE un Grande Oriente Democratico, il cui gran maestro Gioele Magaldi rivela al giornalista di La7 Filippo Barone che sono tutti massoni, Mario Draghi e Ignazio Visco della Banca d’Italia, e Giorgio Napolitano e il presidente del Senato Piero Grasso, e vari pezzi grossi del ministero dell’Economia. Barone manda in onda, nessuno smentisce. E non perché massoni lo siano, ma perché in un gioco di specchi dove il tovagliolo del ristorante di lusso può valere più del grembiulino, tutti sono massoni e nessuno lo è. E poi ci sono quelli in pectore, in sonno, all’orecchio, sotto osservazione, amici di, o semplici ammiratori senza tessera, come il rutellian-ambientalista Ermete Rea-lacci. E dunque l’eroe dei nostri tempi è Carlo Malinconico, sottosegretario del governo Monti dopo una vita al vertice della burocrazia statale, uno degli uomini più potenti d’Italia se si guarda al potere vero anziché alle presenze ai talk show, costretto alle dimissioni perché si faceva pagare le vacanze dal costruttore. Piagnucola: “Mai avuto gonnellini e grembiulini. E questo la dice lunga su quello che mi è successo”. Parafrasando Pietro Nenni, c’è sempre una loggia più loggia che ti sloggia. E così anche Malinconico, di nome e di fatto, dopo decenni di naso tappato ha sentito l’odore stantio.

il Fatto 26.9.14
La Loggia più grande
Il gran maestro cita Rino Gaetano e giura: “Nazareno? Non c’entro”
di Gianni Barbacetto


Matteo Renzi massone? “Mah, noi si parla con tutti”, risponde Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia. “Però a me non risulta. Non mi arrogo di rappresentare tutti i massoni d’Italia, ma il Grande Oriente è comunque la comunione massonica più grande e posso dire che nei nostri elenchi Renzi non c’è”.
HANNO fatto rumore le due righe dell’editoriale in cui Ferruccio de Bortoli sul Corriere afferma che “il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria”. Bisi replica: “Dovete chiedere a chi l’ha scritto, che cosa vuol dire. Io non riesco a capirlo. Se fosse massone, lo saprei, no? Quando hanno cominciato a circolare certe voci, per esempio sul padre di Matteo, Tiziano Renzi, io sono andato a controllare: ma non risulta niente. Non è iscritto al Grande Oriente”.
Il patto del Nazareno evocato da De Bortoli ha tra i suoi protagonisti Denis Verdini, toscano come il fiorentino Renzi e come il senese Bisi. “Verdini massone: anche questa è una leggenda. A me non risulta. Non capisco perché in questo Paese le persone non possano avere rapporti con altri, senza passare per massoni. È vero, nella mia Toscana la massoneria è radicata e molto diffusa, ma da qui a dire che uno partecipa, o è iscritto, ce ne corre. Noi parliamo con tutti. Per esempio Ermete Realacci, deputato del Pd, ha partecipato alla nostra festa del 20 settembre in ricordo della breccia di Porta Pia. Ma non per questo è massone”. E Michael Ledeen, americano che conosce bene l’Italia (quella delle stragi nere e dei tentati golpe, quella del rapimento di Aldo Moro)? Conosce bene anche Matteo Renzi. “Non so se Ledeen faccia parte di qualche loggia americana, mi informerò. Ma non potete vedere massoni ovunque e complotti dappertutto”.
Il Gran Maestro Bisi sta attento a non schierare politicamente il Grande Oriente. “Non ti dico che cosa penso di Renzi e del suo governo. Il mio pensiero a proposito non interessa a nessuno e verrebbe certamente strumentalizzato. Noi abbiamo grande attenzione e rispetto per tutti. Il nostro contributo è sui grandi temi, come la fratellanza. Voi raccontate i massoni come dediti a cordate e affari, ma io mi emoziono quando vedo un giovane che arriva dal Costa Rica, diventato un nuovo italiano, che lavora con noi al Vascello, la sede del Grande Oriente a Roma. Mi commuovo quando vedo che la loggia Garibaldi organizza una donazione del sangue a cui hanno partecipato molti fratelli: e questa volta dico fratelli non in senso massonico, ma in senso umano, perché tutti gli uomini sono fratelli. Per questo ho citato, nella mia allocuzione a Rimini del 6 aprile 2014, un verso di Rino Gaetano: Chi nuota da solo affoga per tre. Ti piacciono i cantautori? ”.
NELLA SUA allocuzione, Bisi tira in ballo Rino Gaetano anche per difendere la massoneria dalle ricorrenti accuse di infiltrazioni mafiose: “Rino Gaetano era quel menestrello calabrese un po’ fuori dagli schemi e figlio di quella terra qualche volta citata a sproposito per legami, per presunti legami tra massoneria e ’ndrangheta. Basta identificare questa regione con la ’ndrangheta, e la Sicilia con la mafia, e la massoneria con la mafia. Basta identificare la Campania con la camorra, e la massoneria con la camorra. Ribelliamoci”.
Il 20 settembre, equinozio d’autunno, a essere citata è stata invece una concittadina del senese Bisi, Gianna Nannini, contradaiola dell’Oca: Tu ragazzo dell’Europa/ Tu non perdi mai la strada/ Tu ragazzo dell’Europa/ Porti in giro la fortuna/ Tu ragazzo dell’Europa/ Tu non pianti mai bandiera. Per concludere così: “Cittadini del mondo senza piantare mai bandiera, proprio noi che abbiamo tanti simboli da innalzare e di cui andare fieri. Noi, costruttori un tempo di Cattedrali, oggi siamo costruttori di una cittadinanza pluriculturale, noi siamo costruttori di armonia”.
E SE POI un giornalista come De Bortoli rovina l’armonia scrivendo dello “stantio odore di massoneria”? “Ma che devo replicare? ”, risponde il Gran Maestro, “che io sono profumato? A me, che sono giornalista, hanno insegnato che, quando si scrive, tanti aggettivi è meglio non metterli, ma non voglio fare la lezione al direttore del Corriere della Sera. Vuole dire che siamo vecchi, superati, non alla moda? Invece l’età media dei fratelli del Grande Oriente si è abbassata e alla festa del 20 settembre c’era una quantità impressionante di giovani. Comunque, lo ribadisco: noi non ci si occupa del patto del Nazareno”.

il Fatto 26.9.14
E l’english-maccaroni di Matteo imbarazza NY
di Wanda Marra


Accento italiano, strafalcioni e ritmo sostrano, Renzi si butta
Il linguista spiega: “Non si esprime come un nativo ma si fa capire”

Per favore cancellate la registrazione, il mio inglese è terribile. Togliete l’audio e mettete dei sottotitoli”. Così scherzava Matteo Renzi durante l’incontro al Council on Foreign Relations di New York. Dove mercoledì si è esibito in un’ora di discorso in inglese, rigorosamente a braccio. Costruzione all’italiana, gestualità forte ed esibita, battute su battute: per uno consapevole di non parlar bene una lingua straniera, il premier non è si è lasciato scoraggiare. Anzi. Tra ricerca della frase ad effetto e costruzioni arzigogolate anziché no, ha alzato il tiro della sfida. Pazienza, per gli strafalcioni. Pure eclatanti. Tipo “date” (che in inglese significherebbe appuntamento) per dire “dato”. Oppure “create a climate”. Tecnicamente “creare un clima”, nel senso di atmosferico, e non un’atmosfera, come voleva dire lui (e infatti poi, consapevole dell’errore, si è lanciato in una lunga perifrasi).
PERÒ, per prevenire critiche e attacchi, ha messo le mani avanti. D’altra parte, il suo inglese è talmente maccheronico che i video online sono diventati delle hit e le prese in giro si sprecano. Un sito - vice.com   - è arrivato a proporre la traduzione letterale di alcuni passaggi scelti: “Ma la sfida per il mio governo è amore il nostro futuro” (voleva dire “amore per il nostro futuro”). E subito di seguito: “Io sono prendere forma culo del mio futuro” (voleva dire “sono geloso del mio futuro”). Oppure quando dice “uno Stato di guerra ("werfar state"), invece di stato sociale (“che sarebbe “welfare state”). Ieri online impazzavano pure i video, in cui lui sbagliava le cifre: 90 43 al posto di 943. E poi, le pause, le ricerche dei vocaboli, i plurali al singolare. “Come si dice acciaio? Come si dice siderurgia? ”. E gli aggettivi italianizzati, tipo “simpli” intendendo “simple” (semplice). Ma non fa niente. La risposta ancora una volta l’ha data lui, visitando una scuola italiana a San Francisco: “I don’t speak English, I speak Globish” (“Non parlo inglese, parlo globale”, più o meno). A sentire le nuove tendenze della linguistica pare che abbia ragione. Enrico Grazzi, che insegna Lingua inglese all’Università di Roma Tre, spiega: “Usa l’inglese come lingua franca”. Ovvero? “Non è l’inglese di un parlante nativo. Ma va detto che ormai il numero di parlanti non nativi supera i nativi. Questo vuol dire che ciascuno porta dentro l’inglese la propria identità nazionale, la propria provenienza. La forma grammaticale è sostanzialmente corretta, il lessico è appropriato e articolato, il registro linguistico è adatto al contesto comunicativo”. Insomma, “non ci sono problemi tali da compromettere la comprensione del discorso”. Sembrerebbe che pure nell’eloquio inglese il premier rispecchi lo spirito dei tempi, rispettando il suo stile: approssimativo, magari, ma efficace. Da un presidente del Consiglio non sarebbe il caso di aspettarsi di più? Per esempio Monti o Letta davvero sembravano bilingue. “Ci sono stati premier che non erano in grado di parlare senza interpreti. Lui un’ora l’ha retta tutta”, dice Grazzi. E poi, “capita anche agli inglesi di fare errori nell’espressione orale”. Come agli italiani d’altronde. Ieri parlando all’Onu, lo stesso Renzi ha detto “palestiniani” invece di “palestinesi”. Cose che capitano. La filosofia è sempre la stessa: gettare il cuore oltre l’ostacolo e fare quel che si può con i mezzi che si hanno. Anche con l’inglese.
QUANDO venne Obama in Italia, durante la conferenza stampa il premier si limitò a fare un’introduzione in inglese e poi parlò in italiano. Evidentemente preferiva non esporsi allora. Però, in genere ci prova sempre. A Tunisi, durante il primo viaggio internazionale, lingua ufficiale il francese, come prima tappa si trovò in un caffè di Sidi bou Said a parlare con 5 ragazze protagoniste della primavera araba. Pochi minuti, in cui il concetto che voleva trasmettere era “insegnateci a fare la rivoluzione”. Quando gli sfuggiva il vocabolo si rifugiava in un ça va sans dire. Accanto a lui Graziano Delrio lo guardava un po’ ammirato un po’ perplesso. Commentò poi: “Lui è uno che si butta. Si butta in tutto”.

il Fatto 26.9.14
Bersani a Renzi: “Sintesi possibile”
Renzi al Wall street journal: "Se i sindacati sono contrari per me non è un problema"

qui

il Fatto 26.9.14
Jobs Act. Bersani vuole unità, pace Cgil-Fiom


Il calvario del dibattito interno al Pd sul Jobs Act segna una giornata di confronto a distanza. Dalla minoranza democratica si fa più forte la pressione per giungere a una soluzione unitaria. Vanno in questo senso le interviste, curiosamente speculari, di Gianni Cuperlo e del presidente piemontese Sergio Chiamparino il quale, da supporter renziano, chiede di ascoltare la minoranza (un segnale da tenere d’occhio proveniendo dalla coppia torinese Chiamparino-Fassino). “Se un segretario, come penso dovrebbe, vuole trovare una sintesi” sul Jobs Act, secondo me non solo è possibile, ma anche abbastanza agevole: basta volerlo”. Così si è espresso nel pomeriggio Pier Luigi Bersani, a nome di una minoranza che si sta dando molto da fare per raggiungere una mediazione. Cesare Damiano, ad esempio, si è detto disposto ad aumentare il periodo di prova anche oltre i tre anni. Sembra rispondere a questi tentativi il ministro Giuliano Poletti quando dice “non possiamo fare pasticci all’italiana, non ci si può fermare davanti ai tabù”. La direzione di lunedì è il luogo in cui si consumerà la spaccatura o la riappacificazione. Intanto si riappacificano Camusso e Landini che hanno deciso ieri di far sfilare insieme Cgil e Fiom il 25 ottobre. Potenza dell’articolo 18.

La Stampa 26.9.14
Sul lavoro Renzi chiude alla trattativa: “Basta compromessi”
di Carlo Bertini

qui

Corriere 26.9.14
Renzi
Gli sms a Landini, i silenzi con Camusso
di Maria Teresa Meli


Mai persuaso dalla concertazione, già da sindaco Renzi aveva rapporti tesi con le parti sociali Neanche con Bonanni è scattata la scintilla. Il feeling con la leader dei pensionati cgil Cantone ROMA Non era ancora presidente del Consiglio, anzi, non aveva nemmeno conquistato la segreteria del Partito democratico quando Matteo Renzi chiarì a modo suo, ossia senza troppi giri di parole, che per lui la concertazione poteva andare tranquillamente in soffitta.
Allora di mestiere faceva il sindaco di Firenze, ma aveva già avuto i suoi alterchi con le organizzazioni sindacali, che lo avevano ripagato a suon di scioperi. Il primo cittadino del capoluogo toscano non faceva mistero di «non credere alla rappresentatività dei sindacati» e di «ritenerli quanto più lontano possibile dalla mia generazione».
Arrivato al Nazareno non ha cambiato linea. Anzi. È stato il primo segretario del Pd a non incontrare i leader di Cgil, Cisl e Uil. Nessun trattamento di favore per Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Stesso identico comportamento a palazzo Chigi. E il linguaggio non si è di certo ammorbidito perché adesso riveste un ruolo istituzionale. È rimasto quello ruvido di sempre.
Però c’è da dire che il Renzi che non ama i sindacati «che negli ultimi anni si sono limitati solo a difendere chi è già garantito» qualche eccezione l’ha fatta. E la fa. Si prenda, per esempio, il caso di Maurizio Landini, con cui pure i rapporti in questo momento sono tutt’altro che buoni, causa articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Renzi lo ha incontrato a Firenze una prima volta. Era il periodo in cui il segretario del Pd aveva ingaggiato il suo braccio di ferro con Enrico Letta, mentre il capo dei metalmeccanici della Fiom era in pessimi rapporti con Camusso. Particolare, quest’ultimo, che, naturalmente, non dispiaceva affatto a Renzi che con la leader della più grande organizzazione sindacale non si è mai preso.
Con Landini, poi, in vista del Jobs act, il presidente del Consiglio ha continuato a scambiarsi sms. E i due si sono rivisti lo scorso agosto, questa volta a palazzo Chigi, per parlare della crisi della siderurgia italiana. Al premier il leader della Fiom piace, anche se culturalmente e politicamente sono distanti anni luce: «Ha un approccio pragmatico e non ideologico, al contrario della Camusso», ha confidato ai suoi collaboratori dopo averlo conosciuto meglio.
Un approccio, questo, che il presidente del Consiglio ha riscontrato anche in un’altra rappresentante del mondo sindacale, con cui, apparentemente, dovrebbe avere poco o niente a che spartire. Eppure è con lei che parla. Ed è sempre con lei che si scambia sms, non con Camusso. Si tratta della leader della Spi Cgil (i pensionati), la più potente organizzazione di quel sindacato: Carla Cantone.
Donna passionale e intelligente, in ottimi rapporti con Landini, conduce la sua battaglia senza sconti alla linea adottata dal premier sull’articolo 18, ma ad alcuni compagni della minoranza del Partito democratico ha confidato di non essere totalmente d’accordo con la linea adottata inizialmente da Camusso nei confronti del premier, perché rischiava di isolare la Cgil.
Cantone alle primarie aveva appoggiato Gianni Cuperlo e non Renzi, ma agli amici confida che, pur non perdonandogliene una quando si tratta di politica sindacale, a lei il presidente del Consiglio comunque sta «simpatico». Del resto, Cantone, che si occupa dei pensionati, è la stessa che poi insiste sulla necessità di «cambiare verso al sindacato» e di «cercare di aprirsi ai giovani».
Con Bonanni, invece, i rapporti sono pessimi. In genere gli esponenti del Pd che provenivano dalla Margherita avevano sempre avuto un canale preferenziale con i segretari della Cisl. Bonanni, probabilmente, si aspettava sarebbe andata così anche questa volta. Ma così non è stato. E più di una volta si è lamentato della noncuranza con cui Renzi trattava i sindacati. Per questa ragione, ora che ha deciso di abbandonare la sua organizzazione si guarda in giro in politica e ha in programma alcuni incontri: tra i primi esponenti del Pd che vorrebbe vedere c’è Enri co Let ta.

La Stampa 26.9.14
Tutta in salita la mediazione della minoranza Pd tra governo e Cgil
di Marcello Sorgi


Con Renzi negli Usa e la direzione del Pd alle porte, è ancora presto per dire se l’apertura di Susanna Camusso sulla riforma del lavoro servirà a dare alla vicenda uno sbocco diverso, e in qualche modo opposto, alla dura contrapposizione tra governo e sindacati che ha caratterizzato gli ultimi mesi. Camusso, come si ricorderà, al primo annuncio dell’intenzione di cancellare l’articolo 18, aveva reagito paragonando Renzi a Margaret Thatcher. Adesso dice: «Parliamone», e prefigura il terreno di una possibile intesa con il governo, ipotizzando uno scambio tra l’allungamento del periodo di contratto senza tutele (in cui i licenziamenti sarebbero sempre ammessi) e il salvataggio, seppure in un periodo in cui il rapporto di lavoro si è consolidato ed è diventato a tempi indeterminato, della garanzia della reintegra ad opera della magistratura.
Al di là delle possibilità, scarse a prima vista, che il premier possa accedere a un’impostazione del genere, la proposta di Camusso mette in risalto un aspetto della legislazione attuale, che la riforma tende a trasformare, e la Cgil al contrario a mantenere, costi quel che costi, perchè comporta uno spostamento di potere dal sindacato alle aziende e perchè tende a disintermediare il rapporto tra il singolo lavoratore e il datore di lavoro.
Attualmente, infatti, il sindacato tratta e cerca di arrivare a un accordo. Ma quando non ci riesce, diventa il volano di una serie di vertenze giudiziarie in cui tocca al giudice del lavoro imporre alle imprese nelle aule di giustizia ciò che si sono rifiutate di accettare sul terreno delle relazioni sindacali. Questo meccanismo ha portato alla reimmissione dei licenziati anche in casi molto controversi, in cui il comportamento dei lavoratori contro le aziende aveva assai poco di sindacale, ma la reintegra è avvenuta sulla base del riconoscimento del preteso contenuto discriminatorio dei licenziamenti. Ecco, con la riforma proposta da Renzi, tutto ciò diventerebbe più difficile, se non impossibile, e l’asse tra sindacati e magistratura del lavoro, che in molti casi ha chiaramente contenuti di solidarietà politica, finirebbe per interrompersi.
Tra i due veri avversari della partita - il governo e la Cgil - è in corso una mediazione ad opera della minoranza del Pd. Il grosso della quale, capeggiata da Bersani, spinge per un accordo nella direzione di lunedì su un documento unitario, che oltre a far apparire che Renzi alla fine su qualcosa ha dovuto mollare, renderebbe meno facile a Berlusconi e perfino al Ncd sostenere un compromesso avvenuto al vertice del Pd. Anche per questo, è difficile fare previsioni sull’esito della trattativa: perché non è affatto escluso che alla fine Renzi tiri per la sua strada.

Corriere 26.9.14
Lavoro, il premier esclude «compromessi»
La minoranza apre: non vogliamo rotture
di Monica Guerzoni


ROMA Quando Renzi afferma «se i sindacati sono contro per me non è un problema», ribadisce l’intenzione di schivare ogni mediazione. La riforma del lavoro è per lui un investimento «assoluto» e il premier non sembra disposto a cambiare di una virgola i suoi piani, per quanto dure e ostili siano le reazioni. «Rispetto tutte le idee, anche quelle dei sindacati — avverte dagli Stati Uniti il capo del governo — ma questo non è il momento del compromesso, è il momento del coraggio». Nessuna trattativa dunque. Né con la Cgil, che programma una manifestazione unitaria con la Fiom, il 25 ottobre a San Giovanni, né con la minoranza del Pd. Lunedì il segretario farà la sua proposta alla direzione del partito e dirà, in sostanza, che sull’articolo 18 le strade sono due soltanto: mantenere la possibilità di reintegro per i lavoratori licenziati, oppure eliminarla. E lui, come è noto, propende per la seconda. La relazione sarà votata e nessuno si aspetta sorprese: Renzi ha i numeri per costringere chi ha perso il congresso ad adeguarsi. I problemi potrebbero arrivare al Senato, dove 40 democratici hanno sottoscritto emendamenti in dissenso e dove la maggioranza ha solo sette voti di vantaggio.
«Noi una rottura non la vogliamo, ma andremo avanti fino in fondo — assicura Rosy Bindi —. Sul reintegro non si torna indietro». Bersani usa toni più concilianti, all’apparenza: «Se un segretario vuole trovare una sintesi, come penso dovrebbe, non solo secondo me è possibile, ma anche abbastanza agevole... Basta volerlo». Un modo per far capire quel che molti riformisti pensano e cioè che l’accordo non si trova per una precisa strategia del premier. Marcucci attacca: «Basta fare come vuole Bersani. Deciderà la direzione».
D’Attorre, per Area riformista, chiede che il premier incontri la minoranza e metta all’ordine del giorno anche la legge di stabilità: «Lavoriamo con determinazione a un accordo, per evitare un redde rationem in streaming». Ma il ministro Poletti sembra temere un accordo: «Non possiamo fare pasticci all’italiana. Non ci si può fermare davanti al tabù dell’articolo 18». Il governo porrà la fiducia? «Per ora questa discussione non si è aperta». Fra i 700 emendamenti delle opposizioni ce ne sono sette della minoranza pd: governo e Nazareno li hanno accolti come uno «strappo», anche se gli autori assicurano di averli scritti per favorire un’intesa. Per Cuperlo si può trovare una «soluzione unitaria e di buon senso» discutendo degli anni di prova del contratto a tutele crescenti, sempre che alla fine un lavoratore licenziato possa aspirare al reintegro. Civati ironizza: «Se la prova dura nove anni non arriva l’articolo 18, ma la pensione». Quanti voti ballano al Senato? «Tra i 10 e i 15, se Renzi tiene la posizione in modo ferreo». Mucchetti assicura che «l’orientamento della minoranza è collaborativo». Mineo prevede che lunedì Renzi infliggerà «un altro sbrego alla Costituzione» mettendo a tacere i gruppi. E Damiano non sembra ottimista: «Noi vogliamo l’accordo e siamo pronti a discutere di un periodo di prova anche più lungo di tre anni per il contratto a tutele crescenti. Però dal governo io non vedo aperture».

La Stampa 26.9.14
“Ma per aiutare i precari rischiamo tasse più alte”
Fassina: la delega così com’è non si può votare
intervista di Francesca Schianchi


Invita a «lasciare stare le roboanti definizioni», come «la foglia di fico o la vecchia guardia», perché «il guaio di questa discussione è che nessuno di questi signori vuole entrare nel merito», dice Stefano Fassina, deputato della minoranza Pd, e «questi signori» sta per i renziani che governano il partito e il merito da affrontare è quello di una legge, il Jobs act, che «aggrava la precarietà», non disbosca i contratti precari e non fa chiarezza sugli ammortizzatori sociali: tanto da spingerlo a paventare il rischio di tasse ancora più alte per le imprese. La legge sarà discussa lunedì in una Direzione del partito e sottoposta a votazione: poi però, raccomanda il premier-segretario Renzi, «si va avanti tutti insieme».
Se la maggioranza voterà a favore della delega, lei obbedirà e voterà la legge?
«Purtroppo nelle Direzioni del Pd da un po’ di tempo non si discute. La maggioranza è blindata, non è mai capitato che qualcuno di loro intervenisse con una sfumatura diversa dal segretario…».
Lei ha detto che le Direzioni servono ad acclamare in streaming il capo…
«Tendenzialmente è così: se si ripete questa scena possiamo pure lasciar stare. Per questo abbiamo chiesto al segretario di vederci prima per una discussione di merito sui punti che vanno migliorati».
Tipo?
«Non c’è nessun intervento certo di disboscamento dei contratti precari, la delega parla solo di una eventualità. E poi gli ammortizzatori sociali per i precari: la delega parla di risorse invariate, quindi quelle che oggi non bastano nemmeno andrebbero redistribuite su una platea molto più ampia».
Quante risorse ci vogliono per gli ammortizzatori sociali?
«Rispetto a tre milioni di disoccupati, se contiamo di coprire soltanto 500mila lavoratori disoccupati con 6-700 euro al mese per 12 mesi, sono oltre 4 miliardi l’anno. Il governo è sicuro di trovare questi miliardi aggiuntivi? Dove? Vorrei capire che carattere hanno questi ammortizzatori e se, come mi pare di capire, è previsto un aumento contributivo a carico del lavoratore e del datore di lavoro».
Cioè più tasse alle imprese? Perché?
«Perché oggi i contributi per gli ammortizzatori sociali sono pagati sia dal lavoratore che dall’azienda. Ricordo che in passato, quando Ichino era ancora nel Pd, la sua proposta che prevedeva ammortizzatori di natura assicurativa trovò la resistenza delle piccole imprese».
Detto questo, quindi, se resta così la delega lei la vota o no?
«Così com’è la delega è contraddittoria rispetto al mandato che noi del Pd abbiamo ricevuto perché aggrava la precarietà. Spero si possa discutere e migliorare: così com’è per me è insostenibile».
C’è una mediazione possibile sull’art. 18, tra l’idea di superarlo e la vostra proposta?
«Intanto vorrei capire la connessione tra l’eliminazione dell’art. 18 e la riduzione della precarietà».
Non esiste?
«Diciamo le cose come stanno: lo si vuole eliminare perché si vuole fare quello che raccomanda la Commissione europea: indebolire il residuo potere contrattuale dei lavoratori, ridurre le retribuzioni, continuare a svalutare il lavoro perché non si può più svalutare la moneta».
Fassina, ma lei si sente un conservatore?
«Mi sento uno che guarda in faccia la realtà. Il regime che si vuole introdurre attraverso la delega fa tornare la legislazione italiana al 1942. A proposito di chi innova e chi conserva...».

Repubblica 26.9.14
Gianni Cuperlo:
Matteo non ci dica prendere o lasciare a meno che non punti a cacciare il dissenso
Vogliamo innovare, noi non siamo i Flinstones
Si discuta la durata della prova, ma il reintegro è nella Costituzione
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «La politica non può promettere cose che non è in grado di mantenere, io sono per estendere e universalizzare le tutele ma servono le risorse per farlo». Gianni Cuperlo, leader della sinistra dem, fa una proposta di mediazione sul lavoro.
Cuperlo, lei è a capo del “partito della trattativa” su Jobs Act e articolo 18?
«Io cerco, con altri, una soluzione per unire il paese e fare una buona riforma. Oggi innovare vuol dire allargare le tutele, pensare i servizi per l’impiego come diritto di cittadinanza. Dare un sussidio vero ai disoccupati. Più che al partito della trattativa mi iscrivo a quello del cambiamento».
Ma per alcuni è da cavernicoli conservare l’articolo 18.
«Non siamo i Flintstones. Il lavoro non è solo un reddito, è dignità e libertà della persona».
Se Renzi va dritto tuttavia cosa fate?
«Andare diritto significa che il merito scompare? O che non si discutono assieme Jobs Act e legge di stabilità? Se vuoi tutelare un milione di persone con una indennità di 800 euro mensili, devi avere delle risorse certe e devi averle subito».
E soprattutto qualsiasi sia la decisione nella direzione di lunedì del Pd, è legittimo il dissenso in Parlamento?
«Il Parlamento discute e vota degli emendamenti. Io non voglio stravolgere l’impianto della riforma. Voglio che la riforma funzioni».
Vero che anche nella minoranza dem siete divisi perché c’è chi non vuole sentire parlare di picconare uno Statuto dei lavoratori peraltro già stato “toccato” dalla Fornero?
«Quando in gioco è la vita delle persone a me gli equilibri interni al Pd interessano davvero poco».
Ma su cosa si può trattare?
«Con la riforma Fornero l’articolo 18 è cambiato nella sostanza. E’ cresciuto il numero e il successo dei casi di conciliazione. Si è ridotto il ricorso al giudice. Discutiamo pure della durata della prova. Per me 3 anni non sono pochi, ma ne servono 4? Ragioniamo. Il punto è che alla fine della prova se escludi in via di principio l’opzione della reintegra si colpisce un principio che ha un fondamento costituzionale».
In direzione presenterete un documento alternativo a quello del segretario?
«Spero che il segretario presenti una relazione alternativa al prendere o lasciare. Un partito discute, la riforma si può migliorare, dal salario orario minimo per dare al lavoro sommerso e sfruttato una ragione per combattere a una buona legge sulla rappresentanza, per aiutare il sindacato a rinnovarsi».
Però uno scambio diritti-ammortizzatori per risarcire i lavoratori licenziati ingiustamente si può fare?
«Il cuore della crisi italiana non è la troppa rigidità nel licenziare. Siamo già adesso più flessibili di Germania, Svezia e Olanda. Oggi il giudice può stabilire l’indennizzo anche in caso di licenziamento disciplinare non giustificato. Stiamo attenti alle parole. Gli ammortizzatori sono un diritto. Che senso ha parlare di scambio? C’è un problema che si chiama disuguaglianza. Io non vesto i panni della conservazione ma quelli della sinistra».
Senta, non state tentando la rivincita rispetto al Congresso?
«Non c’è nessuna rivincita. Renzi ha guidato il Pd al 41%. E’ il capo del governo. Ma lui deve capire che da solo non ce la fa e che in casa non ha dei nemici. A meno che non pensi, e non voglio crederlo, che chi ha delle idee diverse dalle sue deve andarsene altrove».
L’opposizione interna dem non rischia di apparire ostaggio della cosiddetta “vecchia guardia” Bersani-D’Alema?
«Aspetti….telefono a Bersani e D’Alema e chiedo cosa devo rispondere!».

Repubblica 26.9.14
“Non faccio compromessi il 70% del Pd è con me” Renzi tira dritto sull’art. 18
La minoranza chiede un incontro prima della direzione Giallo su un colloquio tra premier e D’Alema a New York
di Francesco Bei


È il tempo del coraggio. Se non sarò capace di cambiare l’Italia, la mia carriera politica finirà
Ora non è il momento delle elezioni. Le prossime saranno nel 2018: questo è il mio traguardo

NEW YORK«Questo non è il momento del compromesso, è il tempo del coraggio». Nel suo duello a distanza con la minoranza Pd e con la Cgil, Matteo Renzi spara dalla costa atlantica un altro missile. Benché gli avversari interni cerchino in tutti i modi di arrivare a quello che il bersaniano Alfredo D’Attorre definisce «un esito unitario» della direzione di lunedì, al momento non è questa la priorità del premier. Anzi, più gli chiedono di mitigare il Job’s Act, più Renzi tiene la corda tesa al massimo. Come ha fatto ieri in una sventagliata di interviste ai media americani, da Bloomberg tv al Wall Street Journal .
«Io rispetto tutte le idee, rispetto le idee del sindacato, compromesso non è una parola cattiva ma in questo caso – ha ripetuto il premier - il compromesso non è la strada». In una giornata centrata sull’intervento all’assemblea generale dell’Onu il cordone ombelicale con Roma è mantenuto da una serie di sms scambiati con Lorenzo Guerini, che tiene i contatti con gli oppositori. Ma nulla sembra cambiato nella strategia del capo del governo, deciso a portare a casa un risultato che ormai vede a portata di mano. «Mi dispiace io non arretro – spiega ai suoi – non posso, soprattutto adesso». Anzi, le polemiche e le resistenze che vengono dall’Italia gli fanno anche gioco, mostrando agli osservatori stranieri che la riforma del lavoro in preparazione non è la solita operazione cosmetica ma assomiglia a quella «radicale rivoluzione» che ancora ieri ha promesso davanti alle telecamere di Bloomberg: «Se non sarò capace di cambiare l'Italia allora non potrò continuare la mia carriera politica». Le parole di pace quindi per il momento non sortiscono effetto. Nemmeno l’uscita di Pier Luigi Bersani. «Se vuole trovare una sintesi, come penso dovrebbe, non solo secondo me è possibile ma anche abbastanza agevole: basta volerlo», ha detto ieri l’ex segretario del Pd. Il fatto è che Renzi non ha interesse a una «sintesi» che annacqui la legge delega. «La loro proposta di compromesso – dicono i renziani – è uguale alla loro proposta di partenza. Rinvia solo nel tempo la reintegra e non cambia nulla». Dunque Renzi va avanti con la linea dura, consapevole di avere con sé «il 70 per cento della direzione e del partito».
La minoranza, nonostante le minacce del referendum e la possibilità di far andare sotto il governo, è del resto ancora alla ricerca di una via d’uscita dall’angolo nel quale il premier l’ha costretta. D’Attorre ieri ha chiesto un incontro con Renzi «o un suo delegato» prima di lunedì per scongiurare una rottura. E a New York si è diffusa la voce di un misterioso faccia a faccia che ci sarebbe stato due giorni fa tra lo stesso presidente del Consiglio e Massimo D’Alema in un corridoio dell’hotel Sheraton, dove si svolgeva l’annuale convegno organizzato dalla fondazione Clinton. Incontro ufficialmente smentito dagli staff, ma che invece sarebbe servito a mettere in chiaro l’intenzione di non retrocedere sui contenuti del Job’s Act. Un concetto ribadito anche al Wall Street Journal : «Il mio impegno è chiaro: realizzare le riforme indipendentemente dalle reazioni. La riforma del mercato del lavoro è una priorità in Italia e se i sindacati sono contrari, per me non è un problema». Dopo il discorso al palazzo di vetro, incentrato sulle crisi internazionali e infarcito di citazioni di Giorgio La Pira, Niccolò Machiavelli, Dag Hammarskjold, l’ultima giornata newyorkese del premier (ha visto anche David Milliband e il sindaco Bill De Blasio) si è conclusa con una serata a cena da Antonio Monda, un’istituzione della vita culturale e mondana di Manhattan, con ospiti vip come De Niro, Scorsese e Philip Roth. Tutti a mangiare il pane fatto in casa dalla moglie giamaicana di Monda, Jackie.

il Fatto 26.9.14
Tiziano Renzi indagato, “altre imprese hanno subito condanne”
“Delle dieci società fondate, possedute o amministrate da Tiziano Renzi a partire dal 1985, tre hanno subito condanne da parte dei vari tribunali"

qui

il Fatto 26.9.14
Berlusconi, il condannato tratta con i sindacati di polizia a nome di Renzi
"Il premier mi ha autorizzato a dirvi che è disponibile a incontrarvi a patto che voi rinunciate allo sciopero che avete annunciato"

qui

il Fatto 26.9.14
Quel volo di addestramento in attesa del ministro
La missione del Falcon 50 partito da Ciampino la sera del 5 settembre per Genova era chiara: accompagnare a casa Roberto Pinotti
Nel documento del 31esimo Stormo c’è scritto che l’aereo non poteva decollare prima dell’arrivo dell’Airbus con la ministra
di Marco Lillo


Non era un volo di addestramento come un altro quello che ha portato a casa il ministro Roberta Pinotti la sera del 5 settembre. Il Falcon 50 del 31° stormo dell’Aeronautica Militare in volo da Ciampino a Genova quella sera non sarebbe potuto partire senza il ministro della difesa a bordo.
ERA QUESTA la missione del volo oggetto di un’interrogazione parlamentare dei deputati del M5S Alessandro Di Battista e Luca Frusone pubblicata ieri dal nostro giornale. Come risulta da un documento che Il Fatto pubblica oggi, il Falcon 50 se ne stava a Ciampino fermo sulla piazzola come un taxi che attende il passeggero. Lo dimostra “la nota del giorno delle missioni assegnate al 306 ° Gruppo TS” pubblicata in alto a destra. Questo documento riporta il piano dei voli assegnato agli equipaggi del 306° gruppo di stanza a Ciampino in quella serata di settembre. Come si legge chiaramente nella nota sul volo “F50 by Sma”, cioé “Falcon 50 dello Stato Maggiore Aeronautica” la missione del volo Iam 3122 era chiara: “Decollo successivo all’atterraggio del volo Iam 9002 - Equipaggio in tuta da volo”. Il Falcon 50 decollato con un solo passeggero civile, Roberta Pinotti, quindi aveva un orario di partenza teorico alle 19,30 ora Utc, le 21,30 ora italiana. Tutto però era sospeso in attesa del ministro della difesa. La presenza dell’unico passeggero civile del volo Iam 3122, con a bordo 5 membri dell’equipaggio e due passeggeri militari, condizionava il piano di volo. Secondo la versione ufficiale fornita ieri al Fatto dalla ministra Pinotti, il volo sarebbe stato destinato a una missione di addestramento organizzata a prescindere. Il ministro avrebbe solo approfittato di un passaggio senza far spendere soldi ai contribuenti.
LA VERSIONE del ministro cozza con la nota del giorno del 31° stormo e lascia sospese alcune domande. Il regolamento ammette la presenza di civili su un volo di addestramento? E poi: se ci fosse stato bisogno di far rientrare il Falcon a Ciampino con urgenza per una missione umanitaria o sanitaria, cosa sarebbe accaduto? Il comandante avrebbe finito la sua missione ‘politica’ alla faccia di quella umanitaria? A leggere la nota del giorno la priorità non era istruire i piloti al volo notturno ma portare a casa il ‘soldato Pinotti’. Se si legge il piano interno delle missioni del 5 settembre è più chiaro quello che è accaduto quella sera: l’Aeronautica ha fatto un favore a Pinotti. E non si tratta di un caso isolato. Al Fatto risulta che gli aerei del 31° stormo hanno trasportato altri personaggi vip (talvolta generali e talvolta politici) usando lo stratagemma dei voli di addestramento. I piloti devono raggiungere un certo numero di ore di volo ogni anno per mantenere le loro abilitazioni. Questa esigenza effettiva diventa un ‘tesoretto’ di ore utilizzabile come un jolly per far contenti i potenti. L’effetto è uno stravolgimento delle regole. Roberto Calderoli e Michela Brambilla sono stati indagati quando erano ministri (e poi salvato dal diniego dell’autorizzazione a procedere da parte del parlamento) perché hanno dichiarato esigenze istituzionali inesistenti secondo i magistrati pur di ottenere un volo di Stato. Il metodo Pinotti, usato anche da altri, rappresenta un aggiramento delle norme dei voli di Stato. Con la scusa dell’addestramento, sono i vertici dell’Aeronautica a decidere quando far decollare il Falcon 50 da Ciampino. La Presidenza del Consiglio non può autorizzare un volo di Stato per far tornare a casa un ministro più velocemente. Mentre i vertici dell’Aeronautica e del 31° stormo possono far salire a bordo il medesimo ministro senza pubblicare poi il rendiconto sul sito della Presidenza. Il Fatto ha chiesto all’Aeronautica di conoscere quanti voli di addestramento sono stati organizzati negli ultimi due anni dal 31esimo stormo con a bordo passeggeri, sia civili che militari. A dire il vero l’indagine amministrativa su un possibile abuso dovrebbe disporla il ministro della Difesa. Ma Roberta Pinotti preferisce salire a bordo degli aerei del 31° stormo invece di controllarli.

il Fatto 26.9.14
Riforma scuola, Giannini: "Proteste?
Reazioni di resistenza al cambiamento"

qui

Corriere 26.9.14
La Cassazione: attenuanti anche per lo stupro
«Neanche il rapporto completo può escluderle, serve una valutazione globale»
Don Albanesi: sentenza assurda
di Virginia Piccolillo


ROMA Aveva abusato della moglie più volte. Ma da ubriaco, aveva fatto notare chiedendo le attenuanti. Il Tribunale di Vicenza prima e la Corte di Appello di Venezia poi gliele avevano negate, perché quei rapporti violenti erano stati completi. Ma la terza sezione penale della Cassazione ha accolto il suo ricorso e la sentenza di Appello si rifarà. Sull’ala di un sillogismo giuridico: «Così come l’assenza di un rapporto sessuale “completo” non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità».
Don Vinicio Albanesi, che accoglie le donne abusate nella comunità di Capodarco, si dice «sgomento»: «È una sentenza assurda e ingiusta. Casomai meritava le aggravanti perché la responsabilità è doppia: è violento, ed era ubriaco. Per chi guida e uccide una persona è un’aggravante perché per lo stupro no?». «Tecnicamente non so — aggiunge don Vinicio — ma c’è una giustizia sostanziale che non può essere dimenticata dietro i cavilli. Cosa che è pure già avvenuta, in un momento in cui le violenze aumentano perché la crisi ha fatto risorgere uno spirito primitivo: il valore della vita si è abbassato e prevale l’uso della forza».
Arriva a parlare di «istigazione a delinquere» la presidente del Telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri: «Stiamo sminuendo l’importanza di un delitto così efferato come lo stupro che sembra quasi un’istigazione a delinquere. E questo avviene in un momento particolarmente grave e violento per le donne, dove quasi ogni giorno c’è una donna uccisa. Nel disinteresse della politica». Un muro che la sentenza è riuscita, per un giorno, a infrangere. «Attenuanti? Per stupratori urge la castrazione chimica» ha tuonato il leghista Roberto Calderoli. «Sentenza che indigna», ha aggiunto la ncd, Barbara Saltamartini. «Che possa esistere una “minore gravità” nel caso di una violenza sessuale è semplicemente inaccettabile», argomenta la vicepresidente pd del Senato, Valeria Fedeli che parla di «uso alquanto distorto del diritto, che come nelle peggiori sentenze del passato si dimostra ancora oggi sempre debole quando si tratta di tutelare la libertà di una donna».
Ma come arrivano i giudici della terza sezione penale ad accogliere il ricorso del violentatore ubriaco? Innanzitutto la Corte spiega che la sentenza non viene annullata in toto, ma solo nella parte che analizza la “ravvisabilità dell’ipotesi attenuata». Poi chiarisce che la «tipologia» dell’atto non è un elemento «dirimente». È la «qualità dell’ atto compiuto», si dice nella sentenza, «più che la quantità di violenza fisica esercitata» a dire quanto siano stati gravi quegli stupri. E invece da parte dei giudici di appello sarebbe «mancata ogni valutazione globale» sugli abusi. A partire dal fatto che erano compiuti sotto l’effetto dell’alcol.
La Corte di appello di Venezia aveva fatto riferimento, per negare l’attenuante, «ai plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di determinazione della donna». Per la Cassazione, invece, è necessaria «una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima», perché i giudici non possono limitarsi a «descrivere il fatto contestato, necessariamente comprensivo di violenza senza tuttavia analizzarne, come necessario, gli effetti».
Il marito violentatore era stato condannato il 7 ottobre del 2013 anche per maltrattamenti in famiglia. Per quello, almeno, non si dovrà discutere se ci siano le attenuanti-paradosso di qualche bicchiere in più.

Corriere 26.9.14
Bongiorno: si colpevolizza la vittima
intervista di Giusi Fasano


Avvocato Giulia Bongiorno, la Cassazione...
«Ha detto che si può parlare di minor gravità anche per una violenza completa, lo so».
E che cosa ne pensa?
«Che questa sentenza rischia di mettere sul banco degli imputati la vittima».
In che senso?
«Nel senso che se nemmeno uno stupro, un autore e una modalità precisa servono a escludere l’attenuante perché si dice che ci possono essere altre circostanze da valutare, allora qualcuno mi deve spiegare quali possono essere queste “altre circostanze” se non quelle che riguardano il comportamento della donna».
Sta dicendo che è una sentenza sessista?
«Non dico che è sessista ma che rischia di mandarci in quella direzione focalizzando l’attenzione sulla vittima. Ho già sentito troppe volte giustificazioni tipo: è disinibita, ha avuto molti amanti... Lei era la compagna dell’accusato. Non vorrei che, proprio perché siamo davanti a un rapporto di coppia, passasse l’idea del possesso e della gravità attenuata».
I giudici dicono che per il solo fatto che il rapporto violento è stato completo non si può escludere l’attenuante.
«E io non sono d’accordo. Diamo un senso alle parole: stiamo parlando di violenza e di penetrazione. E restituiamo un senso anche alle sanzioni. Qui non si discute se è stato lui o no. Faccio la penalista e sono dell’idea che se non hai certezze devi regalare le garanzie. Ma esauriti tutti i dubbi, come in questo caso, le sanzioni devono essere adeguate, senza se e senza ma».

il Fatto 26.9.14Sapienza: oggi il voto
Oro ai baroni, disagi agli studenti
Lezioni nei tendoni. File di 130 minuti
E il figlio di Frati viene sistemato in zona Cesarini: grazie a un finanziamento allargato ad hoc
di Carlo Di Foggia


La calca si ammassa fin oltre le porte d’alluminio. “Ahò, ma che è? Manco fosse Vasco Rossi”. E invece è una lezione di Diritto commerciale nell’Ateneo più grande d'Europa. Le elezioni per il nuovo rettore, che oggi avranno un primo responso sono un’eco lontana. Il benvenuto agli studenti avviene tra pareti di plastica e tetti di tela che riverberano la voce microfonata del docente “e quando piove non senti nulla”. I posti a sedere non bastano: 500 mila euro per due tensostrutture nel polmone verde della città universitaria perché Giurisprudenza non ha abbastanza aule. O meglio, le avrà. “Al massimo fra due anni” assicurò Luigi Frati, due anni fa.
La ground zero degli atenei italiani
Il regno del Magnifico è giunto al termine: 20 anni da preside di Medicina, 10 da prorettore e rettore. Oltre un lustro di inchieste, scandali e parentopoli, una moglie e due figli piazzati a “casa sua”, divisa in tre facoltà, due finite ai fedeli Eugenio Gaudio – il candidato favorito per la successione – e Adriano Redler, ex assessore e consigliere regionale, candidato alle ultime Europee per Forza Italia. Tutto “mentre l'università affrontava tagli e accorpamenti”. Risultato? Il ritorno in attivo: da meno 60 milioni a più 8,5. “Sapienza è la groundzerodell'universitàitaliana: grandi potenzialità e un ottimo corpo docente convivono con disservizi, corporativismi, clientele: colpa di una gestione verticistica”, raccontano voci interne all'amministrazione. È il segnale che un’era finisce davvero, e si scontrano - come altrove-duemondi: quelloGelmini-Frati, delleuniversità-feudi, e quello “collegiale” auspicato da molti. La sfida che attende il successore è enorme: disinnescare la bomba Policlinico e rilanciare un ateneo che in 10 anni ha perso 40 mila iscritti ed è tornato in attivo pensionando i docenti. “Ci crede che Economia – spiega un membro del cda che chiede l’anonimato – ha ospitato Federico Caffè, laureato Mario Draghi e due premi Nobel, ma subisce un salasso verso la Luiss, che è distante anni luce? ”.
Giurisprudenza è un cantiere aperto dal 1992. Il “sarcofago”, come viene chiamata la soprelevazione, tra rinvii, varianti d'opera, costi decuplicati, inchieste e un operaio morto ancora attende l'inaugurazione. Ponteggi e gru disegnano un panorama che ha accolto generazioni di studenti. “Siamo più di 1.300 e non abbiamo l'Aula magna, chiusa per i lavori”, raccontano all'ingresso: “Abbiamo fatto lezione ovunque”. I lavori tengono in ostaggio anche l'adiacente Scienze politiche. Appena entrati, un odore di muffa arriva alle narici. “Quando hanno riaperto – spiega Teresa, studentessa di Relazioni internazionali – era insopportabile. I lavori hanno causato infiltrazioni” e indica un angolo dove la vernice è scrostata. L'ultima promessa è di Frati: “La messa in sicurezza è finita, si passa ai lavori per le aule”. Tradotto: avanti con le tensostrutture. “Nelle ex Poste, a San Lorenzo era anche peggio”, ricorda un veterano: “Quelli di Medicina del Sant'Andrea con i tendoni ci convivono da anni”. Cinquanta metri più in là c'è il “ballatoio”, le segreterie amministrative. Anche qui, la calca: ci sono le richieste di laurea. Giurisprudenza ha un solo sportello aperto e la coda parte dieci metri fuori. A Scienze politiche si prende un numerino, sul monitor campeggia la scritta: “Aspettare in sala d'attesa”. Intorno non ci sono sedie, molti sono seduti per terra. A Ingegneria il pannello indica l’attesa: “130 minuti”. “Sto qui dalle nove e ora chiude”, si lamenta uno studente mentre l'amico mostra un biglietto con il numero 215 (il contatore segna 71). La lista dei disagi è lunga. “I docenti non vengono perché hanno il loro studio - spiega Federica, Giurisprudenza - mandano gli assistenti”. Una figura illegale: assegnisti costretti a fare da sostituti. “Il punto dolente sono stage e tirocini - continua Teresa - devi cavartela da sola”. Lettere, dopo aver quadruplicato facoltà e corsi (spesa: un miliardo) è tornata un corpo solo: “Ma si fa lezione in 400 in aule da 80”.
“La Magnifica oligarchia”
“Frati ha creato una oligarchia, perfino tra gli studenti, ma ha anche tagliato sprechi e inefficienze, e premiato il merito. A volte a modo suo”, racconta chi lo conosce bene. Un esempio? In questi giorni il Senato accademico ha assegnato alcuni fondi di ricerca. Il budget è stato incrementato di 315mila euro per portare da 30 a 40 i progetti finanziabili, il quarantesimo è quello di Giacomo Frati, figlio del rettore e ordinario nella facoltà del padre. “Come fai a votare no? È comunque un incremento”, spiega un membro del Senato. Vero. La ricerca è l’unico settore non falcidiato. “Peccato siano briciole”, spiegano da Fisica. Mercoledì scorso, alcuni tra i 150 ricercatori in scadenza hanno protestato sotto la Minerva. “Esodati” dopo molta didattica a “costo zero”, pagata con fondi esterni: hanno sostituito i professori “ma non è servito a nulla”.
Nell'era Frati, chi ha preso fondi da fuori ha ottenuto incarichi e potere. È successo con i 20 milioni di euro dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova, un carrozzone pubblico guidato da Roberto Cingolani, ordinario di Fisica con ottime entrature politiche (è stato consulente di Raffaele Fitto). Soldi per un progetto, manco a dirlo, di area medica, ma affidati al fisico Giancarlo Ruocco, divenuto prorettore fidato di Frati, ora acerrimo nemico del magnifico e tra i candidati alla successione. Ma la lista è lunga. Il latinista Alessandro Schiesaro, per dire, fidatissimo numero due di Mariastella Gelmini, nel 2011 è diventato direttore della neonata “Scuola d’eccellenza”: 16 studenti e 30 milioni di euro concessi dal Miur di cui era capo segreteria tecnica. “Uno schiaffo alla crisi”, commentarono i sindacati. “È un oggetto misterioso”, spiegano oggi fonti interne all'amministrazione. “Di sicuro - accusano dal collettivo Link - hanno speso 3 milioni per dare un alloggio a viale regina Elena a 16 studenti”. Per gli altri ci sono gli studentati.

Repubblica 26.9.14
Così Francesco intende combattere “quei crimini enormi” un fenomeno globale che ha pesato sull’ultimo conclave
Quattro vescovi sotto inchiesta e 5.000 sacerdoti denunciati la piaga che affligge la Chiesa
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO Lo scandalo della pedofilia nel clero ha contorni globali. E numeri che parlano di quattro presuli indagati per un totale di circa 1800 denunce. Gli abusi sessuali hanno coinvolto le comunità ecclesiali di tutto il mondo e hanno colpito duramente l’immagine e il prestigio di esponenti di spicco della gerarchia, anche cardinali, spesso accusati, se non direttamente, almeno di non aver contrastato con efficacia gli stessi abusi, insomma di avere insabbiato.
Emblematico il caso dell’ex nunzio presso la Repubblica Dominicana Jozef Wesolowski, arrestato due giorni fa per diretta volontà di Francesco, un caso che porta oggi le indagini del Vaticano su altri Paesi dove lo stesso arcivescovo è stato nunzio. Ma significativa è anche la vicenda del cardinale polacco Kazimierz Nycz, chiamato a testimoniare a un processo di pedofilia. O quella dello scozzese Keith O’Brien, che per le accuse di aver molestato giovani seminaristi non poté partecipare allo scorso conclave. E, ancora, dei due presuli indagati dall’ex Sant’Uffizio, il cileno Marco Antonio Órdenes, cui il Vaticano ha proibito di esercitare le funzioni, e il peruviano Gabino Miranda Melgarejo. I numeri sul fenomeno non lasciano spazio a dubbi: il picco delle denunce di abusi ricevuti dalla Congregazione per la dottrina della fede è stato nel 2004, con 800 denunce, mentre negli ultimi tre anni ci si è attestati sui 600 casi all’anno, che in maggioranza riguardano abusi commessi dal 1965 al 1985, come ha spiegato don Robert Oliver, da meno di un anno promotore di giustizia della Congregazione. Denunce di tipo «canonico», perché poi esistono anche le denunce presso l’autorità giudiziaria.
Gli abusi sui bambini da parte dei prelati hanno rappresentato un vero e proprio “tornado” fin dall’inizio del pontificato di Benedetto XVI, sconvolgendo intere Chiese nazionali, in particolare negli Stati Uniti, ma anche in Irlanda, Olanda, Germania. Rivelazioni da parte di uomini della Chiesa cattolica, soprattutto negli Stati Uniti, erano partite già prima dell’arrivo di Ratzinger nell’aprile del 2005 al soglio pontificio, ma è negli anni successivi che lo scandalo si è allargato anche in America Latina e in Europa, soprattutto in Irlanda, dove sono emersi i crimini commessi da sacerdoti troppo spesso coperti dalla gerarchia.
Le denunce delle vittime sono state sempre più frequenti, aiutate da associazioni, sostenute da avvocati che spesso hanno chiesto risarcimenti milionari, in particolare negli Stati Uniti. E gli attacchi da parte della stampa di tutto il mondo sono stati all’ordine del giorno. Una pressione sempre più forte, tanto che nell’ottobre del 2006 Benedetto XVI reagì parlando degli abusi sessuali commessi dal clero come di «crimini enormi», raccomandando di «stabilire sempre la verità» e di «portare sostegno alle vittime». Inoltre, nel 2008 nel corso del suo viaggio negli Stati Uniti, Ratzinger aveva deciso di incontrare personalmente alcune vittime, chiedendo loro scusa a nome della Chiesa. Al- trettanto accadde nei suoi viaggi in Australia, Malta, Regno Unito e Germania, come hanno raccontato gli stessi protagonisti piangendo per l’emozione.
Il giro di vite impresso da Benedetto XVI si è tradotto anche, a livello di Congregazione per la Dottrina della fede, in processi canonici che hanno portato, nel biennio 2011-2012, alla riduzione allo stato laicale di 400 sacerdoti accusati di molestie a minori.
E lo scandalo pedofilia ha pesato anche sull’ultimo conclave: oltre al caso del porporato O’Brien, lo Snap, la rete americana dei sopravvissuti agli abusi dei preti, aveva stilato una lista di dodici cardinali da non eleggere «per rispetto alle vittime di abusi sessuali, soprattutto bambini, da parte di esponenti del clero, per le omissioni che hanno fatto nel denunciare i responsabili e per le giustificazioni che hanno dato nonostante le prove documentate». Ora tutta la vicenda pedofilia passerà al vaglio della Commissione voluta da Bergoglio, creata con lo scopo primario della protezione dei minori. Ma il principio da seguire l’ha indicato con chiarezza Papa Francesco: «tolleranza zero».

Il Sole 26.9.14
La collana del Sole sui gesuiti
Il filo diretto da Ignazio a Francesco
di Carlo Marroni


C'è un filo diretto che lega Ignazio a Francesco. I due giganti della storia della Chiesa, creatori degli ordini religiosi più forti e radicati, hanno calcato a trecento anni di distanza l'uno dall'altro gli stessi vicoli della Città Vecchia di Gerusalemme, là dove tutto è iniziato. Il viaggio del 1523 in Terra Santa del giovane spagnolo, che pochi anni dopo avrebbe fondato la Compagnia di Gesù, segna profondamente la sua vita, ed è ricca di forti legami con il Poverello d'Assisi, anche se poi saranno proprio i frati a costringerlo a ripartire. Francescani e gesuiti, quindi, una sintesi di come la Chiesa nel mondo tuttora cerca di declinare la sua missione, e che Jorge Mario Bergoglio, il gesuita argentino che si è fatto francescano e che con pastorale paterna e mano dura di governo sta realizzando una rivoluzione che solo due anni fa era inimmaginabile.
Ma per capire davvero a fondo da dove il Papa venuto dalla fine del mondo trae questa forza è necessario tornare all'origine, cercare di capire a quali energie hanno attinto nei secoli i seguaci di Ignazio per arrivare ai quattro angoli della terra, dalle isole sperdute del Sud asiatico alle foreste amazzoniche.
La ricca collana a cura di Michela Catto "La Compagnia di Gesù", che Il Sole 24 Ore pubblicherà a partire da domani, è un percorso nella storia, che parte proprio da Ignazio e si snoda su molti dei principali protagonisti della vita della compagnia, alcuni dei quali hanno segnato profondamente le vicende del mondo, come padre Matteo Ricci nei rapporti con la sconosciuta Cina. Missionari e studiosi, soldati del papa e difensori dei deboli: la storia della Compagnia è segnata da profonde fratture e da contraddizioni, da terribili persecuzioni perpetrate durante l'Inquisizione spagnola, ma anche subite, quando furono massacrati nelle reducciones. Per arrivare al tempo della controversa teologia della liberazione e "dell'opzione preferenziale per i poveri", movimento teologico sviluppatosi in Americana Latina negli anni 70 e osteggiato in ogni modo da Giovanni Paolo II, e che vide la Compagnia del tempo, guidata da padre Pedro Arrupe, appoggiare molte esperienze sul campo, posizione questa non sempre condivisa dall''allora padre Bergoglio specie sui coinvolgimenti politici dei sacerdoti. Ma i tempi cambiano, o oggi quella "opzione" è tornata in testa all'agenda pastorale del papa gesuita, che prendendo il nome di Francesco sta ridettando la grammatica pastorale. La storia della Societas Iesu è la storia del mondo a cui guarda il papa delle periferie esistenziali, in questo profondamente diverso dal suo predecessore (che pure con le sue dimissioni ha innescato la rivoluzione) concentrato su un programma "occidentale" ispirato alla lotta al relativismo.
L'elezione di Bergoglio al Sacro Soglio non deve tuttavia far dimenticare altri grandi gesuiti che hanno fatto storia, come il cardinale Carlo Maria Martini, simbolo indelebile di coraggio della Milano degli anni di piombo e nel tempo straordinario innovatore sui controversi terreni della bioetica. Esattamente duecento anni fa la Compagnia veniva ricostituita per decisione del papa Pio VII, dopo circa quarant'anni: era stata infatti soppressa su pressione dei sovrani borbonici nel 1773 da Clemente XIV, un papa francescano.
Disse Bergoglio due giorni dopo l'elezione: «Mi hanno chiesto perché mi ho scelto questo nome, Francesco. Perché vorrei una chiesa povera per i poveri». Eppoi, ridendo: «C'era anche la proposta di chiamarmi Clemente XV, così mi hanno detto che potevo vendicarmi del papa che aveva soppresso i gesuiti!».

La Stampa 26.9.14
L’allarme di Save the Children:
“1,4 milioni di bambini in condizioni di povertà assoluta in Italia”
L’aumento su scala nazionale è di 400 mila unità in un anno. Numeri allarmanti in tutto il Paese, con punte nel Mezzogiorno

qui

Corriere 26.9.14
Gli arrabbiati ungheresi di Jobbik
«Eredi di Attila» contro gay e rom
di Paolo Valentino


BUDAPEST Quando i Karpathia intonano «Justice for Hungary», punta di lancia del loro rock nazionalista, il popolo di Jobbik è in delirio. Nulla entusiasma i giovani arrabbiati dell’estrema destra ungherese più della mistica della nazione negletta, vittima di tutte le ingiustizie della Storia e oggetto di ogni cospirazione globale, fosse ebraica, capitalista, euro-germanica, perfino omosessuale.
«Cari discendenti di Attila», ama arringare i suoi seguaci il giovane leader, Gabor Vona, invocando per la razza magiara una dubbia discendenza iranica dagli Unni e più indietro dai Sumeri. Ma dietro le anticaglie della retorica, comprensive di croci frecciate e manuali sciamanici, karaoke nazionalisti, folklore e milizie in uniforme, Jobbik sa muoversi anche nella modernità: usa i social network, impazza su Facebook dove Vona ha oltre 300 mila likes, ha siti d’informazione come Kuruc Info e Alfahir , cura un circuito culturale e artistico nelle università, molto popolare tra professori e studenti.
Soprattutto, Jobbik è ormai radicato nel panorama politico danubiano. Votato da 1 ungherese su 5 alle elezioni d’aprile, è il più forte partito dell’ultradestra nell’Europa centrale e orientale. Con un paradosso: invece di essere indebolito dalla direzione autoritaria, nazionalista e antieuropea data al Paese dal premier Viktor Orbán, che con una maggioranza dei due terzi in Parlamento ha fatto del suo Fidesz un partito-Stato, Jobbik continua a rafforzarsi e condiziona da destra il governo.
Spiega Tamas Gaspar-Miclos, professore di filosofia politica e coscienza critica della nazione: «Jobbik parla all’Ungheria profonda: è contro il consenso europeo, si identifica con i perdenti della Seconda guerra mondiale, vorrebbe ridar vita alla Grande Ungheria precedente al Trattato del Trianon del 1920, è antioccidentale, antisemita anche se i suoi dirigenti sono bravi a mimetizzarsi, ma in primo luogo è antirom, quasi 1 milione di persone, contro i quali incita alla violenza e offre soluzioni inquietanti come la deportazione».
Non è, almeno a prima vista, l’impressione che si riceve dialogando con Marton Gyongyosi, numero due del gruppo parlamentare di Jobbik, persona affabile ed elegante. «Noi siamo combattenti per la libertà, in Ungheria abbiamo sempre resistito alle aggressioni, anche quando eravamo senza speranza. Ieri era l’Urss, oggi è l’Ue, centralizzata, burocratica, corrotta, che vorrebbe dirci come dobbiamo vivere. La buona notizia è che in Europa non siamo più i soli a dirlo. Certo se la direzione è questa, all’Ungheria non resterà che andarsene». E i vostri legami con i gruppi violenti, la Guardia Magiara per esempio, che nel 2011 occupò militarmente un villaggio di rom? «Nessuno ha mai dimostrato che la Guardia Magiara compì un solo atto violento». Però i giudici l’hanno sciolta. «Giustizia politica». E l’antisemitismo? «Critichiamo Israele per il genocidio dei palestinesi a Gaza, per questo ci accusano di essere antisemiti». Ma voi avete accusato in passato gli ebrei di volersi comprare l’Ungheria. «Lo disse Shimon Peres a un gruppo di investitori. Abbiamo solo chiesto un’indagine su quelle affermazioni». E i rom? «Noi vorremmo integrarli, ma non possono più vivere a spese dei nostri contribuenti. Anche perché hanno un tasso di natalità altissimo, mentre quello ungherese è molto basso».
Gyongyosi è l’ambasciatore di Jobbik presso l’ultradestra dell’Europa di mezzo e dell’Est. Ma in questo ruolo ha vita difficile, nonostante l’ambizione di fare del partito il cuore di un’alleanza «dall’Adriatico al Baltico».
Solo con i polacchi di Ruch Narodowy, il movimento nazionale guidato da Robert Winnicki, che considera l’omosessualità una «piaga», odia gli ebrei, denuncia la cabala degli interessi occidentali e dispone di un braccio armato, Gyongyosi ha una parvenza di dialogo, scandito da contatti e visite. Ma qui, il pomo della discordia è la Russia, odiata dai nazionalisti polacchi in ogni sua espressione politica. Jobbik invece, ecco un altro paradosso, intrattiene ottimi rapporti con l’estrema destra moscovita. Di più, come il governo di Orbán, difende Vladimir Putin nella vicenda ucraina ed è schierato contro le sanzioni a Mosca.
Poco Gyongyosi ha ottenuto nella vicina Slovacchia, dove Slovenska Pospolitost, guidata da un leader ventenne, Hromoslav Skrabak, teorizza «metodi umanitari» per ridurre la fertilità dei rom e sogna di creare una unione pan-slavica «depurata» da ogni contaminazione etnica. Ancora meno a Bucarest. In Croazia, interlocutore di Jobbik è l’Hsp, il Partito Croato della Destra, che denuncia la svendita del Paese al neo-capitalismo liberale straniero. Difficili anche se attivi i rapporti con i nazionalisti bulgari del Vmro, inesistenti quelli con Ataka, il più estremista dei partiti di Sofia. «La difficoltà di tessere un filo comune dimostra che in Europa centrale e orientale, l’orizzonte dell’estrema destra è talmente nazionalista da impedire collegamenti internazionali significativi, sul modello di quanto avviene nell’Europa occidentale», spiega Anton Pelinka, docente di questioni nazionali alla Central European University di Budapest. «Le faccio un esempio, quando Jobbik parla del ritorno alla Grande Ungheria è uno schiaffo in faccia a slovacchi e rumeni, perché quella comprendeva pezzi di territorio che oggi appartengono a Slovacchia e Romania». La discriminante, secondo Pelinka, è che a Occidente la destra vince «cavalcando l’immigrazione, la paura dell’Islam, usando addirittura accenti moderni, come la difesa dei diritti delle donne contro l’oscurantismo musulmano e ha messo la sordina all’antisemitismo». Mentre negli ex Paesi comunisti l’estrema destra è ferma ai primi del Novecento, «nazionalista, antisemita, antirom, amante delle vecchie teorie cospirative».
Ma l’ossimoro di un nazionalismo internazionale non è ragione per sottovalutare il ruolo di Jobbik: «Il suo successo può servire da modello per le forze di altri Paesi, Vona sta riuscendo a dare un’immagine più presentabile al partito, anche se rimane estremo e pericoloso. Muove la conversazione nazionale verso posizioni gravi, in tema di memoria, stranieri, protezionismo, costringendo il governo a rincorrerlo», dice Peter Kreko, direttore di Political Capital.
A proposito di rincorsa, nel centro di Budapest, questa estate, Viktor Orbán ha fatto erigere in una notte un brutto monumento «alle vittime» dell’occupazione nazista del 1944. Un’aquila minacciosa e ferrigna aggredisce un arcangelo Gabriele, la nazione magiara innocente. Ricostruzione quanto meno revisionista, lodata da Jobbik: furono le Croci Frecciate, il partito fascista ungherese all’epoca al governo, a farsi volenteroso carnefice di Hitler, organizzando l’uccisione o la deportazione ad Auschwitz di oltre 400 mila ebrei. Una sfilza di vecchie scarpe, in ricordo di quelle che i fascisti magiari facevano togliere agli ebrei prima di gettarli nel Danubio, è stata depositata davanti al memoriale. Qualcuno, in Ungheria, vuole ancora ricordare come andò veramente.

il Fatto 26.9.14
Isis, premier iracheno: “Attacchi imminenti a metropolitane di New York e Parigi”
"L’anti-occidentalismo di oggi ha radici nel colonialismo di ieri ed è una reazione al razzismo" dice il presidente iraniano parlando all’Onu
I jihadisti “hanno un’unica ideologia, che è la violenza e l’estremismo e hanno un unico obiettivo, ossia la distruzione della civiltà. Sono stupito che questo gruppo di assassini chiamino sé stessi ‘islamici’”

qui
 

Repubblica 26.9.14
La centralità dell’Iran convitato di pietra
di Renzo Guolo


IL CONVITATO di pietra batte un colpo. Alle Nazioni Unite il presidente Rohani rivendica all’Iran un ruolo decisivo nella lotta allo Stato Islamico e al “terrorismo globalizzato che minaccia la civiltà”.
Certo, l’Iran non fa parte formalmente della coalizione messa in piedi da Obama. Non potrebbe essere altrimenti. A Teheran un rapporto troppo stretto con quello che per i conservatori religiosi e la destra radicale è ancora il Grande Satana viene escluso. E in un’oligarchia di fazioni come la Repubblica Islamica, dove i centri di potere sono molti e danno forma al “sistema”, alcuni veti non sono facili da superare.
Ma l’Iran è già, di fatto, parte essenziale dello schieramento che combatte le milizie di Al Baghdadi. Anzi, è stato il primo a fornire quegli stivali sul terreno che Obama non può e non vuole inviare. Gli iraniani hanno mobilitato gli Hezbollah libanesi impedendo che lo Stato Islamico conquistasse Damasco e, giungendo sino a Beirut, si affacciasse sul Mediterraneo. Hanno fornito per primi armi ai curdi consentendo loro di resistere dopo la caduta di Mosul. Hanno organizzato le milizie sciite che hanno preso il posto del caotico e inaffidabile esercito regolare iracheno nella difesa di Baghdad e delle città sante alidi. Hanno contribuito a liberare i turcomanni dalla sacca in cui li avevano chiusi i muhajidin dell’Is, rompendo l’assedio di Amerli con le unità speciali Al Qods dei Pasdaran. Senza l’intervento iraniano e dei suoi alleati del Partito di Dio, il Califfato si estenderebbe ben oltre i già vasti confini attuali.
Nelle cancellerie occidentali si è preso atto che senza Iran non è possibile vincere la guerra contro lo Stato Islamico. Non è un caso che Cameron, rompendo l’embargo ideologico contro l’antico Stato-canaglia e incontrando Rohani nel primo colloquio ad alto livello tra Regno Unito e Iran dopo il 1979, abbia detto che va data a Teheran la possibilità di dare il suo “contributo” nella lotta all’Is. Uno sdoganamento importante, sicuramente avallato da Washington. Anche se Rohani, dalla tribuna del Palazzo di Vetro, non ha mancato di ricordare le responsabilità di quanti hanno favorito, con le loro scelte politiche, l’incendio jihadista. Accusa non troppo velata agli Stati Uniti e all’Arabia Saudita. Richiamo che tiene conto anche dell’opposizione interna.
Naturalmente il coinvolgimento dell’Iran ha un prezzo: il suo pieno riconoscimento come influente potenza regionale, al quale si oppongono in primo luogo i sauditi, oltre che Israele. Uno scenario che potrebbe mutare presto. Se, come auspica la Casa Bianca, si giungesse a un’intesa con Teheran sul nucleare, anche i sauditi, il cui regime rischia di essere delegittimato dal successo del Califfato, dovrebbero attenuare l’ostilità nei confronti di quelli che continuano a chiamare sprezzantemente “safavidi”. Anche perché Rohani, insieme ai riformisti e ai tecnoconservatori di Rafsanjani, e favorevole a una normalizzazione dei rapporti con Ryad che metta fine alla lunga guerra per procura che i due paesi hanno combattuto sin dagli anni Ottanta. Molto più di quanto si pensi la politica estera iraniana è realista e persegue obiettivi di interesse nazionale. L’ostilità religiosa tra sciiti e sunniti non verrebbe superata, ma perderebbe la sua, devastante, dimensione politica, depotenziando i conflitti alimentati dallo scontro delle due “potenze confessionali”. Nel contrasto allo Stato Islamico, l’Iran può, dunque, ritrovare quella centralità che il lungo conflitto con americani e sauditi gli ha precluso.

il Fatto 26.9.14
Ohio, polizia uccide giovane nero in centro commerciale: aveva preso un fucile-giocattolo dallo scaffale
Scagionato l'agente che ha fatto fuoco

qui e qui

Corriere 26.9.14
Battaglia contro la corruzione
Cina, per i corrotti divieto di suicidio «Vi puniremo anche da morti»
La grande epurazione di Xi: indagati 182 mila membri del partito comunista
Un editoriale feroce invoca: «La morte non dev’essere una via di scampo»
di Guido Santevecchi

qui

Il Sole 26.9.14
Riforme a un punto critico
In bilico a Pechino il governatore della Banca centrale
di Rita Fatiguso


PECHINO Quale migliore occasione dell'incombente Golden week, la festa della Repubblica popolare cinese, per chiudere in pace un regolamento di conti ai massimi livelli del potere? Sarebbe il timing perfetto per mandare in pensione il governatore della People's bank of China, Zhou Xiaochuan, il prudente traghettatore della Cina nei mari aperti del capitalismo globale, sempre più ostacolato da correnti interne ben più conservatrici. Zhou è il nume tutelare dello Stato cinese che ha parlato di fluttuazione libera dei tassi nell'arco dei prossimi due-tre anni e che sta tarando l'economia sullo stampo di quella capitalista. Ma qualsiasi decisione abbia in cantiere il presidente Xi Jinping, grande estimatore di Zhou, è lo stesso processo di riforme finanziarie a essere arrivato a un punto critico.
Delle tante novità messe in cantiere la maggior parte è ai primi passi, con veti incrociati da parte di diversi centri di potere, mentre l'economia rallenta e le misure di stimolo di aprile non bastano a invertire la rotta. Gli indicatori macroeconomici tendono al variabile, quei 500 miliardi di yuan che la scorsa settimana sarebbero finiti nelle casse delle principali banche cinesi non riusciranno ad alimentare in tempi rapidi investimenti per l'economia reale. Le banche cinesi, intanto, continuano a non far credito, chi ha un debito pensa a pagare le rate. Lo shadow banking rallenta, ma a passo relativamente ridotto, dal 35 al 25% , i prezzi delle case crollano, il costo del lavoro va a due cifre. In queste condizioni nessuno vuol rischiare e il timore di ulteriori effetti indesiderati resta alto. Tutte le forme di liberalizzazione tanto attese restano sulla carta, dalla liberalizzazione del renminbi alle nuove Opa, al ponte tra le borse Shanghai e Hong Kong, alla Pilot free trade zone di Pudong.
Mentre il Quarto Plenum si avvicina, il destino del governatore Zhou sembra più incerto, potrebbe essere il capro espiatorio per frenare un processo di riforme dagli esiti incerti e dare spazio all'ala destra del Partito che preferisce non rischiare. Un partito nel partito capace magari di mettere sul piatto misure di stimolo più pesanti ma anche più pericolose per il debito pubblico che cresce sempre più rapidamente rispetto al Pil.
Nella ridda di voci sui papabili al posto di Zhou ieri è spuntata la questione delle transazioni fasulle, quelle che hanno gonfiato le cifre dell'import-export negli ultimi mesi: proprio ieri la Safe, massima autorità in tema di valuta estera e braccio armato della stessa People's bank ha fatto sapere che 10 miliardi di yuan di transazioni si sono rivelate completamente fittizie. È la prima volta che le autorità dichiarano che realmente si sono verificate operazioni fraudolente per far uscire denaro dal Paese e alterare la bilancia dei pagamenti.

La Stampa 26.9.14
Quando la mafia massacrava i sindacalisti
Un libro ricostruisce le stragi in Sicilia (1944-48) in cui morirono quasi quaranta persone
di Flavia Amabile


Dovrebbero fare tutti come Antonella Azoti. All’indomani della strage di Capaci andò come tanti sul luogo della strage. Ma non le bastò lasciare un fiore o scrivere un biglietto come facevano tutti. Prese il microfono e urlò: «La mafia non uccide solo adesso, ha ucciso anche mio padre, Nicolò Azoti, il 21 dicembre 1946, e prima e dopo di lui ha assassinato tanti altri sindacalisti che lottavano insieme ai contadini per la libertà e la democrazia in Sicilia».
Fu come squarciare un primo velo su una realtà che nessuno più ricordava, la strage dei sindacalisti agricoli siciliani sterminati dalla mafia tra il 1944 e il 1948. Se la vita di Placido Rizzotto è stata raccontata al cinema e in tv, tutti gli altri sono stati rimossi. Sono quaranta-cinquanta persone uccise. Non si sa con precisione nemmeno il numero, figurarsi il resto. Per la prima volta un libro prova a ricostruire quello che accadde. Si intitola La strage ignorata ed è stato realizzato dalla Fondazione Argentina Altobelli e dalla Fondazione di studi storici Filippo Turati. Verrà presentato oggi in Senato.
Siamo nel pieno della Seconda guerra mondiale quando inizia questa pagina di storia che in pochi conoscono. La Sicilia viene liberata nell’estate del 1943, nel resto d’Italia si combatte, stanno per essere compiute le stragi più efferate, Marzabotto, Civitella in Chianti, le Fosse Ardeatine a Roma. Ma c’è anche un governo che prova a dare il via alle prime riforme come la legge Gullo che riconosce ai contadini riuniti in cooperative il diritto di ottenere in concessione le terre incolte e mal coltivate degli agrari. Per i contadini dovrebbe essere il momento della riscossa, in realtà inizia una dura stagione di lotte che in Sicilia acquista un carattere particolare. Come sottolinea Michelangelo Ingrassia, coordinatore del Comitato Scientifico della Fondazione Altobelli, nell’isola i nemici sono due, «il padronato agrario che negava i diritti sociali» e «la mafia che negava i diritti individuali».
Le terre siciliane sono ancora nelle mani dei grandi proprietari. «Nel 1946 – racconta il giornalista Dino Paternostro – la proprietà che superava i 50 ettari era pari al 39,3% della superficie agraria siciliana, mentre appena 282 proprietari possedevano il 10,6% della superficie agraria dell’isola. Secondo i dati del censimento del 1936, i 4/5 della popolazione addetta all’agricoltura non possedevano neanche un pezzo di terra o ne possedevano talmente poca da potersi considerare poveri. I contadini, quindi, incoraggiati dal nuovo quadro legislativo, cominciarono ad associarsi in cooperative e a presentare le domande di concessione per i feudi incolti o mal coltivati. Le loro richieste, però, rimasero inevase per mesi e mesi sui tavoli delle Commissioni provinciali che avrebbero dovuto esaminarle. Fu per protestare contro questi ritardi che decisero di occupare simbolicamente le terre»,
A organizzare le lotte sono i partiti democratici e i sindacati, da poco ricostituiti dopo il fascismo. La strage dei sindacalisti inizia il 5 agosto 1944 con l’assassinio di Andrea Raja, comunista, componente di una commissione di controllo dei granai del popolo. Provano a descriverlo come un poco di buono, donnaiolo e spesso «alticcio», ma lo stesso maresciallo della stazione dei carabinieri di Casteldaccia, dove avviene l’omicidio, finisce per ammettere che il motivo va cercato nella sua attività sindacale. Nessuno pagherà per la morte di Raja e la questione viene messa presto a tacere.
L’ultimo morto di mafia raccontato nel libro è Calogero Cangialosi, ucciso l’1 aprile 1948 a Camporeale in provincia di Trapani. Segretario della Camera del Lavoro, 41 anni e quattro figli, viene trucidato da decine di colpi sparati a pochi metri da casa. Tra depistaggi, indagini svogliate, insabbiamenti, assoluta impunità, si va avanti così, omicidio dopo omicidio, per cinque anni. A morire sono sindaci, farmacisti, contadini, politici. In pochi hanno un funerale perché agli ammazzati, per giunta comunisti, in quegli anni deve bastare un po’ di acqua benedetta lungo la strada per il cimitero.
«Fu una vera e propria guerriglia contro i lavoratori, nel cui corso caddero a decine non solo gli attivisti e i dirigenti sindacali, ma quegli elementi che, in qualche modo, solidarizzavano con la lotta popolare contro il feudo», scrive la Cgil siciliana in un documento presentato alla prima commissione Antimafia nell’ottobre 1963. Parole che cadono nel vuoto. E ora che finalmente si prova a restituire la dignità della storia ai morti di quegli anni, almeno si sa che non è stata una battaglia combattuta invano: 500 mila ettari di terreno passarono di mano, i latifondi scomparvero. Le ingiustizie, la mafia, l’omertà e l’indifferenza, no.

Corriere 26.9.14
«Bill il rosso» se ne andò. E l’Inghilterra cambiò pelle
«Shankly, simbolo del Liverpool e di una sinistra tramontata»
La fine del vecchio socialismo umanitario distrutto dalle politiche di Margaret Thatcher
di Marco Imarisio


«Ogni libro deve avere un mistero». Anche uno scrittore, forse. Quello di David Peace è nell’assenza di indizi. Ogni suo gesto è calmo, quasi eseguito al rallentatore. Nella persona non c’è nulla che riveli il flusso febbrile della prosa di Red or dead , il suo ultimo romanzo, che quasi obbliga chi legge a domandarsi se non sia prova anche di una ossessione personale legata all’atto della scrittura. «Un amico mi ha detto che questa era la mia autobiografia per interposta persona. Spero che si sbagli, temo che abbia ragione».
Red or dead , pubblicato in Italia dal Saggiatore, è un’opera molto diversa da come si presenta. In apparenza, ma solo in apparenza, sembra la biografia romanzata di Bill Shankly, professione allenatore, unico carpentiere di una identità e di una leggenda, quella del Liverpool. L’idea di usare, come accadde per il precedente libro di Peace Il maledetto United , figure leggendarie del calcio per raccontare costruzione e rovina della società che hanno intorno, diventa qui ancora più esplicita, ed estrema. «Bill il rosso» è uomo dagli ideali antichi e dalle pulsioni totalizzanti. Il lavoro, il tempo che scorre e corrode invisibile da dentro. Fino a sfiorare la malattia mentale, fino a un addio improvviso e inspiegabile nel 1974, alla vigilia dei trionfi europei che altri si intesteranno.
Il mistero di Red or dead è questo. Nel mettere in scena l’ossessione di un uomo, il quarantasettenne David Peace, uno dei maggiori autori inglesi viventi, cresciuto a Leeds, da tempo residente in Giappone, sceglie di andare contro le regole del bello scrivere, usando una tecnica ripetitiva e martellante più vicina alla poesia che alla narrativa. Alla fine l’uscita di scena di Shankly si sovrappone a quella altrettanto oscura di Harold Wilson, il primo ministro laburista che nel 1976 si dimise a metà del suo mandato, aprendo di fatto le porte a Margaret Thatcher. E l’epica di Anfield e del Liverpool fa da cornice al crepuscolo della vecchia Inghilterra.
Mister Peace, il calcio come continuazione della politica con altri mezzi?
«Uno strumento, se vogliamo. O un pretesto. In realtà non volevo scriverne ancora. Dal 2009 al 2011 sono tornato in Inghilterra dopo 15 anni all’estero. Durante questo tempo la mutazione del mio Paese si è compiuta in modo definitivo. Mi sono dato all’archeologia, per far tornare alla luce quel che abbiamo perso in questo passaggio. Cercavo un personaggio che soltanto con la sua vita potesse rappresentare una critica alla società inglese di oggi. Credo di averlo trovato».
Chi era per lei Bill Shankly?
«Un uomo del popolo. Una buona persona. L’ultimo esemplare di un mondo in via di estinzione, l’Inghilterra del welfare e del socialismo umano».
Ne ha un ricordo personale?
«La finale della Coppa d’Inghilterra del 1974, il suo ultimo trionfo. Contro il Newcastle. La doppietta di Kevin Keegan. Tutto in bianco e nero. Un signore con il cappotto che leva le mani come per impartire una benedizione alla folla. Bill Shankly. Poi è scomparso».
Dove lo ha cercato?
«Alla National Library di Tokyo. Nel frattempo eravamo tornati a vivere in Giappone. Shankly è diventato una mia ossessione, aggravata dalla lontananza. Dovevo sapere tutto di lui. Ogni partita, ogni tabellino, ogni cronaca».
Perché li ripropone quasi integralmente?
«Volevo restituire il ritmo frenetico che ha scandito la sua vita. È la storia dei nostri padri, della generazione che è stata capace di costruire un’epopea. Questo impasto di routine e sacrificio, il significato di gesti ripetuti ogni giorno, l’alienazione che ne può derivare. Non puoi parlare del suo ritiro misterioso se prima non racconti il suo lavoro, la sua ossessione che diventa quasi delirio».
«Red or dead» è un libro politico?
«Assolutamente sì. È il racconto della morte della società inglese vista da una diversa prospettiva, attraverso la lente del calcio».
Shankly è l’esemplare di una razza in via di estinzione?
«Era un figlio di minatori, amato dalla gente comune. Quando parla di politica offre una lettura semplice del socialismo. Dice che Gesù è stato il primo socialista. Non sono le sue idee, ma quel che rappresenta».
Rimpiange così tanto la vecchia Inghilterra?
« Red or dead riguarda la perdita di un sentimento comune che ci teneva insieme. In questo senso è un libro nostalgico, ma non voglio fare paragoni con la situazione attuale. Anche perché sulla politica di oggi cambio idea ogni due giorni».
Quando la società inglese è cambiata in modo definitivo?
«Non lo ha fatto in un sol giorno. Nella pancia della Old England c’erano già i germi che avrebbero decretato la morte di quel modello. Ma se devo scegliere una data e un avvenimento dico il 1983, e la rielezione di Margaret Thatcher. Dopo i primi quattro anni della sua cura, era tutto chiaro. C’era ancora la possibilità di salvare il buono che c’era nella vecchia società. Fu un referendum. Gli inglesi scelsero il grande cambiamento».
Le piace il calcio di oggi?
«È la stessa domanda di prima sotto mentite spoglie. Rispondo così: non amo per nulla i soldi e il glamour del quale è intriso. In questo senso rimpiango il calcio di una volta. Poi mi siedo sul divano qui a Tokyo e guardo in diretta la partita del Liverpool con mio figlio».
A parte il misterioso ritiro, cos’altro unisce l’allenatore Shankly e il premier Wilson?
«Sono uomini simili. Uno è genuino, l’altro un po’ artefatto. Shankly non ama i politici, ne diffida. Wilson lo ammirava, voleva essere come lui. Ci teneva a mostrarsi come uomo del popolo, amico dei Beatles, amante del calcio. Ma non sono sicuro che lo fosse».
L’ossessione di Shankly per il calcio riflette la sua per la scrittura?
«Non credo di essere in grado di rispondere a questa domanda».
E perché?
«Non ricordo niente dell’atto di scrivere. Un anno di ricerche, un anno di scrittura. Del primo so tutto, come stavo di salute, i voti dei miei figli a scuola. Del secondo non so nulla. Quando scrivo è come un transfert, come se fossi un altro. Come se fossi Bill Shankly. È quel che faccio. È l’unica cosa che faccio».

Corriere 26.9.14
Il saggio di Sgarbi
Viaggia a cavallo la modernità di Caravaggio
di Stefano Bucci


Vittorio Sgarbi nel suo Il punto di vista del Cavallo (Bompiani, pp. 160, e 12) racconta, con ironia e intelligenza, tutta la modernità di cui è stato capace Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610) . E come simbolo di questa sua novità sceglie un capolavoro assoluto come la Conversione di San Paolo (dipinta da Caravaggio nel 1601, oggi conservata nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo a Roma).
Forse ispirato da un quadro di Moretto da Brescia, visto nella Chiesa di Santa Maria presso San Celso di Milano quando aveva soltanto sedici anni, Caravaggio decide di mettere stavolta in primo piano appunto il cavallo: «Siamo in una chiesa ed è come se fossimo in una stalla». «Non c’è l’eroe uomo», eppure «Paolo, comunque investito dalla luce di Dio, risulta protagonista anche se disarcionato». Non si tratta di un semplice ribaltamento di prospettiva: «È un ribaltamento doppio, sia fisico che psicologico. È il ribaltamento di Paolo dalla sua posizione di potere ed è il ribaltamento della visione: anziché vedere l’episodio dal punto di vista dell’uomo, lo si percepisce dunque dal punto di vista del cavallo».
Una rappresentazione assoluta, «l’equivalente di una fotografia» e per evidenziare questa affinità, Sgarbi sceglie un paragone affascinante: quello con il Miliziano morente di Robert Capa anche lui colto nel medesimo momento della caduta. Ma il discorso del critico va oltre, riportando in primo piano tutta l’innovazione di Caravaggio: «Si stenta a credere che le sue idee siano state concepite quattro secoli fa» mentre «tutto fa pensare a un’arte che riconosciamo, a un calco di sensibilità ed esperienze che non sono quelle del Seicento ma di ogni secolo in cui sia presente e centrale l’uomo». Un’ipotesi che nel libro si ripresenta, in tutte le sue motivazioni, davanti a ogni opera di Caravaggio citata: il Bacchino malato , il Sacrificio di Isacco , la Morte della Vergine , le Sette opere di Misericordia , la Madonna del Rosario , il Seppellimento di Santa Lucia . Una modernità comunque tormentata: visto che, dopo gli anni della folgorante carriera e l’oblio, Caravaggio diventerà davvero il «Grande Caravaggio» solo nel 1951, dopo che la mostra allestita a Palazzo Reale a Milano da Roberto Longhi attirerà 600 mila visitatori. Proprio negli stessi anni in cui sulla scena culturale comparirà «un artista di nome Pier Paolo Pasolini» (non a caso allievo di Longhi), quasi «una reincarnazione di Caravaggio», che «nei ragazzi di borgata cercherà l’autenticità della vita».

La Stampa TuttoLibri 20.9.14
“Ovidio, la favola dell’adolescenza”
«Ho tradotto i dodicimila esametri delle Metamorfosi: eventi e situazioni che toccano la fantasia dei ragazzi»
di Mirella Serri


Due anni intensi, appassionati, eccitanti: «E’ stato uno dei lavori più piacevoli della mia vita. L’esperienza di correre dietro a questa lingua latina così precisa e barocca, sensuale e tragica, che però non si prende mai completamente sul serio, è stata travolgente». Ha l’entusiasmo contagioso di un ragazzino quando parla della sua fatica di traduttore uno dei maggiori interpreti del mondo classico, Vittorio Sermonti, 85 anni il 26 settembre, narratore, regista, attore, docente all’Accademia nazionale d’arte drammatica nonché celebre «the voice» della letteratura italiana (per anni ha affollato e conquistato le piazze d’Italia leggendo Dante e Virgilio). E non c’è dubbio: lo studioso di Dante i dodicimila esametri de Le metamorfosi di Ovidio (Rizzoli, € 21, pp. 846), li ha macinati con il passo allegro di un ventenne. Muovendosi con nonchalance e leggerezza, tra dramma e ironia, ne ha sviscerato i significati più remoti e ha riportato in vita il poema con linguaggio molto attuale e calato nel presente.

Sermonti, con la sua traduzione-interpretazione lei ci fa capire che i riti e i miti di Ovidio - Narciso perso nell’attrazione per se stesso, Aracne punita per la superbia, Dafne oggetto di bramosia per Apollo, Mirra innamorata di suo padre - sono oggi più che mai vivi e operanti tra noi. E’ cosi?
«Narciso è un fanciullo attraente, figlio di un fiume e di una ninfa, che, specchiandosi nell’acqua di un laghetto, viene catturato dalla propria immagine; ma oggi Narciso è anche una categoria clinica ed è pure il nome di un fiore. Il poema di Ovidio è l’opera che meglio rappresenta l’età evolutiva, le mutazioni, la labilità e l’insicurezza che contraddistinguono i più giovani, il cui corpo non fa che cambiare sotto i loro stessi occhi».
«Le metamorfosi» sono destinate a un lettore-ragazzo?
«Ovidio trasforma in favola tutto ciò che un adolescente elabora e nasconde. Parla di parricidi, stupri, incesti, libido. Racconta di situazioni ed eventi che toccano da vicino la fantasia dei ragazzi: così, per esempio, la masturbazione giovanile è uno stupro timido e solitario compiuto magari di fronte a un ritratto, a una fotografia di qualcuno che non ti desidera e che nemmeno ti conosce. Il tema della metamorfosi è poi un repertorio fondamentale nell’immaginario occidentale e ha alimentato tutta una splendida produzione di Bernini, Caravaggio, Poussin, Guido Reni. Attualmente ben raffigura le incertezze, la precarietà di un’epoca di crisi come questa in cui viviamo».
Lei si è dichiarato un «bibliodipendente mai pentito». Legge il poeta latino in coincidenza con l’avvio del commento dantesco, poiché l’opera di Ovidio ne è il laboratorio, il luogo a cui Dante attinge abbondantemente per la «Commedia»? In questa catena di libri, l’interesse per Dante quando inizia?
«Risale a tempi lontani, quando avevo circa dieci anni e mio padre, toscano di origine, mi leggeva a voce praticamente tutta la Commedia. Però coltivavo con grande determinazione anche tanti personali momenti di lettura. Non solo Emilio Salgari, che era l’autore più diffuso tra i coetanei, ma anche Luigi Pirandello, cugino di secondo grado di mia nonna. Il primo approdo sono state le sue novelle. Il teatro delle maschere è arrivato successivamente. Quando mi presento all’esame di maturità a Roma, come allievo del Convitto nazionale, so parecchio di quel compìto personaggio che ricordavo in visita nella casa romana dei nonni per gli auguri di Natale. Più dei docenti pronti a interrogarmi. Dopo avermi ascoltato per una ventina di minuti, i professori entusiasti mi mettono dieci. Però avevo come riferimento anche altri scrittori, in quinta ginnasio traduco in versi Guglielmo Tell di Friedrich Schiller e mi conquisto un altro dieci, questa volta in tedesco. Guerra e pace è stato un libro da cui non riuscivo a staccarmi. Fin da ragazzo sentivo il fascino della recitazione, da William Shakespeare a Vittorio Alfieri. Uno dei miei autori di riferimento era Aleksandr Sergeevic Puškin con i poemi e il teatro, da Boris Godunov a Evgenij Onegin a Mozart e Salieri».
Tutto cambia radicalmente?
«Non c’è dubbio. Con la famiglia ci trasferiamo a Milano. Una delle immagini indelebili è via Manzoni tutta sdentata, dove si alternavano gli edifici rasi al suolo e quelli bombardati e non ancora caduti. Sto cercando di scrivere un libro dedicato a quell’esperienza, di ripescare le sensazioni di un ragazzino che faceva il conteggio delle persone scomparse e registrava che a Brescia ce n’erano state 120 e 800 a Torino. Vivevo la mia adolescenza mentre si accumulavano 60 milioni di morti. All’epoca nutrivo una qualche insofferenza per la cultura fascista ma contemporaneamente ne ero dipendente. Non solo per via dei giornali di regime ma ero anche suggestionato dagli autori che andavano per la maggiore, come Friedrich Nietzsche».
Nel dopoguerra?
«Entro alla Rai da cui poi mi licenzio pur continuando a collaborare sia come regista che come autore. Ho la fortuna di incontrare personaggi d’eccezione, da Roberto Longhi a Carlo Emilio Gadda. Quest’ultimo connotato da una personalità che difficilmente si dimentica. Capace di sfuriate terribili, molto misogino. Ma ce l’aveva anche con Ugo Foscolo per il tono enfatico della sua poesia, per il “maschiottismo”, ovvero per l’ostentazione della virilità la cui condanna e denigrazione darà poi vita a quel capolavoro di Gadda che è Eros e Priapo. Questa è stata l’opera veramente capace di mettere alla berlina il fascismo e le ossessioni del gallismo. Continuo poi a dedicarmi alle traduzioni e, in quegli anni, un posto di rilievo lo occupava Brecht che mi calamitava sia con le sue doti di semplificazione ideologica ma anche con le capacità di grande scrittore. Ma erano pure importanti Sartre, Wedekind, von Hofmannsthal».
Nel bicentenario leopardiano ha scritto un libretto d’opera; nel centenario di Giuseppe Verdi alcuni racconti estratti dalle partiture verdiane.
«Da ragazzo suonavo il pianoforte, strumento da cui ricavavo ben poca soddisfazione. Però forse avrei potuto dedicarmi al violoncello. Ascolto molta musica ma non mi piace andare ai concerti. Ma la cosa che mi attira di più è la musica della letteratura. Ovvero la metrica: ritengo di essere uno dei massimi esperti».