sabato 27 settembre 2014

è lecito pensare che l’improvviso arresto del cardinale pedofilo da parte della gendarmeri di Bergoglio con i conseguenti “arresti domiciliari” (sic!) sia servita in realtà - o almeno anche - allo scopo di risparmiare all’orco una dentenzione “laica” molto, ma molto meno comoda?
La Stampa 27.9.14
Caso Wesolowski, sull’ex vescovo accusato di pedofilia indagava l’Interpol
Per i suoi abusi sui bambini avvenuti in più Paesi era pronto il mandato d’arresto internazionale
di Grazia Longo

qui

Corriere 27.9.14
Con quale norma giudicarlo?
I dubbi del mini-Stato Vaticano
di Andrea Tornielli


Secondo quali norme sarà giudicato Józef Wesolwski, l’ex nunzio arrestato in Vaticano con l’accusa di abusi su minori e possesso di materiale pedopornografico? Se infatti da diversi anni la legislazione canonica della Chiesa cattolica ha inasprito le pene per gli abusi sui minori, introducendo nel 2010, per volere di Benedetto XVI, anche il reato di pedopornografia, l’adeguamento delle leggi dello Stato della Città del Vaticano in proposito è avanzato più lentamente. È stato infatti Francesco, nel luglio 2013, a promulgare in quanto sovrano dello Stato vaticano, la legge VIII, con «norme complementari in materia penale». Tra queste, agli articoli 7, 8 e 10, si fa riferimento ai reati di «violenza sessuale su minori» (con reclusione da 6 a 12 anni); agli «atti sessuali con minori», (con reclusione da 5 a 10 anni); alla «pedopornografia».
La cornice legislativa precedente per lo Stato del Vaticano era quella del vecchio Codice Zanardelli (1889), in vigore in Italia al momento dei Patti Lateratensi, che ascrive i reati sessuali come «delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie» e nel caso di minorenni coinvolti in atti di violenza carnale, imputa il danno solo se è dimostrata la corruzione del minore.
Padre Federico Lombardi ha specificato che Wesolowski è stato arrestato per abusi su minori e possesso di materiale pedopornografico: un evidente riferimento alle nuove norme. Le leggi di solito non si applicano retroattivamente e dunque non sarebbe automatico per l’ex nunzio essere giudicato secondo la legge VIII: i reati da lui commessi sono infatti precedenti all’11 luglio 2013. È però possibile che, in considerazione del fatto che proprio quei reati erano stati assunti già da anni nella legislazione canonica per volere del Papa, si proceda con le nuove e più severe norme.
Intanto ieri sul caso è intervenuto il segretario della Cei, Nunzio Galantino, il quale ha notato che grazie a Francesco «si alza il tiro senza alcuna volontà di coprire» ricordando però che la pedofilia non è solo «un problema della Chiesa» e, anzi, gli Stati fanno poco per contrastarla, come dimostra la persistenza del cosiddetto «turismo sessuale» in molti Paesi.

Corriere 27.9.14
La risposta all’Onu «Santa Sede responsabile solo per i suoi cittadini»


Il Vaticano riafferma il suo impegno nella lotta agli abusi sessuali ma ribadisce anche che la Santa Sede è responsabile solo per ciò che avviene sul suo territorio, per i suoi cittadini e i suoi diplomatici. Non per tutti i fedeli, i preti, i vescovi e i superiori degli ordini religiosi. Così il Vaticano ha risposto alle «Osservazioni conclusive» presentate a febbraio dal Comitato per i diritti del bambino dell’Onu, facendo avere a Ginevra i suoi 23 «Commenti» che sono stati pubblicati ieri sul Bollettino della Santa Sede. «L’obbedienza religiosa dei Vescovi», si legge, non implica vincolo legale ma concerne solo la dottrina della fede cattolica. Vescovi e preti sono responsabili secondo le leggi dei propri Paesi.

il Fatto 27.9.14
Tagli santi
Anche il Papa “licenzia” 500 lavoratori
I calligrafi restano disoccupati
di Tommaso Rodano


Anche il Vaticano ha la sua spending review e i suoi disoccupati. Sono i lavoratori delle “benedizioni apostoliche”. Tra negozianti, imprese artigiane e calligrafi sono circa 500 persone. Da gennaio perderanno il lavoro per una decisione presa anche dal Papa.
Per spiegare, occorre un passo indietro. C’era una volta il mercimonio delle indulgenze. Quello che fece infuriare Martin Lutero, mettendo in moto una rivoluzione epocale. Oggi esistono le “benedizioni apostoliche”. Sono pergamene con un messaggio – appunto – di benedizione del Papa, la sua immagine e il bollo del Vaticano. Il loro mercato nel tempo è diventato fiorente. Fino a quest’anno la Chiesa ha concesso il servizio in “appalto”, per così dire. Negozi, piccoli studi e singoli artigiani hanno trasformato la benedizione in un’arte e un mestiere. Si compra la carta, la si riempie (magari con il lavoro a mano di un calligrafo) e la si porta all’Elemosineria Apostolica per farla timbrare con il bollo e la firma dell’Arcivescovo. Le richieste arrivano da ogni parte del mondo, per celebrare battesimi, comunioni, compleanni, matrimoni e via dicendo. Il business, nel 2013, ha fatto girare 3,4 milioni di euro, ma dall’anno prossimo il mercato sarà chiuso. Le benedizioni tornano “in house“: saranno fabbricate solo dall’Elemosineria.
La proposta è arrivata dall’arcivescovo polacco Konrad Krajewski, Francesco l’ha avallata. Bisogna aumentare le entrate dell’Elemosineria (impiegate in opere di carità) e tagliare il commercio privato. Oggi, per il Vaticano, le benedizioni arricchiscono solo i negozi di souvenir per turisti.
Vero solo in parte. Si dimenticano le decine e decine di piccoli artigiani. Al Papa hanno scritto una lettera di supplica per salvare il lavoro. Per ora non hanno avuto risposta.
Maria Mocnik è una delle prime calligrafe di Roma. Una signora anziana, minuta e gentile, proprietaria di una piccola bottega in Borgo Santo Spirito. Arrivata dalla Slovenia nel Dopoguerra, ha aperto il negozio nel 1958. Lo chiuderà entro il primo gennaio: “Mi sento morire. Dicono che con questi soldi faranno la carità. Ma come si può fare la carità ad alcuni per togliere il lavoro ad altri? ”.

Repubblica 27.9.14
Dal monastero alla Silicon Valley parla il calligrafo Ewan Clayton
Un monaco amanuense a Palo Alto
Chi scrive a mano è sempre in vantaggio su chi preme dei tasti, per la memoria e per l’organizzazione del testo
Da bambino non sapeva scrivere, recuperò grazie alla nonna
intervista di Simonetta Fiori


Ho imparato moltissimo da Steve Jobs. Aveva capito il valore della maestria artigiana E aveva studiato calligrafia
Si fece benedettino a causa della malattia. Poi lavorò alla Xerox

«SONO contento che il mio libro esca in Italia, paese cruciale nella storia della scrittura». Ewan Clayton è uno dei più famosi calligrafi del mondo, una figura senza tempo, capace di viaggiare con disinvoltura tra epoche remote e futuro tecnologico. Forse perché per cinque anni è rimasto chiuso in un monastero, «monaco amanuense del XX secolo» dice lui, per poi trovarsi catapultato nello Xerox Parc a Palo Alto, la famosa divisione di ricerca dove erano stati inventati i computer connessi in rete e le finestre di windows. «Entrambe sono state esperienze religiose», racconta dal suo studio nell’Università del Sunderland, in Gran Bretagna. La sua biografia ci aiuta a capire un’opera affascinante e ambiziosa come The Golden Thread ( ora tradotto con il titolo Il filo d’oro).
È una storia della scrittura che comincia sulle pareti rocciose nell’Alto Egitto e si ferma — al momento — nei laboratori della Silicon Valley. Tremila anni di parole scritte attraverso rotoli di papiro, tavolette di cera, marmi, pergamene, penne d’oca, pennini, penne a sfera, penne a biro, macchine da scrivere e schermi pixelati. La scrittura secondo Clayton è un atto fisico, non solo intellettuale. È il frutto di un movimento, che coinvolge dita, braccio e spalla. Possiede una dimensione artigianale e iconografica, a cui hanno lavorato moltissimi uomini per favorire la trasmissione di conoscenza. E le lettere dell’alfabeto veicolano sì suoni e significati, ma sono anche corpi sensuali, provvisti di “odore”, “consistenza”, “luminosità”, “colore”. Quello del calligrafo inglese è un inno al saper scrivere che oggi si trova davanti a una nuova sfida, forse la più difficile: scriviamo sempre di più, ma in che modo? «Le nuove tecnologie ci permettono di reinventare il nostro rapporto con la parola scritta, ma non sappiamo ancora a quali elementi affidarci. Ho pensato che la prima cosa da fare fosse raccontare in che modo la scrittura è arrivata a essere ciò che è».
Che cosa ha capito dopo aver scritto il libro?
«Oggi abbiamo bisogno di tutte le tecniche, quelle antichissime e le più innovative. Passato e futuro non sono in guerra. Al contrario, dobbiamo coltivare la ricchezza della scrittura nelle sue varie modalità, cartacee e digitali, evitando ogni fondamentalismo. E coloro che ora sono chiamati a intessere il filo d’oro della comunicazione scritta dovranno fare in modo che non si perda il senso di un’orditura secolare».
Sul futuro della scrittura lei appare molto ottimista.
«Sì, perché penso al suo ruolo che è irrinunciabile. Le tecniche vanno e vengono: ciò che oggi ci sembra all’avanguardia domani sarà superato. Ma ciò che non si esaurisce mai è la capacità inventiva dell’essere umano. Le generazioni future non smetteranno mai di provare piacere nello scrivere. E negli artefatti scritti cercheranno sempre la bellezza. In fondo è solo negli ultimi decenni che i giovani hanno sviluppato una loro cultura grafica autonoma».
Questo è vero, però non sappiamo più scrivere a mano. E non riconosciamo la nostra calligrafia.
«È anche questa la ragione per cui ho voluto scrivere questo libro. Credo che oggi la fascinazione digitale produca falsi dilemmi. Tendiamo a enfatizzare i benefici di una tecnica di scrittura a scapito di un’altra, ma se vogliamo insegnare ai ragazzi l’uso del computer non dobbiamo certo smettere di insegnare il corsivo. Chi sa scrivere a mano sarà sempre in vantaggio su chi sa premere dei tasti, sia sul piano della memoria che su quello dell’organizzazione del testo. Lo dicono anche le neuroscienze. Se durante una conferenza lei prende appunti sul taccuino, le sue note mostreranno una costruzione più strutturata rispetto a quelle del “suonatore di pianola”, che richiama i fatti più che i concetti. E chi scrive a mano tende a trattenere di più le informazioni».
Lei perché si è appassionato alla scrittura?
«Da bambino fui ipnotizzato dalla calligrafia di un dottore: pensavo che fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Però a 12 anni cominciai a fare confusione tra le lettere. Mi avevano insegnato tre stili diversi in pochi anni e la mia grafia divenne illeggibile. Così fui rimandato in classe con i bambini di otto anni, davvero mortificante. Ma la mia fortuna è stata quella di crescere in un piccolo paese dove aveva vissuto il grande calligrafo Edward Johnson. Mia nonna andava a ballare con la signora Johnson, così mi diedero da leggere la sua biografia, e mia madre mi fece avere una tavola di prove calligrafiche. Rimasi incantato».
Imparò il mestiere di calligrafo, ma poi decise di chiudersi in un convento benedettino.
«A 28 anni mi ammalai di cancro, così pensai a tutte le cose che dovevo fare prima che fosse troppo tardi. La più folle fu senza dubbio quella di farmi monaco, una scelta ostinatamente contraria a quei tempi, l’Inghilterra di Mrs Thatcher. Restai al Worth Abbey per cinque anni. “Brother Ewan”, mi disse una volta il priore, “penso che la vita qui dentro ti stia stretta come una scarpa di un numero più piccolo”. Il giorno dopo fui investito da una macchina e pensai: “Ok, forse hai ragione”. Lasciai il convento. Per fortuna dopo pochi mesi fui chiamato in California come consulente del Palo Alto Research Centre, alla Xerox».
Dal monastero alla Silicon Valley. Come fu il passaggio?
«Fu uno shock, ma neppure tanto. Ebbi un colloquio con John Seelay Brown, direttore della Xerox, e capii subito che aveva gli stessi problemi del priore. I ricercatori si misurano con l’ignoto. Ed è come vivere una vita religiosa, che richiede contemplazione. Soprattutto bisogna convivere con ciò che ancora non si conosce, nella buona e nella cattiva sorte. John mi disse una volta che il suo principale lavoro consisteva nel fare di tutto per non sedersi davanti ai problemi. È questo che porta a nuove rivelazioni e scoperte».
Ha mai conosciuto Steve Jobs?
«No, non l’ho mai incontrato però ho imparato moltissimo da lui. Era un tecnico che aveva capito l’importanza della maestria artigiana. Ha creato oggetti bellissimi e io gli sono profondamente grato perché negli anni dell’università aveva studiato calligrafia. Fin da principio ebbe molto chiaro quanto fosse importante trasferire nel nuovo medium la tradizione della grafica e delle arti tipografiche ».
Ho letto che lei ha aiutato Apple a creare nuovi caratteri.
«No, il mio ruolo alla Xerox era più ampio. L’azienda aveva inventato molta della tecnologia che ha prodotto la rivoluzione digitale: i concetti di window, di desktop e mobile computer, la filosofia del “look and feel” che c’è dietro la Apple. Ma il management non aveva capito le potenzialità di queste invenzioni, lasciando che i loro artefici prendessero il volo. Poi la Xerox decise di puntare sulla gestione dei documenti, senza però sapere cosa fossero. Così fui assunto come calligrafo: dovevo offrire il mio sguardo d’artista a un team di scienziati».
Cosa significa essere alfabetizzati nel XXI secolo?
«Credo che si tratti di un work in progress. Le società evolvono in continuazione e la scrittura è un fenomeno sociale. Ci si chiede di scrivere in modo sempre diverso e noi dobbiamo padroneggiare non solo le diverse forme di scrittura ma anche le istituzioni che ci sollecitano a diversificare l’impiego delle nostre competenze alfabetiche. Emilia Ferreiro, allieva di Piaget, sosteneva la necessità di concepire l’alfabetizzazione come un continuum, un percorso che continua da grandi. Gli ultimi vent’anni ne sono una straordinaria conferma ».

IL SAGGIO Il filo d’oro di Ewan Clayton traduzione di Antonielli d’Oulx Editore Bollati Boringhieri pagg 400, euro 25

il Fatto 27.9.14
Trattativa, la corte a Napolitano: “Su deposizione decide giudice, non il teste”
Non basta una lettera in cui si anticipa di non avere nulla da riferire ai giudici per evitare di deporre ad un processo. Anche se il processo è quello per chiarire se ci fu un "negoziato" tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, e la lettera è firmata dal capo dello Stato
Il presidente della Repubblica: “La riforma della non è più rinviabile"
di Giuseppe Pipitone

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il Fatto 27.9.14
Il Testimone
Le “concessioni” di re Giorgio
di A. Man.


Sul Corriere della Sera un quirinalizio “dietro le quinte” di Marzio Breda parlava ieri dell’“udienza che Napolitano concederà ai giudici di Palermo” per deporre sulla trattativa Stato-mafia. E in un anonimo retroscena La Stampa spiegava che “l’immediata disponibilità” a testimoniare del presidente è “un atto di riguardo alla magistratura”, ricordando che Scalfaro e Cossiga non ebbero lo stesso riguardo. Vero, ma è pure vero che erano stati convocati da un pm, non da una Corte d’Assise. Napolitano ha invece margini di manovra più limitati. C’è solo da applicare il codice di procedura penale (articolo 205) che regola la testimonianza del capo dello Stato e prevede, appunto, che sia “assunta nella sede in cui egli esercita la funzione”, cioè al Quirinale, dove la Corte palermitana si trasferirà. Altro che “concessione” o “riguardo”.

La Stampa 27.9.14
Trattativa Stato-mafia: le cinque cose da sapere sul processo di Palermo e il ruolo di Napolitano
L’ipotesi investigativa, il procedimento penale davanti alla corte d’Assise, i testimoni chiave, il conflitto tra la procura del capoluogo e quella di Caltanissetta, il coinvolgimento del presidente della Repubblica. La «Trattativa» spiegata in breve
di Riccardo Arena

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Repubblica 27.9.14
Deposizione di Napolitano la mossa di Totò Riina “Voglio esserci anche io”
Bagarella e Ciancimino si accodano alla richiesta di assistere all’udienza Ma il giudice potrebbe respingere le istanze: “Motivi di compatibilità”


PALERMO Ha seguito tutte le udienze del processo trattativa collegato in videoconferenza dal 41 bis, non si è perso una sola deposizione. Adesso, il capo di Cosa nostra vuole una diretta anche dal Quirinale, per vedere e ascoltare il più importante di tutti i testimoni citati dalla procura, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «Salvatore Riina chiede di partecipare all’udienza che si terrà al Colle — annuncia l’avvocato Luca Cianferoni — è un suo diritto come imputato di questo processo ».
La difesa del padrino di Corleone vuole una videoconferenza fra il carcere di Parma, dove è detenuto Riina, e il Quirinale. «È un’udienza come le altre — dice ancora Cianferoni — la corte europea per i diritti dell’uomo ha ribadito più volte che la partecipazione alle udienze è un diritto assoluto dell’imputato, pena la nullità dell’intero processo». Così, però, la preparazione dell’audizione al Quirinale si complica. Anche perché non c’è solo Riina a volere la diretta. «Pure Leoluca Bagarella ha il diritto di partecipare », annuncia l’avvocato Giovanni Anania, legale del cognato di Riina. L’imputato e testimone Massimo Ciancimino vuole invece salire di persona al Colle, rivendica «il merito di aver avviato il processo per la trattativa». Dice: «Mi hanno impedito di ascoltare la telefonate di Napolitano con Mancino, non possono togliermi il diritto di partecipare a un’udienza così importante».
Intanto, l’audizione del Capo dello Stato diventa anche un caso politico. Fabrizio Cicchitto di Nuovo Centrodestra, lancia un tweet: «La citazione di Napolitano è un’indubbia prova di arroganza della magistratura». Non la pensa così il presidente del Senato Piero Grasso: «Anche io ho testimoniato a questo processo, e avendo la possibilità di scegliere, sono andato a Palermo. Il capo dello Stato ha detto che non ha alcun problema a testimoniare ». Claudio Fava, vice presidente della commissione antimafia, definisce l’ordinanza dei giudici «un atto normale». Il senatore M5S Vincenzo Santangelo attacca invece Napolitano: «Si dimetta e testimoni da comune cittadino, a porte aperte ».
Il vero nodo da sciogliere è quello della presenza degli imputati, seppure in collegamento video. Anche se l’ordinanza della corte sembra chiara, parla di «esclusione della presenza del pubblico e degli imputati, rappresentati dai difensori». Così ha scritto il giudice Alfredo Mon- talto, che per disciplinare lo svolgimento dell’udienza ha richiamato l’articolo 502 del codice di procedura penale, quello che prevede «l’esame a domicilio del testimone». Proprio questo articolo, nell’ultimo comma, prevede che «il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame». È il riferimento che utilizzerà la difesa di Riina. Ma a leggere bene l’ordinanza c’è un passaggio che sembra bloccare ogni richiesta degli imputati: l’articolo 502 si applica «nei limiti in cui sia compatibile ». È questa la frase chiave che potrebbe lasciare fuori Riina, Bagarella e Ciancimino. Comunque, sulle istanze degli avvocati, i giudici dovranno pronunciarsi prima di organizzare la trasferta. Intanto, sono stati avviati i contatti con il Quirinale per la fissazione di una data.
Sul caso Riina, la procura non vuole entrare. «La corte ha messo correttamente dei paletti», dice il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. «Poi sta alla volontà degli imputati chiedere o meno di partecipare. Noi non abbiamo alcun ruolo in questa fase, né intendiamo intrometterci nelle decisioni delle altre parti del processo». ( s. p.)

Corriere 27.9.14
Il protocollo segreto di Mori
di Giovanni Bianconi


PALERMO Dalle carte del processo d’appello contro l’ex generale Mario Mori affiora uno dei segreti inseguiti più a lungo dalle indagini antimafia dell’ultimo decennio. Il cosiddetto Protocollo Farfalla, siglato dal Sisde e dalla Direzione delle carceri tra il 2003 e il 2004, quando Mori guidava il servizio segreto civile. Un patto per raccogliere informazioni a pagamento da detenuti di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, all’insaputa di investigatori e inquirenti. Che ora, per la Procura generale di Palermo, diventa una nuova prova a carico dell’imputato.
Dopo una vita spesa nei reparti antiterrorismo e anticrimine di servizi segreti e Arma dei carabinieri, a 75 anni Mori sembra un imputato più imputato degli altri. Chiamato a rispondere per la presunta trattativa tra Stato e mafia, dopo l’assoluzione definitiva per la perquisizione mai fatta al covo di Riina nel 1993 e quella di primo grado per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Ieri, al processo d’appello per quell’episodio, la Procura generale rappresentata in aula dal capo Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio ha chiesto l’acquisizione di nuove prove a carico di Mori. Con l’obiettivo di dimostrare che anche quando era ufficiale di polizia giudiziaria «ha sempre mantenuto il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete, perseguendo finalità occulte, e per tale motivo ha sistematicamente disatteso i doveri istituzionali di lealtà istituzionale, traendo in inganno i magistrati».
Passato dal servizio segreto militare tra il 1972 e il 1975, quando i vertici del Sid furono coinvolti in trame golpiste e despistaggi, nel 2001 Mori assunse la direzione del Sisde, il servizio segreto civile. E in questa veste attivò il Protocollo Farfalla, operazione «per la gestione di soggetti di interesse investigativo» che secondo il pg Scarpinato aveva un «punto critico»: «La mancanza di un controllo di legalità da parte della magistratura, unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia secondo severe e garantiste disposizioni di legge».
Alla fine di luglio il governo ha annunciato di aver tolto il segreto di Stato dal protocollo. Ai magistrati di Palermo è giunto dalla Procura di Roma, alla quale l’aveva consegnato il successore di Mori al Sisde, Franco Gabrielli. Un appunto del Servizio datato luglio 2004 dà conto di una «avviata attività di intelligence convenzionalmente denominata Farfalla, attraverso l’ingaggio di preindividualizzati detenuti». Da mesi gli agenti segreti avevano verificato una «disponibilità di massima» a fornire informazioni da un gruppo di reclusi al «41 bis», il regime di carcere duro, «a fronte di idoneo compenso da definire». L’elenco comprende una decina di nomi tra appartenenti alla mafia, alla ‘ndrangheta e alla camorra da cui attingere notizie. Con alcune particolarità: «esclusività e riservatezza del rapporto», nel senso che gli informatori non potevano parlare con altri, né altri dovevano sapere della loro collaborazione; «canalizzazione istituzionale delle risultanze informative a cura del Servizio», per cui solo il Sisde avrebbe deciso se e quando avvertire inquirenti e investigatori, e di che cosa; «gestione finanziaria a cura del Servizio», con pagamenti «in direzione di soggetti esterni individuati dagli stessi fiduciari». Familiari dei detenuti, presumibilmente.
Tra i detenuti contattati ci sono quattro appartenenti a Cosa nostra. Tre dell’area palermitana: Cristoforo «Fifetto» Cannella, condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio; Salvatore Rinella, della mafia di Caccamo, considerato vicino al boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che in quel periodo stava collaborando con la magistratura; Vincenzo Buccafusca. E poi il catanese Giuseppe Di Giacomo, del clan Laudani. Tra i calabresi viene indicato Angelo Antonio Pelle, mentre per i campani ci sono Antonio Angelino e Massimo Clemente, più qualche altro. I risultati dei contatti non si conoscono, né quanto siano costati. Per gli uomini dei Servizi è tutto legittimo, mentre per i pm palermitani è un ulteriore prova dell’attività «opaca e occulta» di Mori. Il quale, secondo il testimone Angelo Venturi (ex uomo del Sid oggi 84enne, coinvolto e prosciolto nell’indagine sul golpe Borghese), «gli propose di aderire alla loggia P2 di Licio Gelli e fu allontanato dai Servizi perché intercettava abusivamente il telefono d’ufficio del suo superiore Maletti (iscritto alla P2, ndr )». Uno degli informatori di Mori era Gianfranco Ghiron, fratello dell’avvocato Giorgio, difensore dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Lo stesso Ghiron ha fornito un appunto del 1974, «nel quale si fa riferimento a Mori, indicato col criptonimo “dr. Amici”, per comunicazioni urgenti concernenti la fuga di Licio Gelli, indicato come “Gerli”». Lì si diceva che se l’allontanamento dall’Italia del Gran Maestro «danneggiava Mr. Vito» — probabilmente Miceli, l’ex capo del Sid, piduista, arrestato poco prima — «fate in modo di fermarlo, se è meglio che se ne va, lasciatelo partire». L’elenco delle nuove prove indicate da Scarpinato e Patronaggio è talmente lungo da sembrare già una requisitoria; Mori in aula ascolta e prende appunti, affiancato dagli avvocati Basilio Milio e Enzo Musco. «Quando toccherà a noi parleremo e replicheremo», si limita a commentare l’ex generale. Che ha rinunciato alla prescrizione del presunto reato, decorsa da tempo, con la volontà dichiarata di inseguire un’assoluzione piena.

il Fatto 27.9.14
Dopo il Corriere, la Cei e Della Valle: tutti contro Renzi
Miti allucinogeni
Alle prime difficoltà torna tra noi la preziosa leggenda dei poteri forti
di Giorgio Meletti


Sono tutti uguali, come i difensori che quando beccano il gol alzano il braccio per chiedere giustizia all'arbitro. Può esserci solo un fallo in attacco o un sia pur millimetrico fuorigioco, all'origine del disastro. Fedele al suo profilo polisportivo, anche Matteo nostro alza da New York il braccio-ne transatlantico per segnalare il fallo più odioso, la zampata dei “poteri forti” in piena area di riforme. Come se finora avesse gestito potere e nomine solo con Don Ciotti.
E COME RENZI tutti gli altri. Quando gli dice bene, i poteri forti non esistono. Quando gli dice male altro che, vivono e lottano contro di noi, potenti e coesi. Nota Diego Della Valle: “Dice che i poteri forti lo bloccano, poi va ad accreditarsi dai poteri forti”. E il povero elettore estraneo alle dietrologie rettiliane deve chiedersi chi diavolo siano questi sfuggenti poteri forti. Li ha visti accusati di essere la vera spinta propulsiva dei trionfi politici dei Silvio Berlusconi, dei Mario Monti, degli Enrico Letta e dei Renzi. Poi di colpo li vede trasformati dal lamento dei declinanti in leopardiane nature matrigne che non rendono poi quel che promisero allor.
FANTASMI della frustrazione, Dei invidiosi di portata diseguale, assisi in un vasto Olimpo dove il direttore di giornale giace con il premier straniero, e l'imprenditore mediocre in cerca di riscatto confindustriale abbracciato il presidente della Bce e gli sussurra la nuova trama per far fuori l'innovatore in eccesso di hybris.
Almeno i poteri forti di una volta erano opachi come Enrico Cuccia, e austeri, eminenze grigie vere e non necessariamente legate alla finanza sonante; trasversali ai partiti quando i partiti non erano trasversali a se stessi. Ma adesso quei poteri forti non ci sono più, e siamo costretti a surrogarli con comparse slavate costrette a mostrarsi, sennò che comparse sarebbero, definitivamente dagospizzate, immerse nei recessi della loro coscienza sporca a caccia di sapida aneddotica per il libro di memorie. Almeno il primo vero teorico dei poteri forti, Pinuccio Tatarella, ministro delle Poste nel primo governo Berlusconi, fece lo sforzo di catalogarli: la Corte Costituzionale, il consiglio superiore della Magistratura, Mediobanca, la Massoneria, l'Opus Dei.
Inneggi pure la curva renziana all’urlo del capo: “Per tornare a fare l'Italia siamo pronti, se servirà, a fare battaglie in Parlamento e a sfidare i poteri forti”. Ma la sfida non ci sarà mai. Volete la prova? Bastino i precedenti. Nel 1992 Massimo D'Alema, lungimirante, teorizzava che i poteri forti si stavano mettendo d'accordo con Gava, Forlani e Andreotti per imbavagliare la democrazia. Il tempo di dirlo e i tre erano in manette o giù di lì, presi per il bavero dal cosiddetto partito delle procure che, nella vulgata degli intelligentoni, era l'architrave dei poteri forti. E del resto D'Alema, da vero statista, ha fatto molto per tranquillizzare il Paese. Nel 1995 ci assicurò, lui che l'ha sempre saputa lunga, che Berlusconi godeva del pieno appoggio dei poteri forti: “Se avessero voluto toglierlo di mezzo, sarebbe bastato che due-tre banche chiedessero il rientro dai debiti. Quando Berlusconi ha finto di vendere le tv, i poteri forti lo hanno aiutato”. Dopo la vittoria elettorale del Caimano nel 2001, D'Alema fece la capriola: “Berlusconi ha saputo tessere un rapporto con la borghesia italiana, con i poteri forti che gli furono ostili nel '94”. Ecco la prova che ci tranquillizza: i poteri forti sono solo fantasmi à la carte.
IL PIÙ SERIO era Francesco Cossiga. Lui ai poteri forti non solo credeva ma era anche sinceramente affezionato, e ci parlava, come San Francesco con gli uccelli. E così rievocava tutto serio che nel 1998, quando fu fatto fuori Romano Prodi, “consultammo i cosiddetti poteri forti, ricevendone approvazione incondizionata sul nome di D'Alema e utilizzammo l'argomento della fedeltà di D'Alema e dei Ds al Patto Atlantico per superare le difficoltà psicologiche di alcuni alleati”. Ma Cossiga non c'è più, ci toccano le controfigure che giocano a nascondino con i fantasmi della loro depressione. Mario Monti è uno strepitoso alzatore di braccio. Quando diventò premier, novembre 2011, si presentò così al Senato: “Per quanto riguarda l'atteggiamento del governo o dei suoi membri nei confronti di iniziative e complotti dei poteri forti o delle multinazionali o di superpotenze negli Stati Uniti o in Europa, permettetemi di rassicurarvi totalmente”. Supermario giurava che li aveva fatti incazzare davvero, ed era fiero, tanti nemici tanto onore. Sei mesi dopo già faceva la lagna: “Il mio governo e io abbiamo sicuramente perso in questi ultimi tempi l'appoggio che gli osservatori ci attribuivano, spesso colpevolizzandoci, dei cosiddetti poteri forti perché non incontriamo favori in un grande quotidiano rappresentante e voce di potere forte e in Confindustria”. Seguite la logica frattale del professor Monti: i poteri forti sono il Corriere della Sera, proprio come dicevano i dietrologi che però consideravano proprio lui, l’editorialista principe di via Solferino, la prova della loro teoria.
Eccone un altro, Renato Brunetta: “Berlusconi dava troppo fastidio ai poteri forti nazionali e internazionali”. E quindi i poteri, pur forti, ma soprattutto volubili, hanno impiegato vent’anni a far fuori Berlusconi per sostituirlo con Monti di cui si stancarono pochi mesi dopo, e ci hanno messo Enrico Letta mentre già pensavano a Renzi, infatti puntualmente accusato da D’Alema, l’implacabile, di essere uomo dei poteri forti, che nel frattempo si sono già disamorati del twittatore. Qui l’unica notizia è una classe politica nevrastenica. E tutto perché il direttore del Corriere della Sera ha scritto Massoneria in prima pagina.

il Fatto 27.9.14
Renzi-morfosi
“Art. 18 sì”, anzi “no”: il Matteo double face
di Salvatore Cannavò


Uno specchietto per le allodole, un totem ideologico, una cosa che “non interessa nessun imprenditore e nessun precario”. L'articolo 18 è “un falso problema”, un modo per “non parlare dei problemi reali” concentrandosi solo sulle “fisime ideologiche”. Quanto era combattivo Matteo Renzi quando era lontano da Palazzo Chigi e si candidava alle primarie del Pd. Oppure quando si preparava alla rivincita mentre Bersani cercava di vincere le elezioni. Risentire oggi, o rileggere, quelle parole è illuminante oltre che agghiacciante. Lo scarto tra i “due Renzi” è straordinario e descrive egregiamente la natura del personaggio. Quello che era vero ieri oggi diventa falso e viceversa. L'annuncio di allora viene smentito e così via in una girandola di dichiarazioni, frasi a effetto, sortite improntate all'effimero e al giorno per giorno. Fino a quando sarà possibile, fino a quando potrà durare.
Era così netto nelle sue ipotesi di “Jobs Act” – fatto tutto di tutele crescenti, vere, e di ampliamento dei diritti – che il segretario della Fiom, Maurizio Landini, lo prendeva sul serio e gli chiedeva, addirittura, di allargare l'articolo 18 a tutti. Si pensi all'intervista a La Stampa rilasciata all'inizio del 2012 quando il governo Monti stava preparando la riforma dello Statuto tramite la legge Fornero: “L'articolo 18 è un gigantesco specchietto per le allodole” spiegava Renzi tutto serio. “Se ci interessano gli aspetti tecnici sentiamo che hanno da dire Pietro Ichino e Stefano Boeri (in realtà si tratta di Tito, ndr) mentre se ci interessa l'aspetto politico, mi pare che il tema ruoti attorno a un totem ideologico”. Ancora più forte la dichiarazione del 24 marzo di quell'anno, a margine dell'assemblea nazionale dei giovani di Confartigianato: “L'articolo 18 è ormai soprattutto un simbolo, non una discussione concreta per la vita degli imprenditori. Non ho mai trovato un imprenditore che mi abbia posto il problema dell'articolo 18 come ‘il’ problema della sua azienda. E non ho mai trovato un ragazzo di 20 anni che mi abbia posto il tema dell'articolo 18 come fondamentale per la sua carriera”.
La frase, identica, fu poi ripetuta a giugno dello stesso anno, durante una puntata di Servizio Pubblico di fronte a un attento Michele Santoro. Non si trattava di battute “dal sen fuggite”, perché Renzi, in quei giorni, spiegava a tutti che per la crescita il governo Monti avrebbe dovuto “snellire la burocrazia, dare tempi certi alla giustizia, abbassare la pressione fiscale”. “È su questo che Bersani dovrebbe incalzare molto di più il governo e che si gioca il futuro del centrosinistra, non sull’articolo 18” affermava in una intervista al Mattino. Il 31 marzo,
alla conferenza programmatica del Pd di Firenze, ribadiva il concetto: “L'articolo 18 è un falso problema”. “L'articolo 18 - aggiungeva – è una importante legge del 1970, ma a me interessa dire che se vogliamo aiutare le imprese e l'occupazione di questo territorio bisogna fare cose concrete e creare posti di lavoro”.
Dopo la riforma Fornero, Renzi decideva di omaggiare il ruolo di Pier Luigi Bersani: “Il fatto che sia stato reintrodotto il principio del reintegro nella riforma dell'articolo 18 segna una vittoria del Pd e del suo segretario Pier Luigi Bersani”. A Lucia Annunziata che lo intervistava il 17 giugno 2012 diceva invece che l'articolo 18 è “un totem, un falso problema”. Poi, lanciando ufficialmente la sua campagna per le primarie del Pd, al Palazzo della Gran Guardia di Verona, ripeteva queste ispirate parole: “Il problema del diritto del lavoro non è l'articolo 18, non c'è collegamento fra quello e la precarietà. Il nostro obiettivo è ridurre le norme sul lavoro e semplificarle”. Anno nuovo, il 2013, stessa musica. Il 7 gennaio, durante l'inaugurazione di Pitti Immagine Uomo, si cimentava in una citazione classica: “Sull'articolo 18 c'è la dimostrazione plastica di guardare il dito mentre il mondo ci chiede di guardare la luna”.
Quando diventa segretario del Pd, dopo una campagna per le primarie in cui dell'articolo 18 non dice nulla, riunisce la direzione del suo partito per presentare il Jobs Act come una “prospettiva per l'Italia” perché, dice di nuovo senza ridere, “con le riforme istituzionali non si mangia”. “Se rimettiamo il paese a discutere dell'articolo 18 facciamo la solita grande manfrina mediatica che entusiasma gli addetti ai lavori e non riusciamo a essere credibili innanzitutto con i nostri”. Meglio di come lo diceva lui non saprebbe dirlo nessuno.

Corriere 27.9.14
Quelle nozze di rito renziano dell’amico Carrai
di Marco Gasparetti

Non è solo un matrimonio fiorentino, nella basilica di San Miniato a Monte; è un matrimonio «renziano». Lo sposo è Marco Carrai presidente della società che gestisce l’aeroporto di Firenze. La sposa è Francesca Campana Comparini, storica dell’arte al centro di una polemica per avere avuto l’incarico di co-curatrice di una mostra in città. I testimoni sono Renzi e la moglie Agnese. Tra i 330 gli invitati, il sottosegretario Lotti, il ministro Boschi, il tesoriere pd Bonifazi e il sindaco Nardella, oltre a Marco Tronchetti Provera, Paolo Mieli e Lilli Gruber.

il Fatto 27.9.14
Camusso (Cgil): “Il governo ci ascolti, non si crei tensione sociale”

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il Fatto 27.9.14
Bernadette Ségol, Segretario generale Confederazione europea dei sindacati
Articolo 18, sindacati Ue a Renzi: “La flessibilità è contraria alla crescita e ai diritti”

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il Fatto 27.9.14
Legge di stabilità, prendi i soldi e scappa: il lavoro secondo Renzi
di Bruno Tinti

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il Fatto 27.9.14
Jobs Act, quell’emendamento sul demansionamento che fa gola alle banche
La modifica dell'articolo 13 dello Statuto dei lavoratori voluta dal governo Renzi può avere impatti rilevanti sugli istituti che stanno temporeggiando sul rinnovo del contratto collettivo di categoria. Ecco come
di Lorenzo Dilena

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Corriere 27.9.14
Il premier va allo scontro, «non c’è spazio» per mediare
di Maria Teresa Meli


ROMA «La musica è cambiata»: Matteo Renzi suona sempre lo stesso motivo. E il fatto che stia negli Usa non lo induce a cambiare lo spartito. Né gli fa mutare comportamento la compagnia. Ieri Marchionne, lunedì Bersani.
Il segretario premier non ha intenzione alcuna di buttarsi «nei compromessi italiani»: «Non li ho mai fatti e non me ne frega niente». Morale della favola: «Nella riunione della Direzione di lunedì non dirò di sì nemmeno alla proposta di mediazione della parte dialogante della minoranza. Il mio sarà un no. Se esiste una minoranza veramente costruttiva seguirà la nostra linea». La quale linea per il premier è chiara. «È inutile che ci giriamo intorno e ci prendiamo in giro. Non è questione di anni, mesi e aggiustamenti. O c’è il reintegro o non c’è. E lunedì ognuno dirà la sua. Io su questo punto sono deciso e determinato. Se ne accorgeranno tutti quelli che pensano che stia facendo comunicazione e basta. Sono i soliti che di me non hanno capito niente. E non hanno compreso che sono mesi che studio questi problemi. E che ho deciso come andare avanti».
E andare avanti, nel lessico renziano, non significa certamente dare ragione a Bersani che un giorno apre e l’altro chiude e che, soprattutto, come l’ala più agguerrita della minoranza del Pd, vuole dimostrare che il segretario-premier non riesce a camminare da solo. È per questo stesso motivo che il presidente del Consiglio non presterà orecchio nemmeno alle altre proposte di trattativa più soft che provengono da quanti vorrebbero trovare un punto di ricaduta che vada bene alla «fu maggioranza» e ai renziani. Accettare quelle ipotesi significherebbe dare spazio a chi «resiste al cambiamento», per quanto «in maniera morbida», a chi non ha capito che «l’Italia va trasformata» e che a «un certo punto si arriverà inevitabilmente allo scontro tra noi e loro». Dove i «noi» sono facilmente individuabili, perché si raccolgono attorno all’inquilino di Palazzo Chigi. I «loro» invece sono una massa eterogenea che va dalle «minoranze del Pd» ai «cosiddetti poteri forti dotati di pensieri deboli».
Il capo del governo è convinto che la situazione stia precipitando adesso non tanto e non solo perché si tocca il tabù della «sinistra conservatrice», ossia l’articolo 18, ma perché ci si avvicina a un «momento di svolta». Se Renzi riuscisse a vincere la sua «battaglia sulla Pubblica amministrazione», se rintuzzasse «i mandarini della burocrazia», se avesse voce in capitolo «sull’elezione del capo dello Stato», per «la prima volta i soliti noti non toccherebbero palla». Ed è per questo, secondo lui, che c’è tutto questo agitarsi. La minoranza del suo partito, in qualche modo, si rende partecipe di questi tentativi di «scalzare un governo politico» per far «tornare i tecnocrati», anche se «gioca un ruolo da comprimaria e non da protagonista».
Chissà se in questa atmosfera a dir poco convulsa è giunta voce al presidente del Consiglio di incontri di ex Ds che ora militano nel Partito democratico che fanno i conti di quante proprietà e quanti denari sono rimasti nelle casse dei Democratici di sinistra in vista di un’eventuale scissione. Ipotesi, naturalmente, che, ora come ora, sembra appartenere al campo della fantapolitica. Come anche la possibilità della nascita di una Todi 3, di politici cattolici scontenti di Renzi, come di Alfano e Berlusconi. «Velleità», le bolla il premier, anche dopo il monito della Cei.
Renzi non molla e non dà mostra di temere gli avversari a sinistra e al centro: «Siamo nel 2014 e la gente vera, i giovani disoccupati, i cinquantenni che hanno perso il lavoro si sono stufati di certi giochetti».

Repubblica 27.9.14
Sms di Matteo a Chiamparino: “Media tu”. Ma Bersani vede nero
di Paolo Griseri


TORINO Un messaggio dall’America, alle 0,51 della notte di giovedì: «Caro Sergio, così mi va bene». Ieri mattina altri sms per dire: «Porta avanti quella mediazione». Nella notte di Detroit, poche ore prima della visita alla Fiat-Chrysler, Matteo Renzi invita Sergio Chiamparino a tentare di trovare l’intesa nel partito sull’articolo 18.
Lo schema per provare a scongiurare lo scontro dentro il Pd è quello accennato dal presidente del Piemonte nell’intervista a Repubblica di giovedì. Aveva detto Chiamparino: «Riscriviamo le leggi sul lavoro e sugli ammortizzatori sociali e definiamo un elenco di casi precisi, come ha proposto Cuperlo, nei quali il reintegro è obbligatorio. Casi che riguardano violazioni dei diritti civili e politici». In tutte le altre situazioni il licenziamento ingiusto deve essere valutato non da un giudice ma da un arbitro scelto da sindacati e imprese. L’arbitro deve solo stabilire l’entità del risarcimento da riconoscere al lavoratore. «In questi casi - ripete Chiamparino a Renzi nella conversazione notturna via sms - i magistrati non ci devono mettere becco».
Perché questa proposta potrebbe servire a ricompattare il partito? «Perché - rispondeva ieri Chiamparino - non elimina la tutela dell’articolo 18 quando serve ad evitare discriminazioni e violazioni dei diritti individuali. Nello stesso tempo toglie alla magistratura ordinaria il potere di intervento negli altri casi e lo affida ad un arbitro scelto dalle parti». Questa strada eviterebbe di consegnare a Confindustria e agli imprenditori lo scalpo dell’articolo 18 e, nello stesso tempo, potrebbe ridurre i casi di intervento della magistratura ordinaria nel contenzioso tra aziende e lavoratori. Se questa fosse la proposta finale, sarebbe piuttosto difficile per gli imprenditori opporsi ad una legge che punisce le discriminazioni in base all’orientamento sessuale, alla religione, al colore della pelle o alle scelte sindacali dei dipendenti. Chiamparino non considera positivamente invece la proposta della minoranza del partito di allungare fino a sei anni il periodo di non completa applicazione delle tutele riconosciute ai lavoratori a tempo indeterminato: «Mi sembra contraddittorio difendere l’articolo 18 contro la precarietà e poi allungare da tre a sei anni il periodo in cui le tutele non sono complete».
Potrà la mediazione del presidente del Piemonte appoggiata da Renzi convincere la minoranza del Pd? Ancora ieri le posizioni sembravano distanti se un ex sindacalista come Cesare Damiano liquidava la proposte avanza dal premier nei giorni scorsi con parole dure: «L’idea di Renzi? E’ ridicolo abolire l’articolo 18 per i nuovi assunti e lasciarlo per chi ce lo ha oggi. Così è il presidente del Consiglio che crea la serie A e la serie B». Al di là dei toni e delle reali possibilità di trovare una mediazione, il problema posto da Damiano dovrà comunque essere affrontato e non sarà facilmente superabile. L’ex segretario Bersani avverte Renzi: «Se non si trova un sintesi, ci saranno difficoltà».
In ogni caso, se si va nella direzione proposta da Chiamparino, e cioè mantenere il reintegro obbligatorio nei casi in cui il giudice riconosca che il licenziamento è basato su una violazione dei diritti civili, sarà molto difficile tenere fuori i nuovi assunti da quella tutela. Si andrebbe così a una riduzione dei casi in cui scatta l’articolo ma, contemporaneamente, verso il suo inevitabile allargamento a tutti i lavoratori.
Del resto, che la strada su cui sta muovendosi il premier sia quella di lasciare la tutela dell’articolo 18 solo ai casi di violazione dei diritti civili è confermato dal presidente del Pd, Matteo Orfini, che avuto scambi di sms con il premier nelle ultime ore: «Dobbiamo essere molto precisi nella scrittura della delega - dice Orfini - e salvare il criterio del reintegro obbligatorio nei casi di discriminazione ». Mancano ancora 48 ore al confronto decisivo nella direzione del partito. Le distanze sul merito sembrano essersi ridotte notevolmente. Per questo il tentativo di mediazione di Chiamparino incoraggiato da Renzi potrebbe avere successo.

Il Sole 27.9.14
Verso la Direzione nazionale. Bersani: «Spero nella sintesi o sarà un percorso complicato»
Sui licenziamenti minoranza Pd nell'angolo
di Barbara Fiammeri


ROMA Gli spifferi d'oltreoceano non inducono all'ottimismo. Nessun incontro preventivo con la minoranza, nessun accordo sulla sopravvivenza del reintegro al licenziamento: la discussione sul Jobs act nel Pd avverrà lunedì in Direzione dove è scontato che la linea di Matteo Renzi prevarrà a larghissima maggioranza. Anche l'ennesimo avvertimento lanciato ieri dall'ex segretario Pier Luigi Bersani non sembra destinato a sortire effetti nelle prossime 48 ore. «Continuo a pensare che una sintesi sia possibile...altrimenti si andrà incontro a un percorso complicato», ha detto Bersani facendo esplicito riferimento ai sette emendamenti presentati dalla minoranza e alla possibilità di modulare diversamente l'applicazione all'articolo 18. Ma su questo punto Renzi non recede e lo ribadisce dicendosi pienamente d'accordo con quanto sostenuto dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Noi rispettiamo le opinioni degli altri ma poi alla fine dobbiamo decidere perché l'Italia ha anche questo problema: è un Paese che spesso discute molto, ma fatica a prendere la strada della decisione. Noi abbiamo intenzione di prenderla».
I pontieri sono al lavoro. Il presidente del Pd Matteo Orfini continua a ripetere che le distanze non sono poi così ampie, ma a Bersani e agli altri esponenti della minoranza ricorda anche che fu proprio l'ex segretario a chiedere ai parlamentari di rispettare le decisioni prese dalla maggioranza. Renzi non è «interessato» alle posizioni espresse dalle «correnti». Il segretario sa bene che le sensibilità interne sono assai diverse e che diverse saranno le risposte. Tant'è che anche sul «che fare?» degli emendamenti presentati al Senato non c'è affatto chiarezza: «Fermiamoci a lunedì e poi vediamo quali saranno i passi successivi», ha confermato Alfredo D'Attore che come gli altri è già rimasto scottato dalla battaglia sulla riforma costituzionale.
L'obiettivo a questo punto è uscire dal cul de sac dell'articolo 18, che anzichè mettere alle corde il premier ha finito per imprigionare la minoranza e la Cgil. Il segretario generale Susanna Camusso ieri ha auspicato la ripresa di un cammino unitario con Cisl e Uil (contrarie allo sciopero proclamato dal sindacato di Corso Italia) e attaccato Confindustria («in questa stagione è desaparecida, alterna sostegno al governo a larvate critiche, non vediamo protagonismo»).
Ecco perchè, per rompere l'isolamento, l'attenzione si va spostando sempre più sulla legge di Stabilità e sulla copertura degli ammortizzatori sociali post riforma. «L'ordine del giorno della Direzione dieci giorni fa prevedeva il Jobs act e la legge di stabilità scomparsa invece nella lettera di convocazione», attacca Stefano Fassina. Stesso scetticismo esprime anche il leader della sinistra Dem Gianni Cuperlo: «Se vuoi tutelare un milione di persone con una indennità di 800 euro mensili, devi avere delle risorse certe e devi averle subito». Quanto all'articolo 18 per Cuperlo se si escludesse «l'opzione della reintegra» si colpirebbe «un principio che ha un fondamento costituzionale».
Renzi però non sembra particolarmente preoccupato né sulla costituzionalità del venir meno dell'articolo 18 («se fosse un obbligo costituzionale perchè non vale anche per i lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti?») nè sull'estensione del confronto alle coperture degli ammortizzatori sociali: «Abbiamo scelto di far combaciare il periodo della discussione sul Jobs act con la legge di Stabilità perché c'é necessità di mettere dei denari su alcuni istituti, in particolare su quelli legati agli ammortizzatori sociali. Quindi é del tutto naturale considerare collegate le discussioni».

La Stampa 27.9.14
Riforma della giustizia, ecco gli errori da evitare
di Carlo Federico Grosso


Alla cerimonia d’insediamento del nuovo Csm, il Capo dello Stato è tornato, l’altro ieri, sul tema della riforma della giustizia. Un tema di fondamentale importanza - secondo, soltanto, a quello ancora più drammatico del l’economia e del lavoro - e sul quale, giustamente, il Presidente ha voluto richiamare l’attenzione delle forze politiche e dell’opinione pubblica in un’occasione ufficiale di parti
colare rilevanza istituzionale.
Che riformare la giustizia rappresenti una delle priorità del Paese è assolutamente incontrovertibile: lo dimostrano le lungaggini inaccettabili che si manifestano nei processi e le difficoltà nelle quali giudici e pubblici ministeri sono sovente costretti a lavorare. Lo specifico contesto nel quale ha parlato il Capo dello Stato (l’insediamento dell’organo di autogoverno della magistratura) conferisce d’altronde alle parole del Presidente un significato particolarmente pregnante. Esse costituiscono un monito alle forze politiche perché si sforzino di conseguire finalmente un risultato utile per il Paese ed un monito alla magistratura perché non ostacoli il rinnovamento ma anzi si rinnovi lei stessa.
Sotto quest’ultimo profilo le parole del Presidente sono assolutamente condivisibili. Parlando davanti ai nuovi consiglieri superiori, Napolitano ha giustamente stigmatizzato, innanzitutto, il correntismo: l’organo di autogoverno, nella sua componente togata «non è un assemblaggio di correnti», per cui «sono dannosi gli estenuanti, impropri, negoziati, nella ricerca di compromessi e di malsani bilanciamenti» fra le componenti. Parole forti, che colgono nel segno censurando costumi e prassi che da anni condizionano decisioni e scelte maturate fra le mura di Palazzo del Marescialli.
Si tratta di un ammonimento che diventa d’altronde ancora più incisivo quando, coinvolgendo anche i consiglieri laici eletti dal Parlamento, il Presidente ha osservato che il Csm deve essere inteso come un servizio reso alla collettività, che dev’essere pertanto esercitato con oggettività e badando soltanto al merito delle questioni, e non operando - come invece sovente avviene - come «acritici interpreti di posizioni di gruppi politici o di singoli esponenti politici», ovvero «di gruppi dell’associazionismo giudiziario o di singoli magistrati anche solo per ragioni di appartenenza o di “debito” elettorale».
Il primo problema che il nuovo Csm dovrà affrontare, ha aggiunto ancora il Presidente, è il persistente ritardo nelle nomine di molti dirigenti degli uffici giudiziari, incarichi che dovranno essere affidati, ha osservato Napolitano, «sulla base di accertate professionalità» e «senza dare all’opinione pubblica l’impressione di logiche spartitorie». Parole ineccepibili anche queste, che dovrebbero essere tuttavia rivolte, prima ancora, al mondo della politica, che nello scegliere i candidati alle massime cariche istituzionali di garanzia (Csm e Corte Costituzionale), hanno offerto, nelle passate settimane, uno spettacolo tristissimo in cui la logica della spartizione e dell’appartenenza sembrava prevalere su quella della qualità morale e professionale dei candidati.
Ma veniamo al tema della riforma della giustizia, sul quale il Presidente ha fortemente insistito. Al di là della specificità della materia «giustizia», il discorso concernente tale riforma coinvolge i nodi di fondo economici e sociali che devono essere affrontati dal Paese: il funzionamento corretto e spedito del sistema giudiziario – ha osservato il Presidente - «appaiono vitali al fine di dare le certezze e le garanzie di cui ha indispensabile bisogno lo sviluppo dell’attività economica e dell’occupazione», in quanto anche dall’efficienza dei Tribunali dipende «lo sviluppo di iniziative e progetti d’investimento da parte di operatori pubblici e privati, italiani e stranieri», nodo essenziale da sciogliere «per ridare dinamismo e competitività all’economia».
Anche qui si tratta di parole ineccepibili. Nasce tuttavia, subito, un interrogativo: se l’ambizioso progetto di riforma della giustizia annunciato da Renzi sia davvero progetto credibile, concreto, funzionale, e pertanto in grado di risolvere i problemi che ci assillano.
Le prime sensazioni non sono tranquillizzanti.
Alcuni mesi fa sono stati annunciati dal Presidente del Consiglio dieci progetti di riforma e di ciascuno di essi sono state tracciate le linee guida. A fine agosto otto di tali progetti sono stati approvati dal Consiglio dei ministri (come decreti-legge, come decreti o come disegni di legge). Ad oggi i testi definitivi di molti di tali progetti non sono stati resi noti e trasmessi formalmente alle Camere (non esisterebbero ancora i testi definitivi, in quanto le forze politiche di maggioranza non avrebbero ancora trovato un accordo su un certo numero di questioni).
Al di là delle questioni di forma che tale procedura suscita inevitabilmente, nella sostanza ciò che filtra all’esterno su ciò che accadendo decisamente preoccupa. Alcuni esempi: in materia di autoriciclaggio sembra che si stiano rincorrendo testi sempre più riduttivi dell’incisività del nuovo reato; in materia di falso in bilancio sembra che, allo stesso modo, la spinta ad annacquare sia fortissima; non si è ancora capito quale sarà davvero la soluzione definitiva in tema di prescrizione; in materia di intercettazioni il silenzio è totale.
Particolarmente importante, in questa situazione d’incertezza, può pertanto diventare il monito del Presidente della Repubblica a sostegno di una riforma indispensabile per la giustizia e per l’economia del Paese. Purché esso non sia, tuttavia, un monito generico ad operare, a fare comunque, ma anche un monito ad operare correttamente nei contenuti.
Non è infatti detto che fare significhi automaticamente fare bene.

il Fatto 27.9.14
Quale giustizia
L’inutile riforma della prescrizione
di Antonio Esposito

Presidente II Sezione Cassazione

Il disegno di legge sulla prescrizione è un intervento molto contenuto che non intacca la sostanza della riforma ex Cirielli. Quella legge del 2005, che ha tagliato notevolmente i tempi di prescrizione, non viene toccata nel suo meccanismo di base. Così la prescrizione resta ancorata al massimo della pena, aumentata di un quarto, con la conseguenza che delitti come la corruzione e la truffa ai danni dello Stato e la frode fiscale si prescrivono in sette anni e mezzo essendo stato fissato un termine di base di sei anni aumentabile di un quarto.
Nonostante il sistema processuale dell’acquisizione della prova in dibattimento abbia raddoppiato i tempi dei processi la ex Cirielli ha irragionevolmente ridotto i termini di prescrizione determinando l’estinzione di circa 150.000 processi l’anno, secondo una stima del Csm. Di fronte a questa situazione ci si sarebbe aspettati un intervento radicale sulla rimodulazione del termine di base della prescrizione, aumentandolo – per i reati per i quali oggi è previsto il termine di base di sei anni (tra i quali, come si è detto, la corruzione, la truffa aggravata, la frode fiscale) fino a dieci anni e con l’aumento da un quarto alla metà in caso di atti interruttivi. Viceversa, si è soltanto intervenuti sull’istituto della sospensione della prescrizione col prevedere che il termine di prescrizione si fermi per due anni dal momento della sentenza di condanna in primo grado, cui fa seguito un altro anno in caso di successiva condanna in appello.
TALE previsione appare illogica giacché, ancora una volta, si fonda sull’idea che la prescrizione del reato possa fungere da sanzione alla durata non ragionevole del processo, principio che, viceversa, non ha nulla a che vedere con la prescrizione poiché sia la Convenzione europea, sia la giurisprudenza di Strasburgo, sia il precetto sancito dall’art. 111 della Costituzione esigono che, in tempi ragionevoli, si pervenga a una pronuncia nel merito della controversia (che assolva o condanni) non a una pronuncia di mero rito, come quella che consegue anche alla dichiarazione di estinzione del reato che si risolve in un meccanismo che ostacola l’accertamento sul merito della questione dedotta in giudizio.
La ratio dell’istituto della prescrizione è, viceversa, ancorata all’esercizio dell’azione penale nel senso che essa scaturisce dall’inerzia o dalla rinuncia dello Stato a esercitare la pretesa punitiva nei confronti di colui che si ritiene essere l’autore di un reato. In sostanza, lo Stato, attraverso il titolare dell’azione penale, rinuncia al suo diritto potestativo a perseguire l’autore di un reato.
Più correttamente, quindi, in aderenza alla ratio dell’istituto e alla circostanza del notevole arco di tempo entro cui solitamente si conclude il giudizio di I grado, si sarebbe potuto individuare il termine, a partire dal quale la prescrizione non più decorre, nel momento in cui il pm proceda con citazione diretta ovvero richieda al gip la fissazione dell’udienza preliminare, essendo questo, sostanzialmente, in concreto, il momento in cui viene esercitata l’azione penale con richiesta al giudice di procedere penalmente nei confronti di chi si ritiene essere l’autore del reato, dando così concretamente corso alla pretesa punitiva dello Stato.
Tale meccanismo è in linea con quanto previsto dalla maggior parte degli Stati europei.
La nostra disciplina è quasi unica in Europa e determina inevitabilmente un gran numero di estinzioni dei reati per prescrizione.
I sistemi penali dell’area Common law non conoscono un istituto paragonabile alla prescrizione del reato, mentre la Francia prevede un sistema di prescrizione assai lungo dopo qualsiasi atto interruttivo. Così anche, il sistema penale spagnolo e quello tedesco nel quale è previsto che il reato si prescrive con il decorso di un periodo di tempo pari al doppio del termine prescrizionale ordinario dopo l’avvio del processo.
In sostanza, il legislatore avrebbe potuto, al fine di evitare l’enorme numero di processi prescritti, optare per l’aumento del termine di base da sei a dieci anni (per la maggior parte dei reati tra i quali la corruzione), e il prolungamento alla metà di tale termine. Il termine complessivamente sarebbe quindi arrivato a quindici anni, ripristinando, così, sostanzialmente, la normativa ante legge ex Cirielli. Così il sistema italiano sarebbe tornato quasi al livello di Francia, Spagna e in Germania dove il termine base di dieci anni (per la maggior parte dei reati), viene addirittura raddoppiato in caso di atti interruttivi sicché il termine massimo di prescrizione è di venti anni.
OPPURE l’Italia avrebbe potuto allineare il sistema italiano a quello del Regno Unito che contempla un limite temporale riferito all’estinzione dell’azione e non del reato. I time limits, posti dalla legislazione penale per il perseguimento dei reati si applicano, infatti, all’esercizio del potere di proporre l’azione in giudizio. Invece abbiamo scelto una terza via che non risolve, o risolve solo in parte, il problema.

il Fatto 27.9.14
Fenomenologia di una riforma: Giustizia
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, le interviste con i renziani (specialmente quelli di governo) emanano un senso di sottomissione e di sostegno incondizionato che provoca disagio. Possibile che non se ne accorgano?
Elena

LA LETTERA cita molte interviste, e devo riconoscere che ricorre sempre il plauso del governo a se stesso, e di tutti coloro che fanno parte del governo al capo unico e vero, che sarebbe Renzi. Giorni fa, sul Corriere della Sera, il presidente del Senato Grasso (ex magistrato) aveva dedicato qualche critica ed evitato il consueto tributo di gloria alla legge Orlando sulla Giustizia. Il gruppo Renzi non poteva lasciare senza commento adeguato anche solo un’ombra di critica al capo e ai suoi scout. Per questo, ha fatto intervenire subito (o forse è entrata in pagina spontaneamente e di slancio) la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, anche lei ex magistrato (Corriere della Sera, 25 settembre, intervista di Monica Guerzoni). Impossibile non riconoscere il modus operandi: si oscilla fra il fatto che la legge c’è, e si difende il dettaglio in discussione dicendo a chi dissente: “Non si critica ciò che non è stato letto con cura”. E solo dopo si nota che “la legge non c’è ancora e le critiche sono per partito preso”. Come d’abitudine ci si fa forti del fatto che “l’obiettivo è far funzionare...” (in questo caso la giustizia). Seguono due frasi fisse. Una “i testi ufficiali bisogna conoscerli”, con cui si liquidano come superficiali sbadataggini le osservazioni non esaltanti. E due: “Queste norme significano andare incontro al bisogno dei cittadini” (una variante è che “sono i cittadini a chiedercele”). Ma l’altro espediente è fare riferimento a ciò che la legge sarà, una volta fatta davvero (specialmente se si tratta, come quasi sempre, di una legge delega, vedi la tremenda questione del lavoro, bizzarramente chiamato Jobs Act). Il testo vero verrà quando verrà, segnato per forza da grandi novità. Per esempio l’intento simbolicamente, ma vistosamente punitivo, del taglio di ferie dei giudici, che non può non essere condiviso da masse di italiani che al massimo vanno al mare una settimana. Grasso aveva spiegato quanti giudici, per quante ragioni, non godono (alcuni mai) di quella pacchia di giorni di riposo, che serve comunque per scrivere le sentenze. Però il pubblicizzare vacanze di 45 giorni diventa un bel segnale che, in questa strana fase storica, mette alla gogna l’intero mondo giudiziario, serve a indebolire le resistenze e a isolare la parte colpita (ogni riforma strutturale del gruppo Renzi puoi non sapere a chi giova, ma sai sempre che “colpisce” qualcuno). E allora la Ferranti, renziana con alto incarico, ed ex giudice, arriva a dire che “il problema non può essere affrontato con il binomio minori ferie uguale maggiore produttività, perché la produttività della magistratura italiana è tra le più alte d'Europa”. Se fossi un magistrato mi offenderei, perché il suo plauso non cambia nulla. E infatti la nostra conclude, dopo la lode che non cancella la beffa: “Spero che il percorso parlamentare sia costruttivo e penso che troverà un'ampia condivisione”. Per forza. Non è il partito in cui, per citare il capo, “sono buono e caro e discuto con tutti, ma poi si deve fare come dico io”? A proposito, avete notato che, in questo doloroso dibattito, nessuno si rivolge a Orlando, il presunto autore della “Riforma della Giustizia”, salvo una o due citazioni del nome per identificare l'evento?

il Fatto 27.9.13
Volti nuovi democrat
Pina Picierno, il deserto dietro la fonderia
Demitiana, poi veltronian-franceschiniana, ora renziana d’assalto
La resistibile ascesa di una collezionista di gaffe
di Carlo Tecce


Per riassumere le opere di questa intraprendente europarlamentare, dicono i suoi detrattori, si potrebbe lasciare uno spazio bianco in pagina, non lungo, e poi scrivere una postilla, molto breve: questa è la carriera di Pina Picierno. Oppure si può riportare un elenco, una summa ideologica e culturale che racchiude lo spessore e il pensiero di Pina da Teano, provincia di Caserta, classe 1981: “Tre litri di latte, cinque baguette, due confezioni di fette sceltissime da 400 grammi l’una, macinato per il ragù, bocconcini di vitello, rucola, saccottini per la colazione. E ancora: tortellini, pane, biscotti, uova, salmone affumicato, parmigiano, pasta sfoglia, zucchine, mele, succhi di frutta, olio, coca cola, polpa di pomodoro, tarallucci”.
NON È FINITO con il vino, ma la lettura di questo scontrino – per dimostrare l’effetto miracoloso degli 80 euro di Matteo Renzi nei carrelli degli italiani – è il discorso più complesso che la Picierno abbia mai pronunciato in tv, dove si esibisce in sbuffi, smorfie, appelli, giudizi, proiezioni-segrete che persino i tecnici di Bruxelles ignorano. Con la sicumera di un premio Nobel, l’improvvisata analista ha rivelato un aumento dei consumi del 15%: merito degli 80 euro e di tanta fantasia. E di una generosa considerazione di sé: ora vuole governare la regione Campania. In principio, era Pina, la tifosa di Ciriaco De Mita. L’ambiziosa Pina (nel 2003) firmò una tesi sul linguaggio di Ciriaco De Mita, affabulatore irpino, già allora regnante in decadenza, sempre splendente icona del clientelismo e “salige piancente” (invertite le c con le g) cui aggrapparsi: “Ho scoperto che adopera una struttura argomentativa a catena logica. E che non rinuncia, e questa è la novità, a una componente emotiva”. A una “componente emotiva”, a una riconoscenza minima, la Picierno ha rinunciato presto. Scordati nel passato i viaggi a Strasburgo o a Bruxelles con i giovani popolari organizzati anche per omaggiare De Mita, la Picierno ha inaugurato la stagione Dario Franceschini. Quando ci sono da compilare le liste, la Picierno è il Pier Luigi Pizzaballa, ex portiere di Roma e Milan, l’ultima figurina che mancava ai collezionisti negli anni 70-80. A Walter Veltroni, usurato dai cacicchi locali, serviva un Pizzaballa, una riserva da schierare titolare, un gregario o uno sconosciuto da convertire in (finto) campione. Un giovedì sera, erano le Politiche 2008, a pochi giorni da una disastrosa campagna elettorale contro Silvio Berlusconi, Franceschini suggerì a Veltroni di piazzare capolista Giuseppina detta Pina Picierno e di pensionare l’anziano De Mita. I rischi erano limitati: liste bloccate, seggio blindato. Oltre a cincischiare sulle fossette che le tracciano il viso appena sorride – è una parafrasi degli articoli di quelle settimane – la Picierno fu interpellata su De Mita: “È stato importante nella storia degli anni 80, ma non si va via da un partito perché il segretario decide di investire sui giovani”. Qualche mese prima, la medesima Picierno battagliava contro il repulisti anagrafico di Veltroni: “Non si può buttare dalla finestra la storia di chi è stato protagonista delle generazioni precedenti”. Picierno è una generatrice automatica di polirematiche, frasi fatte, a volte assertive per entusiasmare, a volte dubitative per compiacere. Non ha simpatie o antipatie, piuttosto ha convenienze: “Lo slogan Adesso di Renzi? L’ha lanciato Franceschini nel 2009, ‘mazza che svolta! ”. Quando c’era Pier Luigi Bersani, era bersaniana. Quando c’era Enrico Letta, era bersaniana e lettiana. Ora che c’è Renzi, è renziana rancorosa con i bersaniani e i reduci lettiani. Con l’auspicio che Denis Verdini non prenda mai un formale potere al Nazareno, la Picierno è fedele soltanto a Franceschini, uno dei politici più infedeli dei democratici, il ministro che rassicurava Letta mentre spalancava il portone di Palazzo Chigi a Renzi.
UN PAIO DI ANNI FA, un po’ assente in tv, Picierno s’inventò movimentista, da striscione, da protesta e da corteo. Era per una causa nobile: liberare Scampia, cacciare la camorra. È una dimensione che sfrutta, da casertana, giovane, dem. E con lo zio Raffaele Achille Picierno, ex sindaco di Teano, coinvolto in un’inchiesta per associazione a delinquere, abuso d’ufficio e certificazioni illegittime. La Picierno vuole occupare Scampia, perché in quel periodo la moda era occupare: Wall Street, Madrid, ovunque. Dove ci sono le orribili case a vele, Picierno voleva piantare le tende. Risultato: una sfilatina di 10 persone.
Riesce a entrare per il secondo giro in Parlamento: ormai una veterana. Quando ha avvertito la debolezza dei bersaniani, si è avvicinata al renzismo. Pur di punire Rosy Bindi, un pezzo del partito la propose per la presidenza in Commissione Antimafia e tra i meriti citavano il suoi impegni nelle associazioni. Roberto Saviano, con la galanteria di un uomo che fa investiture senza essere troppo esplicito, fece intuire la sua preferenza per la Picierno. Sarà per la prossima. Pina ha la testa dura, e non s’arrende. Vuole fare “ammuina”. E urlò con un cinguettio su Twitter: “Il gassificatore di Capua non s’adda fare”. Il fiume Adda non c’entra nulla, semmai c’entra il lago di Como, perché Giuseppina detta Pina voleva citare Alessandro Manzoni, “non s’ha da fare”. Sul comodino, a casa, dice di avere sempre le poesie di Neruda e il Pinocchio di Collodi. E forse anche Topolino. Perché una volta in radio, interrogata su un’alleanza con l’Udc, rispose giammai: “Solo se smettono con la politica del dolce forno”. Ma erano i due forni, quelli di Casini. E non il forno elettronico, reclamizzato su Topolino, per scaldare i cornetti, fa notare Lanfranco Palazzolo. Per le Europee, Renzi voleva una donna per ogni circoscrizione. Solito dilemma Pizzaballa al Sud, Picierno presente: sarà l’unica capolista ad arrivare seconda. Ma Strasburgo è riduttiva per Pina. Questo fine settimana, dopo che Landini e Sgarbi l’hanno sbertucciata in tv, celebra le “Fonderie” a Bagnoli di Napoli, 72 ore di incontri per ricevere gli omaggi di un gruppo di sottosegretari e ministri (Delrio, Martina, Orlando) capitanati da Francechini (ovvio) e buttar giù un programma per la regione Campania. Sarà molto complicato tenere a casa Vincenzo De Luca e poi correre per la Regione, fare ambo con Gennaro Migliore, l’ex di Sel che vuole scalzare De Magistris. Non è facile rottamare De Luca. Impossibile rottamare Giuseppina detta Pina: non c’è nulla da rottamare. Ma questo lo dicono i detrattori.

La Stampa 27.9.14
Sgarbi insulta la Picierno: “Sei la cameriera di Renzi”

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il Fatto 27.9.13
Regionali Emilia, iscritti Sel scelgono l’alleanza con il Pd. E’ rottura con Tsipras
di Annalisa Dall'Oca

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il Fatto 27.9.14
Province, a Genova c’è listone di Pd, Ncd e Forza Italia: “Ma è per scrivere lo Statuto”
di Renzo Parodi

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La Stampa 27.9.14
Sono tredici i decessi accertati, la maggioranza per mesotelioma pleurico, all’Olivetti di Ivrea
Tra gli indagati per omicidio De Benedetti, Passera e Colaninno
“Tardivi gli interventi dell’Olivetti contro l’amianto”
Gli inquirenti: ritardata la bonifica per risparmiare
di Giampiero Maggio


Chi all’Olivetti sapeva del pericolo amianto ha agito con colpevole ritardo. Eppure i rischi e i pericoli a cui erano sottoposti gli operai si conoscevano bene.
«Tardivo». E’ una parola che ricorre spesso nelle carte relative alla chiusura indagini firmate dai magistrati della Procura di Ivrea, da 2 anni impegnati a far luce sui casi degli ex dipendenti morti e ammalati per mesotelioma pleurico e cancro ai polmoni. Un’inchiesta con 39 indagati, tra cui Carlo e Franco De Benedetti, i figli dell’ingegnere, Marco e Rodolfo, gli ex amministratori delegati, Corrado Passera, Roberto Colaninno, Elserino Piol, oltre ad una sfilza di ex dirigenti e direttori di stabilimento. Quel che emergerebbe dalle testimonianze raccolte dagli inquirenti e racchiuse nelle oltre 20 mila pagine dell’indagine, è che la prevenzione e la manutenzione delle strutture coibentate in amianto fossero state eseguite in ritardo. E male. Perché? Per un risparmio sui costi della bonifica, ipotizzano gli inquirenti. C’è addirittura il sospetto, così come avrebbe raccontato una testimone ai magistrati, che i risultati relativi al monitoraggio delle polveri d’amianto che si disperdevano nell’aria venissero alterati. Dichiarazioni che, se dimostrate, aggraverebbero la posizione di molti degli indagati, ex dirigenti in primis.
Il lavoro dei due pm titolari dell’inchiesta, Lorenzo Boscagli e Gabriella Viglione è racchiuso nelle migliaia di pagine che ricostruiscono gli organigrammi societari, le responsabilità di ogni indagato, i casi clinici dei dipendente che si sono ammalati e poi sono deceduti. Ma anche le testimonianze. Poche, in realtà: «Abbiamo riscontrato molta reticenza, parecchia omertà», allarga le braccia, il procuratore capo della Repubblica di Ivrea, Giuseppe Ferrando.
L’Olivetti da queste parti è un totem intoccabile. Eppure ora si scopre che anche qui, nella storica azienda di Ivrea fondata da Camillo Olivetti, quella che poi avrebbe portato nei musei, a New York, la Lettera 22 e la «Perottina», il primo personal computer, ci si ammalava e si moriva d’amianto. Quel minerale era dappertutto, non solo nelle officine e nei capannoni adibiti alla produzione. C’era anche, ad esempio, nelle controsoffittature e nelle pareti della mensa, alle Officine H, frequentate dai dipendenti e dai figli degli operai. E quando sono stati scoperti i rischi e i pericoli, secondo i magistrati, chi aveva il dovere di proteggere la salute dei lavoratori lo ha fatto troppo tardi.
Prendiamo, ad esempio, il talco, una polvere bianca e soffice contaminata di tremolite d’amianto e che si usava in moltissime lavorazioni: ci sono documenti che ne attestano la pericolosità già nel 1981, scambi epistolari con il Politecnico di Torino che forniva dati allarmanti. Eppure quel talco, responsabile della maggior parte dei decessi, fu sostituito solo alcuni anni dopo. «Ora - dicono i famigliari delle vittime - vogliamo che finalmente venga stabilità la verità».

Corriere 27.9.14
Accolte le richieste della difesa
Piacenza: il gip proscioglie il padre che lasciò il figlio a morire in auto
Quando Andrea Albanese, nel giugno del 2013, dimenticò in auto il figlio Luca di 2 anni, poi trovato morto, non era capace d’intendere e volere

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il Fatto 27.9.14
La Sapienza, elezioni nuovo rettore: fumata nera
di Marco Bella

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Corriere 27.9.14
La protesta dei Rettori
Spending review: «No all’assunzione dei precari con i tagli agli Atenei»
Un miliardo di risparmi sull’istruzione. Paleari: (Crui): siamo infuriati
di Leonard Berberi

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Corriere 27.9.14
Piano per risparmiare un miliardo
Maturità senza prof esterni, fine di un’era
Tagli anche agli atenei, la protesta dei rettori
di Leonard Berberi


Niente più membri esterni a partire dalla prossima Maturità: solo il presidente della commissione arriverà da un altro istituto. È una delle 42 voci del piano di spending review da un miliardo su Istruzione e ricerca. Prevista la riduzione di oltre 8 mila unità tra il personale tecnico-amministrativo: l’obiettivo è assumere 148 mila docenti precari. «Infuriati» i rettori per i 570 milioni di tagli che rischiano le università.

Una spending review sull’Istruzione da quarantadue voci e un miliardo di euro, di cui 400 milioni di sacrifici chiesti all’Università e alla ricerca. Una riduzione di oltre ottomila unità tra il personale tecnico-amministrativo degli istituti. E nuove commissioni alla Maturità. Il tutto con l’obiettivo di fornire al governo un’indicazione su dove si può tagliare. E di contribuire, nel 2015, all’assunzione di oltre 148 mila docenti precari. Sono questi alcuni dei punti principali del documento che il dicastero dell’Istruzione ha consegnato a quello dell’Economia nell’ambito del processo di risparmio. Un lungo elenco di «razionalizzazioni», «azzeramenti» e richieste.
Una delle novità più rilevanti è che dalla prossima Maturità dalle commissioni spariranno i membri esterni. Al loro posto subentrano gli insegnanti interni. Soltanto il presidente della commissione arriverà da un altro istituto. Una decisione che porterà a risparmiare alcune decine di milioni di euro se è vero che nel 2013 la sessione è costata circa 163 milioni. Ogni commissario esterno comporta un costo di 900 euro (escluse le spese di trasferta), quello interno di 400.
Oltre ai tagli possibili il Miur ha inviato alcune misure da inserire in legge di Stabilità che se da un lato puntano a mettere in atto il piano del governo sull’istruzione (la «Buona Scuola»), dall’altro cercano di allontanare la scure da 170 milioni sui finanziamenti agli atenei prevista dall’ex ministro Giulio Tremonti, rimandata con la Finanziaria 2014, ma che potrebbe essere attuata nel 2015. Se le cose non dovessero andare bene, infatti, al settore accademico potrebbe essere chiesto quindi di contribuire con 570 milioni: 400 nell’ambito della spending review più i 170 previsti dall’ex capo dell’Economia.
Cifre provvisorie che provocano la reazione di Stefano Paleari, il presidente della Conferenza dei rettori. Il professore si dice «infuriato per gli ulteriori sacrifici solo perché vogliono risolvere un problema di precari nella scuola». Per questo chiede di «smettere di parlare di “spending review”: quella vera serve a trasferire le risorse dove sono più produttive. Qui si tratta di tagli e basta». E ancora: «È dal 2008 che riduciamo i costi — lamenta il docente —. Se le riduzioni resteranno allora le conseguenze politiche potrebbero essere imprevedibili. Intanto non ci chiedano più di competere con gli atenei stranieri: come facciamo senza soldi e con meno ricercatori?».
Dal ministero dell’Istruzione provano a rassicurare. «La coperta è corta, bisogna intervenire su tutti i settori, anche sul personale che fa capo direttamente al Miur», ragionano. Ma precisano anche che oltre ai risparmi hanno chiesto al governo un miliardo di euro per dare il via alla «Buona Scuola», altri 130 milioni per la digitalizzazione, la rete Wi-Fi e i laboratori, 170 milioni per coprire i tagli stabiliti da Tremonti «e ulteriori finanziamenti per le borse di studio». Ricordano, poi, «che le cose possono cambiare fino all’ultimo minuto». Insomma: non è detta l’ultima parola. Non ancora.

il Fatto 27.9.14
Le impronte digitali che umiliano i rifugiati
di Stefano Pasta


SIAMO TERRORIZZATI, stanno provando in tutti i modi a prenderci le impronte digitali”. Queste le parole in inglese che M. riesce a dire prima che il cellulare siriano da cui chiama si spenga. Si trova nell’ufficio volanti della Questura di Treviso insieme ad altri 30 siriani arrivati in pullman da Reggio Calabria, dopo essere stati recuperati mercoledì dalla nave San Giusto. Passata un’ora, risuona il cellulare: “Hanno portato 6 di noi in una stanza per convincerli a lasciare le impronte”. Alessandro Tolloso della Questura di Treviso spiega: “Stiamo attuando fermezza ma non violenza per fotosegnalare. Chi si rifiuterà, sarà denunciato secondo l’art. 650 del Codice Penale per inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”. Intanto, in una nota, il sindacato di polizia Coisp parla di “persone che piangono”.
Sta cambiando l’accoglienza per chi scappa dalla Siria? Pare proprio di sì. Fino poche settimane fa, i profughi venivano ospitati in centri di accoglienza e, in caso volessero fare domanda di asilo in Italia, si presentavano in Questura successivamente.
Quasi tutti hanno invece proseguito verso il Nord Europa, Svezia e Germania le mete più ambite. Da una decina di giorni, invece, il Vi-minale ha chiesto di identificare i profughi non appena arrivano nelle regioni scelte per ospitarli. In realtà, l’Italia sta facendo esattamente quello che prevedono le norme Ue. Peccato che così, in base all’Accordo europeo di Dublino, i profughi siano obbligati a presentare domanda nel primo Stato in cui vengono fotosegnalati. Per chi fugge con i barconi è obbligatoriamente l’Italia, cioè dove i profughi non vogliono rimanere.
La conferma arriva anche da Milano. Qui, dal 18 ottobre 2013 al 27 agosto 2014 sono passati 21.145 siriani ospitati per una media di 4 giorni nei dormitori che il Comune ha attivato in collaborazione con la Prefettura. A nessuno di loro sono state prese le impronte, con l’eccezione dei 16 che volevano chiedere asilo qui. Tutti gli altri hanno attraversato l’Italia senza lasciare traccia, “liberi” di andare verso Nord. Nell’ultima settimana l’aria è cambiata: i siriani vengono trasportati con voli charter nella tendopoli dalla Croce Rossa nell’aeroporto di Bresso e subito sono accompagnati da poliziotti con mascherine alla Questura di Milano, dove sono spinti a lasciare le impronte. Per
N. e le sue figlie vuol dire la fine del sogno: “Da quando sono scappata dalle bombe di Aleppo, pensiamo solo a raggiungere mia sorella in Olanda”.

il Fatto 27.9.14
Lampedusa
Altro che festival dei migranti: riapre il Cie e Mare Nostrum è agli sgoccioli
di Silvia D’Onghia


All’interno sono già stati portati scarpe e vestiti. I contingenti di polizia dal “continente” sono già pre-allertati: lo sanno in Sicilia, lo sanno a Bari, lo sanno a Roma, a Genova le partenze sono previste per i primi di novembre. È tutto pronto. Manca solo l’ufficialità: il Centro di prima accoglienza di Lampedusa riapre i battenti e, si presume, lo farà a pieno regime. Dal Viminale finora solo silenzio. Sull’isola invece se ne parla da un po’ e, anche se nessuno ha avuto comunicazioni precise, la popolazione non ne è affatto entusiasta. In un primo momento, si era addirittura ipotizzata la riapertura per la settimana prossima. Poi, evidentemente, qualcuno ha guardato meglio il calendario e si è reso conto che venerdì 3 ottobre cade il primo anniversario dell’ecatombe dell’Isola dei Conigli, dove morirono 400 persone. E proprio in quei giorni, Lampedusa ricorderà quella strage con “Sabir”, il “Festival diffuso delle culture mediterranee”, voluto dal sindaco Nicolini, dall’Arci e dal Comitato 3 ottobre, che da quell’immenso lutto ha preso il nome. Ora, già il Festival è al centro di aspre polemiche (come il Fatto ha scritto nei giorni scorsi) ; se fosse poi coinciso con la riapertura del Cpa, avrebbe perso il suo intento nobile.
DI CERTO, la prossima settimana non mancheranno le proteste: parte della popolazione lampedusana, ostile alla giunta Nicolini, si è riunita nei giorni scorsi per organizzare due manifestazioni “contro Sabir e il loro concetto di integrazione” proprio il 3 e il 4 ottobre. In questo clima non si poteva pensare di aprire anche il Centro di accoglienza.
Così la data è slittata a dopo il Festival, presumibilmente di un paio di settimane. “È un ritorno al passato, perchè sappiamo come andrà a finire”, commenta Biagio Bevilacqua, del sindacato di polizia Sed Sicilia. Il riallestimento del centro sarà prodromico a un’operazione ben più ampia: la fine di Mare Nostrum. “Se li lasciano arrivare sull’isola, vuol dire che non li vanno più a salvare in mare”, è il commento più diffuso. In effetti i tempi coincidono con quanto annunciato tre giorni fa dal ministro Alfano: “Da novembre partirà Frontex Plus per consentire il progressivo disimpegno italiano”. Il problema è che Frontex Plus, finora, è solo un timido annuncio.
Ieri la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha difeso la missione italiana: “Mare Nostrum – ha detto – è stata una risposta degna di un Paese che non vuole fare del cinismo la propria bandiera. Io ne sono grata e fiera. Anche se non basta”. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, attraverso la portavoce per il Sud Europa, Carlotta Sami, ha fatto sapere che “dall’inizio di quest’anno fino ad ora in Europa sono arrivati 130 mila immigrati; sono stati 3 mila i morti. Oltre la metà di questi flussi, circa il 60 per cento, sono persone che fuggono dalla guerra, spesso conflitti antichi che si riaccendono. Dalla Siria sono circa 3 milioni i rifugiati. Persone che hanno diritto all’accoglienza ma soprattutto all’integrazione”. Come si può pensare di sostenere con i 500 letti del centro una migrazione simile?

La Stampa 27.9.14
Record di richieste di asilo: +24% in un anno
Più di 330mila in sei mesi, entro dicembre è previsto il raddoppio
Mai così tanti dal conflitto nell’ex Jugoslavia
Sono diretti principalmente in sei paesi, tra cui l’Italia

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il Fatto 27.9.14
Convenzione di Istanbul dimenticata, si riducono le pene per stupro
di Rosaria Iardino

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Repubblica 27.9.14
La storia.
A bordo del 508 che porta a Corcolle, periferia est di Roma
Una notte sul bus della paura dove si sfidano neri e italiani “Ma non è una guerra tra poveri”
di Gabriele Romagnoli


Sabato scorso a Corcolle, Roma, un gruppo di extracomunitari assalta un bus con sassi e bottiglie. Il giorno dopo sassate su un altro bus
Una passeggera a bordo: Ogni giorno faccio tre ore su questo mezzo per poter guadagnare seicento euro al mese
L’autista del bus 508: “Quanti neri abbiamo caricato alla fermata? Venti. Se, al buio, qualcuno non lo vedi, può capitare”

Qui, dopo gli assalti degli immigrati alle autiste dell’Atac, è scattata la rappresaglia contro gli stranieri e la polizia ha blindato il quartiere. Che resta una bomba a orologeria. Perché in molti continuano a soffiare sul fuoco. Non solo in strada

ROMA «SEI mai salito di notte sul 508? Provaci, ascolta quei pendolari che da una vita sopportano questo schifo pagando l’abbonamento e poi ne parliamo!». Questo invito a chi fa informazione è apparso nella bacheca dei commenti relativi a un intervento su un fatto di cronaca. Per due volte, come riportato dalla stampa nazionale, un autobus diretto dal confine di Roma all’estrema periferia è stato assaltato da gruppi di immigrati: vetri sfondati, autisti minacciati. Ne sono seguite proteste contro la presenza straniera, ronde, qualche ulteriore violenza. La frazione di Corcolle è divenuta sinonimo di un esplosivo a miccia lunga; quell’autobus, il mezzo che lo trasporta. «Sei mai salito sul 508?». A pochi giorni dall’incidente raccolgo l’invito. Raggiungo con la metropolitana Ponte Mammolo e da qui il capolinea dell’Atac. Una decina di persone attende con pazienza, sporte di plastica, borsette impreziosite da una civetta di strass, sacchi trasparenti stracolmi di rotoli di carta igienica. I muri sono pieni di scritte. “Figli della stessa rabbia”, seguita da falce e martello. A fine percorso leggerò: “No ai neri”, con una svastica, ma al contrario. Quella che le riassume tutte è: “Vita puttana”, senza alcun simbolo. L’autobus arriva in ritardo, i passeggeri salgono sbuffando, il conducente scende. Alle proteste risponde: «Prima d’essere autista sono una persona umana io, dovete capi’!». Gli unici comprensivi sono due suoi colleghi fuori servizio che tengono bastoncini di liquirizia a lato della bocca come sigari spenti e guardano gli immigrati con le montagne di carta igienica scuotendo la testa: «A noi, questi ce toccano». L’attesa della partenza è una babele di voci al cellulare: ognuno viaggia solo e parla con qualcuno lontano, in moldavo, nigeriano, pakistano e, perfino, italiano. Non occorre essere poliglotti per intuire che l’argomento unico è la fatica di sopravvivere. Non quella di vivere, quella è un lusso che transita altrove. La password universale qui è “euro”, preceduto da numeri molto bassi in qualunque lingua. Poi: “bollettino”, “interessi passivi”, “ritardo”. L’autista risale e prova a mettere in moto, fallendo più volte e invocando a vario titolo «la Madonna addolorata» prima di riuscirci. Solo allora due donne che fumavano sulla banchina si affrettano per infilarsi tra le porte in chiusura. Una è nera, l’altra bianca. Il commento è: «St’africani: fanno come gli pare». «Ma noi italiani se lo diciamo siamo cattivi». «Meglio star zitti, che nessun governo ci difende ». «Specie adesso, dopo quel che è successo». In realtà, di voci se ne sono alzate.
Poche ore prima ho ascoltato Rtr 9-9, una radio locale che, almeno sui taxi di Roma, la mattina è diventata più popolare di quelle del tifo. Va in onda un programma chiamato “Cor veleno”. Conduce Luca Casciani, erede di una tradizione di tribuni politicamente scorretti. Difende appassionatamente i marò e Daniele, il minorenne di Torpignattara accusato per aver ucciso con un pugno un immigrato ubriaco che gli aveva sputato in faccia. Attacca, tra gli altri, il sindaco Marino («Corca, che ha telefonato all’autista assalita»), i registi compassionevoli di sinistra («prenditi un migrante in casa a Coppedè ») e lo chef Carlo Cracco («per coerenza, non può fare la pubblicità alle patatine»). Il punto non è quanti ascoltatori abbia (non pochi) o quanti like su Facebook, ma se il suo pensiero sia rappresentativo, se si stia diffondendo. Sulla vicenda dell’assalto all’autobus queste sono le sue parole, trascritte dal podcast: «Voi quaranta che avete aggredito un’autista donna siete in Italia a scrocco, rappresentate un problema e avete il coraggio di protestare? Qui servirebbe il matto, uno che tiene in macchina una mitragliatrice e ne fa fuori trentaquattro. Erano quaranta, se ne salvano sei? Il problema è quello: che se ne sono salvati sei. Sei che hanno cercato di distruggere un mezzo della collettività che li mantiene, brutte sanguisughe. Fossero morti affogati in quel che chiamano il canale di Sicilia, sarebbero quaranta bastardi in meno che aggrediscono un’autista dell’Atac». Segue la precisazione che questo non ha «nulla a che vedere con il razzismo», che «bastardo», «scimmia» è chi compie questi atti, a prescindere dal colore della pelle. Queste e altre opinioni simili lo speaker rivendica, non parlerebbe mai di «estrapolazione da un contesto» come fanno i politici che critica.
Per “par condicio” riporto un commento letto nella bacheca citata all’inizio, scritto in risposta a un utente avvelenato, in un italiano incerto: «Razzista, spero la guerra ti porti a dover emigrare e morire in mare nell’intento di andare a far l’America come gli italiani nel Novecento ».
Divisa tra due mari di risentimento corre la strada del 508, accompagnata da una costante: monnezza. È come fosse un guardrail: spazzatura a mucchi sulla Prenestina, sulla Polense, a Roccalumera. Spesso si addensa in prossimità delle fermate, creando una contro-fioriera intorno alla palina. Talora le fa compagnia una prostituta arrivata da Est, in attesa sul ciglio della strada, o seduta a fianco di un cumulo. All’imbocco di una laterale un cartello invoca: “Ritirate l’immondizia anche in questa via, grazie”. La domanda è: anche? Dove altro lo fanno?
«Dottor Fortini, presidente dell’Ama, è mai salito sul 508?».
Attacco discorso con la mia vicina, un’anziana pendolare sfinita dall’elenco di preoccupazioni appena riversate al telefono.
«Tanto so già che cosa scriverà: che è una guerra fra poveri. Poi ve ne fregherete. A voi piacciono di più le guerre fra ricchi, di quelle sì che parlate».
Tipo?
«Berlusconi e sua moglie. O Montezemolo e quell’altro col maglione. Lì chi ci perde vince trenta milioni di euro, invece io ne guadagno seicento al mese e mi faccio tutti i giorni tre ore di questo autobus».
A Tor Tre teste sta scritto sul muro: “Morte ai ricchi”.
Salgono due neri con gli occhiali a specchio e lo smartphone. Uno ha sul display del cellulare la propria immagine a torso nudo. Sembrano usciti da un video di Kanye West più che da questo viottolo tra il “Parco della Mistica” e l’indicazione “Uova ruspanti”. Nel portale d’informazione Dinamo un cittadino che ha scelto per pseudonimo Anteo Zamboni, il ragazzo che cercò di uccidere Mussolini e fu linciato, ha dato una versione alternativa degli assalti agli autobus per Corcolle: «È uso comune di non pochi autisti non fermarsi quando in attesa ci sono parecchi migranti. Di qui la reazione ». Comunque eccessiva e ingiustificabile. La redazione del portale, subissata da messaggi furibondi, afferma che il mancato stop «è stato confermato da diversi sindacati, ritenendo il comportamento inaccettabile e chiedendo al contempo condizioni migliori per i conducenti ». Quando lo chiedo a quello del “mio” 508 e ai suoi colleghi la risposta è: «Quanti neri hai visto alle fermate? Venti? E quanti ne abbiamo caricati? Venti. Poi se, al buio, qualcuno non lo vedi, può capitare. Stamo a scherza’, eh?».
Ciò su cui non puoi scherzare è la vita agra di tutti quelli che, italiani o extracomunitari, bianchi o neri, percorrono questa tratta ogni giorno per andare a lavorare o, peggio per cercare un lavoro al posto di quello perduto. L’insofferenza ha molte cause, non necessariamente lo sfogo deriva da quella principale. Questo autobus trasporta un universo di frustrazioni, delusioni, speranze perdute nel corso degli anni e delle migrazioni e al finestrino fa scorrere montagne di spazzatura, costruzioni dalla dubbia legittimità, traffico perfino nella campagna. Quando un’amministrazione si convince che Roma sia quella che gli americani vedono all’Oscar e tutti gli altri nelle gite organizzate governa dove sono accese le luci e non s’accorge dell’oscurità che avanza.
«Sindaco Marino, è mai salito sul 508?».
Nel caso, con la scorta.

La Stampa 27.9.14
La crisi tedesca premia i populisti anti-Europa
Il rallentamento del Paese appare sempre più strutturale e non transitorio . Così crescono i populisti di Afd
di Tonia Mastrobuoni

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Repubblica 27.9.14
Una “gola profonda” inchioda la Fed
Ex funzionaria della Banca centrale americana accusa: “La Federal Reserve era succube di Goldman Sachs” E per dimostrarlo consegna alla radio la registrazione di ore di riunioni degli ispettori. La donna era stata licenziata
di Federico Rampini


NEW YORK Per la prima volta nella storia c’è una “gola profonda” che viene dalla Federal Reserve. E lancia alla banca centrale americana un’accusa grave: «Succube di Goldman Sachs ». La storia è clamorosa, protagonista una funzionaria licenziata in tronco, Carmen Segarra. Lavorava alla Federal Reserve di New York, l’ufficio che all’interno della banca centrale ha i compiti di vigilanza sugli istituti di credito. La Segarra si rese “colpevole” di un’indagine troppo dura su Goldman Sachs. Proprio quella severità le è costata il posto di lavoro. Ma la vendetta della Segarra è implacabile: prima di andarsene ha registrato intere sedute degli ispettori della Federal Reserve. E ieri mattina quelle registrazioni sono andate in onda sulla National Public Radio (Npr). Creando un imbarazzo enorme: è la prima volta che la Fed si trova al centro di un simile scandalo. In particolare nelle riunioni interne, registrate segretamente dalla Segarra, si sentono i dirigenti della Fed che definiscono “shadowy”, cioè torbidi, alcuni comportamenti di Goldman Sachs. Ma poi non hanno il coraggio di andare fino in fondo. La banca d’affari è troppo potente? Metterla sotto accusa può avere effetti destabilizzanti sull’intero sistema? O si tratta semplicemente di un atteggiamento di sudditanza, quello che gli esperti definiscono “regulatory capture”: il regolatore viene catturato da colui che dovrebbe disciplinare.
La vicenda della Segarra è esemplare di questi conflitti d’interessi che hanno reso tutte le banche centrali cieche o impotenti alla vigilia del grande crac sistemico del 2008. Il fallimento dei controllori fu evidente a New York quando la bancarotta di Lehman portò alla luce frodi su una scala gigantesca. Uno dei colpevoli della mancata vigilanza, Timothy Geithner, sarebbe stato di lì a poco “promosso”: da capo della Fed di New York a ministro del Tesoro della prima Amministrazione Obama...
In un momento di autocritica, incalzato dal Congresso, il successore di Geithner alla testa della Fed di New York, William Dudley, decise di aprire un’indagine su quello che non aveva funzionato. Affidò l’incarico a un esperto esterno, David Beim, docente di finanza alla Columbia University. Dandogli ampio accesso a tutti i funzionari della Fed. La conclusione dell’indagine di Beim fu pesante: una requisitoria contro la «cultura della Fed». Troppo «deferente e rispettosa» verso quelle banche che avrebbe dovuto controllare e punire. Timorosa di mettersi in rotta di collisione coi padroni di Wall Street. Insomma una vigilanza pavida e imbelle aveva contribuito al disastro del 2008. La conclusione del rapporto di Beim: bisognava iniettare nella Fed forze nuove, elementi venuti dall’esterno, con un atteggiamento più indipendente e senza timori reverenziali verso Wall Street.
Nel 2011, anche in seguito al rafforzamento dei poteri di vigilanza (con la legge Dodd-Frank varata dal Congresso), la Fed di New York fa proprio quello che le era stato raccomandato. Assume nuovi ispettori per la vigilanza. Una è Carmen Segarra. Ha un curriculum prestigioso, ha studiato alla Sorbona di Parigi, alla Columbia e Cornell University, infine Harvard. Poliglotta, parla inglese francese spagnolo e italiano. Non è una burocrate, ha anche lavorato nel settore privato: 13 anni fra la Citigroup americana e la Société Générale francese. Conosce gli ingranaggi del sistema “da dentro”. E non ha complessi d’inferiorità. Neppure nei confronti dei suoi capi alla Federal Reserve. I quali all’inizio le fanno fiducia, affidandole il dossier Goldman Sachs. La più potente delle banche d’affari, detta anche La Piovra. Un colosso che oltre alla finanza sa curare i rapporti con i potenti del mondo intero. Nel sistema delle “porte scorrevoli” di Goldman Sachs, dove si alternano incarichi pubblici e privati, la banca ha annoverato tra i suoi capi o alti consulenti un segretario al Tesoro Usa (Robert Rubin) e l’attuale presidente della Bce Mario Draghi. Dopo soli sette mesi di lavoro sul dossier Goldman Sachs, la Segarra viene cacciata. Ma ha portato con sé 46 ore di riunioni registrate in gran segreto, usando un gadget da film di spionaggio, un micro-registratore comprato da Spy Store. Sono le riunioni andate in onda su National Public Radio. Dove i suoi ex capi lamentano le pratiche dubbie e pericolose di Goldman Sachs. Poi insabbiano tutto.

Repubblica 27.9.14
L’altro Islam in piazza “Fermiamo i boia dell’Is”
di Tahar Ben Jelloun


CHISSÀ se le migliaia di musulmani che ieri hanno partecipato alla manifestazione davanti alla grande moschea di Parigi, chiedendo che si metta fine alla barbarie dell’Is, hanno pensato che le catastrofi storiche non accadono per caso. E che neppure possiamo vederle come incidenti della storia.
Un musulmano contro Is a Nantes, Francia, con lo slogan “Non nel mio nome”
SONO state preparate, talora annunciate. Basta cercare un po’ per trovarne le origini, riconoscerne le premesse, individuare gli elementi che le hanno permesse e favorite. Eppure, ogni volta ci si stupisce e si grida all’orrore, come se non avessimo né passato né memoria.
La “Stato islamico” jihadista del sinistro Abu Bakr Al Baghdadi, autoproclamatosi Califfo, viene da lontano, da un tempo in cui quell’individuo non era ancora nato. Per semplificare, potremmo far coincidere la sua origine con la data del 29 agosto 1946, quando il presidente egiziano Nasser fece impiccare l’oppositore Sayd Qotb, un intellettuale, leader del movimento dei Fratelli musulmani. Un martire. All’epoca, l’islam non era ancora utilizzato come arma di guerra; i suoi valori si contrapponevano a quelli del progressismo marxistizzante, ma soprattutto totalitario. Nasser reprimeva ferocemente migliaia di oppositori, sia islamisti che democratici. La Siria e l’Iraq seguivano l’ideologia baathista, vagamente socialista e decisamente laica. Ma nessuno degli Stati arabi era democratico. Il potere si tramandava di padre in figlio, o si conquistava con la violenza dei colpi di Stato. Fu questo il modo in cui il 29 settembre 1969 il giovane Gheddafi, grande ammiratore di Nasser, si impadronì del potere. Ma lungi dal trasformare il suo Paese in uno Stato moderno, lasciò immutata la sua struttura tribale, e per di più finanziò i movimenti terroristici di varie parti del mondo.
La seconda data importante è quella della nascita della Repubblica islamica iraniana, con l’arrivo dell’ayatollah Khomeini, che nel 1978 dichiara: «L’islam è politico o non è». In quello stesso periodo, in nome dell’islam gli afgani cacciano gli occupanti sovietici. Il seguito è noto: l’intervento americano e la comparsa dei Taliban, precursori della barbarie, culminata nella distruzione, nel 1998, dell’arte greco-buddhista, detta del Gandhara; poi, nel marzo 2001, i Taliban fanno saltare in aria le grandi statue del Buddha nella valle di Bamiyan. Scarse le proteste; e nessuna reazione ufficiale da parte del mondo musulmano.
È dalla fine degli anni 1970 che le nozioni di jihad e di Repubblica islamica compaiono con crescente insistenza nei conflitti, fino a contaminare la rivoluzione palestinese, che in precedenza non usava la religione, e men che meno l’islam, come ideologia di lotta. Nell’intento di isolare Yasser Arafat, Ariel Sharon incoraggia con discrezione la creazione di Hamas. Sciiti e sunniti si contrappongono, segnatamente in Libano, dove Hezbollah è molto attivo, armato e finanziato dall’Iran tramite il suo alleato siriano, presente sul territorio libanese. Oggi questo movimento dà man forte a Bashar al Assad contro i ribelli laici e democratici. E sembra che vi sia un accordo tra Assad e i leader jihadisti, risparmiati dai suoi bombardamenti.
Ecco come l’assenza di una vera democrazia nel mondo arabo e musulmano, l’autoritarismo di capi illegittimi, l’accumularsi di ingiustizie sociali in un contesto di corruzione e di arbitrio convergono per far nascere un’aberrazione come l’attuale “Stato islamico”, che ha preso possesso di una parte dell’Iraq e della Siria e minaccia i Paesi della regione. Ma senza l’invasione dell’Iraq da parte delle truppe americane, nel marzo 2003, questo Paese non si sarebbe trasformato in quella distesa di rovine che oggi serve da piattaforma al terrorismo internazionale. Il discorso di Al Baghdadi, la barbarie dei suoi metodi, l’uso che sa fare dei media e delle reti sociali hanno affascinato e attratto molti giovani, di origine non solo araba ma anche europea.
Sentiamo sollevare spesso un interrogativo che brucia: questa violenza è insita nell’islam? Si potrebbe rispondere ricordando la storia del cattolicesimo; ma sarebbe un modo per eludere una domanda imbarazzante. Evidentemente, l’islam predica la pace e la tolleranza e coltiva valori dell’umanesimo; ma al tempo stesso parla anche di jihad, di lotta contro i miscredenti, di apostasia e di molte altre cose, interpretate in maniere diverse. Tutto è relativo, tutto dipende dall’interpretazione che viene data di questo o quel versetto. Di fatto però, l’islam non ha mai postulato il suicidio finalizzato a provocare massacri; non ha mai incitato a catturare ostaggi e a decapitarli. E neppure ha diffuso l’ignoranza per confondere le menti dei deboli e dei malintenzionati. Quanti crimini si commettono in nome dell’islam! Spetta ai musulmani mobilitarsi per smascherare questi barbari; ma non lo fanno, o lo fanno poco, perché sono in preda ai dubbi o alla paura; o peggio ancora, approvano in silenzio ciò che sta accadendo.
Lo “Stato islamico” jihadista è una seria minaccia per tutto il mondo arabo, ma anche per l’Europa. Migliaia di giovani europei, in parte di origine maghrebina, ma spesso anche convertiti, si trovano attualmente sul fronte della guerra condotta dallo pseudo-califfo. Un giorno torneranno in Europa senza essere riconosciuti o individuati, e passeranno all’azione. Perché nella testa di Al Baghdadi e dei suoi pari, la lotta contro l’Occidente è inevitabile, non meno di quella contro gli Stati arabi non islamisti.
Resta da sapere chi arma e finanzia questo «Stato» sanguinario. Non dimentichiamo che alcuni movimenti sono stati aiutati in via ufficiosa da vari Stati del Golfo. Solo di recente l’Arabia Saudita ha condannato ufficialmente quel selvaggio «califfato ». Ma qualche facoltoso privato del Qatar o dell’Arabia Saudita è stato generoso con chi ha deciso di combattere per un islam oscurantista e totalitario.
Che fare? Se l’America e l’Europa esitano, come hanno fatto nei confronti della Siria, tra qualche mese vedremo i jihadisti europei seminare il terrore nelle città dell’Ue, così come nel Maghreb. L’islamismo radicale ha dichiarato guerra sia all’Europa che al Maghreb. I primi attacchi americani e francesi sono iniziati; ma sarebbe un errore credere che basteranno a porre in condizioni di non nuocere Al Baghdadi e i suoi seguaci. Per prevenire le loro criminali aberrazioni servirebbe una politica comune tra il mondo arabo e l’Occidente.
Il discorso di Al Baghdadi va preso sul serio. L’uomo ha dato prova di ciò che è capace di fare, decapitando quattro infelici ostaggi. Se non lo si combatterà con le armi del caso, se non sarà annientato militarmente, fisicamente, continuerà ad avanzare. Getterà nella sventura i Paesi vicini, manderà i suoi sbirri a massacrare persone innocenti ovunque nel mondo. Al di là del ruolo che viene attribuito all’islam in queste vicende, è urgente che i Paesi musulmani prendano coscienza di un fatto: questo Stato jihadista è destinato a destabilizzarli, a rovinarli, a trasformarli in veri e propri inferni.
Si dovrebbe condurre un’inchiesta rigorosa per risalire ai finanziatori di questo Stato, dato che le rapine commesse ai danni delle banche di Mossul non sono certo sufficienti a mantenere un esercito così potente. Bisogna che gli Stati arabi si risveglino e si uniscano — una volta tanto — per isolare i barbari, disarmarli e giudicarli. Altrimenti non vi sarà più un solo luogo sicuro sul pianeta.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 27.9.14
La rabbia dei moderati: “Siamo noi le prime vittime”
di Francesca Caferri


«SONO il 3 per cento di noi, eppure sembra che ci abbiano rubato la voce». Se si dovesse riassumere in una frase sola il dibattito che infiamma i media e le strade del mondo arabo, sarebbe questo il punto di partenza. Da settimane i giornali e le tv, ma anche gli attivisti e i religiosi discutono del-l’Is, delle sue origini e dei suoi rapporti con il mondo musulmano. Non è un’ammissione di colpa la loro: ma un dibattito, un «esame di coscienza » in piena regola, come dice Thomas Friedman. Ha facce diverse: quella dei muftì che contestano la legittimità dell’autoproclamato Califfato, quella degli analisti politici che puntano il dito contro l’ennesima creatura che porta a un intervento esterno in Medio Oriente. E infine quella della gente comune che si confronta sui social media o ride di fronte alle battute dello show televisivo preferito.
Fra le prese di posizione più importanti è da segnalare quella di 120 autorità religiose musulmane di tutto il mondo, che tre giorni fa hanno presentato una lettera di 23 pagine indirizzata al “Dr. Ibrahim Awwad Al-Badri, alias Abu Bakr Al Baghdadi”. La missiva contesta punto per punto la filosofia dello Stato Islamico: «L’Islam vieta di uccidere gli innocenti. L’Islam vieta la schiavitù. L’Islam vieta le conversioni forzate», scrivono muftì, imam e studiosi. Fra i firmatari Shawqi Allam, gran muftì d’Egitto e Muhammad Ahmad Hussein, muftì di Gerusalemme e della Palestina.
Basta questo per parlare di una rivolta degli arabi moderati contro l’Is? «In realtà no — spiega Paolo Branca, professore di Lingua e Cultura araba all’Università Cattolica di Milano — la presa di distanza della gente c’è, ma non possiamo leggerla solo tramite posizioni come queste. La maggior parte delle autorità religiose dei diversi paesi è legata a filo doppio con governi, quindi fatica ad apparire legittima agli occhi della gente comune».
Il posto migliore dove misurare gli umori della gente comune sono allora i media tradizionali, come la televisione, o i social. Qualche settimana fa Watan aka watar, famosa serie satirica della tv palestinese, ha trasmesso un episodio che dice molto. Tre finti barbuti a un checkpoint fermano i passanti per interrogarli sulla loro fede: un libanese e un giordano vengono giustiziati immediatamente, perché non abbastanza rispettosi dei precetti dell’Islam. Ma quando a passare è un israeliano lo lasciano andare. A sottolineare come le cui principali vittime dell’Is siano in realtà gli arabi.
C’è poi la rabbia degli attivisti delle Primavere arabe, quelli che oggi vedono il loro sogno stretto fra dittatori sanguinari e fanatici religiosi: «I giovani siriani non fanno che interrogarsi su come una dottrina estremista come quella dell’Is abbia potuto attecchire nel loro paese e invocare una seconda rivoluzione: contro gli estremisti, oltre che contro Assad», spiega Donatella Della Ratta, esperta di media arabi.
Sui social media non sono pochi quelli che puntano il dito anche contro l’Occidente: «Abbiamo chiesto aiuto al mondo per liberarci di ogni forma di terrorismo e distruzione: quella di Assad e dei suoi e di quella dei terroristi che hanno scatenato contro di noi. Ma nessuno ci ha ascoltato » scrive Raed Fares, una delle menti creative della rivolta siriana, un musulmano “normale” quasi ucciso dagli estremisti per le sue idee.

Repubblica 27.9.14
“Ecco perché l’Europa ora è così vulnerabile”
I miliziani “stranieri” un incubo per i servizi
di Carlo Bonini


LA polvere della guerra all’Is inghiotte l’Europa e la accende di allarmi. E in un’escalation di annunci dove il confine tra il vero, il verosimile e l’ipotetico si fa sottilissimo, gli arresti delle polizie inglesi e spagnole, così come il numero dei foreign fighters con passaporto europeo — 3.000 — fornito dal capo dell’Antiterrorismo dell’Unione europea Gilles de Kerchove, documentano con certezza soltanto il livello di frenesia che in queste settimane percorre gli apparati della sicurezza dei 28 Paesi Ue e quelli dell’alleato americano. Mai il nemico è apparso più invisibile e mimetico. Mai più vicino, perché protetto da un passaporto europeo. Una fonte qualificata della nostra Intelligence racconta la nuova stagione della paura con un’immagine: «Cosa sta succedendo? Immagina uno sciame di api e un esercito di cacciatori ognuno armato del suo schiaccia insetti». In un continente dove si parlano 24 lingue diverse e che conta quasi un centinaio tra corpi di polizia e servizi di intelligence, la sfida asimmetrica di Al Baghdadi scommette sulle possibili falle di un sistema di sicurezza imponente nei numeri ma che fatica a connettersi.
Spiega una fonte della nostra Antiterrorismo: «Sul piano strettamente operativo, e dunque per tutto quello che concerne lo scambio di dati e informazioni su singoli individui di rientro dal fronte siriano o residenti in Europa, i canali sono tre. I rapporti diplomatici bilaterali tra Paesi; lo scambio di informazioni tra i servizi centrali delle polizie europee; la cooperazione tra Servizi di intelligence». Parliamo di migliaia di informazioni quotidiane che non hanno un database comune in cui essere centralizzate. Non è un caso che il Viminale sia tornato a chiedere che, almeno per quanto concerne i nomi, i profili e gli spostamenti dei foreign fighters con passaporto europeo, ciascuno Stato dell’Unione si dia almeno un centro unico di consultazione. Spiega ancora la nostra fonte: «In Italia esiste il “Casa”, un tavolo operativo che centralizza le informazioni di Servizi e polizie. E dunque un alleato europeo sa a chi rivolgersi. Ma, per fare un esempio, se noi abbiamo bisogno di verificare un’informazione dai francesi, le porte a cui bussare sono almeno tre. E quasi mai quel che è noto alla Dgse (lo spionaggio all’estero), lo è alla Gendarmerie. E viceversa».
Non è un caso che la storia di Mhedi Nemmouche (macellaio dell’Is e autore della strage di maggio al museo ebraico di Bruxelles) sia diventata in queste settimane per le intelligence di tutta Europa un incubo e un caso di scuola. Nessun Servizio, nessuna polizia europea era riuscita a intercettarne la contorta rotta di rientro dalla Siria, attraverso Singapore e la Malesia. Tanto che il suo arresto era stato del tutto casuale, durante un controllo doganale di routine. «Se è accaduto ieri per lui — osserva ancora una fonte della nostra intelligence — può accadere domani per qualcun altro». E così, nell’oscillazione perpetua del pendolo tra la difesa delle libertà individuali e la tentazione “sicuritaria”, l’Europa e i suoi apparati di sicurezza scoprono un’altra vulnerabilità. Bloccata nel Parlamento Europeo da una robusta opposizione, la mancata approvazione della legge sul cosiddetto “Pnr” (Passanger name record), rende di fatto oggi gli apparati di sicurezza europei incapaci di ottenere dati dettagliati sui passeggeri in transito o in arrivo nei Paesi dell’Unione. «Un database europeo con il Pnr — spiega una fonte di polizia — consentirebbe in tempo reale di sapere esattamente chi viaggia su un aereo, dove e in che modo ha acquistato il biglietto, in quale Paese è stata fatta la prenotazione. Oggi, invece, tutti i dati che abbiamo sono quelli che vengono forniti spontaneamente dalle compagnie aeree alle singole polizie di frontiera. Si tratta per lo più di un elenco di cognomi e nomi con le sole iniziali di battesimo. Senza una data di nascita e senza alcuna informazione sull’acquisto dei biglietti».
E se poi a questa “miopia” si somma lo spazio di libera circolazione assicurato dal trattato di Schengen ecco spiegato il perché, in questi giorni, il cuore dell’Europa appaia oggettivamente sovraesposto alla minaccia. In un indice di rischio che vede in cima alla lista dei probabili obiettivi Svezia, Regno Unito, Olanda, Belgio, Francia e Germania (i Paesi con una presenza di cittadini musulmani di ormai terza generazione), le intelligence europee concordano su un punto. Che i macellai dell’Is colpiranno «lì dove si presenterà una window opportunity ». Una finestra in cui — come si è letto nei profili Facebook dei foreign fighters inglesi — portare il terrore nel “backyard”, nel retro, della quiete delle capitali europee. Soprattutto se quell’orrore non dovesse assumere la scala e la complessa progettualità di una strage di massa. Ma quella psicologicamente altrettanto devastante della decapitazione di un innocente scelto nel mucchio. E non più a un’ora di volo dal vecchio Continente ma, appunto, nel suo cuore.

il Fatto 27.9.14
Cina, le mani dei mandarini sul salotto buono italiano. Da infrastrutture a banche
La Banca centrale di Pechino ha investito miliardi nei grandi gruppi di casa nostra: da Eni a Enel, da Telecom a Prysmian, passando per Fiat-Chrysler, Generali, Ansaldo Energia e Cdp Reti

E presto anche l'intero polo dei trasporti di Finmeccanica potrebbe finire nella rete del Dragone
Ma non solo: crescono le società cinesi che aprono sedi in Italia
di Camilla Conti

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Corriere 27.9.14
Vinto il fiume Yangtze Un canale di 1.000 km realizza il sogno di Mao
Deviato un affluente per irrigare il Nord della Cina
di Guido Santevecchi


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO La grande sfida alle leggi della natura che regolano il corso millenario dei grandi fiumi della Cina è quasi pronta. Ci sono voluti poco meno di quindici anni di lavori e 60 miliardi di dollari di spesa: ora il canale che devia di 1.267 chilometri verso settentrione l’acqua dello Yangtze dalle pianure centro-meridionali sta per essere aperto. Dal 31 ottobre porterà a Pechino 13 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno. Perché questo progetto faraonico? Perché il Nord della Cina ha solo un quinto dell’acqua dolce del Paese, ma i due terzi delle terre agricole. Perché, secondo i criteri internazionali, si parla di carenza d’acqua quando una persona ne ha a disposizione meno di mille metri cubi all’anno e gli abitanti di Pechino possono contare solo su 145 metri cubi, buona parte inquinati.
È la natura della Cina, aggravata dai danni dell’industrializzazione massiccia. Mao negli anni Cinquanta disse, esprimendo uno dei suoi celebri pensieri: «Al Sud c’è molta acqua, al Nord poca. Se possibile, prenderla a prestito sarebbe un bene». Gli ingegneri idraulici cinesi apparentemente hanno compiuto il miracolo. Anche a costo di spostare oltre 330 mila contadini le cui case e terre sono state invase da un enorme bacino.
L’opera si chiama «Trasferimento di acqua da Sud a Nord» e si compone di tre grandi canali: Via orientale, centrale e occidentale. I primi due sono completi. Il percorso orientale porta lungo 1.156 chilometri 14 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno dallo Yangtze verso la regione di Tianjin, dirottandola anche attraverso il Gran Canale fatto costruire dagli imperatori quattordici secoli fa e ora allargato e reso più profondo; quello mediano che si inaugura a fine ottobre farà scorrere 13 miliardi di metri cubi verso la capitale, su una direttrice di 1.267 chilometri. Il terzo canale, quello occidentale, prevede lo scavo di tre tunnel giganteschi nella roccia dell’altopiano del Tibet, coinvolgendo anche il Fiume Giallo ed è il più controverso: si immagina di completarlo tra trent’anni e a quel momento saranno 44 i miliardi di metri cubi d’acqua dirottati da Sud a Nord.
Lo Yangtze, con i suoi 6.300 chilometri, è il fiume più lungo dell’Asia, il quarto del mondo. Noi lo conosciamo anche come Fiume Azzurro. Si getta nell’Oceano vicino a Shanghai ed ha (aveva) un eccesso d’acqua.
Ma restano dubbi anche sulla strategia di fondo. Dirottando più acqua verso il Nord non si affronterebbe il vero problema: la grande domanda delle megalopoli settentrionali come Pechino e Tianjin e l’inefficienza dell’uso che ne fanno le industrie. Le fabbriche e gli impianti cinesi, secondo i dati della Banca mondiale, impiegano dieci volte più acqua per i loro cicli produttivi rispetto alla media dei Paesi industrializzati .

Corriere 27.9.14
Come un film di Herzog Quella sfida titanica tra l’Uomo e la Natura
di Paolo Mereghetti


Una sommessa proposta al governo cinese: se volete conservare una documentazione visiva di questa immane opera idrico-ingegneristica, c’è solo un regista da chiamare, Werner Herzog. Solo lui ha dimostrato di essere capace di filmare l’infilmabile, soprattutto quando si tratta di sfide dell’Uomo con la Natura. La memoria corre a Fitzcarraldo(foto) e alla scommessa (vinta) di ripetere l’«impossibile» impresa di trascinare un battello oltre una montagna, ma non era stato meno rischioso costringere Klaus Kinski a sfidare le rapide nel film Aguirre, furore di Dio (il regista arrivò a minacciare l’attore con un fucile perché non abbandonasse le riprese). Niente però eguaglia, come sfida titanica e faustiana, certi film che Herzog ha girato dove nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di andare: Apocalisse nel deserto è una delle più sconvolgenti testimonianze sulla devastazione della Terra da parte dell’uomo, girata in Kuwait dopo la prima guerra del Golfo. Anche se il vertice di questa sfida tra Natura e Cinema è il documentario La Soufrière, da un vulcano della Guadalupa che nel ’76 rischiava di esplodere. Questo non ha impedito a Herzog e a due operatori di filmarlo così da vicino da rischiare la vita. Se Pechino gli commissionasse un lavoro sulla deviazione dell’affluente dello Yangtze, sarebbe capace di farsi sommergere dalle acque pur di riprendere le scene migliori...

La Stampa 27.9.14
Hong Kong, la rivolta degli studenti contro la Cina. Scontri con la polizia e decine di feriti
I giovani in piazza da cinque giorni chiedono elezioni libere nell’ex colonia britannica. Pechino ha concesso il suffragio universale ma imposto tre candidati di suo gradimento

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Corriere 27.9.14
Il movimento per la democrazia nell’ex colonia britannica
Hong Kong, arrestato il leader delle proteste contro la Cina
Decine di fermi, feriti lievi e contusi. In manette anche il 17enne Joshua Wong, il capo del movimento Scholarism
di Guido Santevecchi

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Corriere 27.9.14
I predatori dell’antica Ninive «I jihadisti rivendono i tesori»
La denuncia dell’archeologo italiano fuggito da Mosul. Il traffico in Occidente


Nell’Ottocento i tesori dell’Impero Assiro viaggiavano in enormi casse di legno, stipati nelle stive dei vascelli, destinati ai saloni monumentali del Louvre e del British Museum, dove provocano ancora un effetto straniante. Oggi vengono avvolti in teloni di plastica e ammucchiati dai trafficanti nei portabagagli delle loro jeep. Per raggiungere il confine con la Turchia bastano poche ore di strada. Ad attenderli, gli intermediatori occidentali pronti a trasferirli — spesso attraverso la Svizzera — nelle maggiori piazze del mercato nero dell’arte: Londra, New York, Tokyo.
La prima civiltà sedentaria nella storia dell’uomo, sorta tra il Tigri e l’Eufrate 9 millenni prima di Cristo, ci ha lasciato in eredità una produzione artistica imponente, in parte trafugata all’epoca del colonialismo e in parte rimasta in siti ancora da esplorare. Il traffico di questo patrimonio archeologico sta diventando una delle principali fonti di sostentamento dello Stato islamico, nel Kurdistan come in Siria, insieme all’estrazione di gas e petrolio. Nella chiavetta Usb di un militante dell’Isis recuperata dall’intelligence irachena ad agosto, è annotato il bilancio dello sfruttamento dei resti della città di Nebek: 32 milioni di dollari da centinaia di lapidi, iscrizioni, suppellettili e mosaici «messi sul mercato». È la prova del doppio binario seguito dai fondamentalisti. Da un lato, radono al suolo chiese, moschee e monumenti funerari — cercando la massima esposizione mediatica, proprio come fu per la demolizione dei Buddha di Bamiyan da parte dei Talebani in Afghanistan nel 2001 — per affermare i precetti del wahabismo, la riforma puritana che impone di abbattere ogni oggetto di culto non rivolto ad Allah. Dall’altro lato, ma in questo caso senza alcuna pubblicità, gli stessi capi dell’Isis danno in concessione le aree archeologiche occupate a squadre di scavatori professionisti, per poi dividersi i ricavi dei trafugamenti in base alla legge islamica del Khums: la quinta parte del bottino va riservata a Dio, cioè allo Stato islamico.
Daniele Morandi Bonacossi, direttore della missione archeologica dell’Università di Udine in Assiria, è stato tra gli ultimi studiosi a poter ammirare il rilievo del palazzo reale di Nimrud, staccato probabilmente a colpi di piccone, e il ritratto in pietra del sovrano Tiglatpileser III, letteralmente sbriciolato da predoni a caccia di un (inesistente) scrigno d’oro nascosto. La sua missione, a capo di una trentina di specialisti tra archeologi, geologi, paleobotanici, antropologi fisici e restauratori, era cominciata tre anni fa. «Avevamo appena lasciato la Siria, dove era diventato impossibile lavorare per ragioni di sicurezza, entusiasti di poter trasferirci nel Kurdistan iracheno, che aveva appena riaperto le porte dopo oltre vent’anni di conflitti ed embarghi».
La squadra italiana ha scavato nel villaggio di Tell Gomel, probabilmente il sito dell’antica Gaugamela, dove nel 331 a.C. Alessandro Magno sconfisse l’imperatore persiano Dario III, aprendosi la strada per Babilonia. Ma soprattutto, Morandi Bonacossi ha indagato «la rivoluzione agricola della valle di Ninive, capitale del primo impero globale dell’umanità», dove re Sennacherib costruì un sistema di dighe e canali artificiali lungo 240 chilometri, quattro secoli prima che fossero progettati i grandi acquedotti dell’Impero Romano. «Per trovare la forza lavoro necessaria a un sistema produttivo così complesso, che divenne il granaio di tutto l’Impero Assiro, fu deportata una massa di persone senza precedenti, circa mezzo milione, lungo le stesse vie che 2700 anni dopo sono state attraversate da migliaia di cristiani in fuga».
A metà agosto, quando i miliziani hanno preso il controllo della vicina diga di Mosul e sono cominciati i bombardamenti degli Stati Uniti, la decisione di rientrare in Italia. «Ma faremo di tutto per tornare, forse già a gennaio», promette l’archeologo. Difficile prevedere cosa accadrà nel frattempo in quello come in decine di altri siti nella regione. «A Nimrud e a Horsabad, ad Assur e ad Hatra, in tutti i centri più importanti dell’Assiria caduti nelle mani dell’Isis, le guardie irachene sono dovute scappare, lasciando campo libero al saccheggio. E subito sono comparse le stesse gang di trafficanti che avevano devastato l’area a sud di Bagdad nel 2003, per poi spostarsi in Siria. Non sappiamo davvero cosa resterà fra pochi mesi di questo tesoro dell’umanità che è sopravvissuto per migliaia di anni». La destinazione più probabile, adesso come due secoli fa, è ancora l’Occidente, «nei salotti e nei caveau di collezionisti privi di scrupoli e della minima cultura, ma disposti a spendere centinaia di migliaia di euro». Soldi destinati in parte a finire, di mercante in mercante, di mediatore in mediatore, nelle casse dei miliziani per la Guerra Santa.

il Fatto 27.9.14
Gaza, Abu Mazen: “Israele genocida”

Per il leader palestinese Abu Mazen, Israele ha compiuto “un genocidio” contro la Striscia di Gaza. Nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, Mazen ha poi annunciato che “i responsabili di crimini di guerra non sfuggiranno alla punizione”. Ansa

La Stampa 27.9.14
Abu Mazen: “Basta negoziati con Israele”
Il leader palestinese all’Onu: «Hanno fatto fallire le trattative. A Gaza un genocidio».

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il Fatto 27.9.14
New York, un centinaio di ebrei ortodossi ritardano volo: “Non ci sediamo vicino alle donne”
Uno dei dettami degli Haredi, il gruppo conservatore di cui facevano parte, obbliga alla segregazione tra uomini e donne
Gli altri passeggeri: "Viaggio? Un incubo di undici ore"

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La Stampa 27.9.14
Il Mossad lancia un sito di reclutamento online
Svolta epocale per il servizio segreto israeliano, tradizionale perno di un’intelligence basata su pochi agenti scelti super-fidati. Offre la possibilità di fare “un’esperienza che non avviene neanche nei film di Hollywood”
di Maurizio Molinari

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Corriere 27.9.14
Le mani di Putin sulle compagnie degli oligarchi


Se Mikhail Khodorkovskij quando finì in galera più di dieci anni fa aveva fatto lo sgarbo di mettere il naso in politica, il proprietario del conglomerato Sistema è un oligarca che ha sempre volato basso per non infastidire il potere. Ma questo non è bastato a Vladimir Yevtushenkov (foto) da 15 giorni agli arresti domiciliari. Ieri un tribunale ha posto sotto sequestro le sue azioni nella società petrolifera Bashneft, acquisita cinque anni fa. E la procura generale russa ha chiarito che lo scopo è far passare allo Stato il controllo di quella che è la sesta compagnia del Paese. Gli analisti predicono che la Bashneft finirà sotto l’ala di Rosneft, il gruppo statale guidato da Igor Sechin, fedelissimo di Vladimir Putin. Quella stessa Rosneft che si è impadronita della società che fu di Khodorkovskij, la Yukos. Quanto sta avvenendo ora suscita molto allarme. Ora, non solo finisce davanti ai tribunali (e in galera) chi si oppone apertamente, ma l’arma giudiziaria è utilizzata semplicemente anche per acquisire proprietà, in un momento in cui lo Stato e il Cremlino hanno deciso di concentrare tutti gli sforzi per far fronte a quello che viene visto come un attacco esterno a seguito delle vicende ucraine. Si parla del progetto di riportare tutti i maggiori gruppi che operano nel settore energetico sotto il controllo del Cremlino. Il gas è già quasi tutto di Gazprom. Per il petrolio, il prossimo boccone potrebbe essere la Lukoil, l’ultimo gigante privato. Poi si potrebbe passare ad altri settori «strategici». L’ipotesi terrorizza gli oligarchi e rischia di peggiorare il clima degli affari, come ha detto ieri il preoccupatissimo ministro dell’Economia. Il rublo scende a nuovi minimi, anche perché tutti sanno che le aziende statali non riescono a essere efficienti e a pompare tutto il greggio che Mosca vuole esportare. Nemmeno l’ipotesi di un primo accordo sulle forniture di gas all’Ucraina è bastata a risollevare il morale. A Berlino si è fissato un prezzo provvisorio del gas (385 dollari) che a Kiev ancora non va bene. E poi va risolta la questione dei debiti accumulati dall’Ucraina. L’Unione europea sta cercando di mediare e forse qualche progresso potrebbe essere fatto la settimana prossima.

Corriere 27.9.14
La via della seta verso l’ottimismo
Il continente che sembrava tra i più esposti a nuovi conflitti si avvia invece, grazie agli sforzi dei tre Paesi principali, Cina, India e Giappone, a un periodo di stabilità
e di prosperità i cui benefici si rifletteranno sull’economia globale
di Ian Bremmer


In Ucraina la Russia intensifica la sue pressioni, in Siria e in Iraq i jihadisti raccolgono i loro eserciti, mentre in Africa occidentale l’epidemia di Ebola semina morte: è palese che stiamo entrando in una fase estremamente turbolenta e che i governi occidentali fanno fatica a tenere il passo con gli avvenimenti. Ma in un’altra parte del pianeta si profila uno scenario più ottimistico. La forte leadership dimostrata da Cina, India e Giappone — i tre principali mercati nella regione più importante per il futuro dell’economia globale — ci offre uno spaccato promettente. Xi Jinping in Cina, Shinzo Abe in Giappone e Narendra Modi in India hanno tutti accettato l’enorme scommessa di introdurre nei rispettivi Paesi quelle riforme strutturali essenziali e ormai non più rinviabili. Stranamente, nessuno di questi capi di Stato si vede costretto ad agire dietro la spinta di una crisi, bensì si muove proprio per evitare future complicazioni.
Nel dicembre 2012, Shinzo Abe è stato eletto primo ministro con una forte maggioranza, e ha saputo sfruttare il suo capitale politico per spingere un programma conosciuto con il nome di Abenomics, un piano audace per rilanciare la crescita dopo vent’anni di stagnazione. Nel 2013, Xi Jinping è salito al potere e ha messo in moto le riforme destinate a trasformare l’economia cinese, sino ad ora finalizzata all’esportazione, in un modello più sostenibile, basato sui consumi interni. A maggio, la vittoria travolgente di Narendra Modi ha evidenziato il forte sostegno popolare a un programma di governo indirizzato a riportare la crescita economica dell’India a livelli che non si vedono da anni.
In tutti e tre questi Paesi le aspettative sono altissime. I tre capi di Stato devono affrontare tanto le resistenze dei poteri costituiti, che temono di perdere i loro privilegi, quanto le lungaggini di sistemi complessi. Gli americani e gli europei non possono aspettarsi da questi Paesi grandi aiuti per far fronte alle crisi in Medio Oriente, in Africa occidentale o in Europa dell’Est, ma gli sforzi compiuti per rilanciare la crescita economica e riportare una certa stabilità nel Sud e nell’Est asiatico sono preziosi e i loro effetti benefici si rifletteranno sull’economia globale. Tuttavia, non facciamoci illusioni, potrebbero esserci sorprese anche da questa regione. Di tanto in tanto, la Cina e i suoi vicini continueranno a scambiarsi dichiarazioni provocatorie, e le tensioni con il Vietnam e le Filippine nel Mar Cinese del Sud potrebbero far innalzare nuovamente il livello di guardia. In questo momento, peraltro, i capi di governo di Cina, Giappone e India si rendono conto di avere ciascuno un forte interesse nella stabilità e nel successo degli altri. Ai primi di settembre, Narendra Modi ha lasciato il Giappone con la promessa di circa 35 miliardi di dollari di investimenti giapponesi nelle infrastrutture indiane. Pochi giorni dopo, malgrado le scaramucce sul confine indo-cinese nell’Himalaya siano finite sulle prime pagine dei giornali, Modi ha accolto Xi Jinping in India, e l’annuncio di una ventina di miliardi di dollari di investimenti cinesi in infrastrutture e impianti industriali ha suggellato una nuova intesa commerciale.
La storica rivalità tra Cina e Giappone è la conferma che assisteremo prima o poi a nuovi episodi di ostilità, scambi di parole dure, e di tanto in tanto a un riacutizzarsi delle tensioni. Nella primavera del 2014, secondo un sondaggio della Pew Research, solo il 7 per cento dei giapponesi si dichiarava ben disposto verso la Cina, allo stesso modo solo l’8 per cento dei cinesi nutriva sentimenti amichevoli verso il Giappone. Nel novembre 2013, i rapporti si sono guastati quando Pechino ha introdotto una Zona di identificazione dell’aviazione militare (ADIZ), che impone a tutti i velivoli di seguire le istruzioni emanate dalle autorità cinesi, persino nello spazio aereo di territori contestati. Il mese seguente, per tutta risposta, Shinzo Abe si è recato in visita al controverso santuario di Yasukuni, un luogo associato al militarismo e all’imperialismo giapponesi. Eppure, entrambi i Paesi si sono adoperati per scongiurare una escalation pericolosa. Il Giappone ha 23.000 aziende che operano in Cina e danno lavoro a dieci milioni di cinesi. Tanto basta a incoraggiare i due governi a mantenere le tensioni sotto controllo. Per di più, i cittadini di entrambi i Paesi hanno preso a gestire per conto proprio queste rivalità. A luglio, il Giappone ha contato un numero record di turisti, grazie soprattutto ai visitatori provenienti dalla Cina. Il raffreddamento delle tensioni tra Cina e Giappone ha coinciso con la fase cruciale del processo di riforme. Shinzo Abe ha impostato la marcia per affrontare la più difficile delle «tre frecce» del suo programma — una strategia comprensiva di crescita — e pertanto non può permettersi di distrarre o deludere il suo elettorato con nuove beghe geopolitiche con la Cina. Xi Jinping ha fatto enormi passi in avanti nella lotta alla corruzione e nei cambiamenti economici, al punto che i cinesi più influenti hanno cominciato a contestare il suo programma.
Xi, Abe e Modi stanno raccogliendo i primi successi e, nel concentrarsi sul superamento degli ostacoli alle riforme in patria, non hanno alcun interesse a generare instabilità geopolitica. La situazione si farà pericolosa solo se il processo di riforme dovesse incepparsi per le esitazioni della leadership o per le proteste dei poteri costituiti. Per il momento, le tre economie emergenti sono interessate a conservare buoni rapporti geopolitici con i Paesi confinanti. In un mondo di progressivi sconvolgimenti, l’Occidente dovrebbe far tesoro di questa pausa di cooperazione pacifica e fattiva.
(traduzione di Rita Baldassarre)

il Fatto 27.9.14
Oggi a Torino
Decrescita: dobbiamo cambiare l’immaginario per vivere meglio
Pubblichiamo un estratto dell'introduzione a “Decolonizzare l'immaginario” di Serge Latouche, pubblicato da Emi. Latouche interverrà oggi a TorinoSpiritualità, alle 18 al teatro Gobetti
di Serge Latouche


Non ho mai utilizzato il termine decrescita prima che uscisse il numero speciale della rivista Silence dedicato a questo tema, nel febbraio del 2002 (...) Se l’utilizzo del termine decrescita è molto recente (...) l’origine delle idee che tale termine veicola ha una storia più lunga (...). Per me, già da prima del 2002 c’era “obiezione alla crescita” ma non ancora “decrescita” in quanto tale. La fusione delle due forme di critica ha fatto emergere il progetto della decrescita (...)
Dinanzi al trionfo dell’ultraliberismo e della proclamazione arrogante del “Tina” (There is no alternative, Non c’è alternativa) di Margaret Thatcher, il piccolo gruppo antisviluppista degli amici e discepoli di Ivan Illich, nato negli Anni 70 – e di cui anch’io facevo parte –, non poteva più accontentarsi di una critica (...) dibattuta all’interno della propria cerchia ristretta. L’altra faccia del trionfo del pensiero unico era lo slogan condiviso dello “sviluppo sostenibile”, al quale il movimento no global sembrava aderire perfettamente. Diventava, dunque, urgente opporre a ciò un altro progetto, o più esattamente dare visibilità a un progetto in gestazione da molto tempo (...). Lo slogan della “decrescita” è apparso come una “bomba semantica” o un “termine esplosivo” (dixit Paul Ariès) capace di spezzare il debole consenso della sottomissione all’ordine produttivista dominante, o in altre parole di avviare una decolonizzazione dell’immaginario (...).
A TORTO o a ragione, spesso mi si attribuisce la paternità dell’espressione “decolonizzare l’immaginario”. Poiché lavoravo sul Terzo mondo e sui rapporti Nord/Sud, la forma dello sradicamento di una credenza si esprimeva efficacemente ai miei occhi attraverso la metafora della decolonizzazione. (...) Se, infatti, la crescita è una credenza e lo sviluppo un sistema di significati legati all’immaginario sociale, come il progresso e l’insieme delle categorie fondatrici dell’economia, per tirarsene fuori, abolirle e oltrepassarle (la famosa Aufhebung hegeliana) bisogna porre in essere un cambiamento di immaginario. La realizzazione di una società della decrescita comporta necessariamente la decolonizzazione del nostro immaginario al fine di cambiare veramente il mondo, prima che il cambiamento del mondo ci condanni alla sofferenza. Affinché si realizzi una simile rivoluzione è necessario che cambiamenti profondi abbiano luogo nell’organizzazione psicosociale dell’uomo occidentale, rispetto al suo atteggiamento nei confronti della vita, in parole povere, nel suo immaginario. È necessario che l’idea secondo cui l’unica finalità della vita è produrre e consumare – idea allo stesso tempo assurda e degradante – sia abbandonata; è necessario che l’immaginario capitalista di uno pseudo-controllo pseudo-razionale, di una espansione illimitata, sia abbandonato. Soltanto gli uomini e le donne possono realizzare tutto questo. Un uomo solo o un’organizzazione può al massimo preparare, criticare, incitare (...). Un numero crescente di persone non crede al progresso. Tutti vogliono acquisire qualcosa in più per l’anno prossimo, ma nessuno crede che il benessere dell’umanità risieda nella crescita del 3% per anno del livello dei consumi. L’immaginario della crescita (...) è (...) l’unico a sopravvivere nel mondo occidentale. L’uomo occidentale non crede più a nulla se non al fatto che potrà presto avere un televisore ad alta definizione. Ed è proprio questo ciò che tuttora impedisce a un gran numero di persone di aderire alla decrescita.

Corriere 27.9.14
Deirdre McCloskey, l’economista anti-Piketty:
«Solo la borghesia ci salverà»
di Danilo Taino


Ricordate la borghesia? E la middle class? Esistono ancora. A nome loro, un’economista americana lancia un’accusa all’intellighenzia dell’Occidente: dal 1848 le svalutate, ma sono tuttora la nostra ricchezza. Su questa base, Deirdre McCloskey ha deciso di montarne una poderosa rivalutazione, storica e attuale. Fatto non frequente tra gli economisti, lo fa su basi etiche: sono il solo rimedio contro la povertà. La professoressa di Economia alla University of Illinois, Chicago, e alla Gothenburg University, Svezia, ha consegnato allo stampatore il terzo volume di una trilogia, The Bourgeois Era, che viene dopo The Bourgeois Virtues e The Bourgeois Dignity. In Italia ha appena pubblicato I vizi degli economisti, le virtù della borghesia, edito da Ibl Libri (pp. 138, e 16). E in questi giorni è nel nostro Paese per una serie di incontri e conferenze organizzati dall’Istituto Bruno Leoni.
«Il fallimento delle rivoluzioni liberali del 1848 — sostiene in questa intervista — ha provocato nei ceti intellettuali di Italia, Germania, Francia, Spagna una reazione contro le classi medie che è arrivata fino a oggi». Un’opposizione che ha preso la forma del conservatorismo, del materialismo storico, del marxismo, del fascismo, dello statalismo: del rifiuto della carica innovativa e liberale della borghesia. «Ancora oggi c’è la tendenza a creare nuove aristocrazie», dice.
Il punto fondante dell’elaborazione della signora McCloskey sta nel ritenere le idee il motore dello sviluppo di quello che — termine che non apprezza — è chiamato capitalismo. «Il nostro benessere — sostiene — viene dalle idee. Nel 1800, il reddito giornaliero di un italiano era di tre dollari; oggi, a parità di valori, è di ottanta. In più, ci sono gli avanzamenti della medicina, dei trasporti, della tecnologia. Una completa trasformazione. Ma non è il risultato della lotta di classe, come sostiene la sinistra, o degli investimenti, come sostengono i conservatori. È il risultato delle idee che hanno prodotto innovazioni come l’elettricità, la radio, i sistemi idraulici». E, passaggio chiave, queste idee sono nate e hanno trovato gambe «dalla liberazione delle persone, dal liberalismo di Adam Smith e dalla caduta delle gerarchie che ponevano al centro l’aristocrazia». Sono le persone comuni e le idee lasciate libere di correre che creano la base del capitalismo.
La professoressa individua la nascita di questo spirito nell’Olanda della guerra contro la Spagna — dal 1568 al 1648 — e poi nella guerra civile inglese — dal 1642 al 1651. «Tutto avvenne per un accidente della storia, grazie alla Riforma: ma non in senso weberiano, nel senso invece che il movimento protestante dette al popolo la governance, la possibilità di scegliere i propri pastori e quindi di liberarsi dalle gerarchie della Chiesa. I Paesi Bassi furono pionieri dell’attività borghese. Poi, gli inglesi presero tutto dagli olandesi: importarono il re, aprirono anch’essi una Borsa, crearono una banca centrale. Diventarono la New Holland. Lo spirito si estese poi all’America e immagino che, se non fosse successo, le forze della reazione avrebbero vinto. Mi spingo a dire che, senza i Paesi Bassi e l’Inghilterra, la Francia non avrebbe mai avuto una rivoluzione industriale, perché tutto era centralizzato, sottoposto ad autorizzazioni. Anche Italia e Germania non vissero i cambiamenti».
Dopo le rivoluzioni liberali fallite del 1848, «si comincia a scrivere che il capitalismo è brutto, l’intellighenzia si schiera contro la borghesia, contro Voltaire e Thomas Paine e il libero mercato. Il Romanticismo, che dura ancora oggi, è servito ai conservatori per idealizzare il passato e alla sinistra per idealizzare la città futura: il nazionalismo, il razzismo, il marxismo, il socialismo, l’eugenetica vanno a dominare il pensiero. Nel XVIII secolo si scopre che, se liberi la gente, se lasci fare le persone e onori i loro risultati, il limite è il cielo. Nel XIX secolo si dice invece che quel che conta è la scienza, non le idee. È un conflitto: quando, nei Promessi sposi , Manzoni parla del rapporto tra controllo dei prezzi e carestia, è un liberale, scrive pagine da Adam Smith; ma, vent’anni dopo, Flaubert odia la borghesia».
L’incarnazione odierna di questi spiriti illiberali è nella tendenza a regolare tutto, a un paternalismo di Stato. Fino al 1995, Deirdre McCloskey era un uomo, Donald, poi ha cambiato sesso. Oggi scherza e dice di sentirsi, in opposizione al paternalismo di Stato, «una libertaria materna, e non avrebbe funzionato se fossi rimasta un ragazzo». Risultato: combatte battaglie attualissime. Di recente, è stata definita la più efficace economista anti-Piketty: ritiene che le teorie sulla diseguaglianza insita nel capitalismo, sostenute dall’economista francese Thomas Piketty, non stiano in piedi. «L’uguaglianza come questione etica — dice — è una sciocchezza. Etico è ridurre la povertà. Il gap tra poveri e ricchi non conta. Stabilire regole per diminuire le differenze non aiuta: il 90 per cento della riduzione della povertà deriva dalla crescita economica. E il dato di fatto è che, grazie alla libertà delle idee, alle innovazioni, alla middle class oggi siamo enormemente più ricchi. Anche nello spirito».

Repubblica 27.9.14
Picasso
Nel mondo dell’artista che diventò il Minotauro
Firenze dedica una retrospettiva al genio del Novecento. A Palazzo Strozzi novanta opere del maestro a confronto anche con Miró e Dalí
di Lea Mattarella


FIRENZE «LA pittura del Novecento fu fatta in Francia, ma dagli spagnoli »: è questo l’incipit del piccolo e perfetto testo dedicato da Gertrude Stein a Picasso nel 1938. Così pare anche visitando la mostra Picasso e la modernità spagnola , curata da Eugenio Carmona, aperta a Palazzo Strozzi fino al 25 gennaio, che raccoglie una novantina di opere (tutte provenienti dal Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid) non solo di questo mito del Novecento, ma anche di artisti spagnoli più o meno noti per stabilire suggestivi incontri e dissonanze. Basta dare un’occhiata alle biografie di tutti i protagonisti di questo affascinante itinerario. Picasso arriva a Parigi per la prima volta nel 1901, a vent’anni, vi si trasferisce definitivamente nel 1904 ed è a Mougins che muore nel 1973. Juan Gris, un altro pilastro del Cubismo, vive gran parte della vita nella Ville Lumière. Ma anche José Guerrero, Maruja Mallo, Julio González, Pablo Gargallo, Rafael Barradas, Maria Blanchard, Eduardo Chillida, Juaquim Sunyer (e l’elenco potrebbe continuare) passano del tempo in Francia.
Per non parlare degli altri due mostri sacri della pittura del XX secolo in cui ci imbattiamo in queste sale, Joan Miró e Salvador Dalí: due geni e un incontro fatale, quello con André Breton. Insomma, tutti i protagonisti della pittura spagnola del Novecento, prima o poi arrivano in Francia. E visitando la mostra, allestita in maniera impeccabile, è chiaro che sia il Cubismo che il Surrealismo parlano spagnolo. Pablo Picasso ha dichiarato di dipingere «esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario». Così è efficace, per sottolineare questo indissolubile legame tra la propria arte e la propria vita, che il calcio d’inizio e la parola fine di tutta l’esposizione lo dia un tema come quello de Il pittore e la modella in due quadri realizzati dal pittore nel 1963. Tutta l’opera di Picasso si regge infatti su un rapporto fisico, totalizzante, costruito su una vitalità quasi eccessiva, con la pittura che è soprattutto di corpi, di volti. Pochi, pochissimi, paesaggi, qualche natura morta e un succedersi di immagini femminili, di figure del mito, dell’incubo, ma anche di quel teatro di strada, di saltimbanchi e giocolieri, che lo affascinava all’inizio del Novecento. Ha detto più volte di avere due alter ego chiamati a calcare le scene delle sue tele: uno è Arlecchino, l’altro il Minotauro, entrambe figure del doppio, dall’identità multipla che nel primo è contenuta già nell’abito, nell’altro nell’esistenza ibrida, metà uomo e metà bestia, unione di istinto e ragione.
E Picasso la doppia vita ce l’ha nel sangue. Nella seconda sezione di questa mostra intitolata Variazioni si sottolinea il suo felice vagare tra stili diversi. Tutto gli appartiene, non c’è nulla che resti fuori dal suo raggio visivo. Può, nello stesso tempo, realizzare opere cubiste, sfaccettando e scomponendo, e costruire perfettamente figure con una linea che trova in Ingres la sua fonte di ispirazione. La cosa straordinaria è che tutto diventa immediatamente Picasso. È sempre diverso, eppure tutte le volte lo riconosci. Ma le variazioni per lui sono anche sentimentali. Ci sono due cose che hanno condizionato l’arte di Picasso, divenendone elementi fondanti: il rapporto con i poeti e i letterati (Apollinaire, Max Jacob, Jean Cocteau, André Breton, Rafael Alberti...) e quello con le donne. Eccone tre schierate a raccontare una vita nel segno dell’eros e della passione da cui l’artista è letteralmente posseduto. C’è Fernande, il primo amore parigino. La ritrae con ossessione e pare che la tenesse chiusa in casa perché era divorato dalla gelosia, ma quando lei lo lascia scrive: «Fernande se n’è andata, come farò con il cane?». Il suo ritratto qui esposto è un capolavoro di quello stile che conosciamo come cubismo analitico: l’oggetto inquadrato da diversi punti di vista rivela una nuova realtà, una diversa forma di conoscenza. Picasso, insieme a Braque, in questa fase predilige il monocromo perché ciò che lo interessa è la forma che viene scomposta e riassemblata, scompaginata e rimessa insieme secondo un nuovo ordine. Fernande è figlia delle Demoiselles d’Avignon, la sua opera del 1907 che ha modificato il concetto di bellezza nel Novecento. E poi ci sono Marie Thérèse e Dora Maar. La prima la incontra quando è già sposato con Olga, la ballerina russa che aveva conosciuto a Roma nel 1917 mentre collaborava con Diaghilev. L’altra arriva dopo un po’ e, com’è ovvio, le due si accavallano, convivono, si dividono quel poco di Picasso che non è consacrato dalla pittura. Dora è una fotografa, bravissima. Sono suoi gli scatti leggendari che ritraggono la nascita di Guernica nel 1937. Lui la trasforma nella “donna che piange”, una maschera tragica come le figure che in quel periodo si affacciano sul palcoscenico della storia di Guernica , di cui qui sono esposti una gran quantità di bozzetti e disegni di grande intensità e bellez- za. «Per anni l’ho ritratta in forme torturate – ha detto – non per sadismo o piacere ma perché quella è la realtà profonda di Dora ». E lei per contro: «Tutti pensavano che mi sarei uccisa dopo il suo abbandono. Anche Picasso. Il motivo principale per non farlo fu privarlo della soddisfazione ». Ma non sfuggì a un destino di cure psichiatriche, elettroshock, crisi mistiche e travagli. Il suo superbo ritratto, mai visto in Italia, è coevo a quello di Marie Thérèse. Dipinte nello stesso stile che afferra deformando, mostrano la vera essenza delle due donne: la fragilità di Marie Thérèse che Picasso conosce quando ha 17 anni (per la cronaca, è lei a suicidarsi nel 1977), il carattere volitivo di Dora.
Intorno al mito Picasso c’è una Spagna che sintetizza e scompone (González, Ortiz, Oteiza, Gargallo) e un’altra fedele alla realtà che si rivela però sempre inquietante e misteriosa (Solana, Diaz, un grande pittore come Lopez García). E poi Miró con il suo immaginario sognante e Dalí con le sue visioni. Un mondo rigoroso, dai timbri abbassati. «I colori della Spagna sono bianco, nero, argento o oro; non ci sono rosso e verde, non esistono» e per gli spagnoli «la realtà non è reale»: è ancora la Stein a fornirci la chiave per attraversare questo mondo meraviglioso e sfaccettato.

Repubblica 27.9.14
Tutti i disegni che portarono a Guernica
Dalla “Suite Vollard” ai primi schizzi: così nacque il capolavoro contro la guerra dopo il bombardamento della città basca
di Paolo Russo


SULLE pareti scure della grande sala finestre di luce dorata accendono la penombra. Dalle incisioni, gli oli e i disegni in bianco e nero, i fantasmi picassiani dell’orrore della guerra ci guardano estenuati e senza tempo. Sono alcuni dei frammenti con i quali Picasso avrebbe tracciato l’allora, anche per lui, misterico percorso fino al titanico esito del suo inatteso impegno politico: Guernica. La massima opera d’arte contro la guerra di ogni epoca. Di cui la mostra di Palazzo Strozzi narra la gestazione in una trentina fra fogli della Suite Vollard ( realizzata fra 1930 e 1937 per il celebre mercante Ambrose Vollard, il patron degli impressionisti) e schizzi preparatori dell’opera. In cui magicamente fa affiorare lavori ( Minotauromachia, Donna torero e la citata suite), figure e temi già apparsi nel suo gran teatro: le colombe dipinte dal padre; il cubismo; la bambina, salvifica figura di innocenza; il Minotauro, tragica creatura condannata alla perdizione in cui il maestro si identificava, fino a Dora Maar. Ultimo, all’epoca, dei suoi infiniti, devastanti (per le donne) grandi amori, che Picasso trasfigura nella Testa piangente , moderno archetipo di addolorata.
È già il più grande. Da Parigi domina il mondo dell’arte. Si sente spagnolo, ma soprattutto si sente Picasso. Col paese ha un rapporto ormai blando: il suo furore creativo ed emotivo ne monopolizza la febbricitante, onnivora ricerca, della quale le muse-amanti sono cruciale combustibile. Nazismo e fascismo sono già saldi in sella. Però i Fronti Popolari in Francia e Spagna, dove i repubblicani hanno vinto le elezioni del 16 febbraio 1936, illudono l’Europa. E in luglio, infatti, arriva il golpe: è Guerra Civile, un bagno di sangue fino alla vittoria, nel ‘39, di Franco, che soffocherà il paese con 36 anni di dittatura torpida, ottusa, crudele. Un mostro grigio, provinciale, vecchio fin dalla nascita. Picasso si butta fra le braccia della Repubblica: nel settembre ‘36 accetta di dirigere il Prado e poi di fare il murale che, chiestogli nel gennaio ‘37 per l’Expo di Parigi, diverrà Guernica. Nuovo borgesiano contatto col suo passato, lo realizzerà nell’atelier al 7 di Rue des Grands Augustines. Dove Balzac aveva domiciliato il pittore Frenhofer, protagonista del suo Il capolavoro sconosciuto , che nel ‘31 Picasso aveva illustrato per Vollard e ora apre la mostra. Per il murale pensa svogliatamente ad un atelier d’artista, nuova variazione della sua ossessione metalinguistica. Ma accade Guernica. Il 26 aprile ‘37, la ferocia del bombardamento aereo nazifascista disintegra la città-simbolo del Paese Basco. Una terrificante prova di forza: d’ora in poi la guerra totale non distinguerà mai più fra civili e militari. Il mondo è sconvolto. Dal 1° maggio Picasso — che nel ‘37 licenzia pure un quasi fumetto, Sogno e menzogna di Franco — sprofonda nel lavoro, la Testa di Cavallo a Strozzi è del 2. In due mesi Guernica è finito e, dopo l’Expo, va in tour per finanziare i repubblicani. Il ‘39 lo trova al MoMa, dove resta fino al ‘53, quando passa dalla Sala delle Cariatidi a Milano, debutto italiano di Picasso. Quel capolavoro, che riesce persino a condannare la guerra senza mostrarla, tornerà a casa, aveva detto Picasso, solo se libera. Il genio muore nel 1973, il dittatore nel ‘75. Nell’81 Guernica rientra a Madrid. Per sempre.

La Stampa 27.9.14
Salvare l’opera chiudendo l’Opera di Roma
Inutile cercare di sostituire il maestro Muti: contro gli abusi sindacali serve uno choc
di Alberto Mattioli

qui

Corriere 27.9.14
La «guerra fredda» di Konchalovsky: non corro per l’Oscar


Il clima da ricordi di guerra fredda tra Russia e Stati Mikhalkov, uno degli intellettuali considerati più vicini al Uniti, alimentato dal caso Ucraina, fa sentire i propri presidente russo Vladimir Putin, accusa Hollywood di effetti anche nel mondo della cultura, e del cinema in distruggere i gusti cinematografici anche degli particolare. Andrei Konchalovsky ha infatti annunciato spettatori russi. Ma non solo, la categoria che riserva il di ritirare la candidatura del suo fim Leone d’Argento premio al miglior film straniero, secondo Konchalovsky, all’ultima Mostra di Venezia, Le notti bianche di un è una segregazione che promuove una nozione postino (foto), alla nomination come miglior film «datata» del dominio culturale occidentale. Va straniero per gli Oscar, in vista della selezione da parte ricordato che Konchalovsky negli anni Ottanta aveva del Comitato russo che è in programma per domani. In lavorato negli Stati Uniti, dove aveva prodotto «A trenta una lettera aperta, il regista, fratello del cineasta Nikita secondi dalla fine» e «Tango & Cash».