lunedì 29 settembre 2014

il futuro del Pd?
il Fatto 29.9.14
Emilia, primarie Pd. Vince Bonaccini. Ma crolla l'affluenza
La presenza alle urne è ai minimi. Gli elettori non superano quota 58mila
Un iscritto su 3 diserta le urne. Flop affluenza: -85%
È tornato al voto solo il 15% rispetto a coloro che si presentarono ai seggi per la scelta del segretario nazionale e votarono in 400 mila

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il Fatto 29.9.14
Elettori in fuga
Emilia, Bonaccini vince a urne vuote
di David Marceddu


Bologna Alla fine, come previsto, le primarie più tormentate della storia del Partito democratico incoronano Stefano Bonaccini candidato alla presidenza della Regione per il centrosinistra con il 60% dei consensi, contro il 40% del suo sfidante Roberto Balzani, ex sindaco di Forlì. Eppure, quella del fedelissimo di Matteo Renzi, che nella corsa era appoggiato praticamente da tutte le anime del Pd, è una festa solo a metà. Rovinata da una vittoria non schiacciante contro lo sfidante, e soprattutto da un calo dell'affluenza ai gazebo che da queste parti ha pochi precedenti: appena il 15% delle persone che un anno fa parteciparono alle primarie tra Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Ci-vati sono tornate al voto.
Alla fine della giornata il numero dei votanti si è fermato infatti sotto quota 60 mila. Che ci sarebbe stato un calo nel numero dei votanti era nelle previsioni, tanto che i seggi erano stati ridimensionati dal partito già nei giorni scorsi: da 960 erano stati portati a 800. Tuttavia che il tracollo sarebbe stato del-l'85% rispetto alle primarie 2013, era inimmaginabile.
NELLA SEDE REGIONALE
del Pd provano a minimizzare. “Non si può paragonare questa tornata con quella che ha incoronato Matteo Renzi segretario”. Il parametro di riferimento, secondo loro, è piuttosto quello delle 'parlamentarie' del 30 dicembre 2012. Ma anche allora i votanti furono 151 mila. Quasi il triplo rispetto a ieri. È però un’altra considerazione a preoccupare i dirigenti: i tesserati al Pd in Emilia Romagna sono 75 mila. Nella regione rossa per eccellenza un iscritto su tre non è dunque andato a votare. Tra i tanti militanti che non sono andati ai gazebo l’unico assente giustificato era Romano Prodi, da qualche giorno ricoverato in ospedale per una lieve affezione bronchiale. Niente di grave, ma soprattutto nessun caso politico, hanno assicurato le persone a lui vicine: il Professore avrebbe voluto partecipare alle primarie, come ha sempre fatto.
Una vicenda tormentata
quella di queste primarie 2014. Subito dopo le improvvise dimissioni di Vasco Errani a luglio, dopo una condanna in appello per falso ideologico, era partito il totonomi. Quello più quotato per la successione a governatore sembrava essere quello del sindaco Pd di Imola, Daniele Manca. Benvoluto sia dai bersaniani che dai renziani, apprezzatissimo dallo stesso Errani, la sua strada sembrava spianata. Contemporaneamente si erano fatto avanti il parlamentare Matteo Richetti e l’ex sindaco di Forlì Roberto Balzani. Stefano Bonaccini, allora segretario regionale e braccio destro di Matteo Renzi a Roma, era rimasto indeciso sino alla fine di agosto, quando era finalmente sceso in campo. A quel punto, ritiratosi Daniele Manca, in corsa erano rimasti solo Richetti, Bonaccini e Balzani. Il 9 settembre però il colpo di scena. Richetti si ritira: la procura della Repubblica di Bologna lo indaga per peculato per la vicenda dei rimborsi in Regione. Bonaccini, indagato per lo stesso motivo (anche se ora i pm hanno chiesto l’archiviazione della sua posizione) rimane invece in corsa in una sfida a due da superfavorito contro l’outsider Balzani. Il resto è storia di questi giorni.
NONOSTANTE l'affluenza al voto rischi di renderlo un candidato dimezzato, Stefano Bonaccini il 23 novembre sarà molto probabilmente il prossimo presidente della Regione Emilia Romagna. Difficile infatti che lo strapotere del Pd possa essere contrastato da Grillo e dalla sua candidata Giulia Gibertoni, modenese come il candidato democratico. Il Movimento 5 stelle peraltro nelle ultime settimane è stato attraversato da polemiche interne legate alla esclusione dalle primarie per la candidatura di Andrea Defranceschi, consigliere regionale uscente del M5s. E questo potrebbe pesare alle urne. Il centrodestra invece un candidato neppure ce l'ha ancora e la sua ricerca sembra in alto mare: difficile trovare un politico candidato a sicura sconfitta.

Prove generali? A Genova vince una lista fatta da Pd, Forza Italia, parte dell’Ncd, Sel e Lista Doria
Repubblica 29.9.14
Prime elezioni metropolitane Genova, vincono le larghe intese


ROMA La riforma degli enti locali entra nel vivo. A 24 anni dalla prima legge che prevedeva la nascita delle città metropolitane si è passati ai fatti e la svolta impressa con il provvedimento che porta la firma di Graziano Delrio ha fatto il suo primo passo avanti significativo. Ieri urne aperte in 4 città (Milano, Genova, Firenze e Bologna) per l’elezione dei consigli metropolitani e in 5 province (Bergamo, Lodi, Sondrio, Taranto e Vibo Valentia; oggi sarà la volta Ferrara) per la scelta dei presidenti e dei consiglieri. Genova ha bruciato i tempi degli scrutini e ha reso noto i risultati in serata: nella città della Lanterna il listone larghe intese “Costituente per la Città Metropolitana” che riunisce Pd, Forza Italia, parte dell’Ncd, Sel e Lista Doria ha vinto le consultazioni per il parlamentino della Città Metropolitana con 430 preferenze su 691 votanti (il 62,2% del totale, 13 consiglieri eletti su 18). Ovunque affluenza alta. A Milano si è espresso l’80,6% degli aventi diritto, vale a dire 1657 tra consiglieri e sindaci dei Comuni della Provincia. A Firenze il 92%. A Bologna l’84,5%.

il Fatto 29.9.14
Renzi a nozze con i poteri forti. Da Cimbri a Palenzona, tutti al matrimonio di Carrai
Per il matrimonio dell'influente consigliere arrivano a omaggiarlo finanzieri, banchieri e industriali
Cioè tutto il salotto buono che il premier (testimone dello sposo) dice di voler rottamare
E c'è perfino la Cia
Uno degli invitati: “Matteo? Per noi è come un cavallo: lo abbiamo allevato, abbiamo deciso di scommettere su di lui, ora aspettiamo di vedere se arriva al traguardo da vincente”
E se perde? “Il mondo è pieno di purosangue”
di Davide Vecchi

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Corriere 29.9.14
Il matrimonio dell’amico di Renzi. Ecco chi c’era alle nozze di Carrai
Testimone di nozze il premier
Alle nozze blindatissime dell’amico di Matteo Renzi una sfilata di ospiti illustri
di Nino Luca

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Corriere 29.9.14
Agnese Renzi con Peppa Pig

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il Fatto 29.9.14
C’eravamo tanto amati
Quando Matteo e Pippo lottavano fianco a fianco

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La Stampa 29.9.14
Il premier al braccio di ferro. Oggi la resa dei conti
“Vogliono far credere che loro sono la sinistra”. Minoranza divisa
di Carlo Bertini

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La Stampa 29.9.14
Dai Renziani ai Giovani Turchi, la geografia del Pd

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il Fatto 29.9.14
Articolo 18, il premier: "E' inutile, va tolto"
Civati: "Scissione nel Pd? Rischio reale"
Blog Grillo: "Renzi 'elimina' i lavoratori"
Articolo 18, premier: "E' inutile, va tolto" Civati: "Scissione nel Pd? Rischio reale"  Blog Grillo: "Renzi 'elimina' i lavoratori"
"Va cambiato tutto lo statuto", dice Renzi
Civati: "Scissione? E’ un rischio”
D'Alema: "Premier ascolta solo Berlusconi e Verdini"
L'ex Cavaliere: "E' la riforma che volevamo"

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La Stampa 29.9.14
Lavoro, Renzi alla resa dei conti nel Pd
«Io non tratto con la minoranza del partito ma con i lavoratori»
Bersani: «Rischio smottamento a destra»


In attesa della direzione Pd, dove ci sarà la resa dei conti Sul Jobs act, Matteo Renzi va all’attacco: «Io - dice, intervistato da Fabio Fazio A Che Tempo che fa - non tratto con la minoranza del partito ma con i lavoratori». Il premier dice basta a una sinistra «opportunista e inchiodata al 25%», che fa dell’articolo 18 una «battaglia ideologica». Una sinistra che guarda al passato e che non si rende conto che «la memoria senza speranza è un museo delle cere».
Ed ecco quindi che il premier liquida una volta per tutte l’articolo 18 («gli imprenditori devono poter licenziare») e annuncia la cancellazione dei contratti precari, dai co.co.pro in poi. Non solo. Promette che ci saranno anche le risorse per i nuovi ammortizzatori sociali, le vere tutele che secondo lui servono al Paese e a combattere la disoccupazione: si tratta di 1,5 miliardi che saranno inseriti nella legge di Stabilità, un’operazione che in totale varrà 20 miliardi senza però «1 cent di tasse in più».
Le minoranze interne sono dunque avvisate, sarà battaglia. Ma anche il sindacato non viene risparmiato: «L’unica azienda al di sopra dei 15 dipendenti che non ha l’articolo sono loro - fa sapere il premier - che poi ci vengono a fare la lezione». I toni dunque non sono certo concilianti. Eppure le minoranze in queste ultime ore sono tornate a insistere sulla necessità di avere un dibattito aperto e soprattutto, con Pierluigi Bersani, hanno invitato il premier a evitare aut aut. Timori che però il premier liquida così: «A Bersani, a cui domani farò gli auguri perché è il suo compleanno, dico che la ditta è sempre la ditta anche se non guida lui».
Renzi sembra scomporsi poco anche per le critiche arrivate da D’Alema («non me lo perdo mai»), così come quelle giunte dai cosiddetti poteri forti, da quelli del mondo ecclesiastico a quelli imprenditoriali, a cui si sono aggiunte in questi giorni anche gli attacchi di un ex sostenitore come Diego Della Valle, che tra l’altro starebbe pensando di scendere nell’arena politica, e con cui Renzi si dice pronto a misurarsi senza timori. «Possono anche mandarmi a casa domani mattina - è la tesi - ma non pensino di telecomandarmi come una marionetta».
Così come dice di essere pronto a misurarsi in Parlamento sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale: «Bisogna fare veloci. Abbiamo un accordo - ricorda - e Forza Italia non deve continuare a girarci intorno».
LA RESA DEI CONTI IN DIREZIONE 
La prima riforma che però attende il premier in Parlamento è proprio quella del mercato del lavoro. In direzione Renzi si troverà dunque a confrontarsi con una parte (il 20-30%) del partito che non ne condivide l’impostazione. C’è chi (come Francesco Boccia, Stefano Fassina, Pippo Civati e i cuperliani) infatti è anche pronto - secondo quanto viene raccontato - a presentare un documento in Direzione con il quale si chiede di allineare la discussione sulla Legge di Stabilità a quella sulla riforma del lavoro. Sarà la direzione, viene spiegato, a decidere se questo testo debba essere messo ai voti ma l’importante sarà la discussione che genererà: Renzi - è il ragionamento - dovrà ascoltare delle ragioni oggettive e scegliere fra un pezzo del partito o Ncd (che proprio oggi è tornato a tuonare, sostenendo come l’intesa raggiunta in Senato sia immodificabile e addirittura con Angelino Alfano non nascondendo di auspicare un decreto legge). Una battaglia, quelle delle minoranze, che però assicura Pier Luigi Bersani non ha come derivata «il pericolo scissione», evocato ieri da Civati. Ma «chi ha responsabilità di dirigere - insiste l’ex Segretario - deve cercare una sintesi». Nonostante posizioni così distanti c’è anche chi, come il presidente del partito e esponente dei Giovani Turchi Matteo Orfini, prova a far vedere una soluzione di mediazione a portata di mano: «Siamo d’accordo al 90%», rassicura. L’idea è di puntare sul rafforzamento dei licenziamenti cosiddetti discriminatori, sulla falsariga delle proposte di Rughetti e Chiamparino, allargando le tipologie che rientrano in questa casistica e per le quali è quindi previsto il reintegro sul posto di lavoro. Una opzione però già snobbata dalle minoranze nei giorni scorsi.

Corriere 29.9.14
La conta dei democratici tra numeri blindati e l’ombra della rottura
Oggi la direzione senza un accordo tra renziani e sinistra
Orfini: ci sono margini. Ma Bersani: la strada è stretta
di M.Gu.


ROMA «La strada è molto stretta», ha ammesso Bersani. La vigilia si è chiusa senza un accordo e alle cinque della sera il Pd rischia una spaccatura profonda sull’articolo 18: la bandiera che Renzi vuole stracciare perché «non serve a niente» e che, al contrario, la sinistra del Pd ha scelto come vessillo della propria esistenza. Se non si arriverà a un’intesa, la direzione si aprirà senza rete e — salvo improbabili ripensamenti del premier — in serata ai democratici non resterà che far la conta di vincitori e vinti. D’Alema sul Corriere ha messo in guardia il premier, ha detto che un «accordo ragionevole» è ancora possibile e che «una frattura del maggior partito di governo non sarebbe un messaggio rassicurante». Ma Renzi tira dritto e mena fendenti su Bersani e compagni: ha rifiutato l’incontro con le minoranze e non appare disposto a discutere di legge di Stabilità.
I numeri sono dalla parte del segretario, il quale controlla almeno il 68% dei circa 200 membri del «parlamentino» e che potrebbe allargare ancora i suoi consensi. Oggi inviterà il Pd a valutare nel complesso la riforma senza fermarsi all’articolo 18, farà la sua proposta che verrà messa ai voti. La minoranza, che potrebbe dividersi sul grado di intransigenza, non ha le forze per capovolgere un epilogo già scritto. In caso di sconfitta potrà cercare la rivincita al Senato: lì la maggioranza ha solo sette voti di vantaggio e «se procedesse mediante un’intesa con le destre», ammonisce Chiti, «ne seguirebbe una lacerazione grave per il Pd, il governo, il Paese».
Per respingere l’accusa di essere gufi e frenatori, lasciando al «capo» il peso di una eventuale frattura, i leader antirenziani lanciano gli ultimi appelli all’unità. Bersani: «Prendere o lasciare sull’articolo 18? Non esiste. Il Pd va preservato e anche il governo, ma bisogna fare ogni sforzo per trovare la miglior sintesi». Scissione in vista? «Non esiste». E Gianni Cuperlo: «Io ho posto questioni con spirito collaborativo per rendere efficace la riforma e fino all’ultimo continuerò a sperare che, da parte del segretario, ci sia l’impegno a trovare una soluzione condivisa». Dal Nazareno, la Serracchiani invita la minoranza a «fare un passo indietro» per cancellare le «diseguaglianze» del mercato del lavoro.
Matteo Orfini ha schierato i «turchi» sulla linea morbida e vede ancora «margini» sul rafforzamento dei casi di reintegro: «Ci sono le condizioni per un accordo». E D’Alema? «Temo abbia mischiato i piani in modo improprio. Non c’entra niente il dibattito interno a un partito con l’esigenza di fare le riforme con le opposizioni». Ieri sera nel cielo del Pd era ancora nebbia fitta. La mediazione di Chiamparino è stata respinta dalla sinistra. Per D’Attorre «sarebbe ridicolo arrampicarsi sugli specchi e rifugiarsi dietro il discriminatorio, che è garantito dalla Costituzione». Riformista dell’ala dura, D’Attorre avverte: «Se si andrà alla rottura, sarà chiaro come il sole che l’ha voluta Renzi». Come voterete? «Se la linea è l’abolizione totale dell’articolo 18, mi pare complicato non dire di no». Posizione condivisa da Bindi, Boccia, Fassina e Pippo Civati, che vede volteggiare all’orizzonte il fantasma della scissione.

Repubblica 29.9.14
Lavoro, resa dei conti nel Pd Bersani: non ci sarà la scissione
Camusso: Renzi stavolta perderà
Oggi la direzione del Partito democratico stabilirà la linea
Vertice di Cgil Cisl e Uil per tentare una posizione unitaria
di Rosaria Amato


ROMA Renzi «stia sereno», il rischio di scissione «non esiste proprio», dice Pier Luigi Bersani. «Una mediazione si può fare, è solo una questione di volontà politica», scrive Cesare Damiano. Sembrano rassicuranti le dichiarazioni dei principali esponenti della minoranza Pd in vista della Direzione sul Jobs Act, oggi alle 17 in diretta streaming. Ma l’opposizione interna non ha alcuna intenzione di accontentarsi del reintegro del lavoratore nel solo caso del licenziamento discriminatorio.
Norma che neanche ci sarebbe bisogno di scrivere, sottolineano in coro i sindacati: è già nella Costituzione. E anche nella «Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea», ricorda Stefano Fassina, aggiungendo che neanche l’affidamento dei licenziamenti impugnati a un arbitro piuttosto che a un giudice può essere un compromesso accettabile. «Chi ha responsabilità di dirigere deve cercare una sintesi», insiste Bersani, chiarendo che non accetterà «prendere o lasciare sull’articolo 18» e tanto meno «uno slittamento di destra nel merito dei problemi».
Dalla parte opposta il leader Ncd Angelino Alfano, che nel programma di Maria Latella “L’Intervista”, su SkyTg24, taglia corto: «Renzi sta proponendo delle cose giustissime. Io non voglio giocare al rilancio, ma la riforma del lavoro dovremmo farla subito e per decreto».
I sindacati stamane si riuniscono per cercare una posizione comune nella battaglia a tutela dell’art.18. Battaglia che ha concrete possibilità di successo, dice la leader della Cgil Susanna Camusso: «Credo che ne abbiamo, perché credo che il Paese ne abbia bisogno», risponde a Lucia Annunziata nel programma “In mezz’ora” su RaiTre. La Cgil fa asse con la Fiom di Maurizio Landini: tutti pronti, se serve, per lo sciopero generale. Mentre il leader della Uil Luigi Angeletti suggerisce a Renzi, per uniformare le tutele sul lavoro, di «non togliere niente a nessuno e dare a quelli che non hanno».

Repubblica 29.9.14
Il premier gioca l’ultima carta “La riforma in vigore a tappe”
Ma la minoranza vuole la conta
di Giovanna Casadio


ROMA Uno spiraglio per il compromesso in realtà c’è. L’ha detto Renzi ai “pontieri” dem: «Io credo che la mediazione sull’articolo 18 si può fare su un punto: la dilazione dei tempi di entrata in vigore della nuova normativa». Il segretario- premier sa bene che è un’offerta minimalista, ma è quanto è disposto a mettere oggi sul tavolo della direzione. Oltre a un rafforzamento della norma per individuare i licenziamenti discriminatori. Per il resto Renzi procede come un caterpillar: «Andrò personalmente in giro in tutt’Italia, città per città a spiegare la nostra riforma del lavoro», ha annunciato. E la direzione dovrà fare i conti con la determinazione del premier.
Alla vigilia dello showdown di oggi, nel Pd è una rincorsa a evitare lo strappo. Cuperlo, Orfini, Speranza si spendono per tessere un accordo. Colloqui e stamani una riunione degli oppositori, capitanati da Pippo Civati, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Stefano Fassina e Francesco Boccia. Tutti assicurano di non volere lo scontro, ma tengono il punto. Lo fa anche Pierluigi Bersani che agli amici ha confidato: «Io non voglio una resa dei conti, non ho alcuna intenzione di spaccare il partito. Ma ci vuole un po’ d’ascolto». E l’ex segretario, che festeggerà in direzione il suo compleanno, dice che la barra va mantenuta dritta. Cercherà di blindare il più possibile l’articolo 18, come già fece nel 2012 nell’epoca Fornero. Sarà presente in direzione la “vecchia guardia” dem al gran completo, con D’Alema, Bersani, Epifani all’attacco di Renzi.
Lo spiraglio per le modifiche che il premier lascia intravedere potrebbe avere anche un altro esito a lui favorevole: dividere la sinistra al momento del voto. Del resto per il premier i numeri in direzione sono di ampia maggioranza: all’indomani delle primarie il rapporto era il 70% di renziani contro il 30% della minoranza. È migliorato ancora, con i “giovani turchi” il cui leader è Matteo Orfini, presidente del partito, passati ormai in maggioranza. Nella conta sull’articolo 18 Renzi avrà perciò un probabile predominio “bulgaro”. Ironizza Civati: «Una previsione? Secondo me finisce 80 a 20. Con noi sconfitti. Tuttavia dobbiamo fare chiarezza, rendere evidente agli occhi del paese quale è la nostra proposta e perché siamo contrari». Ecco quindi che la sinistra ha preparato un documento, già in bozza ieri. Si aspetterà fino all’ultimo prima di presentarlo. Cuperlo ci conta: «Speriamo in un sussulto di ragionevolezza da parte del premier. Prenda atto che questa logica perentoria non aiuta. Si può affrontare con un po’ di buona volontà la riforma dell’articolo 18». E se la strada dell’accordo non prevalesse? «Allora un documento servirà a rendere evidente le nostre proposte». La bozza del documento della sinistra dem mette subito in evidenza che Jobs Act e legge di stabilità vanno discussi insieme. «È evidente che c’è un problema di ammortizzatori sociali e quindi di coperture, di risorse da reperire se si vuole riformare il mercato del lavoro», sottolineano a una voce gli oppositori. Il fatto che il presidente Orfini non abbia inserito nell’ordine del giorno di oggi, oltre al Jobs Act, la legge di stabilità come punto di discussione, è stata ritenuta la prima porta sbattuta in faccia. Orfini dal canto suo spiega che di legge di stabilità si parlerà certo, l’affronterà Renzi nella sua relazione ma è bene concentrare la discussione sulla riforma del lavoro. La sinistra tuttavia non vuole affidare al governo e al ministro Giuliano Poletti nessuna delega in bianco.
La sinistra ha anche chiesto di avere la proposta renziana. Ha ricevuto il testo di legge-delega. «È una risposta del tutto insufficiente», si sfoga Civati, che immaginava una anteprima della relazione del segretario-premier. E domani la partita si sposterà immediatamente in Senato, nella riunione del gruppo dem. Renzi e la maggioranza del Pd affermano di essere sicuri della disciplina di partito, per cui una volta votato l’impegno in direzione, i senatori non sgarreranno. Ma è soprattutto una speranza. Il premier sa che se alcuni dei Democratici in Parlamento mancassero all’appello, e se la riforma del mercato del lavoro passasse con i voti della destra, si aprirebbe un problema politico fatale per il governo.
Di certo gli oppositori dem hanno presentato a Palazzo Madama sette emendamenti ai quali, ribadiscono, non sono disposti a rinunciare. Riguardano la “reintegra”, gli ammortizzatori sociali universali, le tutele per i precari. Comunque vada oggi nella direzione del Pd, la partita sul lavoro è appena cominciata.

il Fatto 29.9.14
D’Alema: “Sei ispirato da Verdini”
Articolo 18, guerra finale dentro il Pd
I renziani sono euforici
di Stefano Feltri


“Cancelleremo i cococo, i cocopro, i coccodè e tutto quello che è stato il precariato in questi anni, daremo contratti con più diritti e chi vuole avere un figlio avrà le stesse tutele degli altri”. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi usa il salotto di Fabio Fazio su Rai3, a Che tempo che fa, per iniziare l’offensiva finale sulla riforma del lavoro: oggi la direzione del Partito democratico, mercoledì torna in aula al Senato il Jobs Act. La linea è chiara: nessun compromesso con la minoranza del partito, nessuna soluzione intermedia come quelle circolate in queste settimane (le vecchie tutele che scattano dopo alcuni anni di un lungo “periodo di prova”). I dissidenti del Pd sono battaglieri ma prudenti. L’ex segretario Pier Luigi Bersani nega l’ipotesi di scissioni, ma lo fa con una formula minacciosa: “Stia tranquillo, Renzi, stia sereno”. E quando Renzi twittò #Enricostaisereno, sappiamo che fine ha fatto il governo di Enrico Letta pochi giorni dopo. Dal Corriere della Sera Massimo D’Alema lamenta che il premier concorda le riforme soltanto con la “vecchia guardia del centrodestra” di Silvio Berlusconi e Denis Verdini e poi impone quegli accordi al partito “con il metodo del centralismo democratico”. La portavoce dell’ex aspirante Alto rappresentante per la politica estera europea (a D’Alema brucia ancora la scelta di Federica Mogherini) protesta per contestare il titolo del Corriere: “Renzi istruito da Verdini”.
Il premier è determinato a procedere come uno schiacchiasassi, sa che sostituire i contratti precari con un contratto unico a tutele crescenti privo di articolo 18 (i licenziati senza giusta causa possono sperare solo in un risarcimento ma non nel reintegro al loro posto, a meno che non ci sia stata discriminazione) serve a lanciare un messaggio simbolico. Erik Nielsen, il capo economista di Unicredit, nella sua nota domenicale scrive: “L'Italia è indietro rispetto ad altri Paesi che hanno implementato buoni compromessi di riforme, ma se l'ultima settimana una guida per quello che ci aspetta, si prepara a recuperare il tempo perduto”.
Lo schema è questo: dimostrare forza e controllo piegando le resistenze sull’articolo 18 e poi ottenere dall’Europa margini di manovra per riformare gli ammortizzatori sociali. “Servono 1,5 miliardi per dare tutele a un milione e 300mila persone con i cococo”, soldi da trovare nella legge di stabilità che si comincia a discutere tra poco. Il premier ha capito che nella comunicazione deve abbinare i due messaggi: aboliamo l’articolo 18 per aiutare le imprese ma aboliamo anche i contratti precari, “anche le donne che oggi hanno un cococo o un cocopro avranno finalmente la maternità”.
I RENZIANI SONO EUFORICI, pronti a tutto, tanto che Simona Bonafé in tv arriva a dire che il Pd può fare quello che vuole perché ha preso “il 48 per cento” (in realtà il 40,8, e nei sondaggi l’intervento sull’articolo 18 non è molto popolare, è contrario il 65 per cento degli italiani, secondo Ixé).
Angelino Alfano, ministro dell’Interno e leader di Ncd, per creare un po’ di scompiglio invoca il decreto legge – che spaccherebbe il Pd – mentre il sindacato prova a dare segni di vita. A In mezz’ora di Lucia Annunziata su Rai3 Susanna Ca-musso, della Cgil, ammette però di non riuscire neppure a parlare con il premier: quando gli telefona “ci sono sempre segretarie molto gentili che rispondono” e lui invece di richiamare risponde via lettera. Renzi, per sottolineare la considerazione che ha della Cgil, attacca: “Il sindacato è l'unica impresa che sta sopra i 15 dipendenti e non ha l'articolo 18. È il sindacato, che poi ci viene a fare la lezione” (è vero).
Il lavoro è il punto politicamente più delicato, ma la legge di stabilità non sarà da meno. Renzi conferma una misura su cui erano circolate indiscrezioni nei giorni scorsi: la possibilità di mettere parte del Tfr, il trattamento di fine rapporto, in busta paga. Per come lo accena il premier, funzionerà così: le banche prendono i prestiti straordinari dalla Bce, sono incentivate (o costrette) a darli alle imprese che, a quel punto, avendo liquidità possono rinunciare a parte di quel prestito mascherato dal lavoratore che è il Tfr. E chi vuole potrà averne subito una parte da spendere. Così saliranno i consumi. Ma la misura è complessa e i numeri ancora incerti.

Corriere 29.9.14
Chiamparino: D’Alema? Un po’ rancoroso
Parlava con Berlusconi per la Bicamerale
intervista di Monica Guerzoni


ROMA Presidente Chiamparino, Renzi interloquisce troppo con Verdini?
«Battuta un po’ livida, quella di D’Alema. Forse è un po’ deluso, si aspettava di avere un rapporto diverso con il premier».
Per i renziani, si aspettava di andare in Europa...
«Certo è un D’Alema un pochino rancoroso. Forse ha dimenticato di quando, ingiustamente, c’era lui al posto di Matteo e veniva impropriamente accusato di scendere a patti con Berlusconi perché voleva fare la Bicamerale. Argomenti come questi sono facili da usare, ma per fare le riforme bisogna parlare con tutti».
Non è un po’ troppo intenso, il dialogo con Verdini?
«Se all’epoca della Bicamerale si fosse fatta meno dietrologia sui rapporti di D’Alema con Berlusconi, forse avremmo anticipato la stagione di alcune importanti riforme. Sarà un caso, ma quando arriva uno che vuole cambiare le cose, spuntano i vari cavalieri che fanno di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote».
Anche lei con il complotto?
«Quando sento parlare di poteri forti e massoneria stento a capire. Sono argomenti usati quando si vuole screditare qualcuno a prescindere. Il problema sono i poteri invecchiati, anchilosati.. Serve una politica un po’ più in palla. Ha ragione Panebianco, un leader deve aprirsi un varco nella palude con una rivoluzione culturale».
Ce l’ha anche lei con la «vecchia guardia» del Pd?
«Anche in quel mondo lì, se non si buttano all’aria un po’ di cristallerie non si riesce a fare arredamento. Con Renzi mi trovo in sintonia su moltissime cose e gli invidio la capacità di muoversi con energia. A volte può apparire un elefante in cristalleria, ma in Italia ci vuole».
La sua mediazione sull’articolo 18 è fallita?
«Mi muovo sempre con cautela cercando di mettere tutti d’accordo, ma mi rendo conto che oggi, sulla strada della concertazione a ogni costo, non andiamo da nessuna parte. Si discute, poi si decide».
Il Pd si spacca?
«Mi aspetto che in direzione Renzi offra una proposta di mediazione, non necessariamente la mia. Si farà dare un mandato per andare avanti con il Jobs act, poi toccherà ai gruppi. Mi auguro che non arretri».
L’articolo 18 va cancellato?
«È un simbolo che ha 44 anni. Una battaglia di bandierine, ceto politico e sindacale».
Renzi usa l’articolo 18 in modo strumentale?
«È evidente che bisogna dare un segnale. Si tratta di fare una legge in cui si dica che se uno è discriminato viene reintegrato, anche nelle aziende con meno di 15 dipendenti. Su tutto il resto c’è un risarcimento economico deciso da una commissione arbitrale. Dobbiamo responsabilizzare le parti. L’articolo 18 riguarda una parte minoritaria di lavoratori e allora io dico di fotografare la realtà, invece di mantenere questo clima di contrapposizione».
Perché non va bene la proposta della minoranza?
«Prolungare la prova con tutele ridotte? “Peso el tacon del buso” , si dice in Veneto (peggio la toppa del buco, ndr )».
Il Pd rischia la scissione?
«Renzi è il leader del partito più forte d’Europa e non ha interesse a provocare rotture».
E se il Jobs act passa con i voti di Forza Italia?
«Si apre un problema politico. In quel caso Renzi dovrà fare un passaggio in Aula per verificare la sua maggioranza».

Repubblica 29.9.14
Fassina: “Deve dire dove prenderà le risorse”
“Non voglio l’esecutivo della Troika ma Matteo sta con l’establishment”
“Serve un programma di sinistra. Sosterremo i nostri sette emendamenti”
intervista di G. C.


ROMA «Renzi non ha affatto scaricato i poteri forti. Anzi. Ne porta avanti l’agenda». Stefano Fassina è sempre stato l’anti- Renzi: tra i due lo scontro è arrivato fino a quel “Fassina, chi?” con cui Renzi liquidò le proposte del vice ministro.
Fassina, si va allo scontro quindi nella direzione del Pd?
«Spero fino all’ultimo che il presidente del Consiglio ascolti le proposte che verranno presentate».
Ma se Renzi tira dritto, cosa farà la sinistra dem?
«Se non darà risposte nella sua relazione sulle risorse per gli ammortizzatori sociali, per i precari né sulla legge di stabilità, ma l’unica via indicata sarà la cancellazione della possibilità di reintegro per i lavoratori ingiustamente licenziati, non saremo con lui».
Cioè voterete contro?
«Io voterò contro».
Lei non teme di farsi strumento dei poteri forti che, accusa il premier-segretario, sono stati “spodestati” e vogliono quindi farlo fuori?
«Ma che scaricati! Renzi porta avanti l’agenda dei poteri forti accompagnandola a una retorica anti establishment. Pertanto lo fa assai più di Monti e in modo molto più efficace di Monti».
Appoggerebbe un governo “tecnico” di Ignazio Visco?
«Io voglio appoggiare un governo Renzi con una agenda di sinistra. Con un buon programma per il lavoro. Una agenda che sia soprattutto alternativa a quella della “troika”, che è invece quanto il presidente del consiglio sta portando avanti».
L’opposizione interna dem, voi della sinistra, andate verso la sconfitta?
«È evidente. Renzi ha una maggioranza bulgara in direzione alla quali si è aggiunta da subito la corrente dei “giovani turchi”. È una maggioranza che non ha mai dato segno di distinguersi dal leader nella discussione».
In Parlamento però dovrete rispettare per disciplina di partito la decisione presa? Come voterete sul Jobs Act?
«Sosterremo i sette emendamenti che sono stati presentati. Sono proposte di modifica che evitano di consegnare una delega in bianco al governo e assicurano risorse per gli ammortizzatori sociali e per i precari».

La Stampa 29.9.14
Civati: sta facendo ciò che non riuscì a Berlusconi e Sacconi
intervista di Francesca Schianchi


Pippo Civati, avete perso. Il segretario Renzi tira dritto sull’eliminazione dell’articolo 18.
«Abbiamo perso in partenza se nessuno della sua maggioranza vuole moderare questo suo atteggiamento conflittuale e gli consente di fare una cosa che non è prevista né dalla nostra storia né dagli impegni presi con i nostri elettori», sospira il leader di una delle correnti di minoranza del Pd, mentre in sottofondo ancora si sente la voce di Fabio Fazio.
Renzi insiste che difendere l’art. 18 è una battaglia ideologica.
«Intanto, l’idea che sui diritti non si esprimono i giudici mi sembra in contrasto con l’articolo 24 della Costituzione. E poi mi ha molto sorpreso che abbia detto “è una battaglia della sinistra” come se fosse una cosa diversa da lui. E’ un modo di parlare leggero e denigratorio. Capisco che voglia sempre cercare dei nemici interni, ma sta facendo quello che non sono riusciti a fare Berlusconi e Sacconi...».
Almeno le farà piacere l’annuncio di abolizione di cocopro e contratti precari.
«Questa è una bella novità. Ma non si capisce perché sull’art. 18 debba forzare. C’è strumentalità in questa posizione e anche incertezza nella costruzione della proposta politica: quello che dico io oggi, lo diceva anche lui ad agosto, quando rispondeva ad Alfano che il problema non è l’art. 18. Poi ha cambiato idea».
Oggi in Direzione…
«Finirà 80 a 20, già glielo posso anticipare. Di certo gli chiederemo anche che faccia chiarezza sui capitoli di spesa della legge di stabilità dedicati alla riforma degli ammortizzatori sociali, per capire anche quante persone sosterremo davvero».
Il voto della Direzione vincola tutti. Secondo lei al Senato cosa succede?
«Il disagio è trasversalissimo e non riguarda una sola componente».
C’è il rischio che una parte del Pd non la voti?
«Secondo me sì. E se il premier mette la fiducia è un altro gesto provocatorio».
Il rischio scissione si avvicina?
«Io ne ho parlato sperando che Renzi si rendesse conto che non si può forzare in questo modo in un partito non personale, in cui ci sono equilibri da rispettare. Se affronta la questione così, è chiaro che qualcuno si perde. E non lo dico da promotore di una scissione. Se vuole andare avanti fino al 2018 ci vuole una conversazione più leale e coerente a ciò che abbiamo sempre detto».
Lei voterà la delega come la pensa Renzi?
«In Direzione no. Mi sembra anche grave annunciare una riforma simile a mezzo intervista: perché sulla scuola ci prendiamo tutto il tempo che serve e sul lavoro c’è questa accelerazione?».
Ma in Parlamento la voterà?
«Per ora la legge è al Senato. Spero ancora che gli emendamenti dei senatori in disaccordo siano accolti».

La Stampa 29.9.14
Al Nazareno non è più l’ora dei compromessi
Oggi direzione, ma la scissione non è nel Dna del Pd
di Federico Geremicca


Con la tensione che sale e le posizioni che si irrigidiscono, la Direzione Pd si accinge a riunirsi oggi sotto i peggiori auspici. Il premier ripete di non voler cedere di un millimetro sulla modifica dell’articolo 18 e le minoranze interne annunciano «nemmeno noi molleremo», e la foto più appropriata per sintetizzare la situazione, torna ad esser quella dei due treni lanciati l’un contro l’altro a tutta velocità. Ma se è chiaro a cosa preluda e quel che Renzi concretamente intenda col suo brusco «io vado avanti», diverso è il discorso se si passa alle intenzioni delle minoranze. Che vuol dire «andiamo avanti»? E soprattutto: avanti fino a dove?
Dalle parti di Largo del Nazareno è tornata così ad aleggiare la parola scissione, ed un brivido è corso lungo le linee di frattura di una sinistra che, dal partito di Vendola ai fuoriusciti da Sel - fino ai frantumi della vecchia Rifondazione comunista - è in cerca di calamite per nuove aggregazioni che significhino sopravvivenza politica. Scissione (e rileggendo la storia se ne intende il perché) è parola impronunciabile, a sinistra, ipotesi nefasta.
A meno che, naturalmente, la scissione non riguardi altri (si ricordino gli applausi che accompagnarono Alfano al momento della separazione da Berlusconi). Ma si tratta davvero di un’ipotesi percorribile e realmente in campo?
A rileggere le interviste e le dichiarazioni rilasciate in questi giorni da esponenti della minoranza, una scissione - politica, culturale e perfino sentimentale - sembra già esser consumata. Quando ci si riferisce a colleghi dello stesso partito - seppur di maggioranza - definendoli «questi signori» (Fassina) oppure si ipotizza che il proprio segretario sia addirittura «istruito da anziani della parte avversa», cioè da Berlusconi e Verdini (D’Alema), si è già oltre la pur dura polemica politica: si è all’accusa di alto tradimento. Così, ogni collante viene meno. E potremmo dire che infine viene meno: visto che Renzi è stato sin da subito considerato - come segretario e poi anche come premier - un usurpatore, prima, e un traditore della causa, poi.
Ragioni e risentimenti per una rottura, dunque, ci sarebbero tutti. Ciò nonostante, secondo un copione noto, più si avvicina l’ora della resa dei conti, più le parti (soprattutto le minoranze, in verità) cercano di evitare il baratro. La formula per riuscirci è quella solita: trovare una sintesi. Arrivare ad una mediazione. La sintesi e la mediazione - praticate per opportunistiche ragioni di «pace politica» - sono state forse il peggior male del sistema-Italia degli ultimi decenni, andando il più delle volte a scapito dell’incisività dei provvedimenti da varare. La novità, ora, è che si è tanto mediato (tanto annacquato) che si è giunti al punto che continuare a farlo rischia di essere, oltre che suicida, assai difficile. Il momento obbliga a scelte nette e chiare: costi quel che costi, verrebbe da dire.
Ed è questo, in fondo, il motivo che riempie di attesa e di interrogativi la riunione della Direzione Pd di oggi. Fino a dove si spingeranno le minoranze (la vecchia guardia, direbbe il premier)? E fino a che punto è disposto ad arretrare Renzi, venendo in qualche modo meno allo stile (decidere, andare avanti, fare in fretta) che aveva conquistato gli italiani? E ancora: con quali successive reazioni da parte di soggetti politici e istituzionali (dal sindacato agli alleati di governo, da Confindustria fino alla Commissione europea) che sono interessati poco o niente agli equilibri e alla dialettica interna al Pd?
Situazione non facile, dunque, per l’intensità e l’asprezza delle tensioni in campo e per l’oggettiva difficoltà a trovare mediazioni al ribasso che magari plachino il maremoto scatenatosi in casa Pd aprendo, però, problemi perfino più seri all’interno del governo e nel rapporto con la comunità europea. Un vero e proprio esame per Matteo Renzi, che dopo il lungo e durissimo braccio di ferro sulla riforma del bicameralismo paritario ha di fronte una prova ancor più difficile, considerati gli effetti concreti e immediati che le decisioni che verranno assunte sono destinate ad avere.
Una cosa, di certo, il premier in questi mesi l’ha capita (o l’ha vista confermata sulla sua pelle): che nel Pd - e anche prima, nei partiti che si fusero nel Pd - non basta vincere per esser sicuri di poter governare il Paese o anche solo il suo stesso partito. E’ accaduto a Prodi, nel ‘96 e in maniera ancor peggiore nel 2006; è accaduto, fatte alcune differenze, a Walter Veltroni, co-fondatore e primo leader del Pd. Una sorta di maledizione: perché a partire all’attacco per logorare il capo vincente, spesso non sono stati avversari politici ma amici e compagni dello stesso partito.
E dunque chissà se a Matteo Renzi è tornata in mente - con le necessarie revisioni del caso - l’orrida frase con la quale Cesare Previti (avvocato, ministro di Berlusconi e poi processato e condannato) annunciò le intenzioni di Berlusconi, alla vigilia della vittoria del 1994, per cautelarsi e poter governare: «Non faremo prigionieri», assicurò. Com’era ovvio e inevitabile, ne fecero invece: e il primo governo del Cavaliere durò sette mesi. Quello di Renzi ha appena superato il sesto: e i «prigionieri», quelli interni e quelli esterni, scalpitano e fremono per l’eccitazione...

Corriere 29.9.14
Il premier e l’articolo 18
Una battaglia già vinta
di Maurizio Ferrera


Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di specifici contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele. A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della la Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.
Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

La Stampa 29.9.14
Il pressing dei sindacati
L’alt della Camusso: con noi non parla, con Confindustria sì
La n.1 Cgil: «Battaglia lunga, ma possiamo vincere»
Landini: “Le riforme si fanno col consenso”


Nessun canale di confronto è aperto tra i sindacati ed il premier che anzi - accusa la leader della Cgil, Susanna Camusso - sembra invece dialogare solo con Confindustria. È alto il pressing su Matteo Renzi ma con la consapevolezza della Cgil che la battaglia su Jobs act e articolo 18 sarà lunga e che non saranno né la decisione della direzione del Pd di domani né l’approvazione della legge delega a mettere la parola fine allo scontro. Possibilità di successo? «Credo che ne abbiamo, perché credo che il Paese ne abbia bisogno», dice Camusso.
I leader di Cgil, Cisl e Uil si vedranno domani mattina e, dopo la `fuga in avanti´ della Cgil (che sarà in piazza San Giovanni a Roma il 25 ottobre e preannuncia lo sciopero generale se ci sarà una accelerazione del Governo con un decreto), misureranno se ci sono margini per ricondurre le diverse posizioni ad una azione unitaria. «Non sarà facile», viene fatto notare da più parti. Resta molto cauta la Cisl, che vorrebbe ripartire dalla piattaforma lanciata prima dell’estate e cercare quindi una mediazione sull’articolo 18 nel quadro di un confronto più ampio: fisco, politica industriale, investimenti, precarietà. Cauta anche la Uil che attende una posizione chiara e definitiva del governo, e che domani pomeriggio terrà una riunione del suo esecutivo proprio mentre sarà in corso la direzione Pd. 
L’ALT DELLA CAMUSSO 
Intanto Susanna Camusso avverte: «C’è l’idea che nelle prossime 24 ore la direzione di un partito decide tutto ma noi siamo convinti che non è una battaglia dai tempi brevi». La leader Cgil puntualizza che se il governo ora dice che è possibile mantenere l’obbligo di reintegro per i licenziamenti discriminatori non è una apertura (perché è una tutela che «già c’è ed è inamovibile, è costituzionale») e che non ha senso parlare di abolizione dell’articolo 18 perché oggi tutela solo pochi («È come se uno dicesse: siccome gli omicidi sono diminuiti aboliamo il reato di omicidio»). Poi, ospite di Lucia Annunziata su RaiTre, la leader Cgil accenna al muro alzato da Renzi con i sindacati e lancia una stoccata contro il feeling che sembra invece esserci con gli industriali: la Cgil ha mai cercato un contatto diretto? C’è stata qualche telefonata «al centralino di Palazzo Chigi». Come è andata? «Ci sono sempre segretarie molto gentili che rispondono». Con Renzi porte chiuse per tutte le parti sociali? «Non credo sia così. Da Confindustria riceve documenti e ne recepisce i suggerimenti».
LANDINI: “LE RIFORME SI FANNO COL CONSENSO” 
Appare oggi ben rinsaldato l’asse Cgil-Fiom: Maurizio Landini annuncia che anche i metalmeccanici sono pronti allo sciopero generale e anche lui - ospite dell’intervista di Maria Latella su SkyTg24 - sottolinea che non sarebbe una concessione quella di non toccare l’articolo 18 per i licenziamenti discriminatori («Ci sono già codice civile e Costituzione»); Ed a Matteo Renzi il leader Fiom dice: «Le riforme vere si fanno con il consenso», «Bisogna avere la pazienza del processo democratico, del confronto», «se uno pensa che per tutta l’Italia decide lui o all’interno di un partito deve sapere che così facendo parte lo sciopero generale», perché «non c’è un illuminato o un folgorato sulla via di Damasco che possa cambiare il Paese da sera a mattina». Per i sindacati il punto di ricaduta sull’articolo 18, ricorda ancora Landini, può essere quello di un contratto a tutele progressive che elimini le tutele solo per i primi anni. Quanti? Inutile entrare nel merito, «non c’è alcuna trattativa». Anche il leader della Uil, Luigi Angeletti, dall’Arena di RaiUno, avverte non ha senso dire che la riforma dell’articolo 18 serve a rendere le tutele uguali per tutti: se è così, dice, allora bisogna «non togliere niente a nessuno e dare a quelli che non hanno», perché «non è come la marmellata che si può spalmare».

il Fatto 29.9.14
Lavoro, Landini pronto a sciopero:
“Precari? Con noi, non difendiamo solo art.18″

qui

La Stampa 29.8.14
Ma l’articolo 18 esiste ancora?
Domande e risposte sulla norma che divide governo e sindacati
di Giuseppe Salvaggiulo

qui

il Fatto 29.9.14
Aboliscano i notai. Poi si può pensare all’articolo 18
di Caterina Soffici

qui

Repubblica 29.9.14
Il patron di Prada:
“L’articolo 18 non è il nodo che blocca la crescita”
“Invece di invocare nuove regole gli imprenditori devono ritrovare il coraggio di investire”
intervista di Giovanni Pons


MILANO. Dottor Bertelli, lei che guida un grande gruppo come Prada, ritiene che Matteo Renzi abbia fatto bene a mettere in campo la contrapposizione sull’articolo 18?
«Era abbastanza prevedibile che sull’articolo 18 si sarebbe aperta una contesa forte e ora occorre trovare una soluzione. Ma se, come qualcuno dice, l’articolo 18 è diventato un simbolo che in Europa chiedono di togliere in cambio di una maggiore flessibilità sulle regole di bilancio, allora penso che dovremmo andare in questa direzione».
È sicuro che senza articolo 18 si riuscirà ad avere più crescita e più lavoro in Italia?
«Su questo ho miei dubbi, poiché l’articolo 18 riguarda un numero molto limitato di lavoratori. Io credo che invece di invocare nuove regole per il lavoro le imprese dovrebbero puntare di più su sè stesse. Per rimettere in moto la crescita occorre che gli imprenditori ricomincino a investire, trovino il coraggio di conquistare nuovi mercati all’estero mettendo a rischio una parte dei loro capitali».
Ma lo scontro in atto tra le forze politiche sul lavoro rischia di provocare una crisi di governo. Renzi deve andare avanti lo stesso?
«La realtà è che molti politici hanno paura che Renzi riesca a fare le riforme prendendosi tutti i meriti e diventando così troppo forte e troppo autonomo. Ecco perché il disegno sarebbe quello di fare cadere il governo ma senza andare a elezioni e promuovere un nuovo esecutivo che distribuisca il merito delle riforme su un più ampio spettro politico».
Dunque lei, al contrario del suo collega Della Valle, non ha maturato un giudizio negativo sul governo Renzi?
«Fin qui Renzi non mi ha deluso. Mette molta energia in quello che fa, e lotta contro un sistema ingessato, fatto di corporazioni e burocrazia. Normale si faccia dei nemici. A mio parere l’importante è cambiare, anche facendo degli errori, poi lungo il percorso si può anche correggere il tiro».
La critica più ricorrente è che il governo abbia messo troppa carne al fuoco e rischia di non portare a casa niente. È così?
«È normale che con tanta carne al fuoco qualche bistecca si brucerà. Ma io dico che per fare le riforme dello Stato occorre lo sforzo di tutti, remando nella stessa direzione, e che queste saranno sicuramente perfettibili. Ma bisogna provarci, l’errore più grosso è non fare niente. Se vuoi portare a casa tre riforme, come dice qualcuno, devi metterne in cantiere molte di più».
Un’altra critica riguarda la squadra di governo. Ministri troppo giovani e poco competenti?
«Le giro la domanda. Abbiamo qualche sicurezza che una squadra di sessant’anni sia anche bravo? Preferisco correre il rischio di avere una squadra giovane ma che riesca a dialogare meglio con la parte del paese meno ascoltata, cioè appunto i giovani».
Anche all’interno del Pd stanno crescendo i malumori.
«Essendo il Pd nato con tante anime diverse, che Bersani e D’Alema siano uniti e che non abbiano la stessa visione di Renzi mi pare abbastanza scontato».

il Fatto 29.9.14
Il ribelle
Della Valle ha pronto il suo premier: Visco
di Carlo Tecce


Sta lì, assiso, e osserva l’effetto che fa. Il sasso che rotola o, meglio, la scarpa Tod’s che irrompe in politica. Diego Della Valle non vuole costituire partiti, assemblare movimenti o scaldare un gruppo di saggi per le riforme: scardinare il governo di Matteo Renzi, questa la prerogativa. È convinto che sia un valido portavoce per far sentire lo scontento di un pezzo di Parlamento, di un agglomerato di imprenditori, finanzieri, investitori e di semplici cittadini delusi dal fiorentino. E questi preliminari, consumati con le invettive televisive e le indiscrezioni sui giornali, sono il metodo per decifrare le reazioni.
Il nome per sostituire Renzi ce l’ha, e lo utilizza per interrogare i suoi (eventuali) sostenitori: Ignazio Visco, numero uno di Bankitalia, una figura tecnica, evocato giorni fa, guarda caso, proprio dal Corriere della Sera di cui il signor Tod’s è azionista. Questo di Della Valle non è il piano per il ritorno a una tecnocrazia già fallita e mai rimpianta, Mario Monti è un senatore esule, ormai: no, il signor Tod’s vuole dimostrare che le alleanze si possono fare anche senza quelli che considera “i Pacciani della politica” e che oltre Renzi non c’è il deserto: “Non è Matteo l’ultima speranza”. Non ci sono scadenze precise e gerarchie definite, ma Della Valle lavora sottotraccia per allestire un esecutivo ombra per poi conquistare la luce (e il consenso?): il governatore Visco; e anche l’ex ministro omonimo Vincenzo Visco; il deputato Alberto Bombassei (Scelta Civica), socio con Luca Cordero di Montezemolo in Italo e la sempre più nutrita truppa di oppositori al renzismo.
Al rientro da Parigi, dopo aver scagliato l’offensiva, Della Valle finge una frenata, pura tattica: “Nelle prossime ore vi farò conoscere in pubblico le mie intenzioni. Ma un fatto è evidente: l’Italia non può continuare – dice ai suoi interlocutori più fidati – con le Boschi e i Verdini e un uomo solo al comando che vuole aumentare il suo potere e se ne frega di un paese sfasciato”. Il marchigiano sta per compilare una lista di governo per proporre l’alternativa a Renzi. A chi? Ai partiti, agli elettori, a chiunque possa cacciare l’ex amico Matteo da palazzo Chigi: “Il mio tempo massimo sono uno o due mesi”, ripete. E Renzi ha ammesso di conoscere l’attivismo di Diego; ora sono più chiare le ambizioni o le velleità.
La politica ha sempre affascinato Della Valle, l’impegno diretto non l’ha mai convinto: neanche l’associazione Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo l’ha coinvolto, all’epoca. Ci sono tre episodi che hanno allontanato il signor Tod’s da Renzi: la scelta di arruolare Federica Guidi al ministero per lo Sviluppo Economico (e i provvedimenti sfavorevoli a Italo) ; il trasferimento di Mauro Moretti (ex Ferrovie, odiato da Ntv) a Fin-meccanica e la conseguente promozione di Michele Elia ai vertice dei treni di Stato. In contemporanea, Renzi ha smesso di ascoltare i consigli di Della Valle e s’è gettato in braccio a Denis Verdini, tra gli emissari meno presentabili di Silvio Berlusconi. Con l’ex Cavaliere sempre più debole, una sinistra pronta a implodere, un centro inesistente e le fugaci apparizioni di Corrado Passera, Della Valle pensa di poter rappresentare un blocco, un estratto di Italia tra uomini in giacca e cravatta e anime smarrite in Parlamento.
C’è una caratteristica che unisce ancora Matteo e Diego: la vanità. Al signor Tod’s piace pontificare in televisione, scoprire ammiratori, fare “ammuina”, confusione. In queste battaglie tra sistemi non più comunicanti e non più intersecati, i sentimenti di orgoglio (o di vendetta) prevalgono. Un esempio: non sopporta la plateale sintonia tra Sergio Marchionne e il presidente del Consiglio.

il Fatto 29.9.14
Donne: 17% subisce abusi dal partner


SICUREZZA Il 7% circa delle donne che vivono in coppia è vittima di violenza fisica o sessuale da parte del partner, il 17% delle donne che hanno avuto un partner in passato è stata da questi abusata, il 20% delle donne subisce di frequente situazioni di violenza psicologica nella coppia e il 18% delle donne ha subito atti persecutori durante o dopo la separazione da parte dell'ex-partner. Alle violenze in famiglia si aggiungono, inoltre, le violenze da altri autori (complessivamente per il 24,7% delle donne): parenti, colleghi, amici, conoscenti e, infine, gli sconosciuti, autori nella maggior parte dei casi di molestie fisiche. È quanto emerge dal Rapporto Bes 2014, a cura dell’Istat, che ha analizzato anche la percezione della sicurezza tra le persone. Ai cittadini è stato chiesto quanto si sentissero sicuri a uscire di sera nella zona in cui vivono: sono oltre 18 milioni le persone con più di 13 anni che non si sentono sicure. NEL 2013 GLI OMICIDI in Italia sono calati rispetto al 2012, ma quelli a danno delle donne aumentano: sono 177. Tra il 2000 e il 2011 i femminicidi in Italia sono stati 2.061, su un totale di 7.440 omicidi.
NELL'UNIONE EUROPEA sono 62 milioni le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale dall'età di 15 anni. Lo stima l’Agenzia Ue per i Diritti fondamentali dopo il più grande sondaggio multistato mai eseguito.

La Stampa 29.9.14
Maturità
La scelta sbagliata
di Andrea Gavosto

Direttore Fondazione Agnelli

Il governo sta cercando di trovare i fondi per assumere nella primavera del 2015 i 150.000 precari della scuola inseriti nelle graduatorie ad esaurimento: costo stimato 3 miliardi, probabilmente di più se si aggiungono le ricostruzioni di carriera al momento dell’ingresso in ruolo.
Dove pensa di trovarli? Secondo le prime indiscrezioni, 1 miliardo dovrebbe essere recuperato all’interno dello stesso bilancio dell’istruzione, risparmiando sulle supplenze, poiché a questo punto ci saranno più docenti di ruolo; bloccando il turnover di bidelli, tecnici e personale amministrativo della scuola; riducendo il finanziamento dell’università e degli enti di ricerca; infine, cambiando la composizione della commissione per l’esame di Stato al termine delle scuole superiori, che tornerà a prevedere soltanto membri interni, tranne il presidente.
Le ultime due misure sono molto discutibili. Il finanziamento statale alle università è in calo da anni ed è oggi pari a poco meno di 7 miliardi: si tratta di una cifra che a molti atenei permette a malapena di pagare gli stipendi, tralasciando contratti di ricerca, borse di studio, attività di internazionalizzazione, tutto quanto, insomma, fa di un’università un centro di studio pulsante. È vero che l’offerta universitaria è ancora largamente costruita sulle necessità di chi ci lavora - i docenti e il personale amministrativo - non di chi ci studia e che esistono ampi margini di efficienza; tuttavia, è difficile pensare che così l’Italia possa raddoppiare entro il 2020 la percentuale di giovani laureati, come si è impegnata a fare. Soprattutto, dovremmo chiederci se non rinnovare i contratti a tantissimi promettenti giovani ricercatori, costringendoli a cercare fortuna all’estero, per assumere, senza un controllo di qualità, tutti i supplenti delle graduatorie - compresi i mille specializzati in steno-dattilografia! - sia una scelta davvero lungimirante per il futuro del paese.
Cambiare l’esame di maturità nella direzione voluta dal ministro Giannini - sostituendo le attuali commissioni miste con membri esclusivamente interni - è, a mio avviso, sbagliato. L’invio dei docenti in missione come esaminatori presso altre scuole costa ogni anno al ministero alcune decine di milioni di euro: a fronte di un risparmio non enorme, si rischia però di rendere ancora più inutile l’esame di Stato di quanto già non sia. Il vero punto debole della maturità è l’assenza di un metro di giudizio comune. Nonostante le regole nella costruzione del voto finale, studenti della stessa abilità possono ottenere risultati molto diversi, a seconda della severità della commissione, dell’indirizzo di studio o del territorio di appartenenza: è noto, ad esempio, che i voti al sud sono sistematicamente più alti di quelli al nord. Fatto così, l’esame di Stato non è uno strumento di giudizio attendibile né per le università, che infatti si dotano in misura crescente di propri test di ingresso, né per il mercato del lavoro privato, che non ne tiene più conto.
Ovviamente, se il giudizio finale spetta agli stessi insegnanti che hanno seguito lo studente durante l’anno, le differenze fra scuola e scuola e fra classe e classe saranno ancora più accentuate; i voti saranno tendenzialmente più alti, perché difficilmente un consiglio di classe vorrà «sminuire» il proprio operato. La scelta italiana va controcorrente rispetto alle migliori pratiche internazionali, dove prevalgono prove standardizzate e esami centrali, ovvero corretti secondo criteri omogenei a livello nazionale. Anche da noi sarebbe sufficiente che i compiti fossero inviati a una commissione unica centrale o scambiati fra le scuole di regioni diverse, per assicurare una maggiore confrontabilità e attendibilità dei risultati, con un minimo costo aggiuntivo.

il Fatto 29.9.14
Torino, quelle opere sparite dal duomo di Chieri
E Bertone restituì due candelabri
Omertà degli ambienti curiali
di Andrea Giambartolomei

qui

Repubblica 29.9.14
Hollande perde il Senato
La prima volta dei lepenisti, il Fronte conquista due seggi
Il rinnovo parziale della Camera alta favorisce la destra
L’Ump e i suoi alleati a quota 189, la gauche si ferma a 157
di Anais Ginori


PARIGI François Hollande è un’anatra azzoppata. Da ieri il leader socialista non può più contare su una maggioranza al Senato. Il rinnovo parziale di alcuni seggi alla Camera alta consegna più seggi alla destra. L’Ump e i suoi alleati hanno adesso 189 seggi, la coalizione di sinistra è a 157 seggi, mentre il Front National avrà per la prima volta due senatori: Stéphane Ravier e David Rachline. Dalla sua fondazione, negli anni Settanta, il partito della famiglia Le Pen non aveva mai varcato il portone del Palais du Luxembourg. «Una vittoria storica», ha commentato subito Marine Le Pen. Uno dei nuovi eletti del Fn, Rachline, ha solo 27 anni e diventa il più giovane eletto al Senato, così come Marion-Marechal Le Pen, 24 anni, nipote di Marine, vanta lo stesso primato all’Assemblée Nationale. «Siamo il partito del rinnovamento non solo politico, ma anche generazionale», dice la presidente del Fn. «Ora resta soltanto una porta da aprire, quella dell’Eliseo», aggiunge il neosenatore Ravier. Nei sondaggi, Le Pen arriverebbe al ballottaggio per le elezioni presidenziali del 2017, eliminando il candidato di sinistra, proprio come fece suo padre nel 2002.
Mancano ancora due anni e mezzo, ma la gauche è precipitata così in basso che è difficile immaginare una rimonta possibile. Dopo aver perso le elezioni amministrative e quelle europee, i socialisti incassano un’altra sconfitta in pochi mesi. La destra ha una maggioranza di 15 seggi, un risultato largamente prevedibile dopo la pesante sconfitta del Ps alle amministrative di marzo. I “grandi elettori” che votano in Francia per la Camera alta sono gli eletti locali. I consiglieri municipali (87mila circa) rinnovano ogni 3 anni metà dei senatori (179 su 348). Il Front National ha vinto su un elettorato consolidato: la regione di Marsiglia, dove è stato eletto Ravier, e quella del Var (sud), feudo di Rachline. L’Ump, che stando al segretario socialista Jean-Christophe Cambadelis ha vinto ma «senza dilagare», ha incassato il dovuto. «Un’altra sconfitta per il governo», ha commentato Alain Juppé, candidato alle primarie nella destra.
Hollande, al minimo della popolarità, è stato clamorosamente sconfitto nella “sua” Corrèze, dove un seggio l’ha strappato Daniel Chasseing (Ump) con il 51,73 per cento dei voti. Ha perso un’ex ministra di sinistra come Anne-Marie Escoffier, alla quale si deve la riforma del riassetto territoriale, e non viene eletto neppure Jean-Pierre Michel, relatore in Senato di una legge che ha caratterizzato il primo anno della presidenza Hollande, quella sulle nozze gay, dopo essere stato l’artefice, nel 1999, della normativa sui Pacs, il Patto civile di solidarietà. A destra vince tranquillamente l’ex primo ministro di Jacques Chirac, Jean-Pierre Raffarin, sfiorando il 66 per cento delle preferenze nella Vienne. Sarà lui, con ogni probabilità, il nuovo presidente del Senato.
Il Palais de Luxembourg sarà adesso la palestra di ostruzionismo e attacchi della destra. Uno scenario che si è già verificato in passato. François Mitterrand ha governato con un Senato all’opposizione, e anche Nicolas Sarkozy ha dovuto fronteggiare una maggioranza passata a sinistra nel 2011. La Camera alta è stata tradizionalmente in mano alla destra, tranne che negli ultimi tre anni. Il sistema francese dà la priorità al voto dell’Assemblée Nationale, quindi non ci sarà un problema immediato di governabilità per la gauche. Ma Hollande dovrà rinunciare a qualsiasi riforma che preveda una modifica della Costituzione, come il diritto di voto ai cittadini stranieri, promesso in campagna elettorale. Inoltre, il Presidente “azzoppato” dovrà coccolare di più la traballante maggioranza dei suoi deputati, evitando che cresca il gruppo di “frondisti” che minacciano di astenersi, o peggio, votare contro le misure del governo.

Repubblica 29.9.14
Shock in Germania: via il reato d’incesto
Il Consiglio etico tedesco propone al governo di depenalizzarlo nel caso il rapporto sia consensuale e tra maggiorenni “Non tocca al codice penale applicare standard morali o porre limiti alle relazioni sessuali tra adulti”. Scoppia la polemica
di Andrea Tarquini


BERLINO Tra i faraoni, da Akhenaton a Cleopatra, era un costume diffuso, per preservare la purezza dell’élite. Per le divinità pagane era normale. In alcuni Paesi arabi è diffuso. E nei nostri tempi è stato tema di film, da Soffio al cuore di Louis Malle, dove una splendida Lea Massari inizia compassionevole al sesso il figlio minorenne, a Themroc , con Michel Piccoli che fa l’amore con la giovane, bellissima sorella, impersonata da Béatrice Romand. Parliamo dell’incesto consensuale, un tema che in questi sta dividendo la Germania. La settimana scorsa lo Ethikrat, il Consiglio etico, un’istituzione governativa con poteri di consulenza ma non decisionali, ha chiesto ai legislatori e al potere esecutivo di depenalizzare le relazioni consensuali tra sorelle e fratelli maggiorenni e consenzienti, uno dei tabù più forti e inviolabili.
La Germania è spaccata. Fino nei media di qualità: Der Spiegel è a favore della depenalizzazione, la Frankfurter Allgemeine contraria. La scelta dello Ethikrat è stata sofferta e tutt’altro che unanime: i giuristi hanno votato in 14 contro 9 per l’introduzione di modifiche all’articolo 173 del codice penale. In altre parole, per la depenalizzazione dell’incesto. Perché, argomentano, se c’è libero consenso e amore, il rapporto non può essere vietato e punito penalmente. E per quanto riguarda i rischi che l’eventuale prole nasca o cresca colpita da gravi malattie o ad altissimo rischio di difetti genetici e malformazioni, dalla mucoviscidosi alla sindrome di Down fino a difetti cardiaci o epilessia, il tema può essere affrontato – dicono sempre i giuristi del Consiglio etico – in colloqui chiari in consultori con le coppie incestuose, non da poliziotti che bussano all’alba.
«Proposta scandalosa e immorale», ha subito commentato Stephan Mayer, esperto della Cdu, il partito della cancelliera Angela Merkel. I socialdemocratici tacciono. Anche se il loro giovane ministro della Giustizia, Heiko Maas, si è subito detto contro ogni revisione all’articolo 173. Ma gli argomenti dei giuristi dello Ethikrat non finiscono qui. Non vogliamo sottovalutare i rischi per la prole, dicono, ma la libertà d’innamorarsi e anche quella di procreare devono essere valori costitutivi, non oggetto di politiche in cui lo Stato spinge la difesa della salute dei cittadini fino a una eugenetica punitiva, qui di triste memoria.
Chi ha ragione? In Francia e in Spagna, sottolineano i giuristi, l’incesto non è reato. Dove lo è, accadono drammi. E citano a riporva la storia di Patrick e Susan, due giovani sassoni di umili condizioni. Si conobbero, entrambi cresciuti in brefotrofi, s’innamorarono, ed ebbero quattro figli insieme. Due dei bimbi furono colpiti da gravi malattie, i medici indagarono.
Scoprirono quanto Patrick e Susan ignoravano: che erano fratello e sorella, abbandonati in strutture diverse da una famiglia sfasciata. Alla fine Patrick è finito in prigione e Susan ha perso l’affidamento dei bimbi.
Il dibattito è acceso, su relazioni tabù per le quali statisticamente in Germania le condanne sono al massimo dodici l’anno. Certo, i figli di coppie incestuose, per i geni in comune, rischiano malattie tre volte più degli altri. Ma oggi, obietta chi vuole depenalizzare, perfino la medicina moderna, con la donazione di sperma e le madri in affitto, accresce il rischio di geni in comune di figli di genitori ignari.

Repubblica 29.9.14
Germania il Muro invisibile
Disoccupazione, imprese in bancarotta, villaggi svuotati dall’esodo
A poche settimane dal 25esimo anniversario della riunificazione tedesca, viaggio nell’ex Ddr: dove il reddito medio è inferiore del 66% rispetto ai Länder dell’Ovest
Un divario che a Berlino costa 100 miliardi di euro l’anno
di Andrea Tarquini


DRESDA VENGONO in tanti ogni giorno, a ricevere cibo per solidarietà umana senza sentirsi umiliati come mendicanti. Dresda, Zwickauerstrasse 32, non lontano dallo splendido centro ricostruito, dagli shopping mall dove non manca nulla, dalle zone residenziali della borghesia rinata. Zwickauerstrasse, qui la “ Dresdner Tafel ”, l’organizzazione che offre cibo da portare a casa o pasti caldi a prezzi stracciati, lavora senza sosta. Tafel significa mensa per chi non ha abbastanza, ce ne sono oltre novecento in tutta la Germania, anche in zone in declino dell’Ovest ricco. Ma visitare questa — fondata e diretta con energia dalla benefattrice impegnata compagna dottoressa Edith Franke, eletta della Linke — vuol dire vedere la più importante all’est, è diverso che nella Ruhr o nella Saar: qui nei volti della gente tranquilla e dignitosa in coda, quelli che da giovani sfidarono la Stasi in piazza, o i loro padri figli e nipoti, cogli il sentimento di un sogno vissuto rischiando un quarto di secolo fa, e realizzato solo in parte. 25 anni dopo la caduta del Muro, la calma, mesta folla in coda per mangiare ti dice che non tutto, nella riunificazione tedesca, è andato bene.
«Chi sa, se dopo gli studi non fossi diventata reporter, ci sarei venuta anch’io», dice Ines Adam, anchorwoman della tv locale. «Ho avuto fortuna». La Dresdner Tafel apre i battenti ogni giorno alle 13, vedi sempre un pubblico misto: bambini, famiglie con papà e mamma disoccupati che vivono di Hartz I-V, gli assegni previdenza, o del resto del welfare, pensionati, anche studenti. «Ognuno può venire una volta alla settimana», spiega Monika Winkel che riceve la gente in coda. «Distribuisco i buoni-tessera, incasso da 3 a 6 euro a seconda che siano single, famiglie piccole o grandi».
Il sistema funziona, almeno questo consola i perdenti e i nuovi poveri creati dalle “riforme” di Schroeder e poi di Merkel anche nel resto del paese. Ristoranti, catene di fast food, aziende alimentari fanno a gara a fornire gratis alle Tafel ogni avanzo di frigo o magazzino ancora buono. Riunificazione non perfetta? Salviamoci la coscienza. Sabato la Dresdner Tafel ha organizzato “la giornata dei denti sani”, supplisce ai limiti della Sanità, aiuta chi qui all’est non trova più medici: molti hanno preferito andarsene, pagati e trattati meglio in Scandinavia o in Canada. Goodbye Deutschland s’intitola il reality tv show che li racconta, evoca il film Goodbye Lenin. Coda ordinata, nessuno si lamenta. Giovani in fila e volontari soccorrono una vecchietta che si sente male. Tre bimbi attendono con ansia sperando in dolcetti gratis, accompagnati dalla mamma. «Mio marito mi picchiava brutalmente, ho divorziato, non ho lavoro, lui non ci versa un soldo». Una famiglia di migranti afgani riceve del cibo in più come regalo di benvenuto, papà ha gli occhi lucidi.
«Vengono molte madri sole, hanno uno o due mini lavori ma non basta fino a fine mese», spiegano alla Tafel, «e inquieta la povertà dei pensionati in un paese ricco». Centomila persone a Dresda e dintorni, dicono le statistiche federali, sono bisognose, ma i visitatori della Tafel sono in media tredicimila: gli altri non sanno che esiste, o si vergognano di andarci. Non te lo aspettavi, correndo col vecchio Suv bavarese verso Dresda, ma è così: con tutte le differenze, quasi pensi a Dickens.
Qui, in una città ricca, non nella “pampa gelida” del Meclemburgo- Cispomerania dove tra fattorie collettive in bancarotta da anni, villaggi svuotati dall’esodo e pianure ove i viventi sono solo cinghiali o cervi, non puoi neanche usare il cellulare: mancano i ripetitori, non servirebbero quasi a nessuno. O nel Brandeburgo, l’antica Prussia così spopolata dai giovani che «neanche i neonazi trovano qualcuno da pestare», come canta il cabarettista Rainald Grebe nel motivo-cult dell’Est. Povertà, e qualche delusione, sono diffusi, anche se Turingia e Sassonia sono location di eccellenze, e in alcune zone dell’Ovest va peggio.
Eccoci a Magdeburgo, Sassonia- Anhalt, la capitale dallo splendido duomo. Sono una Spoon river dei vivi, le storie della gente in coda alla Tafel di Porsestrasse 16. «Ho 46 anni, mi chiamo Ralf, sono idraulico, disoccupato da 7 anni, diabetico, nessuno mi assume. Qui risparmio 20 euro al mese, tanti». «Mi chiamo Martina, ho 55 anni, sono giardiniera, senza lavoro da 12 anni, di pensione avrò 128 euro mensili. Mi vergognavo, ma che altro potevo fare? E qui sono gentili». Ecco Dorit, 35 anni, parrucchiera e sarta. «Cinque anni senza lavoro, mi danno persino cioccolata per mia figlia». E Peter, robusto 64enne: «Ero muratore da sempre, è finita. I soldi non mi bastano». O Inga, 79 anni: «Ho manovrato le gru dei cantieri per una vita, ora 550 euro di pensione. Vengo qui, non mi lamento».
Un quarto di secolo è tanto, i ricordi di pestaggi e torture della Stasi si allontanano. Il reddito medio nei “nuovi Bundeslaender”, ammette Berlino, è il 66 per cento di quello dell’Ovest. «Tanto sviluppo, tanti successi ma anche ombre», afferma al Financial Times Iris Gleicke, delegata del governo federale per i problemi dell’ex Ddr. Risanare la Ddr disastrata da Honecker e da Mosca costa ancora alla Germania unita 100 miliardi di euro all’anno: moltiplicato 25 anni, altro che Grecia o eurosalvataggio. Eppure la beneficienza è vitale persino a Lipsia, la città più ricca dell’est tedesco, la “seconda Berlino” che attira tanti giovani d’ogni parte d’Europa. Anche qui dove producono Bmw e Porsche e l’aeroporto fa invidia ai nostri, accanto ai ristoranti di lusso, da Gourmétage tutto caviale e champagne ai caffè e negozi del Maedler- Passage d’epoca imperiale, ci pensa il Restaurant des Herzens (ristorante del cuore) a rifocillare i poveri. Ci sono due Lipsie, notava di recente Christiane Kohl della Sueddeutsche Zeitung : ricchi o borghesi e poveri, non si odiano ma s’ignorano a vicenda. Non costruisci così una nuova identità nazionale, distrutta quella obbligata nello Stato totalitario finito nella pattumiera della Storia.
Bisogna capirli, i frustrati, avverte il sociologo Andreas Willisch, coautore di un saggio-inchiesta su Wittenberge, “la città che si rimpicciolisce”, quasi come Benjamin Button che nasce vecchio e muore bambino. Avevano la più moderna fabbrica di macchine da cucire d’Europa, dopo la riunificazione divenne inutile, fu chiusa da un giorno all’altro. «Qui la memoria è una doccia scozzese, gioia ricordando la fine della dittatura e shock della lettera di licenziamento». È una città malata, sofferente, nota Willisch: lo vedi arrivandoci nella stazione vuota, e a ogni primo del mese alle code dei disoccupati per il sussidio davanti alle Sparkassen. «È uno dei luoghi che chiamano Verliererstadt , città dei perdenti, eppure hanno imparato a vivere, in un quotidiano post-lavoro anche per i giovani». Miracolo non vedere sommosse come nelle banlieues francesi. Però di voto in voto i populisti euroscettici di Alternative fuer Deutschland volano più alto, qui all’Est ben meno povero del nostro Mezzogiorno eppure infelice. Il viaggio è finito, il vecchio Suv bavarese mi riporta a Berlino. Scorgi all’orizzonte le luci della “Londra mitteleuropea”, ti senti tornare in un altro mondo, circondato dalla piccola galassia dei tanti perdenti.

Repubblica 29.9.14
Ma ai delusi dell’Est la sinistra non dà risposte
di Peter Schneider


NON sono molto ottimista, quando penso alla Germania Est. E negli ultimi cinque anni le differenze di reddito quasi non sono diminuite. C’è da chiedersi se mai l’Est raggiungerà il livello dell’Ovest. Attenzione, non penso a un “Mezzogiorno tedesco”: l’ex Ddr storicamente è sempre stata una zona industriale. Ma soffre di seri svantaggi: la popolazione è calata molto, mentre prima del 1989 loro mettevano al mondo più bambini di noi all’Ovest. E con l’eccezione delle cosiddette zone-faro, come Lipsia o Jena, non si va veramente avanti. Una stagnazione è possibile.
Resta dunque, nell’emozione collettiva, la sensazione di essere rimasti indietro, di non avere le stesse chances dell’Ovest. Venticinque anni di esodo interno: esclusa Berlino Est, nell’ex Ddr restano circa 12 milioni e mezzo di abitanti, contro i 16 del 1989, sebbene un controesodo abbia arrestato il calo demografico.
Purtroppo, ho l’impressione che il “Muro nelle teste” che descrissi non sia caduto. Perché non fu condotta una vera politica di equilibrio, bensì lo smantellamento dell’economia tedesco-orientale, molte aziende chiuse potevano essere salvate. E anche le pensioni sono più “leggere”.
Nei “nuovi Bundeslaender” la gente ha la sensazione che all’Ovest vada sempre molto meglio. Ciò suscita risentimento contro l’arroganza dell’Ovest, nazione vincitrice da cui si è stati ridotti a colonia. Ormai siamo già alla seconda generazione di Muro nelle teste. I bambini nati dopo la caduta del Muro ascoltano esperienze e ricordi dei genitori: lavoro duro per una vita, poi disoccupati perché il sistema meno produttivo è stato sconfitto.
Certo, esistono differenze anche all’Ovest, tra la ricca Baviera e Brema o la Saarland povere. Ma a Brema o a Saarbruecken non significa perdita d’identità. Eppure, non sottovalutiamo successi enormi dell’Est: da là viene la Cancelliera, che ha spostato la Cdu tanto a sinistra da far chiedere a molti perché votare ancora Spd. E nella cultura — dalla letteratura alla pittura — i migliori talenti vengono dall’Est, dove la gente dovette imparare la vita moderna in poche ore. La riunificazione ha cambiato il sistema di valori tedesco, con più enfasi verso i temi della sicurezza sociale. Gli “Ossis” sono in parte vincitori inconsapevoli della caduta del Muro. Ma la sensazione di essere i perdenti, resta. Per il divario economico, e le tante belle ville restaurate e abitate da “Wessis”: gli “Ossis” non avevano patrimoni. Il vantaggio dell’eredità, descritto da Piketty, divide le due Germanie, non è rassicurante.
Su questo sfondo, soprattutto all’Est il nuovo partito Alternative für Deutschland si rafforza. Non sono neonazisti, bensì accademici euroscettici, colgono i crescenti dubbi della gente sull’euro, specie all’Est. Il potenziale di protesta è forte. Non è nazionalismo di destra, ma agli “Ossis” la sinistra non offre risposte. E allora l’Est, da cui viene la Cancelliera che ha spostato a sinistra la Cdu potrà spingere a destra gli equilibri politici nazionali.
(testo raccolto da Andrea Tarquini)

Repubblica 29.9.14
Khodorkovskij
“Datemi due anni e cambierò la Russia. Servono riforme e assistenza sociale”
di Piotr Smolar


Nove mesi dopo essere uscito di prigione, l’ex patron del gigante petrolifero Yukos, Mikhail Khodorkovskij, che era in carcere dal 2003, è tornato clamorosamente sulla scena politica. Ha creato un movimento d’opposizione, Russia aperta, e annunciato di volersi candidare alla presidenza. “Perché il regime attuale — spiega — condurrà inevitabilmente alla crisi”. In quest’intervista, l’ex oligarca racconta le sue ambizioni e la sua idea di potere. “Non bisogna concentrarlo, ma ridistribuirlo”, afferma. “Governare in modo efficace significa decentralizzare, a livello federale e regionale”. Aggiunge: “Bisogna rafforzare lo Stato. Attualmente non adempie alle sue funzioni. E si sperperano risorse”. E di Putin dice: “Anche se con me si è accanito, per me è un avversario politico. Se tornasse a percorrere la via europea allo sviluppo, cosa difficile a sessant’anni, potremmo lavorare insieme. Perché no?”

NOVE mesi dopo essere uscito di prigione, dopo dieci anni di detenzione, Michail Khodorkovskij torna clamorosamente sulla scena pubblica.
Ha annunciato di voler diventare un “presidente di crisi” per la Russia. Cosa intendeva?
«Se il Paese potesse decidere in piena tranquillità, non entrerei in concorrenza. Ma il regime attuale condurrà inevitabilmente alla crisi, e la soluzione può avvenire in due modi. Il primo è l’avvento al potere di un uomo fortemente autoritario, come Vladimir Putin o peggio. Temo che non ne usciremmo vivi. La Russia può sopravvivere a Putin, ma altri vent’anni di ritardo non sarebbero sopportabili. La seconda alternativa consisterà nelle riforme istituzionali, un modello più equilibrato con diversi centri di potere: il presidente, il Parlamento, un sistema giudiziario indipendente, la società civile, l’opposizione. L’uomo che gestirà questa transizione dovrà avere un’esperienza da dirigente, ma dovrà andare contro l’istinto del dirigente: non si tratta di concentrare il potere, ma di ridistribuirlo. I candidati adatti non saranno molti. Se dovessi realizzare un lavoro simile, penso che potrei riuscirci in due anni».
Condivisione del potere in Russia, dove il sistema è drasticamente verticale?
«Il sistema vigente viene visto come duro ma efficace, ma non è così. Bisogna rafforzare lo Stato, non indebolirlo o demolirlo. Attualmente non adempie alle sue funzioni. Non solo perché una parte cospicua delle finanze pubbliche viene saccheggiata, o perché sperperano risorse, ma anche perché il modo in cui viene governato il Paese non è efficace. Il funzionario che deve provvedere all’assistenza sociale non deve permettersi di trattare il suo cliente in maniera offensiva. Non è possibile che i fondi per l’acquisto di attrezzature mediche vengano interamente sottratti. Rubate altrove! Nemmeno Putin, checché se ne dica, vuole che il denaro destinato all’assistenza sanitaria venga rubato. Eppure, così è stato. Come si può parlare di governo efficace? Non serve un accentramento del potere a opera di un tizio un po’ brutale. Quando Putin ha annunciato l’installazione di telecamere di sorveglianza nei cantieri per la ricostruzione dopo l’ondata di incendi, i manager si sono fatti grasse risate. Governare in modo efficace significa decentralizzare, a livello federale e regionale. È la stessa via seguita dall’Europa, tra l’altro».
Alla fine del 1999, Boris Eltsin ha trasmesso il potere a Putin. È immaginabile che il successore di Putin non venga scelto da lui?
«Se fosse designato da Putin e non si rivoltasse contro di lui, tutti si aspetterebbero di vedergli fare la fine di Medvedev. Per diventare un soggetto autonomo dovrebbe ‘massacrare’ Putin, che lo capisce benissimo. O non designerà nessuno, o designerà una personalità debole. O Putin resterà al potere fino alla morte, o il suo successore non ci resterà a lungo. E più a lungo resterà Putin, più si aggraverà la crisi che oggi è mascherata dallo show militare».
Potrebbe essere lei il successore designato da Putin?
«Dubito che Vladimir Vladimirovic possa decidere di fare una cosa del genere. Ma sarebbe giusto offrire la garanzia di una vita tranquilla a Putin e ai personaggi politici di alto livello che dovessero comprendere e cambiare atteggiamento di fronte alla situazione nel Paese».
Come successe nel 1999 con la “famiglia” di Boris Eltsin, che fu protetta?
«È improbabile. Questa gente ha saccheggiato troppo le risorse del Paese, a differenza della “famiglia” di Eltsin che era meno numerosa. Nessuno li lascerà nudi e affamati; nessuno li getterà in prigione se rinunceranno al potere tranquillamente. Ma se vi si aggrapperanno fino all’ultimo respiro...».
E i soldi che hanno saccheggiato?
«Per questo dico che non resteranno nudi e affamati: bisognerà trovare un compromesso. Lo caldeggio con convinzione, il sangue costa molto più caro. Il regime ha già oltrepassato il punto di non ritorno. La sua esistenza già costa sangue ai russi. Seppelliamo compatrioti morti in una guerra che non è la nostra. È inevitabile, il sangue scorrerà ancora di più. È la logica di sviluppo di un regime del genere».
Ha annunciato la creazione di un movimento, Russia aperta. È diretto contro Putin?
«No. Putin è il rappresentante di un sistema che vogliamo cambiare. Putin non è il problema, è la sua manifestazione. Se tornasse a percorrere la via europea allo sviluppo, cesserebbe di essere un problema. Non credo a questa ipotesi, ma a volte i miracoli avvengono... Non ho un approccio emotivo nei suoi confronti. È rimasto nei limiti accettabili evitando di colpire la mia famiglia. Solo con me si è comportato come se fosse una faccenda personale, ma per me è un avversario politico. Se cambiasse opinione, cosa difficile a sessant’anni, potremmo lavorare insieme: perché no?».
Spesso raffigura Putin come una persona emotiva.
«Lo è diventato. In passato sapeva tenere le emozioni sotto controllo e agiva in modo pragmatico. In Russia crediamo nei grandi cicli politici: quando la società si è stancata di un uomo e il suo indice di popolarità scende, come successe per Breznev, decide di dare una svecchiata. Putin non aveva molte alternative: una era solleticare gli umori sciovinisti della nazione».
(© Le Monde. Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 29.9.14
Putin avverte gli Usa: armerò Assad
Il Cremlino chiede di coordinare i raid con Damasco e minaccia la fornitura dei micidiali S-300
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 29.9.14
Hong Kong non cede: siamo il nuovo Tibet
Guerriglia e cariche della polizia contro la rivolta anti Pechino
Gli studenti: continueremo la lotta per la democrazia
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 29.9.14
«Disperdetevi o spariamo» La repressione di Hong Kong
Lacrimogeni e cariche della polizia, ma in 80mila sfidano Pechino
di Guido Santevecchi


PECHINO Il fumo di centinaia di candelotti lacrimogeni sparati dalla polizia, cariche e una pioggia di manganellate. La sfida democratica tra i grattacieli di Hong Kong è diventata una battaglia urbana, un inseguimento strada per strada intorno alla Civic Square, la piazza del palazzo governativo. L’ordine del comando è arrivato alle sei del pomeriggio: la polizia ha stretto il cordone, gli agenti hanno indossato le maschere antigas e hanno cominciato a spargere liquido urticante contro la prima linea dei dimostranti che cercavano di proteggersi con gli ombrelli. Mentre avanzavano, gli agenti hanno alzato striscioni rossi con la scritta: «Disperdetevi o spariamo». Un attimo e sono cominciati a risuonare i colpi dei lacrimogeni lanciati verso i manifestanti: l’aria si è riempita di fumo. La prima linea dei democratici è arretrata sulla superstrada che attraversa Hong Kong. Ci sono state altre cariche con i manganelli in pugno e ragazzi caduti a terra, una ventina finiti in ospedale.
Il tentativo di repressione ha richiamato una folla ancora più grande, forse 80 mila persone, che nella notte paralizzavano il cuore di Hong Kong. A mezzanotte si sono sparse voci su un attacco imminente della polizia, pronta a sparare. A questo punto i leader anziani del movimento hanno chiesto la ritirata: «Non significa perdere, ma aspettare. È una questione di vita o di morte», ha detto il dottor Chan Kin-man. C’era anche il cardinale cattolico Joseph Zen che ha ammonito: «Vincere sacrificando vite non è vittoria. Abbiamo mandato il messaggio, andate a casa ora».
La drammatica accelerazione della protesta democratica di Hong Kong contro il governo cinese è maturata nella notte tra sabato e domenica, quando i capi di Occupy Central hanno annunciato l’inizio della disobbedienza civile e l’occupazione del centro della city finanziaria. Migliaia di persone si sono radunate davanti al quartier generale governativo, nella Civic Square. Molti si erano preparati con elmetti, occhialoni da nuoto, mascherine, ombrelli, impermeabili, poncho di cellophane per proteggersi dagli spray della polizia.
Il grande sit-in era stato programmato per il 1° ottobre, festa nazionale cinese. Ma sono stati gli studenti dell’organizzazione Scholarism a forzare la situazione, lanciando il boicottaggio delle lezioni, convergendo venerdì sul palazzo governativo, scontrandosi per primi con la polizia. All’1,45 di ieri mattina Benny Tai, il professore di diritto fondatore di Occupy Central, movimento di adulti, docenti universitari, intellettuali, uomini di chiesa, ha detto che «nelle azioni sociali bisogna rispondere alla situazione, all’entusiasmo dei cittadini, quindi l’occupazione del centro comincia. I giovani ci hanno costretto ad agire prima del previsto».
Hong Kong, ex colonia britannica con sette milioni di abitanti, è stata restituita alla Cina nel 1997. In base agli accordi internazionali la città è definita «regione ad amministrazione speciale» e fino al 2047 le è stato garantito il mantenimento delle sue istituzioni democratiche, di una magistratura indipendente, di un sistema scolastico libero. Hong Kong dovrebbe avere anche il voto a suffragio universale per l’elezione del suo governatore, nel 2017. Però a Pechino sono spaventati dalla possibilità che il virus democratico di Hong Kong si diffonda nella madrepatria, mettendo in pericolo la presa ferrea del partito sul potere. Così ad agosto le autorità centrali hanno comunicato a Hong Kong le condizioni per il voto: saranno ammessi solo due o tre candidati «patriottici» e «innamorati della madrepatria cinese», vale a dire seguaci fidati del partito comunista di Pechino. I candidati saranno pre-selezionati da un conclave di 1200 notabili hongkonghesi allineati. A quel punto, contro la legge elettorale farsa, Occupy Central ha cominciato a organizzare il blocco del distretto finanziario.
Ieri ha parlato il Chief Executive CY Leung: ha detto che le elezioni si svolgeranno come stabilito da Pechino, ma ha ipotizzato nuove consultazioni. Poi lacrimogeni e cariche. «Il governo centrale della Cina si oppone agli assembramenti illegali di Hong Kong», ha tagliato corto Pechino in una nota. «Vergogna, codardi, vergogna», gridava a ogni scarica di lacrimogeni il mare dei dimostranti, chiedendo ai reporter di «far sapere al mondo che qui ci battiamo per la democrazia negata, che siamo disarmati e la polizia è crudele». Nella notte i due blocchi continuavano la sfida ravvicinata. Con la paura che si superi il punto di non ritorno.

Corriere 29.9.14
Il leader di Occupy: «Pronti al carcere per la democrazia»
di G.Sant.


PECHINO In sottofondo si sentono urla e scoppi. Al telefono da Hong Kong il dottor Chan Kin-man, professore di sociologia e cofondatore di Occupy Central, risponde di fretta.
Che cosa farete ora che la polizia usa la forza? Vi ritirerete o resterete in piazza?
«Noi manifestiamo contro gli ordini del governo centrale di Pechino, quindi siamo pronti ad essere arrestati. Siamo professori, intellettuali, bravi cittadini, siamo consapevoli che quello che stiamo facendo, anche se è pacifico, è illegale. E se ci arresteranno non ci faremo difendere da avvocati. Noi, bloccando il centro violiamo la legge, ma lo facciamo per suscitare la consapevolezza, la discussione della gente, la loro simpatia».
Non sarebbe meglio accettare il suffragio universale che Pechino vi ha proposto? In Cina il principio un uomo un voto era sconosciuto.
«Non c’è significato perché è il partito che decide chi può essere candidato. Noi non vogliamo un voto “con caratteristiche cinesi”. Il punto è che Pechino aveva promesso il suffragio universale, e questa formula ha un significato internazionale e regole internazionali. Quindi noi non possiamo accettare che la promessa non venga rispettata».
Avete contro di voi tutta la business community di Hong Kong, preoccupata che l’instabilità distrugga il miracolo economico della piazza finanziaria.
«La comunità degli affari di qui dipende dalla Cina continentale, per questo dà sempre ragione a Pechino. Ma se si creasse instabilità, la causa sarebbe Pechino, perché un autentico suffragio universale avrebbe portato a una grande conciliazione tra le parti. Basterebbe ascoltarci per evitare le proteste ed è chiaro che queste manifestazioni porteranno danni maggiori all’economia».

il Fatto 29.9.14
Hong Kong, “Occupy Central” in piazza
La polizia carica gli studenti con i lacrimogeni
Pechino vuole mettere paletti al suffragio universale in vista delle prossime elezioni previste nel 2017

qui

il Fatto 29.9.14
Per un voto libero
Democrazia, Occupy Hong Kong sfida Pechino
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino A Hong Kong la polizia spara lacrimogeni sui manifestanti. Sono giovanissimi quelli che per primi si sono ribellati a Pechino. Chiedono che il voto con cui nel 2017 dovranno scegliere il governatore della loro città - per la prima volta tramite suffragio universale - sia veramente libero. Ma Pechino, a cui l'ex colonia britannica è stata restituita nel 1997, ha specificato che “solo i candidati che amano la Cina sono eleggibili”. Riducendo di fatto lo spazio di democrazia concesso.
Così lunedì scorso gli studenti hanno deciso di boicottare scuola e università. Un movimento che si è rafforzato nonostante Benny Tai, il professore di legge che era stato definito dai media della Repubblica popolare “l’uomo più pericoloso della città”, li invitasse alla prudenza. Aveva cercato di trattenerli almeno fino al primo ottobre.
Per quella data il più vasto movimento Occupy Central, di cui Tai è uno dei leader, aveva programmato di assediare l’omonimo distretto finanziario della città. Avevano scelto un giorno di festa, il 65esimo anniversario della fondazione della Rpc, per non incidere eccessivamente sull'economia. D’altronde Hong Kong è da sempre una capitale della finanza mondiale. Qui la carica di primo cittadino si chiama addirittura “amministratore delegato” e attualmente è nominato da un comitato formato da 1200 individui, ovviamente a loro volta espressione delle lobby economiche della città.
Ma gli studenti in piazza si stavano già organizzando. Negli ultimi giorni hanno assediato gli edifici governativi e, dopo aver forzato le barriere, si sono accampati nel piazzale su cui si affacciano. Ci sono stati almeno 70 arresti, ma gli studenti si sono barricati e hanno resistito. A Benny Tai non è rimasta altra strada che ufficializzare l’appoggio di Occupy Central al movimento spontaneo degli studenti. Il comunicato stampa che ne è seguito ha reso noto che “le due notti di occupazione della piazza di fronte alla municipalità hanno incarnato perfettamente il risveglio del desiderio del popolo di Hong Kong di decidere delle proprie vite. Il coraggio degli studenti nella loro decisione spontanea ha commosso l'opinione pubblica. Ma il governo non si è lasciato commuovere. Abbiamo quindi deciso di sollevarci ed agire”.
LA GIORNATA DI DOMENICA ha visto dunque il movimento degli studenti spezzarsi di fronte alle polemiche di chi non riteneva giusto che altri mettessero il cappello sulle loro lotte e conquiste. Mentre decine di migliaia di persone si sono unite alla piazza. In conferenza stampa, il governatore Leung Chun-ying ha per la prima volta nominato il movimento dichiarandosi “risolutamente contrario alle occupazioni illegali di Occupy Central”. Nel pomeriggio il diciassettenne Joshua Wong, uno dei primi studenti ad essere stato arrestato, è stato rilasciato dalla polizia senza alcuna accusa. Mentre i suoi genitori già parlano di “persecuzione politica”, lui ha dichiarato che “innanzitutto si riposerà e poi tornerà a unirsi alla battaglia”.
Nel frattempo 18 membri dello schieramento pan-democratico del Consiglio legislativo, di fatto il parlamento di Hong Kong, si sono detti solidali alle proteste. Alan Leong, uno di loro, ha dichiarato al South China Morning Post che anche se “alcuni manifestanti che non vogliono appoggiare Occupy se ne sono andati, dovrebbero unirsi tutti gli hongkonghesi che vogliono mostrare la loro posizione sul Partito comunista. Perché – ha aggiunto - questo è un momento significativo per Hong Kong”. Gli ha fatto eco Jimmy Lay, tycoon del gruppo NextMedia e fondatore del quotidiano Apple: “Chiunque ami Hong Kong dovrebbe unirsi. È per il futuro della città”. Intanto gli hongkonghesi in piazza sono sempre di più, i punti di raccolta delle manifestazioni si sono diversificati e la polizia continua a sparare lacrimogeni sui manifestanti.

Corriere 29.9.14
La protesta contro la Cina
Hong Kong: il governo ritira gli agenti anti-sommossa dopo gli scontri
Le autorità chiedono però ai manifestanti di disperdersi
Nel fine settimana lacrimogeni e cariche contro migliaia di persone che sfidano Pechino e chiedono più democrazia

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Corriere 29.9.14
Supermarket della tortura. Diritti umani addio
di Pierluigi Battista


La difesa dei diritti umani è oramai all’ultimo posto nell’agenda internazionale e nell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. E dunque non susciterà alcuna reazione il boom dell’industria della tortura che, ne scriveva su queste pagine Guido Santevecchi, sta facendo sorridere l’azienda statale cinese Chian Xinxing con un volume di esportazioni alle dittature del mondo che l’anno scorso ha toccato la soglia dei 100 milioni di dollari. Un grande viavai di «manette, sedie rigide per gli interrogatori, bastoni elettrici che possono essere usati per infliggere scariche estremamente dolorose per genitali, gola, orecchie».
Possiamo immaginarcelo, il commesso viaggiatore che presso 40 nazioni africane (la clientela più entusiasta), in Cambogia e in Thailandia e in Nepal, illustra con orgoglio aziendale il campionario dei suoi preziosi prodotti per l’export: mazze «anti-sommossa» con punte metalliche, catene per il collo che riducono la circolazione del sangue, attrezzature per somministrare scariche elettriche su un uomo nudo e immobilizzato, strumenti per il congelamento del torturato e così via. Possiamo immaginare anche il brivido del virtuoso fustigatore del mercato spietato e del capitalismo disumano. Purché non si colga il centro della questione: i consumatori non sono utenti abbacinati dalle sirene del consumismo, ma Stati che fanno parte dell’Onu, che cercano, spesso ottenendola, una certa reputazione mondiale e che comunque possono agire indisturbati, anzi quasi incoraggiati dalla comunità internazionale, nella pratica della tortura e della violazione dei diritti fondamentali.
Noi sappiamo benissimo quali sono gli Stati che praticano la tortura: diciamo che sono Stati sotto il cui tallone vive oltre la metà della popolazione mondiale, altro che staterelli periferici, o cattivi confinati nell’asse del Male. Anzi, dopo il fallimento delle primavere arabe (che peraltro sono esplose in Paesi dove la tortura di Stato, come nell’Egitto di Mubarak, aveva raggiunto vertici di perfezione professionale), abbiamo cominciato a fare il tifo per regimi autoritari che almeno potevano arginare i pericoli del fondamentalismo fanatico e oscurantista. Facciamo tifo per regimi che guardano con ammirazione al catalogo della China Xinxing (presumibilmente forte anche nel mercato interno) e che partecipano con entusiasmo all’internazionale della tortura. Diritti umani adieu. Deve essere questa la «globalizzazione dell’indifferenza denunciata da Papa Francesco?

La Stampa 29.9.14
Se l’Italia non ha più intellettuali
di Luigi La Spina

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Repubblica 29.9.14
Gli italiani parlano (anche) in dialetto
Incontro con Tullio De Mauro che ha aggiornato la Storia linguistica
Quasi la metà di noi alterna l’uso dell’idioma nazionale con quello locale
Solo una percentuale di poco superiore al 20 è in grado di comprendere frasi neanche tanto difficili e di fare operazioni poco più che elementari
I dati sono in peggioramento, ma il progetto di Renzi non li prende in considerazione
Molte famiglie non hanno neanche un libro in casa e sono ormai tanti gli studi che attestano una relazione fra il rendimento scolastico dei ragazzi e il numero di libri posseduti dai genitori
colloquio con Francesco Erbani


È stato il multilinguismo a favorire un codice comune
Le donne più degli uomini si esprimono correttamente

L’ITALIANO , la lingua italiana, non sta così male. Messi male sono molti, troppi italiani che quella lingua parlano ormai correntemente, ma incontrano grandi difficoltà a comprendere un testo scritto o a risolvere un calcolo. Insomma, a orientarsi nel mondo d’oggi. È un paese bifronte quello che da anni scandaglia il linguista Tullio De Mauro, per un verso slanciato in avanti, per il verso opposto appesantito da vecchie e nuove tare. Ma un altro accertamento proietta l’immagine di un paese a due facce: l’italiano è diventato ora la lingua di quasi tutti, senza che ciò abbia però provocato la morte dei dialetti. Se il 90 per cento di noi parla una lingua comune (ancora nel 1974 era appena il 25 per cento), una buona metà di questa massa, il 44,1, alterna abbondantemente l’italiano al dialetto. E ciò, sottolinea De Mauro, non è affatto negativo.
De Mauro sistema studi che conduce da anni, studi che non riguardano tanto il codice al quale tutti facciamo riferimento, quanto proprio noi parlanti. Esce in questi giorni il suo Storia linguistica dell’Italia repubblicana ( Laterza) che fin dal titolo aggiorna la Storia linguistica dell’Italia unita, pubblicato nel 1963, un testo indispensabile per capire, attraverso il modo in cui ci esprimevamo cent’anni dopo l’unificazione, che italiani eravamo. La procedura è ora identica: storia linguistica e non storia della lingua. Si ragiona di assetti demografici e non di congiuntivi, di rapporto città/campagna, città grande/ città piccola e non di sintassi. E poi della scuola e di ciò che c’è fuori e oltre la scuola. Di giornali, di televisione e di web. Dei dislivelli culturali, vere fratture che incidono il corpo della società italiana.
Che cos’è una storia linguistica?
«È la storia di una comunità che può anche parlare diverse lingue. Tanto più di una comunità come quella italiana dove, a differenza di altri paesi, c’è un marcato multilinguismo. È la masse parlante di cui scrive Ferdinand de Saussure».
È una storia d’Italia sub specie linguistica?
«Possiamo dire così. Non riesco a capire perché gli storici italiani trascurino quest’aspetto. Accade in prevalenza da noi, dove pure è impossibile ignorare il modo in cui le persone si capivano o non si capivano. In fondo uno dei motivi alla base della richiesta di unificazione del paese era proprio la comunanza di lingua. Che poi la comunanza fosse una chimera è un problema sul quale gli storici dovrebbero soffermarsi».
E tanto più dovrebbero soffermarsi sulla formidabile convergenza degli italiani verso l’italiano avvenuta negli ultimi quarant’anni.
«È un fenomeno vistoso che induce a rivedere, almeno su questo versante, un certo pessimismo nelle ricostruzioni della nostra storia recente. Il bisogno di trovare un terreno d’intesa, da Nord a Sud, ha avuto un esito indubbio. E il bisogno l’ha avvertito più la popolazione italiana che non le classi dirigenti. Questo va sottolineato senza populismi».
E però, lei aggiunge, chi diagnosticava la morte dei dialetti deve ricredersi.
«Posso inondarla di cifre?».
Certamente.
«Fino al 1974 la maggioranza degli italiani, il 51,3 per cento, parlava sempre in dialetto. Ora chi parla sempre in dialetto è sceso al 5,4. Ma, regredendo l’uso esclusivo, è andato crescendo quello alternante di italiano e dialetto: nel 1955 era il 18 per cento, oggi è il 44,1. Quelli che adoperano solo l’italiano sono il 45,5 per cento. È vero che i toscani, i liguri e gli emiliano-romagnoli parlano solo in italiano fra l’80 e il 60 per cento e che i lucani, i campani e i calabresi vanno dal 27 al 20 per cento. Ma è vero anche che chi usa solo il dialetto in queste regioni del Sud non supera il 12-13 per cento».
E quest’alternanza quanto incide sulla capacità di comprendersi l’un l’altro?
«In una conversazione, non sempre in maniera programmata, si passa dall’italiano al dialetto e viceversa molto facilmente. Ovviamente rivolgendosi a un interlocutore che il dialetto possa capirlo. Gli inglesi lo chiamano code switching o code mixing. È uno strumento prezioso per arricchire il parlato, migliorando l’espressività».
Lei sostiene che l’acquisizione dell’italiano comune sia stata favorita dalla mescolanza di tanti idiomi.
«Quante più lingue si confrontano tanto più cresce l’esigenza di una lingua comune. L’importante è che l’ambiente sia unitario. È un fenomeno verificabile fin dal Cinquecento a Roma, per esempio, dove affluiscono popolazioni da molte regioni dopo il sacco dei lanzichenecchi. La classe dirigente, cioè la curia, era pan-italiana».
Le donne convergono verso l’italiano prima e più degli uomini.
«Questo accade sia nei contesti familiari, dove le donne rivolgendosi ai bambini prediligono l’italiano, sia fuori da quest’ambiente: lo attestano i dati sulla lettura o quelli sui rendimenti scolastici».
E oltre al multilinguismo cos’è che ha diffuso l’italiano?
«Sono tanti i fattori: l’emigrazione interna, l’affluenza nelle grandi città, radio e televisione. Ma va sottolineato l’alto livello di scolarizzazione che ha portato al diploma secondario il 75 per cento dei ragazzi. Purtroppo questa richiesta di più alta formazione si è arrestata negli ultimi anni».
In che senso?
«Il numero dei laureati in Italia resta basso rispetto alla media europea e ormai si diffonde la sfiduciata convinzione che una laurea serva a poco, perché molte imprese sembra non abbiano bisogno di alti livelli d’istruzione».
E invece la scuola resta essenziale in questo processo.
«L’italiano ha un congegno più complicato dell’inglese o del francese, richiede un controllo che la scuola può offrire. Ancora oggi una consapevolezza piena la si acquisisce alle superiori, quando queste funzionano bene. Il che non è sempre vero: soprattutto il triennio finale è rimasto molto indietro. I programmi non sono stati aggiornati e l’impianto è troppo segmentato in discipline e poco attento alle competenze trasversali».
Come giudica il progetto di riforma del governo Renzi?
«Non la chiamerei riforma. Sono provvedimenti collaterali che non toccano l’impianto complessivo. È positivo che sia un presidente del consiglio a parlare di scuola. Prima di lui l’ha fatto solo Giovanni Giolitti» Fuori dalla scuola si continuano a registrare indici di drammatica dealfabetizzazione. Tutte le indagini sulle competenze reali degli italiani indicano che solo una percentuale di poco superiore al 20 è in grado di comprendere frasi neanche tanto difficili e di fare operazioni poco più che elementari.
«Questi dati circolano da oltre un decennio. Vengono aggiornati e risultano peggiorati. Ma il progetto di Renzi non li prende in considerazione. Si fa appello alle famiglie, ma molte famiglie non hanno neanche un libro in casa e sono ormai tanti gli studi che attestano una relazione fra il rendimento scolastico dei ragazzi e il numero di libri posseduti dai genitori. Non c’è il minimo accenno all’educazione degli adulti, una delle condizioni perché i figli apprendano di più e meglio».
Lei dedica il libro a suo fratello Mauro, ucciso dalla mafia nel 1970. Perché?
«Volevo che questo pezzo di storia che non ha vissuto in qualche modo gli appartenesse».

IL SAGGIO Storia linguistica dell’Italia repubblicana di Tullio De Mauro (Laterza pagg 278 euro 20). Nella foto l’autore

La Stampa 29.9.14
Dottor Morte, il carnefice gentile
Sulle tracce di Aribert Heim, il medico nazista adepto di Mengele che sfuggì alla giustizia e in Egitto si convertì all’Islam
di Mirella Serri


«Ehi, bionda!», così i militari americani nel 1948, a Heidelberg, apostrofavano Friedl Bechtold che pedalava con la fascia della Croce Rossa al braccio. Laureata in medicina, Friedl non dava retta ai ragazzi in jeep, ma fu invece colpita dai modi garbati di un giovanotto biondo alto quasi due metri che l’abbordò per strada. Era austriaco ed esercitava anche lui la professione di medico. L’ex nazista Aribert Heim, incontrando la giovane donna appartenente a una benestante famiglia tedesca che lo aiuterà nella sua rocambolesca fuga dalla Germania, fece così la sua fortuna. Heim, in un primo momento, nascose anche a Friedl il suo passato di ispettore dei Lager. Il suo avvocato successivamente sostenne che il dottore era stato arruolato nelle Waffen-SS «contro la sua volontà». Evitando di riferire che aveva compiuto molte operazioni cruente sui prigionieri di Mauthausen.
Adesso, a raccontare la vera storia della vita di Heim, e a chiarire il mistero dell’inafferrabilità del Dottor Morte (Mondadori, pp. 315, € 17) - così soprannominato dagli internati del Lager per la sua ferocia - sono due grandi firme del giornalismo, Nicholas Kulish e Souad Mekhennet. I due segugi del New York Times hanno inseguito le tracce del nazista che più a lungo è stato ricercato in tutto il mondo. E ne hanno ricostruito per la prima volta la vita in clandestinità quando, dall’inizio degli Anni Sessanta, ha vissuto sotto falso nome in un alberghetto del Cairo, si è convertito all’Islam e ha prodotto libelli antiebraici. Ma come è stato possibile che Heim, morto nel 1992, additato dai sopravissuti come uno sperimentatore della «medicina nazista» alla Josef Mengele, sia sfuggito alla giustizia e anche alla tenacia di un investigatore, Alfred Aedtner, che collaborava con il persecutore di ex camicie brune Simon Wiesenthal?
In un primo momento, nell’immediato dopoguerra, erano arrivate molte testimonianze sulle sue capacità nell’esimersi, sia al fronte sia nei campi di sterminio, «da azioni che violavano i diritti umani». Il pastore Werner Ernst Linz aveva dichiarato che «era un oppositore convinto dell’eutanasia e delle teorie razziali nazionalsocialiste». Parole che però furono messe in dubbio dall’inchiesta del Dipartimento di Pubblica sicurezza dell’Assia. Quando il dottore venne a sapere che su di lui si addensavano delle ombre, si fece uccel di bosco. Chi gli comunicò l’interessamento delle autorità? Stavano venendo alla luce i libri sottratti alla distruzione dall’impiegato-detenuto di Mauthausen, Martin, e in particolare il registro degli interventi chirurgici su cui compariva la firma di Heim. Arrivarono anche le memorie di testimoni, come quella dell’infermiere Karl Kaufman che descrisse l’entusiasmo con cui Heim infliggeva le punizioni.
«Anziché colpire con la frusta le natiche come facevano gli altri», spiegò l’assistente, «mirava sempre ai reni, per cui molti morivano di emorragia interna». Faceva iniezioni di petrolio nel torace, compiva operazioni senza anestesia, come quella su un sanissimo giovane ebreo praghese a cui asportò il fegato. Parlava affettuosamente ai detenuti e poi ficcava loro un ago nel cuore. Mentre emergevano dettagli sempre più agghiaccianti, il medico scomparve. Ancora una volta era stato allertato e fu aiutato dalla suocera e dalla sorella ad approdare prima in Marocco e poi in Egitto. Heim riuscì a occuparsi con successo dei suoi affari immobiliari, lasciando alla sua morte, nel 1992, un patrimonio di un milione di dollari.
Come fu possibile che le ricerche facessero sempre un buco nell’acqua? Il caso Heim, spiegano gli autori, oggi ci aiuta a capire le difficoltà che incontrano le nazioni impegnate a condannare i crimini di guerra. In Germania l’atteggiamento nei confronti degli ex nazisti per anni fu molto ambiguo, anche perché in un primo momento a occuparsi dei criminali furono le forze d’occupazione alleate. Accusate però dalla maggioranza dei tedeschi di voler imporre la giustizia dei vincitori, arbitraria e punitiva. Successivamente, quando furono giudici e politici locali a scovare i massacratori, vennero chiamati dai connazionali «traditori» mentre le denunce venivano insabbiate dalle ex camicie brune che occupavano posizioni di prestigio nelle forze di polizia, nei tribunali, perfino alla Cancelleria di Bonn.
Il percorso della Germania nel chiarire le responsabilità dell’Olocausto è stato dunque lungo e tortuoso ma fondamentale nel preparare il terreno per il Tribunale penale internazionale e nel far capire l’importanza di perseguire gli assassini anche a distanza di anni. Il caso del Dottor Morte ancora oggi ci insegna molte cose: per la caccia ai colpevoli bisogna anche cercare di trasformare con un’azione politica e culturale il contesto in cui si svolge, altrimenti può rivelarsi una lotta contro i mulini a vento.
(Michael St. Maur Sheil/CORBIS)

Repubblica 29.9.14
Il memoir di Simcha Rotem, uno degli eroi del Ghetto di Varsavia
L’ebreo ribelle che sfidò la furia nazista
di Gad Lerner


Provò l’ebbrezza di combattere a viso aperto sparando contro i nemici, nei dieci giorni tra aprile e maggio ‘43
La fantasia di essere l’ultimo superstite è ricorrente come confermano le testimonianze sue e dei compagni

SIMCHA in ebraico è un forte sostantivo femminile che significa gioia, esultanza, divenuto poi nome proprio di persona di genere maschile. Suonerà forse beffardo ai lettori di questa straordinaria testimonianza, ma ben si addice a simboleggiare l’energia vitale di Simcha Rotem, l’indomito protagonista della rivolta del ghetto di Varsavia, uno degli episodi più eroici e tragici della storia. Lui l’ha scritta malvolentieri, non è uomo amante delle vanterie.
La prima stesura gli venne ordinata da Yitzhak Zuckerman, il suo comandante Antek, quando appena aveva compiuto vent’anni e militava nella ¯ob, l’Organizzazione Ebraica di Combattimento, formazione sgangherata già in origine e ormai ridotta a poche decine di sopravvissuti all’ecatombe. Era la primavera del 1944, vivevano rintanati sotto l’occupazione nazista. Decenni più tardi, nel 1981, furono i suoi compagni del kibbutz Lohamei HaGeta’ot in Israele a forzarlo, affinché portasse a termine l’opera. Ne valeva davvero la pena.
Il destino ha voluto che Simcha fosse provvisto di connotati fisiognomici cristiani, piuttosto che ebraici. Ma egli non ne approfittò per mettersi in salvo. Al contrario, quel requisito di minor riconoscibilità gli valse l’incarico continuativo di missioni spericolate nelle quali gli toccò muoversi in mezzo a una popolazione spesso ostile e perfino dialogare con agenti della Gestapo. Il coraggio aveva dovuto darselo da sé, fin da quando, adolescente, nei giorni successivi all’invasione tedesca del settembre 1939, era rimasto sepolto fra le macerie della sua casa bombardata, trascinandosene fuori gravemente ferito. Poi era sopraggiunta la militanza clandestina, la dimestichezza con armi incomparabili alla potenza bellica del nemico, la visione diretta dello sterminio, un’eterna sequenza di fughe e inseguimenti nei cunicoli delle fogne, la mappa dei tombini e dei nascondigli di muratura.
Proverà l’ebbrezza di combattere a viso aperto sparando addosso ai nazisti durante gli incredibili dieci giorni fra l’aprile e il maggio 1943 in cui l’esercito più potente del mondo perse il controllo del ghetto, dopo che la maggioranza dei suoi abitanti era già finita nelle camere a gas di Treblinka. I ragazzi e le ragazze della Zob non avevano speranza di vittoria ma bastava loro esprimere col linguaggio delle armi il proprio diritto calpestato alla dignità. Come ha avuto modo di dire Marek Edelman, il vicecomandante della Zob, «visto che il mondo misurava nel combattimento il valore dei diversi popoli, anche noi abbiamo dovuto sparare». Per la verità il mondo fece di tutto per non ascoltare quel grido disperato. Il rappresentante del Bund (partito socialista ebraico) nel governo polacco in esilio a Londra, scelse di suicidarsi per denunciare l’indifferenza da cui erano circondati i combattenti del ghetto. Loro non erano certo in grado di calcolare le ripercussioni della loro azione di eroismo puro e disinteressato. Anzi, Simcha Rotem qui riconosce che l’azione della ¯ob non era benvoluta neanche fra i superstiti della popolazione ebraica del ghetto, terrorizzata e depressa nella rassegnazione. Ci offre resoconti crudi, non sempre edificanti, di una lotta sviluppata su più fronti, implicando l’espropriazione di beni degli ebrei benestanti e la punizione dei collaborazionisti.
Ben si comprende allora la fantasia che lo assale nel mezzo di quell’inferno, spartiacque esistenziale di chiunque gli sia sopravvissuto. Immaginiamoci la scena, il ghetto completamente raso al suolo, il fumo degli incendi, morti dappertutto. «All’improvviso fui avvolto da una calma irreale, mi sentivo così bene in mezzo alle rovine del ghetto, tra i cadaveri di quelli che mi erano stati cari, l’unica cosa che volevo era rimanere fino all’alba, per aspettare l’arrivo dei tedeschi, ucciderne qualcuno e poi morire. Come in un film, i ricordi della mia vita passarono vertiginosamente davanti ai miei occhi, vidi me stesso cadere combattendo, l’ultimo ebreo del ghetto di Varsavia. Mi resi conto di trovarmi al confine tra la lucidità e la pazzia». La fantasia di essere l’ultimo ebreo combattente superstite del ghetto di Varsavia è ricorrente. Ha ispirato un’opera potentissima come Yossl Rakover si rivolge a Dio di Zvi Kolitz, a lungo venerata come testimonianza autentica nonostante le smentite dell’autore. Perseguiterà anche gli altri fuggiaschi della Zob che fuoriuscirono come Simcha Rotem nella zona ariana di Varsavia quando ormai tutto era perduto. Dolorose controversie li animarono per tutta la vita circa la possibilità o meno di aspettare qualcun altro, di tornare indietro a raccogliere compagni dispersi. Il dubbio, il senso di colpa.
Simcha Rotem non si addentra in questo dilemma, a differenza di Marek Edelman, l’altro grande testimone sopravvissuto. Sono questioni su cui gli eroi del ghetto si sono dilaniati interiormente, senza mai parlarne volentieri con chi non c’era. Fumando e bevendo, sentendosi fratelli e al tempo stesso bisognosi di coltivare la solitudine del dopo. Ho avuto il grande onore di conoscere Marek Edelman che, a differenza di Simcha Rotem, in dissenso con i sionisti rimase a vivere in Polonia. Sono orgoglioso che i miei figli gli abbiano stretto la mano e abbiano partecipato insieme a lui alla sessantacinquesima commemorazione della rivolta del ghetto, il 19 aprile 2008, a Varsavia. Sempre lontano e distinto dalle cerimonie istituzionali. Rotem e Edelman, sopravvissuti a Anielewicz, pur nella diversità hanno coltivato per tutta la vita un’amicizia nutrita dallo speciale rispetto che i coraggiosi tributano a chi ha dato loro prova di analogo coraggio. La seconda parte del libro-diario di Simcha Rotem è in questo senso quasi stupefacente. Pare incredibile che quel gruppetto di temerari, mal visti in quanto ebrei perfino dai settori di destra dell’Armia Krajowa (l’organizzazione ufficiale della resistenza polacca), possano aver intessuto una rete di protezione clandestina e di combattimento così tenace. Combattere i nazisti sempre in prima linea sarà l’imperativo da cui Simcha Rotem faticherà a desistere anche dopo la fine della guerra, dopo che è rientrato da Lublino a Varsavia liberata con l’appoggio della filosovietica Armia Ludowa. Sperimenterà le diffidenze del nuovo regime e la persistenza del retaggio antisemita che avvelenava la Polonia post-bellica. La ricerca di una nuova patria ebraica, lontano da quelle macerie, viene rivendicata qui come una scelta maturata fin dal principio della resistenza come unica prospettiva augurabile. La testimonianza di Simcha Rotem suscita ammirazione e gratitudine. Che non vada perduta.

IL LIBRO La Shoah in me di Simcha Rotem (Sandro Teti editore) in libreria dal 2 ottobre A destra il Ghetto di Varsavia

Corriere 29.9.14
L’audacia dei numeri
Sudoku, frattali, cavolfiori, l’ossessione degli scienziati e lo stupore degli appassionati
I matematici per ottenere risultati devono avere più fantasia dei poeti
di Roberta Cavallotti


Un planisfero interattivo ricoperto di puntini luminosi, che brillano come stelle di una galassia, è uno degli exibit della mostra «MaTeinItaly», alla Triennale di Milano fino al 23 novembre 2014. Il dispositivo permette al visitatore di conoscere la distribuzione dei matematici italiani che lavorano in giro per il mondo. Toccando i singoli puntini luminosi è possibile scoprire chi sono, quanti sono e dove vivono. Sono distribuiti in tutti i continenti, in località anche inaspettate come il Kazakistan, il Giappone, la Corea, la Lituania, l’Arabia Saudita.
Menti giovani e brillanti, apprezzate a livello internazionale per l’ingegno e l’eccellenza dei risultati, spesso costrette a espatriare, spinte dal clima di indifferenza e dall’incapacità della nostra classe dirigente di sfruttare le loro potenzialità.
Non è il caso di dilungarsi sui motivi storici, sociali e culturali che hanno portato la società italiana a mostrare poca considerazione per un segmento culturale importante come la matematica, e neppure sulla mancata autostima che induce la persona comune a pensare che, per avere successo in questa disciplina, bisogna avere doti innate; piuttosto, occorre riflettere su che cosa sia la matematica, chi siano i matematici e i dilettanti che la praticano con entusiasmo.
La matematica è un linguaggio che descrive la natura e il nostro mondo futuro. Bisogna avvicinarsi a questa disciplina con passione, mente aperta e creatività.
Un esempio, banale ma significativo, riguarda il mantra «meno per meno uguale a più»; l’opinione corrente è che si tratti di una verità assoluta, indimostrabile, l’undicesimo comandamento. Ma se si considera il prodotto di due numeri negativi (-3) x (-5)= +15 e lo si guarda da un altro punto di vista, è possibile fare chiarezza.
Supponiamo che il primo numero del prodotto rappresenti il tempo. L’attimo è il presente, tutto ciò che accade diventa, in un lampo, passato. Il tempo possiede un verso di scorrimento privilegiato, si muove solo verso il futuro. Non è possibile arrestarlo o farlo tornare indietro. Il ricordo e la capacità di ricostruire il passato, sulla base degli indizi del presente, diventano la nostra personale macchina del tempo, con la quale siamo in grado, con il corpo ben saldo nel presente, di muoverci a ritroso.
Se consideriamo come zero questo istante, +3 rappresenta il futuro, mentre -3 rappresenta il passato. Immaginiamo ora un recipiente, con un piccolo foro, che disperde l’acqua in esso contenuta. Il recipiente perde 5 gocce al minuto. Cinque rappresenta una perdita e, per questo motivo, lo si indica come -5.
Tre minuti fa il recipiente conteneva ovviamente quindici gocce in più. Una verità sotto gli occhi di tutti.
A proposito delle doti necessarie per essere matematico, David Hilbert ebbe modo di dire, con pungente ironia, che «per essere un matematico non aveva abbastanza immaginazione, ma ora è diventato un poeta e se la cava davvero bene». Cosa fa un matematico? È spesso incuriosito da aspetti del reale che la gente comune trascura. Esplora territori nuovi o paesaggi noti che hanno bisogno, per essere svelati, di essere osservati con uno sguardo diverso. Ha la capacità di sognare e immaginare mondi diversi. Cerca di non farsi condizionare da fini pratici che limiterebbero gli orizzonti in cui ama spaziare.
Il matematico, mentre lavora l’impasto per il pane, tira la pasta, la piega e la ripiega e si chiede se sia possibile prevedere quale sarà la posizione finale, dopo la lavorazione, di due granelli di sale, inizialmente uno adiacente all’altro. Per quanto note le azioni effettuate durante la manipolazione dell’impasto, avrà modo di scoprire che la posizione finale e reciproca delle due particelle è imprevedibile.
Minime variazioni delle condizioni iniziali influiscono in modo drastico sugli effetti finali. Non si ha più una chiara relazione di causa ed effetto. Il comportamento disordinato dei sistemi instabili agisce come un processo creativo imprevedibile e complesso. Tanto più che l’ordine iniziale non può essere ristabilito invertendo il cammino.
Così un’eccentrica curiosità si trasforma in teoria, «la teoria del caos», attualmente applicata in diversi campi scientifici come l’economia, una disciplina in cui è facile trovare dinamiche instabili. Pensiamo anche ai «frattali». Il cavolfiore, tanto per intenderci. Una struttura che mette in crisi il concetto di somiglianza, caratterizzata dal ripetersi infinito dello stesso motivo in scala, dove ogni parte è simile al tutto, ogni piccola porzione presenta caratteristiche simili a quelle dell’intero cavolfiore.
Per più di duemila anni, lo studio dei frattali fu considerato un curioso e piacevole gioco, privo di applicazione pratica. Solo da pochi decenni si è scoperto che la matematica dei frattali descrive fenomeni caotici come l’andamento di un titolo quotato in borsa o fenomeni naturali come la configurazione di una costa frastagliata, in cui la matematica tradizionale fallisce. Una teoria che, ancora una volta, trova una conferma inaspettata nel mondo reale.
Una prova dell’irragionevole efficacia della matematica.
La ricerca libera, svincolata da finalità pratiche è stata storicamente così fruttuosa da indurre alcune aziende lungimiranti a consentire ai ricercatori, loro dipendenti, di dedicare una parte dell’orario di lavoro per portare avanti progetti personali di ricerca.
Il successo, in parte imprevisto anche se auspicato, della collana «La matematica come un romanzo» del «Corriere della Sera» mostra come, nella nostra società cosi compressa da sciocchi stereotipi, esiste un mondo ricco di energie vitali, quello degli appassionati alla matematica. Molti di questi lettori non saranno matematici, ma la loro passione è sicuramente degna di una laurea honoris causa.
C’è chi sogna iperspazi, chi si dedica alla congettura di Goldbach, chi si appassiona alla crittografia e alla decrittografia, chi studia la matematica per pura curiosità o per aiutare il nipote studente, e chi pratica il Sudoku, un gioco matematico, non perché ci siano i numeri, che potrebbero essere sostituiti da lettere, ma perché richiede l’elaborazione di strategie risolutive.
Che cosa hanno in comune tutte queste persone? L’abilità di procurarsi conoscenza. Provano l’ebrezza del pensiero dinamico, non hanno orrore dell’errore, ma lo usano come trampolino di lancio per uscire da situazioni scomode, accettano di farsi perturbare, ricercano ordine in assenza di informazioni complete, sono curiosi anche degli aspetti più bizzarri o insignificanti della realtà. A volte procedono per tentativi, altre per ragionamento. Accettano di farsi venire il mal di testa o, come diceva Archimede, il mal di stomaco, pur di capirci qualcosa.
Sono creativi. Provano emozioni. Non accettano di conformarsi allo stereotipo dell’uomo medio, non sono interessati a occupare la posizione centrale della curva di Gauss, che rappresenta la distribuzione delle caratteristiche misurabili dell’uomo.
Sono sopratutto audaci.
Quanta audacia e quale insegnamento ho ricavato dalle parole pronunciate da uno studente, mentre cercavo di farlo riflettere sulle difficoltà di una gara di robotica: «Preferisco arrivare ultimo in una sfida difficile che primo in una facile!».

il Fatto 29.9.14
Ritratto del trasformismo straccione
Diego Velázquez, Ritratto di Francesco I d’Este, duca di Modena, 1638. Modena, Galleria Estense
di Tomaso Montanari


SGUARDO ALLO SPETTATORE
«La testa è volta leggermente verso destra, lo sguardo è diretto allo spettatore; attraverso la corazza è annodata una sciarpa rossa. Egli si era adattato così perfettamente al gusto della nazione di cui era ospite che lo si credeva uno spagnolo, ma nel ritratto questo aspetto superbo e un po’ arrogante, i capelli neri e ricciuti che ricadono a onde sulla fronte, i baffi ancora sottili piegati all’insù, il colletto e il Toson d’oro rivelano l’italiano docile e commediante». Le parole di Carl Justi traducono perfettamente ciò che gorgoglia su questa tela memorabile.
Il duca di Modena Francesco I d'Este era arrivato in Spagna, nell’estate del 1638, come un commesso viaggiatore. Vendeva la fedeltà del suo piccolo stato, in cambio di soldi e di onori: e puntualmente il re di Spagna lo coprì d’oro, gli mise al collo il vello d'oro conquistato da Giasone, lo nominò Generale degli Oceani, Viceré di Catalogna e padrino di battesimo dell’Infanta Maria Teresa, futura moglie del Re Sole. Un po' di ammuina, insomma, come si dice a Napoli. Francesco era troppo tronfio per capirlo, ma il più importante tra i regali del re Filippo IV fu proprio questo quadro spettacolare, dipinto dal più grande pittore di tutti i tempi: Diego Velázquez. Ma fu un regalo pericoloso: perché era come uno specchio magico, che metteva a nudo tutte le debolezze del suo protagonista.
Il re avrebbe voluto che Velázquez dipingesse anche un ritratto del giovane duca su un cavallo bianco: ma perché, allora, a Madrid ora c'è un quadro in cui si vede solo il cavallo? Perché solo un mese dopo il suo ritorno, il duca d’Este e il suo staterello avevano già tradito i solennissimi impegni spagnoli, passando clamorosamente alla nemica Francia con tutto lo strascico di onorificenze, cariche e pensioni spagnole.
Forse non basta a consolarci di questa terribile episodio dell'eterno trasformismo straccione dei politici italiani: ma è un fatto che il risultato più duraturo del viaggio spagnolo di Francesco I d’Este fu proprio il quadro che è oggi alla Galleria Estense di Modena.
Come si fa a non esser felici che il giovane duca venisse insignito dell’effimera, inutile, barocca carica di Generale degli Oceani se proprio a quella nomina dobbiamo la strepitosa fascia di rosso pallido che accende il quadro, e che, col suo prodigioso disfarsi in luce, avrebbe fatto impazzire tutti i pittori dell'Impressionismo? Una politica da dimenticare, e un rosso indimenticabile. Il Seicento conobbe almeno quest'ultimo.