martedì 30 settembre 2014

il Fatto 30.9.14
Mediterraneo: 3072 migranti morti dall’inizio del 2014

L’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha dichiarato che sono 3072 i migranti che hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo nei primi nove mesi di quest’anno. Si tratta del bilancio più alto dall’inizio del secolo. Ansa
  
il Fatto 30.9.14
Ior, la rivoluzione di Bergoglio si ferma sulle rogatorie svizzere
Il Vaticano si oppone alla richiesta di documenti su un caso di mazzette
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


Non è un bel biglietto da visita quello presentato il 28 agosto scorso dal nuovo presidente dello Ior Jean Baptiste De-Franssu. L’economista francese che dal 9 luglio ha sostituito il tedesco Ernst Von Freyburg alla guida della banca vaticana si oppone alle indagini della Procura di Roma sui trasferimenti di fondi sospetti di un imprenditore condannato a maggio in appello per una storia di mazzette, Giovanni Morzenti, che usava lo schermo del conto Ior di monsignor Gaetano Bonicelli.
IL FATTO È IN GRADO di rivelare che i pm Nello Rossi e Stefano Fava hanno inoltrato il 13 giugno del 2014 una rogatoria alle autorità svizzere per conoscere la sorte dei fondi transitati sul conto Ior intestato formalmente all’ex arcivescovo di Siena Bonicelli, oggi novantenne, ma che era utilizzato anche da Morzenti, un imprenditore democristiano condannato in appello a quattro anni e nove mesi di reclusione per una storia di mazzette che coinvolgeva un finanziere.
I soldi dei correntisti italiani della banca vaticana sono allocati su conti intestati allo Ior presso le banche straniere, come quello oggetto della rogatoria acceso a nome dello Ior alla Ubs di Zurigo. La Procura di Roma indaga su un trasferimento di fondi per 360 mila euro avvenuto il 24 aprile del 2006 verso il conto Ior di Bonicelli, usato da Morzenti per le sue operazioni. Per sapere che fine abbiano fatto i fondi, i sospetti i pm Rossi e Fava si sono rivolti ai colleghi svizzeri. Il procuratore generale del Ticino John Noseda era favorevole a fornire le informazioni richieste. I pm romani sono interessati ai rapporti finanziari tra il duo Bonicelli-Morzenti e la Telinvest SA del finanziere Renato D’Andria. Però i pm non chiedono solo le informazioni di dettaglio sulle operazioni del 24 aprile 2006 avvenute sul conto Ior di Bonicelli tramite l’Ubs di Zurigo. Vogliono sapere tutti i movimenti del conto intestato allo Ior presso l’Ubs. Se la Procura di Roma mettesse le mani sull’estratto del conto Ior numero 506 (...) 77 -N ovviamente non scoprirebbe solo la sorte dei soldi di Morzenti e compagni ma avrebbe finalmente davanti i nomi di molti clienti della banca vaticana. Inutile dire che la partita è fondamentale per le autorità italiane che da quattro anni stanno indagando nelle nebbie di Oltretevere. Per tutta risposta il presidente dello Ior ha dato mandato all’avvocato Francesco De Biasi e al collega ticinese Paolo Bernasconi di opporsi alla rogatoria. Lo strumento adottato dallo Ior di De Franssu è lo stesso usato dallo Ior dei tempi di Marcinkus: l’articolo 11 del Trattato lateranense tra Città del Vaticano e Italia. Nel febbraio 1987 i giudici romani spiccarono un mandato di arresto per Paul Marcinkus e per i dirigenti della banca vaticana Pellegrino De Strobel e Luigi Men-nini. Il 17 luglio 1987 la Cassazione chiuse il discorso sostenendo che lo Ior era un ente centrale dello Stato Vaticano e dunque i suoi dirigenti non erano assoggettati alla nostra giurisdizione. Tesi ribaltata nel 2003 nella sentenza della Cassazione sulle emissioni nocive dei ripetitori di Radio Vaticana.
Lo Ior, ai tempi di Von Freyburg e prima ancora con Ettore Gotti Tedeschi, non aveva osato sollevare l’articolo 11 come un muro contro la giustizia italiana. A sorpresa proprio nell’era di Papa Francesco, Jean Baptiste De-Franssu si rifiuta di fornire le informazioni ai magistrati in Svizzera. L’opposizione presentata il 28 agosto scorso dall’avvocato Bernasconi, massimo esperto ticinese di segreto bancario, ora dovrà essere discussa davanti al Tribunale Federale. Il Vaticano avrebbe preferito la solita procedura con la richiesta dall’Uif (l’Unità di informazione finanziaria) di Banca d’Italia all’Aif vaticana delle notizie sui movimenti del conto Ior di monsignor Bonicelli. La mossa dei pm romani (puntare in alto chiedendo informazioni alla Banca svizzera che concretamente detiene i soldi) non è stata gradita.
Da più di quattro anni i pm romani indagano sullo Ior e sui tanti prelati (da Monsignor Scarano in giù) che hanno permesso a evasori e riciclatori di far sparire le tracce dei loro soldi nel sistema bancario italiano. Stavolta, chiedendo direttamente l’estratto conto dello Ior all’Ubs, i pm hanno riposto il fucile contro un avversario abile a mimetizzarsi per imbracciare il bazooka. I pm Rossi e Fava sono arrivati a Giovanni Morzenti mentre indagavano su Renato D’Andria, finito a processo per dichiarazione fiscale fraudolenta. D’Andria era anche beneficiario di un mutuo di Unicredit di 100 milioni di euro (33 dei quali erogati) nonostante le garanzie inconsistenti presentate. Morzenti potrebbe avere avuto un ruolo, secondo i pm, nel farglielo ottenere. Quando De-Franssu era arrivato il 9 luglio aveva parlato di due missioni per lo Ior di Francesco: “aiuto ai poveri e maggiore trasparenza”.

«È una “terza Camera” italiana, accanto a Montecitorio e a Palazzo Madama»
Corriere 30.9.14
Che cosa è la Cei Nella politica italiana
risponde Sergio Romano


Arturo Carlo Jemolo, cattolico liberale, che spesso vedevo pregare in ginocchio nella chiesa romana di Cristo Re, auspicava una “libera Chiesa in un libero Stato”. Che cosa direbbe oggi delle critiche mosse da esponenti della Conferenza Episcopale Italiana alla politica del presidente del Consiglio. E lei che ne pensa?
di Ettore Visca

Caro Visca,
Penso che la Chiesa non abbia mai smesso di intervenire nella politica italiana, ora per proclamare i suoi principi «non negoziabili», ora per difendere e tutelare gli strumenti del suo radicamento nel territorio nazionale. Sono cambiati, se mai, i metodi e lo stile. Durante il fascismo e dopo il Concordato, il Papa riservava a se stesso gli interventi maggiori, ma lasciava il trantran quotidiano a un folto numero di messaggeri e mediatori, laici o sacerdoti, che erano in grado di rappresentare gli interessi della Chiesa nelle anticamere delle istituzioni nazionali. Dopo la guerra e sino all’inizio degli anni Novanta, la Chiesa poté contare sulla Democrazia cristiana, ma dovette constatare in alcune circostanze (divorzio, aborto) che la Dc, se voleva conservare il potere, non poteva piegarsi interamente ai diktat della Santa Sede.
La situazione è cambiata dopo la scomparsa del partito cattolico. La Chiesa ha perso il suo attendente e scudiero nel cuore delle istituzioni, ma può contare da allora su un numero considerevole di parlamentari cattolici presenti in quasi tutte le formazioni politiche. Non è tutto. La elezione di papi stranieri ha reso il vertice della Chiesa molto meno italiano di quanto fosse stato in passato. Il pontefice è sempre vescovo di Roma, ma gli affari della penisola sono gestiti ormai prevalentemente dalla Conferenza episcopale italiana.
Abbiamo assistito così, con il passare del tempo, alla nascita di una terza Camera italiana, accanto a Montecitorio e a Palazzo Madama. È composta da più di 300 vescovi (circa 120 nella Conferenza episcopale francese, circa 100 in quella spagnola), è finanziata dallo Stato grazie all’8 per mille, è spalleggiata da una larga rete di quotidiani, settimanali, stazioni radiofoniche e siti Internet. È andata progressivamente allargando l’area dei suoi pronunciamenti e si è attribuita il diritto d’intervenire con giudizi e prediche in tutte le vicende politiche e sociali dell’Italia. Rappresenta un pericolo per la sovranità dello Stato? Tutto dipende dalla reazione degli italiani e delle loro pubbliche istituzioni. Uno Stato liberale non può impedire ai suoi vescovi di esprimersi su tutto. Ma non è tenuto a trattarli come altrettanti oracoli. Come quelli delle altre grandi lobby nazionali, dalla Confindustria alla Cgil, gli interventi della Cei sono utili al dibattito nazionale, ma le responsabilità, in ultima analisi, sono degli uomini e delle donne che sono stati eletti dai loro cittadini.

il Fatto 30.9.14
Colle e giustizia
Come ti interrogo un presidente
di Bruno Tinti


C’è una gara tra molti giornalisti italiani. Napolitano non deve testimoniare nel processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Non ha nulla da dire, non sta bene che sia sentito come testimone, trattasi della consueta arroganza di pm e giudici... Non è vero niente ma non importa: la ritrosia di Re Giorgio a sottomettersi all’articolo 1 della Costituzione e ad accettare il principio di separazione dei poteri deve essere sostenuta a prescindere; tanto più se fondata sul timore che, testimoniando testimoniando, qualche scheletro salti fuori da qualche armadio e spieghi ai cittadini perché, per lui e solo per lui, si è inventato un codice di procedura penale nuovo di zecca (nella parte relativa alle intercettazioni telefoniche).
L’opportunismo è incompatibile con la memoria; almeno con quella scomoda. Il precedente di Cossiga che, nel 1990, rifiutò di testimoniare avanti al giudice Casson nel processo Gladio se lo ricordano tutti. Anche perché Cossiga piantò un casino furibondo. Ma quello, rispettoso delle istituzioni e collaborativo, di Ciampi al tempo dell’indagine Telekom Serbia non lo ricorda nessuno.
Era il 2004 e noi (la Procura di Torino) ci trovavamo alle prese con una commissione di inchiesta parlamentare che si era fatta portare in giro da un millantatore e calunniatore di nome Igor Marini. Alcuni deputati si fecero perfino arrestare in Svizzera, dove si erano recati per prendere imprecisati documenti custoditi negli uffici pubblici di Lugano; il tutto da turisti, senza rogatorie e senza accordi con le autorità svizzere: una cosa imbarazzante. La polizia li fermò e li trattenne per qualche ora; poi li riaccompagnò alla frontiera con le orecchie rosse per la vergogna.
CERCAMMO di ricostruire la vicenda dell’acquisto di una quota di Telekom Serbia da parte di Telecom. Fu abbastanza difficile, anche per via del plotone di esecuzione parlamentare che aveva deciso di fucilare Prodi, Dini e Fassino, opportunamente accusati da Marini di aver percepito tangenti. Invece noi lo incriminammo per calunnia, reato per cui fu poi condannato.
Nel corso delle indagini, saltò fuori che l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, poteva fornire informazioni preziose. Così Marcello Maddalena (il procuratore capo di Torino) telefonò a Loris D’Ambrosio, il magistrato che già allora era consigliere giuridico al Quirinale, e gli disse di questa nostra necessità: “Indaghiamo sull’affaire Telekom Serbia, avremmo necessità di interrogare il presidente come testimone. Si può combinare? Quando e dove vuole lui, naturalmente”. Un paio di giorni e arrivò la risposta: “Va bene tra... a Castel Porziano? ” “Certo, come no. Ringrazi il presidente da parte nostra”. Così, in una bella giornata di luglio, arrivammo (Maddalena e io) al cancello della tenuta. Un signore ci fece strada con la sua automobile fino alla residenza del presidente. Un posto bellissimo, una casa bassa, immersa tra i pini, arredata con una raffinatezza semplice e preziosa. Ciampi ci ricevette subito; era insieme allo storico segretario generale della Presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni. Tanto era grosso, diffidente e un po’ altezzoso Gifuni, tanto era piccolo, gentile e semplice Ciampi. Ci fece accomodare e ci offrì un caffè. Poi si sistemò su una poltrona e si disse a nostra disposizione. Io aprii il portatile e cominciai a scrivere. Rispose a ogni domanda, senza chiederne il motivo, in maniera chiara ed esauriente. Qualcuna di esse – era evidente – avrebbe potuto metterlo in imbarazzo: era in atto uno scontro politico senza precedenti e senza esclusione di colpi. Ma il presidente non apparve mai turbato; mai reticente, mai in cerca di risposte equivoche, raccontò quello che sapeva. Lesse con attenzione il verbale che avevo redatto; non trovò nulla che richiedesse modifiche e pregò Gifuni di leggerlo a sua volta. In verità non era una procedura prevista dal codice ma, con uno sguardo, Maddalena e io ci trovammo d’accordo nel non sollevare obiezioni. Nemmeno Gifuni trovò nulla da ridire ma, forse per giustificare il suo ruolo, mi impegnò fastidiosamente sulla sostituzione di due o tre parole e sulla modifica di un paio di frasi che, all’esito, non mutarono affatto di significato.
PRIMA che ce ne andassimo, il presidente ci chiese se gradivamo un tè, un succo di frutta, un altro caffè. Poi ci fu una piccola conversazione nel corso della quale Maddalena gli rimproverò di aver preso una posizione pubblica a favore della Fiorentina; gli disse: “Presidente, perché non lo fa anche per il Bologna? ”, squadra di cui lui è tifoso. Ridemmo tutti (io un po’ meno perché di calcio non capisco niente) ; e poi ce ne andammo. Tempo dopo, non so chi disse a Maddalena che in effetti Ciampi aveva detto qualcosa anche sul Bologna, cosa che lo riempì di soddisfazione.
Il verbale della deposizione di Ciampi è agli atti del processo Telekom Serbia. Che non fu indolore per la politica: dimostrammo la pochezza dell’indagine e delle conclusioni (colpevoliste, ça va sans dire) della commissione parlamentare di inchiesta; gli onorevoli commissari fecero una figura barbina; e il complotto della destra nei confronti degli uomini politici di riferimento della sinistra fu smascherato. Anche, ovviamente non solo, a seguito della deposizione di Carlo Azeglio Ciampi. Esempio concreto, sarebbe bene ricordarlo ora, di un capo dello Stato garante delle istituzioni e rispettoso della Costituzione e delle leggi.

il Fatto 30.9.14
Primarie Pd, Giovani democratici e circoli: “Urne vuote? Frattura tra dirigenti e base”
La vittoria di Stefano Bonaccini coperta dalla scarsa affluenza alla consultazione

Militanti e iscritti puntano il dito contro la segreteria e gli eletti. Il segretario provinciale Gd: "Campagna gestita male provocando disaffezione". Il segretario del Circolo Imbeni: "Non si è parlato di programmi. Riprendere la discussione al più presto"
di Paola Benedetta Manca

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il Fatto 30.9.14
Voto, passione finita: se anche in Emilia fanno “zapping”
Alle primarie Pd per le regionali si presentano in meno di 60 mila
Neanche 200 alla storica Bolognina
di Antonello Caporale


La frase è scivolata e infine scomparsa nelle ultime file della relazione di Matteo Renzi alla direzione del Pd: “Guardate che gli elettori fanno zapping velocemente”. Infatti in Emilia Romagna si è appena svolta la più grande prova generale di zapping elettorale. La regione più rossa, più organizzata, più disciplinata, più tesserata d’Italia ha dato improvviso forfait. Alle urne per selezionare il candidato alla presidenza della Regione (ballottaggio vinto dal renziano Stefano Bonaccini col 61 per cento contro lo sfidante Roberto Balzani fermo al 39) si sono diretti in 58 mila, meno degli iscritti, fermi anch’essi alla modesta quota (rispetto al passato) di 75 mila.
Il partito s’è squagliato come un gelato (il gelato di Renzi?) al sole d’agosto, e fa un certo effetto vedere la società civile dileguarsi d’un botto, e costringe al dubbio sapere azzerata in un modo così potente la passione, la partecipazione, la certezza che alla ditta – chiunque sia il leader – non si tradisce.
Per cambiare verso, o dichiararsi affezionati alla tradizione impersonata da Pier Luigi Bersani, solo pochi mesi fa si accalcarono in 350 mila tra emiliani e romagnoli. Un popolo estinto? Se è vero che la partecipazione si misura dalla qualità della contesa, dall’importanza della posta in palio, e non si può dire che quella di domenica fosse la partita della vita, è ugualmente impressionante come il calore, l’ardore, la corsa verso il nuovo sia svanita così. “Guardate che fanno zapping”, ha detto ieri sera Renzi. Lo diceva a loro, ai compagni gufi che animavano il dibattito sull’articolo 18, ma forse lo ricordava, dissimulando da par suo, pure a se stesso, ai suoi amici stretti, al cerchio magico fiorentino, ai consiglieri di Palazzo Chigi e alle migliaia di supporter sparsi in ogni luogo d’Italia. E questa prova emiliana sfigura davanti a ogni test passato, perde perfino nella rabberciata conta, effettuata tra il Capodanno e la Befana di due anni fa, per legittimare in extremis i candidati al Parlamento e affrancarli dalla vergogna di essere nominati dal capo, grazie alla legge elettorale chiamata appunto Porcellum. Anche allora si mobilitarono capi e sottopancia, perfino nelle vacanze di Natale il passaparola fece uscire di casa in direzione delle sezioni (oggi si chiamano circoli) 155 mila militanti.
IERI L’ALTRO neanche la Bolognina, il centro del centro della sinistra italiana, il luogo dove il Pci trapassò e diede vita al Pds (poi Ds e infine Pd) gli iscritti (iscritti non simpatizzanti) hanno disertato: su 280 - che già non è una cifra impressionante - solo 169 hanno scelto di rispondere alla chiamata al voto. E persino a villa Torchi, la sede del Pd posta ai margini della grande spianata della periferia nord, dove si tiene la festa nazionale dell’Unità, gli ingressi al circolo, al primo pomeriggio, erano il 2,9 per cento degli stimati.
Ieri non c’era voglia, non c’era tempo, non c’era testa per parlare di questo grande deserto emiliano. O forse non c’è interesse per capire cosa stia accadendo a questo partito, a quanto fragile sia divenuta la sua struttura, e quanto veloce sia la sua trasformazione nel ritratto fedele di un leader che si espande o recede a seconda dei tempi.
UN DETTAGLIO, significativo e per alcuni versi allarmante, si è visto proprio a Bologna, e proprio nella recente festa dell’Unità. Il badge d’ingresso, il cartoncino per ospiti e invitati, recava l’effigie di Matteo. Un salto di qualità impensabile: i suoi nei, la sua bocca, il naso e gli occhi, naturalmente il suo sorriso, prima di ogni altra cosa, prima ancora del nome della ditta. E quelle camicie bianche dei leader europei, tutti bei giovanotti allineati e felici chiamavano il ricordo di un’altra passerella bianca, la scelta di Silvio Berlusconi di imporre la divisa sportiva ai suoi ospiti alle Barbados, la cerchia stretta dei suoi amici e consiglieri, da Gianni Letta a Fedele Confalonieri, chiamati a fare jogging nella splendida ed esclusiva location che il Cavaliere aprì ai tempi del suo impero.
Un partito personale ha forme tipiche di adesione. E nel leader vive e si tiene. Oggi l’Emilia scopre per la prima volta che – in assenza del leader da acclamare e venerare – il partito semplicemente non esiste più. È domenica e resta in casa: prima i tortellini poi a guardare l’Arena di Giletti che indaga sul matrimonio di Clooney, officiato – sarà che pure George è di sinistra? – da Walter Veltroni.

La Stampa 30.9.14
A Taranto il Pd elegge il candidato di Forza Italia

Caos in Puglia in vista delle elezioni regionali
I vertici locali volevano le “larghe intese” col partito di Berlusconi. E dopo che la direzione regionale ha imposto la presentazione di una lista di centrosinistra, tanti delegati hanno “tradito” nel segreto dell’urna, votando alla presidenza della provincia il forzista Tamburrano.
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Corriere 30.9.14
A sorpresa vincono gli azzurri Emiliano finisce sotto accusa

Caos e accuse nel centrosinistra sulle elezioni per la Provincia di Taranto. Ha vinto, a sorpresa, il sindaco di Massafra Martino Tamburrano di Forza Italia. Battuto il candidato del Pd che sulla carta avrebbe dovuto avere la maggioranza dei consensi. Nel mirino è finito il segretario regionale pd Michele Emiliano accusato di aver fatto accordi «sottobanco» con gli azzurri. L’ex sindaco di Bari, che è in lizza alle primarie per la Regione, ha ricordato di «essersi esposto personalmente contro ogni accordo con Forza Italia in Puglia» e ha invitato i dissidenti a dimettersi dal partito. Sel intanto attacca: «Esiste ancora il centrosinistra a Taranto?»

Corriere 30.9.14
Doria e la lista Pd-Sel-FI: iter civile, nessun imbarazzo

«Nessun imbarazzo, è stato un percorso molto civile». Il sindaco di Genova Marco Doria, che dal 1° gennaio guiderà la città metropolitana, non trova nulla di strano nella lista Pd, Forza Italia, Sel e una parte di Ncd, che ha ottenuto 13 dei 18 seggi del nuovo organismo. Sostenuto da Sel quando vinse nel 2011, dell’intesa con il centrodestra dice: «Volevamo dare l’idea che è necessario rimboccarsi le maniche». Se fosse stato per il sindaco nel listone avrebbe dovuto esserci anche il M5S: «Mi sono battuto, ma loro si sono tirati fuori». E le passioni politiche che hanno fatto la storia della città? «Nulla vieta che ci si divida un domani».
M. Reb.

il Fatto 30.9.14
Lavoro, nessun accordo tra Cgil, Cisl e Uil. Sindacati ancora divisi sul Jobs Act

un video qui


La Stampa 30.9.14
Sindacati divisi, ma Renzi non convince
Cgil e Uil scettiche sulle aperture del premier. La Cisl invece trova “interessanti segnali di dialogo”
di Antonio Pitoni


Il dito nella piaga l’aveva messo in mattinata Susanna Camusso. Interprete di un sentimento sempre più diffuso sul fronte sindacale: sentirsi tagliati fuori da un premier che, invece, sembra dialogare solo con Confindustria. «Il punto è la garanzia alle imprese della libertà di licenziare, una cosa mai detta prima in questo Paese», aveva accusato la segretaria della Cgil. La risposta del diretto interessato è arrivata nel pomeriggio, in streaming, dalla direzione del Partito democratico. «Sono pronto a riaprire la sala Verde dalla prossima settimana a Cgil, Cisl e Uil», ha assicurato Matteo Renzi.
Se l’intento era quello di allentare la tensione dopo settimane di passione nelle relazioni tra governo e sindacati, di certo le parole del presidente del Consiglio non sono bastate a superare la diffidenza dei sindacati. La Uil «è disponibile, come sempre, al confronto su tutti i temi che riguardano il mondo del lavoro», risponde l’esecutivo riunito ieri dal segretario Luigi Angeletti, ma «se i provvedimenti del governo in materia di lavoro dovessero toccare protezioni e tutele per quei lavoratori che già ce l’hanno e non prevedere tutele crescenti per coloro che non ce l’hanno» allora lo «sciopero generale» sarà inevitabile. Nonostante i «toni diversi dal passato», fa sapere la segreteria della Cgil, l’intervento del premier «resta ancora vago, indefinito e contraddittorio, a partire dalle affermazioni sull’articolo 18». Sia per difetto di chiarezza della proposta sia per «l’enunciazione dell’obiettivo» che «non si traduce in proposte vere di riduzione delle forme contrattuali». Un limite su tutti: «Sugli ammortizzatori le risorse indicate non fanno intravedere, purtroppo, un’effettiva universalità». Ma se annunciando l’apertura della Sala Verde Renzi «intendeva sfidare il sindacato», la risposta è netta: «Non possiamo che ribadire che la Cgil è da sempre pronta al confronto» dove porterà «tutta la sua piattaforma che parte dal vero tema centrale del Paese, ovvero creare lavoro».
È sul fronte interno, però, quello delle relazioni tra le tre sigle della Triplice, che restano ancora distanze e distinzioni. L’incontro di ieri si è concluso con una fumata nera: nessun accordo sull’ipotesi di una mobilitazione unitaria contro la cancellazione dell’articolo 18. Risultato: Cgil, Cisl e Uil «hanno deciso di proseguire il confronto per l’elaborazione della piattaforma unitaria», recita la nota congiunta di fine summit. Il segretario della Cgil, Susanna Camusso, s’è detta in ogni caso «ottimista». Perché la discussione di ieri è stata comunque «utile». Quanto meno a mettere in evidenza che, tra i sindacati, non c’è «nessuna divisione». Opinione condivisa anche dal leader della Uil, Luigi Angeletti: «Discutiamo per una posizione comune». Insomma, l’obiettivo è capire se ci siano margini per arrivare ad una sintesi tra le diverse posizioni. Margini che, obiettivamente, restano molto stretti specie dopo l’ultimo affondo della Camusso nei confronti dell’esecutivo. «Renzi non sa nemmeno che i co.co.co. non esistono più – ha ironizzato –. Adesso esistono altre forme di contratti: voucher, contratti a progetto e associazioni in partecipazione».
Per ora si marcia su binari separati. La Cisl ha confermato la mobilitazione per il 18 ottobre, la Cgil sarà in piazza il 25 e ha avvertito che, in caso di decreto sul Jobs Act, proclamerà lo sciopero generale. Ipotesi che, dopo l’esecutivo di ieri pomeriggio, anche la Uil considera un’opzione. Ma lo scontro potrebbe in parte rientrare se Renzi dovesse confermare quanto detto ieri in direzione Pd sul mantenimento della possibilità del reintegro non solo nel caso di licenziamento discriminatorio, ma anche per quello disciplinare. Nessuna disponibilità, in ogni caso, da parte dei sindacati a barattare eventuali modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con la riduzione dei contratti precari.

Repubblica 30.9.14
Landini contro Renzi
“Basta parole al vento ora confronto pubblico sui veri problemi”
“La precarietà si riduce estendendo i diritti, non riducendoli: se annullo il reintegro anche con falsi motivi si potrà licenziare“
intervista di Luisa Grion


ROMA Dal governo non è arrivata nessuna apertura e adesso «è davvero arrivato il momento di mettere le cose in chiaro, sull’articolo 18, sull’occupazione, sugli ammortizzatori sociali da cambiare e sui fondi da trovare». Al discorso di Renzi alla direzione del Pd, Maurizio Landini - leader della Fiom risponde con un invito esplicito: «Chiedo a Renzi un confronto pubblico, scelga lui dove e come, purché sia pubblico. E’ ora di far un’operazione verità, di dire le cose come stanno, a partire dall’articolo 18».
Ecco, proprio su quel tema c’è una novità: Renzi ha parlato di reintegro
anche nel caso di licenziamento per motivi disciplinari. E’ o no un’apertura?
«Non prendiamoci in giro, nel discorso di Renzi, per quanto riguarda l’articolo 18 non c’è nessuna novità. Siamo di fronte ad un ulteriore spacchettamento della norma dopo quello già operato dalla Fornero. La discriminazione è trattata nel codice civile, il disciplinare è regolato nei contratti. Il giudice, quando decide per il reintegro, lo fa perché considera false le motivazioni che hanno portato al licenziamento. Se annullo il reintegro vuol dire che l’azienda, anche con motivazioni false può licenziare e che l’onere della prova cade sulle spalle del lavoratore. E’ un passo indietro, altro che novità».
Ma il premier ha parlato di Tfr in busta paga, di legge di rappresentanza, di salario minimo. Ha promesso di cancellare i contratti precari: sono o non tutti temi da voi proposti?
«Ma cosa c’entrano tutte queste cose con il rendere più semplice il licenziamento? La precarietà si riduce estendendo i diritti, non riducendoli. Vogliamo parlare di questi argomenti? Bene, Cgil e Fiom hanno proposte su ogni tema e sono pronte a parlare su tutto. Ma dentro questo schema ci sono punti che non possono essere oggetto di trattativa. Ci sono cose davanti alle quali si deve dire no: il diritto al lavoro deve essere senza ricatti».
Il governo dice che per colpa di quella norma nessuno investe in Italia.
«Se le multinazionali non vengono qui non è per via dell’articolo 18, ma perché non c’è una politica contro la corruzione e la burocrazia: sono questi i motivi tengono lontani gli investitori. Invece di cambiare il lavoro per decreto, Renzi faccia un decreto sul rientro dei capitali, sul riciclaggio, sul falso in bilancio, sugli appalti. Il taglio dell’articolo 18 interessa solo alla Confindustria e non serve, perchè in questo Paese si può già licenziare quando l’azienda è in crisi».
Neanche il fatto che il governo abbia messo sul piatto un miliardo e mezzo per gli ammortizzatori sociali vi sta bene?
«E’ un passo avanti, ma bisogna capire che tipo di riforma si vuole fare. Perché se si tratta di estendere la cassa integrazione ordinaria e straordinaria a tutti, di prevedere un sussidio e un salario minimo, di allungare l’indennità di mobilità e la cassa integrazione in deroga al 2015 per far fronte al rischio di licenziamenti di massa cui questo 2014 ci espone, certo quella cifra non basta».
Secondo lei Renzi ha il favore dei poteri forti o li ha contro?
«Diciamo che nel Jobs Act lui ha assunto tutte le richieste dei poteri forti e che è andato a Detroit a prendere consigli da chi non paga le tasse in Italia e ha portato le sedi della Fiat all’estero. Non mi pare che la sua politica del lavoro colpisca chi versa il 12 per cento sulle stock option, colpisce i dipendenti , che non evadono e che pagano le tasse al 43 per cento».

Corriere 30.9.14
«La vecchia guardia è spianata»
Così il leader spacca i dissidenti
Dopo le scintille in direzione la vittoria a larga maggioranza sul lavoro, Matteo Renzi è su di giri
«La gente sta con me, non con  i sindacati»
«Non temo franchi tiratori in Senato»
di Maria Teresa Meli

qui

il Fatto 30.9.14
Renzi rottama la Direzione sull’art. 18
Finisce 130 a 20
Il premier spacca la minoranza e porta a casa il sì al provvdimento dopo una giornata di mediazioni
La palla al Senato
di Wanda Marra


“La memoria senza speranza è nostalgia e muffa”. Suona come un’epigrafe la conclusione della replica di Matteo Renzi. Che sorride mentre Massimo D’Alema lo accusa di non sapere che cosa dice, è indifferente mentre Bersani denuncia “il Metodo Boffo”. Con la direzione del Pd in diretta nazionale via streaming vuole mandare al paese un messaggio chiaro: l’articolo 18 è un “totem” che si può abbattere e la minoranza va piegata. Ma siccome le variabili parlamentari sono rischiose, si presta a una (minima) mediazione.
La scena racconta di una discussione che va avanti per ore e ore, con gli attacchi frontali che si moltiplicano. Ma dietro le quinte si svolge una trattativa durata per tutta la giornata, con le minoranze alla ricerca di un minimo compromesso, per non rompere, e un premier disposto a non cedere quasi nulla.
Alla fine, il voto fa registrare una maggioranza schiacciante a favore del segretario-premier: 130 favorevoli, 11 astenuti, 20 contrari. Minoranze divise: i giovani Turchi di Orfini votano con la maggioranza, Area Riformista si spacca (D’Attorre vota contro, il capogruppo a Montecitorio, Speranza si astiene), i big D’Alema e Bersani rimangono isolati. La timida richiesta di Davide Zoggia (bersaniano) che chiede di votare il documento finale per parti separate (alla ricerca di un appiglio per non dire no e non perdere la faccia) viene ignorata.
“O CREDIAMO nella politica e quindi in una politica che decide, oppure ci affideremo per sempre al predominio della tecnocrazia, saranno altri a dirci che fare: editoriali, salotti, club, università”. Il “cattolico liberale” Matteo Renzi (auto-definizione dello stesso segretario-premier, con buona pace della filiera diessina dei Dem), rigorosamente in maniche di camicia bianca, fa ancora una volta l’ariete di sfondamento. O me o la troika, la nuova versione di “o me o il diluvio”. Mentre i poteri forti diventano “i poteri aristocratici”. Toni altissimi, abito da rottamatore, va all’assalto di quello che più volte definisce “totem”, l’articolo 18.
Sul tavolo della mediazione, mette due punti: “L’attuale sistema del reintegro va superato, lasciandolo per il discriminatorio e per il disciplinare”. Fino a ieri mattina, si parlava di reintegro solo nei casi di licenziamento discriminatorio. E poi, un’apertura ai sindacati, magari di facciata, ma a sorpresa, come ironizza anche lui: “Sono disponibile a riaprire la sala verde di Palazzo Chigi per un confronto con Cgil, Cisl e Uil e tutti gli altri sindacati. Li sfido su tre punti: una legge sulla rappresentanza sindacale, il collegamento con la contrattazione di secondo livello e il salario minimo”.
Il presidente del Consiglio chiede il mandato politico per riempire di contenuti la delega sul lavoro, offrendo una mediazione evidentemente minima e molto generica. Allo scopo di portare almeno una parte delle minoranze a votarlo. Renzi non si risparmia l’orazione, quella con cui cerca di cambiare natura al partito: “Quello che vi propongo è di cambiare. Non mi fa paura. Non lascio ad altri la parola sinistra. Per me questa riforma è di sinistra se serve a difendere i lavoratori e non i totem. È di sinistra se serve a difendere tutti e non solo chi è garantito, se la sinistra difende il cambiamento e non la conservazione”.
I NUMERI A SUO FAVORE sono schiaccianti già in entrata (ha il 68% della direzione): il risultato è scontato, l’entità molto meno. Perché poi gli uomini del premier vanno dicendo da giorni che la direzione dà la linea e i gruppi parlamentari (selezionati da Bersani) si devono adeguare, in nome del vincolo di mandato. Che non sarà così semplice glielo dicono tutti, prima l’ex segretario e D’Alema, ma poi anche Cuperlo, Fassina, Civati. Il rischio che in Parlamento non tutto vada liscio resta. Sullo sfondo, il varo del provvedimento con i voti di Forza Italia. Tra gli scenari, lo scioglimento delle Camere (che Napolitano è restio a concedere, a patto di andarsene) e le grandi manovre di questi giorni tra Della Valle, De Bortoli e la Cei, alla ricerca - vera o minacciata - di nuovi equilibri.
E così il premier ieri mattina va al Colle. Deve verificare se ha ancora la copertura di Napolitano. Il Presidente gli dice di andare avanti. Si è già impegnato in prima persona con il “monito” della settimana scorsa. Ma gli consiglia anche di moderare per quanto possibile i toni, di non alzare il livello dello scontro più del necessario. E allora, lui, Matteo, offre due punti di mediazione minimale. A fare da pontiere tra renziani e non c’è il presidente del partito, Matteo Orfini. La mediazione, poi, va avanti al secondo piano del Nazareno per tutto il dibattito. È il vicesegretario Lorenzo Guerini che interloquisce con tutti, soprattutto Cuperlo e Civati. A stendere il documento è il responsabile Economia, Filippo Taddei. E non bastano gli affondi di D’Alema e Bersani a fermare la trattativa. Anche se poi il tentativo di fare un documento unitario fallisce.
SI SPACCA IL PD, ma soprattutto si spacca la minoranza. È sprezzante il segretario replicando: “Il presidente D’Alema ha avuto la fortuna di governare quando c’era la crescita. Non come me. E aveva ragione Stiglitz a dire che bisognava fare la riforma in quegli anni”, risponde al Lìder Maximo. E a Bersani: “Tutta la mia solidarietà a Pier Luigi per il metodo Boffo, ma io al massimo uso il metodo buffo”.

Repubblica 30.9.14
La sinistra cerca la rivincita
Ma il premier: “Con me l’80%. La partita è chiusa, adeguatevi”
di Goffredo De Marchis


ROMA Renzi dice che il caso è chiuso, che alla fine «Bersani e D’Alema hanno fatto una brutta figura perché è finita 80 per cento a 20 per me» e quindi «la minoranza dovrà adeguarsi in Parlamento». La battaglia non si trasferisce in aula, secondo il premier, per il semplice motivo che gli oppositori della riforma del lavoro non hanno né i mezzi né gli uomini. «I gruppi parlamentari cambiano la decisione della direzione? Ma scherziamo! Che fanno, mandano sotto Speranza e lo costringono alle dimissioni?». In realtà qui si sta parlando di una sfida campale in cui la vittima designata, semmai, è proprio lui. Sono le sue dimissioni a essere in ballo. «Ma dove vanno Massimo e Pier Luigi? Fanno la scissione, un nuovo partito o addirittura un nuovo governo? E come? Con 20 voti, un altro governo muore prima di nascere », dice beffardo Renzi ai suoi collaboratori.
Ma ieri, nella direzione riunita all’attico di Largo del Nazareno, si è respirata l’aria dello scontro definitivo, quello da cui usciranno solo vincitori e vinti. Il premier è convinto di essere già nella prima categoria «perché si doveva spaccare la maggioranza e invece si è divisa la minoranza». Gli 11 astenuti provenienti dalle file dei bersaniani sono già un primo successo, a sentire Renzi. Al Senato però i numeri sono diversi. La legge delega sulla riforma e sull’articolo 18 arriva in aula domani per la discussione generale. Le votazioni potrebbero cominciare già giovedì o al massimo martedì della prossima settimana. Ci sono 7 emendamenti che smontano la riforma del governo e puntano conservare la regola così com’è seppure dopo una periodo di contratto a tutele crescenti. Le firme sotto questi emendamenti sono tra le 30 e le 40. Una cifra in grado di mandare abbondantemente in minoranza l’esecutivo costringendolo a cercare i voti di Forza Italia. «Non vogliamo buttare giù il governo — dice Stefano Fassina — ma obbligarlo a correggere la rotta». E se non c’è la correzione? «Ogni giorno ha la sua pena», risponde Fassina non smentendo una rottura definitiva.
Francesco Boccia e lo stesso Fassina hanno messo agli atti, in direzione, il documento alternativo a quello di Renzi. In cui si accettano l’estensione dei diritti e le tutele crescenti ma si mantiene l’articolo 18 riformato dalla legge Fornero. Soprattutto si collega la legge delega alla legge di stabilità perché il punto debole dell’operazione, secondo i dissidenti, è quello. Il tallone di Achille di Renzi che lo costringerà a «riflettere per non andare a sbattere». Anche sui licenziamenti. Ma dietro gli attacchi feroci di D’Alema e Bersani, c’è anche chi vede un disegno di più lungo orizzonte. Da giorni l’ex premier racconta agli amici che lo vanno a trovare alla fondazione Italianieuropei delle visite che riceve da parte di alcuni imprenditori. «È venuto Della Valle», diceva. Ma a sorpresa, in una pausa sul terrazzo del Nazareno, ieri ha tirato fuori un altro nome forte del renzismo. «È venuto a trovarmi Oscar Farinetti. Anche lui è molto deluso da Renzi perché promette molto più di quello che fa».
Come possa nascere e reggere un’asse tra la sinistra del Pd, i cosiddetti poteri forti e gli orfani del renzismo delle origini, a oggi, è un mistero. Però gli oppositori dicono che Bersani e D’Alema non sono «emotivi», se hanno usato quei toni è solo perché sono sicuri o di piegare la resistenza del premier o perché hanno in mente soluzioni diverse. «Scordatevi le soluzioni diverse », ripete Fassina. «Vogliamo evitare, visti i numeri, il disastro che si prepara con la manovra», gli fa eco Boccia. Aiutare, correggere, migliorare. Sarebbero queste le buone intenzioni della minoranza.
Ma il clima dentro il Pd è di totale sfiducia, di volti che si guardano in cagnesco. Un piccolo episodio è rivelatore. Il sindaco di Crema Stefania Bonaldi, elettrice di Renzi alle primarie, demolisce l’azione di governo e la proposta sul lavoro. Dalla platea la rimbrottano e lei per rispondere usa il lei anziché il tu. Altro che compagni. Renzi può aver vinto la partita dell’articolo 18, ma i suoi oppositori sono convinti che avrà molte difficoltà a partorire una Finanziaria efficace e concreta. D’Alema lo ha spiegato: «20 miliardi prendendone uno qua e uno là, così si rischia di fare una manovra sbagliata». Come dire che l’autunno caldo il premier deve aspettarselo più dentro le aule parlamentari che nelle piazze. Una minaccia che non scuote Renzi. Anzi, ne esalta la voglia di confronto muscolare. E nei suoi discorsi non manca mai di accennare all’ipotesi finale. «Rompono? E dopo? Vogliono andare a elezioni? E con quali voti?».

La Stampa 30.9.14
La malinconica liturgia che ormai ratifica soltanto
di Marcello Sorgi


Alla direzione del Pd che alla fine gli ha dato un sofferto via libera alla riforma del lavoro che prevede l’abolizione dell’articolo 18, Matteo Renzi s’è presentato con un imprevisto atteggiamento dialogante e un discorso che in due parole si potrebbe riassumere così: la sinistra sono io. Ai suoi oppositori interni, che dalla tribuna gli hanno confermato tutte le critiche ma nel voto finale si sono divisi tra astensione e “no”, ha detto in sostanza: toglietevi dalla testa di presentarmi come un emulo della Thatcher o un alleato-ombra di Berlusconi. Le cose che ha fatto il governo finora sono in linea con i compiti di una sinistra di governo e con il migliore riformismo europeo. E allo stesso modo sarà impostata la legge di stabilità che sarà approvata oggi dal Consiglio dei ministri e discussa la prossima settimana in un’altra riunione di direzione.
Dove invece Renzi ha aperto uno spiraglio di disponibilità che, non subito, ma probabilmente entro la scadenza del voto finale del Senato sul Jobs Act, porterà tutti o quasi i parlamentari del Pd a votare con il governo, è sull’ambito assai limitato in cui alla magistratura sarà ancora consentito decidere la reintegra dei lavoratori nei posti da cui erano stati licenziati. Si tratterà dei licenziamenti “discriminatori e disciplinari”, due parole il cui senso andrà precisato in Parlamento, e che potrebbero consentire a gran parte della minoranza di accettare la riforma, sostenendo che una parte delle loro riserve sono state accolte, anche se questa materia è fissata nei principi della Costituzione e non è mai stata realmente in discussione.
Uno dopo l’altro, Bersani, D’Alema, Fassina, Civati e gli altri esponenti dell’ala post-comunista del partito si sono alternati nel dibattito per spiegare le ragioni del loro dissenso. Ma a parte Civati, che probabilmente con i suoi resterà il solo a confermare il suo “no”, gli altri hanno posto più una questione di metodo di lavoro del segretario, che non un rifiuto delle proposte contenute nel Jobs Act. Renzi, in sostanza, a loro modo di vedere, dovrebbe preoccuparsi di favorire la discussione all’interno del partito, e non convocarlo solo per comunicare decisioni già prese.
In questo senso, nel lungo pomeriggio di confronto - e a tratti di autocoscienza - del Pd è affiorata una sorta di malinconia: come appunto se si celebrasse la fine di un’epoca, quella della liturgia dei partiti novecenteschi, e l’apertura a un presente che molti dei leader ed ex leader che provengono dall’esperienza del Pci o dalla Cgil non condividono, ma sanno di dover accettare obtorto collo: se non altro, in nome di quel 40,8 per cento rastrellato da Renzi alle ultime europee.

Corriere 30.9.14
La vera posta in gioco oltre la resa dei conti
di Aldo Cazzullo


Non è vero che la riforma dell’articolo 18 sia una questione ideologica che non riguarda quasi nessuno. È una grande questione politica, che può cambiare la vita sociale, la mentalità, la cultura economica del Paese. Proprio per questo, a parte qualche eccezione, il modo in cui la direzione del Pd ha affrontato ieri il tema è apparso un po’ asfittico e autoreferenziale. Certo, era una riunione di partito. E Renzi, abituato a usare queste circostanze per parlare ai cittadini in streaming più che ai presenti, stavolta ha badato a ricompattare i suoi. Il premier ha cercato di aprire alla minoranza interna. Ha esteso la sfera del reintegro rispetto a quanto era trapela-to. Ha rilanciato un vecchio cavallo di battaglia del centrosinistra Anni 90, il Tfr in busta paga. Ha parlato di salario minimo e di risorse per ammortizzatori sociali e scuola. Soprattutto, si è detto disponibile a ricevere Cgil-Cisl-Uil a Palazzo Chigi, come finora non aveva mai fatto. Non a caso, più della sua relazione è stata contestata la sua intervista della sera prima a Fabio Fazio; e al di là della stizza di D’Alema, cui non si è accodato neppure l’ex portavoce Orfini, si intravede un compromesso interno, in attesa magari di un nuovo scontro in Senato. Ma la vera questione non è ammorbidire i contrasti interni a un partito; è portare il Paese a cogliere le opportunità che la riforma del mercato del lavoro porta con sé, accanto ai prezzi da pagare, che pure ci sono. Superare l’articolo 18, nella versione dello Statuto dei lavoratori e in quella uscita da una faticosa mediazione due anni fa, implica un’assunzione di responsa-bilità da parte di tutti. Dei lavoratori, cui si chiede di rinunciare a una tutela magari antistorica ma di sicuro comoda. Dello Stato, che oggi non forma e non ricolloca chi il lavoro l’ha perso o non l’ha mai avuto. E anche degli imprenditori, che talora si sono adeguati a uno scambio al ribasso, garantito dai sindacati, tra bassa produttività e bassi salari; ti chiedo poco e ti do poco. Il governo, oltre a convincere l’ala sinistra, apparsa animata pure da risentimenti personali, dovrebbe ambire soprattutto a guidare questo cambiamento. Quel che non può certo riuscire a una persona sola, può arrivare dallo sforzo comune dei produttori e delle parti sociali, ieri rimesse in gioco (si vedrà se sul serio o per tattica): far imboccare al Paese la strada della merito-crazia e della competitività. Costruire un consenso nella società e suscitarne le energie è compito più complesso che mediare con i giovani turchi e rintuzzare la vecchia guardia, e molto più difficile che ricorrere alla retorica delle «trame dei club e dei salotti»: un espediente che fa parte di quei riti della vecchia politica che Renzi vorrebbe superare.

il Fatto 30.9.14
Il sondaggista
Renato Mannheimer “Ormai punta al centro, rischio scissione”
intervista di Luca De Carolis


Mi chiedo come potranno rimanere assieme dopo una direzione del genere... ”. Renato Mannheimer guida l’istituto di sondaggi Ispo.
La riunione dei democratici l’ha impressionata?
Dopo una direzione così difficile la parola scissione non mi pare così campata in aria.
Lo scontro frontale chi avvantaggia a livello di consenso, Renzi o la minoranza?
Entrambe le parti, perché rafforza le reciproche identità e la partecipazione dei rispettivi elettorati. Ormai Renzi punta agli elettori di centro, e a un pezzo di quelli del centrodestra, che in assenza di alternative lo guardano con simpatia. Conta sul fatto che la parte più a sinistra, quella per così dire ri-mobilitata dal discorso di D’Alema, sia numericamente poco consistente.
Proprio D’Alema ha attaccato il premier ironizzando di fatto sulla sua scarsa preparazione.
All’elettore questo fattore non interessa, quelli preparati spesso non piacciono. Funzionano altre qualità.
Ma la battaglia sull’articolo 18...
Questo sì che interessa, mobilita la gente. In un recente sondaggio abbiamo riscontrato che i cittadini sono spaccati sull’argomento. C’è una lieve prevalenza di chi vorrebbe abolirlo, per essere precisi. Ma c’è grande dibattito.
Perché Renzi insiste su questo punto? Pensa di guadagnare consensi o vuole distogliere l’attenzione da altri temi?
Ho la sensazione che ci creda davvero. Ma di certo influisce la percezione collettiva che non stesse occupandosi di temi centrali, forte anche tra chi lo sostiene.
Civati lo ha attaccato sul piano ideologico: “Domenica sera in tv diceva cose di destra”.
Questo può danneggiare il premier. Non deve assimilarsi al centrodestra, perderebbe voti. E chi lo attacca su questo piano lo sa bene.
Ma Renzi è ancora popolare?
L’entusiasmo è in flessione, secondo tutti gli istituti di sondaggi. I nostri ultimi dati dicono che si fida di lui poco più del 50 per cento degli italiani, che è comunque un dato molto alto. Ma qualche settimana fa eravamo al 70 per cento.
Perché è calato?
Si è diffusa l’impressione che faccia molti annunci ma pochi fatti: però è ancora molto popolare, glielo ripeto.

il Fatto 30.9.14
Massimo e Pier Luigi i giapponesi di Matteo
I due ex segretari tuonano contro le scelte del governo
Il primo chiede di imparare almeno i numeri, il secondo: “Nel partito c’è il metodo Boffo”
di Fabrizio d’Esposito


Il primato della prosa (dalemiana) sulla poesia (renziana). È una questione di età. Ieri è stato il compleanno della Cgil, 108 anni, e anche di Pier Luigi Bersani, un po’ di meno, 63. Ma il numero che Massimo D’Alema sbatte in faccia a Matteo Renzi è il 44. Sono quasi le sette di sera. D’Alema sta finendo il suo intervento, in tutto nove minuti scarsi, ed è la prima volta che si rivolge al premier, chiamandolo sarcasticamente per nome. Le sue ultime parole sono: “Non si racconta che sta lì da 44 anni, perché un po’ di persone che sanno che non è vero esistono, Matteo”. Il soggetto, ovviamente, è il fatidico articolo 18 anni. La mimica dalemiana è anomala, nervosa. Non è fermo, l’ex Generale Massimo. Il corpo oscilla tra destra e sinistra come se volesse andar via ma alla fine rimane. La rabbia e l’orgoglio di D’Alema sono monumentali, all’altezza del passaggio storico. Completa la frase finale così: “Ma tu devi anche pensare a quelli che le cose le sanno, non solo a quegli altri. Grazie”.
LA FACCIA di Renzi è tra lo stupito e il divertito. Anche D’Alema ha camicia bianca, senza cravatta. Però ha la giacca blu. Quella del primo premier postcomunista è una lezione al giovane rottamatore arrivato da Firenze. Sempre con il sarcasmo sulle labbra: “Io sono un ammiratore dell’oratoria del segretario del nostro partito. Ma il fascino della sua oratoria non ha attinenza con la realtà e io credo che il dibattito politico debba avere un forte aggancio con la realtà”. Risultato: “Meno citazioni poetiche e più prosa”. Altro intercalare: “Scusate il ricorso alla prosa”. D’Alema smonta l’intera retorica renziana sul lavoro e sull’articolo 18: “Ci dicono che siamo prigionieri di un tabù che dura da 44 anni ma è una norma riformata due anni fa. Non è obbligatorio sapere i fatti ma sarebbe consigliabile studiarli”. Il cartellino verde da componente della direzione balla sul risvolto sinistro della giacca. In mano ha dei fogli bianchi. Dalla platea notano: “Com’è invecchiato”. D’Alema ha 65 anni e la chioma d’argento, non più sale e pepe. Lo sberleffo a Renzi è continuo: “Anche in Gran Bretagna, laddove sono passati la Thatcher e Blair, il giudice può ordinare il reintegro. Solo noi vogliamo porci fuori dal consorzio civile? ”. Il crescendo finale è spettacolare e riesce a strappare un sorriso generale: “Stiglitz dice che il mercato del lavoro si riforma con la crescita non in recessione. Stiglitz forse è un vecchio rottame della sinistra ma ha vinto un premio Nobel, del quale i nostri giovani consiglieri non hanno ancora avuto la possibilità di essere insigniti”. Sintesi estrema: “Meno slogan, meno spot. Anche perché l’oratoria sinora ha avuto scarsissimi effetti e l’opinione pubblica più qualificata comincia a percepirlo”.
IL FRONTALE di D’Alema ha l’effetto di una sveglia sui giochini delle minoranze dem che trattano sulle formule tipo astensione per non spaccarsi. I bersaniani, per esempio, si dividono tra dialoganti e no. Idem i dalemiani. Non a caso, pochi minuti dopo, lo stesso Bersani replica la durezza dell’ex amico “Massimo”. È la vecchia guardia della Ditta che si ricompone. Anche Bersani parla per dieci minuti. Pesantissimi. Sin dall’inizio: “Noi sull’orlo del baratro non ci andiamo per l’articolo 18 ma per il metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterlo fare senza perdere la dignità”. Il metodo Boffo, tradotto dal bersanese, è l’invettiva tipica renziana contro i dissidenti, marchiati con l’epiteto di “sabotatori o gufi”. Bersani impugna gli occhiali dalla montatura rossa e si allinea all’orgoglio dalemiano: “Vedo tanti neofita della Ditta, tanti neoconvertiti che vogliono insegnarmi come stare in un partito”. Poi il bersanese dalla cadenza emiliana: “Cerchiamo di raffreddarci la testa”. Oppure: “A nessuno qui trema il polso a cambiare le cose”. Per l’ex segretario, fucilato dai 101 franchi tiratori antiprodiani, la priorità non è l’articolo 18: “Con tutte le cose che ci sono da fare perché bisogna prenderla da quel lato? In Germania hanno l’articolo 18 e hanno guadagnato quattro punti di Pil”.
I duri e puri da cui riparte la minoranza dem, alla fine, sono cinque: Bersani, D’Alema, Cuperlo, Fassina, Civati. Votano tutti contro. I bersaniani dialoganti, guidati dal capogruppo Roberto Speranza, invece si astengono. Le divisioni sono figlie delle trattative durate per ore. La differenza è tra chi vuole fare l’opposizione e chi si mette a sinistra del leader, come i giovani turchi di Orfini e Orlando che votano a favore. Alle dieci e mezza della sera i numeri sono impietosi per la minoranza: 20 contrari e 11 astenuti. Contro votano anche D’Attorre e il sottosegretario Sesa Amici. Tra gli astenuti c’è la De Micheli. Ma i numeri erano scontati. Assemblea e direzione fotografano le primarie vincenti di Renzi. In Parlamento, però, come avverte Fassina, non è così. La battaglia cambia location.

La Stampa 30.9.14
D’Alema e Bersani all’assalto, ma le truppe vacillano
Due padri del partito contro il segretario: ma la Direzione si spacca
di Fabio Martini

qui

Il Sole 30.9.14
Premier più cauto ma la sinistra naufraga
di Stefano Folli


Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l'essenza della riforma, ma ha gettato un po' d'acqua sull'articolo 18.
Ora c'è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai "conservatori".
Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D'Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.
Non perché evocare la "dama di ferro" sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D'Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l'uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l'annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l'art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.
Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un'opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi. Per sedurre l'elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose.
Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all'art. 18 non ha preso forma alcun partito "thatcheriano".

Repubblica 30.9.14
Lavoro, Civati: "Non faccio trattative, potrebbe essere mia ultima direzione"

un video qui

Il Sole 30.9.14
Forza Italia. Festeggiato ieri ad Arcore il compleanno dell'ex premier
Berlusconi: pronti anche al voto se il Pd si spacca sul Jobs act
di Barbara Fiammeri


ROMA. Ad Arcore si monitorano gli echi dello scontro interno al Pd. Silvio Berlusconi festeggia il suo compleanno a casa, circondato da amici e parenti, mantenendo però aperto il canale con Roma. L'ex premier avverte che il passaggio del Jobs act potrebbe non essere indolore per Renzi e il suo governo e si prepara ad ogni eventualità, compresa quella di un ritorno alle urne. Con il Consultellum naturalmente, mandando in soffitta l'Italicum e il Patto del Nazareno.
La riforma della legge elettorale, bloccata in commissione Affari costituzionali del Senato, in questo momento ha scarsissimo appeal presso tutte le forze politiche, escluso il Pd renziano. Per Fi un proporzionale puro, qual è il sistema di voto uscito dalla sentenza della Consulta, e per di più con uno sbarramento del 4% alla Camera e dell'8% al Senato, rappresenterebbe l'optimum, visto che garantirebbe a Berlusconi di essere al centro del tavolo delle trattative per la formazione di un governo all'indomani dello spoglio, anche se Renzi dovesse bissare il successo delle europee, e obbligherebbe allo stesso tempo i partitini del centrodestra, da Fdi al Ncd di Alfano, a trattare per ottenere posti in lista e non vedersi estromessi quantomeno da un ramo del Parlamento.
Non è un caso che proprio ieri il Mattinale, il foglio quotidiano di Fi curato da Renato Brunetta, abbia rilanciato «la piena agibilità politica» del Cavaliere e la riunificazione del centrodestra. Non che le elezioni siano una prospettiva che entusiasmi Berlusconi e tantomeno i parlamentari azzurri. Il centrodestra è un cantiere aperto e gli appelli alla riunificazione per ora non hanno sortito effetti, come dimostra lo scontro sulle candidature per le regionali che si disputeranno a novembre in Calabria e Emilia: a venti giorni dalla presentazione delle liste manca ancora un candidato unitario. Non secondario è anche il rapporto con la Lega, che non vuol sentir parlare di alleanze, se di mezzo c'è un partito di governo come quello di Alfano.
Berlusconi però guarda avanti per non farsi trovare impreparato. I contatti con le varie anime del centrodestra sono continui. Qualcuno ieri vociferava che tra i molti che ieri gli hanno telefonato per gli auguri, ci sia stato, oltre a Vladimir Putin, anche Angelino Alfano e Roberto Maroni con il quale il Cavaliere continua mantenere un ottimo rapporto e potrebbe risultare decisivo per una mediazione con il segretario della Lega Matteo Salvini.
Nel frattempo la linea non cambia. La collaborazione con Renzi sulle riforme va avanti. Anzi, Berlusconi vorrebbe estenderla anche a quelle economiche, a partire dal Jobs act. Il massimo per il Cavaliere sarebbe diventare determinante per il passaggio della delega lavoro al Senato. Per questo mal sopporta i continui distinguo interni e la fronda guidata da Raffaele Fitto che senza troppi giri di parole accusa il leader di Fi di essere troppo accondiscendente con il premier e che ha contribuito a far presentare alcuni emendamenti al Jobs act per rendere ancora più esplicita l'abrogazione dell'articolo 18. Una mossa che tuttavia potrebbe avere come effetto quello di ricompattare il Pd, proprio quel che Berlusconi vorrebbe evitare.
A sintetizzare il pensiero del leader di Fi è il suo consigliere politico: «Ricetta#Renzi: propositi vaghi, retorica quanto basta, #tfr in busta paga. Nulla di nuovo e qualche guaio in più per le imprese #speriamobene», scrive Giovanni Toti, preferendo il sarcasmo allo scontro aperto. Uno scontro che Berlusconi non vuole anche perché ben presto potrebbe esserci la necessità di trovare un accordo sul successore di Giorgio Napolitano al Quirinale.

Cacciari: “Renzi va a casa domani se i voti di Berlusconi diventano determinanti”
La Stampa 30.9.14
Un’ombra sul futuro del governo
di Federico Geremicca


Alla fine il dado è tratto, il Partito democratico decide di seppellire quasi per intero e quasi per tutti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la prima conseguenza è che da ieri quella sorta di pace armata che regnava da mesi all’interno del Pd si è definitivamente tramutata in guerra aperta. Il durissimo intervento svolto davanti alla Direzione da Massimo D’Alema, la gelida distanza dal segretario assunta da Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani (tutti e tre hanno votato contro la relazione del segretario) ne sono la spia più evidente.
«Non è un voto contro il governo», è stato assicurato dagli oppositori di Renzi (la vecchia guardia, come usa dire il premier) ma pochi son disposti a crederlo: a cominciare proprio dal presidente del Consiglio.
Per Renzi si tratta di una vittoria strategicamente rilevantissima, e il risultato così insistentemente cercato è stato alla fine ottenuto: ma i prezzi che rischia di pagare in sede di governo sono, al momento, difficilmente prevedibili. I gruppi dell’opposizione interna si sono divisi all’atto del voto (contrari i «civatiani», spaccati tra no e astensione i bersaniani e i dalemiani) ma è credibile che possano tornare ad unirsi quando la parola passerà ai gruppi parlamentari di Camera e Senato.
A Palazzo Madama, come è noto, i numeri sono quelli che sono e assicurano a Renzi una maggioranza assai risicata: a conti fatti – e come temuto e ipotizzato già da giorni – la vita del governo rischia di esser appesa alle decisioni che assumerà Silvio Berlusconi. Sosterrà la riforma del lavoro su cui tanto investe Matteo Renzi? E se decidesse di sì, in cambio di cosa permetterà la sopravvivenza dell’esecutivo? Non è un bell’affare per il governo del giovane ex sindaco di Firenze, ma tutto lascia pensare che si tratti di un rischio attentamente e a lungo calcolato.
Chi può volere, infatti, una crisi di governo e magari elezioni anticipate in tempi brevi? Non Berlusconi, a quel che è dato intuire. E ancor meno le minoranze interne, che rischierebbero di pagare la «sfida» al segretario con una vera e propria decimazione dei propri parlamentari. È per questo che Matteo Renzi non temeva – anche se non la cercava – la prova di forza sull’articolo 18. Ma nei bizantini rituali della politica italiana, non esistono solo rotture clamorose e voti anticipati: esiste anche – praticatissimo – il lento logoramento, rischio per il premier ancor maggiore...
Dunque, la sordina messa ai toni eccessivamente polemici non ha permesso al segretario-presidente di aggirare le obiezioni e le vere e proprie contrarietà delle opposizioni interne. Arrivare in Direzione con aperture capaci di allentare le tensioni, era stato il consiglio fornito a Renzi dal Capo dello Stato durante un colloquio svoltosi in mattinata al Quirinale. Il Presidente della Repubblica, che appena una settimana fa era sceso in campo chiedendo alle forze politiche «coraggio» in materia di riforma del lavoro, aveva infatti chiesto al premier di compiere un ultimo tentativo per recuperare l’unità del partito: Renzi ha obbedito (più nei toni che nella sostanza, in verità) ma lo sforzo – come il voto ha poi dimostrato – non ha prodotto il risultato sperato.
Era del resto impossibile immaginare che la separazione del Pd da uno dei punti cardine della propria azione politica (la tradizionale e secondo alcuni superata «difesa dei diritti» in materia di lavoro) potesse avvenire senza traumi, a maggior ragione in un clima avvelenato da avvertimenti, minacce reciproche e bracci di ferro annunciati e praticati. Per il premier, però, l’abolizione quasi definitiva dell’articolo 18 era ormai diventata qualcosa di più di una semplice riforma, assumendo l’altissimo valore simbolico – in qualche modo come la fine del bicameralismo paritario – della sua capacità di cambiare dalle fondamenta non solo lo Stato ma il suo stesso partito. Il risultato è raggiunto. A quale prezzo lo si capirà nelle prossime settimane...

Corriere 30.9.14
In Senato la maggioranza è appesa a 7 voti
di Alessandro Trocino


La conta sul Jobs act e la carta del soccorso azzurro. Il sistema del canguro per ridurre i 689 emendamenti ROMA La vera resa dei conti, se ci sarà, comincia mercoledì, quando il Jobs act approderà nell’aula del Senato. Mentre ieri, durante la direzione, il barometro dello scontro segnava picchi altissimi, erano in molti alle prese con il pallottoliere (magari, qualche renziano, con strumenti più moderni, tipo Excel). Perché il futuro del Jobs act — ma anche e soprattutto del governo e del premier Matteo Renzi — è tutto in un pugno di numeri: quei sette voti di scarto, che potrebbero venire a mancare per via dei dissidenti del Pd.
Scomporre il puzzle del Partito democratico non è facile. Perché la geografia è complessa: risale a un’epoca pre renziana, ma ha visto riallineamenti, piccoli movimenti tellurici che hanno allontanato e avvicinato le faglie dall’epicentro. I renziani «puri» (quelli della prima ora) sono scesi a 12 (Isabella De Monte è andata in Europa). Se a questi si aggiungono gli esponenti di AreaDem (Dario Franceschini), si arriva a una quarantina. Nella maggioranza vengono normalmente conteggiati anche i cinque «Giovani Turchi» (vicini a Matteo Orfini e Andrea Orlando). E con qualche maldipancia dovrebbero comunque votare a favore del Jobs act. Ci sono poi quelli che vengono indicati come lettiani (anche se Enrico Letta ha sciolto la sua corrente): sono tre.
Sul fronte opposto, ci sono i duri e puri che dovrebbero votare no, senza se e senza ma. Tra questi si possono annoverare Corradino Mineo, Walter Tocci e Maria Grazia Ricchiuti. Il quarto è Felice Casson, tra i senatori più critici: qualche voce maligna lo dà verso un riallineamento, che sarebbe favorito anche dalla prospettiva di avere il via libera del partito per diventare sindaco di Venezia. Poi c’è l’ampia pattuglia dei bersaniani e dei cuperliani: una quarantina di senatori. Qui bisogna puntare gli occhi sulla componente chiamata Area Riformista, nella quale c’è un nucleo di irriducibili, guidato da Alfredo D’Attorre, deputato. È un’area poco omogenea e lancia segnali contraddittori. Vannino Chiti, per esempio, potrebbe aver gradito i messaggi lanciati dal segretario: tra questi la nuova legge sulla contrattazione e la riapertura del tavolo verde per la concertazione.
Ma al di là degli schieramenti ufficiali, bisognerà vedere cosa accadrà nel percorso del Jobs act. Perché sono stati presentati 689 emendamenti: meno dei 7.000 della riforma costituzionale, ma quanto basta per rischiare di far tornare in auge il discusso meccanismo del «canguro». Alla fine ne resteranno sui 300 e su molti si ballerà. A parte le prevedibili proteste di Cinque Stelle, è possibile che i malumori democratici si riversino a macchia di leopardo sugli emendamenti. Ed è altrettanto possibile che qualche senatore di Forza Italia arrivi in aiuto di Renzi. È il famoso «soccorso azzurro». Porrebbe un problema politico se arrivasse sul voto finale, ha ammesso lo stesso Renzi. Ma non è escluso affatto che qualche «aiutino» arrivi sui singoli emendamenti.

il Fatto 30.9.14
“Passo dopo passo”, niente dopo niente
Il governo online è carino, colorato, pieno di slogan e bei disegni: se cercate informazioni, però, non ci sono
di Marco Palombi


Tutto nel renzismo slitta leggermente. Potenza della letteratura, visto che il giovane premier - al contrario di Nichi Vendola - una narrazione ce l’ha davvero. La forma è la cosa, nell’Italia che #cambiaverso, almeno finché le cose non torneranno per vendicarsi. Fino ad allora (mille giorni?) il tempio del renzismo è online: il sito passodopopasso.italia.it   – che si trova peraltro allo stesso indirizzo IP del celebre turistia4zam  pe.it , creazione della ex ministra Michela Vittoria Brambilla – è il diario di viaggio di Matteo Renzi. È proprio come lui: carino, colorato, pieno di disegni e di slogan quanto vuoto di informazioni proprio mentre ne promette a carrettate.
TUTTO SLITTA nel regno fatato del renzismo: pure la presentazione grafica dei provvedimenti diventa “infografica”, anche se non c’è alcun lavoro sui dati. Che l’informazione non sia una preoccupazione del sito lo dimostra il fatto che, se si vuole vedere lo schemino sul “nuovo Senato”, si apre pure un video in cui Maria Elena Boschi viene intervistata, diciamo, dal Tg1.
A oggi siamo ancora alle poche pagine che furono al momento del lancio. La parte del leone la fa lo “Sblocca-Italia”: c’è la lista dei cantieri che saranno aperti grazie al decreto solo che non è specificato quali sono soldi stanziati da questo governo (quasi niente) e quali da quelli precedenti, né è possibile sapere lo stato di avanzamento dei lavori di tutto questo sbloccare (la cabina di regia che dovrebbe monitorare il tutto a Palazzo Chigi ancora non c’è, ma sul sito la cosa non viene detta). Notevole pure l’uso dell’eufemismo: il regalone ai signori delle autostrade con l’allungamento delle concessioni ad libitum viene definito “sblocco di investimenti delle concessionari autostradali”. Che dire poi del pudico “più semplicità, meno documenti” che nasconde l’indebolimento dei controlli sui vincoli paesaggistici e la cementificazione del demanio pubblico affidato ai “progetti urbanistici” dei fondi di investimento immobiliare? Dietro lo specchio renziano è sempre giorno di conferenza stampa: sul web si perpetua il momento preferito del premier, quando può straparlare senza contraddittorio disegnando la sua meravigliosa Italia a venire, sempre, eternamente a venire.
BEN DUE ICONE, poi, raccontano dei dieci milioni che forse risparmieremo dal dimezzamento dei permessi sindacali nella Pubblica amministrazione, ma non ce n’è neanche una sui pessimi dati macroeconomici inanellati in questi mesi. Anzi no, una ce n’è, ma potrebbe scadere stamattina: “Istat, occupati in aumento da febbraio”. Dato raccontato in modo curioso visto che sarebbe più interessante far sapere agli italiani che quel processo di crescita s’è fermato e ora gli occupati sono in calo. Stamattina, comunque, l’Istat ci comunicherà i numeri di agosto e probabilmente il link dovrà essere cancellato.
Resterà, invece, quello che rinvia all’assunzione degli insegnanti: 13 mila per il sostegno agli alunni disabili. “Doveroso”, si schermisce il governo su passodopopasso. Soprattutto, aggiungiamo noi, perché i soldi li aveva trovati Maria Chiara Carrozza, ministro del governo Letta, e pareva brutto non spenderli. Se ci fosse la possibilità di commentare, magari qualcuno farebbe notare la cosa, ma tant’è. Nel renzismo il dialogo non è previsto, al massimo si dà il via alla “consultazione pubblica” come per la riforma della scuola: noi vi diciamo che vogliamo fare, voi - i cittadini o meglio il pubblico sovrano - ci dite cosa ne pensate. Ovviamente è scontato che noi, alla fine, facciamo come ci pare: è già successo con le riforme costituzionali, come ricordano i vari “professoroni” che inviarono al governo le loro proposte per vederle ignorate.
A proposito di Senato e nuovo Titolo V della Costituzione c’è un piccolo problema di ottimismo in passodopopasso. Nella sezione grafica “A che punto siamo? ” – quella in cui si fa il punto del governo dopo sei mesi – le si situa nella “seconda lettura parlamentare”, che in tema di riforme costituzionali dà l’idea che si sia vicini all’approvazione definitiva, il che non è.
PER GLI APPASSIONATI non mancano nemmeno quelli che Maurizio Crozza ha definito i “renzini”, cioè quei pensierini con cui il premier sparge lo zucchero a velo sulla torta che immagina essere il futuro: “Agricoltura e agroalimentare: ripartiamo dalle eccellenze italiane” oppure le meraviglie di Expo 2015 in numeri (ritardi? inchieste? non pervenuti).
E poi c’è quella piaga del dissesto idrogeologico: una roba talmente importante che ieri Renzi l’ha citata pure in direzione. Passodopopasso ti dice quanti lavori ci sono e quanti ne partiranno a breve. Non solo: puoi finalmente “monitorare e controllare in tempo reale” che i cantieri procedano davvero. Come? Basta che dai un’occhiata a italiasicura.governo.it . Solo che in home page ci sono solo quattro hashtag (#italiasicura, #dissesto, #acquapulita e #ediliziascolastica) e la scritta “presto online”. I fatti separati dalla comunicazione.

il Fatto 30.9.14
Il comunicatore
Le domande che non gli fanno

Le domande sono importanti. Domenica, nell’intervista tv a Che tempo che fa nessuno ha pensato di chiedere a Renzi perché sull’articolo 18 del contratto nazionale dei lavoratori abbia cambiato diametralmente la propria posizione nel volgere di pochi mesi (prima lo difendeva, adesso vuole abolirlo). Nell’intervista di due pagine che Repubblica ha ottenuto dal premier ci sono tante domande, anche importanti, sulle riforme e il centrodestra. Manca la parola Verdini.

il Fatto 30.9.14
Renzi. Il bastone dei mercati
di Stefano Feltri


Nessuno pensa che abolire l’articolo 18 per i nuovi assunti possa creare milioni di posti di lavoro. Il monitoraggio della riforma Fornero del 2012 non dimostra che licenziamenti più facili aiutino le assunzioni. Difficile dire se la condizione dei lavoratori italiani peggiorerà o migliorerà: chi verrà assunto col contratto unico a tutele crescenti sarà più precario di chi oggi è a tempo indeterminato con l’articolo 18. Però avrà più diritti di un lavoratore con un contratto a progetto o a partita Iva. Ma chissà se le aziende faranno più “contratti unici” o più partite Iva. Rimarrà il reintegro per i licenziamenti discriminatori e, ha detto ieri il premier, per quelli disciplinari ingiusti. Il mercato del lavoro quindi cambierà poco. E allora perché Renzi si è impelagato in questa campagna?
Perché l'articolo 18 è un simbolo di quello che in Italia non cambia mai, diritti fondamentali o incrostazioni post-sessantottine, a seconda del punto di vista. Il premier ha scelto il modo più ostile di presentare la riforma perché vuole vincere una battaglia violenta. Due le ragioni. La prima: finora il suo governo non ha fatto alcuna riforma, all’estero e sui mercati aspettano di vedere se Renzi è capace di ottenere risultati (regalare soldi prima delle elezioni non vale). Seconda ragione: il governo può sperare di ottenere concessioni da Bruxelles sul deficit solo se le deroghe servono a finanziare riforme strutturali. È lo schema suggerito dal presidente della Bce Mario Draghi: riformate il lavoro e Bruxelles vi aiuterà a pagare i costi.
Renzi ha poi un gradevole obiettivo secondario: bastonare, ancora, i sindacati e l’opposizione interna nel Pd. Ha perfino spinto D’Alema e Bersani a rivendicare di aver votato l’indebolimento dell’articolo 18 (governo Monti) mentre ora ne predicano la sacralità.
Quella sull’articolo 18 è sempre stata una battaglia simbolica. E Renzi ha bisogno di una vittoria simbolica che fughi i dubbi – sempre più diffusi, non solo tra i “gufi” – sulla sua capacità di governare.

Repubblica 30.9.14
I capitali del mondo al Gran Bazar del Made in Italy
Italy day, fondi esteri allo shopping
Incontro riservato a Milano tra un centinaio di investitori Usa e inglesi e alcune nostre grandi aziende Ad organizzarlo la Jp Morgan. Fiducia nell’ondata di liquidità che potrà arrivare dalla Bce
di Federico Fubini


MILANO L’incontro si è svolto in un gruppo di sale riservate al Four Seasons di Via del Gesù, nel cuore del quadrilatero della moda milanese. Organizzatore e padrone di casa, per un giorno, la prima banca al mondo per il valore delle sue attività: l’americana J. P. Morgan, un gruppo il cui bilancio è quasi pari al debito pubblico della Repubblica italiana.
L’accordo era che, fuori dalla cerchia dei circa 130 invitati, nessuno dovesse saperlo. Non perché il gruppo del Four Seasons, ricco di amministratori delegati di Piazza Affari e manager di punta di un centinaio dei grandi investitori del pianeta, avessero trame da tessere. Era giusto questione di lavorare in pace, in un’iniziativa coordinata senza precedenti per il Paese: discutere insieme, faccia a faccia, uno contro uno in centinaia di incontri privati, di cosa comprare in Italia. L’idea dei presenti era che è meglio farlo ora che sembrano bassi i prezzi di Borsa delle imprese del secondo produttore manifatturiero d’Europa; meglio prepararsi nella speranza che la Bce immetta mille miliardi di liquidità che solleverà tutte le banche; meglio comprare un biglietto d’ingresso nell’ipotesi che questo governo realizzi — forse — qualcuna delle riforme si parla da vent’anni.
Ieri al Four Seasons sedevano migliaia di miliardi di dollari. Erano rappresentati dai principal di alcuni degli hedge fund e fondi istituzionali più ricchi e di successo al mondo: come quello di John Paulson, il newyorkese che registrò i più grandi e rapidi guadagni della storia dell’umanità scommettendo sul crollo dei mutui americani. Con Paulson c’erano vere e proprie superpotenze dei mercati globali come Fidelity (1700 miliardi di dollari in gestione), campioni del private equity come Fortress (68 miliardi), giganti tranquilli come il Canadian Pension Plan (oltre 200 miliardi di dollari) e leader europei come Allianz Global. Non poteva mancare poi una miriade di più aggressivi e volatili hedge fund, dai newyorkesi di Tpg-Axon Capital, ai tedeschi di Lupus Alpha e decine di altri. Blackrock, con Fidelity l’altro colosso mondiale della gestione finanziaria, ha dovuto cancellare la sua presenza all’ultimo.
Nella giornata di Milano, Jp Morgan ha offerto a ciascuno dei suoi clienti internazionale l’opzione di avere incontri faccia a faccia con una trentina di imprese italiane che si sono dette interessate. Bastava scegliere dal menù dei presenti. I momenti di vera e propria conferenza in comune sono stati ridotti al minimo, in un unico dibattito con quattro amministratori delegati: Fabrizio Viola di Mps, Carlo Cimbri di Unipol (indagato nell’inchiesta sull’acquisto di Fondiaria dai Ligresti), il costruttore Pietro Salini di Salini Impregilo e Matteo Del Fante di Terna, la rete elettrica controllata dal governo. I quattro non hanno nascosto i punti di debolezza del Paese o delle loro aziende, ma hanno ancora sottolineato perché l’Italia resta appetibile per il capitale straniero.
C’è stato a stento bisogno di ricordarlo. La giornata è entrata nel vivo quando i grandi investitori esteri hanno scelto fra i gruppi italiani presenti e hanno chiesto di incontrare ciascuno separatamente. C’erano capi azienda, capi della finanza o dei rapporti con gli investitori di almeno dieci gruppi finanziari: fra questi Intesa Sanpaolo (ma non Unicredit), Ubi, Banca Generali.
C’erano gruppi del settore media come Mediaset, municipalizzate dell’acqua e dell’energia come Acea, società a controllo pubblico come Fincantieri (ma non Eni o Enel), campioni globali della meccanica come Danieli, ex monopolisti della telefonia come Telecom Italia. Jp Morgan stima che ciascuno di loro abbia avuto almeno cinque sei incontri “uno a uno” con altrettanti investitori esteri. Chi fra le società quotate a Piazza Affari non c’era, mancava solo perché non ha espresso interesse all’invito di J. P. Morgan.
È stata una sorta di “fiera Italia” senza precedenti per la piazza finanziaria milanese. In questi anni c’erano state sì giornate dedicate al Paese nella City di Londra: questa o quella banca riuniva gli investitori per qualche ora di discorsi pubblici tenuti da dirigenti del Tesoro, manager di banche e imprese a controllo statale, economisti e specialisti. Non c’erano quasi faccia a faccia e la posta in gioco era semplicemente se investire in titoli di Stato o diffidare del debito, del governo, della direzione dello spread fra Bund e Btp tedeschi. Ora no. Spinti dall’attivismo della Bce, forse in parte da quello dell’attuale esecutivo, i cento del Four Seasons sono interessati alla parte produttiva del Paese. Non siamo ancora al punto in cui vogliono davvero investire. Ma comprare, magari perché l’Italia sembra loro a buon mercato, questo sì.

il Fatto 30.9.14
Quanto è grande lo spazio di Renzi
risponde Furio Colombo

CARO FURIO COLOMBO, ti scrivono in molti per dire che Renzi è in cielo, in terra e in ogni luogo (spero che l'Altro non si offenda). Ma io noto un’altra cosa. Noto lo spazio che occupa: discorsi, argomenti, accuse, difese, litigi, scontri, felicitazioni, congratulazione, amici perduti, amici ritrovati, il tutto in un polverone di occupazione della nostra vita...
Mario

L’INTUIZIONE MERITA un momento di attenzione. Perché, proprio nella enormità dello spazio occupato (che vuol dire tempo tv, pagine a stampa, blocchi di social network e grandi, lunghe fermate di tutto il resto del lavoro), deriva forse la continua accusa di alcuni – e forse il rimpianto di altri che speravano nella volta buona – di ciò che si poteva fare e non si è fatto perché, intanto, scoppiava la polemica sui poteri forti oppure il grande attacco ai sindacati e all'articolo 18. Fermiamoci qui un istante. O l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ha il rilievo che pensava l’autore della Statuto dei Lavoratori Gino Giugni (prima di essere gambizzato) e allora bisognerebbe rispettarlo. O è irrilevante, e allora non merita (come non meritava il Senato, come non meritavano le elezioni clandestine per le province e le città metropolitane, come non meritava l'inesistente riforma Madia) la lunga fermata del treno Italia ad alta velocità di cui ci avevano detto meraviglie. Ma la fermata si prolunga. Adesso il presidente del Consiglio ci intrattiene sui poteri forti, citando imprenditori e banchieri. E intanto a Detroit celebra una fabbrica americana accanto a un ex imprenditore italiano transfuga, che ha portato via dall'Italia marchio, lavoro e tasse. E a Firenze presiede al matrimonio di un amico finanziere a cui sono presenti e partecipi, ci dicono le agenzie, solo banchieri e manager. In uno spicchio dello spazio occupato da Renzi con Marchionne (mentre Della Valle, a nome dei poteri forti, gli faceva sapere la sua sfiducia) c'è una frase esemplare di Marchionne che vale la pena di mettere nella posizione centrale che a questa frase spetta. Ha detto il manager: “Che cosa abbiamo in comune Renzi e io? Il fatto che tutti e due abbiamo coraggio”. Sono parole che hanno senso per Marchionne: con la complicità degli azionisti ha de-industrializzato una parte dell'Italia, e ci vuole coraggio a farlo sfuggendo a Equitalia. Ma se ci si sposta su Renzi, la domanda è inevitabile: dove diavolo porterà l'Italia, anch'essa definita, implicitamente, azienda decotta? Resta il fatto che noi diamo a Renzi un’immensità di tempo e lui occupa per il suo spettacolo (vivacissimo) un’immensità di spazio. Questo per la messa in scena della sua vasta retorica barocca. Ma le opere? Qualcuno ha visto un cambiamento anche minimo nella vita degli italiani? Renzi sarà giovane, ma non è nato ieri. Né come ragazzo speciale né come politico unico. Evidentemente “le linee sono momentaneamente occupate. Un nostro operatore (Delrio? Serracchiani?) vi richiamerà appena possibile”.

L’Huffington Post 29.9.14
Il Pd non imploderà e l'art.18 già manomesso sarà un ricordo
di Carlo Patrignani

qui

il Fatto 30.9.14
Renzi senza vergogna /1: la giustizia
di Ferruccio Sansa

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il Fatto 30.9.14
Corruzione, Grasso: “Stallo sulla mia legge. Mi chiedo quali interessi la blocchino”
Il presidente del Senato ospite al Festival del diritto di Piacenza esprime preoccupazioni sugli ostacoli al ddl sull'anticorruzione fermo da un anno e mezzo a Palazzo Madama. "Fa riflettere questo rallentamento"

E sulla giustizia: "Non è mai cambiato nulla ed è il momento di una riforma globale"
di Gianmarco Aimi

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il Fatto 30.9.14
Anticorruzione, pure Grasso all’attacco
Il presidente del Senato dopo i tanti stop:
“Mi chiedo quali interessi blocchino la mia legge sul tema”
di Gianni Barbacetto


Anche il presidente del Senato interviene sul cammino (interrotto) delle norme anti-corruzione: “Mi chiedo quali interessi blocchino la mia legge sul tema”, ha detto Pietro Grasso, intervistato da Lirio Abbate al Festival del Diritto di Piacenza. “Io ho presentato un disegno di legge circa un anno e mezzo fa e, nonostante sia il presidente del Senato, non si è riusciti a portare avanti il progetto. Perché? C’è da riflettere. È intervenuto il governo e ha detto che voleva portare dei correttivi. Poi ci sono stati rinvii. Si sono create fattispecie che alcuni giudicano troppo blande e altri troppo rigorose, e sostanzialmente è uno stallo. E allora ti chiedi: quali interessi bloccano tutto ciò? Distruggere e criticare è facile, ma costruire è difficile. Bisogna trovare delle mediazioni”.
La vicenda è quella delle varie proposte normative per contrastare la corruzione che da mesi vengono annunciate, proclamate, discusse, modificate, ritirate, riproposte... C’è il disegno di legge presentato da Grasso appena entrato a Palazzo Madama, addirittura prima di diventare presidente del Senato. Ci sono le norme sul rientro dei capitali dall’estero in discussione da mesi alla commissione Finanze della Camera, insieme alla proposta di introdurre il reato di autoriciclaggio. C’è il testo di riforma della giustizia preparato dal governo che contiene anche norme sull’autoriciclaggio e sul falso in bilancio. Le diverse proposte, nei mesi scorsi, invece che intrecciarsi, rafforzarsi e completarsi, si sono incrociate, intralciate, bloccate. Finché la contesa sull’articolo 18 è arrivata a rubare la scena a quella che era stata annunciata come una priorità. La lotta alla corruzione può attendere. Le proposte in discussione alla Camera, con il rientro dei capitali nascosti all’estero (“voluntary disclosure”) avrebbero potuto far rientrare in Italia una cifra da 1 a 4 miliardi di euro. Ma sono state dapprima amputate, con l’esclusione del reato di autoriciclaggio, rischiando così di essere trasformate nell’ennesimo condono all’italiana; poi sono state bloccate, per dare priorità al testo del governo. Quando questo è arrivato, la settimana scorsa, si è potuto constatare che il reato di autoriciclaggio era stato depotenziato, con l’introduzione di una soglia: non c’è auto-riciclaggio quando il reato presupposto (quello che ha prodotto i soldi sporchi da ripulire) è punibile con una pena inferiore a 5 anni. Vuol dire che, secondo il governo, resteranno fuori reati come la truffa, l’appropriazione indebita, la dichiarazione fiscale infedele, l’elusione fiscale. Scattano le critiche di coloro che avevano lavorato alla formulazione del testo discusso alla Camera, come il magistrato Francesco Greco, ma anche del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
A PIACENZA, sulla corruzione, il presidente del Senato ha lanciato una sua proposta: “Per i fatti più lievi si può eliminare la detenzione e lasciare le pene pecuniarie, le misure patrimoniali, la confisca e poi agire sulle interdittive e sulle inibitorie. E fare in modo che il corrotto o l’azienda che corrompe non lavorino più con la pubblica amministrazione. Se hanno concessioni, queste devono decadere”. Sull’autoriciclaggio: “Oggi se io rubo e ho un profitto dal furto, se me lo consumo, finisce lì, ma se lo nascondo e lo uso per inquinare l’economia, compio un altro reato”: l’autoriciclaggio, appunto.
Sulla riforma della giustizia: “Da magistrato, ho sentito parlare di riforma della giustizia per almeno vent’anni. È venuto il momento di fare una riforma globale. Anche perché il processo oggi è come una corsa a ostacoli”, con la prescrizione che arriva a bloccare la corsa.

il Fatto 30.9.14
Anm replica a Renzi: “Tetto stipendi e ferie, il premier ci calunnia”
Il presidente del Consiglio a 'Che tempo che fa': "Il limite di 240mila euro per loro è attentato alla libertà. E lavorino di più"L'Associazione nazionale magistrati: "Frasi mai dette. Sospensione estiva e produttività non c'entrano"
qui

il Fatto 30.9.14
Anm al premier: “Meno falsità e più rispetto”


“GLI UFFICI giudiziari non chiudono mai e l’Anm non ha mai dichiarato che la riduzione della sospensione feriale e delle ferie sia un attentato ai magistrati”. È questa la replica dell’Associazione nazionale magistrati dopo le parole del premier Renzi alla trasmissione di Fazio “Che tempo che fa”. Durante l’intervista infatti, anche se il tema centrale è stato la riforma del lavoro, Renzi è tornato sul tetto degli stipendi e sulle ferie. E ciò che ha detto, secondo l’associazione guidata da Rodolfo Sabelli, non corrisponde al vero. ”Il numero dei provvedimenti emessi è indipendente dalle ferie godute e la retribuzione media dei magistrati (i 240.000 euro annuali citati dal premier) è enormemente inferiore a quella cifra” prosegue l’Anm che si augura che sul tema sia fatta chiarezza.

il Fatto 30.9.14
Post-sindacalismo
Ecco l’Allegato B. (come Bertinotti)
di Ma. Pa.


Nessuno verrà lasciato indietro: fossero anche solo in sei. Nella confusione di questi tempi può capitare che lo slogan del “conservatorismo compassionevole” si attagli alla perfezione pure a Fausto Bertinotti: stamattina, infatti, l’ufficio di presidenza della Camera voterà una delibera proposta dai Questori che introduce nel cosiddetto “Allegato B” i dipendenti che lavorano con lui nello staff riservato agli ex presidenti della Camera. Succede, infatti, che tra poco l’ex leader comunista perderà il diritto ad avere un ufficio e relativo staff (per un costo massimo di 212 mila euro l’anno) alla Camera e il nostro giustamente si preoccupa del destino dei suoi. L’Allegato B non è proprio il massimo, ma è comunque il bacino preferenziale da cui i gruppi parlamentari prendono i loro dipendenti (hanno degli incentivi economici a farlo). Il compagno Fausto non lascia indietro nessuno.

il Fatto 30.9.14
Violenza sulle donne: uno stupro non può mai avere attenuanti
di Pia Locatelli

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Corriere 30.9.14
Una legge sul sesso nei campus: «Solo se il sì è davvero un sì»
In California una legge invita le università a distinguere dal sesso “disordinato” delle feste dai casi di stupro. Tutto nasce dalla protesta del materasso
di Maria Laura Rodotà

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Repubblica 30.9.14
Chi vuole cementificare l’Italia
La ricetta Lupi per “sbloccare il Paese” è una deregulation che capovolge la gerarchia costituzionale tra pubblico interesse e profitto privato
di Salvatore Settis


IL Lupi non perde né il pelo né il vizio. Anzi conquista il Palazzo, con un governo nominalmente di centro-sinistra, come non era mai riuscito a fare con la destra a cui appartiene. Il suo primo disegno di legge per il governo del territorio conteneva norme intese al «rovesciamento dell’urbanistica, al trasferimento di poteri dal pubblico al privato, all’ingresso formale della rendita immobiliare al tavolo dove si decide, rendendo permanenti le regole della distruzione del Paese avviate con i condoni» (Edoardo Salzano): eppure finì col raccogliere le firme di 147 deputati, allineando Bossi e Bersani, Mussolini e Realacci, Bocchino e Vendola, La Russa e Pecoraro Scanio (III governo Berlusconi, 28 giugno 2005). Arenatasi al Senato con la fine della legislatura, quella proposta fu la prova generale di una concordanza bipartisan per il saccheggio d’Italia, una crociata di cui Maurizio Lupi è da sempre l’apostolo, pronto a saltare su qualsiasi treno pur di coronare il suo sogno. Anche il meritorio disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo, presentato nel 2012 da Mario Catania, ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, diventò in mano a Lupi e ai suoi alleati d’ogni segno (ingenui o complici?) il cavallo di Troia per rilanciare tal quale una concezione del territorio come risorsa passiva, da attivare mediante colate di cemento ( Repubblica, 1 giugno 2013). Ma mentre il ddl Catania, rilanciato all’inizio di questa legislatura, viene ritardato sine die in gara con testi alternativi, il cosiddetto “sblocca Italia” rimette nelle botti del governo il vino vecchio di un Lupi d’annata. Anche se «i benefici della cementificazione sono a breve termine mentre i danni che crea si riverseranno, ampliandosi, sulle generazioni a venire, bruciando il nostro patrimonio territoriale con una politica profondamente miope ed inefficace» (Catania).
La ricetta da Lupi per “sbloccare l’Italia” è una selvaggia deregulation che capovolge la gerarchia costituzionale fra pubblico interesse e profitto privato, e im- bavagliando le Soprintendenze impone agli organi di tutela la santa ubbidienza alle imprese di costruzione. Qualche esempio: l’Ad delle Ferrovie è Commissario per la costruzione di nuove linee ferroviarie, e ogni eventuale dissenso può essere espresso solo aggiungendo «specifiche indicazioni necessarie ai fini dell’assenso », dando per scontato che ogni progetto debba essere sempre e comunque compatibile con la tutela del paesaggio. Quando poi vi sia «motivato dissenso per ragioni di tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, del patrimonio storico-artistico o della tutela della salute e della pubblica inconegoziato lumità», la decisione è rimessa all’arbitrio inappellabile dello stesso Commissario (art. 1). L’autorizzazione paesaggistica viene cancellata all’art. 6, in barba al Codice dei Beni Culturali, per ogni posa di cavi (sottoterra o aerei) per telecomunicazioni; e all’art. 25 viene “semplificata”, cioè di fatto rimossa, per «interventi minori privi di rilevanza paesaggistica», e assoggettata al silenzio-assenso ignorando le sentenze della Corte Costituzionale (26/1996 e 404/1997) secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può aver valore di assenso». L’art. 17 è un inno alla “semplificazione edilizia”, di stampo paleo-berlusconiano: scompare la “denuncia di inizio attività”, sostituita da una “dichiarazione certificata”, di fatto un’autocertificazione insindacabile; e si inventa un “permesso di costruire convenzionato”, vera e propria licenza di uccidere che affida al negoziato fra costruttore e Comune l’intero processo, dalla cessione di aree di proprietà pubblica alle opere di urbanizzazione, peraltro eseguibili per “stralci”, cioè di fatto opzionali. È il trionfo dei “diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica” e delle “quote di edificabilità” commerciabili, che Lupi persegue da anni.
Nel buio di una “larga intesa” a geometria variabile, la direzione è chiara, e ce ne sono altri indizi. Per esempio, la decisione del Governo di ubbidire agli armatori delle grandi navi che deturpano Venezia, ampliando a dismisura il canale di Contorta Sant’Angelo (da 6 a oltre 100 metri, per una lunghezza di 5 km!), con pesantissime conseguenze ambientali. Per esempio, l’imminente intesa con la Regione Puglia per consentire nuovi impianti eolici nonostante il parere negativo della Soprintendenza, accogliendo lo specioso argomento, avanzato dalle ditte interessate, che altri impianti eolici sono già presenti in aree adiacenti (come dire che un nuovo tumore non va curato, se il malato ne aveva già un altro). Anziché affermare, come vuole la Costituzione, la preminenza del pubblico interesse, prevale il con le imprese che privilegia il loro punto di vista, cioè di fatto legalizza il conflitto di interessi e ne fa anzi il motore della politica. Così, mentre il controverso decreto promosso dal ministro Franceschini rimaneggia l’organizzazione del Ministero dei Beni Culturali ridistribuendo competenze tra Musei e Soprintendenze, il vero smontaggio della tutela comincia dall’urbanistica, dal paesaggio e dall’ambiente, all’insegna dell’abdicazione delle istituzioni pubbliche e del disprezzo della Costituzione.
Per governare il territorio la soluzione di legge non è la deregulation, ma il piano paesaggistico coordinato fra Regioni e Ministero, come quello varato in luglio dalla Regione Toscana, oggetto di furibondi attacchi da parte dei titolari della rendita fondiaria ma anche di molte amministrazioni comunali. Ma nulla fa credere che il governo intenda dar corso a questa co-pianificazione. Tutto fa credere invece che Lupi, promosso ministro da Letta e da Renzi per meriti acquisiti in era berlusconiana con l’ideologia della cementificazione, incarni il pensiero dichiarato dal presidente del Consiglio nel suo libro Stil novo ( 2012): «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che? ». Sarà ormai questo il dolce stil novo di un Pd post-costituzionale?

La Stampa 30.9.14
Così l’ospedale Israelitico truffava la Sanità
Cure fantasma, fatture gonfiate e cartelle cliniche manipolate: tra gli indagati anche Mastrapasqua (ex Inps)
di Grazia Longo


All’inizio furono le false fatturazioni per cure odontoiatriche mai realizzate. Oggi ci ritroviamo con biopsie per il cancro al seno e alla tiroide o cure ortopediche lievitate all’inverosimile.
Ben diciassette milioni di euro di rimborsi per oltre duemila fatture gonfiate e prestazioni fantasma. Alla faccia del Sistema sanitario nazionale.
Con nuove accuse di falso e truffa i carabinieri del Nas hanno incastrato dieci persone, tra manager e impiegati, dell’Ospedale Israelitico. A partire dal direttore generale, Antonio Mastrapasqua che, già indagato lo scorso gennaio. dovette dimettersi dall’ancora più importante incarico direttore dell’Inps. In questo secondo filone di indagini, ieri mattina i Nas hanno controllato gli uffici dell’Israelitico, dove si sospetta - come si legge nel decreto di perquisizione firmato dai pm Corrado Fasanelli e Maria Cristina Palaia - che durante una prima verifica dello scorso maggio «si alteravano i luoghi, la destinazione degli ambienti dell’ospedale e delle attività sanitarie svolte in modo da indurre in errore il personale ispettivo». La truffa, proseguono i due magistrati, è pari a «milioni di euro per centinaia di trattamenti sanitari».
I reati contestati ai dieci indagati sono concorso in truffa e falso. I dirigenti «avrebbero attestato falsamente, nella documentazione trasmessa agli uffici della Regione Lazio competenti al pagamento delle prestazioni sanitarie in convenzione con il Ssn, interventi sanitari».
Le irregolarità nei rimborsi riguarderebbero soprattutto i settori di ortopedia, per gli interventi all’alluce valgo, e le prestazioni di assistenza domiciliare integrata e di assistenza domiciliare oncologica. Qualche esempio? Per l’attività di ortopedia sono «state inserite a rimborso come prestazioni di ricovero» prestazioni in realtà effettuate «in regime di day hospital o day surgery, remunerato con 4.629 euro anziché con 2.759 euro e altresì interventi sanitari che avevano riguardato biopsie trans perineali erano stati inseriti a rimborso come prestazioni di ricovero e remunerati rispettivamente 1.459 euro e 1.331 euro invece di 238 euro e 151».
In alcune Asl e presso la Regione Lazio è stata invece acquisita la documentazione necessaria a fare i confronti per smascherare le fatture gonfiate. «Durante la perquisizione nei nostri uffici della sanità - precisano dalla Regione - i carabinieri del Nas hanno acquisito materiali su filoni d’indagine già noti rispetto alla presunta truffa ai danni del servizio sanitario regionale da parte di operatori e responsabili dell’Ospedale Israelitico». E ancora: «I fatti relativi alle fatturazioni al centro dell’inchiesta risalgono al periodo 2006/2009. Gli uffici regionali sono a disposizione della forze dell’ordine per facilitare il loro lavoro e quello della magistratura».
Tra il 2006 e il 2009 la richiesta di rimborsi alla Regione Lazio per interventi taroccati da parte dell’Ospedale Israelitico riguardava la stragrande maggioranza dei casi: il 94% delle migliaia di cartelle cliniche esaminate. La Regione Lazio governata da Nicola Zingaretti perciò sospese il pagamento di 15,5 milioni di euro di fatture alla struttura e congelò i due protocolli d’intesa che la vecchia amministrazione aveva stipulato con la struttura nel 2011 e nel 2012.
Intanto la difesa di Mastrapasqua precisa che «i Nas non hanno riscontrato alcuna anomalia o alterazione dei luoghi. I fatti che gli vengono contestati non afferiscono alle sue mansioni di direttore generale, ma rientrano tipicamente nelle responsabilità e nelle competenze del comparto sanitario».

il Fatto 30.9.14
Turchia: vietati tatuaggi e trucco

ll governo di Erdogan ha emanato alcuni provvedimenti per regolare l’estetica dei giovani turchi. Vietati tatuaggi e trucco per le ragazze, ma sì al velo a scuola dai 10 anni in su. Per i maschi niente barba, baffi, piercing o tintura dei capelli. Obbligo per tutti: il volto scoperto. Ansa

il Fatto 30.9.14
Ucraina: abbattuta la statua di Lenin

Alcune centinaia di militanti nazionalisti hanno abbattuto la più grande statua di Lenin presente nel Paese, nella piazza centrale di Kharkiv, seconda città ucraina. Intanto infuria la battaglia a Donetsk con i filorussi, nonostante la tregua: 12 le vittime registrate nelle ultime ore. LaPresse

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Repubblica 30.9.14
Messico: dopo protesta repressa dalla polizia, scomparsi 57 studenti

qui e qui

il Fatto 30.9.14
Iran, uccise a coltellate il suo stupratore. 26enne rischia di essere impiccata

Solo quest’anno sono 550 le persone giustiziate nel Paese, ricorda Iran Human Rights
qui


La Stampa 30.9.14
Onu, il presidente della Repubblica islamica Rohani apre a Renzi
"Italia interlocutore privilegiato dell'Iran"
di F. Semprini

qui

Corriere 30.9.14
Ombrelli, libri, libertà I ragazzi della rivoluzione
di Guido Santevecchi


HONG KONG Quando scende la notte, alla curva della sopraelevata, a Cotton Tree Drive, i ragazzi rimettono le mantelline di cellophane, gli occhialoni, le mascherine. E cominciano ad allineare gli ombrelli aperti davanti alla barricata che blocca la strada e decine di altri incroci nel centro di Hong Kong. La città è paralizzata per il secondo giorno di seguito dalla protesta contro la legge elettorale disegnata da Pechino per rendere una farsa il voto a suffragio universale promesso per il 2017.
Quegli ombrelli, usati per proteggersi dagli spray urticanti della polizia, sono diventati il simbolo del movimento democratico. La stanno già chiamando la Rivoluzione degli ombrelli. Max, un ragazzo alto e magro, 22 anni, mi passa una mascherina: «Meglio metterla, domenica ci hanno attaccato proprio a quest’ora, con il buio». Max studia al Politecnico, accanto a lui una ragazzina, lui le dà una carezza sui capelli. «Ci siamo trovati proprio in mezzo ai lacrimogeni, è stato un attimo, non si riusciva a respirare, una cosa davvero brutta».
Il secondo giorno della rivolta di Hong Kong è cominciato alle 6.30 con l’alzabandiera della Repubblica Popolare a Admiralty, nome ereditato dall’ammiragliato coloniale britannico. I ragazzi rimasti per tutta la notte dopo la battaglia di domenica hanno fischiato e fatto gestacci. Poi hanno riso, perché nella fretta gli addetti hanno issato lo stendardo rosso al contrario, con la corona di stelle rivolta verso il basso. Segno di insicurezza. Un altro segnale di ansia, forse il più importante finora, è la cancellazione dei grandi fuochi d’artificio previsti in città per domani, Primo ottobre, il giorno della festa nazionale cinese. Il comando di polizia ha anche deciso di ritirare i suoi uomini in tenuta antisommossa: fino a notte non si sono visti i loro elmetti integrali in giro. Solo poliziotti in camicia e berretto.
Forse le autorità di Hong Kong, nonostante la durezza di Pechino che ha dichiarato ogni assembramento nel territorio illegale e da reprimere e i manifestanti estremisti, si sono rese conto che la linea dura non ha pagato. Anzi. Ieri il numero dei ragazzi in strada è cresciuto di molto: decine e decine di migliaia, rumorosi e ordinati. In Cina la gente non lo sa, perché è calata la censura e anche i social network come Instagram sono stati bloccati per cancellare le immagini della rivolta.
È un fiume grosso e nero quello che abbiamo visto nel centro di Hong Kong. La superstrada Harcourt Road che taglia il centro è occupata per tre o quattro chilometri dai ragazzi in maglietta nera, nastro giallo appuntato sul petto o legato al polso. Solo qui saranno diecimila, si fa fatica a risalirlo. Di fatto la city è pedonalizzata, per forza. Chiusa Queensway, irraggiungibili in auto Central, Admiralty, Causeway Bay, blocchi anche dall’altra parte della baia, a Kowloon. I ragazzi dei licei e delle università hanno facce pulite. Offrono mascherine, ombrelli, carta igienica, acqua, frutta, merendine. Ci sono centri di distribuzione del materiale utile a sostenere l’assedio. Circolano anche bustine di cerotti antifebbre, perché qui è estate, ci sono più di 30 gradi appiccicosi.
Le strade sono rimaste pulite perché i giovani si sono organizzati e fanno la raccolta dei rifiuti, con metodo, differenziata tra bottiglie di plastica, cartacce, cellophane. Chan Ho Wun, 18 anni, orecchino a pipistrello, grida al megafono. Che cosa? «Passo i messaggi che arrivano dal fondo dello schieramento». Domenica notte gli anziani di Occupy Central vi hanno chiesto di andare a casa, perché siete ancora qui? «L’altra notte era giusto ritirarci, si era fatto troppo pericoloso, ma oggi è giusto essere tornati in tanti».
Cheng Lili ha 13 anni, va alle medie. «Ieri non c’ero, sono venuta oggi perché hanno picchiato i compagni, non possiamo lasciarli soli». Hai boicottato la scuola? «No. È chiusa, è impossibile arrivarci con i mezzi». Accanto c’è una signora. «Sono la mamma». E lei porta sua figlia piccola qui? «Deve imparare ad essere una brava cittadina, consapevole dei suoi diritti». Un’altra donna seduta sul guardrail urla: «Abbasso il Partito comunista, banda di oppressori». Spieghiamo a uno studente: il governo non cederà. «Non è detto, e comunque vogliamo che la Cina e il mondo sappiano che vogliamo la democrazia».
In un posto di raccolta dei rifiuti c’è Chung Lin, 23 anni, laureata. Con i guanti bianchi divide il cartone dalla plastica. «Ero in piazza domenica. Certo che ho avuto paura quando hanno cominciato a tirare i lacrimogeni. Sono scappata, ma ora siamo di più, abbiamo la forza del popolo». Ed è finita a fare la netturbina. «Sono volontaria, puliamo per preservare la nostra città». Matthew ha 17 anni e sotto il braccio un mazzo di parapioggia-paraspray al pepe. Sapete che la chiamano Rivoluzione degli ombrelli? Vi piace la sigla? «Non lo sapevo, ma forse va bene, se la usano i giornali». E la parola rivoluzione vi spaventa? «No. Ed è solo l’inizio».
Il reparto vivandiere. Wong, una diciottenne in carne, offre merendine e succhi di frutta. Chi vi ha dato tutta questa roba? «Qualcuno ricco, ma nessuno ci usa, abbiamo coscienza di quello che facciamo». Hai avuto paura? «Ci sono stati diversi feriti l’altra notte, non è giusto, eravamo disarmati e la polizia ci ha attaccato», scoppia a piangere. All’angolo ci sono «i cattivi», i poliziotti. Il n° di matricola 25188: «Siamo stati in strada venti ore in due giorni, siamo stanchi». Al capopattuglia, il n° 51611, chiediamo se si rende conto che sono ragazzi come loro quelli che hanno inseguito per le strade: «Signore, io non faccio politica, mi hanno ordinato di mantenere pace e ordine e lo faccio, senza cattiveria».
Cala la sera. Seduto a terra un universitario legge una dispensa di contabilità. Poco più in là due bambine con la divisa bianca e fascia rosa del college Ho Lap. In fronte si sono appiccicate due pezzette rinfrescanti. Non siete troppo piccole? «Non ci fotografate, a casa non lo sanno». Dietro la barricata, nella postazione di Cotton Tree Drive, un gruppetto di ragazze più grandi. Ombrellini pronti. «Vedete i lampeggianti della polizia dietro la curva? Forse ora arrivano. Ieri per cinque minuti quando hanno tirato i lacrimogeni non si poteva respirare». Si sentono le sirene. Meglio mettere la mascherina che ci ha passato Max.

La Stampa 30.9.14
Con gli ombrelli contro il Golia cinese
Sono il simbolo della protesta per la democrazia, ieri in piazza anche i cardinali. Gli Usa: solidarietà alla popolazione
di Ilaria Maria Sala


Hong Kong è paralizzata e la protesta non fa che crescere, richiamando di ora in ora nuovi sostenitori che si oppongono al sistema elettorale imposto da Pechino e chiedono un suffragio «libero e universale».
Decine di migliaia di manifestanti hanno bloccato le principali strade dell’ex colonia britannica e la notte di guerriglia combattuta dalla polizia con gas lacrimogeni, spray al pepe e manganelli non è bastata a disperdere la folla. Ieri duecento linee di autobus sono state bloccate o deviate, il traffico interrotto, la metropolitana chiusa, molte scuole hanno sospeso le lezioni, alcune banche e uffici non hanno aperto.
«Vogliamo solo la democrazia, staremo qui finché il governo non ci darà risposte», dicono due giovanissimi volontari che distribuiscono acqua, frutta e biscotti ai partecipanti alla protesta. In molti hanno deciso di scendere in piazza dopo che la polizia ha iniziato a sparare lacrimogeni e pallottole di gomma contro le manifestazioni pacifiche. «È incredibile quante persone sono uscite… qui a Mongkok ci sono tutti: tanto i camionisti che i gestori dei ristoranti dove vanno a mangiare, i meccanici, la classe media. Insomma, tutti: la violenza della polizia ha fatto infuriare chi non avrebbe mai partecipato a una manifestazione», dice Cheung Kit, manifestante. «Tutti dicono la stessa cosa: questi comportamenti violenti non corrispondono a Hong Kong. Questa non può essere la nostra Hong Kong», aggiunge, e porta la figlia di sei anni a passeggiare per le strade per «una lezione di educazione civica».
E mentre la Cina intima di non interferire negli affari interni agli Stati Uniti - che hanno chiesto «moderazione» e, con il portavoce della Casa Bianca hanno espresso «solidarietà alla popolazione» - si moltiplicano le manifestazioni di sostegno in tutto il mondo. Ieri perfino i cardinali cattolici sono scesi in piazza e ora Pechino si trova ad affrontare una delle sfide politiche più impegnative da piazza Tiananmen, 25 anni fa.
In un estremo tentativo di sedare gli animi, l’esecutivo ha annunciato il ritiro degli agenti in assetto anti-sommossa dalle strade, ma è stato costretto a cancellare le celebrazioni in programma per domani, giornata di festa nazionale.
E mentre rimbalzano su tutti i giornali le immagini del rispetto che i dimostranti mostrano per le regole – raccolgono la spazzatura e la separano per il riciclaggio, non calpestano le aiuole, non saccheggiano negozi, rompono vetrine o bruciano auto e cassonetti – la protesta che attraversa tutti gli strati sociali della penisola da ieri ha un nome e un simbolo, adottato immediatamente dai manifestanti e rimbalzato online su tutti i social: «The Umbrella Revolution», la rivoluzione dell’ombrello. Gli ombrelli, ottimi per proteggersi dal sole cocente dell’estate di Hong Kong (o dalle frequenti piogge) sono diventati l’accessorio indispensabile dei ragazzi che stanno bloccando il centro per proteggersi dai lacrimogeni e dagli spray urticanti e simbolo stesso del movimento di disobbedienza democratica.
La stampa locale di ieri era piena delle immagini sconvolgenti dei dimostranti con gli occhialini da piscina e il cellophane sul viso per proteggersi dai gas, e della polizia in tenuta anti-sommossa. «Apple Daily», il quotidiano di Jimmy Lai, l’uomo d’affari che più di tutti ha sostenuto la battaglia pro-democrazia di Hong Kong, era tutto esaurito dalle sette di mattina, con in prima pagina i fumi dei lacrimogeni e un titolo a caratteri cubitali: “Ingiustificabile». Il «Wen Hui Pao», invece, il principale quotidiano pro-Pechino della città, sceglie la linea «neutra» e titola «Caos a Hong Kong». Ma è quasi l’unico: i moderati non concepiscono che questa pacifica città con pacifici dimostranti sia divenuta per una notte un campo di battaglia.

La Stampa 30.9.14
Folla in piazza e strade bloccate? Per Pechino “è la festa nazionale”
Censurati giornali e Internet. I cortei passano in tv come celebrazioni
di I. M. S.


Davanti agli avvenimenti imprevisti i media cinesi, e il governo che rappresentano, hanno sempre un inizio lento, alla ricerca della linea ufficiale da seguire. Così, la copertura delle manifestazioni a Hong Kong dagli organi di informazione in Cina è surreale.
Non si può certo ammettere pubblicamente che Hong Kong stia lottando per il suffragio universale e tanto meno che vorrebbe «democrazia». È inammissibile anche mostrare che la regione amministrata da Pechino osi lanciare una sfida così aperta alle autorità locali e nazionali. Così i media sono «costretti» a soluzioni alternative.
In televisione, per esempio, l’annunciatrice, con un completo arancione davanti alle immagini di una folla che cammina, domenica ha detto sorridendo che «la gente di Hong Kong è uscita per le strade per celebrare la giornata nazionale del 1° ottobre», con una scritta in sovrimpressione che diceva che «Hong Kong sostiene il programma di riforme elettorali annunciato dal governo». Un universo parallelo, la cui finzione può essere mantenuta in vita solo con una strategia censoria raddoppiata: per due giorni infatti gli utilizzatori cinesi di Instagram si sono trovati nell’incapacità di accedere ai loro account, dato che il servizio ora è inaccessibile come lo sono Twitter, Facebook e YouTube, fra gli altri.
Ma non basta: una direttiva governativa inviata ai provider di Internet intima di eliminare dalla rete tutto quello che riguarda Hong Kong.
Chi ha un abbonamento a un Vpn (network privati per «scavalcare» il muro di censura, tecnicamente illegali in Cina ma piuttosto diffusi) denuncia invece che in questi giorni la connessione sia molto lenta e intermittente.
Il «Quotidiano del Popolo» in un editoriale, ha dato per ora le prime indicazioni su come il governo centrale intenda affrontare le proteste: di nuovo, accusa un «piccolo gruppo di estremisti e forze straniere ostili» (fra cui mette anche la stampa estera e Twitter) di aver plagiato gli studenti. Ovviamente neanche una riga sulla massa di persone che ieri era in piazza per difendere non solo la democrazia, ma lo stile di vita stesso di Hong Kong.
Il problema, per Pechino, si fa urgente: domani, festa nazionale, coincide con una settimana di vacanza che milioni di cinesi passano abitualmente a Hong Kong. E se chiudere la frontiera (tutt’ora esistente) è impensabile, l’idea di mostrare ai propri cittadini migliaia di dimostranti pacifici che chiedono libertà e democrazia è altrettanto inquietante. Per questo, ora che la violenza si è rivelata controproducente, si prova con le maniere più dolci cercando di convincere «Occupy Central» a tornare a casa.
[i. m. s.]

il Fatto 30.9.14
Hong Kong bloccata per ‘Occupy Central’: perché questa città è davvero speciale
di Valentina Giannella

qui

il Fatto 30.9.14
Cina
Benny, il prof che guida la rivolta degli ombrelli
“Non solo Occupy Central, siamo in tutte le strade di Honk Kong” dice il docente
Un collega agli studenti: “Ritiratevi solo se la polizia spara”
di  C.A.G.


Pechino La chiamano già “la rivoluzione degli ombrelli”, gli ombrelli che le persone hanno lasciato accanto agli studenti per ripararli dal sole. Gli stessi che questi hanno usato per ripararsi dai lacrimogeni. Stando a un comunicato ufficiale, domenica la polizia se ne è servita 87 volte. E il giorno seguente, dopo aver appurato che 46 persone erano finite all’ospedale, ha deciso di ammorbidire il suo approccio. Una linea non dissimile da quella che si legge sul più importante quotidiano di Partito, il Global Times. “La Cina non è la stessa nazione che era 25 anni fa [quando ha mosso i carri armati per sgomberare con la forza piazza Tien an men]... Oggi il paese ha un approccio più flessibile nel gestire i disordini”.
LA GIORNATA di lunedì è stata meno accesa della precedente. Ma importante. Il sostegno alla protesta è cresciuto in maniera sostanziale. Un migliaio di lavoratori è entrato in sciopero per solidarietà ai manifestanti. Diverse filiali bancarie non hanno aperto e la Borsa ha chiuso perdendo l'1,9. L'autorità monetaria, di fatto la Banca centrale della città, si è dichiarata pronta “a iniettare liquidità nel sistema bancario qualora si rendesse necessario”. I negozi hanno chiuso prima e nella notte è stato annunciato che il 30 le scuole rimarranno chiuse. “Dicevamo Occupy Central, e invece il popolo di Hong Kong è riuscito a occupare anche Admiralty, Causeway Bay e Mongkok” ha detto Benny Tai, il professore di Legge che si è erto a voce di Occupy, arringando la folla. E intanto i presenti scandivano slogan che chiedevano le dimissioni del governatore Leung e un vero suffragio universale. Uno degli altri personaggi di spicco del movimento, il professore di Sociologia Chan Kin-man, ha invitato i manifestanti a resistere e a ritirarsi solo nel caso in cui la polizia usi armi che possano seriamente ferirli.
MA C'È DA NOTARE che le dichiarazioni, le voci singole che vengono dal movimento, appartengono tutte ai promotori di Occupy. Gli studenti, che hanno dato origine alle manifestazioni, non hanno un leader identificabile. Sono in molti a prendere parola e non si capisce chi decide il nuovo obiettivo o la prossima meta. Sono giovanissimi, alcuni non ancora maggiorenni, e si organizzano online attraverso tutte le tecnologie web che, da sempre, sono abituati abituati a usare in maniera completamente libera. Non come i loro coetanei della Repubblica popolare.
È difficile prevedere come finirà il braccio di ferro tra Pechino e l'ex colonia britannica. Le tensioni dovrebbero raggiungere l'apice il primo ottobre, 65esimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare. “Gli Stati Uniti sostengono le aspirazioni della popolazione di Hong Kong e seguono da molto vicino gli sviluppi della situazione”, ha detto Josh Earnest, portavoce del presidente Barack Obama. Pechino non ha gradito: “Non vi immischiate” perché le proteste sono una questione interna. Di certo siamo ad un punto di svolta nelle richieste di Hong Kong per la democrazia. Per anni gli hongkonghesi hanno evitato un confronto diretto con Pechino nella speranza che le autorità cinesi si persuadessero a lasciargli uno spazio di autogoverno. Ora hanno realizzato che la loro unica strada per ottenere la democrazia è quella di chiederla. Alzando la voce.

Repubblica 30.9.14
Richard McGregor:
“Il governo non è disposto a cedere ma vuole evitare gli errori del passato”
intervista di Alessandra Baduel


«PECHINO non ha gli strumenti per agire, sono palesemente in grandi difficoltà. Non so come andrà, ma so che al momento la Cina ha bisogno di muoversi con diplomazia. Perché non sono lontane le elezioni a Taiwan e perché avrà in casa il vertice Apec a novembre». Richard McGregor conosce bene il Partito comunista cinese, il suo “The Party” nel 2010 ne ha spiegato molti segreti. Sulla protesta di Hong Kong, vede più difficoltà che soluzioni. E precisa: «Loro non sarebbero certo contenti di rifare l’errore di Tienanmen».
McGregor, quali strumenti mancano?
«Servirebbe un bravo politico, capace di andare a parlare con i giovani e convincerli a tornare a casa anche senza fare grandi concessioni. Ma non c’è».
Come andrà ora, con l’anniversario della nascita della Repubblica popolare cinese alle porte, il primo ottobre?
«Forse gli studenti arriveranno a liberarsi di Chun-ying, ma certo a Pechino non sono abituati ai compromessi».
Siamo a 25 anni da Tienanmen, crede che il Partito ci stia pensando?
«Certo. Anche se non si sono mai scusati di quel che fecero, sanno che fu un grande errore».
Arriveranno a un intervento diretto?
«Stanno chiaramente dibattendo sul tema, indecisi. A inizio 2016 ci saranno le elezioni a Taiwan, dove sono già per metà favorevoli all’indipendenza dalla Cina. In più, fra 40 giorni a Pechino c’è l’incontro dei 21 leader dell’Asia-Pacific Economic Cooperation. I cinesi lo stanno preparando con gesti di pacificazione anche verso il Giappone. Non hanno bisogno di tensioni».
Crede che le proteste di Hong Kong arriveranno in Cina?
«Se ci sarà violenza contro chi è in piazza, è possibile. Altrimenti non credo».
Siamo davanti a un esempio di come il capitalismo da solo non arrivi a creare democrazia?
«Per ora è così, ma le giovani generazioni stanno crescendo. È presto per dirlo».
 
il Fatto 30.9.14
Confucio, strategia del sapere per “ammorbidire” i nemici
Gli istituti finanziati dal regime veicolano nel mondo la voce di Pechino
Il denaro viene elargito sulla base dei progetti presentati dagli Istituti Confucio, organizzazioni no profit che hanno aperto in tutto il pianeta e che sono sponsorizzate e dirette dall'Hanban, ufficio per la promozione della lingua cinese direttamente collegato al ministero dell'Istruzione
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Oltre 200 milioni di euro solo nel 2013. Contro i 144 dell'anno precedente e i 120 del 2011. Nel 2006, il budget era di appena un sesto. Come il prodotto interno lordo della nazione più popolosa del mondo, le spese della Repubblica popolare per la diffusione della sua lingua e cultura sono cresciuti a ritmi impressionanti. Il denaro viene elargito sulla base dei progetti presentati dagli Istituti Confucio, organizzazioni no profit che hanno aperto in tutto il pianeta e che sono sponsorizzate e dirette dall'Hanban, ufficio per la promozione della lingua cinese direttamente collegato al ministero dell'Istruzione.
Un'avventura iniziata 10 anni fa. Era il 2004 quando il primo Istituto Confucio ha aperto a Seul, Corea del Sud. Si volevano diffondere la lingua e la cultura cinese in maniera non dissimile da quanto fanno il British Council, il Goethe Institut o la Società Dante Alighieri. Solo che i Confucio sono molto spesso frutto di accordi bilaterali tra università cinesi e straniere. E quindi nascono e crescono all’interno degli ambienti accademici. Oggi ce ne sono 465 in 123 nazioni per un totale di 850mila alunni. Delle 200 università migliori al mondo, 88 hanno già aperto un Istituto Confucio. Ogni volta che Xi Jinping firma un accordo commerciale con altre nazioni, questo include l'apertura di un Confucio. I casi più recenti sono quelli sudamericani: Brasile e Cile.
“È un problema di brand”, ci spiega Federico Masini, prorettore dell'Università La Sapienza e direttore dell'Istituto Confucio di Roma. “Se un governo spende così tanto per la promozione culturale evidentemente vuole migliorarne l'immagine. Ed è comprensibile che questo sforzo sia più forte in quei paesi dove la politica economica cinese diventa più presente”.
Solo in Italia l'Hanban spende centinaia di migliaia di euro. Ristruttura le aule, paga gli insegnanti, i convegni, le pubblicazioni e gli eventi che ritiene possano dar lustro alla propria cultura millenaria. Il Partito ne è entusiasta. A giugno Liu Yunshan, che occupa una delle poltrone più importanti del vasto apparato di propaganda della Repubblica popolare, ha dichiarato che gli Istituti “hanno fatto la loro comparsa al momento giusto” e li ha descritti come “un treno della spiritualità ad alta velocità” atto a congiungere “il sogno cinese” con quelli del resto del mondo.
I soldi fanno comodo a tutti, ma non tutti la pensano allo stesso modo. È da un paio d’anni che negli Usa le critiche si fanno sempre più feroci. A inizio 2014 un centinaio di membri della facoltà di cinese dell'Università di Chicago si sono formalmente lamentati del fatto che l'apertura dell'Istituto Confucio aveva compromesso l'integrità accademica. Il professore Marshall Sahlins sulla rivista Nation ha elencato una serie di casi in cui le università hanno evitato di toccare temi “sensibili” per la politica cinese, o evitato di invitare il Dalai Lama nel campus. Anche per evitare tali situazioni “l'Istituto Confucio non entra nella didattica ufficiale dei nostri corsi universitari” sottolinea Alessandra Lavagnino, direttrice dell'Istituto Confucio di Milano.
Ad agosto l'Associazione europea per gli studi cinesi ha denunciato la censura del materiale accademico distribuito durante la conferenza di studi sinologici che si svolge ogni due anni. Come si legge sul rapporto dell'Associazione, chi è arrivato il primo giorno non s’è accorto di nulla, ma tutti quelli che hanno ricevuto il materiale dopo hanno notato che c'erano due pagine strappate.
COS'ERA SUCCESSO? Nel frattempo era arrivata Xu Lin, direttrice del quartier generale di Pechino degli Istituti Confucio. Aveva sponsorizzato l'evento e non era soddisfatta dello spazio riservata al logo del Confucio. Tanto più che c'era anche quello del corrispettivo taiwanese: la Fondazione Chiang Ching-kuo. Dopo una negoziazione con gli organizzatori, s’è deciso di requisire il materiale ed eliminare le pagine incriminate prima di redistribuirlo tra il pubblico.
Ci sono temi che in Cina rimangono tabù. Taiwan è ancora oggi descritta come “l'isola più grande della Cina”, ed è bene evitare di menzionare gli argomenti che Pechino ha destinato all'oblio. Tian'anmen, l'indipendenza del Tibet o il Falun Gong. Paolo De Troia, che ha diretto l'Istituto Confucio di Roma dal 2011 al 2014 ed è oggi visiting professor all'Università di Pechino, ci spiega come “anche se non è una regola, è probabile che nessuno chieda fondi all'Hanban per trattare quelle che Pechino considera ‘tematiche sensibili’”. “Ma – ci tiene a sottolineare il professor Masini – non ci sono argomenti che sono esplicitamente tabù. Su questi temi certo c'è una sorta di autocensura, ma altre pressioni non ne ho mai ricevute”. “La Cina vorrebbe intraprendere un percorso simile a quello del Giappone nel secondo dopoguerra” aggiunge Masini. “Una nazione invisa all'Occidente che ha riconquistato il consenso attraverso i film di Kurosawa, la tradizione dell'ikebana e dei bonsai. Forse la strada è ancora lunga, ma il tentativo è quello”. D'altronde lo stesso Li Changchun, predecessore di Liu Yunshan, ha definito gli Istituti Confucio “una parte importante dell'apparato di propaganda cinese all'estero”. E il termine “propaganda” (xuanchuan) significa anche “pubblicità” e indica la attività stessa dell'ufficio stampa.

Corriere 30.9.14
Isis, Contro l’odio Le armi non bastano
di Massimo Nava


Criminali fanatici, assassini feroci. Tutto si può dire dei guerriglieri dell’Isis, fuorché siano anche stupidi. Eppure le loro azioni barbare hanno innescato conseguenze politiche e militari apparentemente contrarie ai loro obiettivi e in qualche misura auspicabili per l’Occidente e per i Paesi arabi e musulmani.
La comune minaccia rafforza i legami fra Stati Uniti ed Europa, riduce le tensioni con la Russia, apre margini di dialogo con l’Iran, legittima dopo anni di repressione/ibernazione il nazionalismo curdo, obbliga i Paesi arabi a uscire da colpevoli complicità con il terrorismo e i gruppi radicali, rompe canali di finanziamenti e doppi giochi, avvia la stabilizzazione dell’Iraq, prospetta relazioni meno tese fra sciiti e sunniti. In questa variegata convergenza d’interessi, si è inserito anche il traballante regime siriano, che spera così di allontanare la propria caduta e la dissoluzione del Paese, magari tornando a rappresentare un argine all’estremismo religioso: una dittatura, ma laica.
Dunque, votati alla sconfitta, data l’evidente sproporzione delle forze in campo? Dunque anche stupidi? La domanda è ovviamente paradossale. Qual è allora il vero obiettivo? Siamo di fronte a un progetto di lunga durata che mira ad ampliare il solco fra società occidentali e mondo arabo musulmano e a devastare dall’interno entrambi, invelenendo rapporti commerciali, relazioni personali, scambi culturali e strumentalizzando il fattore religioso. La disumanità delle azioni provoca una condanna unanime nell’immediato, ma alimenta un capillare scontro di culture, religioni e civilizzazione. È un progetto basato su una ricomposizione territoriale e «istituzionalizzata» del terrorismo — sovranazionale ed estesa alla galassia di cellule, aree geografiche e milizie volontarie provenienti dall’Europa.
L’inferiorità militare conta poco, se la guerra si svolge anche sul terreno del proselitismo, della propagazione dell’odio, sulla paura quotidiana dell’attentato imprevedibile, sull’inquietudine di milioni di cittadini occidentali che prendono ogni giorno la metropolitana. L’attacco è al cuore dei nostri Paesi e delle nostre città, dove però vivono anche decine di milioni di musulmani. Lo scontro diventa ad armi pari, se la comunicazione globale è a disposizione di tutti e la rete favorisce l’amplificazione del messaggio terroristico.
Siamo costretti a combattere una guerra mondiale, come ha detto papa Francesco, legittimando la necessità di non restare inermi spettatori di orrori e violenze. Ma più precisamente, dopo gli interventi in Afghanistan e Iraq, abbiamo cominciato la terza guerra al terrorismo di matrice islamica e antioccidentale. Rispetto alle prime due, con una più forte legittimità politica, in quanto anche Paesi arabi fanno parte dell’alleanza occidentale.
Ma ogni intervento militare provoca danni collaterali. Anche i guerriglieri hanno mogli e figli. La contabilità delle vittime innescherà odio, senso di appartenenza, desiderio di vendetta. Provocando la reazione dell’Occidente, sembra così raggiunto il primo obiettivo di essere riconosciuti come unico e terribile nemico che tenterà di attirare alla «causa» finanziamenti, volontari, armi.
Inoltre, l’orrore delle esecuzioni innesca nelle nostre società un profondo rigetto per tutto ciò che evoca l’islam, con evidenti rischi di derive xenofobe e razziste. C’è una terribile miscela di sentimenti contrapposti verso quanti sbarcano sulle nostre coste: solidarietà perché arrivano, inquietudine per «da dove» arrivano.
È un dato di fatto che migliaia di guerriglieri sono giovani partiti dalle nostre città, cresciuti nelle periferie di seconda e terza immigrazione dove la propaganda fanatica è pane quotidiano.
È un dato di fatto che la proliferazione dell’estremismo è anche un portato della crisi in cui sono precipitati i popoli del Maghreb, dopo l’illusione delle «primavere», della spallata a regimi e dittature cui non è seguita una politica del Mediterraneo basata sulla cooperazione e lo sviluppo. Gli orrori dell’Isis obbligano quindi le società occidentali a una forte presa di coscienza sull’insieme dei rapporti con il mondo arabo/musulmano. Senza chiusure, ma senza sconti. Occorrono strategie ben più profonde e globali di un intervento militare che potrebbe portare a una facile vittoria sul campo, ma inutile se non verranno estirpati i germi che hanno creato il mostro.

Corriere 30.9.14
Il laboratorio nave negriera
Strumento della tratta degli schiavib ma anche incubatrice della modernità
di Paolo Mieli


Un microcosmo in cui regnavano la violenza e la sopraffazione Esce in libreria dopodomani, giovedì 2 ottobre, il saggio dello storico americano Marcus Rediker La nave negriera (traduzione di Francesco Francis, Il Mulino, pagine 464, e 36), che analizza a fondo il microcosmo costituito dalle imbarcazioni che trasportavano gli schiavi neri dall’Africa alle Americhe. Docente di Storia atlantica all’Università di Pittsburgh, Rediker ha pubblicato diversi volumi tradotti nel nostro Paese, tra cui Canaglie di tutto il mondo unitevi. L’epoca d’oro della pirateria (Elèuthera, 2005) e
La ribellione dell’Amistad (Feltrinelli, 2013). Sul tema specifico del traffico di esseri umani attraverso l’Oceano Atlantico, Il Mulino ha pubblicato negli scorsi anni
il libro di Olivier Pétré-Grenouilleau La tratta degli schiavi (2010) e quello di Lisa Lindsay Il commercio degli schiavi (2011).

Il 25 agosto del 1775, quando i marinai di Liverpool avevano appena finito di attrezzare la nave «Derby» in preparazione di un viaggio alla volta dell’Angola (per trasportare schiavi dalla costa africana alla Giamaica), il comandante, Lucas Mann, annunciò che avrebbe ridotto la paga mensile da trenta a venti scellini. Tanto, disse, «di manodopera ce n’è quanta ne voglio». Per reazione i marinai sciolsero il cordame e lo lasciarono sul ponte in un ammasso aggrovigliato. L’armatore, Thomas Yates, chiamò le guardie che arrestarono nove ribelli e un giudice li condannò all’istante. A questo punto sul molo si radunò una folla decisa a liberare i «fratelli marinai». Ci riuscirono. Di lì ebbe origine una nuova forma di protesta, che presto si sarebbe trasformata in una vera e propria insurrezione. Liberati i loro compagni, i marinai si dedicarono a disattrezzare le navi dell’intero porto. Si diressero poi al quartier generale dei mercanti per avanzare la richiesta che si tornasse alla paga di sempre. Dal Mercantile Exchange furono esplosi dei colpi e alcuni lavoratori del mare restarono uccisi sul selciato. I loro «fratelli» risposero colpendo l’edificio con proiettili dei cannoni presi dalle navi. Non solo. I rivoltosi marciarono compatti dietro George Oliver che portava il bloody flag , la bandiera rossa che nel codice dei pirati annunciava la loro intenzione di non chiedere né dare quartiere: sarebbe stata, la loro, una battaglia all’ultimo sangue. Liverpool ammutolì terrorizzata. La rivolta durò una settimana, finché fu domata dal reggimento di lord Penbroke che, dopo aver marciato una notte intera da Manchester sotto la pioggia, si presentò in una città stremata, riuscendo in poche ore ad aver ragione dei ribelli. Nacque in quei giorni quello che oggi chiamiamo sciopero e che in inglese prende il nome ( strike ) proprio dall’azione compiuta dai marinai di «abbattere» le vele delle navi. Non tutte le navi, però. Solo quelle impegnate nel commercio di schiavi.
A questo genere di imbarcazioni è dedicato il libro La nave negriera di Marcus Rediker, in uscita dal Mulino. Su quei velieri per quattro secoli circa — dalla fine del XV alla seconda metà del XIX — viaggiarono da una parte all’altra dell’Atlantico, in quello che venne definito il «passaggio di mezzo», 12 milioni di neri deportati, due terzi dei quali tra il 1700 e il 1808. Con una quantità impressionante di morti: un milione e mezzo. Ai quali se ne deve aggiungere un numero ancora più imponente (un milione e 800 mila) di deceduti nel corso del viaggio che li aveva trasportati dalle zone interne dell’Africa a quelle costiere. Più 750 mila trapassati durante il primo anno di lavoro nel Nuovo Mondo. Per un totale di oltre quattro milioni. Una mostruosità che ha fin qui offuscato il ruolo che ebbe la protagonista di questo libro, la nave, che pure è stata un elemento fondamentale del passaggio alla modernità.
La nave negriera, rileva Rediker, «è stata un argomento trascurato nella letteratura storica sul traffico atlantico di schiavi». Sono state condotte «eccellenti ricerche sull’origine, sulla distribuzione nel tempo, sui volumi, sui flussi e sui profitti della tratta degli schiavi, ma non esistono studi sufficientemente ampi sulla nave che aveva reso possibile un commercio destinato a trasformare il mondo: non esistono analisi dei meccanismi della più grande migrazione forzata della storia, che sotto molti aspetti fu il punto chiave di un’intera fase della globalizzazione; non esistono studi sullo strumento che spianò la strada alla “rivoluzione commerciale” dell’Europa, alla creazione delle sue piantagioni e dei suoi imperi globali, allo sviluppo del suo capitalismo e per finire alla sua industrializzazione». In breve, «la nave negriera e le relazioni sociali al suo interno hanno dato forma al mondo moderno» ed è giunto il momento di renderne conto. Quel vascello, scrive Rediker, «è un fantasma che naviga ai margini della coscienza moderna». Esso fu «uno dei cardini su cui ruotava il sistema atlantico di capitale e lavoro che si stava rapidamente affermando e che coinvolgeva lavoratori liberi, non liberi e in condizioni intermedie, nelle società capitalistiche come in quelle non capitalistiche, in più continenti». Compito del marinaio era trasformare il prigioniero africano in un bene vendibile. E la nave fu il luogo dove questo processo si compiva.
I primi ad accorgersi di quale portento fosse quel mezzo di locomozione sui mari furono i futuri schiavi, che, dopo essere stati catturati da altri neri con delle razzie all’interno del loro continente, venivano trasportati sulla costa in viaggi che duravano mesi. Al termine dei quali, avevano la visione sorprendente di quella che molti di loro definivano «casa con le ali». L’esploratore Mungo Park riferisce nel 1797 che i «prigionieri rimanevano strabiliati alla vista delle navi»: si chiedevano quale fosse «la maniera per collegare insieme le tavole che componevano lo scafo e di tappare le connessure per non fare entrare l’acqua»; erano affascinati «dalla funzione degli alberi, delle vele, delle sartie», si meravigliavano che «fosse possibile far muovere un oggetto così grande con la sola forza del vento». E ancor più si stupivano che, come per magia, quei giganti riuscissero all’improvviso a fermarsi. Olaudah Equiano, lo schiavo che nel 1789 scrisse un’autobiografia destinata a diventare il libro di riferimento di tutti gli abolizionisti, racconta che ritenne fossero gli spiriti a far arrestare la nave. Tanto più che gli schiavi venivano rinchiusi nel ponte inferiore in modo da impedir loro di vedere come l’imbarcazione veniva manovrata, così da scoraggiare tentazioni di ammutinamento.
Nell’introduzione al suo libro Principles of Naval Architecture (1784), Thomas Gordon fa un’affermazione radicale: «Poiché indiscutibilmente la nave è la più nobile e fra le più utili macchine mai inventate, ogni tentativo di migliorarla va guardato come ad un’impresa di grande importanza e merita la considerazione dell’umanità tutta». L’origine della nave negriera in quanto «macchina capace di trasformare il mondo», risale alla fine del Cinquecento, allorché i portoghesi intrapresero i loro viaggi verso le coste occidentali dell’Africa. L’importanza specifica della nave negriera, secondo Rediker, fu poi legata a un’altra fondamentale istituzione collegata allo schiavismo: la piantagione. Una forma di organizzazione economica che ebbe inizio nel Mediterraneo durante il Medioevo, si diffuse nelle isole dell’Atlantico orientale per emergere infine, nel corso del Seicento, in una forma nuova e rivoluzionaria nel Nuovo Mondo, specie in Brasile, nei Caraibi e nell’America settentrionale. La nave e le piantagioni fecero compiere all’economia un salto definitivo nella modernità. In che senso?
La nave negriera era «una poderosa macchina per la navigazione», ma era anche di più: «qualcosa di unico nel suo genere». Era infatti «una factory nonché una prigione», e in questa combinazione risiedevano «la sua genialità e il suo orrore». La nave era «una fabbrica, uno stabilimento produttivo in senso moderno; il veliero oceanico era un classico luogo di lavoro, dove mercanti capitalisti ammassavano e confinavano un gran numero di lavoratori poveri e si servivano di capisquadra (comandanti e ufficiali) per organizzare, o meglio sincronizzare, le varie mansioni». Fu il mercante e lobbista Malachy Postlethwayt a teorizzare nel 1745 il «commercio triangolare», secondo cui le navi dovevano partire da porti europei con un carico di manufatti industriali alla volta dell’Africa occidentale, dove li avrebbero scambiati con un carico di schiavi, per poi proseguire per le Americhe dove questi ultimi sarebbero stati scambiati con merci come zucchero, tabacco o riso da trasportare ai porti di partenza. Nel corso di quel viaggio uomini e donne africani erano stati trasformati in merce.
L’ingresso «nello sconvolgente, terrificante mondo della nave negriera», scrive Rediker, «rappresentò per i neri catturati una traumatica transizione dal controllo africano a quello europeo». L’unica via di fuga da questa «fabbrica» era il suicidio, compiuto con il lasciarsi cadere in acqua. Una pratica molto diffusa. I comandanti negrieri «si servivano coscientemente degli squali per generare terrore durante il viaggio: contavano infatti su quel terrore, durante le lunghe soste sulla costa africana nel tempo occorrente a completare il “carico umano”, per prevenire sia le diserzioni dei marinai sia le fughe di schiavi». Tutto appariva magico e spaventoso durante il tragitto dall’Africa all’America. Narra Equiano che, quando le onde cominciavano a sollevarsi, lui e i suoi compagni di viaggio pensavano che fossero segno dell’ira del dio dei mari, al quale si aspettavano di essere sacrificati. Lo stesso accadeva quando vedevano le orche, che scambiavano per «spiriti dei mari». E quando il cibo cominciò a scarseggiare, ritennero più che probabile essere dati in pasto all’equipaggio. Anzi, pensarono che per questo fine erano stati ammassati a bordo. Un secondo momento di grande paura dei neri era all’arrivo, dove, riferiscono le loro testimonianze, al cospetto degli acquirenti, «pensavamo che saremmo stati mangiati da quegli uomini orribili, perché così li vedevamo». Talché dovevano essere fatti salire a bordo «alcuni vecchi schiavi da terra per calmarci».
Ma il destino dei marinai non era molto migliore di quello degli africani. Per trasportare milioni di schiavi, si dovettero arruolare equipaggi per un totale di almeno 350 mila uomini, il 30 per cento dei quali era composto da ufficiali o lavoratori specializzati che ricevevano particolari incentivi e quindi tornavano ad arruolarsi più spesso dei marinai comuni. Ma ce n’erano poi altri 200 mila e più che si facevano ingaggiare a condizioni di lavoro durissime, paghe modeste, cibo scadente e altissimo rischio di mortalità («per incidenti, abuso di disciplina, rivolte di schiavi o malattie»). Essi venivano descritti dai contemporanei come «rifiuti umani, feccia della nazione». Con le buone o con le cattive «si attiravano a bordo uomini di tutti i tipi… alcuni, ubriachi o indebitati, erano stati costretti a scambiare la prigione della terraferma con una galleggiante». Ecco, appunto, anche per i marinai quel genere d’imbarcazione era una «prigione galleggiante». Appena la nave era distante dalle coste europee, talché nessuno avrebbe potuto scendere, si trasformava in un «inferno sui mari». E qualcuno come James Field Stanfield nel 1788 pensava che in un certo senso «gli schiavi stessero meglio dell’equipaggio, se non altro perché il comandante aveva un incentivo economico per nutrirli e mantenerli in vita nel passaggio di mezzo». Anche la vita del comandante, però, non era tutta rose e fiori, esposta com’era ad avversità, violenze, ammutinamenti. Fu fatto un calcolo, tra gli anni 1801 e 1807, che un comandante su sette moriva durante il viaggio e questo significava che i mercanti dovevano predisporre una catena di comando con uno o a volte due ufficiali pronti a subentrargli: «La stessa fragilità del potere a bordo della nave può aver contribuito ad accrescerne la spietatezza».
Paradossalmente l’odio per i trafficanti di schiavi (e con esso la battaglia abolizionista) iniziò da un uomo che era stato al loro servizio. Bartholomew Roberts, un giovane gallese, si era imbarcato come secondo di bordo sulla «Princess», una nave negriera in partenza da Londra per la Sierra Leone. Nel giugno del 1719 la «Princess» fu catturata da una banda di pirati il cui comandante, Howell Davis, propose a Roberts di unirsi alla «fratellanza». Roberts accettò, si trasformò in «Bart il Nero» e ben presto divenne il corsaro più famoso della sua epoca: era a capo di una flotta di navi e di molte centinaia di uomini, che catturarono più di 400 mercantili in un periodo di tre anni. Le sue caratteristiche erano quella di passeggiare sul ponte vestito da dandy (gilet damascato, una piuma sul cappello e uno stuzzicadenti d’oro in bocca) e quella di odiare i modi brutali dei comandanti delle navi negriere. Al punto che «lui e la sua ciurma usavano celebrare una sorta di cruento rituale, che chiamavano “dispensazione di giustizia”, consistente nel somministrare una micidiale quantità di frustate ai comandanti accusati dai marinai di comportamenti violenti nei confronti dei neri». Roberts terrorizzò le coste africane, gettando nel panico i mercanti locali. A seguito delle sue imprese, le cose cominciarono a cambiare.
La nave negriera ebbe un’evoluzione dettata in un primo tempo da esigenze economiche e in un secondo anche da pressioni degli ambienti abolizionisti. Inizialmente i bastimenti usati per la tratta, ricorda Rediker, non venivano costruiti specificamente per quel tipo di commercio: per tutto il periodo 1700-1808 il traffico di schiavi fu praticato da natanti di tutti i tipi e di tutte le stazze. Dopo il 1750, però, cominciò ad apparire un nuovo genere di nave negriera, specie nei cantieri navali di Liverpool, più grande e dotata di caratteristiche particolari: prese d’aria, fondo rivestito di rame, più spazio fra i ponti. La nave negriera «era una delle più importanti tecnologie del tempo». Il disegno delle navi prodotte a Liverpool subì altre modifiche verso il 1790, come risultato delle pressioni esercitate dal movimento abolizionista e dell’approvazione da parte del Parlamento inglese di una riforma volta a migliorare il trattamento e le condizioni sanitarie di marinai e schiavi. Il Parlamento inglese abolirà la tratta degli schiavi nel 1807 (ma lo schiavismo resterà in vigore fino al 1833). E quella fattispecie di modernità venuta alla luce su quelle navi o a ridosso di esse — con un impasto di accumulazione impetuosa, ribellioni, tensioni interrazziali, insurrezioni violente — lasciò i mari per tornare definitivamente sulla terraferma.

Repubblica 30.9.14
Nel Codice Dumas il segreto del romanzo
Una narrazione forte, più storie insieme, personaggi con un destino unico
Ecco perché “Il conte di Montecristo” è l’archetipo della (buona) fiction
di Alberto Asor Rosa


COS’È il “romanzesco”? In cosa consiste? Quando abbiamo il diritto di usare questo termine, fuori e dentro la letteratura? Calma, lettori: non ho intenzione di propinarvi una lezione di retorica e teoria letteraria. Vorrei soltanto esporvi qualche piccolo senso, che ho ricavato dalla rilettura recentissima, estiva, del colossale monumento alla “realtà romanzesca” (nel duplice senso che l’espressione comporta) che è Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (1803-1870), ripubblicato, con meritoria audacia, da Einaudi nella bella traduzione di Margherita Botto.
Sul Conte ha scritto cose bellissime Umberto Eco ( Il superuomo di massa , 2001). Ma forse qualche corollario si può aggiungere alla sua nobile canonizzazione. Vediamo, ripartendo dall’inizio.
Il conte di Montecristo fu scritto e pubblicato intorno al 1844.
Pressoché contemporaneamente, quella poderosa macchina di produzione letteraria, che era Alexandre Dumas padre, concepiva e realizzava i capolavori della saga moschettiera, I tre moschettieri, Vent’anni dopo , Il visconte di Bragelonne. Ma il Conte è su di un gradino superiore, più ambizioso per l’impianto e per la quasi contemporaneità degli eventi rispetto ai suoi lettori di quel tempo.
In estrema sintesi: il protagonista del romanzo, Edmond Dantès, è all’origine un giovane marinaio, molto esperto nel suo lavoro e profondamente onesto, il quale, per le mene congiunte e in parte involontarie di tre perfidi personaggi, – Fernand Mondego, Gérard de Villefort e Danglars – viene imprigionato nel terribile carcere francese denominato Chateau d’If, e vi trascorre alcuni anni in una segregazione pressoché assoluta e nella disperazione estrema (siamo in piena Restaurazione, Dantès viene accusato di bonapartismo, non è escluso perciò che Dumas lasci calare sulla narrazione qualche veleno antiborbonico). Lì, avventurosamente, conosce un altro prigioniero innocente, l’Abate Faria, sbucato nella sua cella, dopo aver scavato, con disumana sofferenza, un tunnel sotterraneo, che avrebbe dovuto portarlo all’aperto e invece, per un calcolo sbagliato, lo conduce proprio nella cella di Edmond. Dall’Abate Faria, prete italiano colto e, per così dire, di orientamenti risorgimentalisti, Edmond apprende molte cose; ma soprattutto viene a conoscenza, prima che Faria muoia, dell’esistenza di uno sterminato tesoro nascosto sul- l’isola (anch’essa italiana, e non è una combinazione) di Montecristo. Edmond, fuggito dal Chateau d’If con un espediente tanto macabro quanto ingegnoso, s’impadronisce del tesoro e inizia una nuova vita. Nella seconda parte del romanzo Edmond passa da un travestimento all’altro, alla ricerca però di un’unica fondamentale forma di riscatto, e cioè la vendetta. L’opera tuttavia ha un lieto fine, in conseguenza del quale Edmond recupera il proprio umano diritto a perdonare e amare.
Il conte di Montecristo ha subito negativamente nel tempo la taccia di essere un romanzo d’appendice, votato essenzialmente alla causa della commerciabilità del prodotto ovvero, come si dice oggi comunemente, alle “leggi del mercato”. Non c’è dubbio che sia così all’origine. E tuttavia il risultato che ne scaturisce torna a sembrare oggi degno di qualche maggiore attenzione.
Proviamo a ricollegarci alle domande iniziali. Il “romanzesco” 1) è una narrazione forte e complessa, che non può (ripeto: non può) non assumere grandi dimensioni; 2) parte da una singola storia, ma ne racconta molte; 3) è fatto di personaggi che sono portatori ciascuno di un “destino” particolare, il quale però s’intreccia, appunto, a quello di molti altri; 4) contempla e rappresenta costitutivamente un sistema di rapporti fra reale e immaginario, fra il possibile e l’inverosimile – ossia fra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il quale diventa anch’esso a un certo punto ciò che è.
Ora, Il conte di Montecristo presenta senza ombra di dubbio tutte queste caratteristiche. Ma non si potrebbe fare lo stesso discorso per un’altra opera, a giudizio comune, di portata enormemente superiore come Guerra e pace? Sì, certo, si potrebbe. Qual è la differenza, allora? Temo che la differenza sia, come si diceva una volta, nei “contenuti”.
Il peso logico, sentimentale, ideale di Guerra e pace non teme confronti rispetto a quello espresso dall’inizio alla fine dal Conte di Montecristo .
E tuttavia, detto questo, tutto il resto rimane valido anche per Il conte di Montecristo, e cioè che la sua macchina narrativa possiede una vitalità così prodigiosa da valere per sé, ossia per il godimento disinteressato e magari un po’ frivolo del lettore, e, aggiungerei, anche e forse soprattutto per il lettore di oggi. Lettore di oggi, il quale non ha più bisogno che gli si dica che deve leggere un testo perché gli sarà “utile”, gli basta sapere che sarà appassionante e divertente.
Da questo punto di vista Il conte di Montecristo riserba sorprese che difficilmente – duole dirlo – le opere della nostra contemporaneità in genere ci fanno sperimentare: è facilmente provabile, se se ne fa esperienza diretta, che, una volta intrapresa la lettura del testo all’inizio di un suo qualunque capitolo, sia impossibile staccarsene un attimo prima che quel capitolo sia concluso. L’esperienza dei primi lettori del Conte, i quali lo compulsavano ogni settimana in appendice a un organo giornalistico del tempo, e a quanto sembra esprimevano l’attesa ansiosa che questo accadesse, può essere rivissuta dai lettori di oggi, i quali faticheranno non poco a staccarsi dal testo nei punti nodali della narrazione, per tornare alle loro, molto più banali, fatiche quotidiane.
Il fatto è che il “romanzesco”, quello autentico, è anche un’altra cosa rispetto a quelle che abbiamo già elencato. Esso è la proiezione di una visione del mondo che non ci sarebbe se quel romanzo non ci fosse. Illusorio è in ogni caso cercare i riscontri reali a quello che vediamo raccontato. Quello che vediamo raccontato è anch’esso un reale – un reale che si distingue nettamente da quello che, supinamente, continuiamo a credere e chiamare “il reale”.
Da questo punto di vista Il conte di Montecristo è un vero scrigno di ricchezze – ricchezze certo illusorie, ma destinate meravigliosamente a incrementare il nostro bisogno di una realtà “altra”, non meschinamente ridotta a quella di cui facciamo esperienza tutti i giorni.
IL LIBRO Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas (Einaudi, trad. di Margherita Botto pagg. 1264 euro 32)

Corriere 30.9.14
«Storie maledette», si rigira il coltello nella piaga
di Aldo Grasso


È tornato «Storie maledette», con tutto il suo carico di racconti foschi, di scavi nel torbido, di indagini negli abissi della psiche (Rai3, ore 23.50). Chissà perché un programma che affronta la «nera» come fosse un morboso feuilleton appassiona così tanto. E soprattutto, chissà se Franca Leosini, autrice e narratrice del programma, avrebbe mai immaginato di diventare un personaggio di culto per un fan club di spettatori in preda alla doppia lettura (quelli che amano la raffinatezza del cattivo gusto; la sensibilità camp gode delle cose, non le giudica).
La prima ad accorgersi del suo potenziale è stata, anni fa, Paola Cortellesi: da lì, è stato tutto un fiorire di apprezzamenti per il suo lessico aulico, per i colpi di sopracciglio con cui accompagna l’eloquio, per la sua cofana laccata. Il delitto di sabato sera (per fortuna stavolta solo un tentato omicidio) si svolgeva nell’ambiente upper class della lirica. Protagonista dell’intervista era Daniela Del Monaco, contralto che ha accoltellato il marito Claudio, figlio del celebre tenore Mario, con cui ha vissuto un amore molto turbolento. Inutile dire che Leosini ci è andata a nozze, sfrucugliando nella loro storia per farne emergere i minimi dettagli, dagli inizi fino al drammatico finale. Tutto in un modulare continuo di toni, in un incessante passaggio dal ruolo di poliziotta buona a quello di poliziotta cattiva: «Del Monaco è Del Monaco, ma lei non è certo una trovatella raccattata per le strade del mondo!»; «Diciamocelo, il suo obiettivo era quello di abbordare uno dei fratelli Del Monaco?». Un lento crescendo fino al definitivo: «È stato allora che lo ha colpito come fosse un bersaglio senz’anima?». Non è solo l’assassino a rigirare il coltello nella piaga.