mercoledì 1 ottobre 2014

il Fatto 1.10.14
Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi di Milano
Da Blair e Schröder in poi
“La sinistra? Guarda a destra. Ed è finita”
di Carlo Di Foggia


Il cambiamento è epocale. Immaginiamo l’articolo 18 come un perno: “Ci si appoggia per rivoltare la sinistra in qualcosa di diverso, senza una matrice socialista e lungo il solco tracciato da quelle che un tempo furono le sinistre socialdemocratiche europee”. E che oggi, per Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi di Milano, sono agonizzanti: “Se Matteo Renzi vede in Tony Blair il suo mentore, allora è normale che cerchi di spezzare il legame con i sindacati: lo hanno fatto i laburisti inglesi e i socialdemocratici tedeschi. I primi non si sono ancora ripresi e vivono delle disgrazie altrui, i secondi fanno parte di una coalizione su cui non riescono a incidere, a parte il salario minimo, lo strumento che dovrebbe far salire gli stipendi dei mini job creati durante il mandato del socialdemocratico Gerhard Schröder”.
Il premier sull’articolo 18 rischia di spaccare il suo partito.
Nessuno pensa che questo, in una fase recessiva, generi posti di lavoro.
A cosa serve allora?
Ci si rivolge all’Europa, ma soprattutto a un pubblico più ampio: quello che apprezza la politica antisindacale.
L’elettorato di destra?
Il ceto medio, che è poi quello che si deve sobbarcare il peso maggiore delle tutele sociali. Così si aumenta la base elettorale: è la sfida che si è posta di fronte ai partiti socialisti europei dopo la lunga fase degli anni 80 lontani dal governo.
Con quali risultati?
La fine della sinistra come la conoscevamo. E con essa il difensore del welfare state (le tutele dello stato sociale, ndr) e dell’economia mista: la compresenza di due poli - il pubblico e il privato - come motori dell’economia. Un declino iniziato negli anni 80 con le idee di Margareth Thatcher e proseguito con Blair e Schröder.
Tutti contro i sindacati?
Blair non fece nulla per sanare gli squilibri creati dalla Lady di Ferro, Schröder fece di peggio: affidò le riforme del mercato del lavoro a Peter Hartz, capo del personale della Volkswagen, poi condannato per corruzione dei rappresentanti sindacali.
Perché il welfare state è rimesso in discussione?
Perché costa, tanto. Perfino i partiti socialdemocratici scandinavi si sono indeboliti difendendolo. Nel ’76, prima della Thatcher, dopo 40 anni al governo la socialdemocrazia svedese perse le elezioni: era il segno dell’insofferenza verso una forma di tutele che comporta una pressione fiscale elevata, ma è anche l’unica via per ridurre le disuguaglianze.
La sinistra è in disarmo. La svolta a favore della globalizzazione, se all’inizio li ha riportati al governo, li ha poi svuotati della loro stessa natura. Ora ne pagano le conseguenze: i socialisti francesi sono al minimo storico. Zero idee e mancanza di coraggio: hanno perfino accolto l’euro senza porsi il problema delle conseguenze.
Colpa della globalizzazione?
Vi hanno aderito convinti, come se contenesse un moltiplicatore di ricchezza, ma la globalizzazione riduce l’autonomia degli Stati - consentendo alla grande industria di trasferire gli investimenti dove più conviene - e la sinistra ha sempre fatto perno sullo Stato-Nazione.
Renzi ha in mente questo piano?
Segue la stessa logica.
Ma una riforma del lavoro può essere utile.
Certo, ma c’è un paradosso incredibile: si riforma il mercato del lavoro senza sapere qual è il modello economico che vogliamo adottare, e con una gigantesca incertezza sugli ammortizzatori sociali. In Europa si vuole tutelare il lavoratore sul mercato e non all’interno del luogo di lavoro. Lo Statuto dei Lavoratori fa l’esatto opposto, perché è nato in un contesto molto diverso. Nessuno dei due è giusto o sbagliato a prescindere, ma bisogna saper scegliere. Invece si attacca il sindacato.
Che però si è dimenticato di milioni di lavoratori precari.
Ha colpe gigantesche, ma i problemi sono altri: abbiamo perso un quarto dell’apparato produttivo.
Ora si parla di “modello tedesco”.
Lì si è fatto perno sulla potenza di fuoco di alcune grandi imprese, con buoni ammortizzatori sociali. Ma si rischia l’implosione. Se lei fa un giro a Berlino si accorge che i supermercati sono vuoti e la vita costa meno che a Torino: significa che la domanda interna è depressa.

La Stampa 1.10.14
Pd, si placa il dissenso
Se con il sindacato la tensione non si placa, nel Pd tira un’altra aria
La minoranza mantiene gli emendamenti, ma non morde
di Carlo Bertini


«E’ vero, penso finirà così: al momento del voto sul jobs act usciranno dall’aula», ammette Pippo Civati seduto nel corridoio fumatori della Camera, con la premessa che lui non dà la linea e i suoi sono liberi di votare contro. E se il massimo oppositore di Renzi, che conta sei o sette fedelissimi in Senato, la mette così, ancora più soft l’atteggiamento degli altri trenta dissidenti, i bersaniani, che hanno firmato quei sette emendamenti al Senato. E che per ora temporeggiano. Si riuniscono in conclave, non ritirano i loro emendamenti, rivendicano le aperture del premier come loro conquiste e attendono l’emendamento con cui il governo tradurrà il testo del Pd. E dunque, se Renzi fin dalla mattina dice «non temo franchi tiratori in Senato» è perché il clima è mutato, la sinistra è sfaldata e ciò gioca a suo favore. Anche l’ipotesi di mettere la fiducia va sullo sfondo, i suoi la invocano «per semplificare la vita a noi, al governo e ai dissidenti». Ma nessuno ci scommette anche se in Senato la maggioranza corre sul filo con 167 voti e le sorprese sono sempre possibili. Ma ieri era sfumato il timore della bomba capace di far cadere il governo, un Pd spaccato in aula e un voto finale in cui Forza Italia diventi determinante. 
«Nessuno vuole questo esito», ammette il colonnello di Bersani Miguel Gotor, soddisfatto dell’apertura sui licenziamenti disciplinari. Il succo è: vediamo come la traducono ma di fatto la convinzione è che l’articolo 18 sia salvo per una gran mole di casi e questo alla sinistra basta. Anche Chiti sorride, «si è trovata una buona soluzione». Dunque il governo si trova di fronte al problema di non far rientrare dalla finestra l’articolo 18, «proprio per questo la dobbiamo scrivere bene questa norma», è la prima preoccupazione dei tecnici del premier. Il quale però vuole che ora il Senato corra: in soli due giorni, martedì e mercoledì, l’aula deve smaltire gli emendamenti e varare la delega, perché Renzi vuole arrivare al vertice Ue di Milano sul lavoro con la sua riforma approvata.

La Stampa 1.10.14
Orfini: Chi ha votato contro sarà leale in Aula

qui

Repubblica 1.10.14
Gianni Cuperlo
“La nostra partita non finisce qui sui licenziamenti bisogna cambiare”
“Io lavoro per il governo non contro, e non amo le dispute muscolari. Voglio escludere scissioni”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Il confronto sull’articolo 18 non si è concluso lunedì sera: se qualcuno lo pensa, non aiuta Renzi ». Gianni Cuperlo annuncia battaglia. Nel day after della drammatica direzione dem, niente è scontato.
Cuperlo, la minoranza del Pd manterrà gli emendamenti presentati e li voterà?
«Io spero che li voti tutto il Pd perché lo spirito è migliorare la riforma. Lo ripeto, l’innovazione del mercato del lavoro io la voglio come Renzi e Poletti. Voglio tutele estese a chi non le ha, un sussidio universale che trasformi l’accesso ai servizi per l’impiego in un diritto di cittadinanza. Altro che lasciare le cose come stanno, qua bisogna cambiare con più radicalità. A cominciare dalle risorse che servono per tagliare quei traguardi e che sono ancora del tutto insufficienti».
In particolare sull’articolo 18 quanto siete disponibili a un compromesso?
«Ho apprezzato alcuni toni, ma qui conta la sostanza. Il reintegro per discriminazione è una cosa ovvia, prevista fino dal 1990 anche per chi ha meno di 15 dipendenti. Bene la precisazione sui licenziamenti disciplinari. Ma la riforma del 2012, solo due anni fa, non ha escluso il ricorso al giudice anche nel caso di licenziamento economico “manifestamente infondato”. Mica era un gioco di parole. Se in via di principio togli la possibilità per il lavoratore di cercarsi un giudice a Berlino e stabilisci per legge che per qualunque licenziamento economico c’è solo l’indennizzo, tu stai dicendo a quel lavoratore che anche nel caso di una motivazione mascherata lui ha perso in partenza. E non lo consolerà sapere che, invece, a Berlino un giudice per lui ci sarebbe davvero ».
Se gli emendamenti non saranno accolti cosa farete sul voto finale?
«Io lavoro per il governo, non contro. Il Parlamento ha la responsabilità di licenziare una buona riforma. Non amo le dispute muscolari. Quando arriveremo al voto finale spero che il testo sia frutto di una condivisione. Per me il confronto non si è chiuso lunedì sera in direzione. E chi lo pensa non aiuta il premier».
Mettete nel conto anche una crisi di governo?
«Non scherziamo. Voglio che questo governo faccia le cose che ha detto di voler fare. Cambiare la pubblica amministrazione, investire nella scuola, snellire i tempi della giustizia, redistribuire il peso della crisi su chi ha pagato meno. E fare una battaglia a Bruxelles per fermare un’Europa che corre verso un muro. Renzi ha detto di volere queste cose? Avrà un sostegno leale. Ma sul merito di riforme decisive, dalla Costituzione alla legge elettorale, al mercato del lavoro, migliorare le scelte è il modo per aiutare l’esecutivo a fare il bene del Paese. Al fondo in quel capolavoro di Disney, anche Semola faceva buon uso di Anacleto».
Lo scontro in direzione dava l’idea di due partiti distinti, si può pensare che una parte dei Dem stia per andarsene?
«Lo voglio escludere e lo escludo. Certo sono colpito dal clima che vedo crescere anche tra di noi, a volte sembra che si confrontino dei nemici. In direzione avrei accolto la richiesta di votare l’ordine del giorno per parti separate. Peccato. Io cerco di unire. Spero che altri non prediligano l’arte di Penelope: tessere la tela e disfarla».
D’Alema e Bersani hanno ecceduto nei toni?
«Uno ama gli spigoli, l’altro non perderebbe l’aplomb neanche a Pontida. Hanno detto la loro nel rispetto dell’articolo 19 della Costituzione, quello sulla libertà di opinione. E’ un bell’articolo. Io suggerisco di tenerlo. Almeno per ora».

La Stampa 1.10.14
Ora si fa più stretta la strada del leader
Nel Pd, al di là della durezza degli interventi di Bersani e D’Alema, tira aria di compromesso
di Marcello Sorgi


Dopo la vittoria in direzione Pd, si fa più stretta la strada di Renzi e della riforma del lavoro in Senato. Una dichiarazione di Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, e un’intervista di Giuseppe Civati, leader della parte della minoranza interna del Pd che ha raccolto venti voti in direzione contro il Jobs Act, hanno acceso due spie rosse sul cammino di avvicinamento del governo alla discussione parlamentare sulla riforma.
A Romani infatti non è sfuggita quella parolina, “disciplinari” che il premier ha aggiunto in extremis all’elenco di casi assai limitati in cui la magistratura potrebbe ancora intervenire e disporre la reintegra nel posto di lavoro dei licenziati come attualmente dispone l’articolo 18. Si è trattato di un’evidente apertura di Renzi ai suoi oppositori interni, che ha determinato l’astensione (e potrebbe portare al “sì” in Senato) della parte dialogante della minoranza del partito, i “giovani turchi” dell’ex-dalemiano Orfini, presidente del Pd, e l’ Area riformista del capogruppo alla Camera Speranza, già bersaniano di ferro da tempo in avvicinamento al leader. Se Renzi aggiusta il tiro per assicurarsi l’appoggio di una parte dei suoi critici, è il ragionamento di Romani, noi di Forza Italia non ci stiamo.
Opposta, ma paradossalmente convergente, la posizione di Civati. Noi del “no” in direzione, annuncia, manterremo la nostra posizione in Parlamento, rifiutandoci di votare la riforma anche se sarà posta la questione di fiducia. Se saremo in cinque, aggiunge, se ne occuperà la commissione disciplinare del Pd; se diventeremo quindici, diventerà affare del Capo dello Stato, come dire che in quel caso il governo al Senato non avrebbe i numeri.
In realtà nessuna delle due posizioni punta a una vera crisi, che porterebbe con se il rischio di elezioni anticipate, in un contesto, come quello certificato ieri dall’Istat, in cui la congiuntura economica si fa ogni mese più critica. Quella di Forza Italia è la classica posizione a favore e contro, divenuta indispensabile per tenere insieme un partito pieno di dissidenti contrari alla linea del patto del Nazareno.. E quello del giovane anti-renziani Civati è l’atteggiamento di chi ha capito che nel Pd, al di là della durezza degli interventi di Bersani e D’Alema, tira aria di compromesso.

Corriere 1.10.14
«Il nostro voto non è scontato» Ma la minoranza perde i pezzi
Le divisioni nel summit degli anti renziani. I turchi e l’ala di Speranza sempre più lontani
di M. Gu.


ROMA Se hanno votato no sul Jobs act, giurano gli oppositori di Renzi, «non è per cambiare il capo del governo, è per cambiare la politica economica del governo». La nuova frontiera è la legge di Stabilità, sono i conti pubblici e le coperture. L’articolo 18, sul quale la minoranza si è lacerata forse irreparabilmente, è solo un tassello del mosaico. Ma poiché la direzione ha ridisegnato i rapporti di forza a vantaggio della maggioranza, i più intransigenti a sinistra sperano che il reintegro si trasformi magicamente nel sassolino che inceppa l’ingranaggio.
«Un passo alla volta e stiamo al merito», è la strategia: quando arriverà l’emendamento del governo, scatteranno i subemendamenti. Ed è lì che gli anti-renziani si conteranno. I firmatari dei sette emendamenti al Jobs act, una trentina di senatori, si sono visti e hanno concordato la linea. «C’è preoccupazione sull’articolo 18 — spiega Cecilia Guerra — Si applica solo ai nuovi assunti o anche ai contratti in essere? La soluzione è pasticciata e poco chiara». Il vostro sì non è scontato? «Niente è scontato. Prima miglioriamo la delega, poi si vota». Renzi si è mosso abilmente, allontanando lo spauracchio del soccorso azzurro al Senato. Il rischio si è sensibilmente ridotto, tanto che ieri i renziani ridacchiavano sui «due, tre giapponesi» che potrebbero indossare l’elmetto e bocciare la riforma. Gli irriducibili hanno pochi margini di manovra e non si fanno troppe illusioni sulla possibilità di allargare il dissenso. Eppure vogliono giocarsi il finale di partita. «Renzi non può mettere la fiducia su una delega in bianco — avverte D’Attorre — E non può togliere a D’Alema il diritto di parola». L’ex premier trama per farlo cadere? «No. Chi pensa a un altro governo tecnico deve farsi curare. Il tentativo di questa nuova generazione di riformisti è mettere in campo un’alternativa a Renzi». Sarà. Ma la strada è lunga e il rischio di farsi asfaltare definitivamente è alto. «Si sono visti passi avanti, però la nostra battaglia non è finita — si fa coraggio la Bindi — Semmai è finita la luna di miele di Renzi con alcuni settori della classe dirigente e con una parte del Pd». Complotto in vista? «No, ma il premier deve essere aiutato a governare meglio. Sempre che lui voglia farsi aiutare...». Il segretario ha annunciato che andrà alla Leopolda e la minoranza, quella arrabbiata, non l’ha presa bene. «Andare a una riunione di corrente, da segretario e da premier, non è un segnale di pacificazione», attacca D’Attorre. Il problema è che la sinistra ha perso per strada un bel pezzo delle sue truppe. I «Turchi» sono ormai in maggioranza e nell’Area riformista di Roberto Speranza l’ala dialogante pesa ben più di quella intransigente. La componente, che si è divisa tra il no e l’astensione, in una serie di faccia a faccia e incontri anche tesi ha provato ieri a ricompattarsi, ma le posizioni restano distanti. «Siamo usciti dalla direzione con le ossa rotte», si sono sfogati i più dialoganti. E Speranza ha respinto l’accusa di aver spaccato i suoi: «Sono stato al merito e ho voluto cogliere le aperture del segretario».
Sul fronte del no, resta immobile Fassina: «Senza correzioni al Senato, non la voto. Non vedo aperture, sul reintegro Renzi ha fatto una operazione ambigua. I nostri emendamenti saranno votati». Quanti sono i «dem» pronti allo strappo? Se una settimana fa il pallottoliere di palazzo Madama ne conteggiava una dozzina, ora la fronda si è ristretta. «I miei resisteranno» giura Civati, e conferma l’ipotesi «concreta» di votare no alla Camera, come potrebbero fare i deputati di Cuperlo, il lettiano Boccia, la bindiana Miotto e Bersani. Ma è al Senato che si vince o si perde. Mucchetti, Mineo, Ricchiuti, Casson, Tocci, Chiti sono critici con Renzi da sempre. E la novità è che ieri, all’assemblea del gruppo, anche Anna Finocchiaro ha espresso dubbi sul merito della riforma.

Repubblica 1.10.14
Uno slalom tra elettori Parlamento ed Europa
di Massimo Franco


Probabilmente Matteo Renzi coglie nel segno, quando sostiene che «la gente è con noi, non con i sindacati». Sulla riforma del mercato del lavoro il consenso di una fetta di opinione pubblica è palpabile: a partire dall’abolizione dell’articolo 18. «Lasciamogli l’illusione», ironizza Susanna Camusso, segretario della Cgil. Il problema è che il presidente del Consiglio deve fare i conti con il Parlamento; e soprattutto con un Senato in grado di metterlo in difficoltà per le tensioni latenti nello stesso Pd. Il vero rischio che corre è interno alla sinistra. Il fatto che FI critichi la «leggerezza» e la contraddittorietà del provvedimento è meno insidioso: rientra nel gioco delle parti tra maggioranza e opposizione. Per questo il capogruppo del Pd a palazzo Madama, Luigi Zanda, invita a rispettare il voto della Direzione del partito, nella quale Renzi lunedì ha stravinto: cerca di prevenire brutte sorprese. E l’augurio del sindaco renziano di Firenze, Dario Nardella, contro eventuali «imboscate» da parte del Pd, suona come un esorcismo. Eppure, è difficile che i senatori della minoranza di sinistra siano così miopi da sgambettare il governo sul jobs act . Significherebbe, oltre tutto, schiacciarsi sulla Cgil alla quale viene imputato un «pregiudizio ideologico» contro il premier. È in atto un conflitto culturale, prima ancora che politico. Renzi sta tentando di rompere una serie di tabù che per decenni hanno rappresentato il cordone ombelicale tra il Pd e il sindacato. E l’impressione è che possa spuntarla: anche perché ogni volta che avversari interni come Massimo D’Alema lo attaccano, «guadagno un punto nei sondaggi», sostiene ironico. La sfida interna dovrebbe servirgli a guadagnare punti simbolici anche in Europa. Lì, però, il gioco sta diventando apparentemente invincibile per l’Italia. L’economia va male ed inasprisce i vincoli finanziari, non li allenta. E l’asse franco-italiano che si riproponeva di piegare ad una maggiore flessibilità la Commissione Ue dominata dalla Germania, assume contorni sempre più nord-orientali. Ieri si è saputo che lo stesso commissario agli Affari economici, il socialista Pierre Moscovici, dovrà adattarsi alla supervisione del vicepresidente lettone e conservatore Valdis Dombrovskis, uno dei «falchi» del rigore finanziario. E l’andamento del Prodotto interno lordo (Pil) e l’accoglienza fredda ricevuta da misure-vetrina come lo «sblocca Italia» restringono i margini di ottimismo del governo.
L’Istat fa sapere che il Pil calerà nel terzo trimestre del 2014: segno che la politica economica non frena la recessione. E la disoccupazione giovanile supera ormai il 44 per cento. Ma l’aspetto preoccupante sono le riserve di Bankitalia su alcune delle misure contenute nel decreto «sblocca Italia». Il rinvio a decine di regolamenti e il ricorso a procedure d’urgenza fanno temere seri rischi di alimentare la corruzione e il riciclaggio di denaro sporco, invece di combatterli. Renzi, però, tira avanti. Annuncia che entro pochi giorni la riforma del mercato del lavoro sarà approvata. E sogna di dare alle piccole e medie imprese i «soldi della Bce» per anticipare ai lavoratori una parte delle liquidazioni: una replica degli 80 euro, nella speranza disperata di invertire la china recessiva.

Corriere 1.10.14
E Pisapia attaccò il sindacato

Tutti (o quasi) si aspettavano un attacco frontale al premier Renzi di cui il sindaco Giuliano Pisapia, almeno ultimamente, non è un grande fan. Invece il primo cittadino di Milano, ieri a sera a Ballarò, ha sferrato un colpo durissimo al sindacato. Non sull’articolo 18 che Pisapia difende a spada tratta, ma sulla deriva «corporativa» delle organizzazioni dei lavoratori: «Nel sindacato ci credo sempre meno». E porta due esempi concreti. Lo spostamento di due lavoratori da un settore all’altro? «La risposta del sindacato è stata lo sciopero generale». Analoga resistenza quando il Comune ha tentato di spostare i commessi che stazionano ai piani di Palazzo Marino: «Volevamo metterli nelle scuole... C’è una difesa corporativa che non è più accettabile». Poi, il sindaco si rivolge alla segretaria nazionale dello Spi-Cgil, Carla Cantone: «Avete dimenticato i bisogni e i diritti dei giovani e dall’altro lato avete difeso interessi corporativi». Anche se Pisapia ne resta convinto: l’affondo del governo e di varie forze politiche sull’articolo 18 è semplicemente «uno scalpo che qualcuno vuole portare a casa. Non interessa a nessuno».

La Stampa 1.10.14
Camusso sfida Renzi: la gente è con noi
La Cgil si prepara alla piazza, prudente la Cisl. Sindacati in cerca di un’intesa per il vertice a Palazzo Chigi
di Roberto Giovannini


La doccia fredda non è stata certo una sorpresa. Lunedì pomeriggio Matteo Renzi si dichiarava pronto a «riaprire la Sala Verde» di Palazzo Chigi e negoziare. Ieri mattina, al Washington Post, affermava: «Credo che la gente sia dalla nostra parte, non dalla parte dei sindacati». I leader di Cgil-Cisl-Uil il «metodo Renzi» ormai lo conoscono benissimo. Sanno bene quanto difficile sia la partita, e quanto siano squilibrati (a loro svantaggio, naturalmente) i rapporti di forza. E a parte la Cgil, che ha deciso di combattere in ogni caso, Cisl e Uil sembrano molto poco desiderose di infilarsi in una guerra che sentono senza speranze.
Non nutre soverchie illusioni il numero uno della Cgil Susanna Camusso. Ma non crede che la partita sia già perduta. «Stiamo lavorando per preparare la manifestazione del 25 ottobre - dice il leader di Corso d’Italia - e abbiamo attorno a noi molto consenso. Un consenso cresciuto dopo la direzione Pd». Il premier dice che la gente è con lui? «Perché togliere illusioni ad un giovane presidente del Consiglio? Lasciamogliele», ironizza Camusso. Insomma, «il governo non pensi che una volta approvata una norma di questo tipo, sia finita la partita: noi continueremo la nostra iniziativa, la legge delega avrà una strada che sarà costellata dalla mobilitazione».
In Cisl i toni sono (molto) più morbidi: «Presidente, siamo pronti - dice ad esempio Annamaria Furlan, designata alla guida del sindacato di via Po dopo le dimissioni di Raffaele Bonanni - ci convochi subito, abbiamo tante idee da mettere in campo». Quel che preme alla Cisl, spiega Furlan, è «capire se questa nuova forma contrattuale a tutele crescenti azzera il precariato dilagante nel nostro Paese, abbatte i co.co.pro e le finte partite Iva, tutelando i giovani che spesso sono senza tutele». Pochi cislini credono sia possibile aprire un negoziato «vero». Ma nemmeno c’è molta voglia di agire contro un governo che ha il sostegno di giornali e televisioni, e che sul piano politico sembra mostrare pochi punti deboli. Ancora, nel sindacato di Via Po c’è il fortissimo timore che Renzi, di fronte a una reazione contro il Jobs Act possa ricorrere a dure rappresaglie colpendo i sindacati nel portafoglio. Ad esempio, inserendo nella Legge di Stabilità una stangata per i Patronati previdenziali o i Centri di Assistenza Fiscale.
L’Esecutivo della Uil lunedì sera ha usato invece un linguaggio duro: «Se i provvedimenti dovessero toccare protezioni e tutele per quei lavoratori che già ce l’hanno e non prevedere tutele crescenti per coloro che non ce l’hanno, la Uil proclamerà uno sciopero generale». Carmelo Barbagallo, segretario confederale e possibile candidato a succedere a Luigi Angeletti, ha più di un dubbio sulle reali intenzioni del premier. «Vogliamo capire con esattezza cosa propone, perché al momento non sappiamo di cosa stiamo parlando, non ci sono indicazioni, orientamenti».
In teoria, la parola spetta ora al governo: secondo alcune voci, il famoso incontro a Palazzo Chigi si potrebbe tenere già lunedì prossimo. Se così fosse, i sindacati dovrebbero certamente rivedersi per mettere a punto una posizione unitaria (se questo sarà possibile). Sarebbe necessario che le tre confederazioni elaborassero una piattaforma comune. In teoria non sarebbe così difficile, visto le posizioni nel merito non sono poi così distanti; ma pesano anni di diffidenza e di divisioni.

il Fatto 1.10.14
Quante volte Pd e Fi hanno votato in ugual modo? Almeno nell’80% dei casi

qui

il Fatto 1.10.14
La prova del Nazareno
Il partito unico c’è già. Pd e Fi, i voti fotocopia
Nel primo anno e mezzo di legislatura, i due partiti “avversari” hanno votato quasi sempre allo stesso modo
di Carlo Tecce


Nel primo anno e mezzo di legislatura, i due partiti “avversari” hanno votato quasi sempre allo stesso modo: Zanda e Verdini nel 99,8% dei casi, Boschi e Gelmini nel 90,3
Consonanze. Sono tutti Nazareni Tra Camera e Senato il voto è già bipartisan
Openpolis dà la possibilità di confrontare le diverse votazioni dei parlamentari: Fi e Pd sono compatti

Luigi è di Cagliari, rigoroso, avvocato, dirigente per il Giubileo, ex democristiano, ulivista, unionista. Denis è di Fivizzano, ex macellaio, inquisito, uomo di pallottolieri parlamentari. Luigi è il capogruppo democratico al Senato; Denis è il manovratore di Silvio Berlusconi. I renziani possono stare sereni: seppur non sia così plateale, visibile, la sintonia tra Luigi Zanda e Denis Verdini risplende tra le statistiche di Open Polis (riportate da Piazza-pulita) che misurano la “coincidenza” nel pigiare i tasti di Palazzo Madama, dire sì, no, forse cioè astenuto. In 551 occasioni su 552, assieme presenti, assieme si sono espressi e assieme si sono trovati d’accordo il 99,8% delle volte. Verdini non frequenta molto l’aula, anzi è un abituale disertore: quando va a visitare i colleghi, soprattutto per impartire la lezione di scuderia, potrebbe sedere tra i banchi democratici. Perché non ci sono differenze sostanziali, e non s’offenda il senatore Ugo Sposetti, estremo custode di una rottamata memoria comunista e poi diessina, se i suoi voti somigliano a quelli di Verdini, s’incastrano quasi a perfezione, si sommano con tremenda benedizione matematica: al 99,7% il marchigiano Ugo e il toscano Denis sono uguali. Sposetti non batte Zanda, però lo tampina in questo primato tra alleati che mal si vogliono e ben si pigliano.
CI SONO DEI MESI di opprimente distanza da recuperare, ma il rapporto (statistico, sia chiaro) tra Paolo Romani, il capo dei forzisti, e la truppa dem è un rapporto che va oltre gli abbracci e le carezze dopo la riforma del Senato. Zanda è l’omologo di Romani, anche se i partiti (in teoria) non sono per niente omologhi: superati i dissensi, la coppia viaggia sul 90% d’intesa al momento di schiacciare il pulsante. A questa media viaggia anche il ribelle Miguel Gotor, bersaniano, aspramente critico con Matteo Renzi, dolcemente vicino ai forzisti. Anna Finocchiaro fa meglio di Gotor: in 2003 casi su 2188 (91,5%), la siciliana ha votato come Romani.
I numeri sono spietati e ci sarà un motivo a noi sconosciuto, ma il sodalizio Antonio Razzi e Domenico detto Mimmo Scilipoti è sfaldato, usurato: 2373 su 3429 votazioni (69,2%), i due ex Responsabili sono stati ancora un corpo unico, il 31,8 no. Ora si potrebbe tirare una riga su questa immaginaria lavagna, come ordinava la maestra agli scolari, e notare come il duo Verdini-Zanda (o Verdini-Sposetti o Romani-Zanda o Romani-Go-tor, cambiate a scelta) sia molto più granitico degli amici Razzi-Scilipoti. Smaltito lo stupore (per chi ne aveva), va verificato lo strumento. Non è che qui, dentro il Parlamento di finte o vere diatribe, capita di approvare o respingere troppo spesso alla stessa maniera? E allora prendiamo due senatori Cinque Stelle, Rocco Crimi e Paola Taverna, e li confrontiamo con Verdini e Romani. Taverna-Verdini: mai voto fu identico. Taverna-Romani: 30,1%. Crimi-Verdini: 0,1%. Crimi-Romani: 29,8%.
QUESTA GENIALE macchina di Open Polis consente anche di separare i “voti chiave” di una legislatura da quelli marginali o d’impatto più internazionale che politico. All’odierna opposizione (M5s, Sel, Fdi), dunque senza comprendere i forzisti, è successo di votare in passato come Romani per contestare il governo di Enrico Letta. Ma trasferiamoci a palazzo Montecitorio, dove la maggioranza renziana è più stabile e il supporto forzista meno necessario. Daniela Garnero Santanchè è sempre più gonfia di fastidio per il partito-riserva di Renzi che ormai è diventato Forza Italia, eppure in 371 “chiame” su 455 (81,5%) s’è comportata come Maria Elena Boschi o come Lorenzo Guerini, vicesegretario dem (82,1%).
Un’altra Maria è la preferita del ministro Boschi: Mariastella Gelmini. All’unisono hanno votato 1303 volte su 1444 (90,3%). Non occorrono ulteriori patti al Nazareno, basta organizzare una cena e festeggiare il partito unico di R. e di B.

il Fatto 1.10.14
Volti nuovi
I giovani furbi che sotterrano i loro vecchi
di Fabrizio d’Esposito


Inteso come sede nazionale del Pd non come sinonimo del patto segreto tra B. e il premier, il Nazareno non è Itaca. È Giuseppe Civati detto Pippo, che è anche filosofo, a fare la didascalia perfetta per la tragedia greca di lunedì sera: “Ulisse è ritornato ma non ha trovato il figlio Telemaco a casa, che è fuggito e si è alleato coi nemici Pro-ci”.
Fu Matteo Renzi a intestarsi la roboante definizione di generazione Telemaco, ma l’altro giorno nella storica direzione democrat sull’articolo 18 è successo pure che taluni padri si sono persi altri figli. Di Ulisse, ne sono tornati addirittura due e insieme hanno sommato i venti minuti più roventi della riunione. In ordine d’apparizione: Ulisse D’Alema e Ulisse Bersani. La vecchia guardia della ditta postcomunista. Quando però è arrivato il momento topico di contarsi e schierarsi, una decina di figli si è divincolata dalla mano paterna ed è andata incontro, festante, ai Proci renziani. Per loro, la scheda bianca ha incarnato il fragile punto di equilibrio tra la poltrona e l’antica fedeltà. In tutto undici astensioni, mentre i padri arrabbiati e altri diciotto votavano contro il documento renziano sul lavoro.
IN POLITICA si tramanda che il tradimento non esiste. Laddove non c’è sentimento ma solo cinismo e calcolo le convenienze prevalgono sempre. Ma ha fatto effetto vedere il calabrese Nico Stumpo votare in maniera differente da Pier Luigi Bersani. Il primo astenuto, il secondo contrario. Stumpo è stato il Pietro Secchia del bersanismo. Sul finire del 2012, toccò a lui confezionare e gestire le primarie più complesse della storia politica universale per evitare la vittoria dell’Usurpuratore di Firenze. Dice Stumpo: “La politica è comportarsi in funzione di quello che accade. E Renzi ha fatto delle aperture. Sia chiaro: la mia astensione non sposta di una virgola il mio rapporto con Bersani”. Sarà il tempo a dirlo. Poi, Speranza. Come Roberto Speranza, ex giovane dalemiano lucano, che nella drammatica primavera del 2013 Bersani innalzò sullo scranno autorevole di capogruppo della Camera. Da allora Speranza è diventato il modello del soldatino democratico del terzo millennio. Un po’ come accadeva un tempo per togliattiani e berlingueriani. Col piglio del capogruppo, Speranza ha scoperto il poterismo in un’altra drammatica circostanza: il mortale accoltellamento del governo di Enrico Letta dopo il trionfo renziano nel dicembre del 2013. Speranza, con la complicità di Luigi Zanda e Dario Franceschini, intonò, allo stesso tempo, il De Profundis per Letta e la gioiosa antifona d’ingresso per Renzi a Palazzo Chigi. Adesso ha concesso il bis, con la sua astensione. Bersani avrebbe voluto trasformarlo nel leader di Area Riformista, il correntone che riunisce più di un centinaio parlamentari dell’opposizione interna, ma Speranza è destinato a incrociare sempre più il renzismo. Del resto, lunedì scorso, mentre gli ex padri tuonavano dal microfono lui trattava con gli emissari del premier per ottenere miglioramenti.
Stumpo, Speranza, persino Paola De Micheli. Nota come indomita guerriera del lettismo (nel senso di Enrico) che impalma il bersanismo, anche lei ha ceduto alla tentazione opportunista della scheda bianca. E si arriva così ai dalemiani. L’astensione di Enzo Amendola, campano, è compatibile con il suo incarico nella nuova segreteria renziana. Idem per la bersaniana Campana. Spiega Amendola, lapidario: “Io non ho mai avuto il complesso dei padri e mi sono attenuto al merito perché abbiamo ottenuto delle concessioni”.
FINO A QUALCHE anno fa, il dalemismo, per i cultori della materia, è stato una sorta di materialismo scientifico della sinistra italiana. Una severa scuola di tattica, dove apprendere l’arte della guerra e i rudimenti del realismo togliattiano. E Matteo Orfini, presidente dell’assemblea e della direzione, si è ricordato degli antichi insegnamenti dalemiani quando il bersaniano Davide Zoggia si è avvicinato a lui, sempre lunedì, e gli ha chiesto il voto del documento per parti separate. Orfini l’ha liquidato da vero commissario del popolo (renziano): “Mi dispiace ma non si può fare. Altrimenti non finiamo più”. Chiosa Gianni Cuperlo, che con Bersani, D’Alema, Civati e Fassina, forma il quintetto base dell’opposizione antirenziana: “Orfini, respingendo il voto per parti separate, è venuto meno ai suoi doveri di presidente garante”. Senza dimenticare, l’immagine di Orfini che picchietta sul microfono per far capire a D’Alema e Bersani che il loro tempo per gli interventi è scaduto. Non solo quello a dire il vero.
Dopo la fase calva dei lothar alla Velardi e Rondolino, il dalemismo rinacque con i barbudos alla Orfini. Da quel ceppo sono venuti fuori i Giovani Turchi, ribattezzati Giovani Furbi, che due anni fa si proponevano di fare i neolaburisti. Erano Orfini, Orlando e Fassina. Oggi i primi due, uno presidente dell’assemblea, l’altro Guardasigilli, ambiscono a fare la sinistra del renzismo in un recinto dove il Capo non fa toccare palla a nessuno. Ma nel fu dalemismo, il volto più cangiante è quello dello storico Roberto Gualtieri. D’Alema lo inventò europarlamentare per dimostrare la sua forza e i due erano davvero padre e figlio. Lunedì, Gualtieri non si è astenuto, ha votato direttamente a favore.

il Fatto 1.10.14
Berluscones
Sallusti, Formigoni e i “renziani” dell’altra sponda
di Andrea Scanzi


Un fantasma si aggira per gli studi televisivi: si chiama Alessandro Sallusti e somiglia all’uomo che ricordavamo, ma non sembra più lui. È stanco e spento. Per nulla convinto di quello che dice. Per carità, gli capitava anche prima, ma la passione nel difendere posizioni improponibili era – se non proprio autentica – vibrante. Ora che si trova non più a supportare Berlusconi ma a incensare Renzi, come un Menichini qualsiasi, ne soffre. Comprensibilmente. Lo si è visto giovedì a Servizio Pubblico e lunedì a Piazzapulita. Quando gli dicono che è ormai più renziano dei renziani, non prova neanche più a difendersi: prende, incarta e porta a casa, da persona (quando vuole) intelligente e arguta qual è.
LUNEDÌ SERA, ospite di Corrado Formigli, ha implorato gli elettori di votare Forza Italia, non perché ci sia ancora qualcuno che creda in Berlusconi (neanche Sallusti arriva a tanto) ma per un imprecisato “bisogno di rendere il centrodestra abbastanza forte da condizionare Renzi e liberarlo dal ricatto dei D’Alema”. Sallusti è il primo a sapere che la realtà è esattamente opposta, sia perché D’Alema ormai non conta nulla (anzi: più attacca Renzi, più lo rafforza) e sia perché il Pd è pressoché perfettamente coincidente con il centrodestra. Berlusconi o Verdini non hanno bisogno di “condizionarlo”, perché la sintonia è totale o quasi. Siamo ben dentro i Sepolcri: “Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi”. Berlusconi è Renzi e Renzi è Berlusconi. Infiniti i punti di contatto, dal programma (legge elettorale, riforma del lavoro, non-riforma della giustizia,
distruzione della Costituzione) alla tecnica elettorale (slogan, promesse, bugie, circondarsi di yesmen e vestali, insistere sul “quasi 41 percento che ci ha votato”). Sallusti è conscio che, al momento, di lui non c’è bisogno. E ne soffre. Sempre a Piazzapulita, il sindaco di Firenze Nardella ha sostenuto che, finora, la sinistra italiana ha avuto una grande colpa: quella di essere stata troppo di sinistra. Doppio delirio, perché la sinistra questo dovrebbe fare e perché in Italia non lo ha fatto quasi mai. Mentre Nardella parlava, esponenti di Forza Italia e imprenditori ieri berlusconiani e oggi renziani ribadivano che “la rivoluzione culturale di Renzi” (stessa immagine usata nel ’94 con Berlusconi) è stata quella di appropriarsi di quasi tutto il programma del centrodestra. Ecco perché non c’è più bisogno di Berlusconi: perché ce n’è già uno più
efficace e giovane di lui. I renziani fanno bene a rivendicare la capacità attrattiva che esercitano sull’elettorato altrui: il problema non è calamitare i voti degli ex berlusconiani, ma come li si calamita. Se si è disposti a copiarne il programma, ci si trova davanti al paradosso attuale: non la contrapposizione tra un centrosinistra e un centrodestra, ma la coincidenza di due centrodestra. E – come unica alternativa – un movimento di opposizione che combatte battaglie giuste ma non sa comunicare quello che fa (M5S).
Ormai i più grandi sostenitori di Renzi sono i Sallusti e i Formigoni, e c’è da capirli: Renzi, godendo dei favori di quasi tutta l’informazione italiana perché non indossa la maglia dei “cattivi” ma dei “buoni”, può ottenere tutto quello che non ha ottenuto Berlusconi. Nanni Moretti gridò che “con questa classe dirigente non vinceremo mai”: ora che ha vinto, sarebbe bello domandargli come si sente (e se ne è valsa la pena).
L’ULTERIORE PARADOSSO è che questa “sinistra” più a destra della destra, al punto che ormai la Fornero in confronto pare il subcomandante Marcos, imbarazza più i berlusconiani dei piddini. I secondi, al di là di qualche bizza irrilevante civatiana, tutto ingoiano. Di contro i primi, se per certi versi godono, avvertono comunque il loro essere periferici. Il Capo è all’angolo e i sondaggi piangono: i berluscones si trovano così costretti ad accucciarsi ai piedi dei renziani, scodinzolando a comando delle Picierno. Un contrappasso spietato, che non si augura a nessuno. Gli siamo vicini.

il Fatto 1.10.14
Il Def è appena nato e già mente: recessione sottostimata nel 2014
L’Istat: Pil giù anche nel terzo trimestre. Il -0,30 del governo è già superato
di Marco Palombi


Da qualche anno a questa parte è una simpatica tradizione, ma così si esagera: i Def (Documenti di economia e finanza), come i loro predecessori Dpef, sono sempre pieni di previsioni sbagliate, ma raramente si assiste alla smentita in tempo reale di un testo di tale rilievo.
I fatti. Nella serata di ieri il governo ha approvato la nota di aggiornamento al Def, quella in cui si ammette che si sono fatti errori nel testo precedente (quello di aprile): la crescita del Pil per quest’anno, ad esempio, passa da un fantasmagorico +0,8% a -0,3; quella dell’anno prossimo da +1,3 a +0,6%; il rapporto deficit-Pil è previsto intorno al 3% o poco sotto nel biennio (invece che all’1,8% promesso ad aprile) ; il debito pubblico al 131,7% nel 2014 e al 133,4 nel 2015; pure la disoccupazione rimane sui livelli attuali fino al 2016 (12,5%), dopo il record per quella giovanile (44,2%) registrato ieri.
Qual è il problema? Ieri l’Istat nella sua nota mensile ha diffuso le sue previsioni per il Pil nel terzo trimestre scrivendo quanto segue: gli indici economici sono “in rallentamento, suggerendo una nuova flessione del Pil nel terzo trimestre”. E ancora: “L’attuale fase di debolezza del ciclo economico è attesa proseguire anche nel terzo trimestre”. Infine: “Questa fase di debolezza ciclica dell’economia italiana si accompagna al rallentamento dell’area euro”. Bene, il risultato cumulato sull’anno dei primi due trimestri - secondo gli stessi dati Istat - è già un calo del Pil dello 0,3%, se il Prodotto scende anche nel prossimo significa che il governo ha sottostimato la recessione in corso (l’Ocse, per dire, già stima un -0,4%).
NON SOLO. L’altra notizia che si desume dall’aggiornamento del Def è che faremo austerità, ma solo un po’. “Il pareggio di bilancio - ha spiegato ieri sera Pier Carlo Padoan - è rinviato al 2017, la discesa al ritmo dello 0,5% del disavanzo strutturale riprenderà dal 2016”. Quest’anno e il prossimo l’idea è rimanere sotto il 3%, ma facendo finta che gli accordi tipo Fiscal Compact non esistono proprio (d’altronde, essendo inapplicabili, è il comportamento più comodo).
In ogni caso, il governo - a quanto risulta al Fatto - si è pure preso qualche spazio di manovra sul 2015: bisognerà controllare i testi che verranno depositati in Parlamento, ma lo stesso Padoan ha parlato ieri di “margini di bilancio” come una delle voci che copriranno la conferma degli 80 euro e altre eventuali riduzioni del cuneo fiscale “sul lato delle imprese”. In sostanza, il rapporto deficit-Pil l’anno prossimo è stato stimato a politiche invariate più in basso del 2,9% finale: sulle bozze c’era scritto un 2,3%, il che consente di liberare un mezzo punto di Pil (7,5 miliardi) da spendere senza doverli coprire con corrispondenti tagli di spesa. Non si vede, però, come sia possibile che una mancata crescita del Pil di quasi due punti percentuali (30 miliardi) in due anni rispetto alle previsioni di aprile non peggiori in maniera significativa anche l’indebitamento netto. Di certo avrà ragione il Tesoro, ma i precedenti ci rendono sospettosi.
I SEGNALI, d’altronde, non sono incoraggianti. La deflazione spinge in giù persino il Prodotto interno nominale - cioè quello che tiene conto anche del solo aumento dei prezzi - e questo, come vedremo, è insieme il segnale e una delle cause delle difficoltà prossime venture: la stessa Istat ieri ha previsto “il permanere dell’inflazione italiana su livelli vicini allo zero nei prossimi mesi”. I dati di settembre diffusi ieri dall’Istituto statistico, d’altronde, sono in linea con questo scenario (-0,3% su base mensile): “L’ulteriore diminuzione tendenziale dei prezzi al consumo è sintomo e causa della debolezza dell’economia - spiega Sergio de Nardis capo economista di Nomisma - È sintomo perché è il portato dell’insufficienza della domanda rispetto all’offerta, è causa perché l’inflazione negativa influisce sulle attese future dei prezzi, aumenta i tassi di interesse reali, deprime l’economia”. E, infatti, guardando all’indice di fiducia delle imprese dell’Istat si vede questo: “Negli ultimi due mesi è arretrata sui valori di inizio anno”. Come si vede, basta solo abolire l’articolo 18 perché le imprese ricomincino ad assumere per produrre merci da far invecchiare in magazzino. Oppure era a questo che si riferiva Padoan quando parlava di “cause della crisi ancora non ben comprese”?

Repubblica 1.10.14
Cambiare tutto senza cambiare nulla
di Tito Boeri


LA MEDIAZIONE via sms all’interno del Partito Democratico, di cui ha dato conto questo giornale sabato scorso con il testo dei messaggini fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino, rischia di rendere il Jobs Act del tutto inefficace nell’incoraggiare incrementi di produttività e più assunzioni con contratti a tempo indeterminato. Speriamo che, mettendo da parte i cellulari, e affrontando il merito dei problemi, vi si ponga rimedio.
LA direzione Pd lunedì ha approvato a larga maggioranza, non prima di deflagranti polemiche e minacce di scissione, un ordine del giorno che mantiene in vigore, fin dal primo giorno di vita di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la reintegrazione del lavoratore in caso “di licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”. Questo significa che i licenziamenti individuali continueranno a essere fin da subito molto costosi, trattando un neo-assunto come un lavoratore già presente da 20 anni nell’azienda. In barba a quelle “tutele crescenti con l’azienda aziendale” cui fa esplicitamente riferimento l’emendamento governativo al disegno di legge delega recentemente approvato dalla Commissione Lavoro al Senato. Vediamo di capire perché.
Oggi un datore di lavoro che volesse licenziare un dipendente può addurre sia ragioni di natura disciplinare (legate al comportamento del lavoratore) che economica (legate alla performance dell’impresa). Se il giudice ritiene che queste motivazioni siano infondate (si parla di “manifesta insussistenza” nel caso di licenziamenti economici), può imporre la reintegrazione del lavoratore. Si vuole ora mantenere questa possibilità per i soli licenziamenti disciplinari. Ma il confine fra licenziamenti economici e licenziamenti disciplinari è molto sottile. I datori di lavoro avranno, nel caso in cui questa modifica entrasse in vigore, l’incentivo a perseguire solo la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti opportunistici di un proprio dipendente, dato che, almeno sulla carta, i licenziamenti economici costano di meno dei licenziamenti disciplinari.
Mentre un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio comportamento. In questo caso, anche se il difetto del lavoratore fosse documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudi- potrà imporre all’azienda il reintegro del dipendente. Si tratta perciò di una modifica marginale, del tipo di quella imposta dalla Legge Fornero con il principio della “manifesta insussistenza”, che viene peraltro in questo caso introdotta solo per i nuovi assunti, mentre la legge Fornero cambiava le regole per tutti i lavoratori.
Per quanto il legislatore possa definire con precisione i licenziamenti disciplinari (“la qualificazione specifica della fattispecie” cui fa riferimento il testo approvato lunedì), con questa mediazione si crea una forte asimmetria fra licenziamenti illegittimi di diversa natura, aprendo lo spazio al contenzioso.
Nei paesi Ocse, la norma è quella di trattare tutti i licenziamenti illegittimi allo stesso modo, indipendentemente dalle ragioni inizialmente addotte dalle imprese. Da noi, invece, si mettono paradossalmente in una posizione di vantaggio i lavoratori coinvolti in un procedimento disciplinare rispetto a quelli coinvolti in una crisi aziendale di cui non hanno colpa alcuna. Se il licenziamento viene considerato legittimo, non riceveranno nulla come pure i lavoratori che hanno perso il lavoro per motivi economici.
Se, invece, il licenziamento venisse considerato dal giudice senza giusta causa, il lavoratore licenziato per questioni disciplinari potrà essere reintegrato sul posto di lavoro, a differenza di chi ha avuto la sfortuna di trovarsi in un’azienda in crisi. Gli incentivi sono perversi: per aumentare la produttività bisognerebbe proprio scoraggiare i comportamenti opportunistici.
A chi oggi deve creare lavoro in Italia importano due cose. Primo, vuole essere rassice curato sul fatto che un eventuale errore nella selezione dei candidati, inevitabile quando si assume per le prestazioni più complesse richieste dalla stragrande maggioranza dei nuovi lavori, questo errore fosse rimediabile con costi certi e contenuti, tipo una compensazione monetaria fissata per legge. Secondo, vuole essere sicuro che il dipendente si impegnerà a svolgere sempre meglio le proprie mansioni “imparando facendo”.
Il Jobs act uscito dalla direzione del Pd non cambia nulla su questi due piani. Di più, non viene neanche a sanare la contraddizione introdotta dal decreto Poletti che, permettendo di fatto un periodo di prova di tre anni, scoraggia qualsiasi assunzione a tempo indeterminato e la stessa conversione dei contratti temporanei in contratti permanenti, come certificato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie raccolti dal ministero di cui Poletti è titolare.
È sconcertante, infine, che materie così importanti, che riguardano milioni di lavoratori, vengano negoziate via sms. Credevamo che con la nuova politica, l’arte del confronto, della mediazione e della ricerca del consenso, fosse un’altra cosa.

Repubblica 1.10.14
L’articolo 18 che divide la sinistra
di Nadia Urbinati


SE IL Pd é riuscito a trovare una qualche unità sui temi della riforma costituzionale, sembra invece molto più diviso sul tema del lavoro; e la decisione della sua direzione nazionale lo conferma. Non vi é di che stupirsi. La Sinistra é nata in occidente insieme al lavoro salariato, per rappresentarne le esigenze e però anche le potenzialità di trasformazione sociale. Emancipare il lavoro dalla servitù non ha significato soltanto tradurlo in un servizio compensato (più o meno equamente), ma anche assegnarne una funzione sociale, farne un sinolo di altri diritti per coloro (la stragrande maggioranza) che non hanno altro potere se non la loro intraprendenza. Il legame della Sinistra con il lavoro non si é affievolito con la sua trasformazione democratica. Si é anzi perfezionato e arricchito. La legislazione sulla sicurezza del lavoro e la previdenza sociale, sull’eguaglianza di considerazione e di non discriminazione per ragioni di genere, di religione o di ideologia politica: a partire dal Secondo dopoguerra, tutti questi ambiti ruotano intorno al lavoro come rapporto sociale e luogo di diritti. Ora sembra che proprio su questo fronte la Sinistra italiana sia internamente divisa.
La discrepanza tra maggioranza e minoranza nel Pd riguarda il modo di dare valore al lavoro. È una differenza di filosofia, se così si può dire. La maggioranza condivide l’approccio neo-liberale e situa il lavoro in una cornice compiutamente privata: questa è la filosofia che sta dietro la proposta di abolire l’articolo 18. La minoranza non condivide l’approccio neo-liberale e pensa di riformare non abolire quell’articolo. Non é la prima volta che un governo tenta di abolire questo articolo, ma è la prima volta che un governo a leadership di centro-sinistra vuole abolirlo. La lotta tra liberisti e non (tra destra e sinistra) è catapultata dentro il Pd.
Si dirà: nella sfera economica vale la libertà di disporre ciascuno della sua proprietà. Ma è vero anche che la nostra costituzione riconosce il diritto di proprietà non come un fatto esclusivamente privato e anarchico (anche perché nessuna proprietà esisterebbe senza il potere dello Stato). A ben guardare, è l’arbitrio che l’articolo 18 vuole limitare, non la libertà economica. Esso è la conseguenza naturale dell’articolo 41 della Costituzione poiché impone una responsabilità di cittadinanza alla sfera degli interessi economici. Si ripete ormai da anni che l’articolo 18 ha comunque poco impatto, operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché insistere tanto? Perché, dice chi è per la sua abolizione, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. Ma perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? Molto probabilmente perché pensano che la democrazia debba avere una nuova regia: non la legge (il legislatore, lo stato), ma il mercato. Per questo, essi pensano che una parte importante della sfera sociale debba tornare a essere privata. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 impone è il vero ostacolo che si vuole rimuovere dunque, quello che segnala la priorità del pubblico sul privato, della legge sul mercato: che impone al datore di lavoro di rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. L’articolo stabilisce che il rapporto di lavoro non è solo un fatto privato, legittimato dal consenso dei contraenti.
Ovviamente non c’è bisogno di considerare questo articolo come un dogma per comprenderne l’importanza (e la sua riformabilità). Il punto nodale sta invece nel cogliere la filosofia che sta dietro la sua specifica formulazione. Essa invita a non considerare il lavoro come un fatto privato. Pone un limite alla libertà di licenziamento nelle aziende private con più di quindici dipendenti: il limite della “giusta causa”. Non toglie la libertà di licenziare, ma la regola affinché essa non sia puro arbitrio, esito di una decisione discrezionale in forza di un’asimmetria di potere. Questo articolo rispecchia il principio fondamentale della democrazia, che è la libertà dal dominio e dall’arbitrio. E ogni riforma proposta dalla sinistra dovrebbe mirare a confermare questo principio di libertà. La minoranza del Pd ritiene che senza l’intervento della legge questo principio non possa essere difeso e aggiunge che allentare le regole non dà alcuna garanzia che l’occupazione venga stimolata. La maggioranza del Pd pensa l’opposto. Il fatto nuovo al quale assistiamo in questi giorni è che la lotta fra queste due prospettive è interna alla Sinistra, celata dietro la lotta generazionale.

il Fatto 1.10.14
I tagli al Parlamento? Pure il Questore dice che sono finti
di Gianluca Roselli


All’annuncio nel luglio scorso i dipendenti della Camera avevano protestato con forza, tanto da suscitare l’ira di Laura Boldrini. Ieri il famoso taglio degli stipendi, con l’adeguamento al tetto dei 240 mila euro come per tutti i dipendenti pubblici, è finalmente arrivato. Il vento della spending review soffia anche sul Palazzo. Ma per alcuni si tratta di una bufala. Soldi che escono dalla porta per rientrare dalla finestra. Il nuovo tetto delle retribuzioni di Montecitorio sarà di 240 mila euro per i consiglieri; 166 mila per documentaristi, ragionieri e tecnici; 115 mila per i segretari; 106 mila per collaboratori tecnici; 99 mila per collaboratori e assistenti. Un’operazione che, secondo la Boldrini, porterà a un risparmio in quattro anni di 60,15 milioni a Montecitorio e 36,76 a Palazzo Madama per un totale di 97 milioni di euro. “Abbiamo preso una decisione senza precedenti”, esulta il presidente della Camera. Le retribuzioni del Palazzo, infatti, sono altissime. Basti pensare che un semplice barbiere a Montecitorio può guadagnare 120 mila euro, mentre il segretario generale arriva a 480 mila.
MA ANCHE IN QUESTA RIFORMA c’è l’inghippo. Il tetto dei 240 mila, infatti, non tiene conto degli oneri previdenziali e delle indennità di funzione. Netto invece che lordo, quindi. Se invece vengono compresi, ecco che la cifra sale a 360 mila. I tagli inoltre saranno scaglionati su quattro anni, quindi la riforma avrà piena applicazione nel 2018. Non cambia, infine, l’aumento del 2,5 per cento annuo automatico, che non ha pari in nessun’altra categoria professionale. “I tagli sono modesti. La situazione emergenziale del Paese avrebbe richiesto più coraggio. Peccato, perché era una buona occasione per accorciare la distanza siderale tra il Paese reale e le istituzioni”, afferma Stefano Dambruoso, deputato questore di Scelta civica, che si è astenuto. Ma Dambruoso ha fatto di più. Calcolatrice alla mano, ha dimostrato come un consigliere parlamentare con questi tagli nel 2015 avrà una retribuzione di 360 mila euro. Anche i grillini protestano. “È una riforma truffaldina, il taglio è un falso, un’illusione ottica”. L’azzurro Maurizio Gasparri, invece, è soddisfatto, ma chiede che la sforbiciata tocchi anche al Quirinale.

il Fatto 1.10.14
Renzi in direzione Pd: ho detto lavoratori? Volevo dire disoccupati
di Francesca Fornario

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il Fatto 1.10.14
House of Cards, l’autore a Renzi: “Il mio libro non è un manuale di istruzioni”

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La Stampa 1.10.14
Lampedusa, un anno dopo la strage di migranti. Amnesty: “Bisogna mantenere Mare Nostrum”
L’organizzazione non governativa in un rapporto presentato al Parlamento Ue: «Forti dubbi che Frontex possa gestire il salvataggio dei migranti». E attacca: «Serve politica comune»

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Repubblica 1.10.14
Se lo zingaro diventa un capro espiatorio
di Chiara Saraceno


GLI zingari che rubano i bambini. Uno stereotipo tanto radicato e diffuso quanto privo di ogni fondamento, di ogni evidenza empirica e persino di ogni plausibile spiegazione. Perché mai gli zingari dovrebbero rubare i bambini, infatti, come se non ne avessero abbastanza dei loro? Eppure, sembra essere la prima cosa che viene in mente, che viene ritenuta plausibile, non solo quando un bambino, effettivamente, sparisce, ma anche quando un bambino della comunità zingara è troppo biondo e chiaro di pelle “per essere davvero figlio loro”, scatenando ipotesi fantasiose di rapimento. È avvenuto tempo fa in Grecia quando una bambina, appunto, “troppo bionda per essere zingara”, venne individuata in un insediamento rom, scatenando accuse di rapimento e ricerche dei “genitori veri”, salvo scoprire che questi erano effettivamente diversi da quelli che avevano la custodia della piccola, ma, zingari anch’essi, la avevano ceduta in una sorta di affido famigliare informale, per- ché non erano in grado di provvedere per lei. Da segnalare che tutte le sollecite preoccupazioni per il benessere della bambina sparirono quando si scoprì che, dopo tutto, era solo una rom. Un caso molto simile scoppiò nello stesso periodo in Irlanda, salvo scoprire che gli zingari “rapitori” erano i genitori a tutti gli effetti, biologici e legali. Non stupisce allora che uno stereotipo tanto radicato possa essere utilizzato come una copertura plausibile da un adulto che cerca di coprire le proprie responsabilità. Come ha fatto il padre che qualche giorno fa, per nascondere di aver perso di vista il proprio figlioletto di tre anni e il suo amico ad una fiera di paese nel torinese, dichiarò di averlo salvato dalle grinfie di uno zingaro che lo aveva rapito. Dimostrando la stessa incoscienza e irresponsabilità della quindicenne che, qualche anno prima, per nascondere di aver fatto l’amore con il proprio ragazzo, denunciò per stupro un giovane rom, scatenando una rappresaglia feroce e incivile contro il campo nomadi. Fortunatamente, questa volta la polizia è riuscita a smascherare la bugia prima che le pulsioni antizingare si organizzassero e partisse la spedizione punitiva.
La spiegazione della diffusione dello stereotipo dello zingaro come quintessenza della brutalità malvagia non va ricercata in qualche esperienza effettiva in un passato più o meno lontano, e neppure, forse, nella società contadina. Mito letterario costruito dai commediografi italiani e spagnoli tra cinque e seicento, nel periodo di prima formazione degli stati moderni, con le loro esigenze di controllo sia del territorio sia della popolazione, esso è assimilabile ad altri stereotipi di cui sono state e sono oggetto altre minoranze: gli ebrei che rubavano i bambini (cristiani) per nutrirsi del loro sangue, i mendicanti che li rubavano per mandarli ad elemosinare. Gli zingari sembrano condensare in sé tutte le caratteristiche di una minoranza designabile insieme come altro da sé e come capro espiatorio: sono (o meglio erano) nomadi, di una etnia diversa da quella prevalente nei luoghi in cui transitano o abitano; sono poveri e chiedono l’elemosina; hanno abitudini e comportamenti spesso molto diversi da quelli prevalenti. Lo stereotipo è talmente forte, per altro, che mentre si accetta senza battere ciglio che vivano in condizioni spesso spaventose (tanto sono “come animali”, “sub-umani”), purché i loro insediamenti siano a debita distanza da quelli dei “civilizzati”, si considera una pretesa fuori luogo che chiedano invece di poter vivere in condizioni civili. Così come si ignora che molti rom e sinti, non solo non sono più nomadi, ma sono insediati accanto a noi, in abitazioni simili alle nostre, mandano i figli a scuola, hanno, o vorrebbero avere, una occupazione regolare e non vorrebbero essere costretti a vergognarsi, a nascondere, di essere rom. Gli stereotipi condannano i rom alla propria diversità, alla immagine negativa che la accompagna e che li rende insieme vulnerabili e scarsamente legittimati a ricevere sostegno. Una diversità, per altro, oggi resa più complicata dal fatto che i campi rom sono sempre più affollati da migranti dei paesi dell’Est, non sempre rom essi stessi, che solo in questi luoghi spesso di estremo degrado trovano una qualche, per quanto fragile e rischiosa, accoglienza.

il Fatto 1.10.14
Servizio psichiatrico: i maltrattamenti sui degenti avranno conseguenze?
di Toni Nocchetti

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il Fatto 1.10.14
Marta Russo, Scattone farà il professore di liceo: supplente di storia fino a giugno
L'ex assistente universitario condannato per la morte della studentessa alla Sapienza, dopo aver scontato la pena, tornerà a insegnare

Il preside: "A scuola c'è serenità, io rispetto tutti i docenti alla stessa maniera"
di Alex Corlazzoli

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La Stampa 1.10.14
Ticket più alti e tempi biblici chiudono le porte della Sanità
Il Tribunale del malato: troppi tagli, sempre più difficile l’accesso alle cure pubbliche
di Maria Corbi


La Sanità era un vessillo, un vanto dello Stato sociale italiano. Lo erano molte cose. E anche questa deve coniugare il suo verbo al passato: «Ei fu». Ticket sempre più cari, tempi di attesa biblici, difficoltà di accesso alle cure. Gli italiani non ne possono più.
Su oltre 24 mila segnalazioni giunte nel 2013 al Tribunale per i diritti del malato (secondo quanto emerge dalla 17ª edizione del Rapporto Pit Salute «Sanità in cerca di cura»), quasi un quarto (23,7%, +5,3% rispetto al 2012) riguarda le difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie determinate da liste di attesa (58,3%, -16% sul 2012), peso dei ticket (31,4%, +21%) e dall’intramoenia insostenibile (10,1%, - 5,3%).
Una corsa a ostacoli quella del cittadino per farsi curare e per di più troppo cara per le finanze in tempo di crisi, causa tariffe intramoenia esose e ticket lievitati. «I cittadini oggi hanno bisogno di un Ssn pubblico forte, che offra le risposte giuste al momento giusto e che non aggravi la situazione difficile dei redditi familiari. È un punto di partenza imprescindibile per impostare la cura appropriata per il Ssn, che non può essere messa a punto senza il coinvolgimento delle organizzazioni dei cittadini», spiega Tonino Aceti, Coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva.
«Dobbiamo innanzitutto ridurre i ticket, scongiurare nuovi tagli al Fondo sanitario nazionale e governare seriamente i tempi di attesa di tutte le prestazioni sanitarie, e non solo di alcune come accade ora, mettendo nero su bianco un nuovo Piano di governo dei tempi di attesa, fermo al 2012».
Quasi la metà (44%) dei cittadini contatta Cittadinanzattiva per i costi elevati e gli aumenti dei ticket per specialistica e diagnostica, il 34,4% per avere informazioni sull’esenzione dal ticket, il 12,9% sul perché alcune prestazioni siano erogate a costo pieno (e non solo con il ticket) e l’8,6% sulla mancata applicazione dell’esenzione.
Al secondo posto, le segnalazioni sull’assistenza territoriale (15,6%, in lieve aumento rispetto all’anno precedente); in particolare l’assistenza ricevuta da medici di base e pediatri di libera scelta (il 25,7% delle segnalazioni, +2,3%), soprattutto perché i cittadini si vedono negata una visita a domicilio o il rilascio di una prescrizione; la riabilitazione (20,3%, +6,7%), in particolare per i disagi legati alla mancanza o scarsa qualità dei servizio in ospedale o alla difficoltà nell’attivazione di quello a domicilio; l’assistenza residenziale (17,3%, invariato rispetto al 2012).
Dopo essere stato per anni il primo problema per i cittadini, la presunta «malpractice» rappresenta la terza voce di segnalazione (15,5% delle segnalazioni nel 2013 vs al 17,7% del 2012). Pesano i presunti errori terapeutici e diagnostici (66%, ossia i due terzi delle segnalazioni, +9% sul 2012); seguiti dalle condizioni delle strutture (16%, -7%), dalle disattenzioni del personale sanitario (10,4%, -2,1%), dalle infezioni nosocomiali e da sangue infetto (3,8%).
Nell’ultimo anno il valore pro-capite della spesa sanitaria privata si è ridotto da 491 a 458 euro e le famiglie italiane hanno dovuto rinunciare complessivamente a 6,9 milioni di prestazioni mediche private. Sempre meno soldi per curarsi. E per la prevenzione.

La Stampa 1.10.14
Dove l’ecografia va prenotata prima di rimanere incinta
di Maria Corbi


Mariana V, 29 anni, è alla sua prima gravidanza. Felice di avere un bambino, felice, lei romena, di stare in Italia dove è garantita l’assistenza. È in regola, ha la tessera sanitaria, il diritto ad essere assistita. Come fosse un’italiana. Il medico le dice che deve fare un’ecografia feto-placentare alla dodicesima settimana.
Tutto chiaro, sembra facile. Chiama il centro unico di prenotazione del Lazio. Le risponde una gentile signorina che quando sente la domanda non si trattiene dal ridere. «Signora ma è impossibile farla prima della fine di febbraio, doveva chiamare prima».
«Chiamare prima quando? - insiste Mariana -. Sono all’ottava settimana di gravidanza, ho appena saputo di aspettare un bambino. E adesso come faccio?». Dall’altra parte una stentata comprensione: «La capisco, ma che cosa vuole, qui le cose stanno così. Prenoti per la prossima gravidanza».
Eh sì, il calcolo è presto fatto: se l’attesa per una ecografia in gravidanza è mediamente di cinque mesi, questo significa che una donna che ne ha bisogno dovrebbe prenotare due mesi prima di rimanere incinta.
Così Mariana cerca un centro convenzionato ma è una caccia al tesoro. Nel privato deve spendere 120 euro. «Ma per me è una spesa enorme. Continuerò a cercare. Intanto prenoto l’ultima ecografia, quella precedente al parto, per valutare la crescita. E spero che ci sia posto».
Mariana pensava che in Italia le cose andassero in maniera diversa. Anche il ginecologo pubblico in cui è incappata le ha detto chiaramente che se vuole avere lui in sala parto deve fare le visite privatamente, pagandole.
Altrimenti, si va al pronto soccorso e si partorisce con l’assistenza di chi è di turno. «Ma non è dappertutto la stessa cosa in Italia, una mia amica che sta a Firenze dice che non ha avuto nessun problema. Se si può, mi conviene cambiare regione per gli accertamenti. Pago il viaggio ma almeno ho la prestazione». [m. cor.]

Corriere 1.10.14
Hong Kong, ordine ai dimostranti: ritiratevi
Oggi la giornata decisiva nell’ex colonia. Pechino al bivio. Ma anche il fronte dei manifestanti è diviso
di Guido Santevecchi


HONG KONG Una grande stella rossa identifica il grattacielo dove ha stabilito il suo quartier generale la guarnigione dell’Esercito di liberazione popolare a Hong Kong. Dai vetri ieri si sono visti spuntare molti binocoli: gli ufficiali cinesi scrutavano le manovre campali che si svolgono da tre giorni nella city. Sul Victoria Harbour verso le nove hanno volato in formazione due elicotteri e due aerei da trasporto militari; impossibile dire se portassero rinforzi per la polizia o fossero lì per farsi vedere.
Nella strade paralizzate del centro finanziario, per metà giornata i giovani del fronte democratico hanno riposato. Indisturbati dai poliziotti, alcuni nuclei di ragazzi in maglietta nera e fiocco giallo al petto hanno aggiustato le barricate, spostato le provviste. Tutto doveva essere pronto per la notte, quando la grande folla si è ricostituita. Dopo il tramonto ha cominciato a diluviare, ma nessuno ha lasciato le superstrade occupate tra Central e Admiralty.
Le voci raccolte tra i giovani dimostranti e i professori del movimento Occupy Central ci dicono che il picco di questa ondata di protesta contro le decisioni liberticide della Cina dovrebbe essere oggi, nel giorno della festa nazionale della Repubblica popolare. Ma che cosa succederà? La polizia, dopo la violenza usata domenica sera, resterà defilata? O verrà lanciata all’attacco finale? C’è spazio per dialogare?
Nessuno spiraglio, a sentire CY Leung, il Chief Executive (capo dell’esecutivo) di Hong Kong. Parole dure le sue: «La Cina non scenderà a compromessi, nel 2017 si voterà secondo la legge stabilita, quindi cessate immediatamente la protesta, la situazione sta sfuggendo al controllo». La folla risponde gridando «Dimissioni, dimissioni».
A Pechino, il presidente Xi Jinping e il Politburo sanno di avere poche opzioni: il leader non si può mostrare debole, ma sa anche che spazzar via i ragazzi dalle strade di Hong Kong porterebbe molte vittime e non garantirebbe di mettere a tacere il fronte democratico. Nella ex colonia britannica del 2014 forse non si può calare il pugno di ferro come a Tienanmen nel 1989. Perché qui la voce della gente non si può spegnere come nel resto della Cina; perché Internet non può essere oscurato indefinitamente (tra l’altro i ragazzi per scambiarsi messaggi stanno usando la nuova app FireChat che non ha bisogno di web); perché i giudici sono ancora indipendenti; e perché non si può strozzare una piazza finanziaria come Hong Kong che ha ancora la forza di influenzare i mercati di tutta l’Asia come in queste ore, con vistosi cali.
Una fonte rivela al Corriere che anche il fronte democratico è nel guado. Qualche frizione e contrasto tra studenti e «anziani», i professori e gli intellettuali. Nella notte era prevista una riunione per decidere la strategia. E anche i democratici hanno poche opzioni: sanno che a Pechino ormai la crisi di Hong Kong non può più essere trattata come un fatto che riguarda solo la città e i suoi sette milioni di abitanti: Hong Kong è Cina, ed è un banco di prova per il sistema di potere. Xi Jinping ha ripetuto ai compagni del Politburo che cedere sulle questioni ideologiche significa fare la fine dell’Urss e perdere tutto.
Il professore universitario Joseph Cheng è uno dei fondatori della Alliance for true democracy. È reduce da una cella: «Mi hanno arrestato domenica, e mi hanno tenuto fino a notte fonda. Un fatto irragionevole, anche se il trattamento è stato civilizzato», sorride. Ma subito si fa cupo: «Temo che siamo arrivati alla fine dell’eccezione di Hong Kong. Pechino vuole spazzar via i nostri valori, il nostro stile di vita. Vuole ridurre Hong Kong al rango di una delle tante città della Cina». Il professore suggerisce una via: discutere sulle elezioni del 2020, se per quelle del 2017 non c’è più spazio. Temporeggiare e dialogare. E quanto tempo potrà ancora andare avanti l’occupazione di Hong Kong? «Il nostro è un movimento spontaneo, cerchiamo di sopravvivere giorno per giorno, ma presto i genitori vorranno che i figli tornino a scuola, i negozianti penseranno agli affari sfumati per il blocco. Quindi fra qualche giorno andremo a casa, in attesa di qualche segnale, fino alla prossima ondata di disobbedienza civile».

La Stampa 1.10.14
Nastri gialli, disciplina e sorrisi. I bravi ragazzi sfidano la Cina
Quarta notte di occupazione. L’ultimatum del governo: ora basta
di Ilaria Maria Sala


Le continue richieste di dialogo portate avanti dai ragazzi in lotta per ottenere elezioni libere sono cadute ancora una volta nel vuoto. L’unica risposta è stata l’ultimatum del capo del governo, Chun-ying Leung, che «pretende» che le manifestazioni cessino «immediatamente» e afferma che Pechino non si «piegherà mai» alle richieste dei democratici. E mentre il segretario generale dell’Onu, Ban ki-moon, lancia un appello perché si trovi una «soluzione pacifica» migliaia di ragazzi continuano a occupare il cuore del distretto finanziario di Hong Kong, a pochi passi dalla sede del governo.
Yeewan Koon, professoressa di Storia dell’Arte all’Università di Hong Kong, è stregata dalle immagini della diretta televisiva dei sit-in che occupano la città. Da quando lo sciopero degli studenti è cominciato, venerdì scorso, ha fatto diversi andirivieni per dare un’occhiata, ed è «commossa dagli studenti – dice – .Oggi, un mio studente è venuto in classe dopo aver passato la notte al sit-in. Ha fatto la doccia, è venuto e ha registrato tutto, per condividerlo con i suoi compagni che boicottano le lezioni». Yeewan Koon aggiunge; «Sono così gentili, rispettosi, si scusano del disturbo, ma spiegano che devono davvero essere lì. Mi chiedono se voglio che facciano compiti extra».
Il centro di Hong Kong, così come diversi punti del territorio – dal lato di Kowloon, per esempio, e a Mongkok – è completamente modificato da quest’azione senza precedenti. Strade di solito percorribili in auto sono ora ampi corridoi di protesta. Ci sono solo loro, i loro ombrelli, i sacchi di immondizia con i cartellini per la raccolta differenziata, materassini per lo yoga e teli di plastica sui quali si sdraiano i più stanchi, fiocchi gialli simbolo della richiesta di suffragio universale, e cartelli che dicono «Amo Hong Kong!», o citano Charles Dickens: «Erano i tempi peggiori. Erano i tempi migliori» firmandolo con: «Hong Kong Umbrella Revolution».
Quasi tutti sono vestiti di nero – seguendo, come spesso avviene a Hong Kong, il codice-colore delle manifestazioni di massa. Claire, di 23 anni (come tutti a Hong Kong ha un nome inglese, e preferisce usare quello), studentessa di biologia, distribuisce fazzolettini di carta da uno scatolone: «Sono venuta perché è mia responsabilità farlo», dice, con un sorriso enorme. «Queste sono tutte donazioni. Ci danno biscotti, fazzolettini, anche cerotti rinfrescanti per combattere il caldo». Alcuni volontari distribuiscono ombrelli, divenuti il simbolo di questa protesta a oltranza, e utili per proteggersi da pioggia e sole, o lacrimogeni. Dopo alcune ore camminando fra di loro ho le tasche piene: una bustina di plastica («se piove puoi proteggere il telefono», dice la ragazza che me l’ha data), salviette disinfettanti, un poncho di cellophane e dei nastrini gialli con la spilla da balia.
Leo, Ted e Sam, tre compagni di liceo di 17 anni, in maglietta nera e fiocchetto giallo, sono qui da tre notti. «Siete stanchi?», «Sì», rispondono all’unisono. Poi si cedono la parola l’un l’altro: «Tocca a noi adesso lottare per la democrazia. Non so per quanto tempo resteremo qui, ma sarà fino a che qualcuno non accetterà di parlarci», dice Ted. Sam spiega che all’inizio, non pensava di venire, «poi ho visto quello che ha fatto la polizia, quando ha caricato coi bastoni e i lacrimogeni, e mi sono infuriato - dice - non possono fare questo a Hong Kong».
Quando chiedo se sono spaventati di nuovo rispondono tutti insieme: «Sì!». «È la prima volta che manifesto - dice Leo - per cui, sì, ho paura». Mentre parliamo veniamo interrotti da tre ragazzi con grossi sacchi neri che chiedono: «Spazzatura?». I tre liceali raccolgono ogni cartaccia che trovano, una bottiglietta vuota di plastica, e danno tutto ai volontari.
La protesta degli studenti di Hong Kong è sorprendente per le sue dimensioni – difficili da stimare, ma si parla di oltre 130 mila persone –, per la sua pacatezza, per l’estrema giovinezza dei suoi partecipanti, e per la loro calma e determinazione.
E malgrado i giorni che passano, e la folla che va via via ingrossandosi, non hanno un leader, un gruppo a cui si rifanno rispettandone o dibattendone le decisioni. Nelle grandi arterie di Hong Kong liberate dal traffico e riempite di persone ora ci sono comizi improvvisati, più o meno seguiti, e tantissimi ragazzi e ragazze che guardano i loro telefonini, dormono, chiacchierano, aspettando che il governo faccia un cenno di dialogo. Ariel, Stephanie e Lucas stanno aiutando a dirigere i nuovi venuti verso i luoghi in cui c’è ancora posto. Dai 18 ai 20 anni, studiano turismo e leggono il sito web dell’«Apple Daily», il quotidiano pro-democrazia della città. «Abbiamo letto lì alcuni dei dettagli delle manifestazioni - dicono - e su Twitter, Facebook e sui forum. Ma non seguiamo nessuna indicazioni: siamo qui perché è nostra responsabilità lottare per il nostro futuro», dice Ariel.
Oggi, 1 ottobre, è il 65o anniversario della fondazione della Repubblica Popolare cinese, e milioni di turisti cinesi stanno per riversarsi a Hong Kong. «Forse resteranno meno tempo - dice Stephanie - o forse vedranno come si lotta per la democrazia», sorride Ariel.

il Fatto 1.10.14
Hong Kong e Macao, la sfida delle ex colonie alla madrepatria
La parabola dei ricchi possedimenti inglesi e portoghesi ripresi da Pechino
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Lasciate che Hong Kong si democratizzi per prima”. Ecco uno dei tweet che circolavano oggi nell'intranet cinese. Riecheggia lo storico motto con cui Deng Xiaoping aprì quel periodo di riforme e aperture che hanno portato la Cina a essere quella che è oggi: lasciate che alcuni si arricchiscano prima. In quegli stessi anni Deng incontrava la Lady di Ferro Thatcher per discutere il destino di Hong Kong. Lei minacciava: “Chi ha soldi e capacità lascerà immediatamente il territorio e il collasso economico sarà irreversibile”.
Ma la storia le ha dato torto. Se Shanghai negli anni Trenta era considerata “la Parigi d'Oriente”, Hong Kong in mano agli inglesi era divenuta “la piccola Shanghai”. Un rifugio dei “nemici del popolo” che negli anni Cinquanta scappavano dalla Cina maoista e portavano con se capitali, artigianato e cultura. Negli anni Sessanta era già diventata un polo della manifattura tessile mondiale e da allora la sua economia, non ha fatto altro che crescere. Nel 1997 il pil era già 180 volte quello del 1961 e nel 2011 il pil pro capite era più alto di quello degli Stati Uniti, il 6° a livello mondiale. Intanto il suo porto è diventato uno dei più attivi del mondo e la sua borsa una delle più fiorenti.
TUTTO QUESTO nonostante la Repubblica si sia ripresa la colonia britannica nel 1997. L'accordo fu firmato nel 1984. Nella Dichiarazione congiunta sino-britannica si concordò per Hong Kong lo status di regione amministrativa speciale “in tutti i settori ad eccezione della difesa e della politica estera”. E si stabilì che la zona avrebbe mantenuto il suo sistema economico capitalista e garantito diritti e libertà ai suoi cittadini per altri cinquant'anni. Cioè fino al 2047. Tali garanzie vennero sancite dalla costituzione, la legge fondamentale di Hong Kong, che fu formulata sulla base del Common Law britannico. Tuttavia, si specificò, quest'ultima sarebbe stata soggetta all'interpretazione del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo.
La stessa Assemblea che a luglio ha decretato che Hong Kong avrebbe avuto sì le prime elezioni a suffragio universale nel 2017, ma che si sarebbe potuto candidare solo “chi amava la Patria”, ovvero la Repubblica popolare. Questa la miccia delle proteste di questi giorni. Anche perché 17 anni non sono bastati agli hongkonghesi per abbandonare l'orgoglio di sentirsi diversi, in qualche modo superiori alla Cina propriamente detta. Negli ultimi anni c'è chi addirittura ha comprato pagine di giornali per lanciare campagna contro le “cavallette” cinesi che ora, forti di una ricchezza impensabile fino solo a qualche anno fa, arrivano a frotte a fare shopping nell'ex colonia.
“UN PAESE, DUE SISTEMI” è la soluzione che ha consentito alla Repubblica popolare di continuare a governare aree “speciali” come Hong Kong e Macao (un'ex colonia portoghese) nonostante queste adottassero, a causa della loro storia recente, sistemi politici ed economici diversi. Entrambe infatti hanno una sorta di Parlamento distinto e un governatore che chiamano amministratore delegato. Ed entrambe sono tra le economie più liberiste del mondo nonostante sulla carta facciano parte del “socialismo di mercato” cinese. Anzi. Ormai sono strettamente correlate. Macao vive di turismo e di gioco d'azzardo attirando milioni di cinesi. E Hong Kong di finanza. E ormai circa il 60 per cento del valore della borsa di Hong Kong dipende da imprese cinesi. Oggi Hong Kong è di fatto il ponte tra la Cina e il resto del mondo per quanto riguarda il commercio e, ancor più, la finanza.
Nonostante la nuova Zona economica speciale di Shanghai si appresti a fargli concorrenza, se oggi Hong Kong dovesse perdere la sua reputazione di hub della finanza mondiale, la moneta cinese potrebbe perdere ogni speranza di competere direttamente con il dollaro. Per questo la Cina è spaventata. E al di là della richiesta di democrazia, le manifestazioni degli ultimi giorni hanno di fatto bloccato la città. Anche economicamente. Tanto che l'autorità monetaria di Hong Kong, di fatto la sua banca centrale, si è dichiarata pronta “a iniettare liquidità nel sistema bancario qualora si rendesse necessario”.

il Fatto 1.10.14
Hong Kong, dietro le proteste per la democrazia c’è la paura del modello cinese
Il direttore di China Labour Net e attivista del movimento operaio locale: "La gente sa che il nostro governo è colluso con il Pcc e che l'attacco alle libertà arriva da un'alleanza tra il Pechino e il grande business locale"
di China Files

qui

Repubblica 1.10.14
Nelle strade della resistenza ombrelli, biscotti e paura “L’esercito ci ha circondati”
Oggi è il 65esimo anniversario della repubblica maoista ultimatum al governo: “Via o occuperemo i palazzi del potere”
di Giampaolo Visetti


HONG KONG L’ORDINE non è partito da Pechino, però qui piove e anche se questa è stata battezzata “rivoluzione degli ombrelli”, il cielo sopra il delta del fiume delle Perle non sembra dare una mano ai manifestanti democratici. Dopo tre giorni di guerriglia tra i grattacieli di Hong Kong, sette per gli studenti in sciopero, un’altra notte fradicia e bollente, trascorsa per strada, fiacca le energie anche dei più giovani. «Molti sono stanchi — dice il designer Wong Hing sotto la sede del governo ad Admiralty — ma nessuno cederà prima di aver ottenuto la vittoria». Un giorno di tregua, dopo il ritiro dei reparti speciali, serve così per far aumentare nell’ex colonia inglese la tensione per la ripresa della rivolta anti-cinese. I leader democratici degli studenti e di Occupy Central, riuniti a Causeway Bay, approvano l’ultimatum: se il governatore Leung Chun-ying non si dimetterà entro oggi, ritirando la riforma elettorale-truffa che nel 2017 avrebbe affidato al partito comunista la preselezione dei candidati al «suffragio universale», riesploderà la disobbedienza civile in tutta la capitale finanziaria del Sud, con la proclamazione dello sciopero generale.
Poche ore, dunque, prima di occupare, disarmati e con metodi non violenti, le sedi del potere politico e di quello finanziario, affacciate sul Victoria Harbour. «Ci ispiriamo a Thoureau, Mandela e Martin Luther King — dice il segretario della federazione degli studenti, Alex Chow — e sappiamo che chi difende l’ingiustizia viene superato dalla Storia». Nessun assalto, nelle ultime ore, ma la febbrile preparazione di una resistenza che potrebbe durare a lungo. Mobilitate anche mamme, anziani e famiglie, incaricati di ammassare scatoloni di biscotti, bottiglie d’acqua e impermeabili agli angoli delle arterie bloccate, o nei sottopassi del metrò. Davanti ai negozi più eleganti del mondo, tra Kowloon e Wan Chai, crescono montagne di coperte, tende da campo e fantocci del governatore, vestito come un boss delle triadi. I democratici di “Occupy Central”, per non perdere lo slancio contro il potere filo-cinese invitano la popolazione a «invadere cantando e sorridendo ogni angolo della metropoli». Sull’altro fronte, un regime invisibile e muto. Chi resta schierato con la “madrepatria”, mondo del business, funzionari, vecchi nostalgici di Mao, vive asserragliato nei palazzi sotto il Victoria Peak, scosso dall’incubo del tramonto della capitale degli affari off-shore.
Dopo un giorno di silenzio, si dice causa convocazione urgente a Pechino, torna invece a farsi sentire Leung Chun-ying. Intima lo «sgombero immediato delle aree occupate», avverte che non si dimetterà mai, anche «per non costringere la città a rivotare con il vecchio sistema», ripete che la Cina considera «definitiva» la riforma approvata a fine agosto e intima ai diplomatici stranieri di «stare alla larga da proteste illegali». «Il mio governo — aggiunge — non cederà ai vandalismi degli estremisti e spero che la gente rifletta sull’impatto che i fuorilegge hanno su sicurezza, sviluppo e immagine di Hong Kong». Anche i leader cinesi, a poche ore dai solenni festeggiamenti per il 65° anniversario dalla fondazione della repubblica di Mao, tornano a minacciare. «Sosteniamo in pieno il governatore Leung contro chi calpesta lo Stato di diritto — dice a Pechino la portavoce del ministero degli Esteri — e diffidiamo chiunque dall’intromettersi in affari nazionali interni». Trascorre così una notte di braccio di ferro, di muro contro muro, con il fiato sospeso per quanto potrebbe succedere oggi. Una data cruciale. A Pechino e nel resto della Cina continentale sono previste parate militari, feste e celebrazioni patriottiche all’insegna dell’orgoglio nazionalista. A Hong Kong, fuochi d’artificio e sfilate sono state cancellate e si teme possa accadere qualcosa di peggio, di una semplice esplosione degli scontri. «Sappiamo che da settimane la città è circondata dall’esercito cinese — dice il veterano dei democratici, Martin Lee — e che per ora non c’è l’ordine di occuparla. In occasione del primo ottobre però, se la situazione sfuggirà di mano, potrebbe scattare una sorta di cordone sanitario esterno, teso a isolarla ». Per il presidente Xi Jinping, imbarazzo e rischio sono al massimo.
Oggi, da tradizione, milioni di turisti cinesi del continente dovrebbero invadere Hong Kong per la settimana di ferie d’autunno, votata allo shopping. Il problema, per il regime comunista, è che i cinesi, a causa della censura, non sanno che la colonia riannessa nel 1997 è in rivolta. Tantomeno Pechino, che teme il contagio del virus democratico sulla terraferma, accetta che i suoi patrioti in vacanza si imbattano in migliaia di connazionali che sul Mar Giallo non festeggiano, ma lottano proprio contro l’autoritarismo. Hong Kong oggi rischia dunque di tornare un arcipelago irraggiungibile e consegnato al nulla, in modo che la censura di Stato non risulti ridicolizzata in un’occasione storica. «Per questo — dice Lee Shing-ho, studente di Mongkok — i nostri governanti e quelli di Pechino cercano di prendere tempo. Fingono di rinunciare alla forza, si richiamano alle legge e prospettano il crollo dell’economia cittadina. Sanno che se passa un’altra settimana il mondo piazzerà anche Hong Kong nel cestino delle seccature». Scuole, uffici, banche, negozi e imprese, nei quartieri occupati dai democratici, restano chiusi. Sospese centinaia di linee dei mezzi pubblici. L’impressione è che il potere filo-cinese, approfittando delle ferie, conti di sgonfiare la “rivolta degli ombrelli” privando i manifestanti di un avversario fisico.
La propaganda nel frattempo è già al lavoro. Anche le tivù di Hong Kong, controllate dai tycoon leali a Pechino, nelle ultime ore delegittimano i leader democratici, compreso il teenager-eroe Joshua Wong, accusati di essere pagati dagli Usa, o comprati con la promessa di master negli States. Studenti e intellettuali vengono presentati come «snob viziati», l’opposto di operai e imprenditori «operosi e semplici». Fino ad ora però il potere filo-cinese non è riuscito a mobilitare un solo sostenitore. Gli oppositori invece crescono di ora in ora. «Sì — dice la liceale Christine Lai — è come prima di Tienanmen. Nell’89 Pechino ha poi soffocato nel sangue la voglia di libertà: ma nessuno ha il dubbio su da che parte stia la ragione, oggi come un quarto di secolo fa».

Repubblica 1.10.14
“Benny” Tai Yiu-ting insegna Diritto all’Università ed è il cofondatore del movimento Occupy Central
“Pechino vuole abolire la nostra libertà”
intervista di Gp. V.


HONG KONG . «La riforma elettorale imposta da Pechino a Hong Kong ricalca il sistema con cui l’Iran designa il suo presidente. La differenza è che lì nessuno lo definirebbe voto a suffragio universale». “Benny” Tai Yiu-ting insegna Diritto all’Università ed è il cofondatore del movimento Occupy Central. La polizia cinese lo ha inserito tra le file dei “sovversivi” e rischia l’arresto.
Perché è cruciale la riforma elettorale?
«È la chiave per un cambiamento in tutta la Cina. Finora non abbiamo mai potuto scegliere. Prima l’ha fatto Londra, poi Pechino. L’impegno era che dal 2017 toccasse alla popolazione. Vogliono rimangiarselo perché sanno che nessuno, se può, opta per una dittatura».
Hong Kong gode già di diritti democratici, perché la Cina dovrebbe temere il voto?
«Pre-selezionare i candidati significa controllare un potere presentato come democratico. Il passo successivo sarà abolire le libertà». CY Leung accusa i democratici di aver rinunciato ai metodi pacifici. Chiederà ai manifestanti di ritirarsi? «Hong Kong non è Pechino, le immagini hanno fatto il giro del mondo: una repressione violenta contro ragazzi disarmati. Ormai è la maggioranza della metropoli a ribellarsi».
Se nessuno cede, cosa accadrà?
«Il disastro nasce da un doppio errore. Nel ‘97 Deng Xiaoping era convinto che Hong Kong si sarebbe cinesizzata. La Thatcher era certa invece che il comunismo cinese sarebbe crollato. Hanno sbagliato entrambi, pattuendo il suffragio universale e la fine del meccanismo “un Paese due sistemi”. Ora, visto che democratici e comunisti ci sono e non vogliono cedere, il rischio che Pechino ricorra infine alla forza c’è».
Il governo cinese vi accusa di essere consigliati dagli Usa.
«Ogni volta che si chiedono libertà, Pechino mostra il fantasma dell’imperialismo occidentale. Vogliamo vivere a Hong Kong, ma potendo scegliere come».
Ci riuscirete?
«Solo se il mondo si mobilita». ( gp. v.)

Il Sole 1.10.14
I timori di Taiwan, «provincia» ribelle
Rischio contagio. Solidarietà a Hong Kong dai giovani di Taipei, che temono le ambizioni cinesi di riunificazione
di Rita Fatiguso


TAIPEI. I ragazzi dei girasoli di Taiwan ieri hanno solidarizzato con i colleghi di Hong Kong che si difendono dai lacrimogeni della polizia riparandosi sotto ombrelli multicolori, decisi a presidiare la strada finché la loro richiesta di suffragio universale non sarà accolta.
Testardi, cocciuti. Proprio come i colleghi taiwanesi che, finora, hanno impedito la firma di un accordo economico con la Cina giudicato lesivo per il futuro del Paese occupando a oltranza il Parlamento di Taipei.
È un continuo gioco di specchi, tutta l'Asia può diventare una polveriera, sembra quasi che la Storia chieda il conto. Ma i fatti di Hong Kong dimostrano il fallimento del principio "one country two systems", una nazione due sistemi, che appena venerdì scorso il presidente Xi Jinping, con infelice tempismo, ha suggerito di adottare alla delegazione taiwanese in visita nella capitale. China Daily ne ha fatto l'apertura della prima pagina, il principio era stato ventilato per Taiwan negli anni Ottanta e poi rimesso prontamente nel cassetto. E si comprende il perché.
«Cina e Taiwan dovrebbero riunirsi adottando quel principio», ha detto Xi che da mesi sovrintende alle manovre di riavvicinamento tra Cina e Taiwan, il momento clou è stato l'incontro a Nanchino qualche mese fa tra i rappresentanti dei Paesi che, com'è noto, non si riconoscono a vicenda e non hanno rappresentanze diplomatiche ma hanno creato un ufficio per Taiwan in Cina e uno cinese per Taiwan.
I due rappresentanti si sono stretti la mano sotto la statua di Sun Yat Sen. Visto da Taipei in queste ore drammatiche l'invito di Xi Jinping si è rivelato fallimentare anche a causa dei rapporti tanto faticosamente intessuti con Taiwan.
L'altra sera, al meeting annuale delle Camere di commercio taiwanesi il presidente Ma Ying-jeou, odiato dal partito nazionalista perché considerato troppo filocinese - uno studente lo ha addirittura colpito alla testa lanciandogli dietro un libro intitolato "Taiwan tradita" - parlando di Hong Kong ha detto che «la questione è sotto gli occhi di tutti, Taiwan è desolata ma dal caso Hong Kong vuol trarre alcune riflessioni».
«Da tempo Taiwan ha il suffragio universale - ha aggiunto il presidente Ma Ying-jeou - abbiamo ricevuto osservatori da Hong Kong ogni volta che abbiamo le elezioni, appoggiamo la richiesta di suffragio universale da parte di Hong Kong che è un centro finanziario importante, noi chiediamo alle autorità cinesi di ascoltare con attenzione le richieste di Hong Kong, ma anche la gente di Hong Kong deve richiederle nella maniera migliore, senza ricorrere alla violenza. Anche la Cina potrà beneficiare del suffragio universale a Hong Kong, però noi non potremo mai accettare la proposta cinese, siamo una sola nazione con una nostra sovranità, con la nostra Costituzione, noi manterremo lo status quo, non ci uniremo alla Cina, non abbiamo bisogno di indipendenza e non useremo la forza nelle relazioni sullo Stretto».
Ma il fuoco cova sotto la cenere anche qui. Taiwan è sempre più legata alla Cina, nonostante la proclamata equidistanza da Cina e Stati Uniti, la spinta economica di Pechino è diventata fortissima. Ieri sono state diffuse le prime cifre sui depositi in yuan a Taiwan, un vero boom: hanno già superato i 117,285 miliardi di yuan e l'obiettivo per il 2014 era di "appena" 100.

Il Sole 1.10.14
Tienanmen è lontana ma la Cina teme contagi
Ugo Tramballi


È una splendida sveglia, sapendo leggerla in prospettiva: una domanda di democrazia alla quale Hong Kong e soprattutto la Cina prima o poi dovranno dare una risposta intelligente. Ignorare ciò che sta accadendo sarebbe un errore perché anche se oggi, anniversario della Cina comunista, Occupy Central fosse repressa, indietro non si torna più. È solo questione di tempo. Per quanto, diversamente da noi, nella cultura confuciana sinonimo di tempo è pazienza.
Come dimostra il disastro delle Primavere arabe, la democrazia è un bene per Paesi socialmente ed economicamente avanzati. I sette milioni di hongkonghesi hanno dunque il diritto di averla perché saprebbero come amministrarla. Il miliardo e 300 milioni di cinesi del continente forse non ancora.
La Cina comunista non ha mai tentato di spacciarsi per una "democrazia popolare". Giustifica le sue chiusure politiche con la destabilizzazione che un cambiamento potrebbe provocare nel bel mezzo della vera lunga marcia di quel popolo: la trasformazione e la modernizzazione di una delle nazioni più antiche del mondo.
La storia cinese degli ultimi due secoli dà qualche ragione al Politburo. I dati sociali ed economici no: quanto meno testimoniano che il compimento della marcia non è lontano. Nel 1776 la parola d'ordine dei ribelli del New England era «no taxation without representation». Non era uno slogan rivoluzionario ma una rivendicazione borghese.
I cinesi che sono liberi di comprare quel che vogliono su internet, che investono, i cui figli vanno e tornano da Harvard, sono sempre più simili a quei borghesi americani. Se è vero che stiamo parlando di un prodotto della cultura occidentale, la democrazia rappresentativa è un bene trasportabile in natura: come il greggio. Il decollo economico e poi politico del Giappone e della Corea del Sud sono modelli asiatici.
Il problema nel mondo cinese è che il tempo e la pazienza restino sinonimi. Piazza Tienanmen fu una tragica rottura.
Tuttavia dopo il massacro di 25 anni fa, la Cina non si è chiusa in un immobilismo timoroso: è parte del Wto, ha aperto la sua economia, gioca le sue partite geopolitiche dentro il sistema internazionale, cambia radicalmente leadership ogni dieci anni. Sulla vicenda della scelta dei candidati al posto di chief executive, praticamente l'amministratore delegato della regione autonoma di Hong Kong, la Cina non sta violando gli accordi successivi a quello del 1984 firmato da Deng Xiaoping e Margareth Thatcher. Gli hongkonghesi, che non avevano diritto di voto ai tempi della colonia britannica, avrebbero conquistato il suffragio universale attraverso una devolution politica nel tempo. Ma non veniva specificato come i candidati sarebbero stati selezionati. Già così Hong Kong è di gran lunga più avanti di Pechino nei diritti politici, rispettando il principio di "un solo Paese, due sistemi" sancito nell'84.
Sono i giovani di Occupy Central a forzare i contenuti degli accordi, come è naturale che sia per una regione autonoma in realtà matura per la piena democrazia. Questo Deng non lo aveva previsto. Ora è difficile pensare che l'Esercito popolare cinese o, per interposta milizia, la polizia locale, provochino una Tienanmen in Statue Square, davanti alla sede centrale della Hong Kong-Shanghai Bank costruita da Sir Norman Foster, dove sono custoditi i soldi di milioni di investitori della Cina comunista. Almeno per ora la polizia locale è stata molto meno violenta di quella di New York con i giovani di Occupy Wall Street.
Il problema naturalmente è il contagio, posto che anche i cinesi continentali siano diventati più democratici che nazionalisti. La contaminazione che tuttavia il partito teme forse è un'altra. La piena democrazia potrebbe col tempo spingere Hong Kong a percorrere la stessa strada indipendentista di Taiwan. Una terza Cina per Pechino sarebbe davvero inammissibile.

La Stampa 1.10.14
Fra i combattenti curdi allo stremo
“Aiutateci o l’Isis ci annienterà”
I feriti in fuga dalla Siria: “Raid? Mai visti”. La Turchia invia 10 mila soldati
di Kiran Nazish


I miliziani dell’Isis sono entrati nei sobborghi di Kobani, la città siriana al confine con la Turchia, simbolo della resistenza curda contro l’avanzata inesorabile della più feroce espressione dell’islamismo. Con le bandiere nere oramai a tre chilometri dal centro, l’angoscia cresce nelle file dei guerriglieri curdi, come fra i compagni appena al di là del confine, nella cittadina turca di Suruc.
«Non credo che ci metteranno molto a prendere Kobani - dice sconsolato Maimoona Ali, un attivista dei diritti umani, fuggito dalla Siria e ora rifugiato a Suruc -. Lunedì ho saputo che la mia casa è stata distrutta dai bombardamenti. Non potremo mai tornarci a vivere. Ma almeno faremo del nostro meglio per combattere il Daish». È così che chiamano nei Paesi arabi l’Isis. E fratelli e cugini di Ali si stanno battendo contro i miliziani in questo momento.
Ma i curdi siriani e turchi non sono gli unici preoccupati per l’avanzata dell’Isis, per nulla rallentata dai raid della coalizione arabo-occidentale che martella le sue postazioni in Iraq e in Siria, anche vicino a Kobani. Forse il più preoccupato è il premier turco Recep Tayyip Erdogan. L’intervento di Ankara in territorio siriano è sempre più vicino. Sul confine sono già posizionati 15 carri armati, e secondo il quotidiano «Zaman» almeno «10 mila uomini». Oggi il parlamento voterà la richiesta del governo di un via libera alle operazione, che prevede «tutte le opzioni disponibili», compresa l’invasione di terra per creare una zona cuscinetto profonda 30 km.
La caduta di Kobani (Ain al Arab, in arabo) porterebbe a diretto contatto gli islamisti con le truppe turche. I guerriglieri curdi non reggono più. Negli ospedali di Suruc è un continuo affluire di feriti. Due ambulanze stazionano al posto di confine, per soccorrerli subito, mentre dalle colline attorno a Kobani si intensifica il rimbombo dell’artiglieria dell’Isis che martella le postazioni curde dentro la città.
Solo la scorsa settimana lo Stato islamico del Califfo Abu Bakr al Baghdadi ha preso 60 villaggi nei dintorni di Kobani, una zona densamente popolata. Oltre 200 mila persone sono fuggite, le loro case e loro fattorie saccheggiate. «Stanno arrivando centinaia di combattenti dalla Turchia per sostenerci - racconta un guerrigliero ferito, appena portato alla frontiera -. Ma ci stiamo indebolendo. Non abbiamo armi adeguate contro il Daish. Loro hanno cannoni più potenti».
Nelle cittadine turche lungo il confine, la battaglia in corso dall’altra parte si vede chiaramente. «I combattimenti diventano più duri dopo il tramonto», raccontano gli abitanti: «Il rumore dei proiettili e delle bombe è così forte che non possiamo dormire. L’altra notte sono andati avanti fino alle due. I miei bambini sono terrorizzati», spiega una papà, Ali Taulin.
Nei giorni scorsi l’Isis è avanzato in maniera impressionante. «Non c’è nessun aiuto internazionale, né da parte del governo turco. Siamo soli in questa battaglia», denuncia Ashraf Mehmoud, un combattente del Ypg, la più importante formazione politica e militare curda in Siria. Mehmoud ha combattuto senza sosta per una settimana, poi ha passato il confine per portare in salvo la madre e la sorella in Turchia.
Mehmoud non ha ancora visto effetti sull’Isis da parte dei raid internazionali. Il Centcom americano ha comunicato ieri che numerose missioni sono state condotte proprio sul confine turco-siriano, per indebolire l’artiglieria degli islamisti, anche se non ha specificato le località colpite.
I profughi di Kobani, appena arrivati dalla città sotto assedio, raccontano di non aver assistito a nessun raid. «Perché gli americani colpiscono il Daish a Raqqa, o in altre città dove si sono insediati e non qui, dove ci stanno massacrando?», si lamentano. «Al mondo non importa nulla di noi, dell’innocente popolo di Kobani, delle nostre case, delle nostre vite - insiste il combattente Mehmoud -: dovete capire che gli uomini del Daish oggi prendono le nostre case, domani prenderanno le case di qualcun altro. Non si fermeranno mai se non li combattiamo tutti insieme».
Ma non è sicuro che una raffica di raid siano sufficienti a fermare gli islamisti. Che ieri hanno mostrato per la terza volta in un video l’ostaggio britannico John Cantlie, sempre vestito con la tuta arancione, proprio per fargli dire che i bombardamenti decisi da Obama sono «inutili per conquistare e controllare il territorio». Come dire, l’Occidente non ci fa paura. Mentre per terrorizzare la popolazione curda l’Isis ha decapito tre combattenti donne, prigioniere, assieme a un loro compagno.
Ma la battaglia di Kobani, comunque vada a finire, ha già innescato un’ulteriore crisi umanitaria. Con le ultime ondate verso la Turchia il numero di profughi fuggiti dalla guerra civile in Siria ha raggiunto i tre milioni, come ha comunicato Selin Unar dell’agenzia Onu Unhrc. Molti hanno trovato solo ricoveri di fortuna, come Shamsha Mehmoud, una donna di 84 anni, che vive ora in una moschea di Suruc. «È un’umiliazione. Abbiamo diritto a un campo attrezzato. Non voglio vedere i miei nipoti crescere così».

La Stampa 1.10.14
Bombe inefficaci
I ribelli islamici verso Baghdad
di Maurizio Molinari


Le milizie jihadiste del «Califfo Ibrahim» sono arrivate a 40 km da Baghdad ma devono difendersi da un attacco a sorpresa dei peshmerga curdi nella regione di Kirkuk e Mosul.
Divise in piccoli gruppi per evitare i raid aerei americani ma molto aggressive nei confronti delle truppe irachene, le unità dello Stato Islamico (Isis) sono entrate nella città di Amariya al-Falluja ovvero a ridosso delle periferie occidentali della capitale. Ingenti quantitativi di truppe governative, sostenute dai raid della coalizione, sono riusciti a tamponare il vulnus nelle difese della capitale e - secondo fonti locali riportate dalla «Bbc» - vi sarebbe nella città una situazione di «stallo» fra le forze rivali. Analoga la situazione sulla strada che da Fallujah, controllata da Isis, porta ad Amariya al-Falluja. Le artigliere di Isis hanno però colpito postazioni irachene ad appena 15 km dal centro della capitale e ciò lascia intendere la volontà del «Califfo» Abu Bakr al-Baghdadi, di accelerare le operazioni su questo fronte in sintonia con quanto sta facendo anche nel Nord-Est della Siria, attorno a Kobani, a ridosso dei confini con la Turchia.
I raid aerei della coalizione internazionale sono oramai 4100 dall’inizio delle operazioni da parte degli americani, l’8 agosto, ma non sembrano essere riuscite a fiaccare le capacità militari di Isis. Da ieri a partecipare agli attacchi in Iraq sono anche i Tornado britannici. Il motivo della scarsa efficacia dei raid, spiegano fonti militari da Londra, ha a che vedere con la carenza di obiettivi, in quanto Isis ha imparato velocemente a togliere i drappi neri dalle proprie unità, rendendole difficili da distinguere dalle altre milizie sul terreno. I jet alleati devono così effettuare numerose missioni di ricognizione per identificare obiettivi che poi, al momento dell’attacco, a volte svaniscono.
Nel tentativo di frenare le avanzate di Isis tanto in Iraq che in Siria a prendere l’iniziativa sono i peshmerga del Kurdistan, che hanno lanciato ieri un’offensiva in tre direzioni: verso Basheer nei pressi di Kirkuk, Zumar vicino alla diga di Mosul, e Rabia al confine siriano attraverso cui passano gran parte dei rifornimenti interni allo Stato Islamico. L’operazione curda punta a inserire un cuneo fra le unità di Isis in Iraq ed in Siria, obbligandole a combattere in difesa. Halgord Hekmat, portavoce peshmerga, afferma che «gli abbiamo strappato 30 posizioni» e Isis sarebbe stata «presa di sorpresa» dall’offensiva che si giova della copertura aerea della coalizione. I combattimenti a Rabia sono intensi e, secondo fonti locali riportate dalla «Bbc», i peshmerga avrebbero il controllo di gran parte dell’abitato anche se la situazione resta molto fluida.

Il Sole 1.10.14
Così cade Kobane, dove l'Isis sfida la Turchia
di Alberto Negri


KOBANE (SIRIA). Dal nostro inviato
Al Punto Zero, così lo chiamano i curdi, dove i colpi di artiglieria dell'Isis sono troppo vicini, Mahamoud spegne il motore. Si va a piedi. «Queste - dice indicando oltre il filo spinato - sono le prime case di Kobane dove già sventola la bandiera nera del Califfato». Nell'assedio della città siriana a 500 metri dal confine turco, stritolata da due settimane nella morsa dei jihadisti, il presidente Erdogan si gioca la faccia e un pezzo della sua politica estera.

Se interviene entra in guerra con i jihadisti, se non fa nulla Kobane crolla, mentre i combattenti curdi, venuti da ogni parte della Turchia per aiutare i fratelli siriani, si scontrano con la gendarmeria e l'esercito che impediscono ai volontari di attraversare la frontiera.
Ha deciso per una via di mezzo, mentre i raid americani non hanno ancora bloccato l'avanzata del Califfato e lui appare come l'alleato più riluttante di Washigton. Non ha concesso neppure la base aerea di Incirlik e gli Stati Uniti pensano di insediarsi a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno dove i curdi hanno lanciato una controffensiva contro i jihadisti del Califfo Abu Bakr al Baghdadi.
I soldati turchi per il momento hanno abbandonato i posti di frontiera come Mushinpinar che ora sono controllati dai curdi. Ma è una situazione precaria, che crea una sorta di terra di nessuno sull'orlo del precipizio siriano. Certo non è ancora la "zona cuscinetto" di cui si è parlato con insistenza in questi giorni e che sarà decisa soltanto dopo il via libera del Parlamento alle operazioni militari fuori dai confini. I jihadisti sono a un passo dalla conquista di questa città strategica, segnata sulla carta della ex Siria come Ain al Arab: dai reticolati che corrono in parallelo al tracciato della vecchia ferrovia Berlino-Baghdad si intravedono le loro postazioni che martellano con i mortai i peshmerga curdi a difesa della città, rimasta senza cibo e acqua mentre dall'altra parte, a 30 chilometri, le dighe sull'Eufrate del progetto Gap irrigano campi di cotone, frutta e pistacchi intorno alla pianura di Sanliurfa.
«Loro hanno cannoni e razzi, i nostri peshmerga combattono soltanto con i kalashinkov», scuote la testa sconsolato Abdulkarim Hassan che è riuscito a varcare il confine prima che i turchi con i buldozer scavassero un vallo per bloccare il passaggio delle auto dei profughi, curdi e arabi siriani. La Turchia, secondo cifre non ufficiali, ne ospita un milione e mezzo. Abdulkarim rivolge l'ultimo sguardo verso la Siria e dietro al filo spinato incrocia i volti impauriti dei più sfortunati, rimasti intrappolati tra le ultime case di Kobane e le milizie del Califfato.
Mahamoud, curdo di Suruc, beffa con facilità i check-point dei militari pilotando l'auto sulle piste indecifrabili di una pianura piatta, immensa, interrotta soltanto dalle "tepe", colline arrotondate che nascondono i siriani in fuga. Ali, 20 anni, sbuca da una curva con aria quasi distratta ma superata una comprensibile diffidenza racconta che è scappato da Talabia dove i jihadisti tagliavano le teste di tutti i giovani di leva: «Ne ho viste otto caricate sul pianale di una furgone». «Hanno decapitato 80 bambini e le loro teste sono state infilate su un camion che ha fatto il giro dei villaggi», sostiene Maydin, un agricoltore arabo di 60 anni che fugge su un camioncino con 12 famigliari senza neppure un goccio d'acqua da bere. Quasi tutti i racconti si somigliano nel descrivere la barbarie delle milizie che con il terrore, anche soltanto annunciato, hanno svuotato città e sgominato le fragili resistenze delle milizie avverse.
Sulla collina spelata di fronte al versante ovest di Kobane, circondata dai jihadisti su tre lati, si arrampica una colonna di carri armati di Ankara, sollevando ondate di polvere che si confondono con le colonne di fumo dei mortai dell'Isis e le nuvole bianche dei lacrimogeni della gendarmeria. Una dimostrazione di forza assai ambigua. I curdi guardano i tank con ostilità: hanno formato una catena umana per protestare contro il governo di Ankara. Bahoz, giovane perhmerga turco del Lago Van, ha gli occhi rossi per i lacrimogeni lanciati dai gendarmi ma non mostra esitazioni: «I curdi siriani sono nostri fratelli e non li abbandoneremo mai. In realtà anche Erdogan vuole che i curdi siano deboli e ha appoggiato i jihadisti per impedire che possiamo fondare il nostro stato».
Riaffiorano così le antiche tensioni tra i curdi e lo stato centrale che con gli islamici dell'Akp al potere aveva avviato una trattativa promettente negoziando con Abdullah Ocalan, leader del Pkk e della guerriglia in carcere a Imrali. Ma pochi dei peshmerga del Pkk rintanati sulla montagna irachena di Qandil hanno abbandonato le armi. E dopo lo scambio di 50 prigionieri jihadisti con 49 ostaggi turchi in mano all'Isis, i curdi hanno cominciato a sospettare che per ottenere la loro liberazione Erdogan avesse "venduto" il destino dei curdi assediati a Kobane.
Esplode una battaglia tra la gendarmeria e i manifestanti che lascia l'amaro in bocca ma sottolinea che i confini della Turchia, 1.300 chilometri dalla Siria all'Iraq, sono una questione geopolitica ribollente mentre le vittorie del Califfato hanno fatto deflagrare le frontiere, ridisegnando la mappa del Medio Oriente.
Lanciato all'interno in un'islamizzazione crescente della società, Erdogan è a una svolta perché fuori rischia di perdere credibilità. Dopo avere propagandato con l'attuale premier Ahmet Davutoglu slogan come "profondità strategica" e "zero problemi con i vicini", miseramente naufragati nella realtà mediorientale, con l'irruzione del Califfato si trova ad affrontare ai confini problemi che lui stesso ha contribuito a creare permettendo che migliaia di jihadisti varcassero indisturbati le frontiere turche per abbattere il regime di Bashar Assad. Senza contare la "quinta colonna" dell'Isis, dove il 10% dei combattenti sono turchi.
Tramontata l'utopia neo-ottomana e perso il treno per l'Europa, la politica estera di Erdogan ha il fiato corto. «Dopo avere investito sui fondamentalisti in Egitto e sui radicali islamici in Siria, Erdogan deve vendere una nuova posizione della Turchia più credibile nei confonti degli alleati atlantici e americani», dice Nuray Mert, editorialista di Hurriyet. E Kobane, su quella collina dove sferragliano i carri armati davanti alle milizie del Califfato, è il primo severo banco di prova.

Repubblica 1.10.14
L’iraniana uccise l’uomo che tentò di stuprarla. La madre chiede aiuto al Papa
“Salviamo Reyhaneh” Al patibolo per essersi difesa
di Vanna Vannuccini


UN UOMO violenta una giovane donna. Lei si difende con un coltello, lo ferisce a una spalla, fugge, lo stupratore muore in circostanze non chiare (un uomo è entrato nel frattempo nell’appartamento). Lei viene condannata all’impiccagione, a dispetto (o forse proprio in virtù) delle proteste internazionali. La stessa Commissione per i Diritti umani dell’Onu chiede alle autorità iraniane la revisione del processo perché la ragazza, Reyhaneh Jabbari, aveva agito, «secondo fonti affidabili », per legittima difesa. Al processo due prove decisive — i preservativi e il sonnifero comprati poco prima dallo stupratore e ritrovati nel suo studio (il sonnifero in un bicchiere di succo di frutta) — non sono state prese in considerazione. Morteza Sarbandi era stato un funzionario importante del potente ministero dei Servizi segreti.
Sette anni passati in carcere, dopo la condanna a morte, pronunciata nel 2009, un primo rinvio dell’esecuzione sei mesi fa. Rimandata a oggi. Ieri sera la madre di Reyhaneh era stata avvertita dalle autorità carcerarie di Evin di andare a riprendersi il corpo della figlia in giornata, ma le autorità giudiziare decidono all’ultimo momento di rinviare nuovamente l’esecuzione, fa sapere l’organizzazione iraniana per i Diritti Umani. Reyhaneh Jabbari, condannata a morte perché si difese da uno stupro, avrà diritto a vivere ancora per dieci giorni. Shole Paravan, la madre, ha trascritto su Facebook il messaggio d’addio scritto dalla figlia: «Mi hanno già messo le manette e l’auto aspetta per portarmi al luogo dell’esecuzione. Tutte le mie sofferenze avranno fine tra poco. Mi dispiace di non poter alleviare il tuo dolore, ma noi crediamo nella vita dopo la morte e quando ti avrò ritrovata nell’altro mondo non ti lascerò mai più». Poi ha lanciato un appello a Italia e Vaticano, accolto dal monsignor Galantino, segretario della Cei: «Non resterà inascoltata ».
Era una ragazza di 19 anni, sette anni fa, quando si iscrive all’università e si guadagna da vivere come decoratrice di interni, un mestiere molto richiesto allora nella Teheran dei nuovi ricchi. Mentre discute di un progetto con una cliente al tavolo di un caffè un signore anziano al tavolo vicino ascolta: è Morteza Abdolali Sarbandi, medico ed (ex?) funzionario dei servizi segreti. Si presenta, dice che vuole rinnovare il proprio studio, ha bisogno di una consulenza. Fissano un appuntamento per un sopralluogo il pomeriggio del 7 luglio 2007. Per strada Sarbandi ferma la macchina davanti a una farmacia (dove compra preservativi e sonniferi). Non appena entrati nello studio medico l’assalta, cerca di violentarla. Lei si difende con un coltello tascabile con cui lo colpisce più che può alla schiena. Poi riesce a divincolarsi e corre via mentre entra nello studio un uomo (che secondo la famiglia di Reyhaneh è il vero omicida). Per strada allerta un’ambulanza, ma lo stupratore è già morto dissanguato quando i soccorritori arrivano. «Reyhaneh Jabbari è vittima due volte, prima dello stupratore e poi del sistema giudiziario», è scritto nel memorandum dell’Onu.
Ora si tratta di salvarla. Le associazioni per i diritti umani si stanno mobilitando e in tanti hanno firmato una petizione online per la vita della vittima di uno stupro. Chi può salvare Reyhaneh è sicuramente la famiglia di Sarbandi, la moglie e i tre figli, che in base alla Sharia può accettare il qisas, o prezzo del sangue. Molti artisti iraniani, tra cui il regista Asghar Farhadi, hanno fatto appello perché Reyhaneh venga risparmiata. Ogni tanto questi appelli trovano ascolto, lo scorso aprile un giovane condannato all’impiccagione è stato salvato dalla madre dell’ucciso che gli ha dato una sberla e poi l’ha graziato quando aveva già il cappio al collo.

Repubblica 1.10.14
“Non ho paura di morire ma il mondo deve sapere”
di Reyhaneh Jabbari


IO SONO Reyhaneh Jabbari e ho 26 anni. Con la corda dell’impiccagione davanti a me di cui non ho paura. Se scrivo è solo per raccontare ciò che mi è accaduto, senza aggiungere nè togliere niente.
Voglio dirvi tutto ciò che ho detto nei tribunali e non hanno voluto capire, tutte le percosse che ho ricevuto senza pietà da quattro inquisitori che si credevano Dio e non mi sentivano mentre urlavo: ora voglio dirvelo.
Voglio che le persone sappiano e poi giudichino, voglio che sentano e poi se vorranno, stringano la corda più forte intorno al mio collo. Voglio che sappiano cos’è successo a me quando avevo 19 anni e che ora non ho paura della morte. Voglio parlare, affinché sappiano come si è strozzato in gola il mio grido. Il motivo per cui oggi vengo chiamata assassina, accusata da una sentenza ottenuta con menzogne.
Io, Reyhaneh, una ragazza di 26 anni, mi trovo attualmente dentro il carcere di Shahrerey, aspetto la fine della mia vita. (...) Diverse volte ho voluto scrivere ma ho sempre abbandonato perché mettere una lama su questa ferita vecchia fa più male, ma in questa notte senza fine, reparto due del carcere di Shahrerey, sotto la luce artificiale e nel silenzio del carcere vomito il dolore senza rumore. (...) Non ho altre vie che non parlare: se non parlo muoio. Forse così il dolore finirà. (...) In tutti questi anni ho fatto finta di esistere, trasformavo solo la notte in giorno e il giorno in notte, la mia anima è morta. La mia anima pura morì a 19 anni, per molte notti ho affrontato incubi. (...) In questi anni ho imparato che la morte è la fine del dolore di molti. E forse un nuovo inizio. Io Reyhaneh Jabbari di 26 anni non ho paura della morte: però Reyhaneh a 19 anni aveva paura.

La Stampa 1.10.14
“I centri di accoglienza come Guantanamo”
La Germania sotto choc
Botte e umiliazioni nelle strutture gestite dai privati
di Tonia Mastrobuoni


L’uomo è seduto sul pavimento, c’è vomito ovunque: sui suoi pantaloni, sul materasso accanto a lui, a terra. Lui piagnucola, farfuglia «era solo una birra», qualcuno gli urla «stai zitto o ti prendo a pugni in bocca». Qualcun altro gli intima di sdraiarsi sul materasso, «chiudi gli occhi e addormentati lì, nel tuo vomito». Il video dura appena quindici secondi ed è diventato un caso politico. L’uomo è un rifugiato, i suoi aguzzini alcune guardie private di un centro di accoglienza a Burbach, nel Nordreno Westfalia.
Quando il video è arrivato nelle mani della polizia, sono scattate le perquisizioni. E nello smartphone di uno dei torturatori, gli inquirenti hanno trovato altre immagini scioccanti: in una si vede una guardia che schiaccia con lo stivale il collo di un algerino sdraiato a terra, a faccia in giù. Modello Guantanamo.
Non è il primo scandalo nei centri tedeschi di accoglienza per rifugiati, che in Germania vengono subappaltati ai privati. «European Homecare» l’azienda che gestisce 40 centri nel Paese e si occupa in particolare di Burbach, ha dichiarato di essere «scioccata» che l’abuso del video possa essere avvenuto «in una delle nostre strutture» e ha annunciato di aver interrotto ogni collaborazione con Ski, la società di vigilanza che le ha procurato le guardie accusate degli abusi.
Nel Nordreno Westfalia è già il terzo centro per rifugiati ad essere finito in poco tempo sulle prime pagine dei giornali. Le guardie del video di Burbach, accusate ora di maltrattamenti, hanno ammesso che nella struttura esisteva una «stanza dei problemi» dove venivano rinchiusi ad esempio i rifugiati ubriachi. E hanno raccontato anche che alcuni colleghi proverrebbero da ambienti di estrema destra.
Il caso ha scatenato un putiferio; lunedì il portavoce di Angela Merkel ha detto che «siamo un Paese umano, dove la dignità delle persone è rispettata» e il primo ministro del Land, Hannelore Kraft, ha detto di essere «scioccata». Tuttavia ieri il ministro degli Interni, Thomas De Maizière, ha rifiutato ulteriori finanziamenti alle regioni e ai comuni per l’accoglienza degli immigrati che richiedono asilo politico.
«Per ora continueremo a mantenere la stessa proporzione nei contributi federali e locali», ha precisato, dopo che i Verdi e il capo dell’ala bavarese dei conservatori, Horst Seehofer, avevano chiesto al governo di stanziare risorse straordinarie per l’ondata di rifugiati.
Dall’inizio dell’anno sono già 100 mila gli immigrati arrivati in Germania che provengono da zone difficili e che richiedono asilo politico, il governo ne prevede almeno altrettanti entro la fine dell’anno. Per ricevere lo status di rifugiati devono aspettare mesi, spesso anni. E sono affidati a strutture che in molti casi finiscono nelle cronache.
La scorsa settimana ha fatto discutere un centro accusato di scarse condizioni igieniche: il gestore è un ex ufficiale dei servizi segreti della Germania Est, che ai tempi si era già fatto notare per la crudeltà con cui inquisiva le sue vittime. Non proprio la biografia ideale per un centro di rifugiati.

il Fatto 1.10.14
“Sì e ancora sì”: così il sesso non è stupro
Il testacoda delle nuove regole di comportamento nei campus Usa
di Elisabetta Ambrosi


Scena n. 1: il ragazzo si avvicina alla ragazza semisvestita e sorridente, sta per toccarla ma accanto al letto vede una bottiglietta che non riesce a identificare. “Oddio, e se fosse una birra? Allora mi fermo. Ma no, forse è un crodino (Signore fa che sia un crodino), allora mi butto”. Nella paralisi decisionale l’erezione viene meno e tutto finisce.
SCENA N. 2. Un ragazzo ammicca disteso, mentre tutto il suo corpo esprime con eloquenza il suo consenso a proseguire. Eppure la ragazza continua a frugare nervosa i pantaloni. “Magari ha preso un tavor, magari si è fatto una canna, allora non posso”. Così, mentre l’amico attonito grida “lo vogliooooooo” lei decide di non rischiare, e prende la fuga.
Scene di questo tipo saranno sempre più frequenti, d’ora in poi, nei campus universitari californiani e forse presto statunitensi. Perché il sesso non sia stupro, infatti, non basterà l’assenza di un no esplicito – la declinazione californiana di “vedi d’annattene, stai a sgravà, stai fori coll’accuso, plachete, nun t’arrapà, accanna i giochi” etc– ma un politicamente corretto “Sì, lo voglio”.
A stabilirlo il provvedimento SB 967, chiamato Yes means yes, del governatore della California Jerry Brown. Secondo il quale d’ora in poi ogni attività sessuale all’interno delle università, per non essere tacciata di violenza, dovrà presupporre un “consenso esplicito, consapevole e volontario”, che potrà essere anche un consenso non verbale anche se, specifica il testo, “la mancanza di protesta o di resistenza non significa consenso, né tantomeno il silenzio”. Di più: il consenso potrà essere revocato in qualsiasi momento – anche sul più bello – ma soprattutto non vale se la persona con cui si vorrebbe fare sesso è addormentata o inconsapevole, oppure influenzata da droghe, alcol o medicine”.
Va detto che negli Stati Uniti i campus stanno diventando, stando alle denunce, luoghi di ammucchiate tra impasticcati e ubriachi. Oltre a coinvolgere oltre cinquanta università, tra cui la Columbia, Harvard, Yale, Princeton, Dartmouth e Florida University, alcune delle quali sotto inchiesta, la situazione è così grave (una studentessa su cinque e uno studente su sedici subiscono violenza) che il Congresso Usa ha approvato il Campus Sexual Violence Elimination Act per obbligare le università a fornire cifre su violenze e stalking. E lo stesso Obama ha nominato una vera e propria task force, che sul sito Not Alone.gov   ha pubblicato una guida poderosa per chi ha subito violenza, dove vengono forniti numeri di telefono e moduli da compilare, più un impressionante elenco di associazioni antiviolenza, uffici e programmi di prevenzione.
MA ALLORA c’era davvero bisogno del Yes means Yes, che più che rientrare nel filone delle cosiddette “affirmative action” tanto care al dibattito americano (ad esempio posti riservati nei concorsi a minoranze o categorie speciali), sembra espressione della mania di regolare tutto, sesso compreso? Sì, secondo le femministe e le rappresentanti delle associazioni studentesche, no secondo commentatori di giornali come il Los Angeles Time o il Time o associazioni come la National Coalition For Men (che grida alla rovina di tantissimi uomini, cui spetterà l’onere della prova, un po’ come quando ti arriva la raccomandata dell’Agenzia delle entrate). E poi basta farsi un giro tra i commenti dei principali siti statunitensi per capire gli esiti grotteschi dello slogan “Un sì è un sì, tranne che sotto droga, medicine o alcol”: “Ma se lei beve un whisky e dice sì è sì, se ne beve due è no? ”. “Dovrò scavare nella sua interiorità? ”. “E se sono tutti e due ubriachi, di chi è la colpa? ”. “E se lei mi dice sì, ma lì sotto è tutto asciutto, sarà un diniego non verbale? Ma se quando lei è ubriaca e vuole fare sesso non è consenziente, allora perché se lui è ubriaco e vuole fare sesso è uno stupratore se lei non ci sta? E se uno studente ubriaco uccide qualcuno e poi fa sesso, potrà essere dichiarato colpevole dell’uccisione ma non consenziente al sesso? ”. “Ma Freud non diceva che per fare sesso bisognava aggirare la coscienza? ”. “E come la mettiamo col pentimento della mattina dopo? ”. “Ma se mi faccio tatuare yes sulla panza va bene? ”.
Nel frattempo, mentre c’è chi si è inventato un’app anti stupro per i college o smalti speciali per capire, infilandoci il dito, se il drink che qualcuno ti offre è stato drogato, le università si stanno dando da fare per cercare di spiegare che “chiedere il consenso è sexy”. Niente banale “Wanna have sex? ”. Meglio frasi come “I’ve got the ship. You’ve got the harbor. Can I dock for the night? ” (Io sono la nave, tu il porto, posso attraccare stanotte?), anche se gli effetti sull’eccitazione non sono ancora chiari. Intanto qui, in Italia, possiamo consolarci. Perché i nostri studenti non si impasticcano e non si ammucchiano? Macché. Ma siccome le residenze universitarie non ci sono, e stanno tutti infilati in stanzette in nero a cinquecento euro al mese, non è un affare pubblico. Però, almeno, per fare sesso non serve il modulo.

La Stampa 1.10.14
Berkeley la ribelle
Così l’America scoprì una nuova libertà
Il “Free Speech Movement” inaugurò la stagione delle proteste nelle università
di Umberto Gentiloni


«Ribellione nel Campus» titola il 30 settembre 1964 il «San Francisco Chronicle»; ventiquattro ore dopo il «Daily Cal», periodico dell’Università di California: «È guerra a Berkeley»; in pochi giorni la rivolta conquista le prime pagine, irrompe nei notiziari; la più grande università pubblica degli Stati Uniti si scopre d’improvviso inquieta e ribelle.
È l’inizio di una nuova conflittualità che dal cuore dei campus americani si spinge oltre il perimetro del sistema formativo.
Dal mese di marzo l’autorità accademica aveva posto limiti e divieti alle attività studentesche: iniziative pubbliche e manifestazioni politiche potevano turbare il regolare svolgimento dei corsi. Un tavolino all’ingresso principale diventa il simbolo degli studenti: comizi volanti, distribuzioni di volantini e raccolta di firme che chiedono la riduzione delle tasse d’iscrizione. Poche settimane e lo scontro si acuisce: ai divieti del rettore seguono proteste e sit-in; nei caffè, nei viali che costeggiano l’università si susseguono incontri e cortei spontanei; da un microfono nella piazza principale Sproul Plaza, si alternano interventi di tre minuti con cui il neonato movimento muove i primi passi comunicando a voce alta idee e slogan.
Nasce così nelle turbolente settimane di autunno di 50 anni fa il Free Speech Movement (Fsm); la Bay area di San Francisco diventa laboratorio della nuova sinistra americana. «Per la prima volta non eravamo l’élite privilegiata che poteva permettersi di studiare a lungo, ci sentivamo l’avanguardia di un movimento che voleva cambiare nel profondo la società americana», così John Searle, protagonista di allora, a lungo docente di filosofia nel campus californiano. «I divieti erano solo la causa scatenante, noi chiedevamo di poter esprimere liberamente le nostre idee sugli argomenti più diversi, dai libri di testo alla musica rock, dal sesso alla politica del governo. Ma la cosa che ricordo con più piacere è la voglia di stare insieme, di riempire i luoghi dell’università di un senso di comunità che ancora oggi lega molti di noi a questo luogo».
Gli ultimi mesi di quell’anno speciale sono segnati da nuove proteste e arresti a catena fino a quando gli studenti non ottengono il riconoscimento della libera espressione fuori e dentro l’università. L’onda non si placa, il simbolo della rivolta scuote convenzioni e luoghi del sapere lungo tutti gli Anni Sessanta; le ragioni più profonde non si esauriscono nella richiesta dei free speeches, della libertà di espressione senza limiti o restrizioni: l’università fa esplodere le contraddizioni vecchie e nuove della società statunitense. I luoghi di allora conservano il fascino sbiadito della memoria: nella grande piazza si alternano tre volte alla settimana oratori improvvisati che propongono argomenti e riflessioni e se ci si allontana per poche decine di metri imboccando Telegraph Avenue si arriva a People’s Park un piccolo giardino di proprietà dell’università dove alloggiavano campeggiatori e musicisti incuriositi dalle aspirazioni del movimento.
Nel 1966 le autorità accademiche decidono di costruirci un dormitorio e un parcheggio; gli studenti e gli attivisti del Berkeley Peace Brigade oppositori della guerra in Vietnam prendono possesso del parco. Si va allo scontro. Il governatore della California Ronald Reagan invia centinaia di soldati, studenti e forze dell’ordine si affrontano in quello che molti ancora ricordano come il martedì di sangue; oltre cento feriti e una nuvola di fumo, un misto di lacrimogeni e auto bruciate che copre per ore la città. «Il parco non si tocca» è lo slogan unificante; Joan Baez si unisce agli studenti cantando da Sproul Plaza. Oggi è un piccolo angolo della memoria ritrovo abbandonato per homeless che vi si trasferiscono da mezza America in cerca di sostegni e amicizie.
Harold vive nel parco da decenni, è il padrone di casa, annaffia le piante, custodisce le aiuole sorveglia con orgoglio il museo di foto e murales degli anni d’oro. Per lui l’orologio del tempo è ancora fermo al 1964: «Ho nostalgia della rivolta degli Anni 60, delle tante persone che ogni giorno arrivavano da tante università del Paese, eravamo un simbolo e una speranza per tutti; poi la violenza ha rovinato tutto e la droga ha distrutto anche le menti». I bilanci sono un esercizio complicato.
Carlos Munoz docente di storia contemporanea a Berkeley va oltre le ricorrenze: «Tra luci e ombre la memoria di 50 anni fa appare lontana anche se è indubbio che le lotte studentesche, il movimento dei diritti civili e il Vietnam hanno cambiato tradizioni e cultura della società americana. E quelle spinte sono giunte fino agli angoli più diversi del pianeta. Dopo il settembre 1964 niente è tornato come prima. L’università era cambiata e, nonostante i nostri tanti errori, era cambiata in meglio. Quella stagione ha lasciato una grande eredità: l’idea di una generazione che non si riconosceva nelle categorie e nelle analisi della guerra fredda. Il rock, la critica all’autoritarismo e di lì a poco la dimensione internazionale della protesta superavano cortine e divieti. Per tanti di noi il muro di Berlino è cominciato a cadere in quegli anni. Siamo stati i figli di un mondo nuovo che oggi ancora non c’è».
Nel manifesto degli studenti - conservato nella Bancroft Library - si legge: «Il mondo del 1964 è lo stesso del 1945-46, stessi odi, stesse divisioni, stessi pericoli di guerre. Se non facciamo qualcosa adesso rischiamo di essere in colpevole ritardo». Quarant’anni sono il tempo di due generazioni. Il sogno irrealizzato di un’America più giusta vive di nuovi stimoli e interessi. «Questa università è la coscienza viva di una possibile civiltà degli Stati Uniti che, dal bordo dell’oceano può arrivare nel cuore del Paese», così Martin Luther King saluta nel maggio 1967 gli studenti riuniti a Sproul Plaza. Una coscienza inquieta e ribelle fatta di memorie e speranze, ma forse più di ogni altra cosa di un desiderio continuo di guardare avanti.

La Stampa 1.10.14
La guerra globale delle parole
di Roberto Toscano


La politica, si sa, è fatta anche – e talora sembra soprattutto – di parole. Parole usate spesso in modo strumentale, illogico, incoerente, con l’unica finalità non di definire ma di mobilitare consenso, squalificare l’avversario, confondere le acque per poter meglio pescare nel torbido. Viene in mente il dialogo di Alice con Humpty Dumpty: «Quando uso una parola – dice Humpty Dumpty – la parola significa quello che io voglio che significhi, né più né meno». Quando Alice gli ribatte: «Il punto è se puoi dare alle parole tutti i significati che vuoi», Humpty Dumpty replica: «Il punto è chi comanda. Tutto qui».
Che la cosa sia grave lo vediamo prendendo come esempio le forme più disumane della violenza organizzata: genocidio, terrorismo, tortura.
Cominciamo dal genocidio, certo il più atroce fra i crimini. Una definizione esiste, e la troviamo nella Convenzione del 1948 sulla Prevenzione e Punizione del Genocidio: «Atti commessi nell’intento di distruggere in quanto tale, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».
È evidente che non possiamo aspettare di trovarci di fronte a un’altra Shoah per ritenere applicabile la Convenzione del 1948, ma non sembra nemmeno da accogliere un’estensione arbitraria del concetto: capita un giorno sì e uno no di sentire parlare di genocidio di fronte ai più svariati episodi di violenza, che magari andrebbero definiti come crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Il risultato è la banalizzazione di un concetto che finisce per svalutarlo e renderlo un epiteto invece di una precisa definizione da preservare in tutto il suo valore legale, politico e morale.
Il criterio fondamentale, più che sul numero delle vittime, dovrebbe riferirsi all’intento. È qui che risulta possibile, ad esempio, distinguere fra genocidio e un altro crimine, la pulizia etnica. Il genocida non vuole che la sua vittima fugga, la vuole eliminare: i nazisti che catturavano gli ebrei che cercavano di fuggire, i miliziani hutu che fermavano ai posti di blocco e massacravano con i machete i tutsi avevano un intento ben diverso da quello delle milizie balcaniche che, nel conflitto sorto dalla disgregazione della Jugoslavia, ne colpivano cento per farne fuggire mille. Ma proprio per questo Srebrenica fu genocidio e non pulizia etnica: lo scopo era proprio sterminare quelle migliaia di musulmani bosniaci catturati.
Ancora più grave la clamorosa ed intenzionale confusione semantica di fronte al termine «terrorismo», con bandi opposti impegnati, in spregio alla coerenza e persino alla logica formale, ad affermare (nei confronti degli avversari) o a negare (per se stessi) l’applicabilità della definizione. La strumentalizzazione è arrivata al punto da impedire, a differenza dal genocidio, di arrivare in sede Onu ad una definizione universalmente accettata.
Eppure non è difficile definire il terrorismo come uso della violenza contro un obiettivo privo in sé di valore militare (si tratta soprattutto di civili indifesi) al fine di piegare la volontà dell’avversario, si tratti di governi o di gruppi etnici, religiosi, politici.
Il problema è che, invece di definire il terrorismo come strumento, lo si definisce come causa, da condannare o difendere. Si appiccica la qualifica di terrorista con grande disinvoltura: sono terroristi, per il regime militare egiziano, i Fratelli Musulmani (e persino i giornalisti di Al Jazeera), e sono terroristi, per il governo ucraino, i ribelli filorussi del Donbass, mentre Putin reciproca definendo terroristi i rivoltosi del Maidan. Per il regime saudita sono terroristi, per legge, tutti gli oppositori, compresi quelli che si limitano ad usare criticamente la scrittura e i social media. Per Hamas, chi uccide tre adolescenti ebrei è un combattente per la libertà, per il governo israeliano i palestinesi che attaccano unità militari sono terroristi. E George W. Bush, dopo l’11 settembre, decretò una «Guerra globale al terrore». Ma il terrorismo non è una causa, tanto è vero che può essere usato dalla mafia (le bombe agli Uffizi e a una chiesa di Roma), dagli animalisti, dagli antiabortisti, dagli ambientalisti (l’Unabomber). Ed è anche problematico definire come terroriste organizzazioni che usano lo strumento del terrorismo in una certa fase per poi passare alla guerriglia o all’azione politica. È vero di Hezbollah, passato da una fase chiaramente terrorista a base di attentati e rapimenti ad essere oggi una miscela di struttura combattente e partito politico, ma è vero anche del sionismo radicale (pensiamo alla figura di Shamir, passato dalla militanza in un’organizzazione terrorista alla politica). E che dire del Sinn Fein irlandese, proiezione politica dell’Ira, e oggi legittimo partito politico?
Oggi si parla dello «Stato Islamico» come organizzazione terrorista, e certo sgozzare online prigionieri innocenti è un’azione terrorista. Ma a che serve definire terrorista non l’azione ma l’entità che la compie, quando in realtà si tratta di una struttura militare capace di esercitare controllo su un territorio e schierare reparti combattenti? Volendo fare paralleli, sono più simili ai Khmer Rossi cambogiani che alla stessa Al Qaeda – che infatti, rimasta ad operare nella dimensione terrorista, si vede oggi scavalcata da un progetto politico-militare ben più ampio ed ambizioso.
Ed infine, la tortura. Con un’amministrazione americana, quella di Bush Jr., che negava di averla mai praticata, parlando invece eufemisticamente di «tecniche di interrogatorio potenziate». Grottesca è specialmente la negazione del fatto che il «waterboarding» costituisse tortura, quando risulta che questa vera e propria «tortura dell’acqua» (svolta esattamente con le stesse modalità di quelle adottate dagli americani nei confronti dei detenuti di Al Qaeda) fosse, assieme alla tortura del fuoco e a quella degli strappi di corda, uno tre dei metodi standard usati dall’Inquisizione spagnola.
Il diritto internazionale ha percorso un lungo e contrastato cammino verso la limitazione della violenza bellica, sia dal punto di vista degli strumenti ammessi che dei bersagli legittimi. Genocidio, terrorismo e tortura, invece, non vanno regolati, ma messi assolutamente e incondizionatamente fuori legge. Sarà però impossibile farlo se non ci si metterà prima d’accordo, rispettando un minimo di logica e coerenza, sulle definizioni. Vasto programma, di certo, ma non per questo da eludere.

Corriere 1.10.14
il buono della vita
Preferire i piaceri fecondi a quelli materiali (ma il corpo vuole la sua parte)
Dagli epicurei a Kant, fede e ragione dibattono da sempre sul peso delle piccole gioie dell’esistenza
di Carlo Sini


Vivere bene e buon vivere non sono sinonimi. Nella prima espressione risuona un’eco severa che allude ai sensi ultimi dell’umana esistenza; nella seconda una più gioviale attenzione ai piaceri della vita, alle loro sia pure effimere consolazioni. Le due cose peraltro non si escludono e spesso dipendono, più che da ragioni tra loro in conflitto, dalle indoli accidentali delle persone.
Non è escluso poi che l’una cosa segua l’altra. Agostino e Pascal pare che se la siano spassata non poco, prima della conversione e l’adesione a una più ascetica condotta di vita e anche Descartes, pur senza arrivare mai a digiuni o vigilie, cose lontane dal suo carattere «libertino» (come non pochi pensarono e ancora pensano che egli fosse), indubbiamente decise a un certo punto di abbandonare i piaceri della mondanità per dedicarsi alle severe soddisfazioni della scienza.
Credo che si debba porre una differenza tra il mondo pagano e quello cristiano. Anche i filosofi, i retori, gli scrittori pagani denunciarono la futilità di una vita dominata dai piaceri dei sensi, di una vita a rischio di dissoluzione e di inconcludenza, ma questo non significò una condanna specifica dei bisogni e delle attenzioni rivolte al corpo: gli antichi non conoscevano la nozione cristiana di peccato e d’altra parte la cura del corpo era parte essenziale della ricerca della salute e della battaglia contro l’invecchiamento e la corruzione fisica.
Consapevoli della precarietà della sorte umana, i saggi pagani non vedevano alcuna ragione plausibile nel negare al corpo piaceri, soddisfazioni e attenzioni sia pure moderati, secondo la regola aristotelica del giusto mezzo. Un esempio emblematico è quello degli epicurei: nel loro «giardino» non ci si abbandonava a orge o a dissolutezze, come i maligni sospettavano, ma a una oculata amministrazione dei piaceri, secondo due regole generali: il non rendersene mai schiavi, cioè mantenerne il controllo senza per questo inibirseli; il diminuirne la frequenza e la portata, sia per renderli più agevoli, sia per gustarne meglio la novità e la fragranza. Nel mondo moderno questo calcolo dei piaceri venne ripreso dalla scuola anglosassone degli utilitaristi: preferire a quelli puramente materiali i piaceri fecondi, i piaceri più elevati, poiché, sostenevano, è preferibile essere un Socrate malato, che un maiale soddisfatto.
Nel mondo cristiano queste attenzioni rivolte ai piaceri del corpo ricorsero talora a un altro tipo di giustificazioni, decisamente un po’ disinvolte: si disse, da parte di alcuni, che era delittuoso e irriverente disprezzare le gioie della natura che il buon Dio dispensava ai suoi figli. Ma in generale la questione, molto variamente affrontata da uomini d’azione, uomini di chiesa, politici o artisti, per i filosofi si declinò per lo più nel segno di una saggia ricerca di equilibrio. In un certo senso il fine della realizzazione di una vita buona, dei suoi fini altamente morali e sociali, trovò in un buon vivere opportunamente modulato un mezzo, un aiuto e un legittimo ristoro. Né Spinoza, né Locke, né Kant si sarebbero complicata l’esistenza per accedere ai piaceri più sensuali: già la loro quotidiana dedizione al lavoro sarebbe stata in ciò un ostacolo insormontabile. Non risulta, per esempio, che abbiano fatto follie per i richiami del sesso o del denaro (sebbene la parsimonia di Kant fosse in proposito ben nota), ma amarono il decoro dei vestiti, il piacere del fumo o dei profumi, i diletti del teatro, le gioie occasionali della mensa come quelle della conversazione leggera e garbata.
Il vero motivo di questa moderazione, più che nelle buone ragioni fatte valere in proposito, sta però, a mio avviso, in un fattore molto particolare, indice, a suo modo, non di una moderazione, ma anzi di un eccesso: questa è la invasiva ossessione della ricerca e l’ansia per la verità, per non dire della aspirazione a una fama imperitura. Certo, anche gli artisti sono divorati dalla passione; non pensano ad altro che al lavoro creativo, vivendo esistenze molto disordinate e dispendiose. Ma è anche vero che spesso accompagnano all’impegno fasi intermedie nelle quali si abbandonano a eccessi di genere opposto, cioè ai piaceri fisici: la stimolazione quasi morbosa della loro fantasia si prende una vacanza, come a ripristinare un equilibrio proprio nel corpo.
I filosofi, a quanto pare, no e il motivo è ben comprensibile: anche loro conoscono giorni e notti di lavoro spossante, ma lo strumento essenziale della loro arte è la ragione, il pensiero lucido e attento. Forse prenderanno qualche stimolante (si dice che alcuni vi abbiano ricorso), ma la mente deve restare libera ed efficiente. Non è il caso di comprometterla per un piatto di lenticchie .

Repubblica 1.10.14
Meditate, manager Attali, nuovo guru raccomanda lo zen ai capitalisti
di Anais Ginori


PARIGI «SCAMBIATEVI un segno di pace». Jacques Attali non è un sacerdote e non sta officiando una messa. Eppure durante il forum per l’economia positiva, con imprenditori, politici ed esperti, ha chiesto ai partecipanti di raccogliersi in silenzio per qualche minuto, tenendosi per mano. È successo giovedì scorso, a Le Havre, davanti a migliaia di persone, tra conferenzieri e pubblico. Una “meditazione collettiva”, così l’ha battezzata Attali, per migliorare la concentrazione e facilitare l’ascolto degli interventi. «Un modo straordinario di rompere la routine di questi incontri e pensare alle generazioni future» ha spiegato l’economista, ex consigliere di Mitterrand e presidente dell’Ong PlaNet Finance. Una preghiera laica. Il forum organizzato a Le Havre è stato dedicato alla promozione di un capitalismo dal volto umano, un sistema di sviluppo che sappia guardare oltre il breve periodo, con imprese rispettose di valori etici ed ecologici. Attali ha anche presentato un nuovo indice dell’economia positiva, non più calcolato solo in base al Pil, ma secondo criteri che tengano conto del benessere a lungo termine della società.
La proposta di Attali non è solo un trucco per pensare l’economia in positivo in un periodo di crisi. L’invito a tacere e chiudere gli occhi, ascoltando il silenzio interiore, è una tendenza sempre più in voga nelle imprese. Una volta per essere in carriera bisognava fare sport. Ora le aziende propongono ai manager corsi di meditazione. Non si tratta più di riti praticati solo dai monaci o dagli yogi. La meditazione ha conquistato anche il magnate Rupert Murdoch o i manager di Ford e Linkedin. L’ingegnere americano Chade Meng Tan ha creato un workshop dentro Google, convertendo alla pace mentale oltre duemila dipendenti, e poi scrivendo il bestseller “Search Inside Yourself”, manuale zen letto anche da Obama. Il consulente d’impresa Sébastien Henry ha scritto un libro su una quarantina di imprese e manager francesi che organizzano seminari per imparare a fare esercizi spirituali.
Fino a qualche anno fa, parlare di posizione del loto avrebbe fatto sorridere colleghi e superiori. Ora invece la meditazione è diventata pop, una fuga ideale da ritmi sempre più stressanti. Lo chef stellato chef Thierry Marx è un adepto della meditazione e ha pagato ai suoi dipendenti corsi di tai chi. Per molti dirigenti si tratta di concedersi un momento di calma tra riunioni, email, telefonate. «I risultati sono spettacolari » assicura Attali che prima di cominciare le sue giornate tra conferenze, interviste televisive e scrittura di nuovi libri, fa il vuoto intorno a sé. L’economista francese ha iniziato qualche anno fa e da allora non ha più smesso. «È una delle cose che l’Occidente può imparare dall’Oriente » sostiene Attali. Senza questa disciplina, aggiunge, la sua creatività intellettuale non sarebbe la stessa. La gestione dello stress è infatti solo uno degli aspetti. La meditazione può diventare un metodo di lavoro.
Attali è convinto che dovrebbe essere inserita nella vita d’ufficio così da «aumentare la produttività», permettendo una maggiore concentrazione. «Ma anche a scuola per migliorare l’apprendimento dei ragazzi o nella medicina preventiva delle malattie del cervello» continua Attali che sta per pubblicare anche un saggio, “Devenir soi”, diventare se stessi, che ricorda in parte quello di Chade Meng Tan. Qualche giornalista francese ha già ironizzato sul fatto che Attali, 70 anni, con la sua barba lunga, voglia diventare un nuovo guru. Lui non batte ciglio. «È stato un successo». E per la prossima edizione del forum sull’economia positiva le sedute di meditazione collettiva saranno ancora di più.

La Stampa TuttoScienze 1.10.14
Damasio al congresso degli psicoterapeuti:
«E’ ora che psicanalisi e neuroscienze collaborino»
di Nicla Panciera


Indagando ogni aspetto della vita dell’uomo e dialogando con molte discipline diverse, le neuroscienze non potevano risparmiare la psicanalisi, che fornisce una spiegazione del comportamento umano, ma che con la ricerca delle sue basi biologiche condivide ben poco. Ora le prove di confronto tra i due approcci si sono intensificate, anche in seguito ai risultati di alcuni studi secondo i quali la psicoterapia provocherebbe significativi miglioramenti clinici e cambiamenti nella funzionalità del cervello. Un successo empirico che però non ne sancisce lo status di scienza. Tra i neuroscienziati che si sono occupati e hanno provato a definire il Sé - concetto cardine in psicoterapia - c’è Antonio Damasio, celebre anche presso il grande pubblico per l’impegno come scrittore. E lo scienziato portoghese, alla guida del «Brain and Creativity Institute» della University of Southern California, è uno dei personaggi che interverranno domani a Riva del Garda, invitati proprio dalla Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia riunita in congresso dal 3 al 5 ottobre. La psicoterapia, infatti, non può ignorare gli avanzamenti delle neuroscienze. Corpo, empatia, plasticità cerebrale, linguaggio: sono molti i punti di contatto e di disaccordo tra scienza e psicanalisi. Eppure «non vedo scontro, ma cooperazione. La maggior parte degli sviluppi della scienza della mente e del cervello influenzeranno il modo in cui gli interventi terapeutici verranno concepiti e messi in pratica», spiega Damasio a «Tuttoscienze». «Gli aspetti psicosomatici della mente dovrebbero essere parte di un resoconto scientifico globale del complesso mente-cervello». Che i tempi siano maturi per una svolta nel rapporto tra neuroscienze e psicanalisi?

La Stampa TuttoScienze 1.10.14
Il primo tempio alla Luna fu la Collina delle Pietre
Scoperta in Israele: megastruttura più antica di Stonehenge e delle piramidi egizie
di Gabriele Beccaria


È lo sguardo a cambiare le cose. E così quello che è stato a lungo considerato il frammento di un antico muro di cinta, da sempre trascurato, si è trasformato di colpo in una meraviglia archeologica: uno dei monumenti più antichi dell’umanità, anteriore a Stonehenge e alle piramidi egizie.
Risalente a oltre 5 mila anni fa, si è finalmente svelato dopo una serie di rilievi. È una collina artificiale di pietre e sassi, modellata come una luna crescente: lunga più di un campo di calcio, 150 metri, larga una ventina e alta sette, ha una massa di oltre 14 mila metri cubi. Emerge nella sua muta maestosità a una trentina di chilometri dalla cittadina israeliana di Bet Yerah ed è merito di un giovane archeologo della Hebrew University di Gerusalemme - Ido Wachtel - se ora può ricominciare a comunicare i propri messaggi ancestrali, dopo un silenzio millenario.
«Doveva rappresentare un simbolo grandioso, immerso nel paesaggio naturale, probabilmente per affermare un principio d’autorità», teorizza Wachtel. In parole più semplici, una rappresentazione terrestre delle influenze della Luna, adorata come una divinità ultrapotente in tutta la Mesopotamia (e non solo). Con il nome semitico di Nin e con quello sumerico di Nanna, entità distinte, destinate a fondersi durante l’impero accadico.
A conferma del ruolo-chiave di questo culto, in una delle città più antiche del mondo, la mitica Ur, tra 2600 e 2400 a.C., la luna-Sin era adorata come il vertice scintillante di un ampio pantheon. Sin era niente meno che «creatrice di tutte le cose e degli dei», oltre che personificazione della saggezza suprema, la quale equivaleva all’astronomia: il sapere esoterico, appunto, con cui diventava possibile l’osservazione dei cieli, dai movimenti stellari ai cicli lunari. E - ricorda Wachtel - non è casuale che la stessa Bet Yerah sia un insediamento molto antico, già attivo nell’Età del Bronzo, e che diede vita a una delle città-fortezza più estese dell’attuale Medio Oriente. Il suo nome - rivelano le ultime interpretazioni - doveva significare in origine «Casa del Dio Luna».
La città era forse un centro cerimoniale strategico, capace di coinvolgere tribù e popolazioni di una vasta area? Di sicuro nella zona stanno emergendo sorprendenti strutture megalitiche. Per esempio quella di Rujum el-Hiri: un tumulo gigante, circondato da quattro anelli concentrici. Ancora tutto da decifrare.

Corriere 1.10.14
Adolescenti maledetti, Erika e Omar ispirano un film
Con «Amoreodio» il regista Scardigno evoca i fatti di Novi Ligure: ma vado oltre la cronaca
di Renato Franco


Due adolescenti di un paese di provincia che una sera uccidono a coltellate la madre e il fratellino di lei e addossano la colpa a due extracomunitari finché non si scopre che sono stati loro. Impossibile non pensare a due nomi che abbinati evocano orrore (Erika e Omar) e a Novi Ligure, paese che non ha fatto niente ma si porta dietro questo ricordo.
La cronaca diventa film. Amoreodio esce al cinema il 9 ottobre, la regia è di Cristian Scardigno, 32 anni, al suo primo lungometraggio. «Avevo 19 anni — racconta —, quello fu il primo vero grande evento mediatico di cronaca nera che ho vissuto. Avevo più o meno la loro età, è una vicenda che mi ha toccato e mi è rimasta dentro». Scardigno assicura che non si tratta di una speculazione su un evento tragico: «Se fosse così avrei chiamato i protagonisti Erika e Omar. E poi non c’è nessuna spettacolarizzazione o morbosità, non mi interessava il fatto di cronaca in sé, ma raccontare con sguardo oggettivo questi due adolescenti». Il cui ritratto è desolante. Sono apatici, assenti, vuoti, si incontrano in un casolare abbandonato dove fanno sesso tanto per farlo, la sera si parlano via webcam ma non si dicono niente.
«Sono due ragazzi che fanno di tutto per sentirsi vivi — spiega ancora il regista — ma non ci riescono: sono abulici, non provano sentimenti, non solo non si confrontano con gli adulti ma nemmeno con i loro coetanei. Il mio vuole essere uno spunto di riflessione sugli adolescenti di oggi, la tecnologia ha aspetti sicuramente positivi, ma i social network aiutano ancora di più le persone a isolarsi fisicamente».
La 17enne Katia (interpretata da Francesca Ferrazzo) riempie le sue giornate di indifferenza e conflitto (con i genitori). È senza aspirazioni, il suo unico interesse è andare in giro in motorino per il paese — un paese che non c’è, che è desolato come i loro sentimenti — con il fidanzato Andrea (Michele Degirolamo). Schivo, gracile tanto di costituzione quanto di personalità, Andrea rappresenta il principale motivo di disaccordo tra Katia e la madre che lo ritiene responsabile del cattivo rendimento scolastico della figlia.
In questo clima di nulla emotivo, Katia chiede ad Andrea una «prova d’amore». Come va a finire è stata cronaca prima che finzione.

il Fatto 1.10.14
L’Espresso, cambio di direzione in vista. Bruno Manfellotto verso l’uscita

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