giovedì 2 ottobre 2014

il Fatto 2.10.14
Alberghi, affari e grembiulini
Due della cricca al telefono: “Rapporti massonici con Renzi”
Il business dell’uomo della cricca con Bacci, vicino a Matteo e al padre
Il peso di Verdini
Ombre sui finanziatori fiorentini del premier che dice: “Nulla a che fare coin la massoneria”
di Marco Lillo

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«Scissione? Macché, io ste cose qua proprio non le concepisco. Mi vengono a dire, “o lo condizioniamo da dentro il partito o ce ne andiamo per conto nostro”. No, io nel Pd ci sto dentro, non con due, ma con tre piedi»
La Stampa 2.10.14
Bersani, “Sarò leale e non mi insegnino come stare nel Pd”
Attacco a “quelli che sono stati tra i 101 traditori”
di Carlo Bertini


«Scissione? Macché, io ste cose qua proprio non le concepisco. Mi vengono a dire, “o lo condizioniamo da dentro il partito o ce ne andiamo per conto nostro”. No, io nel Pd ci sto dentro, non con due, ma con tre piedi, basta che non provino a insegnarmi come si sta nel partito quelli che hanno fatto parte dei 101 traditori». È uno sfogo carico di astio quello di Pierluigi Bersani in pieno Transatlantico, in un colloquio a ruota libera con i cronisti che parte da un’osservazione: la copia del Foglio che lui serba sotto braccio che all’interno contiene un titolo sulla voce che D’Alema voglia farsi un partito tutto suo. Bersani fa un passo indietro come a ritrarsi: è in quel «lo condizioniamo» che si riconosce, la sua linea sembra essere questa, giammai la seconda opzione, cioè costituire un’altra forza della sinistra, staccandosi dalla casa madre.
Certo, il tema clou è la madre di tutte le battaglie, quella sulla riforma del lavoro, che ha ridotto il Pd a un mare in tempesta. Le voci di resistenze a oltranza di una ventina di senatori pronti a votare contro si contrappongono a quelle dei pompieri che gettano acqua sul fuoco. E sono pure i renziani duri e puri a essere a dir poco irritati contro le eccessive pretese della minoranza: «Matteo le aperture le ha fatte, basta non esageriamo, si accontentino». Un partito scosso dalle voci di fratture e scissioni, scongiurate da chi è invece convinto che il Pd supererà indenne pure questa prova e andrà avanti più forte. A iscriversi nella categoria di chi non crede agli sconquassi è anche l’ex segretario, che però non risparmia stoccate a Renzi, pure su Marchionne: «Io gli avrei detto che le critiche ad un governo sarebbe più opportuno le facesse nel paese in cui paga le tasse». Bersani ci tiene a garantire che sarà leale col governo, «all’ultima votazione è ovvio che sto dove sta il Pd, non me lo spieghi gente che ha fatto certe cose, ma di qui a lì voglio dire la mia». È la ragione sociale della ditta che gli sta a cuore, il lavoro appunto. E se il rischio di questa partita è la caduta del governo, reagisce male: «Per carità, non mi interessa far cadere il governo, non ci penso proprio. Facciamo gli emendamenti, poi si vota e alla fine ovvio che sto col Pd». Il volto si infiamma quando ricorda le nottate passate a combattere per difendere la trincea: «C’ero io con la Fornero e Monti a difendere la possibilità del reintegro, mai e poi mai mi sarei aspettato che questa roba qua mi rispuntasse da dentro il mio partito, una cosa incredibile».
E questa minoranza spaccata, quelli come Speranza che con Epifani e Stumpo non hanno seguito la linea dura del voto contrario in Direzione? «Ma non si creda che vi sia una “cupola” che decide dall’alto come si deve votare. Non ci sono manovre organizzate, ognuno pensa con la sua testa c’è chi vota contro, chi si astiene...». Ma poi il mirino torna sulla ditta, «ho parlato di metodo Boffo non per me, ma per tutti, non è che chi la pensa diversamente può essere trattato così, privato della sua dignità. Non mi vengano a insegnare come si fanno le riforme, a me che ne ho fatte tante, ma senza dirlo o annunciarlo prima. E le facevo senza attaccare i riformati, anzi convincendoli anche si mi sputavano addosso, che le facevo anche per il loro bene». E via un’altra rasoiata a Renzi, che «se la prende con tutti, sindacati, minoranza Pd, magistrati e non con la destra e Berlusconi che ha governato per dieci anni». Insomma, Bersani la frontiera dell’articolo 18 non la molla, sarà pure leale alla fine, ma per ora non molla. «Che senso ha in questo contesto abolirlo, quando ormai con la legge Fornero l’80% dei casi si vede che finisce con la conciliazione?». Ultimo avvertimento, sul miliardo e mezzo di euro per gli ammortizzatori sociali che «non basta perchè ne servirebbero almeno sei: attenzione, da qui ad un anno rischiamo di prendere una musata come Pd. Perché raccontare che l’imprenditore è libero di licenziare e poi ci pensa lo Stato, vuol dire far credere di essere in Danimarca, mentre si rischia che a perderci siano sia il padre in cassa integrazione che il figlio precario disoccupato».

Corriere 2.10.14
Bersani tra rabbia e lealtà alla «ditta»: voterò con il Pd, ma no a lezioni dai 101


ROMA — «Ma quale scissione, quale partito di D’Alema... Far cadere il governo? Non ci penso proprio, non mi interessa. Io resto nel Pd con tutti e due i piedi ben saldi, anzi tre. Ma non mi vengano a insegnare come si sta in un partito quelli che hanno fatto parte dei 101». Sono le sei del pomeriggio, Pier Luigi Bersani riesuma lo spettro del tradimento di Prodi e allude a un coinvolgimento dei renziani. Ha voglia di sfogarsi, ma anche di ragionare di lavoro, emergenze economiche e coperture, che per lui non ci sono.
Approda a Montecitorio e subito smentisce progetti di rottura: «Io le cose voglio cambiarle da dentro e dove non sono d’accordo lo dico, ma quando voto non ho bisogno di farmi spiegare la ditta dai neofiti». Che farà sul Jobs Act? «Si discute, si presentano gli emendamenti, ma poi si sta con il Pd». Niente strappi dunque, la notizia (applaudita dai renziani) è che Bersani promette «lealtà verso il partito e il governo», sperando che il premier non ponga la fiducia e lasci al gruppo la libertà di presentare subemendamenti. L’accusa di essere un conservatore non gli va giù e Bersani, dopo aver spiegato che il riferimento al «metodo Boffo» riguardava «tutti» e non solo lui, energicamente la ribalta: «Questi innovatori non vengano a spiegare a me come si fanno le riforme. Perché io ne ho fatte più di loro. Prima le ho fatte e poi le ho annunciate». Tono di sfida e umore di uno che si sente tirato per la giacca, da sinistra: «Mi vengono a dire “o il Pd lo condizioniamo da dentro o dovremo andare da soli”...».
Ma il sogno di un nuovo partito non è il suo. Addossa alla destra il peso della precarietà e difende la Cgil: «Trovo profondamente ingiusto questo schiaffo ai sindacati». Rimprovera al premier di prendersela con tutti, dalla minoranza ai magistrati, tranne che con Berlusconi, che «ha governato dieci anni». Racconta le notti passate a trattare con Monti e Fornero per difendere il reintegro e dice che Renzi sull’articolo 18 lo ha impressionato: «Non mi aspettavo di ritrovarmi in casa ‘sta roba qua. Incredibile. Assurdo presentare l’abolizione come la palingenesi. E non mi si dica che l’imprenditore è libero di licenziare perché poi ci pensa lo Stato. Se un dipendente ti è antipatico te lo tieni, perché dietro c’è una famiglia». Il Tfr in busta paga? «Andiamoci molto cauti, quando ci si mangia oggi le risorse di domani». E l’assegno di disoccupazione? Qui Bersani sostiene che governo e Pd rischiano di «prendere una facciata», perché i soldi non ci sono: «Non si può raccontare che lo diamo a tutti come in Danimarca, è una cosa assurda, che può mandarci contro un muro. Con un miliardo e mezzo garantiamo l’assegno a 150 mila persone... Scherziamo? Ne servirebbero cinque o sei». Quindi una frecciatina per Marchionne, incontrato da Renzi a Detroit: «Le critiche poteva farle sui Paesi in cui paga le tasse e non sull’Italia. Il premier non glielo ha detto?».
E quando gli chiedono se amici come Epifani e Stumpo lo abbiano deluso, l’ex leader difende la libertà di scelta delle giovani leve, bersaniane e dalemiane: «La minoranza non è un’organizzazione, è un’area fatta di sensibilità e opinioni. Non c’è una cupola, che ti obbliga a votare in un modo o in un altro». Non siete spaccati? «Tutti, chi si è astenuto e chi ha votato no, abbiamo pensato che si stava compiendo un passo avanti, ma non sufficiente». Bersani prova a chiudere così la coda polemica seguita alla direzione, dove la minoranza è arrivata alla resa dei conti in ordine sparso e alcuni fedelissimi suoi e di D’Alema hanno fatto un passo verso il carro di Renzi. Un riposizionamento che ha ingenerato attriti e rancori, anche se i protagonisti smentiscono voltafaccia e tradimenti. «Il Pd non è una casamatta — si difende il dalemiano Enzo Amendola — Sto in segreteria, sì. Ma cosa c’entra? Abbiamo trattato, Renzi ha fatto un’apertura e mi sono astenuto». Quanto al D’Alema furioso, non commenta: «Chiedetelo a lui. Questa storia dei vecchi e dei giovani a me non interessa e se qualcuno ha una questione personale con Renzi, se la veda lui. Io non faccio politica sui rapporti personali». Per l’articolo 18, tanti rapporti si sono guastati. Micaela Campana, un tempo tra le «dem» più bersaniane, è in segreteria con Renzi e si è astenuta. E così Stumpo: «Chi era bersaniano è rimasto bersaniano», assicura colui che fu l’uomo-macchina dell’ex segretario. Ma il clima è tale che Zoggia sente di dover garantire per l’amico: «L’affetto di Nico per Pier Luigi non è in discussione».

Repubblica 2.10.14
Bersani: “Alla fine voterò sì ma non prendo lezioni dai 101 che tradirono Prodi”
di Giovanna Casadio


ROMA «Ho passato giorni e notti con Monti e Fornero sull’articolo 18, a difendere la possibilità del reintegro per il lavoratore e non mi aspettavo di ritrovarmi questa roba qui in casa, nel mio partito». Pierluigi Bersani scuote la testa e si sfoga in Transatlantico, dichiarando però: «Certo sarò leale al Pd nel voto finale sul Jobs Act, ci mancherebbe». È un’apertura a Renzi. Fuori dai microfoni tuttavia ripete: «È incredibile, incredibile...». Soprattutto fa una previsione preoccupata: «Renzi sventola l’abolizione dell’articolo 18 come se fosse una palingenesi, ma da qui a un anno rischiamo di prendere una facciata, una musata come Pd perché raccontiamo che diamo assegni a tutti come in Danimarca. Ma ci rendiamo conto di dove siamo, di cosa è l’Italia? Qui rischiamo di far peggiorare le situazioni, di far perdere sia il padre in cassa integrazione sia il figlio inoccupato o precario. È una cosa grave, perché i soldi per fare quello che Renzi promette non ci sono».
L’ex segretario ha in mano il quotidiano “ Il Foglio” di Giuliano Ferrara perché vuole leggere l’articolo sull’ipotesi di una scissione, di un partito di D’Alema. A un’altra “ditta”, Bersani non pensa affatto. «Ora dicono che vogliamo fare una scissione o condizionare dall’interno Renzi, io nel Pd ci sono e ci resto non con tutti e due i piedi, ma con tre piedi. Macché scissione. Però nessuno deve venirmi a insegnare come si sta in un partito, poi proprio quelli che hanno fatto i 101...». Una stoccata amara, ricordando la slealtà dei “franchi tiratori” che impallinarono Prodi nella corsa al Colle e al tempo stesso la sua segreteria. Dopo la drammatica Direzione dem di lunedì da cui Renzi è uscito vincitore ma è stato “picchiato” politicamente dalla vecchia guardia, lo scontro è passato in Parlamento dove la prossima settimana si comincia a votare la riforma del lavoro. Bersani pensa a sub-emendamenti all’emendamento del governo e dà per scontato che il governo non ricorrerà alla fiducia. «Far cadere il governo? Ma chi ci pensa, figuriamoci. Piuttosto nel merito va detto che per fare quanto annunciato dal premier non bastano un miliardo e mezzo, questi sarebbero sufficienti per 150 mila persone... ne servirebbero almeno 5 o 6 di miliardi. Sono altre le cose di cui abbiamo bisogno: di una flessibilità funzionale come in Germania, tipo il contratto Ducati, che sappia affrontare i picchi e le crisi. Non mi dire “l’imprenditore è libero di licenziare ma poi ci pensa lo Stato”, quando sai di non poterlo mantenere qui in Italia».
È un fiume in piena, Bersani. In Direzione ha parlato di “metodo Boffo” cioè di machina del fango contro i dissidenti del Pd. Ora precisa: «Non mi riferivo a un metodo solo contro di me, ma più in generale. Però nessuno deve accusarmi di essere un conservatore. Io ho fatto riforme hard, sul commercio, l’energia, la competitività... ne ho parlato tuttavia solo dopo averle fatte». È l’affondo contro l’annuncite di Renzi.
«Comunque le riforme si fanno senza attaccare i “riformati” chiamiamoli così, ma convincendoli che si fanno anche per loro. Invece ‘sta roba qui di prendersela con i sindacati, che avranno le loro colpe, ma è uno schiaffo ingiusto, non esiste». A «Matteo» rimprovera tra l’altro le lodi a Marchionne a Detroit, durante il viaggio del premier in Usa, senza avere almeno fatto notare al manager che sarebbe opportuno fare le critiche ai paesi in cui la Fiat paga le tasse.
Ma quanto pesa ancora la minoranza dem frantumata in mille rivoli? Quanto può condizionare Renzi? Con Fassina, D’Attorre, Agostini, Zoggia, bersaniani di stretta osservanza, l’ex segretario tiene una riunione volante. Non vuole sentire parlare di minoranza spaccata. «La minoranza non è mica un’organizzazione, una cupola, è fatta di sensibilità e di opinioni...». Si vedrà in aula.

Repubblica 2.10.14
Corradino Mineo:
“I suoi mi insultano ma io Matteo l’adoro”
di Concetto Vecchio


«MA è una minchiata»
Senatore Mineo, l’ha denunciata lei: “I renziani mi scrivono: sei inutile come un lecca lecca alla merda” «L’ha detto un imbecille».
Ma chi è?
«Ma uno, su Twitter. Stiamo diventando un partito un po’ grillino e un po’ berlusconiano. Però in fondo mi diverto».
Si diverte?
«Guarda che io ho un ottimo rapporto con Renzi, e pure con il ministro Boschi».
Ora è ironico?
«Per nulla! Renzi è il più grande politico degli ultimi decenni. Gli altri, anche a sinistra, in confronto erano pastori di gregge».
Sembra uno scherzo!
«Queste cose le ho sempre dette: vedo che non mi hai seguito».
Io ricordo Renzi che dice: “Non ho preso il 41% per lasciare il Paese a Mineo».
«C’è sempre stata grandissima collaborazione».
Dopo la sconfitta sul Jobs Act quindi non pensa a fare la scissione?
«Per fare che? Se il Pd si trasformasse nel “Partito della Nazione” dovrei riflettere, ma non mi pare attuale».
Ha ragione il premier quando dice: la gente sta con me?
«Anche lì. Sembra che abbia asfaltato i dissidenti, ma il documento approvato, che inizialmente era scritto con i piedi, è passato dopo l’imprevedibile apertura alle minoranze».
Come lo spiega?
«A lui del merito importa poco: voleva solo dimostrare che Bersani e D’Alema sono il vecchio. E loro ci sono cascati».
Lei che giudizio dà di Bersani e D’Alema?
«Sono naturalmente responsabili di un lungo periodo nel quale la sinistra è stata subalterna, questo è innegabile...».
Però?
«...non li avrei trattati in quel modo. Sono pur sempre i fondatori del partito: al limite puoi permettertelo con me, che sono uno spirito libero».
Come finisce?
«Al Senato i critici sono molti di più di quelli che hanno firmato gli emendamenti, almeno 60».
E perché non emergono?
«Perché lui ci ha portati al 41%. Ma Renzi un giorno si dovrà rendere conto che non può vivere di spallate».
Ma lei si divertiva più come giornalista o ora da politico?
«Il mio mestiere è fare il giornalista, ma negli ultimi tempi in Rai avevo tutti contro. Avrei potuto fare il senatore del mestiere, invece ho preferito dare una mano al Senato. In fondo facevo politica anche da giornalista».

Corriere 2.10.14
La galassia del Pd, dai neo renziani ai dissidenti

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Repubblica 2.10.14
Province, i nuovi consigli
Da nord a sud boom di larghe intese Pd-Fi A Vibo e Taranto esplode la lite tra i dem
Nella città pugliese eletto un esponente di Forza Italia con i voti del Pd, che però aveva un altro candidato
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Che l’episodio più clamoroso si sia consumato proprio in provincia di Taranto, una città messa in ginocchio dai compromessi della politica, è forse emblematico, forse casuale. Ma dice molto su una riforma che doveva condurre all’abolizione delle province in Italia, e che in alcuni casi ha invece portato a listoni pigliatutto all’insegna delle larghe intese.
Il 28 e il 29 settembre si è votato per 4 consigli metropolitani (Genova, Firenze, Bologna e Milano) e 6 province (Taranto, Vibo Valentia, Bergamo, Lodi, Sondrio, Ferrara). Tra il 5 e il 12 ottobre si voterà invece per le città metropolitane di Roma, Napoli, Torino e per altre 58 province. Sono elezioni di secondo livello: a votare ed essere votati sono sindaci e consiglieri comunali. Non ci sono indennità aggiuntive, le poltrone vinte non comportano un doppio stipendio, ma la possibilità di riorganizzare e gestire il territorio dopo il terremoto della legge Delrio. Bisognerà scrivere gli statuti delle neonate città metropolitane, spartire le competenze dei carrozzoni provinciali in via di smantellamento, tenendo conto che ci sono competenze importanti - scuola, strade, inceneritori, problemi ambientali - di cui i comuni dovranno ora, insieme, farsi carico nelle cosiddette “aree vaste”.
Per fare tutto questo, a Taranto, Vibo Valentia, Ferrara, Genova, Torino, i partiti si sono lasciati andare ad intese che da larghe sono diventate larghissime. In realtà - ufficialmente - nella città dell’Ilva il listone non c’è stato. Centrosinistra e centrodestra erano concorrenti, perché l’accordo cui stavano lavorando il deputato democratico pugliese Michele Pelillo e il consigliere regionale Michele Mazzarano (già indagato per aver avuto a che fare con Giampaolo Tarantini) a sostegno del sindaco forzista di Massafra Martino Tamburrano, era saltato in un tormentato congresso straordinario del Pd locale in cui il segretario regionale Michele Emiliano aveva giurato che mai avrebbe appoggiato alcun inciucio. I democratici avevano quindi candidato il sindaco di Laterza Gianfranco Lopane, tradito però nel segreto dell’urna. A vincere alla fine è stato infatti Tamburrano, nonostante sulla carta la maggioranza fosse tutta a sinistra. Perché gran parte del Pd lo ha votato. E perché quella che è in corso è una battaglia durissima, con lo sfidante di Emiliano alle primarie regionali Guglielmo Minervini che accusa il suo avversario di aver fatto «un inciucio di dimensioni massicce e organizzate». Ovvero, di tramare sottobanco per avere più consensi possibili in vista delle regionali.
È andata molto più tranquillamente a Ferrara per quello che è stato definito «il patto dei cappellacci». A vincere è stata infatti la lista che aveva come candidato presidente il sindaco della città estense Tiziano Tagliani, e che teneva dentro Pd, Forza Italia, Lega e perfino 5 stelle con il sindaco di Comacchio Marco Fabbri. Quest’ultimo non avrebbe dovuto correre (Grillo lo aveva vietato impedendo una lista unitaria anche al sindaco di Parma Pizzarotti), ma non ha obbedito, ed è perfino risultato il secondo degli eletti (i consiglieri 5 stelle che avevano annunciato l’astensione devono aver cambiato idea all’ultimo momento). Per ora non risponde a chi gli chiede se non abbia paura di essere cacciato dal Movimento, si limita sommessamente a far notare che era una regola un po’ strana, quella che impediva di correre in provincia e lo rendeva possibile invece nelle città metropolitane (ci sono un eletto 5 stelle a Bologna e uno a Firenze).
Altrettanto serena la grande intesa di Genova, dove - addirittura - il sindaco Marco Doria (destinato a guidare la città metropolitana) ha fatto correre la sua lista insieme a Forza Italia, Pd e Nuovo centrodestra, dimostrando che anche Sel, in alcuni casi, è pronta a fare strappi alla regola. Mentre è corso più veleno a sud, nella provincia di Vibo Valentia, dove si sono spaccati un po’ tutti con richieste incrociate di dimissioni e accuse reciproche di candidature poco pulite. A vincere è stata la lista “Insieme per la Provincia di Vibo Valentia Adesso” (detta “l’accorduni”), che vedeva i renziani del Pd con esponenti del Nuovo Centrodestra, Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Il prossimo 12 ottobre toccherà a Torino, dove il Pd ha fatto un accordo con Forza Italia, Nuovo Centrodestra e Moderati. L’hanno chiamato «patto costituente» in vista della nascita della città metropolitana, lo hanno fatto - spiegano i democratici - per poter rappresentare meglio il territorio, visto che col meccanismo del voto ponderato il capoluogo rischiava di schiacciare realtà come Ivrea o la Valsusa. Il capogruppo di Sel in comune Michele Curto però la racconta diversamente: «I motivi sono solo due. Piero Fassino vuole scegliersi i suoi 18 consiglieri, e l’attrazione delle larghe intese è stata irresistibile».

il Fatto 2.10.14
Sposetti confessa: “Il partito ci fa votare con Verdini”
L’ex tesoriere Ds: “Non è colpa mia, è tutto deciso dal patto del Nazareno”
di Carlo Tecce


Il senatore Ugo Sposetti, depositario di memorie e patrimoni comunisti e diessini, non contesta la percentuale: il 99,7% delle volte ha votato come Denis Verdini, ha pigiato lo stesso pulsante, ha accolto o respinto. Il marchingegno di Open Polis non lo imbarazza, Sposetti fa il saggio: “Ragazzi miei, non c’è nulla da studiare perché non c’è nulla da apprendere. E la domanda è mal posta, il destinatario è sbagliato”. E perché? “Io mi adeguo, io seguo la linea del Nazareno. Se mi portano in braccio a Forza Italia, se ci fanno confondere, non è colpa mia, e non dovete chiedere a me”.
Vada su Open Polis, giochi con le combinazioni: oltre Sposetti-Verdini, ci sono Verdini-Zanda, Romani-Zanda e via scartabellando. L’ex tesoriere Ds non vuole cianciare: “Ho di meglio da fare e nuove cose da imparare. Queste vostre scoperte, mi spiace, le conosco già”.
Quasi perfetta coincidenza, quasi un movimento unico, un partito unico. Maurizio Bianconi, toscano, un deputato forzista che non utilizza il politichese, vuole commentare, e sospira: “Non c’è bisogno di fondere i gruppi di Camera e Senato, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi gestiscono la stessa macchina: si supportano, si spartiscono le poltrone, la gente non se ne accorge. Voi, le Provinciali senza elezioni le avete seguite? I patti non scritti? ”. Un obbligo, Bianconi: “E allora non prendiamoci per i fondelli. Attenti, però, che un pezzo di Forza Italia si sta organizzando, guarda altrove, chissà se pure al Nazareno si ribellano un pochino”.
LE STATISTICHE di Augusto Minzolini lo rendono un estraneo in Forza Italia: in 911 casi su 1310 (69%), l’ex direttore Rai s’è trovato d’accordo con il capogruppo Paolo Romani. Il dem Luigi Zanda lo batte, 91%. “Minzo” si sente un senatore lungimirante: “Io anticipo quello che poi accade. Fui tra i primi a rifiutare la riforma costituzionale di Enrico Letta, poi mi seguirono molti colleghi. Io comprendo i cittadini che non riescono più a distinguere tra Forza Italia e Democratici. In tanti non rispettano la propria identità: non puoi lottare per l’elezione diretta del capo dello Stato e poi accettare che neanche Palazzo Madama sia più un organismo con degli eletti”. Poi, Minzolini si deprime: “Non siamo più in un sistema bipolare, tripolare, non c’è il bianco e non c’è il nero, siamo pieni di grigio. I berlusconiani e i renziani occupano il medesimo spazio: occhio, che arriva qualcuno e li frega”. Miguel Gotor, bersaniano, promesso ministro e ora provetto ribelle, non sapeva di queste spietate analisi di Open Polis che lo rendono (al momento del voto) simile a Verdini (al 99,7%, Minzolini fa molto peggio) oppure a Paolo Romani. Gotor assicura che si vuole informare, poi non chiamerà più. È uomo di mondo, non sarà traumatizzato. Avremo la sua versione, presto.
Oltre i numeri, ci sono le azioni, le trame. E le telefonate. Quella tra gli alleati Renzi e Berlusconi per ricalibrare l’ambo da proporre in Parlamento per la Corte costituzionale: ritirato Donato Bruno, i forzisti vorrebbero indicare Ignazio Francesco Caramazza, ex avvocato generale dello Stato. I dem insistono con Luciano Violante. La coppia va bene a Silvio e dunque va bene a Matteo, va bene al Quirinale: che vada bene anche al Parlamento, che dovrà scrivere i nome corretti sulla schede. Ma lo scrutinio segreto trasmette coraggio, e il partito unico soffre un po’.

il Fatto 2.10.14
Qui, Quo e Qua Palazzo Chigi bipartisan
Così lavora il governo di centro-destra-sinistra
di Alessandro Robecchi


Una cosa prima di tutto: la famosa questione generazionale non esiste. È vero che i giovani virgulti renziani al governo sopportano a fatica gli anziani, ma solo gli anziani loro, perché invece con gli anziani di Forza Italia hanno un feeling tutto particolare. Come ha scritto ieri questo giornale spulciando i numeri di Open Polis non si è mai visto un governo avere così tanti voti dall’opposizione e non si è mai vista un’opposizione sostenere così strenuamente un governo. Marciare divisi e colpire (nel senso di votare) uniti, il che fa del governo Renzi il primo governo di centro-sinistra-destra-centro dopo il triste caso del dottor Monti, parlandone da vivo.
MA ANDIAMO CON ORDINE: la formula del governo-ombra non ha mai portato fortuna, così tanto vale giocare con la formula del governo-fotocopia. Renzi decide una linea, ne parla con Verdini, Verdini riferisce a Silvio, Silvio telefona a Brunetta, Brunetta scrive il Mattinale, i deputati della destra lo leggono e corrono a votare come il governo “di sinistra”. Poi escono dall’aula, rilasciano qualche dichiarazione contro il governo, poi rientrano in aula e votano con il governo. Questo getta una luce inquietante sulle riunioni politiche del governo. Che succederà là dentro? Per esempio quando Renzi dice: “La parola al ministro delle Riforme”, chi parla, la Boschi o Verdini? Quando la parola passa al ministro della Giustizia, chi parla, Orlando o Ghedini? Naturalmente avranno fatto delle prove audio per non accavallare le voci, un problema risolto con un accordo sul ritmo: dicendo le stesse cose nello stesso momento – a parte l’effetto coro – si capirà tutto. Si è sperimentata anche una speciale modalità di intervento alla maniera di Qui, Quo e Qua: Boschi dice una parola, Verdini la successiva, Renzi chiude la frase. Poi li manda a votare tutti insieme. Oppure si traduce con il linguaggio dei non udenti: Finocchiaro parla e Romani fa strani gesti agitando le mani nell’aria. Poi escono e vanno a votare uguale. Resta qualche dissidio, ovvio. Per esempio quello sull’uso degli aggeggi elettronici, con Scalfarotto che spiega a Romani che l’iPhone non ha la rotella per i numeri, o quando Verdini usa l’iPad della Madia come piano d’appoggio per affettare la fiorentina da otto etti con cui fa colazione, ma sono dettagli.
PIÙ DIFFICILE, INVECE, la scelta delle controfigure. Boschi non vuole far coppia con Santanchè (con cui ha votato solo l’81,5 per cento delle volte) e preferisce la Gelmini (con cui ha votato il 90,3 per cento delle volte), questione di affinità. Anzi, come disse il premier dopo il patto del Nazareno uno-punto-zero “profonde sintonie”.
In assenza di differenze politiche, si discute molto sulle cose tecniche. Renzi, come si sa, vuole riunire i suoi due governi, quello di centrosinistra e quello di centrodestra, alle sette del mattino, cioè più o meno all’ora in cui di solito i ministri-fotocopia del centrodestra vanno a dormire. Per il pranzo fa portare i pacchettini di Eataly, mentre quelli, abituati a Palazzo Grazioli, vorrebbero le pennette tricolore. Ma quando si parla di contenuti sono tutti invariabilmente d’accordo, cosa che si evidenzia poi nelle votazioni parlamentari. Certo, si tratta di scegliere bene gli argomenti. Riforme? D’accordo. Senato? D’accordo. Italicum? D’accordo. Lavoro? D’accordo. Brunetta si piazza vicino all’impianto voce: nell’eventualità, piuttosto remota, che qualcuno affronti argomenti come lotta alla mafia, evasione fiscale, tassazione dei ceti più alti, è pronto a schiacciare un piccolo tasto che spegne tutto. Tranquilli, finora non è mai successo, perché il governo “più di sinistra degli ultimi trent’anni” (cfr. Matteo Renzi, febbraio 2014) è capace di qualche sensibilità e di certe cose non parla. Alla fine, in queste bizzarre riunioni del governo di centro-destra-sinistra, l’unico momento un po’ teso è quello in cui si concordano le dichiarazioni. Silvio teme di perdere visibilità marciando compatto con Matteo, e allora capita che qualcuno del centrodestra twitti una dissociazione, una critica, una cattiveria acidina. A volte gliele scrive direttamente Zanda, che avendo votato insieme a Verdini 99,8 volte su cento, lo conosce come le sue tasche, forse di più.

il Fatto 2.10.14
Renzi uguale a B. Diserta i question time in Parlamento


“MATTEO RENZI snobba il question time, più o meno come faceva Silvio Berlusconi”. L’accusa è del Movimento Cinque Stelle. In un articolo sulla piattaforma istituzionale del gruppo si legge che il premier “la cui somiglianza a Berlusconi è sempre più inquietante”, viola l'articolo 135 bis. “Secondo l'articolo - spiegano i grillini - lo svolgimento di interrogazioni a risposta immediata ha luogo una volta alla settimana, di norma il mercoledì e alle sedute dedicate allo svolgimento devono intervenire, per due volte il presidente o il vicepresidente del Consiglio dei ministri. Peccato che Renzi non si sia mai visto”. Secondo il deputato grillino Emanuele Scagliusi “su 24 question time svolti il premier non si è presentato nemmeno una volta”.

Repubblica 2.10.14
“Scandalo frequenze il governo e l’AgCom subito in Parlamento”
Roberto Fico (M5S): “Lo sconto sul canone suona come l’ultimo regalo a Berlusconi”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA «L’Italia è un Paese morto sul conflitto di interessi». Nel suo ufficio al secondo piano di palazzo San Macuto, in fondo a un corridoio silenzioso e austero, il presidente della commissione di Vigilanza Rai Roberto Fico non usa mezzi termini per parlare della delibera dell’Autorità per le comunicazioni che concede - di fatto - maxisconti a Rai e Mediaset per l’affitto delle frequenze televisive. «È una vicenda molto tecnica che dobbiamo approfondire, perché deriva dall’applicazione di un decreto del governo Monti. Ma visto che la riteniamo urgente e grave abbiamo cambiato il calendario della commissione per sentire subito - la settimana prossima - il presidente dell’AgCom Angelo Cardani e il sottosegretario allo Sviluppo Economico Antonello Giacomelli». Da deputato 5 stelle, Fico dice che «purtroppo l’ultima parola ce l’ha il governo», ma da presidente della Vigilanza vuole vederci chiaro e capire se davvero - quello che si sta consumando è «l’ennesimo regalo a Silvio Berlusconi».
La delibera dell’AgCom è stata approvata a maggioranza, con il voto dei commissari in qu ota centrodestra e Udc. Bisognava agire diversamente?
«A essere sbagliato è il modo in cui sono fatte le nomine. Questo vale per l’AgCom come per la Consulta o il Csm. Trovo surreale vedere scene come quella in cui Antonio Leone saluta i suoi colleghi in Parlamento, ringrazia e se ne va a Palazzo dei Marescialli. Può essere normale tutto questo in un Paese fondato sulla separazione dei poteri? Così com’è strano vedere all’AgCom l’ex sottosegretario del governo Berlusconi Antonio Martusciello, già coordinatore di Forza Italia in Campania».
C’è stata una forzatura?
«Le do due notizie. Il sottosegretario Giacomelli aveva inviato due lettere all’AgCom per chiedere il rinvio del provvedimento, visto che il governo sta ragionando sulla riforma dell’intero sistema dei canoni e delle frequenze. In più, il 18 luglio, la Commissione europea aveva ordinato alla nostra Autorità delle comunicazioni di rispettare le pari opportunità tra gli operatori economici, dicendo che non ci possono essere condizioni più gravose per i nuovi entranti né nuovi vantaggi per i soggetti esistenti. Si è fatto il contrario».
E dell’idea del governo di legare il canone alla Lotteria Italia che cosa pensa?
«È scandaloso, assurdo, perché si legherebbe il canone della televisione pubblica a un flusso di denaro molto incostante. Per di più basato su un gioco, nel momento in cui tutti ci siamo resi conto che la ludopatia è un problema serio».
Fico, pioniere dei 5 stelle, difende
il canone Rai.
«Come Paese vogliamo il servizio pubblico radiotelevisivo? Se da cittadini diciamo sì, ce lo dobbiamo finanziare. Coscientemente e volontariamente. Io da cittadino ne vorrei uno libero, indipendente, meritocratico».
Con la pubblicità?
«L’ideale per me sarebbe passare da 14 canali a 4, accorpando Raiuno e Raitre, con due canali interamente finanziati dal canone e altri due - più sperimentali - in cui si tiene la raccolta pubblicitaria. Se vogliamo una Rai che faccia anche impresa e si misuri sul mercato internazionale, il modello più realistico è questo. Quel che è certo è che il canone va riformato, che dev’essere graduale e prevedere larghe fasce di esenzione, e che se pago la tassa sulla televisione pretendo non ci sia la pubblicità. Perché quella, con gli ascolti, fa parte di un circolo vizioso per cui - alla fine - nei palinsesti comandano le scuderie dei grandi manager come Beppe Caschetto o Lucio Presta».

il Fatto 2.10.14
Nomine e dintorni
Csm e Consulta sono cosa loro
di Bruno Tinti


L’Italia sembra afflitta da un fatale desiderio di degradazione. Ha concesso a B. di governare e oggi si entusiasma per Renzi: due individui che considerano le istituzioni loro proprietà. Magari il secondo non agisce al fine di evitare la galera come ha fatto il primo; ma che stia disfacendo le basi stesse della democrazia è un fatto. Ciò ho pensato il 30 settembre, quando ho saputo dell’elezione alla quasi unanimità (un voto ad altra persona) del vicepresidente del Csm. Ruolo delicatissimo: rappresenta il capo dello Stato e coordina e controlla l’attività del Csm. Ecco perché Renzi ha pensato bene di affidarlo a un suo fido, il sottosegretario Legnini; già tutto stabilito ben prima che il Plenum lo eleggesse formalmente come previsto dall’art. 104 Cost. I magistrati avrebbero potuto votare qualcun altro, ma non l’hanno fatto. E così hanno inaugurato il nuovo Csm: da organo di autogoverno autonomo e indipendente a servo della politica. E hanno anche accampato una scusa ridicola: non c’erano altri candidati. Non esiste una norma che preveda candidature alla carica da vicepresidente; secondo l’art. 104 Cost., ognuno dei componenti laici può essere eletto. In Plenum si vota secondo coscienza: vince chi ha riportato più voti. È ovvio che l’invadente politica padronale ha imposto a sette tra i componenti laici di dichiararsi non disponibili, sì da far eleggere l’ottavo. Ma un sussulto di dignità avrebbe dovuto indurre i magistrati a votare comunque in piena libertà; poi la palla sarebbe passata ai politici: che sette di essi dessero le dimissioni dimostrando il loro servaggio. Così invece lo hanno dimostrato i magistrati.
DEL RESTO la lotta furibonda per l’elezione di due giudici costituzionali che sta paralizzando le Camere, la pretesa di una votazione “a pacchetto” (noi votiamo Violante se voi votate Bruno), la discutibile proposta di candidati che, pur possedendo i requisiti previsti dalla legge (professore universitario Luciano Violante e avvocato Donato Bruno), sono scelti in base alla loro appartenenza politica, è un’altra dimostrazione di questo stravolgimento delle regole costituzionali. La Corte svolge compiti che almeno i parlamentari dovrebbero conoscere; tra questi, il più importante è quello di giudice delle leggi: i giudici costituzionali devono valutare la conformità alla Costituzione delle leggi emanate dal Parlamento. Si tratta della caratteristica fondamentale della democrazia, ciò che la distingue da altre forme di governo: la Costituzione obbliga i governanti al rispetto di princìpi fondamentali; e le leggi da loro emanate non possono essere in contrasto con questi. Il che non avviene in regimi totalitari o oligarchici. Dunque i giudici costituzionali sono i guardiani dello Stato.
Il confronto con le istituzioni politiche è connaturato a questa funzione; tanto che i giudici della Corte (15) sono nominati, per un terzo, proprio dal Parlamento: è necessario un raccordo tra i princìpi costituzionali e le diverse ideologie politiche che si contrappongono in democrazia. Tuttavia non si deve scadere nella nomina di adepti che diano garanzia di far prevalere, sempre e comunque, leggi e indirizzi politici propri di questo o quel partito: una cosa è valutare, oltre alla professionalità, la formazione filosofica e ideologica del candidato, altra è pretenderne la contiguità politica.
L’attuale paralisi parlamentare è la prova dell’inesistenza di cultura giuridico-istituzionale all’interno dei partiti; che gestiscono la nomina alla carica più importante dello Stato (il giudice della legge) come bottino politico o merce di scambio. Questa situazione non è solo il prodotto di una degradata sensibilità politica; è anche resa possibile dalla istituzionalizzazione del conflitto di interessi, il vero cancro della classe politica italiana. I giudici costituzionali devono essere scelti tra i magistrati, anche a riposo, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni d'esercizio (art. 135 Cost.). Era chiaro l’intento dei padri costituenti: garantire alla Corte personalità eminenti, di grande professionalità. Il raccordo con le esigenze della politica sarebbe stato garantito dalla nomina da parte del Parlamento, ma non dall’essere il candidato-giudice egli stesso parlamentare. Ciò non avviene per i magistrati che, quando transitano nella politica, cessano di svolgere la loro funzione.
MA, PER AVVOCATI e professori universitari, al requisito formale si accompagna, in posizione di preminenza, la carica politica, anzi partitica. Il professore universitario o l’avvocato non è scelto per la sua professionalità e autorevolezza ma per le garanzie politiche che fornisce. E questo, ovviamente, snatura la sua funzione di giudice della legge; condiziona la sua autonomia e indipendenza; rende la Corte costituzionale meno organo di garanzia e più organo politico.
Alla fine il degrado della democrazia è inevitabile: quando l’interesse dello Stato soccombe a quello dei partiti, le istituzioni si corrompono e conservano solo la maschera di ciò che dovrebbero essere. Perseverando su questa strada, anche la Corte costituzionale condividerà il declino delle altre istituzioni dello Stato.

il Fatto 2.10.14
Da solo al comando Di cosa?
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, abbiamo tutti notato che la disciplina della Direzione Pd sul tema scabroso art. 18 è stata pronta e compatta. Dichiarazioni avverse, anche durissime, anche autorevoli (in passato) non hanno lasciato il segno. Invece Renzi non riesce a nominare il suo giudice alla Corte costituzionale. Come lo spieghi?
Paolo
LO SPIEGO con il segreto dell'urna. L'impressione è che nelle votazioni per la Consulta non sia in corso una dura e non componibile guerra sulle persone, ma una voglia o necessità di disobbedire. Voglia come sfogo. O necessità come auto compensazione politica di deputati vaganti che per ora non sanno o non possono venire allo scoperto, ma intendono lasciare un segno. Forse, azzardo per motivare la mia risposta che non ha alcun sostegno o conoscenza dei fatti, ma che è plausibile, al momento nessuno sulla sinistra ha la forza di affrontare Renzi e nessuno, sulla destra, vuole farlo. Ma su entrambi i versanti del co-governo Renzi-Berlusconi vi sono ragioni diverse (con esito identico) di portare disordine al campo apparentemente ordinato, delle intese incrociate. Un altro modo di dirlo potrebbe essere questo: Renzi controlla tutto l'apparato direttivo del suo partito. E riscuote il sostegno dell'apparato direttivo degli alleati che rispondono a Berlusconi, anche se si fingono opposizione, per tenersi pronti in caso di elezioni. Invece non sappiamo niente dei deputati e dei senatori vaganti nel vuoto, che non sono sicuri di nessuno, non si sentono legati a nessuno, vogliono essere rieletti ma non sanno a che santo votarsi. Quando il voto è palese votano tutti per Renzi. Quando non lo è, la musica tende a cambiare. Questo logorìo del voto segreto continuerà? La domanda dovrebbe interessare Renzi, perché il nostro fantasioso protagonista sa come far paura al suo apparato, ma non ha ancora davvero sperimentato il campo aperto, e preferisce ripetere all'infinito la cifra incredibile della sua vittoria europea per credere, e farci credere, che si tratta di una vittoria universale. Non lo è, questa è la parte che Renzi volutamente ignora. Ma lo ignorano anche i suoi avversari, che sono durissimi con le parole, ma non guardano neppure per un istante alla marea di gente che potrebbe sostenerli se solo dessero prova di sapere che quella marea esiste. Delle due parti spaccate del Pd solo Renzi esce a cercare la folla, e la folla ringrazia. Però si tratta di un grazie condizionato cui segue la domanda: questo Renzi saprà far succedere qualcosa? Ecco spiegati i toni volutamente estremi di Renzi nella questione art. 18. Deve dare l'impressione del grande evento. Non lo è. Provveda subito con qualche altra cosa che abbia a che fare con la necessità di ripresa. Alle attuali condizioni, renziani o gufi, non spendono neppure coloro che possono.

La Stampa 2.10.14
Il caso Francia rischia di ostacolare i piani del premier
di Marcello Sorgi


Non poteva cadere in un momento peggiore lo scontro tra Francia e Germania sul rispetto dei parametri del rigore. La decisione del governo di Parigi di annunciare che anche quest’anno sforerà il limite del 3 per cento nel rapporto tra deficit e pil, e non sarà in grado di assicurare ulteriori misure di austerità per cercare di risanare i propri conti, coincide infatti con la scelta di Renzi e del ministro italiano dell’Economia Padoan di chiedere a Bruxelles di spostare in avanti al 2017 l’appuntamento con il pareggio di bilancio già rinviato al 2015.
Francia e Italia non sono in condizione di tirare ancora la cinghia l’anno prossimo. Ed anche se le condizioni dei due paesi sono diverse - Parigi è al 4,4 per cento, ha un debito pubblico minore ma negli ultimi dieci anni non ha quasi mai rispettato il limite del 3, cosa che invece l’Italia ha fatto con manovre che dal 2011 assommano a oltre 65 miliardi - è evidente che agli occhi della Commissione Ue, ormai prossima all’insediamento, i due paesi soffrono dello stesso male e la decisione dei rispettivi governi di rallentare o sospendere le cure è da considerare inaccettabile, come s’è già incaricata di dire la Merkel.
In questo quadro rischia di non bastare l’intenzione di Renzi di presentarsi al tavolo del prossimo vertice europeo con la riforma del lavoro approvata almeno al Senato. Intanto è da vedere se il premier riuscirà a ottenerne il varo entro l’8 ottobre, obiettivo che solo un dibattito a tappe forzate, concluso con un voto di fiducia, potrebbe assicurare. E poi lo scambio riforme contro allentamento del rigore potrebbe diventare meno credibile, se Renzi si presentasse alla fine di un defatigante braccio di ferro con la sua maggioranza e con gli oppositori interni del Pd.
Più o meno questo è ciò che rischia di accadere, stando alle dichiarazioni della vigilia del dibattito parlamentare a Palazzo Madama. Contro la riforma proposta da Palazzo Chigi si sono già schierati Grillo e Salvini. Forza Italia e Ncd si controllano a vista, avvertendo il premier che non accetterebbero un cedimento del testo della riforma alle richieste della sinistra del Pd. La quale sinistra, con Bersani, lascia intendere che alla fine non provocherà la crisi di governo, ma senza rinunciare a una battaglia parlamentare per affermare le proprie ragioni. A due giorni dalla vittoriosa riunione della direzione del suo partito in cui aveva ottenuto l’approvazione del Jobs Act con l’ottanta per cento dei voti, è in questo clima, e con questi rischi, che Renzi si accinge a mettere per iscritto la sua nuova proposta.
Non poteva cadere in un momento peggiore lo scontro tra Francia e Germania sul rispetto dei parametri del rigore. La decisione del governo di Parigi di annunciare che anche quest’anno sforerà il limite del 3 per cento nel rapporto tra deficit e pil, e non sarà in grado di assicurare ulteriori misure di austerità per cercare di risanare i propri conti, coincide infatti con la scelta di Renzi e del ministro italiano dell’Economia Padoan di chiedere a Bruxelles di spostare in avanti al 2017 l’appuntamento con il pareggio di bilancio già rinviato al 2015.
Francia e Italia non sono in condizione di tirare ancora la cinghia l’anno prossimo. Ed anche se le condizioni dei due paesi sono diverse - Parigi è al 4,4 per cento, ha un debito pubblico minore ma negli ultimi dieci anni non ha quasi mai rispettato il limite del 3, cosa che invece l’Italia ha fatto con manovre che dal 2011 assommano a oltre 65 miliardi - è evidente che agli occhi della Commissione Ue, ormai prossima all’insediamento, i due paesi soffrono dello stesso male e la decisione dei rispettivi governi di rallentare o sospendere le cure è da considerare inaccettabile, come s’è già incaricata di dire la Merkel.
In questo quadro rischia di non bastare l’intenzione di Renzi di presentarsi al tavolo del prossimo vertice europeo con la riforma del lavoro approvata almeno al Senato. Intanto è da vedere se il premier riuscirà a ottenerne il varo entro l’8 ottobre, obiettivo che solo un dibattito a tappe forzate, concluso con un voto di fiducia, potrebbe assicurare. E poi lo scambio riforme contro allentamento del rigore potrebbe diventare meno credibile, se Renzi si presentasse alla fine di un defatigante braccio di ferro con la sua maggioranza e con gli oppositori interni del Pd.
Più o meno questo è ciò che rischia di accadere, stando alle dichiarazioni della vigilia del dibattito parlamentare a Palazzo Madama. Contro la riforma proposta da Palazzo Chigi si sono già schierati Grillo e Salvini. Forza Italia e Ncd si controllano a vista, avvertendo il premier che non accetterebbero un cedimento del testo della riforma alle richieste della sinistra del Pd. La quale sinistra, con Bersani, lascia intendere che alla fine non provocherà la crisi di governo, ma senza rinunciare a una battaglia parlamentare per affermare le proprie ragioni. A due giorni dalla vittoriosa riunione della direzione del suo partito in cui aveva ottenuto l’approvazione

Corriere 2.10.14
Le larghe intese ambigue nella politica delle proroghe
di Corrado Stajano


C hissà perché, vien detto con sicumera, non esiste alcuna alternativa politica a Renzi. Sembra quasi un dogma. Assoluto, intoccabile. O forse è soltanto un lamento di chi al ragionamento, al dovere di studiare passato e presente, preferisce l’eterna delega al salvatore del momento. Renzi viene rappresentato come l’uomo dello stato di necessità, l’ultima spiaggia, il bagnasciuga. Dopo di lui il diluvio.
Adesso che la sua corda, si ha l’impressione, comincia a sfilacciarsi, accanto alle critiche autorevoli affiorano anche i dubbi degli umili cittadini, forse suoi elettori. Le promesse, infatti, sono rimaste tali, la demagogia spicciola non risolve i problemi, nulla è accaduto, o quasi. Le riforme da fare in quattro e quattr’otto, strombazzate come da un altoparlante issato sul carretto in una fiera di paese — è arrivato lui a cambiare l’Italia — sono state via via prorogate nel tempo. I 100 giorni sono già diventati 1.000 e hanno cominciato a suscitare sospetti. E anche i famosi 80 euro (speriamo che abbiano veramente un seguito) sono serviti a poco, i consumi non sono risaliti, chi ha avuto i soldi ha pagato una bolletta o li ha nascosti sotto il materasso, riserva segreta per quel che può accadere, come in tempo di guerra.
I motivati attacchi al presidente del Consiglio degli ultimi giorni, si è detto, hanno puntato sul suo carattere, tra il «Corriere dei piccoli» e i macchiaioli toscani, alla Renato Fucini, sul suo modo di porgere, non sul suo modo di governare. Si dimentica che quella di Renzi è la politica dell’io. Intorno a lui si muovono, con poche eccezioni — Padoan e qualcun altro — figure nere su uno sfondo nero che contano poco o nulla e in questi mesi hanno rivelato a chi non se ne fosse accorto la povertà culturale e politica della classe dirigente incapace di comprendere, sembra, che l’Italia è un Paese stanco, angosciato, con energie positive lasciate in un angolo. Può suscitare passione, emozione, voglia di fare, di prender parte, la politica dei tweet, delle slide, degli spot? Manca una voce alta, nutrita di cultura, che inviti al coraggio. Le cose fatte, malgrado le vanterie, sono poche. La prima tappa della riforma del Senato non ha sortito alcun effetto in un momento di grave crisi economico-finanziaria che resta sempre volutamente quasi nascosta. All’Europa, il nostro vero puntello, non interessa nulla il bicameralismo vero o mascherato di un Paese della comunità. Interessa la legge di Stabilità, piuttosto, strumento essenziale di giudizio. E si sono persi dei mesi con il grottesco del Senato non più eletto dal popolo.
L’altro grande obbiettivo sul quale Renzi si è impuntato è stato la nomina di Federica Mogherini, sconosciuta ai più, come addetta alla politica estera del Consiglio europeo. Renzi non deve avere avuto neppure per un attimo l’idea di indicare persone al di fuori del suo cerchio magico, Emma Bonino, per esempio. Prodi, anche, il nemico dei 101, lo stile dell’Italia normale e civile: basta sentir parlare il professore per tirare un respiro di sollievo. Renzi ha creato infatti un clima ansiogeno, con il suo linguaggio autoritario che vorrebbe essere moderno, televisivo, costruito sugli aut aut, le minacce, gli ultimatum.
E poi l’ultima stilettata, l’articolo 18. La giusta causa sarebbe un ostacolo al crescere della competitività. Ma, come ha scritto sul manifesto , il costituzionalista Massimo Villone, «si può seriamente sostenere che si perseguono obiettivi di giustizia sociale e di eguaglianza togliendo i diritti a chi li ha?».
In un’intervista a La Repubblica di domenica scorsa, Renzi ha citato una decina di volte il suo 40,8% di voti alle elezioni europee. Ma si rende conto che gli elettori hanno votato soltanto per il Parlamento europeo, che non gli hanno dato per nulla il mandato di cancellare i diritti, le conquiste sociali e civili, la Costituzione? Grillo, il suo maggior propagandista a quelle elezioni — portatore di paura — si è placato, il suo elettorato ha in parte capito e si sta svuotando, la sinistra potrebbe cercare di ricomporsi, il sindacato ritrovare l’unità. In quell’intervista il problema nodale dell’oscuro patto del Nazareno non è mai affrontato. E il nome del convitato di pietra, Berlusconi — dai servizi sociali nell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone a ospite d’onore a Palazzo Chigi — non viene mai fatto. Pesa l’ambiguità delle larghe intese quando i principi politici, sociali, morali, civili non collimano. Non basta la giovinezza a risolvere i problemi provocati dai «gufi» che ossessionano Renzi.
«A parlare coi giovani non c’è gusto», ha scritto un grande scrittore ingiustamente dimenticato, Francesco Biamonti, nel suo «Le parole e la notte». «Non sanno i mondi che sono caduti sulle nostre spalle».

Corriere 2.10.14
Berlusconi, la rete di protezione per Renzi
Il leader è pronto a dare il soccorso azzurro al governo sul Jobs act se fosse necessario
Ma per evitare l’abbraccio mortale farebbe mancare in Aula la presenza di alcuni dei suoi
di Francesco Verderami


ROMA Se davvero vorrà aiutare Renzi nel delicato passaggio parlamentare sul Jobs act, la prossima settimana Berlusconi dovrà essere assente piuttosto che presente, dovrà cioè garantire al premier l’eventuale defezione dall’Aula di qualche senatore forzista, per compensare — qualora fosse necessario — il voto contrario di qualche dissidente democratico sulla riforma del lavoro. Non è detto che ce ne sarà bisogno, anzi è probabile che il Cavaliere rimarrà ai margini di una sfida giocata all’interno del partito di maggioranza. D’altronde, chi ha impiegato venti anni per traghettare dal Pci al Pds ai Ds e infine al Pd, non può nè vuole tornare indietro. E comunque il «soccorso azzurro», che è già stato predisposto, sarebbe efficace solo se fosse contumace.
La verità è che Berlusconi non può abbracciare Renzi, perché lo farebbe cadere, e nessuno si può consentire una crisi di governo, tantomeno le urne: primo tra tutti il Cavaliere, viste le condizioni in cui versa Forza Italia. A preoccupare non è tanto il fixing settimanale dei sondaggi — che dà il suo partito in discesa tra il 13 e al 14% — quanto il dato tendenziale. Le analisi rivelano che la caduta è determinata dall’aumento dei votanti, oggi rilevati al 72%. L’iceberg dell’astensionismo si va insomma sciogliendo ma Berlusconi non sembra in grado di intercettarlo. E senza un’inversione di tendenza le proiezioni si fanno allarmanti: se i votanti infatti superassero quota 75%, Forza Italia scenderebbe attorno al 12%, per crollare addirittura sotto il 10% se l’affluenza alle urne toccasse l’80%.
Sarà vero — come raccontano — che l’ex premier è ormai concentrato solo sui problemi di politica estera, come per proiettarsi fuori dalle questioni domestiche dove ha perso di centralità. Ma allora non si capisce perché — nonostante il fallimento dell’«operazione Lassie» — continui a premere sul Nuovo centrodestra per sottrargli la «golden share» della maggioranza. La resistenza cortese degli alfaniani si è ora tramutata in aperta ostilità, al punto che ieri il coordinatore di Ncd Quagliariello e il segretario dell’Udc Cesa hanno interrotto le trattative per gli accordi delle Regionali, chiedendo attraverso Matteoli — che gestisce la pratica per conto di Berlusconi — la convocazione di un tavolo urgente.
E dire che l’Ufficio di presidenza di Forza Italia era stato convocato (anche) per lanciare la candidatura dell’azzurra Wanda Ferro a governatore della Calabria. Missione abortita. E Matteoli oggi non mancherà di sottolineare che «mentre c’è chi lavora alle intese, c’è chi lavora a distruggerle». Un ragionamento che l’ex ministro aveva fatto a Berlusconi per telefono, lunedì scorso: «Silvio, così va tutto per aria. E gli altri hanno ragione a far saltare tutto». E «Silvio» in quella occasione gli aveva dato ragione, «hai ragione Altero», scaricando le responsabilità su alcuni dirigenti del partito. Già, ma allora perché il Cavaliere non ha bloccato le iniziative di scouting sul territorio?
Così l’appuntamento odierno di Forza Italia rischia di trasformarsi nell’ennesimo duello tra il leader e Fitto, che marcherà il suo ruolo di capo dell’opposizione interna, dichiarandosi contrario al modello congressuale adottato per il partito e insisterà per l’adozione delle primarie alle Regionali. Più volte Berlusconi ha smentito l’esistenza di contrasti con l’europarlamentare, peccato che ieri Fitto abbia voluto evidenziare la frattura, e a nome di tutta l’area del dissenso abbia invitato i senatori di Forza Italia a votare «i nostri emendamenti di segno liberale» sul Jobs act, presentati a palazzo Madama in contrapposizione al gruppo. Il tentativo è di picconare l’asse del Cavaliere con Renzi, per il quale è stato predisposto il «soccorso azzurro». Che non servirà, ma se servisse...

il Fatto 2.10.14
Autoriciclaggio, come rinunciare a 2 miliardi
Nuovo rinvio del provvedimento senza il quale non possiamo far rientrare i capitali dalla Svizzera
La Francia l’ha fatto e stima di ottenere una cifra miliardaria
di Gianni Barbacetto


A remare contro l’introduzione del reato di autoriciclaggio non è soltanto la coppia formata dal ministro Maria Elena Boschi e dall’avvocato di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini, ovvero l’asse Forza Italia-Pd, benedetta dal patto del Nazareno, che l’autoriciclaggio non lo vuole. A rallentare l’operazione c’è anche una contesa interna al fronte che l’autoriciclaggio dice di volerlo e che potremmo, semplificando, raccontare come conflitto tra Pietro Grasso e Francesco Greco. Il primo è il presidente del Senato, ex magistrato antimafia, procuratore a Palermo e poi procuratore nazionale antimafia. Il secondo è il procuratore aggiunto che a Milano per anni ha indagato sui reati economici. Grasso, come coloro che hanno esperienza soprattutto nel contrasto alla criminalità organizzata, tende a considerare l’autoriciclaggio come uno strumento da impiegare nelle indagini sulle organizzazioni criminali e i loro boss, che utilizzano i proventi di reati come traffico di droga o estorsione. Greco e chi ha lavorato soprattutto sulla criminalità economica intende invece l’autoriciclaggio come un reato da contestare ai colletti bianchi che reimpiegano i fondi creati con delitti economici e fiscali.
ECCO DUNQUE che la divisione tra questi due punti di vista si somma agli sforzi di chi quel reato proprio non lo vuole introdurre. Risultato: da sei mesi si confrontano proposte diverse, con il risultato che nessuna passa. Ieri poteva essere la volta buona, alla commissione Finanze della Camera, che da tempo ha pronto un testo che introduce, insieme, due misure: l’autoriciclaggio, appunto, e le norme per favorire il rientro in Italia dei capitali occultati all’estero (la cosiddetta voluntary disclosure). Invece il rappresentante del governo, il viceministro all’Economia Luigi Casero, ha chiesto ancora qualche giorno per mettere a punto il testo definitivo, insieme ai colleghi del ministero della Giustizia. Tutto è rimandato a martedì prossimo.
Sul rientro dei capitali l’accordo è stato raggiunto, ma non sull’autoriciclaggio, di cui circolano due versioni: quella più rigorosa, messa a punto dalla commissione Finanze, sulla base di un emendamento proposto dai Pd Pippo Civati e Lucrezia Ricchiuti e sostenuta da Marco Causi, capogruppo del Partito democratico in commissione; e quella più morbida contenuta nel disegno di legge del ministro della giustizia Andrea Orlando. La settimana scorsa, quando il governo aveva presentato il suo testo, erano divampate le proteste non soltanto di Causi, Civati e Ricchiuti, ma anche del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. A essere contestata era la soglia introdotta dal testo del governo: non c’è autoriciclaggio quando il reato presupposto (quello che ha prodotto i soldi sporchi da ripulire) è punibile con una pena inferiore a 5 anni. Vuol dire che resteranno fuori reati come la truffa, l’appropriazione indebita, la dichiarazione fiscale infedele. I delitti dei colletti bianchi. “Fatta così, la norma sull’autoriciclaggio non serve a niente”, sostenevano Greco e il ministro Padoan. Anche perché l’autoriciclaggio va introdotto anche per giustificare le norme che favoriscono il rientro dei capitali dall’estero, che altrimenti potrebbero trasformarsi nell’ennesima sanatoria all’italiana.
La Francia ha da mesi varato la voluntary disclosure, da cui conta di recuperare almeno 2 miliardi di euro. Una cifra considerevole, che in Italia potrebbe essere anche superiore. Invece da noi non si è ancora fatto niente. “E ogni giorno che passa”, spiegano gli esperti di capitali occultati all’estero, “una parte dei soldi di italiani parcheggiati, per esempio, in Svizzera prende il volo verso paradisi più accoglienti e più riservati. Invece sarebbe questo il momento per rendere conveniente il rientro”.
Nei prossimi giorni, dunque, lavoreranno insieme, alla ricerca di un testo comune sull’autoriciclaggio, il ministero della Giustizia (che finora ha seguito la “linea Grasso”, che accetta la soglia dei 5 anni avendo in mente i reati di mafia) e quello dell’Economia (che segue la “linea Greco” e non vuole la soglia perché sa che le provviste da riciclare si formano soprattutto con i reati di truffa, appropriazione indebita, dichiarazione fiscale infedele, che stanno sotto quella soglia). Tra una settimana vedremo chi risulterà vincitore.
INTANTO oggi il Parlamento in seduta comune proverà di nuovo (è la quindicesima votazione) a eleggere i giudici costituzionali che devono andare a completare la Consulta. Uscito di scena Donato Bruno, si è materializzata la coppia Luciano Violante (Pd) e Ignazio Francesco Caramazza (Forza Italia). Questi, avvocato generale dello Stato, ha rappresentato Giorgio Napolitano nel conflitto di attribuzione sollevato dal capo dello Stato contro la procura di Palermo sul caso delle telefonate intercettate nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.

il Fatto 2.10.14
Evasione: 91 miliardi l’anno. Il Tesoro: basta con i condoni


AMMONTA mediamente a 91 miliardi l’anno l’importo delle principali imposte evase. La stima del cosiddetto tax gap è contenuta nel Rapporto sull'evasione fiscale che il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, ha illustrato al Consiglio dei ministri per essere poi presentato in Parlamento. E di questo mare di miliardi il 52% si attesta al Nord (dove il tax gap di Iva, Ires, Irpef e Irap) è di 47,6 miliardi, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Sud (22%). La conseguenza è “un aumento del livello della pressione fiscale per i contribuenti che adempiono correttamente ai propri doveri fiscali” e così “genera iniquità sociale, mina i principi di solidarietà e legalità sui quali si fonda il patto tra lo Stato e i cittadini”.
Un altro elemento che mina il rapporto di fiducia tra Stato e contribuenti sono le sanatorie: “Mai più condoni”, scrive infatti il ministero dell’Economia. “Dall’Unità d’Italia a oggi ci sono stati oltre 80 condoni”, è scritto nel testo che spiega come questi “minano la credibilità dello Stato”.

La Stampa 2.10.14
Ma quanti sono i disoccupati?
Per l'Istat 3,2 milioni, per il Cnel 7
Oltre i disoccupati ufficiali vi sono quelli "parziali". Così il tasso passa dal 12,3% al 30%
di Walter Passerini

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La Stampa 2.10.14
In Italia la crisi economica ha svuotato le culle: -62mila nuovi nati l’anno, mamme “più vecchie”. E il Paese è diviso sulla fecondazione eterologa
La fotografia Censis: troppe incertezze economiche per gli under 35

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il Fatto 2.10.14
Cosa Nostra e i servizi deviati
Mori, Farfalla e il segreto di B. sulle carceri
di Valeria Pacelli


Mentre i magistrati non erano stati informati, ho ragione di pensare che sia stato ben informato il presidente del Consiglio dell’epoca, Silvio Berlusconi”. Pochi giorni fa, il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava aggiungeva un dettaglio su quella che lui stesso ha definito la “Gladio nelle carceri”, ossia l’accordo tra servizi (Sisde) e direzione delle carceri (Dap) per gestire le informazioni fornite da alcuni mafiosi. I nomi dei boss che hanno parlato con gli 007 sono finiti nel Protocollo Farfalla, che in realtà è stato trovato anni fa, nel 2006, durante una perquisizione al Sisde, disposta dai pm romani Maria Monteleone e Erminio Amelio che stavano indagano su Salvatore Leopardi, il magistrato di Palermo finito sotto inchiesta per aver rivelato le informazioni di un pentito al Sisde. Nell’ambito di questo processo vengono sentiti alcuni 007, proprio per capire il circuito delle informazioni, ed è in questa fase che forse si concentrano i sospetti del vice presidente della commissione Antimafia: perché a confermare il segreto di Stato, opposto da uno 007 che avrebbe potuto chiarire questo aspetto, è stato proprio il governo Berlusconi il 7 marzo 2011.
PER CAPIRE QUESTA STORIA, bisogna fare un passo indietro, ripercorrere le fasi del processo a Leopardi (ancora in corso in primo grado) e ricostruire il contesto. Quando i pm romani trovano il protocollo Farfalla infatti è il 2006, anno di insediamento del II governo Prodi che resta in carica fino all’8 maggio 2008, quando ritorna Berlusconi. Con Prodi vengono rinnovati i vertici dei servizi segreti: al posto di Nicolò Pollari al Sismi viene chiamato l’ammiraglio Bruno Branciforte ; mentre al Sisde lascia Mario Mori, direttore dal 2001, sostituito da Franco Gabrielli.
Gli inquirenti di Piazzale Clodio indagavano dopo le rivelazioni di Antonio Cutolo, condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Sulmona. Cutolo, detto Tonino ‘mulletta, sosteneva di avere dettagli per arrestare Edoardo Contini, considerato il vertice dell’omonimo clan camorristico, e di aver fornito alcune informazioni a due agenti della polizia penitenziaria che a loro volta avrebbero riferito al direttore del carcere abruzzese, all’epoca Giacinto Siciliano. Questi avrebbe informato il capo del servizio ispettivo del Dap di quegli anni, appunto Leopardi, che a sua volta riferì al Sisde. Questa “catena di Sant’Antonio” è costata a Leopardi e ad altri l’accusa di falsità ideologica e omessa denuncia di reato, ma il processo non è ancora conclusa. In fase dibattimentale, tra gli 007 convocati c’era il colonnello dell’Aisi (ex Sisde) Raffaele Del Sole, che non ha mai risposto ai magistrati, anche grazie a Berlusconi. Il 7 marzo 2011, infatti, l’ex premier ha confermato il segreto di Stato sulle informazioni che i magistrati volevano ottenere da Del Sole. Per i pm ciò incideva profondamente sulla possibilità di pervenire a una piena ricostruzione delle condotte contestate agli imputati, oltre violare l’articolo 39 comma 11 della legge 124 del 3 agosto 2007 (riforma dei servizi) che stabilisce che in “in nessun caso possono essere oggetto di segreto di stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale o a fatti costituenti i delitti di strage, associazione per delinquere e devastazione o saccheggio”. Principio già affermato dall’articolo 204 del codice di procedura penale. E nel caso del processo Leopardi si stava lavorando proprio su personaggi gravitanti negli ambienti camorristici. Il 24 novembre 2011, la VI sezione del tribunale di Roma chiude la questione e stabilisce che il giudizio poteva “proseguire a prescindere, almeno per ora, dalla legittimità del confermato segreto di Stato”. La scelta di non far testimoniare lo 007 potrebbe quindi porre un ulteriore ostacolo al chiarimento almeno di un aspetto di quelli che erano i rapporti tra i servizi e i pentiti e che trova conferma nel Protocollo Farfalla.
DOPO AVERLO TROVATO, i pm hanno iniziato una serie di interrogatori. Sono stati sentiti sia Tinebra, all’epoca alla guida del Dap, sia Leopardi, che sono anche i due pm che chiesero l’archiviazione, poi ottenuta, di Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi. Tinebra, sentito dai pm, smentisce la circostanza e nega di sapere dell’accordo, mentre l’ex capo del Sisde Mario Mori avrebbe minimizzato spiegando che si trattava di un progetto per gestire le informazioni, che però non si era mai concretizzato. Dopo questi interrogatori, i magistrati romani presentano un ordine di esibizione al Dap ma di quel protocollo non c’è traccia. Così mandano a processo Leopardi e altri per una sola vicenda, e la faccenda si chiude senza il deposito delle carte del Sisde, compreso il Protocollo Farfalla. Fino a gennaio scorso quando il carteggio è stato mandato a Palermo, che ha ricevuto non solo l’accordo tra Sisde e Dap, ma anche gli interrogatori resi all’epoca, oggetto di una nuova indagine.

il Fatto 2.10.14
L’audizione
“Ancora oggi ci sono contatti tra boss e 007”
Il Pg Scarpinato in Commissione “C’è preoccupazione”
di Val.Pa.


Dalle minacce ai magistrati, al processo sulla trattativa Stato-mafia, passando per il “protocollo Farfalla” e per la preoccupante situazione siciliana. Sono i tanti argomenti affrontati dal procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, convocato ieri in Commissione Antimafia, presieduta da Rosy Bindi. L’audizione è durata due ore e, come chiesto dallo stesso procuratore, è stata secretata.
Scarpinato così è partito da lontano, dall’inchiesta “Sistemi criminali” (archiviata anni fa ai tempi del procuratore Grasso) sul sottofondo delle stragi: cioè su quel groviglio di uomini dei servizi più o meno deviati, estremisti di destra, massoni e piduisti che concordarono o addirittura dettarono la strategia stragista a Riina e agli altri boss della Cupola. Tutto tra la fine del ’91 e la primavera del ’92, a cavallo con la storica sentenza della Cassazione sul maxi-processo, innescando il delitto Lima, gli eccidi di Capaci e via D’Amelio e la nascita delle “leghe meridionali” poi scaricate da Cosa Nostra a fine ’93 in favore di Forza Italia.
MA IL RACCONTO del Pg di Palermo giunge fino ai giorni nostri, rivelando alcuni particolari di indagini da lui stesso avviate nelle ultime settimane insieme al sostituto Giuseppe Patronaggio, per il processo d’appello contro il generale Mori e al colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano nel ‘95. Scarpinato si è poi soffermato sui possibili moventi della lettere minatorie che “qualcuno”, eludendo i controlli al Palazzo di giustizia, ai primi di settembre gli ha lasciato sulla scrivania del suo ufficio: una lettera che puzza di servizi o di “apparati”, specie se la si collega con le visite di fine luglio del Pg nella sede romana dell’Aisi, l’ex servizio segreto civile.
Tutt’oggi - avrebbe raccontato Scarpinato - si registrano strani movimenti e manovre di uomini dei servizi nelle carceri per avvicinare mafiosi pentiti e non. Il caso più eclatante (ma non sarebbe l’unico) è quello del collaboratore di giustizia Sergio Flamia, che si è presentato a demolire le accuse a Mori e Obinu: poi però i magistrati hanno scoperto che lavora da vent’anni per i Servizi, che l’avrebbero anche retribuito con circa 150 mila euro. “La situazione siciliana rappresentata dal procuratore è molto preoccupante”, questo l’unico commento dei commissari sull’audizione di ieri.

La Stampa 2.10.14
Amianto all’Olivetti, ecco i verbali: “Così eliminavamo i dati scomodi”
Le deposizioni di alcuni ex dipendenti di Ivrea mettono nei guai dirigenti e vertici aziendali Si procede per 15 omicidi colposi, sotto indagine 39 manager, fra cui anche Carlo De Benedetti
di Giampiero Maggio

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Repubblica 2.10.14
Il pasticcio del divorzio breve due leggi impantanate al Senato
di Maria Novella De Luca


ROMA Sembrava un traguardo vicino, un successo a portata di mano, qualcosa di finalmente concreto. Invece no. Il divorzio breve è tornato ad essere lungo, almeno nei tempi che ci separano oggi dall’approvazione di quella legge che dovrebbe (finalmente) rendere “umano” il percorso giuridico della fine di un amore.
Niente da fare. Il testo approvato dalla Camera nella primavera scorsa si è arenato tra le secche del Senato, bloccato dall’opposizione Ncd ma anche dalla “fronda” di non pochi senatori dei diversi schieramenti. Un gruppo trasversale deciso fermamente ad opporsi a quel taglio “chirurgico” dei tempi di attesa tra la separazione e il divorzio previsti nel nuovo testo. E Alessandra Moretti, deputata Pd (oggi europarlamentare) relatrice della legge insieme al forzista Luca D’Alessandro, parla con chiarezza di un “pantano” in cui sarebbe finito il nuovo e sospirato divorzio breve. Che prevede un anno di separazione prima di arrivare all’addio definitivo, e soltanto sei mesi se il tutto è consensuale. Norme identiche in presenza o meno di figli, minorenni o maggiorenni. «Temevamo che il nostro lavoro si arenasse nella palude del Senato e infatti è quello che sta succedendo. Eppure entrambi i presidenti delle Camere, Boldrini e Grasso, ci avevano assicurato una corsia preferenziale. A Montecitorio — precisa Alessandra Moretti — l’iter è stato breve, a Palazzo Madama invece il provvedimento è in commissione Giustizia da mesi. Perché? Chi ha paura del divorzio breve?». In realtà la resistenza cattolica è forte. Soltanto pochi giorni fa il Consiglio della Cei aveva mandato un chiaro messaggio a Renzi, affermando che questioni come il divorzio breve o le coppie gay non potevano essere al centro dell’agenda politica, dimenticando la famiglia... «Invece è proprio la drastica riduzione dei tempi che dimezzerà i conflitti e le sofferenze legate ad una separazione — ribatte Moretti — visto che è in quegli anni di attesa che il contenzioso familiare aumenta in modo pericoloso».
Un dibattito che da sempre oppone i riformatori e i difensori della legge 898 del 1974. E che ancora una volta nel pingpong tra Camera e Senato potrebbe affossare il divorzio breve. Creando così, dopo il turismo procreativo figlio della legge 40, il turismo dei divorzi, come dimostrano le storie di centinaia di coppie che già oggi mettono fine ai loro matrimoni in Romania, Spagna, ovunque sia possibile. Ma le secche del Senato non sono l’unica trappola che riguarda la semplificazione delle procedure per dirsi addio. Con un tempistica che di fatto crea non poca confusione, sempre a Palazzo Madama è iniziata la discussione sul decreto di riforma della giustizia civile presentato dal guardasigilli Andrea Orlando. Che contiene tra i tanti articoli di semplificazione anche una norma sul divorzio “fai da te”. Nei casi del tutto consensuali e laddove non ci siano figli, si potranno fare le pratiche di divorzio e separazione non più in tribunale, ma tramite un avvocato o un ufficiale di stato civile. Pur senza toccare gli attuali tre anni che devono passare prima di riacquistare per entrambi i coniugi lo “stato libero”. Si chiama “negoziazione assistita” e mira ad assottigliare il numero monstre di pratiche in giacenza nei tribunali di tutta Italia.
Dunque quello che potrebbe accadere (ma anche il provvedimento Orlando è stato subito impallinato da Ndc) è che il divorzio “fai-da-te” venga approvato ben prima del divorzio “breve”. Ma in un caso avremmo una legge che mantiene intatti i tempi di attesa e un’altra che li dimezza, e che dunque in futuro dovranno essere armonizzate. E non basta. Perché Rosanna Filippin, capogruppo Pd in commissione Giustizia, annuncia: «Non è vero che non stiamo lavorando, ma per accelerare i tempi ho deciso di fare una specie di blitz: inserire come emendamento alla riforma Orlando l’intero testo della legge sul divorzio breve. Quindi non solo la “negoziazione assistita”, ma anche il dimezzamento dei tempi previsti dal testo della Camera. Se l’emendamento passasse, il divorzio breve sarebbe legge in un mese». Forse. Chissà. Il gioco di incastri sembra tutt’altro che semplice.

il Fatto 2.10.14
Il massacro dei bambini messaggio Isis ad Assad
di Roberta Zunini


UN’AUTOBOMBA E UN KAMIKAZE UCCIDONO OLTRE 40 ALUNNI DI DUE SCUOLE ALAUITE A HOMS, CONFESSIONE DEL RAÌS DI DAMASCO
ANCHE LA TURCHIA IN GUERRA

Questa volta è toccato a decine di bambini di una scuola elementare di Homs, una delle città principali della Siria, e ai loro genitori che li stavano aspettando. I sopravvissuti, impazziti dal terrore, hanno cercato per ore i loro figli sotto le macerie, svenendo dopo averne trovato i resti. Quando li hanno trovati. Perché l'esplosione è stata estremamente violenta e tutto quello che vi era intorno si è disintegrato.
Le scuole aperte in tutta la Siria sono poche e quelle poche sono state allestite in appartamenti o scantinati. Quella elementare del quartiere alauita di Ekremah al-Makhzoumi era rimasta in piedi, nonostante i bombardamenti governativi e ribelli. Ma ora è ridotta in macerie dopo che due kamikaze si sono fatti saltare in aria in due attentati distinti. Sembra molto probabile che a uccidere in tutto oltre cinquanta di persone (una quarantina minori) e a ferirne almeno una sessantina, siano stati dei membri dell'Isis.
Per gli uomini del Califfo nero gli alauiti sono il bersaglio numero uno, considerando la religione alauita (di derivazione parzialmente sciita) blasfema. A rendere i jihadisti seguaci del sunnismo più radicale, ancora più crudeli nei confronti degli alauiti, è il fatto che l'altrettanto sanguinario presidente Assad, al quale vorrebbero sostituirsi, sia ufficialmente un credente di questa confessione. Ma, come ormai è chiaro a tutti, la religione è un pretesto per il leader dell'Isis, Al Baghdadi: a lui non interessano i precetti morali bensì il potere e il denaro. Ottenuti in vari modi tra i quali la vendita sottobanco a intermediari senza scrupoli del petrolio che sgorga dai pozzi iracheni e siriani di cui l'Is è riuscito a impossessarsi, sfruttando l'inconsistenza dell'esercito iracheno e la ridotta capacità bellica dei peshmerga curdi siriani e iracheni, privi di armamenti pesanti. Se però ai curdi iracheni qualche arma pesante è arrivata e i bombardamenti aerei della coalizione internazionale a guida Usa sono riusciti a contenere l'Isis nel nord dell'Iraq e a tenerli fuori dai confini del Kurdistan, per i curdi-siriani, la minaccia non sembra essersi disinnescata.
NONOSTANTE L'ARRIVO di molti peshmerga dal Kurdistan turco, nonostante i bombardamenti della coalizione, tutti i centri principali della regione Rojava - l'area orientale della Siria confinante con la Turchia, abitata in gran parte da curdi - è ormai controllata dall'Isis. La città di Kobane, a 500 metri dalla frontiera turca, è ormai sul punto di cadere. Quasi tutti gli abitanti, circa 160mila persone, sono scappati in zona turca e a combattere sono rimasti solo i peshmerga. Che però lì sono troppo pochi e avrebbero bisogno dell'aiuto sul terreno dei loro colleghi curdo-turchi, meglio armati e abituati da decenni a confrontarsi con uno degli eserciti più potenti del mondo, quello turco.
E la Turchia, pur avendo avviato da due anni un negoziato di pace con i curdi del Pkk, non intende far entrare in Siria i suoi guerriglieri perché teme una saldatura tra curdi turchi e siriani, asse che potrebbe un giorno unirsi allo Stato curdo iracheno per creare il temuto Kurdistan.
Per fermare il loro ingresso, più che per evitare che l'Isis minacci la Turchia, storico membro della Nato, il presidente Erdogan ha deciso di schierare 10 mila soldati turchi e decine di carri armati sulla collina che guarda Kobane. Inoltre, oggi, il Parlamento turco dovrebbe ufficializzare la creazione di una zona cuscinetto dentro la Siria. Così i suoi soldati potranno mettere gli scarponi sul terreno. Erdogan però spera che anche altri eserciti presto seguano il suo. Una bella nemesi per colui che aveva protetto i jihadisti in chiave anti Assad.

Repubblica 2.10.14
Le donne armate a caccia di libertà ecco l’ultimo incubo del “Califfo nero”
Tre curde decapitate in pubblico al confine con la Turchia
Un chiaro messaggio contro chi ha deciso di combattere a fianco degli uomini
Tra i peshmerga vicini al Pkk il ruolo delle ragazze è rilevante. E fa paura all’Is
di Adriano Sofri


I fanatici dello Stato islamico temono il disonore d’essere uccisi da soldatesse
E così si accaniscono
Il rapporto Unicef sulle mutilazioni genitali femminili testimonia che nel Kurdistan la pratica è in declino

LE TESTE e i corpi decollati di tre donne combattenti curde e sette uomini, oltre a un prigioniero civile, sono state esposte dal sedicente Califfato nell’abitato di Jalablus, distretto di Kobané, nel nord della Siria. Là si combatte una battaglia strenua per un territorio cruciale, al confine con la Turchia. Kobané (o Ayn al-Arab) era stata presa nel luglio 2012 dai curdi siriani, che la popolano in maggioranza, e difesa fino a oggi dall’assalto dello Stato Islamico, rafforzato dalle armi pesanti razziate a Mosul. Le teste di donne mozzate ed esibite, invece che sbrigativamente sgozzate e buttate via, suscitano un raccapriccio e uno sdegno ulteriore, benché nemmeno questo sia davvero inedito. (La nostra cronaca nera, in Italia, negli Stati Uniti, va registrando un’emulazione paranoica in private decapitazioni di donne eseguite da uomini). I fanatici superstiziosi del Califfato temono il disonore d’essere uccisi da donne, e d’uccidere donne riconoscendo loro un rango di combattenti: ma non possono più permettersi di nasconderlo. Lo scorso 12 settembre era stata uccisa in combattimento in Kurdistan, nei pressi di Makhmour, a capo del suo commando misto di uomini e donne del Pkk, la leggendaria Avesta: che sapeva ridere dell’alone di invincibilità procurato all’Is dal terrore. «Sanno combattere da lontano con le armi pesanti, i mortai e l’artiglieria».
La notizia ormai antica che viene ferocemente alla luce a Kobané è che la principale forza resistente contro lo Stato Islamico in Siria è da sempre il “partito di unione democratica”, Pyd, curdo, con il suo braccio armato, le Ypg, “unità di protezione del popolo”, e la loro casa madre, il Pkk curdo di Turchia. E che il ruolo delle donne vi è incomparabilmente maggiore che in ogni altro attore mediorientale. Già nel momento più tragico della crisi di Mosul l’intervento dei curdi siriani e dei militanti in esilio del Pkk, che hanno la loro base sui monti Qandil, al confine tra Kurdistan iracheno e Iran, era stato decisivo per rimediare alla rotta iniziale dei peshmerga curdo-iracheni e aprire una via ai fuggiaschi yazidi dei monti Sinjar. Dopo di allora, alla frontiera del Kurdistan iracheno i peshmerga e il Pkk operano abbastanza di conserva, benché il governo di Erbil sia impensierito dal peso crescente dei curdi siriani. Ne è impensierito soprattutto il governo turco, nonostante il mutamento nei rapporti con la minoranza curda (quasi 15 milioni) e con il Pkk. Dallo scorso anno un negoziato ha portato a una tregua delle armi e a un appello alla rinuncia alla lotta armata da parte di “Apo” Ocalan, che da nemico numero uno è in predicato di diventare l’interlocutore della pacificazione. La nuova tappa aperta dall’espansione dell’Is ha reso decisivo per la coalizione promossa da Obama il contributo dei curdi in Siria e in Iraq, e contemporaneamente ha accresciuto la preoccupazione per le loro aspirazioni all’indipendenza. Così, mentre i combattenti curdi di Siria e Turchia, inferiori per numero e soprattutto per armamento, sono la prima linea della coalizione, i veri “stivali sul terreno”, restano grottescamente iscritti alla lista delle organizzazioni terroriste per Stati Uniti ed Europa, incalzati dalla Turchia. Questo intrico paradossale ha fatto sì che i curdi mal in armi siano stati lasciati a lungo soli a fronteggiare l’attacco jihadista a Kobané, mentre nel giro di due settimane quasi duecentomila curdi, vecchi donne e bambini, fuggivano travolgendo la frontiera turca.
I curdi praticano l’islam più secolare fra i loro vicini, e le donne vi tengono un posto più autorevole e valoroso, nella vita civile come nelle armi. Nel gennaio 2013, mentre erano in corso i negoziati fra governo turco e Pkk, a Parigi erano state assassinate tre donne curde di Turchia, e fra loro la leggendaria cofondatrice del Pkk, strettamente legata a Ocalan, già imprigionata e torturata in patria, Sakine Cansiz, 55 anni. Una sua amica e compagna di partito, Leyla Zana, più volte parlamentare in Turchia, incarcerata per dieci anni e insignita del premio Sakharov, dichiarò allora che le donne curde «in passato dovevano gridare per esistere come esseri umani, ora gridano per proclamare le proprie idee e ideali. L’opinione corrente era: se sei uomo, vali; se sei donna, non vali. Man mano che si raddrizzano le cose, non bisognerà che gli uomini siano resi schiavi mentre le donne si liberano. Andremo avanti spalla a spalla».
È questo a rendere la partecipazione armata di donne curde, accanto agli uomini o in reparti solo femminili, un complemento del desiderio di libertà, parità e affrancamento dal patriarcalismo. Nella bolgia siriana donne hanno preso un posto pressoché in tutti gli schieramenti: dalle “leonesse” di Assad alle immigrate dall’Europa che vengono a sposare il loro jihadista — caso, questo, della più triste soggezione e sottomissione. Anche nella società curda, compreso il Kurdistan iracheno, il più ricco di autonomia e risorse, una discriminazione patriarcale continua a esistere, ed è il punto più debole di quel mondo effervescente. Nei ristoranti tradizionali di Erbil c’è una parte riservata alle donne e alle famiglie e una agli uomini e, come dovunque, i comportamenti legati alle predilezioni sessuali sono i più renitenti al cambiamento pubblico. La capitale concorrente che è Suleimania vanta una vita culturale e artistica molto più vivace e abitudini spregiudicate, e tuttavia là la gran donna che è Hero Talabani mi confessò di essersi resa conto solo molto tardi dell’esistenza diffusa anche in Kurdistan dell’orrenda pratica delle mutilazioni genitali femminili. Giorni fa a Erbil è stato presentato il primo rapporto dell’Unicef sulle mutilazioni genitali femminili nel Kurdistan iracheno. Il rapporto, realizzato fra gli altri dall’indiana Mary Pereira Mendes e Marzio Babille dell’Unicef consultando 873 famiglie tra Erbil e Suleimania, documenta che la proporzione di MGF è tanto più alta quanto più alta è l’età, e dunque la pratica, benché ancora gravemente diffusa, è in declino. Frances Guy, rappresentante delle donne dell’Onu in Iraq, ha esortato: «Mi sono ispirata alle donne del Sudan, dell’Etiopia, dello Yemen e del Kurdistan che si battono valorosamente per proteggere le loro figlie da questo crimine abominevole. In Kurdistan abbiamo la possibilità di metter fine a questa pratica entro una generazione. Facciamolo!».
Tenuta mentre a qualche chilometro infuriava la guerra con i tagliatori di teste e stupratori, in un paese che aveva improvvisamente aggiunto alla sua moltitudine di profughi siriani la nuova moltitudine di profughi cristiani e yazidi, la solenne presentazione del rapporto Unicef è stata la miglior illustrazione della doppia trincea sulla quale si combatte oggi nel medio oriente: quella della libertà e della democrazia, e quella del suo nocciolo primo, la condizione della donna.

Repubblica 2.10.14
L’apocalisse culturale della Mecca
Per restare al potere i principi del Golfo accumulano ricchezza ma senza rinunciare al ruolo di custodi della ortodossia
di Gad Lerner


L’IMPLOSIONE della civiltà musulmana che sta generando ondate di terrore fino a migliaia di chilometri di distanza, ha il suo epicentro nel luogo più sacro, più conteso e forse anche più profanato dell’Islam: la Mecca. Basta consultare un qualsiasi sito Internet di prenotazioni alberghiere per constatare come, nella città santa che custodisce la Pietra Nera incastonata nella Kaaba, meta del pellegrinaggio prescritto dal Corano almeno una volta nella vita, sta consumandosi un’apocalisse culturale, frutto dell’incontroscontro fra tradizione e consumismo, ovvero fra fede autentica e potere del denaro. Demoliti i vicoli medievali che rendevano difficoltoso l’accesso al luogo sacro, l’immobiliare della famiglia Bin Laden l’ha trasformata nel corso degli ultimi vent’anni in emblema della superpotenza saudita, ricoprendola di marmo italiano culminante nei 610 metri d’altezza del Royal Hotel Clock Tower, il secondo grattacielo del mondo, dotato nei suoi 120 piani di suite lussuose affacciate sulla Pietra Nera. Molti pellegrini ne tornano sconcertati, quasi che la culla dell’Islam stesse assumendo le fattezze — sia detto senza offesa — di una vetrina dell’opulenza materiale come Las Vegas.
Questa metamorfosi, già resa evidente dalle nuove metropoli del capitalismo islamico figlie dei petrodollari, come Dubai, è tra le cause scatenanti della controffensiva fondamentalista di cui si fa portatore l’autoproclamato califfo al-Baghdadi. È al controllo della Mecca, infine, cioè al miraggio del ripristino di una tradizione violata, che mira l’esercito oscurantista dei tagliagole. Facendo leva sul passaggio storico che da trentacinque anni sconvolge il Medio Oriente: l’Islam percepito come rivoluzione, e non più solo come religione del sovrano.
Tale capovolgimento ha una data simbolica: il 1979. Quello fu l’anno in cui la rivoluzione si avverò come fenomeno di massa nel campo sciita, con la deposi- dello Scià e l’instaurazione di una “repubblica islamica” (fino al 1979, un vero e proprio controsenso). Ma in quello stesso anno, il fatidico 1979, un analogo tentativo rivoluzionario — represso nel sangue — ebbe luogo anche in campo sunnita: l’assalto alla Grande Moschea della Mecca guidato da Juhayman al-Utaybi, con lo scopo di rovesciare il regno corrotto della dinastia saudita.
Quando oggi ci interroghiamo sulla enigmatica doppiezza dei principi del Golfo che investono miliardi di dollari nelle economie occidentali ma al tempo stesso finanziano le milizie jihadiste, stiamo toccando con mano proprio questa loro contraddizione esistenziale: per mantenersi al potere accumulano ricchezza finanziaria, senza rinunciare però al ruolo di custodi dell’ortodossia che strapparono un secolo fa al sultano turco (con la complicità anglo-francese).
Oggi Arabia Saudita, Qatar e Emirati si schierano con Obama nella guerra contro lo Stato Islamico che insidia Bagdad, Damasco, Amman e Beirut, con l’intenzione zione dichiarata di minacciarli poi direttamente. Ma non smettono di coltivare quella visione reazionaria dell’Islam — il wahhabismo — che li ha portati a finanziare i gruppi terroristi e la propaganda degli imam ostili alla democrazia pluralista.
Sembra incredibile che gli stessi sovrani comprino Valentino e l’Alitalia, il Paris Saint Germain e il Manchester City, per poi schierarsi al fianco dei peggiori nemici della civiltà occidentale. Siamo in presenza di una conseguenza non voluta del predominio della finanza sull’economia globale: la trasformazione di enclave semi-feudali in centri nevralgici dello squilibrio mondiale.
Milioni di musulmani che, anche in Europa, frequentano moschee “generosamente” pagate dai nostri alleati del Golfo, dove ha prosperato il purismo estremo dei salafiti di matrice wahhabitasaudita, tornano dal pellegrinaggio alla Mecca scandalizzati per la sua trasformazione materialistica. La loro delusione li spinge nelle braccia degli integralisti fino, in taluni casi, all’arruolamento nelle milizie del califfato.
Un saggio di prossima pubblicazione, “L’Islam nudo. Le spoglie di una civiltà nel mercato globale”, opera del professor Lorenzo Declich, descrive efficacemente il cortocircuito incendiario che stiamo vivendo. Gli stessi tagliagole che si presentano nei videomessaggi vestiti all’antica, con tuniche e turbanti neri, lo fanno sapendo di utilizzare codici moderni e occidentali. Spiega Declich: «Il corredo iconografico su cui disegnano la propria immagine di “persone del passato” appartiene più al serbatoio di luoghi comuni occidentali sull’Islam che non all’Islam nella sua dimensione storica».
Per questo l’evoluzione-involuzione della Mecca riveste un significato cruciale. Fin tanto che la meta dell’Hajj, cioè del pellegrinaggio di ogni buon musulmano, in un luogo avvolto nel mistero e precluso agli infedeli, resterà terreno di contesa fra opposte fazioni reazionarie, sarà difficilissimo prevedere una transizione democratica nei Paesi a maggioranza islamica. E fin tanto che l’Islam, nella sua versione sciita così come nella sua versione sunnita, verrà percepito a livello di massa come rivoluzione contrapposta all’occidente, la coalizione anti-Is guidata dagli Stati Uniti resterà precaria, soggetta a improvvise defezioni.
Nel suo capolavoro, “Il secolo breve”, lo storico Eric Hobsbawm preconizzò che la rivoluzione iraniana avrebbe avuto effetti più dirompenti e duraturi della rivoluzione russa. Stiamo ancora facendoci i conti, trentacinque anni dopo. Un nuovo equilibrio mondiale, oggi difficile anche solo da immaginare, implica una pacificazione post-rivoluzionaria con questa civiltà islamica dilaniata.

Corriere 2.10.14
La Comune di Hong Kong «Stiamo vivendo un sogno»

Il racconto di Ivan: sembra il comunismo, ma non quello cinese
di Guido Santevecchi


HONG KONG Ad Admiralty, sul cavalcavia della superstrada, c’è uno striscione con la scritta «Do you hear the people sing?». Il motivo preso dal musical «I Miserabili» è diventato la colonna sonora degli studenti che da cinque notti occupano la city. E ieri la voce di questo popolo di decine di migliaia di giovani ha lanciato un ultimatum: «Il Chief Executive di Hong Kong, CY Leung, deve dimettersi entro oggi, altrimenti comincerà l’occupazione dei palazzi governativi». Che farà a quel punto la polizia che dopo aver attaccato la folla domenica sera è stata ritirata?
Sulle sei corsie di Harcourt Road da giorni non passa un’auto. Solo il fiume calmo di ragazzi in maglietta nera e fiocco giallo del movimento democratico. E ora sono spuntati gazebo per ripararsi dal sole afoso e dai temporali; e tende da campeggio, perché in tanti passano qui la notte. Da una canadese spunta la testa occhialuta di Ivan Cheung, 19 anni. Lui è un dimostrante della prima ora, ha cominciato con il boicottaggio delle lezioni dieci giorni fa. «Quella è stata la cosa più facile», ride. Ma poi, quando venerdì scorso hanno deciso di andare davanti al palazzo del governo, di scavalcare i cancelli, la cosa si è fatta dannatamente seria. «Non eravamo più di duecento, quando la polizia ci ha trascinato via uno a uno ho pensato che fosse finita lì, sono state ore brutte. Ma al mattino sono arrivati altri, in tanti. E poi c’è stata la prima grande manifestazione di domenica e la polizia ci ha attaccato e la gente in strada è aumentata ancora».
Dopo la violenza le autorità locali stanno usando la tattica dell’attesa, pensano di far stancare i dimostranti e far perdere la pazienza alla gente che non prende posizione ma vede le strade impraticabili, gli autobus e i tram soppressi, i negozi e diverse banche chiusi. Tutto sommato qui a Harcourt Road, tra le tende e i banchetti che distribuiscono biscotti e ventagli si socializza, ci si diverte un sacco, o no? «Divertirsi non è l’espressione giusta, io dico che sono felice, siamo felici. Guardati intorno, siamo pacifici, non abbiamo capi ma solo portavoce. Sai, Hong Kong è una città che discrimina molto, tutti divisi dai propri affari, dagli studi, dai soldi. Ma qui ora c’è mischiata gente di tutti gli strati sociali. Il mio compagno di tenda fa l’operaio, di giorno lavora da manovale, la sera viene con noi. E poi ci distribuiamo i compiti e le cose, ci preoccupiamo l’uno dell’altro e tutti della nostra città. È una cosa che non avevo mai visto a Hong Kong, dove la gente di solito si innervosisce nel traffico, ti guarda male se solo la sfiori camminando tra la folla: ora no, tutti rilassati, sorridenti, uno spirito che non credevo esistesse. Ho trovato che in queste strade che abbiamo bloccato c’è una società di sogno».
Insomma, Ivan ci sta spiegando che davanti all’Admiralty è nata una Comune? «Diciamo che si è creata una forma di comunismo supremo, non il socialismo con caratteristiche cinesi di cui parlano a Pechino».
Ivan Cheung non è uno scemo, è figlio di un operaio che lavora con il martello pneumatico per le fondamenta dei grattacieli che sono il vanto della Hong Kong snodo finanziario dell’Asia. «La notte dei lacrimogeni, domenica, lui e mamma guardavano in diretta tv, si sono preoccupati e sono usciti a cercarmi. Mi hanno chiesto di non fare pazzie, ma non mi hanno detto di andar via con loro. Papà è una brava persona, anche lui vuole che Hong Kong sia democratica, ha deciso di rischiare il suo futuro, che sono io, per questo. Non lo voglio deludere. Lo so che non durerà a lungo, ma per ora facciamo del nostro meglio e siamo felici».
Quanto pensate di restare? «Se le autorità non ci rispondono dovremo alzare il livello della protesta. Qualcuno suggerisce di marciare sul palazzo del governo. A me sembra una cosa difficile, perché la polizia a quel punto non potrà stare a guardare. Bisogna pensarci».
Il 1° ottobre è la festa della fondazione della Repubblica popolare cinese. Mentre il centro di Hong Kong era occupato da 550 mila persone che chiedono elezioni libere e le dimissioni del proconsole cinese, lui, il governatore CY Leung, commemorava al chiuso. L’inviato speciale di Pechino, il signor Zhang Xiaoming, durante il brindisi a Hong Kong ha ostentato sicurezza: «Il sole sorge come al solito». Da Pechino guardano e ammoniscono: «Un pugno di persone sfida la legge e provoca, alla fine pagheranno le conseguenze delle loro azioni», ha scritto il Quotidiano del Popolo . Girando abbiamo visto un altro grande striscione che dà forza a Ivan Cheung e alla sua Comune di Admiralty: « We may say I’m a dreamer, but I’m not the only one». No, almeno per ora Ivan sogna, ma non è solo: ieri erano in mezzo milione.

il Fatto 2.10.14
Contro la Cina con furore: “Via il governo o sarà rivolta”
di Cecilia Attanasio Ghezzi


GLI STUDENTI DI HONG KONG SI IMPONGONO SUI PROFESSORI CHE GUIDANO OCCUPY CENTRAL E DANNO L’ULTIMATUM A LEUNG: “ENTREREMO NEL SUO PALAZZO”

Pechino “Se il governatore Leung non si dimetterà entro oggi, occuperemo importanti edifici governativi”. L'ultimatum arriva per bocca di una diciassettenne: Agnes Chow è portavoce del movimento degli studenti, Scholarism. Sono loro che hanno lanciato le manifestazioni rifiutandosi di entrare in classe. Loro che hanno costretto il più vasto e strutturato movimento di Occupy Central a scendere al loro fianco rompendo le barricate e occupando il piazzale antistante agli edifici governativi. Sono giovani e belli. Capaci di rimanere in piazza per giorni senza perdersi d'animo, neanche durante i temporali tropicali.
SONO CAPACI di lasciare le strade pulite dopo averci campeggiato. E di riparare, con gli ombrelli ormai simboli della protesta, un poliziotto solo dietro una transenna. Sono capaci di diffondere foto, ideare marchi e slogan e di renderli immediatamente virali. Si rifanno all'organizzazione orizzontale tipica del web 2.0. E sono idealisti, arrabbiati e testardi come solo si può essere a quell'età. “Bisogna combattere ogni battaglia come se fosse l'ultima” ha recentemente dichiarato uno di loro alla Cnn. Quel qualcuno è Joshua Wong. Anche lui diciassettenne, è stato uno dei primi a essere arrestati, per essere rilasciato 40 ore dopo. Oggi è di nuovo in piazza e prevede che il numero dei partecipanti continuerà ad aumentare. Ormai viene identificato come un leader del movimento. E, nella sua breve vita, vanta già una carriera politica di tutto rispetto. Era tra i fondatori del gruppo già nel 2011. All'epoca si opponeva all'introduzione nel sistema scolastico della cosiddetta “educazione patriottica”. Un progetto con cui Pechino voleva diffondere tra le generazioni più giovani degli hongkonghesi il senso di appartenenza alla Repubblica popolare cinese. Come? Sorvolando sulle proteste di piazza Tien an men ed elogiando il modello politico a partito unico. Anche allora gli studenti avevano aspettato l'autunno. E senza che nessuno se l'aspettasse, avevano portato in piazza 100 mila persone, occupato gli edifici governativi e infine costretto i funzionari ad accantonare il progetto. Scholarism in queste proteste, ha l'appoggio di Alex Chow, uno studente di Sociologia di 24 anni che ricopre la carica di segretario generale della Federazione degli studenti di Hong Kong. Anche lui ha dichiarato al New York Times che “i residenti potrebbero occupare diversi dipartimenti governativi” se il governo non cede entro oggi.
IL PUNTO È che dopo i due giorni di festa per il 65esimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare, venerdì si dovrebbe tornare al lavoro. Il più vasto e strutturato movimento di Occupy Central ha chiesto alla “rivoluzione degli ombrelli” di ritirarsi entro quella data. Ai suoi vertici ha Benny Tai, Chan Kin-Man e il reverendo Chu Yiu-Ming, uomini di mezza età, politicamente più navigati e, sicuramente, più cauti. Hanno rispettivamente di 50, 55 e 70 anni. Tai è un professore di legge che è stato definito da Pechino “l'uomo più pericoloso di Hong Kong”, Chan un professore di Sociologia che ha provato per almeno dieci anni a dialogare con il governo e il reverendo Chu un battista che ha aiutato molti dei dissidenti di Tien an men a cercare rifugio all'estero: credono fortemente che il movimento non debba incidere eccessivamente sull'economia della città. D'altronde Hong Kong è da sempre una capitale della finanza mondiale. Qui la carica di governatore si chiama addirittura amministratore delegato e attualmente è nominato da un comitato formato da 1200 individui espressione a loro volta delle lobby economiche della città. Secondo diverse indiscrezioni, il governatore Leung non si dimetterà. Avrebbe deciso di temporeggiare. Pechino però sta perdendo la pazienza e pensa a un’azione risolutiva. In un editoriale letto nella principale emittente televisiva cinese Cctv si fa appello a tutti i residenti di Hong Kong per sostenere le autorità a “implementare i controlli di polizia e a ristabilire l’ordine sociale il prima possibile”.
Un altro editoriale del Quotidiano del Popolo avverte: “Conseguenze inimmaginabili se le proteste saranno lasciate senza controllo”.

Repubblica 2.10.14
I fanatici dello Stato islamico temono il disonore d’essere uccisi da soldatesse
E così si accaniscono
Il rapporto Unicef sulle mutilazioni genitali femminili testimonia che nel Kurdistan la pratica è in declino
Nelle strade della protesta gli studenti voltano le spalle alla bandiera di Pechino
Il mondo degli affari si schiera con la Cina Ma i ragazzi insistono: “Vogliamo essere liberi”
Ma la piazza comincia a dividersi sulla strategia da seguire per il futuro
Anche i vertici comunisti sono al bivio: una nuova Tienanmen spaventa tutti
di Giampaolo Visetti


HONG KONG UN SOLO dubbio, a 65 anni dalla fondazione della Repubblica popolare cinese, unisce oggi Pechino e Hong Kong: nessuno sa come estendere l’autoritarismo, o come difendere la democrazia. Gli obbiettivi dei due fronti sono chiari, mentre i mezzi dividono sia i leader comunisti che gli insorti democratici, spaventati dalla prospettiva di una Tienanmen del Duemila tra i scintillanti grattacieli di Admiralty.
Nonostante l’impasse, questo primo ottobre passa alla storia come il giorno del simbolico addio di Hong Kong alla patria ritrovata nel 1997 e come la data d’inizio della lunga resistenza popolare contro la soppressione dei diritti occidentali di cui gode da quasi due secoli.
Lo strappo, alle prime luci del giorno, sulla piazza Golden Bauhinia, affacciata sul Victoria Harbour. Il chief executive Leung Chun-ying si presenta per il solenne alzabandiera cinese, in ricordo della vittoriosa rivoluzione di Mao. Una trentina di funzionari e businessman filo-Pechino, con cappellino rosso, brindano a champagne. Tenuti lontani dalle transenne, altrettanti studenti democratici, in t-shirt nera, voltano le spalle al vessillo nazionale, fischiano e alzano le mani sopra la testa. I primi gridano: «Andate via, straccioni». I secondi rispondono: «Dimettetevi, venduti».
Il governatore contestato, ri- tenuto colpevole sia della legge elettorale-truffa che delle violenze del fine settimana, per la prima volta difende pubblicamente il suo «suffragio universale pre-ordinato», invitando i concittadini a «camminare mano nella mano per realizzare il sogno cinese». I manifestanti ridono, gli gridano «dicci chi servi» e ripetono l’ultimatum, letto nel pomeriggio anche davanti al parlamento: dimissioni entro mezzanotte, stop alla riforma elettorale imposta da Pechino, oppure via all’occupazione dei palazzi del potere, tra Admiralty e Central. La realtà però è ora meno netta delle certezze esibite. Il governo di Hong Kong, nella notte, è stato duramente criticato dai leader cinesi, che informalmente hanno censurato sia l’imprudente accelerazione sulla legge-voto che la precipitosa repressione dell’altro giorno, scintilla per la dilagata disobbedienza civile. Il presidente Xi Jinping è costretto così a scontrarsi con la svolta cruciale della sua leadership, come Deng Xiaoping nel 1989, da una posizione di debolezza: o delegittima il partito e i suoi rappresentanti nell’ex colonia, tornando a trattare e anticipando le elezioni del 2017, oppure va pericolosamente allo scontro sotto i riflettori del mondo.
Anche la “rivoluzione degli ombrelli”, al quinto giorno di proteste, è scossa però da posizioni diverse. Parte dei democratici è per la resistenza passiva ad oltranza, parte chiede di «fare qualcosa», attaccando i palazzi del potere. Divisi anche sulla tattica. Gli studenti cercano di allargare il fronte delle occupazioni, bloccando altri quartieri della città, mentre gli attivisti di Occupy Central vogliono circoscrivere i presidi, temendo che disagi eccessivi facciano perdere il consenso collettivo.
Hong Kong resta dunque paralizzata, spaventata sia dall’idea di essere definitivamente assorbita dalla Cina che dalla prospettiva di abbandonarla, incerta se scegliere gli interessi, oppure i diritti.
E’ questa sospensione, la consapevolezza che il passo compiuto sarà quello definitivo, a bloccare ancora sia il partito comunista che l’arcipelago dei democratici. «Pechino — dice il medico Hanry Mak — vuole cancellare l’eccezione di Hong Kong, che rischia di contagiare la nazione. Ricorrere alla forza però costerebbe a Xi Jinping qualsiasi ambizione di influenza globale».
Anche le due anime democratiche, teenagers e intellettuali, sentono che nella capitale finanziaria dell’Asia passa l’ultimo treno verso i diritti universali, bruscamente anticipato rispetto al 2047. Il timore degli insorti è di svegliarsi infine soli, figli idealisti abbandonati da padri cinici che da sempre hanno preferito i soldi alla libertà. «Non toglieremo l’assedio al governo — dice la studentessa Lily Kwan — fino a quando il cameriere di Pechino non se ne andrà e non otterremo un voto realmente democratico. Se questo costerà una montagna di miliardi, pazienza». La comunità del business, vero potere-ombra della cassaforte- rossa, ci sta invece riflettendo e si chiede se valga di più una stabilità cinese o una democrazia occidentale. Assiste alla ribellione dei suoi ragazzi e pensa a quale potrebbe essere il loro, e proprio, futuro. Hong Kong, un quarto di secolo dopo Pechino, resta intanto paralizzata dagli studenti. Sembrano più spazzini che rivoluzionari, più borghesi che sovversivi, più partecipanti più ad un happening che a un’insurrezione. Puliscono i quartieri occupati, disegnano, cantano, giocano con gli smartphone, scaricano applicazioni internet-free, incollano «biglietti di idee» ai guard-rail trasformati in «Muro della libertà» e spruzzano acqua fresca sui compagni sudati.
I primi presìdi sono già trasformati in organizzatissimi accampamenti scout, pieni di viveri, bibite, vestiti, ombrelli e cerate. Dall’altra parte, dopo il maldestro blitz dei reparti speciali, gli agenti sono quasi assenti e i pochi visibili si trascinano annoiati davanti ai palazzi, sbadigliano, addirittura camminano disarmati nella folla, riparandosi dal sole con gli ombrelli.
Due eserciti che si ignorano, come atterriti dall’idea di doversi scontrare. Il problema, per quanto il bon ton asiatico stia affascinando il mondo, è se un sit-in ben tele-trasmesso possa abbattere un regime o se un ritiro della polizia adeguatamente lodato dalla propaganda possa stroncare una rivoluzione.
Di questo, mentre per strada si canta e si sogna anche quando un’altra notte risale il Victoria Peak, si discute ad Hong Kong e a Pechino, ma pure a Washington e a Mosca, a Taipei e a Pyongyang. Il segretario di Stato Kerry incontra il collega cinese Wanh Yi, Vladimir Putin invia gli auguri di buon compleanno alla Cina di Xi Jinping, il presidente di Taiwan si allaccia al polso un nastrino giallo, mentre il dittatore nordcoreano risorge allineandosi ai compagni. Oltre la Grande Muraglia, arrestati una ventina di dissidenti pro-insorti isolani, minacce di «conseguenze inimmaginabili» e nuova stretta della censura su media e social.
Primo ottobre 2014: i giovani di Hong Kong provano a restare liberi, i vecchi compatrioti cercano di convincerli che non vale la pena.

Repubblica 2.10.14
“Siamo noi giovani l’incubo del regime”
di G. V.


HONG KONG . «Io non sono un leader. Migliaia di ragazzi di Hong Kong sono come me ed esprimono le loro idee. È questo l’incubo del potere di Pechino, abituato alla dittatura individuale e al pensiero unico». Joshua Wong, studente di 17 anni, fondatore del movimento democratico “Scholarism”, arrestato venerdì notte e liberato a furor di popolo dopo 40 ore in carcere, è il volto più famoso della “rivoluzione degli ombrelli”. Dopo l’arresto di venerdì e 40 ore di carcere, ieri ha contestato l’alzabandiera cinese e letto l’ultimatum a Leung Chun-ying: o dimissioni, o assalto alle sedi del governo.
Pensa che la rivolta riuscirà a cacciare il governatore e a fermare la riforma elettorale imposta da Pechino?
«Sono certo che è solo questione di tempo. Hong Kong avrà un vero voto a suffragio universale».
Tra gli insorti affiorano dissensi: possono far fallire le proteste?
«Opinioni diverse devono essere la normalità. L’importante è concordare sui valori di fondo: la violenza contro opinioni politiche è inaccettabile, come l’imposizione di un regime camuffato da democrazia».
Gli attivisti di Occupy Central sono per una pacifica resistenza passiva: perché gli studenti preferiscono passare all’azione?
«Se vogliamo centrare gli obbiettivi, dobbiamo fare qualcosa. Se i media e i governi stranieri si stancano di noi, il potere cinese vincerà la partita. L’aministratore CY Leung non è più un interlocutore credibile e deve farsi da parte. A Pechino chiediamo di essere ascoltati, non picchiati».
È vero che riceve aiuti dagli Usa ed è pronto a emigrare per studiare?
«Si sente da lontano, l’odore della vecchia propaganda cinese. La figlia del presidente Xi Jinping studia ad Harward, io non lascerò la mia università di Hong Kong».
Per le strade ci sono quasi solo studenti: non siete troppo giovani per convincere la gente a voltare le spalle alla Cina?
«Anche nel 1989, a Pechino, si mossero gli studenti. Ci volle oltre un mese per far scendere in piazza Tienanmen pure adulti: solo la violenza salvò il regime, ma la giustizia sopravvive al tempo. Presto anche a Hong Kong non si parlerà più solo di un gruppo di ragazzi».
Passate ore a lavare le strade e a differenziare i rifiuti: perché siete tanto ossessionati dalla pulizia?
«Vogliamo dimostrare che ci sta a cuore la città, che non siamo qui per distruggere, ma per costruire. E che insieme possiamo fare pulizia anche tra i dirigenti venduti a Pechino».
Oggi ha fischiato la bandiera cinese: pensa che Hong Kong non sia Cina?
«Abbiamo protestato perché oggi non è una festa per la nazione, ma il giorno della vergogna nazionale. Non penso che, se ci fosse libertà d’espressione, i connazionali cinesi applaudirebbero la vecchia parata militare. Se non lo facciamo noi, chi lo fa, se non adesso, quando? È la democrazia: da Hong Kong si alza un vento che presto soffierà su tutta la Cina. Al dopo, penseremo dopo». ( gp. v.)

Repubblica 2.10.14
Chi ama davvero la Cina
di Ian Buruma


MALGRADO il lancio di gas lacrimogeni, decine di migliaia di persone hanno “occupato” le vie centrali di Hong Kong per far valere i propri diritti democratici. E molti altri potrebbero presto unirsi a loro. Il governo di Beijing aveva promesso che a partire dal 2017 i cittadini di Hong Kong avrebbero potuto eleggere liberamente il proprio leader. Ma dal momento che i candidati saranno attentamente scelti da un comitato filogovernativo, i cittadini non disporranno di una vera scelta. A candidarsi potranno essere solo persone che “amano la Cina”. Dove “amare la Cina” significa amare il Partito comunista.
La dimostrazione di sfida in atto ad Hong Kong sembra sconcertare i leader cinesi, e i motivi di tale perplessità non sono poi difficili da intuire. Dopo tutto, quando Hong Kong era una colonia di Sua Maestà non erano forse i britannici a scegliere i governatori? All’epoca nessuno aveva da ridire.
In effetti il “patto” che i residenti della colonia di Hong Kong in passato sembravano aver accettato — che prevedeva la rinuncia ad interessarsi alla politica in cambio della possibilità di perseguire la ricchezza materiale in un contesto sicuro e ordinato — non era poi così diverso dal patto stretto oggi con le classi colte della Cina. Tra i funzionari coloniali britannici e gli uomini d’affari era opinione diffusa che i cinesi non fossero realmente interessati alla politica, ma solo al denaro.
Una conoscenza anche sommaria della storia cinese dimostra quanto tale opinione fosse sbagliata — benché ad Hong Kong sia stata a lungo considerata corretta. Il fatto è che tra il dominio coloniale britannico di un tempo e quello cinese di oggi esiste una grande differenza. Pur senza mai essere stata una democrazia, Hong Kong poteva vantare una stampa relativamente libera, un governo relativamente esente da corruzione e una magistratura indipendente: tutte istituzioni che il governo democratico di Londra sosteneva.
Così, mentre per la maggior parte dei cittadini di Hong Kong l’idea di passare nel 1997 da una potenza coloniale ad un’altra non rappresentava motivo di particolare gaudio, la loro coscienza politica fu improvvisamente risvegliata dalla violenta repressione condotta nel 1989 a Piazza Tienanmen e in altre città cinesi: un massacro al quale Hong Kong reagì organizzando imponenti dimostrazioni. E che qui ogni anno continua ad essere commemorato.
Ad indurre così tante persone a manifestare a Hong Kong nel 1989 non fu solo la rabbia per la violazione di diritti umanitari: gli abitanti della colonia britannica avevano capito che sotto il futuro dominio cinese solo una reale forma di democrazia avrebbe potuto salvaguardare le istituzioni che garantivano le libertà di cui godevano. Sapevano che se non avessero avuto modo di decidere in qualche misura il modo in cui sarebbero stati governati, sarebbero finiti alla mercé di Beijing.
Dal punto di vista dei governanti comunisti cinesi le rivendicazioni democratiche degli abitanti di Hong Kong non sono che una distorta imitazione della politica occidentale o una forma di nostalgia nei confronti dell’imperialismo britannico — e in un modo o nell’altro sono espressione di un sentimento “anticinese”.
Secondo i governanti cinesi la democrazia conduce al disordine, la libertà di pensiero alla “confusione” del popolo e l’aperta critica del Partito alla disintegrazione dell’autorità.
Da questo punto di vista il Partito comunista cinese è piuttosto tradizionale. Il governo cinese è sempre stato autoritario, ma non è sempre stato corrotto quanto lo è oggi. Né la politica in passato era altrettanto priva di regole. Il fatto è che un tempo in Cina vi erano delle istituzioni — associazioni di clan, comunità religiose, gruppi d’affari e via dicendo — relativamente autonome. Il governo imperiale era forse autoritario, ma esistevano comunque delle grosse sacche di relativa indipendenza. In questo senso Hong Kong è più tradizionale del resto della Cina, ad esclusione di Taiwan.
Il fatto che il Partito Comunista sia al di sopra della legge favorisce il diffondersi di pericolosi livelli di corruzione tra i funzionari del Partito. Lo stretto controllo dell’espressione religiosa, accademica, artistica e giornalistica da parte del Partito ostacola il diffondersi di informazioni necessarie e del pensiero creativo. La mancanza di una magistratura indipendente mette a rischio lo stato di diritto. Nulla di tutto ciò agevola lo sviluppo della Cina.
Nel 1997, quando Hong Kong passò ufficialmente alla Cina, alcuni ottimisti pensavano che le maggiori libertà di Hong Kong avrebbero contribuito a riformare il resto del Paese, e che l’esempio di una burocrazia pulita e di giudici indipendenti avrebbe rafforzato in Cina lo stato di diritto. Per gli stessi motivi altri consideravano invece Hong Kong come un pericoloso cavallo di Troia che avrebbe potuto seriamente minare l’ordine comunista.
Ad oggi non vi sono prove del fatto che coloro che manifestano nel distretto centrale di Hong Kong intendano mettere a rischio, o addirittura rovesciare il governo di Beijing. Sono intenti a far valere i propri diritti, e le possibilità che riescano a farlo appaiono scarse. Xi Jinping, supremo leader cinese, non vede l’ora di dimostrare la propria intransigenza. Il suo obiettivo sembra quello di rendere Hong Kong più simile al resto della Cina, e non viceversa.
Eppure abbiamo ogni motivo di credere che la Cina avrebbe tutto da guadagnare da una traiettoria opposta. È improbabile che ciò accada di qui a breve. Ma è più facile imbattersi in persone che “amano davvero la Cina” per le strade di Hong Kong che negli esclusivi complessi riservati ai funzionari di Beijing. ( Traduzione di Marzia Porta)

il Fatto 2.10.14
Stupri e omicidi: il lato violento dell’Inghilterra
di Patrizia Simonetti


Jimmy Savile è un celebre conduttore radiofonico e televisivo di Leeds, quello che nel 1964 presenta la prima edizione della Top of the Pops per la BBC, un idolo per tre generazioni di inglesi, un tipo stravagante ma stimato che fa un sacco di beneficenza, un vero filantropo: nel 1971 la regina Elisabetta lo nomina ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico, nel 1990 Papa Giovanni Paolo II lo fa cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno. Morto il 29 ottobre del 2011 a 85 anni e sepolto nel cimitero di Scarborough in una bara placcata d’oro con una lapide da 4mila sterline con su scritto “è stato buono finché è durato”, era in realtà un pedofilo stupratore: centinaia le sue vittime dai 13 ai 16 anni che adescava grazie alla sua popolarità e poi violentava nella sua Roll Royce o in camerino prima di andare in onda. Dei suoi “vizietti” pare sapessero diversi produttori e collaboratori dell’emittente. Proprio lo scorso giugno è emerso che durante le sue attività di “volontariato” avrebbe abusato persino di malati, anche psichiatrici, di ogni sesso e età, in ben 28 ospedali inglesi, e pure di cadaveri. Della sua sconcertante vicenda si occupa British Horror Story, la nuova serie di Cri-me +Investigation al via domani alle 22.55 che ricostruisce alcuni tra i più efferati crimini commessi nel Regno Unito, a cominciare dall'omicidio di Clare, madre single di 36 anni di Salford che nella primavera del 2007 decide di rifarsi una vita cambiando casa e cercando un nuovo amore. La via più semplice sembra anche a lei, come a tante altre, la rete, così su Facebook conosce George. “Quell’uomo non mi è mai piaciuto” racconta suo padre Michael, ex agente di custodia, che non lo vuole in casa.
LEI PERÒ vuole sposarlo, in fondo “è stato in carcere solo per qualche multa” confessa al padre, ma lui non la beve. George ha infatti alle spalle vari casi di violenza sulle donne: “Era un uomo molto aggressivo – dice la responsabile del servizio di sostegno alle vittime di abusi Dawn Redshaw – e usava la violenza domestica per mantenere il controllo su donne vulnerabili”. Tre anni prima Carole se ne era accorta in tempo notando quei tipici segnali premonitori che invece Clare coglie troppo tardi, come la gelosia ingiustificata e soffocante, e nonostante decida di lasciarlo e chieda più volte l’aiuto della polizia, l’epilogo è tragico: George la violenta, la strangola e le dà fuoco, poi va a impiccarsi in un pub abbandonato.

La Stampa 2.10.14
Ceronetti
La coda del diavolo non si può tagliare
Da domani a domenica al Piccolo di Milano il nuovo spettacolo sulla Grande Guerra. Abbiamo assistito alle prove con l’autore
di Egle Santolini


Sta seduto in scena, fragile, apparentemente quieto, in testa un berretto militare più Guerra di Secessione che ’14-’18. «È vero, è un po’ da giubba blu», riconosce Guido Ceronetti. Le prove sono appena cominciate e le guardarobiere devono finire il proprio lavoro. Ma il clima, qui nella sala Fiorenzo Carpi dove vengono inventati gli spettacoli del Piccolo, viene subito stabilito da una frase sulfurea, ceronettiana quanto si può: «La coda del diavolo non è stata tagliata», si rammarica il vecchio cantastorie. Vuol dire che la spirale spaventosa della Grande Guerra è ancora qui, tra noi: «L’umanità non ne vedrà mai la fine, nonostante la propria meravigliosa capacità d’illudersi. È stata l’ultima guerra perché non ne siamo mai usciti. Ha distrutto qualsiasi possibilità di vera pace».
Alla carneficina Ceronetti dedica, nel centenario, il suo più recente lavoro con il Teatro dei Sensibili, Quando il tiro si alza, in scena al Teatro Grassi da domani a domenica. Il titolo fa riferimento al cosiddetto brindisi di Fricourt: nell’imminenza dell’offensiva sulla Somme, il 30 giugno 1916, gli ufficiali britannici del nono battaglione dello Yorkhsire si riunirono per festeggiare, e il capitano Harshwell se ne uscì con quella frase fatale: «Signori, a quando si alzerà il tiro di sbarramento!». La bicchierata in onore del massacro a venire portò malissimo. La sera successiva, degli 800 uomini di quel battaglione ne erano rimasti vivi 80; tra i caduti, anche lo sciagurato Harshwell.
Ceronetti ha scelto l’episodio «per la sua nuda eloquenza, evocatrice di un apogeo del Tragico nell’enigmatica e miserabile vicenda umana». E vi ha cucito intorno, «in una rapsodia», prose, poesie e canzoni, da Hemingway a Remarque, da Céline a Döblin, da
Gorizia tu sei maledetta a quelle strofe beffarde secondo le quali, per far veder Trieste alla regina, il generale Cadorna avrebbe dovuto spedirgliela in cartolina. «Testi che non sono andato a cercare io, ma che mi hanno cercato loro, da soli», spiega. «A quegli anni mi sono sempre appassionato, come a un nodo cruciale della storia. Anche se non pare che oggi ci sia un serio interesse al proposito». Eppure, per il centenario, si sono moltiplicate le rievocazioni. E i tentativi di paragone con l’oggi: una tesi ormai classica è che allora si scivolò nell’orrore quasi senza accorgersene, e c’è il timore che pure nel Ventunesimo secolo possa accadere qualcosa di simile. È allora che Ceronetti tira fuori la coda del diavolo. E «niente scivolamento, no: sembra piuttosto che, allora, il destino abbia disposto per bene le sue pedine».
Intorno a Guido, «Guidino», come lo chiamano con sollecitudine, i suoi complici del Teatro dei Sensibili: Luca Mauceri (Baruk), Eléni Molos (Dianira), Valeria Sacco (Egeria), Filippo Usellini (Nicolas); più l’ultimo acquisto che si chiama Elisa Bartoli, è soprannominata Durga la Ballerina Ignota e nella pièce ha il ruolo della Guerra stessa. La osserviamo mentre, ai piedi di un teatro dei burattini che anche quello più ceronettiano non si può, lega con pesanti catene i due soldati in trincea che declamano Léon Bloy: «Di colpo, si fece un gran silenzio. Il treno era fermo in aperta solitudine, senza dubbio per far passare un treno di feriti o di agonizzanti…».
Dall’inventario degli oggetti di scena cerchiamo di capirne di più: Ceronetti manda in cerca di una piccola Bibbia da campo «ma che sia quella di re Giacomo»; servono guanti, pipe, un trench per la scena in cui l’infermiera sedurrà l’ufficiale in sedia a rotelle. Per la fucilazione di Mata Hari ci vuole un abito nero elegante, magari anche un cappello di paglia, perché così, ricorda Egeria, l’avventuriera volle andare davanti al plotone di esecuzione. Guidino ascolta, corregge, loda, canticchia, accoglie i suggerimenti: sì, è un’elaborazione di gruppo. Ma più che alle prove di una compagnia di teatro pare di assistere a una riunione di famiglia, tanto è visibile quella «relazione tra allievi e maestro - spiega Luca Mauceri - che si rinnova in adunanze cicliche. Sono tanti i fili che ci tengono insieme».
Raccontano i Sensibili che il teatro con Ceronetti è un esercizio d’umiltà, come dice Filippo-Nicolas, «non teatrabile né incasellabile, che per fortuna ci allontana dall’accademia». E poi ci sono la vita quotidiana, i riti personali, «le tazzine da lavare». La piccola nave dei Sensibili, per ora, è riapprodata al Piccolo, da cui tutto ebbe inizio nel 2012 con una masterclass di Ceronetti. Poi sparirà di nuovo, per riapparire forse a Trieste, o al Metastasio di Prato. E intanto Guido chiede giornali d’epoca, e manichini, e una certa copia dei Salmi: «Nella mia traduzione, così stiamo tranquilli. Ma voi, ragazzi, non abbiate troppa fiducia. Voi siete nello sbocciare: mentre noi, qui, siamo un po’ suonatini».

Corriere 2.10.14
La musica degli atomi
C’è una geometria sonora come pensava Pitagora
I corpi celesti correndo tra gli spazi non umani emettono vibrazioni: i Greci l’avevano già intuito
L’interrogativo anche sui rapporti tra noi e gli astri dell’universo:
aveva ragione Giordano Bruno a sostenere che esistono altri mondi abitati da esseri intelligenti?
di Armando Torno


Gli atomi emettono delle note, qualcosa che ricordi una musica? Un fisico razionale vi risponderebbe subito «no», ma non è semplice offrire certezze, pur frugando nei dettagli la storia del pensiero. Democrito, il filosofo greco che li amava tanto, non ne parla; tuttavia i pitagorici, che la pensavano in maniera opposta a lui e alla sua scuola, credevano nella musica delle sfere, che è poi quella nata dai movimenti dei pianeti e degli astri che vagolano nell’universo. Risalirebbe al fondatore Pitagora l’idea che i corpi celesti, per effetto del loro correre tra gli spazi non umani, emetterebbero un suono, impercettibile all’orecchio ma continuo; e queste note si abbraccerebbero diffondendo un’armonia. I latini la chiamavano musica universalis . Nel Medioevo essa era testimoniata e anche creduta, tuttavia senza gli antichi entusiasmi; inoltre, in quei secoli, i sapienti smisero sostanzialmente di pensare anche agli atomi, pur con delle eccezioni che si ritrovano nella Philosophia mundi di Guglielmo di Conches e nei Mutakallimun, una scuola musulmana di atomisti.
Eppure una risposta al quesito è possibile, anzi l’ha offerta un protagonista scientifico del mondo attuale. Frank Wilczek, lo statunitense che ha vinto il Premio Nobel per la fisica del 2004, in una lezione tenuta a BergamoScienza parla di «musica degli atomi». L’universo di queste particelle — usiamo sue parole — «appaga in modo eccezionale i sogni di Pitagora di geometrie perfette, ed è persino vero, reale». Le sfere musicanti, sognate dai greci e anche da Keplero, avrebbero un corrispettivo nelle vibrazioni impercettibili che potrebbe emettere un atomo di idrogeno, con il protone nel mezzo e un elettrone intorno ad esso.
Ammesso che si riesca un giorno ad ascoltare tali vibrazioni che giungono dagli abissi della realtà e riflettono armonie celesti, va precisato che esse svanirebbero se la materia venisse raffreddata con il laser cooling raggiungendo temperature di un microkelvin, vale a dire un milionesimo di grado Kelvin. Dopo un simile processo gli atomi diventano trecento milioni di volte più freddi dell’aria che percepiamo in un giorno d’estate. Ma a questo punto ecco un’ulteriore osservazione che è possibile trovare in un’altra lezione tenuta a BergamoScienza da Claude Cohen-Tannoudji, Premio Nobel per la fisica nel 1997: «A quelle velocità, o a quelle temperature, gli atomi si spostano di pochi millimetri al secondo, mentre a temperatura ambiente si muovono di vari chilometri ogni secondo». La misteriosa musica si congela dunque, quasi che si ritrovi nell’ipotesi accennata il possibile freddo universale che un giorno sarà recato dall’entropia.
Inseguendo l’armonia delle sfere ci si dimentica di un altro quesito: c’è vita sugli altri pianeti? O essi dovrebbero pitagoricamente limitarsi a emettere soltanto un suono? Giordano Bruno riteneva che la Terra non fosse un unicum e, più convinto di Copernico, sostenne che esistono «pianeti come la Terra, magari milioni di altri mondi abitati da esseri intelligenti». Le parole, sempre prese da una lezione di BergamoScienza, sono di un Premio Nobel, Jack W. Szostak, che vinse quello per la medicina nel 2009. Dopo aver parlato del telescopio Kepler (che ha scoperto migliaia di pianeti candidati a essere simili alla Terra) lo scienziato si pone un quesito fascinoso: «Se ci fossero forme di vita da qualche parte dell’universo, avrebbero le caratteristiche di quello che vediamo sulla Terra? Sarebbe una vita basata sull’acqua come solvente? Avrebbe il Dna o qualcosa di simile? Avrebbe le proteine o molecole simili a sostenere i processi biochimici della cellula?».
Certo, non è difficile continuare riprendendo le parole di James D. Watson, Premio Nobel per la medicina nel 1962, e della lezione che ha tenuto — sempre nell’ambito delle lezioni bergamasche — su Il Dna: il regista occulto della nostra vita . Si scoverebbero forse le possibili note che si consumano lì, ma il discorso si fa infinito. Basti soltanto aggiungere che da un quesito sugli atomi siamo finiti nell’universo e poi siamo ritornati nelle intime manifestazioni della vita, utilizzando come spirito-guida una musica-fantasma che nessun critico potrà mai né comprendere né recensire. Non abbiamo risolto il problema posto da Frank Wilczek, tuttavia grazie ad esso ci siamo accorti quale legame unisca armonie impercettibili ai viaggi dei corpi celesti o alle folli corse delle infime particelle di materia. Sir James Hopwood Jeans, astronomo, matematico e fisico britannico che lasciò questo mondo nel lontano 1946, ci aiuta a meglio comprendere la nostra insolita odissea con una sua osservazione: «L’universo comincia a sembrare più simile ad un grande pensiero che non a una grande macchina».

Repubblica 2.10.14
Io, sopravvissuto alla leggenda di mio nonno Pablo Picasso
Un nome pesante, una memoria da preservare: tra battaglie e ricordi parla il nipote Olivier
“I quadri, gli amori e le leggende”
Non era un re che tagliava le teste alle mogli: loro sono state le sue Gioconde


TORINO «NON è che sia sempre facile essere il nipote di Picasso. Puoi rischiare di rimanere divorato dal mito, isolato tra i demoni del passato e l’eredità, senza una vita tua. Oppure accogliere il nome che ti è capitato come un dono e uno stimolo». A guardarlo, sembra che Olivier Widmaier Picasso abbia tentato questa seconda strada. Sorride e beve una cola light in un bar dell’aeroporto di Torino. Dopo partirà per il Forte di Bard, dove la mostra Il colore inciso (a cura di Markus Müller e Gabriele Accornero, fino al 26 ottobre) raccoglie 140 linocuts del nonno. Di Pablo Olivier ha gli occhi e lo sguardo serafico. È nato nel 1962 da Maya, la figlia che il pittore ebbe con Marie-Thérèse Walter, prima di incontrare Dora Maar.
Laureato in legge, è diventato amministratore dell’eredità Picasso per conto dello zio Claude: cura il brand dell’artista, ha scritto due libri di ricordi di famiglia ( Picasso, Portraits de famille e Picasso, Portrait Intime mai tradotti in Italia) e prodotto documentari.
Come si vive all’ombra di Picasso?
«Ci ho messo del tempo a capirlo. I soldi e il nome che non ti sei guadagnato uccidono ambizioni e progetti. Quando nasci senza il problema di pagare i debiti, rischi di crescere al di sopra delle regole, in un mondo a parte. I figli di mio zio Paul hanno finito per chiudersi in una vita non vera. Alla morte del nonno, nel 1973, sono diventati prigionieri di eredità e battaglie legali, in un’età in cui vorresti solo uscire e giocare a calcio. Io sono stato fortunato perché i miei mi hanno detto: “Iscriviti all’università e poi decidi cosa fare”. Pensare di vivere senza Picasso sarebbe impossibile, oltre che stupido. Alla fine ho scelto di non vivere “tramite” lui, ma “con” lui. Ho cominciato come produttore musicale e televisivo e poi, ormai da adulto, ho incontrato di nuovo la storia di mio nonno. Per dieci anni ho fatto ricerche, intervistando tutte le persone che lo conoscevano bene».
Lei non l’ha mai incontrato, eppure aveva 10 anni quando è morto.
«Mia madre, negli ultimi anni di vita di suo padre, aveva paura di bussare alla sua porta. Si scrivevano. Ma lei non voleva imbattersi in servitù e segretari con il rischio di sentirsi dire: “Il maestro è occupato”».
Picasso è descritto come un mostro con le sue donne.
«Quando è morto, di colpo settant’anni di storie d’amore sono state compresse in un unico tempo. Ebbe sette donne ufficiali. Alcune le sposò, riconobbe ogni figlio. Con tutte fu un legame chimico. Non era un re che tagliava le teste alle sue mogli. Ho indagato i suoi rapporti con ognuna – una è stata mia nonna Marie-Thérèse – senza fare preferenze».
Che cosa ha scoperto?
«Che ciascuna è stata importante. Ognuna ha rappresentato un determinato momento della vita e del percorso artistico. La prima, Fernande Olivier, lo accompagnò nella giovinezza a Montmartre, quando lui era uno spirito libero alla scoperta del cubismo. Olga Koklova gli fece conoscere la sicurezza borghese e gli abiti eleganti. Marie-Thérese Walter, che era giovanissima e inesperta, lo riportò alla semplicità e alla passione: lei era la modella e lui il pittore. Grazie a Dora Maar, poi, si avvicinò al surrealismo, ma anche all’impegno politico. Nel pieno del- la guerra civile spagnola, Dora gli rivelò cosa era accaduto a Guernica. Françoise Gilot fu il suo rinascimento: l’abbandono del blu per i colori sgargianti. Fu anche l’unica che decise di abbandonarlo. Lui le disse: “Nessuno può lasciare uno come me”. E lei: “Aspetta e vedrai” e se ne andò. Picasso era un latin lover, questo sì. Ma si assunse la responsabilità di tutte, anche economicamente. Loro sono state le sue Gioconde. Sono diventate immortali grazie a lui. Non accade a tutti».
Dora Maar visse sempre nel ricordo di Picasso. Sua nonna Marie-Thérèse si suicidò quattro anni dopo la morte di Pablo e lo stesso fece Jacqueline Roque.
«Dora aveva subito un elettroshock, viveva come in un mondo separato. Ma non fu una vittima. E per quanto riguarda mia nonna: aveva diciassette anni, quando incontrò Picasso. Si percepì sempre come la sua musa. Continuarono a scriversi. Pablo le inviava del denaro. Quando lui morì, lei scoprì di colpo la vita ordinaria, capì che era invecchiata. Aveva perso la sua luce e cominciò a preparare la sua morte. Lo stesso accadde a Jacqueline, l’ultima moglie di mio nonno. Era diventata la sua vestale. Organizzò la mostra definitiva a Madrid e, assolto il compito, si sparò la notte prima dell’inaugurazione. Non è stato facile vivere tutto questo, soprattutto per mia madre. Ma ora in famiglia è tornato un certo equilibrio, anche con gli altri figli di Picasso, Claude e Paloma».
Ci sono opere di suo nonno a cui è più legato?
«Ovviamente sono affezionato ai ritratti di mia madre Maya, dove Picasso sovrappone al volto di lei bambina quello di mia nonna. Ma mi commuovono molto anche i disegni degli inizi, quelli del periodo in cui mio nonno era povero».
Era necessario vendere il nome di Picasso a un modello di autonobile?
«Nel mondo ci sono almeno 700 casi in cui il cognome della mia famiglia è usato illegalmente per fare soldi. Ci sono app che mostrano senza copyright dipinti che ho in camera da letto. Per non parlare delle opere d’arte dubbie. Ho pensato fosse meglio concludere un accordo con un’azienda seria e tutelarmi dai falsi. Mio zio Claude era perplesso. Ma poi l’ho convinto. Anche il design è arte. Abbiamo un contratto fino al 2020. Con i proventi pago le battaglie legali. È stato il mio capolavoro».
Cosa ha ereditato da suo nonno, a parte i soldi?
«Forse la tolleranza: Picasso era un immigrato e per integrarsi come ha fatto lui, spagnolo a Parigi nel ‘900, era necessaria una certa apertura mentale. Ma ho ereditato anche la sua curiosità. Mi piace dialogare con gli artisti».
Che artisti le interessano?
«Non quelli da grande mercato. Mi piacciono i francesi Xavier Veilhan, Loris Gréaud, la portoghese Joana Vasconcelos e il fotografo americano Gregory Crewdson. Da poco però ho visto Jeff Koons al Whitney: puoi amarlo o odiarlo, ma merita decisamente attenzione».
Sa disegnare e dipingere?
«Al liceo gli insegnanti sapevano che ero il nipote di Picasso. Disegnavo cerchi orribili e loro: “Wow!”. Mi davano il massimo dei voti. Così, eccitatissimo, alla maturità scelsi l’opzione per l’esame di disegno. La prova consisteva nel disegnare un villaggio della Provenza. Lo presi come un segno da parte di Pablo! Feci il mio bel villaggetto con le casette e tutto e presi la votazione di 3 su 20. Un disastro. La mia carriera è finita subito. No, il genio non si trasmette».

Repubblica 2.10.14
Pio XII, Hitler e la guerra delle radio
Le carte segrete di Eugenio Pacelli sui rapporti con l’Unione Sovietica in un convegno oggi a Roma
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO C’ERA una “guerra delle onde radio” fra Pio XII e Adolf Hitler. Un confronto sotterraneo ma serrato, fra i meno conosciuti della Seconda guerra mondiale. Dove se da un lato la Germania nazista bloccava il segnale di Radio Vaticana “sovrammodulando” il segnale per renderne incomprensibili le trasmissioni, dall’altro la Santa Sede si era organizzata con una stazione di ascolto di radio estere, di Paesi non amici. E tra i “Paesi non amici” non c’era solo la Germania, ma anche l’Unione Sovietica. Dunque, Radio Mosca.
Questo elemento potrebbe trovarsi con più dettagli nei documenti sul pontificato di Eugenio Pacelli, quando il Vaticano deciderà di renderli pubblici. Oggi un convegno a Roma dal titolo “Pio XII e la Seconda guerra mondiale: eventi, ipotesi e novità dagli archivi”, rifletterà su che cosa si potrebbe trovare in quelle carte. Il simposio, organizzato all’Università Guglielmo Marconi dallo storico Matteo Luigi Napolitano e a cui parteciperanno esperti della Sorbona e studiosi italiani come Andrea Riccardi, Anna Foa, Alberto Melloni, Pierluigi Guiducci, Marcello Pezzetti, affronterà argomenti ancora non sufficientemente esplorati.
Come ad esempio gli studi di Richard Breitman sull’OSS, l’agenzia antesignana della Cia. Guardando quei documenti si vede che le direttrici di azione del Vaticano e degli Alleati erano non proprio convergenti. Infatti, pur essendo Pio XII percepito come un alleato contro l’Asse, gli Alleati mantennero la loro priorità di debellare la Germania piuttosto che di salvare gli ebrei, magari bombardando le linee ferroviarie che portavano ai campi di sterminio. Con la Santa Sede orientata a far capire che erano i sofferenti, e in primo luogo gli ebrei, la priorità. Ulteriore elemento, il rapporto fra Vaticano e URSS. Alcuni studiosi hanno l’impressione che nelle alte sfere vaticane si parlasse con insistenza addirittura di un accordo con Mosca. «La cosa non suonerebbe molto strana — è l’opinione di Napolitano — dato che se ne parla anche nel primo dopoguerra. Non stupirebbe così di trovare segnali di una Ostpolitik ante litteram fra i più stretti collaboratori di Pio XII, e forse nel Papa stesso». Del resto, è nota la famosa frase di Stalin: «Quante divisioni ha il Papa?». Meno lo è la risposta di Pio XII, fatta arrivare a Stalin tramite Churchill: «Dite a mio figlio Josip che incontrerà le mie divisioni in Paradiso!». Con il che Pio XII diceva due cose: che considerava Stalin un suo figlio, e che avrebbe potuto andare in Paradiso.

Repubblica 2.10.14
Bugie e scoop la verità negata del caso Orlandi
Un libro ricostruisce la vicenda della quindicenne scomparsa e le false piste seguite per trent’anni
di Stefania Parmeggiani


SONO in tanti a cercare la verità su Emanuela Orlandi. Da trent’anni le ipotesi sul destino della quindicenne cittadina vaticana si rincorrono e smentiscono finendo nel nulla. Non è stata trovata a Parigi dove sarebbe andata a vivere con l’aiuto di un non meglio precisato gruppo d’intelligence. Non è mai stata internata in un manicomio a Londra, come aveva giurato uno dei tanti “supertestimoni”, non vive felice in Ungheria o Turchia con uno dei suoi rapitori islamici e tantomeno si nasconde in un convento di clausura italiano. Si era creduto, sulla scia di uno “scoop” più affascinante di altri, che il suo cadavere riposasse in Sant’Apollinare a Roma, nella tomba del boss della banda della Magliana Renato De Pedis. Due anni fa è stata aperta: c’era la salma di Renatino, alcune ossa del ‘700 e nulla più. Il mistero di Emanuela Orlandi continua a torturare la sua famiglia, a stuzzicare la fantasia di mitomani e sedicenti sensitivi, a fornire materiale per inchieste e libri. Peccato che se tutto fosse andato come doveva andare – come di solito va in questi brutti casi di cronaca – l’enigma sarebbe stato sciolto subito.
Ne è convinto Pino Nicotri, l’ex inviato dell’ Espresso che non ha mai voluto “mollare l’osso”, il giornalista che ha intervistato chiunque si sia avvicendato sul palcoscenico di questa storia e che di ognuno di loro ha diffidato, il cronista che ha inseguito la verità in due libri e che ora torna a cercarla con un terzo. Triplo inganno ( Kaos edizioni, euro 17) è una inchiesta che non punta l’indice contro gruppi terroristici, malavitosi, massoni, satanisti e preti pedofili, bensì contro il Vaticano, i servizi segreti e la grancassa mediatica nazionale. Secondo la sua tesi il primo inganno del titolo, quello che ha bruciato la possibilità di condurre indagini approfondite, è il “rapimento politico”. Responsabile Karol Wojtyla, in quel momento impegnato nella lotta anticomunista nell’Est europeo: attraverso i suoi appelli avrebbe spinto la vicenda sui binari dell’affaire politico internazionale, connesso all’attentato di piazza San Pietro. Il secondo inganno è quello delle autorità e degli apparati, vaticani e italiani, impegnati ad assecondare la messinscena. «Il terzo inganno è quello di stampa e tv, che non solo hanno assecondato la grande menzogna papale, ma hanno anche trasformato il caso Orlandi in uno show mediatico di supertestimoni fasulli, false rivelazioni e notizie inventate». Senza gli appelli del Papa, i depistaggi dei servizi e la faciloneria dei media, secondo Nicotri avremmo scoperto da tempo la verità sul caso Orlandi. O perlomeno avremmo smesso di parlarne.