venerdì 3 ottobre 2014

La Stampa 3.10.14
Nuovo naufragio al largo della Libia. Si temono 100 morti
Dispersi decine di migranti africani che tentavano la traversata. Un anno fa la tragedia in cui morirono oltre 350 persone

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il Fatto 3.10.14
Bologna e Livorno, compagni addio
Il Pd azzerato dai tempi rennziani
Emilia e Toscana perdono iscritti
di Emiliano Liuzzi


Cambiano gli uomini, cambia la geografia e i colori. Quando si diceva delle città rosse: oggi sono di un color pastello non più identificabile, uccise dalla loro storia. Livorno e Bologna sono due casi diversi, ma emblematici di quella curva che porta a crescere la popolarità di Matteo Renzi e a crollare quella del partito. In tempi recentissimi Livorno aveva ancora un compagno segretario. Lo chiamavano così.
FATTI A PEZZI i numeri, le falci e i martelli che i portuali si facevano montare dall’orefice e portavano al collo come qualcosa da esibire, il nome compagno ha resistito oltre misura. Compagne e compagni addio. Oggi Livorno, dopo la batosta presa alle elezioni comunali vinte dal candidato del Movimento 5 stelle, Filippo Nogarin, non ha più un partito. Il Pd, nei suoi vertici, è stato completamente azzerato e dio fatto commissariato dalla segreteria regionale. Non c’è un segretario, l’ordinaria amministrazione non è più di potere, dunque non merita di essere seguita. Le sezioni erano già barcollanti da tempo, oggi sono semivuote. Anche i nostalgici se ne vergognano. Prima erano circoli. Nella sezione di Antignano, quartiere che mescolava piccoli arricchiti e inquilini di case popolari, il circolo funzionava come punto di ritrovo. Se non altro organizzavano cene e partite a carte. L’ultimo compagno segretario degno di cotanto nome è stato Raldo Ferretti, professione barbiere. Quando è morto lui la sezione ha iniziato a perdere i pezzi.
Non meglio è andata a quella centrale. Era in piazza della Repubblica, voleva dire il potere. Oggi in quelle stanze c’è lo studio di un fisioterapista. Una metamorfosi che ha portato all’intero azzeramento. Testa china e andare avanti. Sdegno di cattiva amministrazione, anche: l’ultimo sindaco del Pd, Alessandro Cosimi, non ha brillato per dinamismo. Se lo chiedete ai livornesi ve lo racconteranno in altri termini, molto più feroci. Eppure in quella città il Partito comunista era nato. E non fu assolutamente un caso che la scissione si consumò lì, al vecchio teatro San Marco: Livorno non era rossa, era comunista più di ogni altra città. Anche negli anni di massima espansione, anche quando i portuali guadagnavano quanto gli ingegneri e lavoravano la metà. Altri tempi. Oggi ansima. Nogarin si è trovato a governare le briciole rimaste dal passato. Ci mette del suo, fino a oggi ha chiacchierato molto e risolto poco, ma non ha nessun tipo di opposizione. Il Pd a fare l’opposizione della città che si erano tramandati di padre in figlio non si sporca. Ricostruire vorrebbe dire scavare nuove fondamenta e lo sconforto della sconfitta è ancora lontano.
LA SITUAZIONE non va meglio a Bologna. Il loro Nogarin c’è già stato, si chiamava Giorgio Guazzaloca, ma i risultati delle primarie per il governo della Regione non sono confortanti. Sono andati a votare l’86 per cento in meno delle passate consultazioni. E, come dice il professor Romano Prodi, questo non promette nulla di buono. Tanto è che il vincitore assoluto, Stefano Bonaccini, consapevole di aver incassato una vittoria alla buona, ha chiesto aiuto allo sfidante, Roberto Balzani. “Anche lui deve aiutarmi adesso, altrimenti gli astenuti saranno più della metà degli aventi diritto al voto”.
Piacerebbe sapere per colpa di chi, visto che Bologna era Bologna, rossa e papale, accogliente e godereccia, ferita, ma capace di rialzarsi. Passato remoto. Oggi il partito in provincia è in mano a Raffaele Donini, uno della generazione post comunista. Non ha battuto ciglio di fronte alla mancanza della sua gente. Alla Bolognina, la sezione storica dove il partito smise di essere comunista, la frattura si era già consumata quando Prodi venne tradito sulle scale del Quirinale. La loro storia finì già lì, il segretario si dimise, il resto è stata una resa al renzismo dilagante. Consapevoli tutti che il partito avrebbe decretato la propria fine. “Accettammo di perdere il comunismo, faremo a meno anche di questa cosa strana che si chiama Pd”, dicono. “Ce l’aspettavamo. Quando il Pd nacque i valori erano già renziani prima che Renzi spegnesse le candeline: la sinistra era già morta”.

La Stampa 3.10.14
Età avanzata e astensione
L’Emilia già processa la vittoria di Bonaccini
di Franco Giubilei


Prevalentemente maschi, più sulla sessantina che sui 50 anni, in leggero calo rispetto agli anni precedenti. Sono i tratti salienti degli iscritti al Pd emiliano-romagnolo, all’indomani delle primarie che hanno incoronato Stefano Bonaccini candidato nella corsa a governatore della regione più rossa d’Italia. Incoronato si fa per dire, visto che stavolta sono andati a votare solo in 58mila, ancora meno cioè dei 76.015 tesserati, un risultato numerico che sta provocando più di un malumore in quello che una volta era il Partitone e ora va sotto il nome prosaico di “ditta”. I democrats emiliani fanno comunque notare che i loro numeri sono di tutto rispetto, specie se paragonati a quelle striminzite 266 preferenze raggranellate in rete da Giulia Gibertoni, pronta a sfidare Bonaccini per il Movimento 5 Stelle. Osservando più da vicino le caratteristiche degli iscritti al Pd (il dato è aggiornato alla fine del 2013, perché le iscrizioni per il 2014 si chiuderanno a fine anno, ndr), si scopre che l’età media è di 56 anni - un po’ vecchiotti soprattutto in confronto all’aria da supergiovane del premier -, che gli uomini sono circa 42mila e le donne poco meno di 34mila. Nel 2012 i tesserati erano 82mila, dunque in un anno se ne sono persi 6mila, anche se il responsabile organizzativo Giorgio Sagrini fa notare che i nuovi iscritti nel 2014 sono oltre 1.800 e i “recuperati”, cioè quelli che per qualche motivo erano mancati all’appello per qualche tempo e poi hanno deciso di rifare la tessera, 2.100. Il che non toglie che le defezioni alle ultime primarie siano state pesanti: Stefano Bonaccini le aveva spiegate con una certa stanchezza, quasi da overdose di consultazioni, dopo che l’ex popolo rosso è stato chiamato a votare praticamente ogni tre mesi nell’ultimo anno e mezzo. Ha anche ricordato che in questa occasione non c’è stato tempo e modo di spedire a casa dei potenziali votanti il solito mezzo milione di dépliant che normalmente raggiungono a domicilio i simpatizzanti prima delle primarie. Si parla di quei 400mila che andarono a votare alle primarie nazionali e che, rispetto alle consultazioni di domenica scorsa, sono lontani anni luce. Ma al Pd regionale sottolineano che ci sono anche altri numeri da tenere a mente, per farsi un’idea delle reali dimensioni del partito: 720 circoli su 340 comuni, 320 feste dell’Unità sparse in tutto il territorio, migliaia di volontari, un albo degli elettori fra le 400 e le 500mila persone. Ancora una potenza, rispetto ai circa 300mila tesserati su scala nazionale.

Repubblica 3.10.14
Pd senza base, solo 100mila tessere. In un anno persi 400mila iscritti
I dati shock di settembre. In Sicilia, Basilicata, Molise, Sardegna e Puglia il reclutamento non è praticamente partito

Mentre aumentano gli elettori, nei 7.200 circoli la militanza langue
È la mutazione genetica del partito, sempre più simile al modello Usa. Anche le casse sono in sofferenza
di Goffredo De Marchis

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Corriere 3.10.14
Sposetti, Orgini e le strategie sul «tesoretto» degli ex Ds

«Ugo Sposetti potrebbe fare un atto di generosità e rendere disponibile al Pd il patrimonio immobiliare dei Ds, che è dei nostri elettori». Matteo Orfini sollecita il tesoriere ds. Son tempi duri, i finanziamenti pubblici scarseggiano e i venti di scissione soffiano (ma Orfini smentisce qualunque ipotesi al riguardo), con qualche maligno che pensa che il «tesoretto» immobiliare dei vecchi Ds, morti ma ancora giuridica-mente in vita, possa venir utile. L’attuale tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, concorda: «Sono perfettamente d’accordo con Orfini, questo patrimonio dovrebbe essere a nostra disposizione. Ho pranzato con Sposetti e Fassino e sono sicuro che con Ugo si possa trovare un modo per lavorare insieme». Positività che non si riscontra in Sposetti: «Quale tesoretto, qui ci sono solo debiti e persone in cassa integrazione. Mi dà fastidio questa disattenzione alla gente. Il 4 agosto ho dovuto mettere delle persone in cassa integrazione e loro pensano agli immobili. Ma 1800 circoli ospitano già aggratis sedi del Pd, cosa vogliono di più?». Vorrebbero fossero ceduti o messi a disposizione effettiva del Pd: «Prima si devono conoscere le cose, poi parlarne. Son ragazzi. Ma poi non stavano parlando dell’articolo 18? Che c’entra Sposetti?».

L’Huffington Post 3.10.14
La base del Pd sta sparendo
Dopo il flop affluenza in Emilia Romagna, Repubblica indaga sul numero dei tesseramenti
Persi 400mila iscritti in un anno. Ne restano solo 100mila

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se lo dice lui...
Repubblica 3.10.14
L’ambasciatore Usa: “Riforme obbligatorie Renzi è bravo, mi ricorda Ronald Reagan”
di Stefania De Lellis


Per l’Italia è un bene avere un premier che sa parlare alla gente e spinge a fondo per il rinnovamento Il problema è se il sistema politico saprà varare i cambiamenti o se resterà diviso tra gruppi di interesse Per attirare gli investitori americani è necessario anche trasformare e snellire il sistema giudiziario

ROMA «L’Italia sta perdendo una generazione, varare le riforme è urgente. E il sistema politico deve fare in modo che vengano realizzate, senza farle sparire nel labirinto dei gruppi di interesse. Renzi si sta impegnando con forza, parla direttamente alla gente e alle sue frustrazioni. In questo mi ricorda Ronald Reagan». John R. Phillips discute con passione della situazione politica italiana: da un anno ambasciatore degli Stati Uniti a Roma ritiene un privilegio «assistere al cambiamento ».
Ambasciatore, com’è stato il suo primo anno in Italia?
«È un momento interessante per l’Italia: c’è un presidente del Consiglio che spinge a fondo per le riforme. Tutti ne dibattevano da anni, ma nessuno è riuscito a realizzarle. A mio parere nascondono potenzialità enormi per l’Italia. Il vero problema è se questo sistema politico saprà recepire le trasformazioni o se invece è troppo rigido, troppo diviso tra gruppi di interesse ».
Ha discusso di questi temi con Renzi?
«Lo conosco da quasi cinque anni e ho affrontato questi nodi con lui già prima che diventasse premier, anche a Washington. L’ho visto pochi giorni fa a proposito del suo viaggio negli Usa dove ha trasmesso dinamismo e speranza ».
Quanto è importante, dal punto di vista degli Stati Uniti, che ci sia una nuova regolamentazione del lavoro in Italia? «Penso che sia fondamentale. Parlo con imprenditori americani desiderosi di investire in Italia, e una delle questioni che sollevano subito è la rigidità della gestione della manodopera. In America, specialmente nel caso delle start-up, uno assume i propri collaboratori e se la cosa non ingrana può licenziarli. Si entra e si esce…».
È solo questo che spaventa gli investitori Usa?
«No, ritengo che il deterrente più grande sia il sistema giudiziario. Un’azienda vuole che sia possibile far rispettare un contratto, che ci sia un posto a cui rivolgersi per ottenere un risarcimento. Non puoi aspettare 8-10 anni. Avete bisogno di investimenti esteri diretti. Potreste diventare una delle colonne portanti dell’Europa».
Vede fattibili i cambiamenti?
«Questa è la speranza. Penso che Renzi sia capace di parlare direttamente alla gente e alle sue frustrazioni. Per certi versi è com’era Ronald Reagan negli Usa. Reagan parlava in modo comprensibile. Seppe rispondere veramente a ciò che la gente chiedeva».
Crede che le riforme più dolorose come quella dell’art.18 possano rischiare di accendere conflitti sociali?
«Secondo me è il contrario. Se l’Italia continua in questa spirale discendente per quanto riguarda l’economia, se la disoccupazione giovanile continua a restare al 42-43%, si perde una generazione, si creano persone che non sono abituate a lavorare. E allora sì che c’è il rischio di di- sordini».
Mille giorni per le riforme?
«Sono sufficienti per mostrare dei progressi e per prendere voti. L’applicazione delle riforme richiederà più tempo. Ma se le questioni importanti vengono affrontate, ci sarà fiducia, cosa fondamentale per qualsiasi economia».
Barack Obama all’ultimo vertice Nato ha detto che tutti i paesi membri hanno promesso il 2% dei propri budget per la difesa. E l’Italia?
«Il mondo è un luogo pericoloso e dobbiamo poter reagire. Noi continueremo a spendere il nostro 4,4%, ma vogliamo che i nostri alleati europei spendano il loro 2%. L’Italia l’ha assicurato».
Una delle spese militari che da noi fa discutere di più è quella per gli F35. Crede che alla fine li compreremo?
«Avete ridotto l’impegno di acquisto di questi aerei da 131 a 90 unità. Gli Usa ne compreranno 2.000. L’impianto di Cameri dovrebbe servire per l’assistenza e l’aggiornamento di tutti gli F35 d’Europa, quindi è una gran cosa per voi. Ma le condizioni erano che tutti dovevano acquistare gli aerei. Ritengo che l’Italia manterrà la parola data sui 90 aerei».
Chiederete all’Italia di fare di più contro lo Stato islamico?
«L’Italia è stato uno dei primi Paesi a farsi avanti e a sostenere questa iniziativa internazionale. Ha offerto aiuto umanitario, sta dando una mano in ogni modo: l’unica cosa che non fa è partecipare ai raid aerei con la propria aeronautica, ma si vedrà in futuro».
Come giudica la posizione italiana sulla crisi ucraina? I rapporti con la Russia di Putin?
«L’Italia ha condiviso la scelta di imporre sanzioni alla Russia. Non abbiamo alcuna critica da fare. Certo, avete molti contratti che potrebbero subire contraccolpi. Ma la condotta di Mosca ha conseguenze a lungo termine più gravi dell’interruzione temporanea di rapporti economici».

il Fatto 3.10.14
L’inutile cinismo del dibattito sull’art.18
di Bruno Tinti


UN CONFRONTO di pregiudizi è impossibile. Così è inutile discutere dell’art. 18 su base ideologica. Sono le conseguenze che contano. Un lavoratore licenziato illegittimamente, se il reintegro previsto dall’art. 18 fosse abrogato, riceverebbe 15 mensilità di indennizzo e si aggiungerebbe alla lista dei disoccupati. Per questo l’abrogazione è una follia: l’ingiustizia patita (il licenziamento si assume illegittimo) non può essere riparata con risorse appena sufficienti a sopravvivere per poco più di un anno. Perciò un’eventuale riforma non deve essere basata sull’abrogazione del reintegro ma sulla tipizzazione dell’illegittimità del licenziamento. In altri termini bisogna riservare la sanzione-indennizzo, drammatica per il lavoratore, ai soli casi di licenziamento non gravemente illegittimo ovvero a quelli in cui il reintegro renderebbe incompatibili i rapporti tra lavoratore e azienda.
Ma non è semplice. Prima di tutto sarebbe necessario un radicale cambiamento della cultura sindacale italiana. Ad esempio: è inaccettabile la difesa corporativa dei lavoratori dell’aeroporto di Fiumicino responsabili di furto dei bagagli. Ma è un cambiamento difficile: l’evoluzione delle confederazioni storiche è possibile, non quella dei sindacati autonomi.
C’è poi il problema dell’uniformità e prevedibilità delle sentenze. Ricordo un caso in cui il titolare di un’azienda di panetteria fu obbligato al reintegro di un dipendente che, fuori dall’orario di lavoro, intratteneva rapporti con la moglie di lui nei locali dell’azienda: si servivano dei tavoli della panificazione (non so se, alla fine, ripuliti adeguatamente). Si trattava – disse il giudice – di condotte che non avevano influito sulla regolarità della prestazione lavorativa.
E ancora, occorrerebbe definire meglio il concetto stesso di illegittimità: il licenziamento di un dipendente che rifiuta sistematicamente il lavoro straordinario quando la domanda cresce, può essere considerato illegittimo? E, comunque, può essere sanzionato con il reintegro?
Ci sono poi le situazioni create ad arte. Da ambedue le parti. Una modifica formalmente corretta delle condizioni di lavoro, che lo renda più oneroso e induca il dipendente alle dimissioni o a inadempienze che consentano il licenziamento. Ovvero un atteggiamento ostruzionistico del lavoratore che, avendo trovato altra occupazione, spera in un contenzioso che gli garantisca l’indennizzo.
COME SI VEDE, è necessaria un’attenta discrezionalità del giudice a garanzia di un’equa decisione. Ma in questo modo si pregiudica l’uniformità delle sentenze. Un dilemma irresolubile.
Resta il fatto che il problema non può essere sottovalutato come, irresponsabilmente, fa Renzi. Non è vero che il reintegro riguarda non più di 3.000 lavoratori ogni anno (40mila casi di articolo 18, l’80% risolti con un accordo, ne restano 8mila, in 4.500 il lavoratore perde, in 3.500 vince e in due terzi dei casi ha il reintegro. Stiamo discutendo di una cosa importantissima che riguarda 3mila persone l’anno). Se il contenzioso non fosse sulla scelta tra reintegro e indennizzo, le offerte del datore di lavoro sarebbero meno generose. E soprattutto non si può dire che il dramma di 3.000 persone (all’anno) private dei mezzi di sussistenza sia irrilevante. Uno statista non confonde la real politik con il cinismo. Un politico sì. Ma, di gente così, l’Italia ha fatto il pieno.

La Stampa 3.10.14
Resta lunga la strada per approvare il Jobs Act
di Marcello Sorgi

Determinato anche da una franca - forse eccessivamente franca - previsione di Mario Draghi sulla crescita che rallenta e sulla congiuntura economica europea sempre più negativa, il giovedì nero delle Borse ha dato una precisa sensazione di quale sia la fiducia che i mercati ripongono sulle prospettive economiche a breve e medio termine. Draghi a Napoli ha insistito su quello che da settimane è ormai un ritornello che ripete a intervalli regolari: la politica monetaria della Bce da sola non può fare miracoli, e si illudono i governi che si lamentano perchè Francoforte non ha ancora sparato il famoso colpo di bazooka che dovrebbe imprimere una svolta alla crisi. Per giustificare interventi eccezionali della Bce, a meno di non mettere in conto nei Paesi più a rischio la prospettiva di una riduzione della sovranità, serve invece una forte accelerata sulle riforme. Più o meno negli stessi termini si è espresso il futuro commissario francese agli affari economici Moscovici, all’indomani della decisione del governo di Parigi di denunciare l’austerità di Bruxelles, annunciando un ennesimo sforamento del vincolo del 3%. Renzi osserva la preoccupante evoluzione del quadro europeo con attenzione e ieri a Londra, in visita al primo ministro Cameron e a un selezionato parterre di investitori, ha polemizzato con la Merkel, dura con la Francia, ma ha ricordato che l’Italia non sforerà il limite del rapporto deficit-pil, confermando che i tempi di approvazione del Jobs Act saranno brevi.
Come possa dirsi sicuro di questo, è da vedere. Mentre il negoziato interno al Pd continua a non fare passi avanti, con la minoranza che mantiene gli emendamenti e aspetta che il governo scriva il testo di legge destinato a mettere in pratica la linea uscita dalla direzione di lunedì, l’ipotesi che gli eventuali voti mancanti a sinistra o all’interno della maggioranza possano essere compensati dal “soccorso azzurro” di Forza Italia s’è fatta più remota. E non perchè Berlusconi abbia ripensamenti, ma perchè Forza Italia e i suoi gruppi parlamentari si rivelano giorno dopo giorno ingovernabili. Il vertice del partito, riunito ieri, s’è risolto in un nuovo scontro, sotto gli occhi di tutto il gruppo dirigente, tra Berlusconi e Fitto, da tempo oppositore dichiarato del Cavaliere e del patto del Nazareno. Sono volate parole grosse, Berlusconi a un certo punto ha invitato Fitto a uscire da Forza Italia e a farsi un suo partito. Poi s’è pentito e in serata ha fatto pubblicamente marcia indietro. Ma in queste condizioni è difficile fare qualsiasi previsione sul comportamento in aula dei parlamentari di Forza Italia.

«Civati sabato sarà in piazza a Roma con Vendola»
L’Huffington Post 3.10.14
Jobs Act, verso la fiducia: la minoranza Pd si ribella. In bilico il Senato, ma Matteo Renzi dovrebbe farcela
di Andrea Carugati

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Repubblica 3.10.14
Il Pil e le previsioni sbagliate. Il governo fa peggio di tutti
Tra il 2006 e il 2013 le previsioni di crescita del Tesoro, per l'anno successivo a quello in corso, sono state sovrastimate in media del 2,2 per cento. Il governo in genere sbaglia più degli altri "previsori"
di Raffaele Ricciardi

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Corriere 3.10.14
L’ex premier garante di equilibri più precari
di Massimo Franco


È vero che al momento del voto i «no» alla relazione di Silvio Berlusconi sono stati solo due su cinquanta. L’irritazione dell’ex premier nei confronti dei dissidenti, tuttavia, rivela un malessere più diffuso di quanto dicano i numeri dell’Ufficio di presidenza di FI.L’invito ruvido a lasciare il partito, rivolto a Raffaele Fitto che criticava una linea politica «incomprensibile» perché troppo accomodante nei confronti del governo di Matteo Renzi, segnala un nervosismo latente. La sensazione è che l’asse Berlusconi-premier, garantito da Denis Verdini, stia creando resistenze crescenti. Per questo emerge il tentativo di correggere l’immagine di FI; di assicurare un indurimento contro palazzo Chigi soprattutto sulla politica economica.
Il paradosso col quale Berlusconi si trova per la prima volta a fare i conti, è un partito «governativo» al vertice; ma all’opposizione tra i militanti e una buona fetta di elettorato. Altrimenti non si spiegherebbe il motivo per il quale Fitto viene accusato di «far perdere il 3-4 per cento dei voti» con le sue critiche. Se si trattasse soltanto del «figlio di un vecchio democristiano», come lo ha bollato in modo offensivo Berlusconi, non ci sarebbe di che preoccuparsi. Ma FI sente che non è così. L’abbraccio con Renzi, e di Renzi, sta logorando il centrodestra molto più che il Pd. E mette a dura prova il «patto del Nazareno» sul quale si fonda la collaborazione sulle riforme istituzionali; e forse un accordo sull’elezione del futuro capo dello Stato. Le ironie nelle file berlusconiane su Verdini mediatore sono sintomi di un’agenda che una parte di FI subisce senza comprenderla. Di più: ne intuisce contorni che sembrano danneggiare le prospettive elettorali. È questa la causa del cortocircuito che l’Ufficio di presidenza ha svelato. Berlusconi oggi è il garante di uno status quo del centrodestra, avvertito come un possibile suicidio. E viene percepito come un leader dimezzato convinto di «tornare in campo» nel 2015, dopo la fine della condanna, mentre però la situazione si evolve rapidamente. Il timore dell’ala antigovernativa, più estesa dei due «no» di Fitto e Capezzone, è che FI si ritrovi schiacciata dall’alleanza istituzionale con Renzi; e finisca per essere cannibalizzata da un Pd che non nasconde la strategia di sfondare nell’elettorato moderato. È significativo che Berlusconi sia costretto a negare qualunque «soccorso» parlamentare a Renzi sul jobs act . Sembrava infatti che sulla riforma del mercato del lavoro FI potesse supplire ad eventuali defezioni della minoranza del Pd in Senato. Non solo: l’ex premier si è anche scusato con Fitto sulla tradizione democristiana della sua famiglia. «Non volevo mancare di rispetto». Il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano si gode la rissa, vedendo in quanto accade una conferma delle proprie scelte. E ricorda la rottura del 2 ottobre dello scorso anno col Pdl. Eppure, la parabola del Ncd finora non indica un’alternativa forte a FI, ma un altro indizio della crisi di una maggioranza elettorale e di un blocco sociale. È un declino del quale Renzi finora ha beneficiato, ma che in Parlamento potrebbe di colpo danneggiarlo. Con la Borsa di Milano sotto del 3,9 per cento e le tensioni con Bce e Germania, il governo italiano appare in affanno. Seccato per i rilievi della cancelliera tedesca Angela Merkel, da Londra ieri Renzi ha difeso la «ribellione» della Francia ai parametri europei. L’Italia rispetterà il tetto del 3% tra deficit e Pil, ma rispetta e chiede rispetto per i Paesi che lo superano». Parole orgogliose, che difficilmente cambieranno la sostanza delle cose.

Repubblica 3.10.14
La sfumatura bassa
di Sebastiano Messina


C’È QUALCOSA che non quadra, nel sanguinoso taglio degli stipendi imposto ai dipendenti del Parlamento (i veri servitori dello Stato). E non perché sia difendibile il fatto che il barbiere di Montecitorio — di cui nessuno, sia chiaro, mette in dubbio l’inarrivabile maestria nel fare la sfumatura bassa — arrivi a guadagnare 15 mila euro in più del magnifico rettore dell’Università di Bologna ( 136.455 euro contro 121.289). No, era ora che anche in Parlamento entrasse la forbice dell’austerità. Ma c’è un dettaglio che stona: i tagli varranno solo per i dipendenti. Non per gli onorevoli. I quali, ritenendosi evidentemente invulnerabili al rigore che chiedono agli altri italiani, continueranno a ricevere — con la meritoria eccezione dei grillini — i loro 14 mila euro (netti) al mese. E senza avere neanche la più pallida idea di come si faccia una sfumatura bassa.

il Fatto 3.10.14
Autoriciclaggio, l’accusa del presidente del Senato: “Ormai siamo al boicottaggio”
Ancora al palo la norma che punisce chi impiega i soldi ottenuti dai propri reati
A rischio anche il riciclaggio semplice
Piero Grasso: “Soldi sporchi, così hanno fermato la mia proposta”
intervista di Gianni Barbacetto


Partorito ieri un nuovo testo sull’autoriciclaggio, dopo mesi di rinvii e contrapposizioni. Si sono messi attorno a un tavolo il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, quello dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e quello delle Riforme, Maria Elena Boschi. Uno dei nodi da sciogliere era quello della soglia: secondo il testo proposto una settimana fa dal ministro della Giustizia, l’autoriciclaggio sarebbe perseguito soltanto quando il reato presupposto (quello che ha prodotto i soldi sporchi da ripulire) è punibile con una pena superiore a 5 anni. Contrario alla soglia era invece il ministro Padoan, che vorrebbe veder punito per autoriciclaggio anche chi reimpiega fondi neri ottenuti con reati economici e fiscali. Il compromesso raggiunto ieri diversifica le pene: da 2 a 8 anni sopra quella soglia, da 1 a 4 sotto. Ma nel testo che circola, al comma 3, si dice che non c’è il reato “quando il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla utilizzazione o al godimento personale”. E per cos’altro dovrebbero essere impiegati? Questo comma finisce per azzerare del tutto l’autoriciclaggio. Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, aveva proposto misure anticorruzione, tra cui l’autoriciclaggio, appena entrato in Parlamento, un anno e mezzo fa. Per il suo ruolo attuale di presidente del Senato non commenta un testo ancora non definitivo. Ma, più in generale, denuncia ritardi e insufficienze negli interventi sulla giustizia.
Al festival del Diritto di Piacenza, qualche giorno fa, lei si era fatto una domanda: “Mi chiedo quali interessi blocchino la mia legge sulla corruzione”. È riuscito a darsi una risposta?
Non mi piacciono le dietrologie, registro i fatti: dal 15 marzo 2013 la mia proposta è ancora in commissione Giustizia in Senato. Ce n’è una alla Camera che affronta alcuni degli stessi temi. Il ministro ne ha promesse altre. Eppure non si va avanti.
È evidente che ci sono diversità di vedute su come introdurre il reato di autoriciclaggio. C’è chi, per la propria esperienza, è più sensibile alla lotta antimafia e chi preferirebbe introdurre il nuovo reato per contrastare la criminalità economica. Poi c’è qualcuno che proprio non lo vuole...
Ci sono proposte diverse, ma sulla mia ultimamente si è fatta un po’ di confusione. Quella che lei ieri ha definito “linea Grasso” è in realtà quella del testo unico in discussione in commissione, redatto dal relatore D’Ascola sulla base del mio e di numerosi altri disegni di legge. Naturalmente la dizione è “Grasso e altri”, ma è ben lontana dal mio testo originale che, al contrario di quanto da lei scritto, colpiva sia i reati economici della mafia che quelli dei colletti bianchi, insomma qualsiasi reato che genera profitto. Solo così si può garantire l’integrità del sistema economico e finanziario e recuperare miliardi di euro alle casse dello Stato.
È accettabile la soluzione di compromesso, che sotto i 5 anni, prevedendo pene minori, non dà la possibilità di intercettare?
Nella mia proposta originaria avevo previsto una pena da 1 a 6 anni, anche per consentire l’utilizzo delle intercettazioni, così come avevo previsto l’attenuante speciale per chi collabora con la giustizia e le aggravanti per professionisti, pubblici ufficiali e intermediari finanziari. Lunedì scorso, a Milano, avevo proposto io stesso una soluzione di accettabile compromesso, ovvero aggiungere che nei casi di lieve entità sia prevista solo la pena pecuniaria e non il carcere, mantenendo però tutte le pene accessorie: confisca, decadenza e revoca delle concessioni e delle autorizzazioni, divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, interdizione dai pubblici uffici e così via.
Chi frena sull’autoriciclaggio obietta che la stessa persona rischia di essere punita più volte per lo stesso comportamento.
Sono reati diversi che tutelano interessi diversi: il patrimonio, l’integrità dell’economia, l’interesse della pubblica amministrazione e via dicendo. Nel nostro codice l’ipotesi è già regolamentata dal “reato continuato”: non si sommano le pene. Nel caso di più reati, si applica la pena del reato più grave con solo un aumento per gli altri.
Oltre all’autoriciclaggio, quali sono le misure più urgenti che dovrebbero essere introdotte per combattere la corruzione?
L’introduzione della figura del collaboratore di giustizia. L’eliminazione della punibilità del privato vittima di abusi nella corruzione per induzione. L’aumento della pena nel traffico di influenze illecite. La revisione della corruzione tra privati. Il ripristino della punibilità del falso in bilancio. La revisione dei reati societari. Tutto questo sotto il profilo della repressione, poi occorre intervenire anche sulla prevenzione. Ma il problema più grande resta quello etico e culturale.
Non è necessario intervenire anche sulla prescrizione?
Ho sempre detto che la cosa migliore sarebbe intervenire in senso generale, per tutti i reati, sospendone il decorso dopo il rinvio a giudizio.

il Fatto 3.10.14
IL “godimento”
Affondano anche il reato di riciclaggio
La nuova norma indebolisce anche quella già in vigore


Qui, “oltre a bloccare il reato di autoriciclaggio, stanno depenalizzando anche il riciclaggio”. Un magistrato esperto in reati finanziari commenta le conseguenze del testo partorito dal governo sull’asse Renzi-Boschi-Ghedini (con l’ostilità del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan) sul reato che, come previsto dalla convenzione Ocse di Strasburgo del 1999 firmata dall’Italia e mai convertita in legge, dovrebbe punire chi ricicla i soldi sporchi dei suoi reati per “lavarli” in attività lecite e poi utilizzarli “puliti”.
L’ULTIMA TROVATA di Palazzo Chigi è una causa di non punibilità per chi ricicla il suo denaro sporco a scopo di “godimento personale”. Ma, dicono gli inquirenti, tutti i criminali che ripuliscono il loro denaro lo fanno per godersi personalmente il frutto delle attività illecite. “Poniamo il caso di un rapinatore che prende la refurtiva e l’affida a uno spallone, il quale gliela porta in Svizzera sul conto cifrato di una fiduciaria. Poi il rapinatore va in Svizzera e preleva i quattrini per farsi la villa a St. Moritz. Dunque gode personalmente del suo profitto illecito. Con la causa di non punibilità, non può essere processato per autoriciclaggio. Ma la causa di non punibilità si applica anche allo spallone e al titolare della fiduciaria che concorrono nel suo reato, avendolo aiutato a riciclare i suoi soldi: oggi quei due sono punibili per il reato di riciclaggio, domani non più. Bel risultato davvero: la legge che dovrebbe punire l’autoriciclaggio viene svuotata in modo da non punire né l’autoriciclaggio, né il riciclaggio”.
A QUESTO PUNTO, osserva il magistrato, molto meglio non fare nessuna legge: “Almeno qualche riciclatore, col reato di riciclaggio, riusciamo ancora ad acchiapparlo”. Ieri, dopo i continui rinvii in commissione Finanze e le continue riscritture del testo della “riforma” tra la presidenza del Consiglio e i ministeri delle Riforme, della Giustizia e dell’Economia, si è tenuta l’ennesima riunione con i ministri Boschi, Padoan, Orlando e il viceministro Casero, tagliando fuori i parlamentari più impegnati, che in commissione avevano già approntato un buon testo, giudicato efficace dal procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco. Padoan ha spiegato quanti miliardi si recupererebbero con l’effetto-tenaglia di autoriciclaggio e norme per favorire il rientro dei capitali. Ma le sue osservazioni continuano a scontrarsi con uno scoglio invisibile quanto insuperabile: il Patto del Nazareno.

il Fatto 3.10.14
Re Giorgio depone il 28, Riina si invita al Colle
Il boss e Bagarella chiedono di poter essere collegati in videoconferenza
La Corte si riserva la decisione
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Nel processo sulla trattativa Stato-mafia Napolitano depone il 28 ottobre, ma sulla testimonianza pesa l’incognita della presenza dei boss Riina e Bagarella visto che entrambi hanno chiesto ieri - attraverso i loro legali - di assistere all’udienza quirinalizia per video-conferenza, alimentando i dubbi e le preoccupazioni del Colle sui rischi di una strumentalizzazione mediatica di un unicum nella storia italiana: il capo dello Stato seduto davanti ai giudici a rendere il dovere civico di testimonianza.
UN’INCOGNITA che il presidente della Corte, Alfredo Montalto, a voce si è preoccupato di smorzare: quando l’avvocato Luca Cianferoni ha chiesto la parola per annunciare che nei prossimi giorni depositerà una memoria a sostegno della richiesta del suo assistito Totò Riina di essere presente al momento della deposizione, l’interlocuzione con la difesa dell’imputato, il presidente ha preso atto della richiesta, ricordando che sulla questione si era già pronunciato. E lasciando intendere, dunque, secondo l’interpretazione più diffusa, che la Corte non si sposta dai confini tracciati dall’ordinanza di ammissione di Napolitano che, applicando in via analogica la prima parte dell’art 502 del cpp, vieta agli imputati di partecipare. Ma quest’interpretazione si scontra con la seconda parte della norma, ed in particolare con quel verbo all’indicativo (“il giudice ammette” a partecipare l’imputato che ne fa richiesta) che fissa un principio universalmente riconosciuto dalla giurisprudenza europea e della Cassazione: il diritto a partecipare all’udienza di ogni imputato che ne faccia richiesta. Un principio che, se ignorato, causerebbe l’annullamento del processo, come ben sa ogni studente al primo anno di giurisprudenza. Ieri la Corte si è riservata di decidere dopo l’opposizione dell’avvocato dello Stato Fabio Caserta, che, consapevole dei rischi che comporta l’applicabilità “totale” del 502 ha giocato la carta dell’inapplicabilità della norma per “l’immunità della sede”.
E se i giudici, fermi sulla propria ordinanza di ammissione, potrebbero anche non rispondere, la possibilità che il faccione di Riina compaia su un maxischermo tra gli arazzi del Quirinale il prossimo 28 ottobre, novantadue anni dopo la marcia su Roma dei gerarchi di Mussolini, resta un’eventualità possibile, con tutte le conseguenze processuali che ne deriverebbero: attraverso gli agenti di polizia penitenziaria che li assistono dal carcere, i boss potrebbero interloquire con gli avvocati, suggerire domande, e persino chiedere la parola, attraverso i legali, per fare una dichiarazione spontanea. La preoccupazione che in queste ore fa fibrillare lo staff del Quirinale riguarda, insomma, il rischio che l’udienza romana possa di fatto aprire un varco processuale ad una sorta di interlocuzione a distanza (ma contestuale) tra la massima carica dello Stato e il capo dei capi di Cosa nostra. Col risultato di un inevitabile appannamento dell’immagine di Napolitano, proprio mentre sarebbe sempre più vicino il momento del suo addio al Quirinale.
NEL 2002, a Palazzo Chigi, Berlusconi interrogato nel processo Dell’Utri offrì al collegio del tribunale (ma non ai pm) un rinfresco a base di pasticcini: non si sa se questa volta Napolitano farà sfoggio della stessa cortesia, accogliendo i giudici della Corte d’Assise e i pm di Palermo sulla base di un cerimoniale che la diplomazia del Colle sta mettendo a punto già in queste ore, in un clima di massima riservatezza. A Palermo nessuno rilascia commenti, ma a conclusione dell’udienza, ieri il pm Nino Di Matteo si è riunito con i colleghi Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, alla presenza dell’aggiunto Vittorio Teresi, per stabilire i dettagli della missione romana al Quirinale. Non è escluso, infatti, che i pubblici ministeri della trattativa saranno accompagnati anche dal procuratore facente funzioni Leo Agueci (che guida l’ufficio inquirente da quando Messineo ha lasciato l’incarico) in segno di rispetto per l’autorevolezza del testimone. Tutto sembrerebbe deciso, insomma. Ma nulla è ancora scontato. Non si può escludere, infatti, che la Corte d’Assise autorizzi eventuali richieste di partecipazione che riguardano le parti civili (è ammessa al momento solo la presenza delle rappresentanze legali) e dei giornalisti, anche se nel novembre 2002 il Tribunale di Palermo impedì ai giornalisti l’ingresso nell’aula di Palazzo Chigi per la deposizione dell’allora premier Berlusconi nel processo Dell’Utri, giustificando l’esclusione con “motivi di sicurezza”.

Repubblica 3.10.14
Trattativa, ira del Quirinale per i boss alla deposizione e l’udienza torna a rischio
Napolitano fissa la data della testimonianza: sarà il 28 ottobre al Colle Ma Riina e Bagarella insistono: vogliamo partecipare in videoconferenza
di Salvo Palazzolo e Umberto Rosso


PALERMO «Io voglio venire all’udienza», farfuglia Totò Riina in videoconferenza dal carcere di Parma. E gli fa subito eco suo cognato Leoluca Bagarella, in diretta dai bracci del 41 bis di Nuoro: «Sì, buongiorno, intendo assistere anche io a questa udienza del presidente della Repubblica». I capi di Cosa nostra non si facevano sentire da tanto al processo per la trattativa Statomafia. Quando il presidente della corte annuncia che il capo dello Stato ha inviato una lettera per confermare la sua disponibilità a deporre, il 28 ottobre, i boss chiedono subito di intervenire. E i loro avvocati, Luca Cianferoni e Giovanni Anania, rilanciano: «Depositeremo una memoria. La corte europea per i diritti dell’uomo ha sempre ribadito il diritto dell’imputato a partecipare a tutte udienze del suo processo ». E in aula è di nuovo polemica per la videoconferenza dal Quirinale sollecitata dai padrini della mafia siciliana Chiede di intervenire l’avvocato dello Stato Fabio Caserta, che al processo rappresenta la presidenza del Consiglio costituita parte civile. «È questo il momento?», chiede. Il presidente della corte, Alfredo Montalto, si lascia andare a una considerazione: «È il momento, anche se l’interlocuzione mi sembra superflua». Come dire, la corte ha già deciso con l’ordinanza della settimana scorsa: «Niente imputati all’udienza del Quirinale, solo gli avvocati». Così è messo a verbale.
Ma adesso i boss insistono. E nei giorni scorsi ha chiesto di presenziare al Colle anche l’imputato testimone Massimo Ciancimino. L’avvocatura dello Stato si oppone: «Bisogna considerare l’immunità della sede ». Montalto annuncia che i legali avranno tempo fino a martedì per depositare le loro memorie. All’udienza di giovedì, poi, arriverà la decisione finale.
Dunque, Giorgio Napolitano conferma la sua disponibilità a testimoniare, comunicando anche la data in cui aprirà le porte del Quirinale alla corte: alle ore 10 del 28 ottobre. Ma non pensa certo di concedere il “palcoscenico” del Colle a personaggi come Riina e Bagarella. L’intervento in aula dei due imputati suona al Quirinale come una provocazione, quasi uno schiaffo degli assassini di Falcone e Borsellino alla più alta istituzione della nostra Repubblica. Sarebbe un’incredibile passerella dei boss di Cosa nostra al Quirinale, che comunque al Colle ritengono sarà scongiurata. Proprio per quell’ordinanza già emessa dai giudici: udienza a porte chiuse, solo con la corte, i pubblici ministeri e gli avvocati, ma niente imputati, di presenza o in videoconferenza. Al Colle ritengono che la corte non potrà smentire se stessa, dunque aspettano con fiducia questo ulteriore passaggio procedurale. E da questo punto di vista si respira aria di serenità al Quirinale.
Ma la mossa di Riina e Bagarella sparge altri veleni pericolosi, punta a usare la testimonianza di Napolitano come occasione per un show personale. E se la loro richiesta di “entrare” al Quirinale venisse accolta, a quel punto perfino la disponibilità del capo dello Stato potrebbe cambiare.
All’udienza del 28 ci vuole essere anche Giovanna Maggiani Chelli, la presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili. «Le parti civili di questo processo hanno diritto a presenziare — dice — per ascoltare il presidente. A noi non interessa solo un risarcimento per il torto subito, vogliamo partecipare alla ricerca della verità. Spero invece che la corte dica no alla presenza dei boss, che in aula hanno voluto lanciare l’ennesima sfida».

Corriere 3.10.14
La provocazione dei capimafia per «entrare» al Quirinale
di Antonio Polito


La richiesta dei boss Riina e Bagarella di collegarsi in videoconferenza con il Quirinale, quando il capo dello Stato deporrà al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, era prevedibile. Ma vanno tutelati dignità e prestigio delle istituzioni.
Non era solo prevedibilissimo, era praticamente certo che i due boss di Cosa Nostra Riina e Bagarella avrebbero tentato di inquinare, avendone l’opportunità, il processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. La loro richiesta di essere collegati in videoconferenza con il Quirinale, quando il 28 ottobre deporrà Giorgio Napolitano, era ampiamente annunciata. Né potevano avere dubbi in proposito la Procura di Palermo, che quella deposizione ha chiesto, e la Corte d’Assise, che quella deposizione ha disposto, pur avendo ricevuto una lettera con cui Napolitano dichiarava di non disporre di nessuna ulteriore informazione sul fatto in oggetto (un testo del suo ex consigliere giuridico D’Ambrosio che del resto lo stesso Quirinale aveva reso pubblico).
Tutti insomma sapevano che, appellandosi al diritto degli imputati di assistere ai loro processi, i capi della mafia avrebbero provato a infilarsi, seppure in effigie, nell’ufficio del capo dello Stato, fornendo al mondo uno spettacolo ahinoi unico nel suo genere.
Toccherà dunque ora alla Corte d’Assise cavarsi da questo impiccio, ammesso che sia possibile. Un impiccio che, pure essendo di forte valore simbolico, non è l’unico in questa storia. I capi della mafia siedono sul banco degli accusati con la stessa imputazione di «minaccia a un corpo politico» del politico che avrebbero minacciato. E lo stesso Riina, che dal giorno del suo arresto è sottoposto al regime del 41 bis proprio per evitare che possa lanciare messaggi all’esterno del carcere, ora ne può invece lanciare quanti ne vuole attraverso quella specie di «grande fratello» carcerario che sono le sue conversazioni dell’ora d’aria registrate dai pm.
È in un clima già così torbido che si inserisce questa ultima e prevedibilissima provocazione. Intendiamoci: la ricerca della verità è un imperativo per la Giustizia, ed è un diritto per l’opinione pubblica. Ma tra i beni costituzionali da tutelare, in questa vicenda, ci sarebbero anche la dignità e il prestigio delle istituzioni, esposte al tentativo dei poteri criminali di destabilizzarle.

Corriere 3.10.14
La «tranquillità» di Napolitano e l’ipotesi imbarazzante
di Marzio Breda


Ve li immaginate due superboss di Cosa Nostra ammessi a entrare, sia pur in videoconferenza, alla Casa Bianca per assistere a una deposizione di Barack Obama ed eventualmente intervenire, quasi da pari a pari? Fatte le debite differenze (ma l’umiliante impatto simbolico sarebbe lo stesso), è questo lo scenario che potrebbe materializzarsi al Quirinale il 28 ottobre, se i giudici dell’Assise di Palermo, impegnati nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, accogliessero la domanda di Riina e Bagarella di presenziare — in collegamento dalle rispettive celle — alla testimonianza di Giorgio Napolitano.
Alfredo Montalto, che presiede la Corte, si è preso una settimana per valutare la richiesta. Tuttavia, quel suo «si è riservato di decidere» è stato sufficiente a scatenare un mezzo putiferio. E ad aprire una catena di interrogativi sulla reazione del presidente. Che resta — così dice chi gli ha parlato nelle ultime ore — «tranquillo come sempre». Anche se quel qualcuno ammette che, sì, per quanto è messo sotto pressione su diversi fronti, «deve avere la pazienza di Giobbe».
Ora, senza attribuire a Napolitano virtù sovrumane e fatti salvi i diritti di difesa, incomprimibili per qualsiasi imputato, è evidente che la sola ipotesi affacciatasi ieri risulta, più che delicata, imbarazzante. Perché già il semplice rimbalzo di una simile notizia sui mass media rischia di mettere in gioco il prestigio e la dignità del capo dello Stato, da intendersi prescindendo dalla sua persona e quindi in relazione alla carica costituzionale che ricopre. E in questo caso è impossibile non associare questa faccenda alle polemiche e alle provocazioni, politiche e appunto giornalistiche, che assediano il Colle.
Così, la scelta che il collegio siciliano è chiamato a esprimere, rappresenterà una prova specialissima dell’equilibrio e della maturità del nostro sistema giudiziario e della nostra comunicazione. A farla in breve: una prova del buonsenso di un Paese nel quale, per ogni cosa che succede, troppi credono sia lecito chiamare in causa la presidenza della Repubblica. A costo di minacciare il corretto bilanciamento tra poteri e di sfidare norme e prassi, dato che questa storia è senza precedenti. Ecco che cosa il Quirinale intende verificare, giovedì prossimo. A parte che resta da vedere con quali argomenti gli avvocati di Riina e Bagarella hanno motivato le loro istanze alla Corte, l’entourage del presidente non si mostra preoccupato.
Del resto, l’ordinanza con cui il collegio giudicante ha ribadito «la necessità» di sentire Napolitano limitando il tema alla lettera che il suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, finito a propria volta nel tritacarne mediatico, gli scrisse pochi giorni prima di essere stroncato da un infarto. L’interrogatorio, accettato dal capo dello Stato, sarà «compatibile» solo entro questo perimetro e alle condizioni stabilite dal Codice di procedura penale. Oltre non si potrà andare. O, almeno, non si dovrebbe.

il Fatto 3.10.14
Sblocca mazzette
Pippo Civati “Regalo alle autostrade, Pd e governo lo cancellino”
intervista di Davide Vecchi


Milano Visto che Renzi ha spiegato al Paese di essere autonomo dai poteri forti ha un’occasione per dimostrarlo in concreto: rivedere le concessioni autostradali inserite nello Sblocca Italia”. Giuseppe (Pippo) Civati, ex rottamatore e oggi minoranza dura e pura del Pd, accantona le polemiche interne al partito e boccia i contenuti del decretone.
Cosa contiene che non va?
Un sacco di cose, tra cui il passaggio sui commissari del Tav che possono superare le obiezioni delle sovrintendenze, un altro sull’edilizia molto simile a quella delle giunte Formigoni con la semplificazione per chi costruisce. Poi le autostrade. È un decreto molto berlusconiano, molto lupigno come dice Camilleri.
In pratica c’è di tutto, si sapeva.
Sì, ma sulle concessioni autostradali violiamo le norme sulla concorrenza e rischiamo sanzioni concrete oltre ai richiami verbali arrivati sino a ora. Persino Raffaele Cantone, che non è un gufo della fronda Pd per capirci ma il commissario nominato da Renzi contro la corruzione, ha bocciato la norma sulle concessioni.
In linea con Fabrizio Balassone di Banca d’Italia e Giovanni Pitruzzella dell’Antitrust.
Esatto, figure al di sopra di ogni appartenenza chiamate a svolgere un ruolo di verifica e controllo. Esterne al dibattito politico. In tre arrivano alla stessa conclusione, vogliamo ascoltarli?
Lei che propone?
Stralciare o abrogare la norma, poi dipende dai passaggi: al momento è un decreto in conversione. Ma così come è non va bene. Si devono fare le gare, seguire le procedure e compiere un lavoro molto trasparente, proprio come chiede soprattutto Cantone.
Guardi che poi le dicono di essere contro l’innovazione infrastrutturale.
La questione è seria. Lo Stato potrebbe riprendersi le autostrade o tagliare il costo dei pedaggi, non certo economici.
Andiamo con ordine. Le concessioni di qualche decennio fa sono scadute, giusto?
Ed è una grande risorsa per perché quando una concessione scade significa che l’investimento iniziale è stato completamente ammortizzato e quindi il bene torna nella disponibilità dello Stato a titolo gratuito.
È finita una partita, dunque se ne apre una tutta nuova?
Lo Stato ha diverse opzioni, fra l’altro. Può dare l’autostrada in gestione a un privato, attraverso una gara a evidenza pubblica, oppure può gestirla direttamente incassandone i proventi. Semplice.
E invece?
Invece nell’articolo 5 dello Sblocca Italia hanno accorpato le concessioni scadute a quelle prossime alla scadenza, eludendo così una gara e riaffidando direttamente le concessioni. Senza nessun tipo di confronto, di appalto, niente. Insomma che si stia rischiando di violare la norma sulla concorrenza è evidente a chiunque.
Magari durante la stesura e lettura non se ne è accorto nessuno.
Lecito, infatti è intervenuto Cantone e con lui altri organismi a dire ‘così non va bene’. Ci manca anche di prenderci una multa dalla Ue per questo.
Non sarebbe la prima sanzione che prendiamo. Lo sarebbe per questo esecutivo. Principianti al potere?
No guardi, con le polemiche per questa settimana ho già dato. Penso al concreto. E di concreto c’è anche un altro rischio: vedere realizzate strade totalmente inutili solo per legittimare la concessione.
Tipo la Brebemi, l’autostrada che corre praticamente parallela alla Milano Venezia?
Esatto, per il momento non ci va nessuno, non la usa nessuno anche perché è cara, quindi nessuno paga il pedaggio e chi la ripagherà? Le banche? Ho qualche dubbio.

il Fatto 3.10.14
Opera, cacciati con un tweet
Dopo la fuga di Muti, teatro allo sbando
Buco dell’Opera, Marino licenzia 200 orchestrali
di Emiliano Liuzzi


Tutti a casa. 182 persone. Con un tweet firmato dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: “Mi aspetto una scelta coraggiosa e di svolta”. In tempi di renzismi era chiaro che volesse dire licenziamento. E nell’aria c’era da giorni. Almeno da quando il maestro Riccardo Muti ha annunciato il suo ritiro e la rinuncia a dirigere l’orchestra. Ieri il sindaco Ignazio Marino e il soprintendente Carlo Fuortes hanno ufficializzato il licenziamento collettivo di orchestrali e coristi dell'Opera di Roma. Con o senza articolo 18. Tutti a casa. E soprattutto marchiati per essere i responsabili della rinuncia di Muti, fiammifero che nessuno voleva avere in mano. Sotto choc i sindacati che hanno affidato poche parole al segretario della Cgil del settore, Massimo Cestaro: “Nella ignoranza dilagante su come funziona un teatro d’Opera ci sarà ancora qualcuno che proverà a sostenere che questa sarebbe una buona strada per rivitalizzare il teatro. Altri diranno che questa è una scelta sofferta. La verità è in corso una strategia di smantellamento delle istituzioni culturali del nostro Paese”.
Dal punto di vista ufficiale, l’addio di Muti è tutta colpa della sua orchestra e non del ministro, del sindaco e del soprintendente. Una versione parziale. Anche perché Muti non lo ha mai detto. Ha semplicemente parlato di quella mancanza di tranquillità che lo aveva spinto ad accettare l’onere, più che l’onore, di dirigere il teatro. La situazione finanziaria, del resto, è sempre stata precaria: Roma, al contrario di Milano, non ha sponsor, al confronto è la sotto provincia. Marino e Fuortes, insieme al ministero azionisti dell’Opera, dicono che l'esternalizzazione degli orchestrali è un balzo nel futuro, “inusuale per l’Italia, normale a Vienna e Berlino”. Sicuramente la lirica, grande vanto del Paese che voleva esportare la Cultura, inizia il passo che la porterà verso una morte quasi certa. Sull’orlo della bancarotta ci sono il San Carlo di Napoli, il Regio di Parma, i teatri di Genova e Bari. Tutti, salvo poche eccezioni come Venezia e Milano. E l’addio di Muti, più che uno schiaffo alla “sua” orchestra, si trasformerà in un boomerang per il governo che, spesso e volentieri, parla di cultura. Molto più facile esportare come cultura le mozzarelle di Eataly che l’Aida.
LA LINEA DURA ha visto nell'uomo al comando quell’oggetto misterioso che è il sindaco Marino, lo stesso che aveva fatto carte false per i Rolling Stones al Circo Massimo, anche a un prezzo simbolico. “Questo è l’unico percorso che può portare a una vera rinascita dell'Opera”, dice. “Quindi il cda ha approvato esternalizzazione di orchestra e coro del Teatro dell'Opera votando la procedura di licenziamento collettivo”. E ancora: “Al momento non abbiamo immaginato di cancellare l'Aida del 27 novembre. Se ci saranno le condizioni ci attiveremo per ricercare un direttore da individuare entro la prima settimana di novembre, altrimenti non ci sarà l’Aida”. Letta così sembra che l’Aida sia già cancellata, ma non resta che credergli. Per non piangere. E a chiudere la famosa responsabilità per l’addio di Muti che qualcuno, in questo caso i licenziati e il maestro stesso, doveva pur prendersi: “Il doloroso e recente messaggio del maestro Muti ha determinato la frenata degli abbonamenti e la fuga degli sponsor. A questo punto ci troviamo in una situazione di risanamento avviato, ma con una differenza di entrate che può essere calcolata in 4,2 milioni. Gli altri soci fondatori, ovvero il ministro Franceschini e il governatore Zingaretti, hanno ascoltato dalla mia voce i possibili percorsi che avevamo davanti. Potevamo tentare un rattoppo temporaneo senza ambizioni di rinascita, potevamo procedere alla chiusura o, infine, adottare una strategia che puntava a una vera rinascita e la dolorosa strada del licenziamento collettivo”.
Più matematica la posizione del soprintendente. “Il risparmio che noi prevediamo da questa procedura di esternalizzazione è di 3,4 milioni”, spiega Fuortes. “Non ci sono stati corpi artistici a favore o contro. La gran parte del teatro è a favore del piano. Non c'è alcuna intenzione ritorsiva. L'unico elemento è una valutazione sulla funzionalità. Orchestra e coro valgono insieme 12,5 milioni in un anno”. Franceschini ricalca le parole di Marino, risparmia Muti, ma se la prende con i musicisti: “L’esternalizzazione di coro e orchestra decisa dal cda è un passaggio doloroso, ma necessario. La situazione era diventata insostenibile”.
NON SPIEGA perché, il ministro, la situazione fosse diventata drammatica. In realtà c’era da tempo un problema molto serio con i conti, passivi, che nel tempo erano stati tenuti all’oscuro dello stesso cda. E la prova per risorgere era stata proprio la chiamata a Roma di Riccardo Muti, voluta e incoraggiata da Bruno Vespa che ha sempre avuto con Muti un rapporto di amicizia. Il castello di carta alla fine è crollato.

Repubblica 3.10.14
L’Opera va all’aria
“Licenziamento collettivo per coro e orchestra”
di Giovanna Vitale


ROMA LICENZIAMENTO collettivo. L’Opera di Roma non avrà più un’orchestra stabile e neppure un coro. Dopo lo schiaffo assestato da Riccardo Muti, che a metà settembre ha deciso di rinunciare alla prima dell’ Aida e di interrompere la sua collaborazione, il consiglio di amministrazione presieduto dal sindaco Marino ha optato per le maniere forti: mandare a casa tutti i musicisti, 182 per l’esattezza. Che, se vorranno, potranno riunirsi in cooperativa e sperare di essere reclutati per la stagione lirica programmata di anno in anno. Un nuovo modello organizzativo piuttosto diffuso nei teatri di mezza in Europa (da Madrid a Londra) ma in Italia mai ancora sperimentato. E destinato, ne è convinto il sovrintendente Carlo Fuortes, a fare scuola.
«Una scelta dolorosa» la definisce l’inquilino del Campidoglio.
«Non è stato facile» ripete più volte come se volesse convincere innanzitutto se stesso: lui, uomo di sinistra, esponente dell’ala più radicale del Pd (almeno fino alla svolta renziana), costretto a una misura tanto drastica. E infatti parla di «vera sofferenza », Marino, di strada imboccata «per la rinascita dell’Opera: l’alternativa sarebbe stata la chiusura». Non poteva fare altro dopo aver ereditato «un disavanzo disastroso (12,9 milioni di euro, ndr) e un indebitamento mostruoso», superiore ai 30 milioni: «Gli sforzi per rimettere in sesto il teatro grazie alla legge Bray sono stati accolti da tumulti e proteste che hanno portato a grosse perdite di biglietteria», 700mila euro solo sulla stagione estiva, «e alla fuga degli sponsor privati: per il 2015 avevamo previsto introiti per 5,8 milioni, nel 2016 per 6,2». E invece, «dopo il crollo d’immagine provocato dagli scioperi a Caracalla e dall’addio di Muti, quattro sponsor da un milione l’uno sono letteralmente fuggiti», aggiunge Fuortes. Una turbolenza che «ha inciso su abbonamenti e botteghino » e farà quasi certamente saltare la prima del 27 novembre. «Noi stiamo cercando un sostituto per l’ Aida », spiega il sindaco, ma nessuno ha finora accettato di dirigere al posto del grande Maestro.
L’epilogo si chiama «buco di bilancio». Lo dice chiaro il sovrintendente: sul 2015 ci sarebbero stati 4,2 milioni di perdite che, aggiunte ai 10 milioni di tagli effettuati quest’anno, avrebbero reso la gestione del teatro «insostenibile». Inevitabile, dunque, «tagliare il costo del lavoro » azzerando contratti e soprattutto integrativi, inzeppati nei decenni di indennità tra le più strane (da quella all’umidità, per le rappresentazioni all’aperto, a quella di frac), che valgono la bellezza di 12,5 milioni l’anno. Ecco perché «se ricorriamo all’outsourcing di orchestra e coro è solo per ragioni economiche, non per ritorsione contro chi ha bloccato il teatro: pensare il contrario è volgare e offensivo», taglia corto Fuortes. Fatto sta che il licenziamento collettivo colpirà soltanto orchestrali (92) e coristi (90), fra le cui fila si annidano i ribelli.
«Un passaggio doloroso ma necessario per salvare l’Opera di Roma e ripartire», certifica il ministro della Cultura Dario Franceschini. Durerà in tutto 75 giorni. «Dal primo gennaio il teatro potrà avere la nuova orchestra e il nuovo coro», annuncia Fuortes: formati — si spera — dagli stessi musicisti che nel frattempo si saranno associati in cooperative, poi assunte dal Costanzi con contratti annuali o pluriennali. E Salvo Nastasi, direttore generale dello Spettacolo, aggiunge: «Esternalizzare vuol dire far rinascere il teatro su basi più moderne». Un sistema destinato a cancellare gli scioperi: farli equivarrebbe a scioperare contro se stessi.

La Stampa 3.10.14
Gli orchestrali
“Smantellano il teatro ma l’articolo 18 c’è ancora”


Una mazzata, piombata improvvisa. Che lascia senza parole i musicisti del Teatro dell’Opera. Fino ad ora non era mai successo che i componenti di un’orchestra e un coro venissero licenziati in tronco, e senza preavviso. In molti prevale la rabbia, la disperazione: «Cominciano con noi e poi continuano con gli altri. Ecco l’antipasto della riforma dell’articolo 18!». «Muti aveva già capito tutto e ha fatto un passo indietro prima che il sipario calasse per sempre».
Nei più giovani, abituati alla precarietà, prevale la voglia di reagire. E per dimostrare l’attaccamento al posto di lavoro, gran parte si ritrova nella propria «casa», la buca d’orchestra. Non vogliono che i nomi siano riportati, temono ritorsioni. «Ho appena ricevuto un provvedimento disciplinare per aver osato esprimere il mio punto di vista» dice uno. «C’è un progetto di smantellamento del Teatro. E forse Muti l’aveva capito e per questo se n’è andato. Ma siamo pronti a impugnare la decisione», aggiunge un altro. Altri si trincerano dietro un secco «sono autorizzati a parlare solo i rappresentanti sindacali». Che parlano. Paolo Terrinoni, segretario generale della Fistel Cisl: «È un colpo mortale all’Opera, ma anche alla cultura a Roma e in Italia. L’unica strada sembra riunirsi in cooperative, di fatto smembrando l’orchestra e il coro, e permettendo al Teatro di scegliersi i lavoratori. Non si possono esternalizzare i servizi artistici». «Che ci fanno oltre 280 tecnici e amministrativi al Teatro? In tutto ci sono circa 470 assunti a tempo indeterminato e solo 180 formano l’orchestra e il coro», dice Marco Piazzai, primo trombone dell’orchestra e sindacalista Fials-Cisal. «Parliamo di persone che guadagnano 1800-1900 euro al mese per il coro e 2000-2100 euro per gli orchestrali. Ho dato arte e amore al Teatro dell’Opera, sento un macigno sulle spalle». Ma il commento più duro viene da Massimo Cestaro, Cgil: «Da tempo è in corso una strategia di smantellamento delle istituzioni culturali. Oggi è la fine del valore della produzione, della ricerca, della sperimentazione. Reagiremo contro questa scelta sciagurata con l’auspicio che tutti abbiano compreso la posta in gioco».[s.c.]

Repubblica 3.10.14
Gli orchestrali
Lacrime e sconforto “Un’operazione folle”


ROMA Stupiti, allarmati, bastonati con il pensiero incastrato in quella parola: licenziamenti. La notizia è arrivata agli orchestrali quando col frac in mano e lo strumento in spalla si stavano preparando per andare in teatro, poco prima del balletto, La Cenerentola, replica per la festa dei nonni. «Siamo qui increduli, ma faremo il nostro lavoro in buca come sempre... se qualcuno non si suicida prima, lo spettacolo si fa e va avanti», è l’amara battuta di un violinista.
Mezz’ora prima dello spettacolo la notizia dell’esito del Cda fa il giro di bocca in bocca: lacrime, sconforto, c’è chi parla al telefono con la moglie o il marito per spiegare e provare a tranquillizzare, chi fuma sigarette una dietro l’altra, chi discute con rabbia. Ai giornali parlano anonimi. «Lo sa che il sovrintendente ha mandato provvedimenti a chi ha rilasciato dichiarazioni? Non possiamo parlare, dobbiamo chiedere il permesso a lui. Siamo a questo». L’unica che può farlo, Lorella Pieralli, artista del coro, sindacalista della Fials, che con la Cgil ha indetto gli scioperi nei mesi scorsi, si limita a dire: «L’operazione folle annunciata oggi (ieri, ndr) equivale a dire che per salvare l’Italia dobbiamo cacciare gli italiani. Uno ha già salutato e si chiama Riccardo Muti».
«Ma conviene fare una cosa simile?» è la domanda che serpeggia in buca. L’orchestra che improvvisamente si vede catapultata in una dimensione imprevista, potenzialmente licenziata, è arrabbiata. «È un senso di perdita, sofferenza, smarrimento che si prova, ma anche rabbia, sì — dice una tromba — perché lo hanno fatto al di fuori di ogni termine di legge, si arrogano diritti che non hanno». E un altro orchestrale: «Ma che stato fascista è? Prima decidono che l‘articolo 18 si può cancellare e poi senza nemmeno aspettare 24 ore ci licenziano tutti. Bella roba. Oggi è toccata a noi, domani toccherà ad altri. Adesso fanno come gli pare, che tutela ho io a cinquant’anni?».
(a. b)

Repubblica 3.10.14
Il sindacalista
“Così son buoni tutti ma i teatri non sono centri commerciali”
di Anna Bandettini


ROMA «QUESTI sono matti, usano l’Opera di Roma come prototipo, per poi estendere provvedimenti simili agli altri teatri. È un passo indietro per la cultura del paese». Silvano Conti è coordinatore nazionale della Slc-Cgil, il sindacato che non ha accettato il piano di rientro di Fuortes, il quale li accusa di essere la causa dell’addio di Muti. «Basta con queste baggianate — sbotta — La verità è che le fondazioni liriche vengono distrutte da un certo Salvo Nastasi, direttore generale dello Spettacolo: cambiano i governi e lui è sempre lì. E da Carlo Fuortes. Altro che manager: chiudiamo e riassumiamo con cooperative esternalizzate... Son buoni tutti ».
Voi che parte avete in questa situazione?
«Se uno, come Fuortes arriva col preciso compito di avvelenare i pozzi, che mediazione vuoi fare? Chiedere un organico dimensionato a un teatro d’opera serio è uno scandalo? Chiedere che il piano industriale arrivi entro il 30 settembre come dice la legge e non alla fine dell’anno quando si rischia la liquidazione coatta è uno scandalo?».
Sì, se lo fate con scioperi e assalti nel camerino di Muti «Questa è la propaganda di Fuortes. Lui è arrivato a Roma con questo piano già pronto».
Come si salvano l’Opera e le fondazioni in crisi per voi?
«Con la stabilità occupazionale e la produttività».
Ma chi paga? Soldi non ce ne sono più.
«Lo Stato deve garantire con denaro pubblico la cultura. Sono anni che tagliano, ma mai una legge di sistema per lo spettacolo dal vivo. Solo leggi mirate alla ristrutturazione. Franceschini e Nastasi credono che i teatri siano centri commerciali e, al posto dei sovrintendenti, ragionieri come Bianchi e commercialisti come Fuortes».
Fuortes non vi va giù.
«A Bari ha già fatto quello che sta facendo qui e sono tutti incazzati: concorsi per orchestrali a tempo determinato che non si possono fare, consulenze, 2 milioni di buco e una programmazione che sforava di 3, tanto che hanno dovuto tagliare. Qui a Roma ha promosso anche chi non aveva titoli scolastici. Noi gli abbiamo chiesto un piano industriale: a Bologna hanno redatto un dossier, a Firenze una cosa articolata, qui una mezza paginetta dove si parla solo di pensionamenti. Ma via...».
Ancora scioperi?
«La risposta sarà forte. Il 6 c’è un coordinamento unitario, decideremo. Daremo tutela anche giuridica ai lavoratori. La legge Bray 112 parla di riduzione di organico fino al 50 per cento nei reparti tecnici e amministrativi non di masse artistiche. E invece sono partiti da lì. Lo faranno anche con altri teatri è chiaro, ma noi non ci stiamo. La partita è lunga non finisce qui».

Repubblica 3.10.14
L’orchestra non suona più
di Francesco Merlo


SE IL liberalismo è questo, allora era meglio il socialismo. Rischiano infatti, i 92 orchestrali e i 90 coristi di Roma licenziati per rappresaglia dal sindaco Marino, di essere per l’Italia di Renzi quel che i minatori furono per l’Inghilterra della Thatcher. Non che sia sbagliata l’idea di far penetrare il mercato nella stonata corporazione del Golfo Mistico.
Il teatro dell’Opera
EQUINDI di fare gareggiare i professori d’orchestra con il merito, di farli competere fra loro per guadagnarsi il posto che oggi invece è assicurato dalla Cgil. Ma sono miserabili la vendetta politica e lo scaricare solo su di loro il disastro dell’Opera, che non è musicale ma economico — trenta milioni di buco — , è manageriale, politico, di cattiva amministrazione e di gestione clientelare scombicchierata, con un pubblico che mai si stringe attorno al suo teatro come succede non solo a San Pietroburgo e a Londra, ma anche a Milano e soprattutto a Napoli.
Viene offerto, questo mucchio selvaggio di musicisti, come carne sacrificale non al Jobs Act, al riformismo laburista del mercato del lavoro, ma al più odioso e coriaceo populismo italiano. Li hanno donati alla rabbia diffusa del «dovrebbero cacciare tutti a calci nel sedere» quando a Fiumicino scioperano i piloti; allo spasmo plebeo della contumelia quando dal lavoro si astengono i tassisti, e così gli infermieri, i giornalisti, i professori, insomma quando scioperano … gli altri, che sono sempre «braccia rubate all’agricoltura», e «se dipendesse da me ci metterei la bomba», e «in galera vi mando». E, come al solito, nella demagogia del decisionismo di pancia, c’è sempre l’ombra di Mussolini, dei trentaseimila ferrovieri licenziati in un colpo solo perché «basta con lo Stato postino e ferroviere». Dunque ieri il sindaco, che è per statuto il presidente del teatro, e il sovrintendente Fuortes e il ministro Franceschini sono riusciti nell’impresa, che sembrava impossibile, di trasformare gli odiosi, intollerabili privilegiati dell’Opera di Roma nei bastonati, nei reietti, nelle vittime di quelle squadracce del malumore che subito si sono scatenati, non solo sul Twitter, «era ora», «evviva, il primo trombone non è d’accordo!», «andate a casa, maledetti». Ed è allegretto con brio il ritorno in scena, a fianco — nientemeno — della Cgil, dell’empio Alemanno che ai suoi tempi era riuscito a svuotare le casse peggio ancora degli altri, e a riempire le scene di clienti sino a creare il doppio ruolo: due direttori amministrativi, due capi ragionieri, tre avvocati … e persino due bar, uno chiamato “champagneria” per dare sfogo ai semivip smandrappati di Dagospia, raccolti in Cafonal dall’Associazione Amici del teatro dell’Opera guidata dalla mitica Silvana Pampanini.
Nella veste dei tagliatori di teste — «faremo un cosa che in Italia non è mai stata fatta» — sembravano ieri, Marino e Fuortes in conferenza stampa, due innocenti orgogliosi: «Siamo i primi, diventerà un esempio». Come se il crac della musica e più in generale della cultura a Roma non dipendesse soprattutto da loro, e come se Muti non fosse scappato anche da loro. Il direttore in fuga non ha parlato né di orchestra né di sindacati, ma di un clima, di una mancanza di serenità, di condizioni non più felici che non è possibile attribuire a un solo colpevole. Anche il suo silenzio di oggi è un momento di questa musica. La vigliaccheria non gli appartiene, anzi è l’impeto meridionale che talvolta ne ha ridimensionato la magnificenza artistica. Muti conosce l’Opera di Roma e sa bene che ci sono competenze che non si inventano. Non è vero, per esempio, che i grandi teatri del mondo hanno orchestre usa e getta, dall’Opera di Parigi, al Covent Garden, al Metropolitan di New York. Ce n’è solo qualcuno che, con l’eccezione di Madrid, non è però di “serie A”, come il modesto Chatelet citato da Fuortes. Nei due grandi teatri lirici di Vienna e Berlino, ieri evocati a sproposito, l’assetto aziendale è quello tradizionale dei dipendenti fissi, a contratto. Proprio ieri Dominique Meyer, sovrintendente dell’Opera di Stato di Vienna ha confermato che «solo quelli piccoli che non prendono soldi dallo Stato lavorano invece con ingaggi di volta in volta». E diciamo la verità: solo al sindaco Marino poteva venire in mente di annunziare con l’enfasi della genialità che avrebbe sostituito Muti con una donna a prescindere. E ha fatto i nomi di tre bacchette rosa, come se la demagogia di genere potesse irrobustire quei talenti ancora fragili che un gentiluomo non avrebbe mai dovuto esporre all’ordalia del paragone con Muti. Certo, abbiamo già scritto degli assalti al camerino del maestro, delle assemblee nelle pause, della furbizia nazionale dei certificati medici per non andare in tournée. E l’Italia, che ha riso dell’indennità frac e del risarcimento per gli spifferi, ha invidiato quel primo violino che lavora 62 giorni ed è pagato per 180.
Ma bene si capiva ieri che Marino e Fuortes volevano suonare la nota dell’abolizione dell’articolo 18. E invece hanno finito con lo sporcare quella necessaria riforma civile. È infatti raccapricciante l’idea che la via italiana al liberalismo sia quella dei licenziamenti di massa, delle vendette, delle purghe, delle pulizie etniche di intere categorie, per quanto odiose esse siano. L’Italia è un arcipelago di isole ingovernabili, come e peggio dell’Opera di Roma, dalla Rai all’Inps, dalla Sanità ai Musei. E si potrebbe continuare illustrando gli infiniti privilegi corporativi spacciati per diritti sindacali. Ma se la soluzione fosse davvero quella di Marino e Fuortes, «alla prima che mi fai ti licenzio e te ne vai», allora … arridatece i Soviet.

Corriere 3.10.14
Divorzio, tempo di regole chiare
di Barbara Stefanelli


Il doppio movimento di riforma del divorzio può apparire confuso e poco organico. Ma nuove regole servono: e non si cerchi in una legge del 1970 un argine alle crisi matrimoniali

Il pacchetto prevede volo a Bucarest, affitto di un monolocale, residenza in Romania, avvio della pratica. Circa sei mesi e 4.000 euro dopo, si rientra in Italia e si deposita l’atto. Lo chiamano «turismo divorzile»: la risposta a una legge, la 898 del 1970, che non riesce più a fare da timone a una società mutata. Per questo è partito un (doppio) movimento di riforma. Ci sono due provvedimenti che vogliono riscrivere la disciplina di fine matrimonio. Il primo è un disegno di legge, ora all’esame del Senato: riduce da tre anni a uno il periodo di separazione che legittima la domanda di divorzio (a 6 mesi se consensuale). Il secondo è nel decreto di riforma della giustizia civile: tra gli articoli pro semplificazione, compare una norma che permette la «negoziazione assistita» extragiudiziale — se c’è accordo, non ci sono figli minori o disabili, in assenza di controversie patrimoniali. In sintesi: l’intesa può essere formalizzata da un avvocato o da un ufficiale di stato civile. L’Italia si ritroverebbe così con una delle procedure più sbrigative d’Europa. Anche se, aspettando il Senato, resterebbero poi i tre anni di «pausa di riflessione» previsti dalla 898/70. Un’asimmetria che il Pd sta pensando di risolvere travasando nella conversione del decreto sulla giustizia civile l’intero testo di legge sul divorzio breve. Tutte le norme — quelle «fai-da-te» e quelle sui tempi — andrebbero a costituire una revisione robusta di come in Italia si chiude un matrimonio. L’obiezione, sostenuta da Ncd, è che questo blitz normativo possa «precarizzare il vincolo coniugale e l’istituto familiare». Ma la sensazione è che abbia poco senso attribuire a una legge, vecchia di quasi mezzo secolo, il compito di fare da argine alle crisi di coppia: nuove regole per tagliare tempi e costi servono. Certo, resta il dubbio che si stia approdando a una rivoluzione in modo confuso, a balzi. Ci sono aspetti critici — il ruolo degli avvocati una volta sospeso il vaglio giudiziale, la divisione tra famiglie di serie A (con figli) e B (senza figli) — che avrebbero meritato una riforma monografica e completa.

Repubblica 3.10.14
Hong Kong, sesto giorno di protesta
Pechino contro gli studenti: "Destinati alla sconfitta. Le loro rivendicazioni non sono legali né ragionevoli“

qui

Repubblica 3.10.14
l governo apre agli studenti: “Trattiamo” Ma i falchi: “Repressione”
L’amministratore Leung Chun-ying “Non mi dimetto, ma discutiamo” Prime sanzioni su turismo e commercio
di Giampaolo Visetti


HONG KONG IL SOGNO cinese resiste al sogno occidentale e a Hong Kong questa notte tutti accettano scommesse su chi vincerà lo storico scontro, che supera la dimensione dell’ex colonia inglese, ricomprata da Pechino diciassette anni fa. La gente muore dalla voglia di puntare perché nessuno ora può dirsi certo del futuro e perché il destino delle proteste democratiche promette di consumarsi non prima di ore, o magari di settimane. Ciò che succede, a undici giorni dall’inizio degli scioperi studenteschi, non è mai abbastanza per nessuno: questo è il problema, oltre che capire se il tempo scorra in favore del governo filo-cinese, o in soccorso dei manifestanti in rivolta contro repressioni e legge elettorale truffa.
L’ultimatum degli studenti che pretendono le dimissioni di Leung Chun-ying sta per scadere, quando il chief executive, terreo, appare improvvisamente in tivù. Manca poco a mezzanotte e l’annuncio è secco. «Non mi dimetto — dice — ma sono pronto a dialogare con gli studenti, che si stanno dimostrando ragionevoli, per discutere di riforme costituzionali ». Accanto a lui c’è Carrie Lam, zarina del governo, incaricata di organizzare un vertice con i portavoce delle tre anime dei manifestanti: Occupy Central, Federazione degli studenti e Scholarism. Nessuna scadenza, ma la rottura del silenzio, tra sfida e apertura, disorienta la piazza pronta all’assalto.
Migliaia di ragazzi circondano il palazzi governativi e il quartier generale della polizia, ad Admiralty. Il potere della metropoli è sotto assedio. Strade bloccate e cordoni umani per impedire il funzionamento degli uffici, o l’arrivo di rinforzi per gli agenti, di nuovo in assetto anti-sommossa e armati di lacrimogeni. Gli assalti e le occupazioni degli edifici pubblici, prospettiva che aveva elettrizzato i teenager e terrorizzato i più attempati attivisti di Occupy Central, vengono sospesi in extremis. Come attaccare, quando il potere offre un pur non credibile confronto? Il capo della polizia, nel cortile di Tim Wa Avenue, legge un comunicato: «Se qualcuno tenterà di occupare uffici pubblici, risponderemo con la massima fermezza. Disperdetevi immediatamente, o ci saranno gravi conseguenze». La sfida a “689”, soprannome affibbiato al «fantoccio di Pechino» in ricordo della risicata maggioranza conquistata due anni fa tra gli stessi 1200 lobbysti del partito, è sufficiente a scatenare anche la leadership cinese, ormai padrona delle sorti sia degli amici che dei nemici. Assediare i palazzi del potere equivale a sequestrare chi si trova all’interno e oggi 3 mila funzionari dovrebbero tornare al lavoro. «Nessuno Stato di diritto — tuona il ministro degli Esteri Wang Yi — può tollerare violazioni di legge e ordine pubblico da parte di una minoranza che condanna la città al caos».
Leung Chun-ying, pressato dal comunità del business, spinge per il confronto, contando di logorare le proteste. Pechino esige invece la linea dura e ammassa nell’arcipelago soldati e poliziotti: teme l’estensione della rivolta a Macao, un nuovo scoppio di ostilità a Taiwan, il contagio democratico nel resto della nazione. I falchi reclamano uno «sgombero esemplare», già nella notte. «Nel 1989 — dice Barry Cheung, braccio destro di CY Leung — l’Urss implose dopo che Mosca lasciò insorgere Berlino Est».
Il governo comunista tenta l’ultima mediazione, ma non aspetta che il minimo pretesto per dirsi costretto a «ripristinare la legalità». Gli studenti accampati sotto l’ufficio del governatore, disarmati ma con le mascherine anti-gas sulla bocca, lanciano l’allarme: «All’alba la polizia caricherà coi manganelli». Da Pechino piovono contro Hong Kong anche le prime sanzioni. Il partito blocca tutti i tour turistici organizzati verso l’ex Victoria, paradiso dello shopping. È la “settimana d’oro” che festeggia la repubblica di Mao, le ferie cinesi sull’arcipelago valgono 10 milioni di euro. Turismo e commercio rappresentano il 10% di un Pil da mille miliardi all’anno. Il primo stadio dell’isolamento economico, teso a spaccare la popolazione, è un colpo basso. Tra Wan Chai e Causeway si concentrano i negozi più esclusivi del mondo. Anche oggi sono semivuoti, come hotel e ristoranti, e un certo nervosismo serpeggia pure tra i genitori degli studenti insorti. Hong Kong è la terza Borsa del pianeta e alla riapertura i mercati temono una fuga di capitali verso Singapore. Nei quartieri bloccati spuntano poi “volontari” filocinesi, impegnati a seminare sconforto. «Cosa pensate di ottenere — chiedono ai manifestanti — volete distruggere il benessere di tutti? Trentamila contro sette milioni?».
La censura si fa sempre più oppressiva, i giovani armati di smart-phone scoprono applicazioni trappola dello spionaggio e la capitale del Sud scompare totalmente dei media nazionali. Hong Kong sa di essere Cina, sa che un regime non può concedere un onesto voto a suffragio universale, ma il ricatto del consumismo è uno shock ancora più violento. Da una parte vetrine scintillanti, moda, lusso, champagne, aria condizionata e bellezza, dall’altra tende in strada, tshirt sudate, biscotti, acqua, un’afa bollente, stanchezza. Chi anima oggi tale secondo mondo appartiene al primo e nessuno conosce bene come i comunisti il richiamo irresistibile degli agi capitalisti. Quanto resisteranno i giovani democratici figli del benessere? «Non più di dieci giorni — dice Regina Ip, funzionaria del governo rosso — poi dovranno tornare a scuola, a lavorare, a consumare, a divertirsi, a farsi la doccia».
Gli oppositori per adesso non cedono alle provocazioni della propaganda e temono, più della cariche, lo scontro sociale. «Il governo di Leung — dice il fondatore dei democratici, Albert Ho — finge di trattare per mettere figli contro padri, studenti contro professori, valori contro interessi, libertà contro business. Il lavaggio del cervello oggi è più pericoloso dei proiettili di gomma». La realtà però è che la “rivoluzione degli ombrelli” ruba la scena ad Occupy Central e che l’irruenza degli studenti oscura la prudenza gli intellettuali. Una rivolta senza leader per opporsi ad una dittatura leaderistica è una novità affascinante, ma può infine risultare fatale. Per questo ai ragazzi di Hong Kong innamorati di ciò che credono sia la democrazia, mentre sorge un altro giorno sospeso non resta che invocare «il sostegno del mondo». Hanno ragione, solo l’Occidente li può salvare. Il problema è che Pechino lo sa: e che ciò che si definiva Occidente, per la Cina, non esiste più.

La Stampa 3.10.14
Hong Kong, la lotta si decide sui cellulari
Il movimento comunica aggirando il Web, ma Pechino infetta gli smartphone per “schedare” i manifestanti
di Ilaria Maria Sala


Sono ore particolarmente tese a Hong Kong. Gli studenti che occupano le strade per chiedere il suffragio universale alla Cina avevano dato a Chun Ying Leung, il Capo dell’Esecutivo di Hong Kong, un ultimatum: se non si fosse dimesso avrebbero occupato gli uffici governativi. Da Pechino, un editoriale del «Quotidiano del Popolo» non aveva fatto nulla per calmare gli animi, promettendo anzi «conseguenze inimmaginabili» se gli studenti non avessero sgomberato le strade.

Quello di Occupy Central è un movimento con pochi leader. Si muove in modo disciplinato ma indipendente e le duecentomila persone in piazza in questi giorni agiscono di concerto affidandosi a tutti gli strumenti possibili per comunicare. E se Twitter aveva aiutato le Primavere arabe nel 2012 ora a Hong Kong ci sta pensando FireChat. Nelle ultime 24 ore oltre 100 mila persone a Hong Kong hanno scaricato sui loro smartphone l’applicazione per scambiare messaggi. FireChat si appoggia a Bluetooth e può mandare messaggi a 70 metri di distanza anche senza connessione Internet - spesso molto irregolare nelle zone della protesta. Ma, diversamente da Telegram, che manda messaggi criptati, i messaggi di FireChat sono pubblici. E il moltiplicarsi di malaware che prendono di mira proprio gli smartphone degli studenti fa pensare che qualcuno stia cercando di mettere i bastoni fra le ruote al Movimento degli Ombrelli.
Quel qualcuno sarebbe Pechino. Secondo il «New York Times» il governo cinese starebbe spiando i ragazzi scesi in piazza tramite una falsa App per smartphone. La scoperta è stata fatta dai ricercatori della Lacoon Mobile Security, un’azienda specializzata in sistemi di sicurezza informatica. In quello che si è rivelato essere un «phishing attack» (una tecnica finalizzata a carpire informazioni personali), gli utenti di smartphone di Hong Kong hanno ricevuto un link su WhatsApp per scaricare un software, insieme a una nota: «Guardate questa app Android disegnata da Code4HK per il coordinamento di Occupy Central!». Peccato che Code4HK, una comunità di programmatori che sostiene il movimento per la democrazia, non aveva nulla a che fare con l’applicazione.
Secondo Michael Shaulov, amministratore delegato di Lacoon, ci sono chiari segnali che riconducono al governo cinese. Chi ha lanciato l’app-spia ha la possibilità di accedere ai dati personali degli ignari utenti, come password e informazioni bancarie, spiare telefonate e messaggi e avere continua traccia della posizione fisica dello smartphone infettato.
Tra la paura di possibili «schedature» e l’attesa della reazione del capo del governo ieri per le strada di Hong Kong la tensione ha continuato a salire, riducendosi solo quando si sono presentati il vice-rettore dell’Università, Mathieson, e il rettore dell’Università Cinese di Hong Kong, venuti a sostenere gli studenti e chiedendo loro di non correre rischi. Sono stati accolti come eroi: i primi adulti appartenenti a istituzioni importanti a scendere in campo a fianco degli studenti.
Joshua Wong, il leader di Scholarism, 17 anni, in uno dei suoi discorsi appassionati, ha detto: «Abbiamo fatto la Storia. Non voglio che nessuno di noi si faccia male», cercando di convincere i suoi compagni che una ritirata strategica non era da considerarsi una sconfitta. Un gruppo di pastori e preti si sono avvicinati, in fila davanti alle barricate, dicendo che avrebbero protetto gli studenti. Poi, a mezzanotte, la conferenza stampa di Leung: «Non mi dimetto - ha detto -, ma invio la mia vice, Carrie Lam, a parlare con gli studenti e studiare con loro il progetto di riforma elettorale. La polizia non caricherà se gli studenti si manterranno pacifici». Un contentino, un nulla, che è bastato comunque a far tirare un respiro di sollievo. La Rivoluzione degli Ombrelli di Hong Kong non vuole avere martiri. Nessuno scontro, né disordini, ma oggi i giovani saranno ancora per le strade della città.

La Stampa 3.10.14
Se Internet diventa mezzo di controllo
di Gianluca Nicoletti


La febbre cinese per la FireChat come strumento di rivolta è paradossale. Il Bluetoothing nasce una decina d’anni fa per intercettare disponibilità erotica tra la folla o in tram. Ora si ripropone come alternativa ai social media per una guerra antichissima tra potere e dissenso.
È tramontata l’idea che Internet possa ancora essere considerato uno strumento geneticamente antagonista, bisognerebbe riflettere su quanto ancora si possa parlare in questi termini del più grande intercettatore di ogni nostro pensiero, espresso o solo accennato.
Ecco quindi che quando un regime decide di usare le maniere forti Internet non serve più, anzi diventa persino uno strumento inquisitorio e poliziesco per chi non ne conoscesse le vie esoteriche per sfuggire al grande controllore.
Consapevoli di questo i ragazzi di Hong Kong hanno optato per il download di massa dell’app che può permettere di scambiarsi messaggi anche senza accesso al web. Naturalmente FireChat è efficace solamente in una situazione di spazi aperti.
Come però è stata lanciata via Facebook una possibile via di fuga post blackout, subito è partita la controffensiva di Stato. Così per qualcuno avere scaricato l’ app corrisponderà a una schedatura come sovversivo. Ammesso che a Hong Kong arrivi l’ora x, e solo con FireChat si possa comunicare a distanza, ogni smartphone disporrebbe solo del Bluetooth per collegarsi ad altri dispositivi nel raggio di 70 metri, immaginiamo che in questo spazio i margini di fuga siano ristretti se il conflitto degenerasse, con il concreto rischio che a ricevere il messaggio non sia un compagno di lotta ma un poliziotto. È per questo forse consigliabile l’uso FireChat come espediente d’acchiappo piuttosto che come supporto di guerriglia.

Repubblica 3.10.14
Lo scenario. I controlli nel web
Social oscurati e app anti-cortei così la censura spegne la rivolta
di Fabio Chiusi


DIFFICILE prevedere che avrebbe assunto le fattezze di masse sterminate di manifestanti raccolti nei gangli di Hong Kong sotto ombrelli colorati, ma l’incubo dei censori cinesi era ben noto. Non ogni critica al governo di Pechino, come sostengono da tempo — studi empirici alla mano — il docente di Harvard Gary King e colleghi, ma quelle che possono portare ad “azioni collettive”. A una “primavera” di richieste democratiche, insomma, sulla scia di quella che ha sconvolto il Medio Oriente nel 2011. E sotto gli occhi del mondo intero, dato che come scrive Emily Parker sul New Yorker, «nell’era dei social media le proteste non sono più locali».
Per King sul web cinese «il bersaglio della censura sono le persone che si ritrovano per esprimersi collettivamente », e quanto sta avvenendo in queste ore non fa che confermare. Con oltre 2,3 milioni di tweet prodotti a partire dal 27 settembre, e un picco di 700 cinguettii al minuto, non stupisce la macchina della repressione online si sia attivata come mai prima d’ora per fermare “Occupy Central”. Instagram è inaccessibile da sabato scorso, dato che è lì che circolano le immagini della rivolta nata dagli studenti e tracimata a larghi settori dell’opinione pubblica. Weibo, l’analogo cinese di Twitter, è un campo di battaglia e i dati prodotti dal progetto di monitoraggio del Journalism and Media Studies Centre dell’Università di Hong Kong, Weiboscope, dicono che mai prima d’ora erano stati censurati tanti contenuti: da 32 post su 10 mila il giorno prima dell’inizio delle proteste si è passati al triplo il giorno successivo, fino a raggiungere quota 152 domenica 28 settembre. Servizi di messaggistica come WeChat, sostiene il ricercatore David Bandurski al New York Times, sono perfino più efficienti, ma qualche messaggio filtra ugualmente. Merito delle strategie adottate da tempo dagli attivisti in rete: usare la traduzione inglese di parole proibite come “xianggang” (Hong Kong) e “zhanzhong” (Occupy Central), o ricorrere a stratagemmi creativi come quelli messi in atto a ogni anniversario di Tienanmen, in cui il 4 giugno diventa il “35 maggio”. I censori, più spesso in carne e ossa che rigide righe di codice, si adeguano presto, e la libera espressione diventa una gara di abilità per mantenere in vita o reprimere le ricerche vietate. Come sempre a Pechino, alla censura si somma la sorveglianza. Scrive il South China Morning Post che circola anche un software malevolo per Android mascherato da applicazione ufficiale dei manifestanti. Diffusa tramite messaggi inviati da un numero sconosciuto via WhatsApp, e presentata come indispensabile per coordinare le proteste, serve in realtà a ottenere accesso ai contatti dei manifestanti, ai messaggi di testo, allo storico delle chiamate e delle ricerche online e alla loro localizzazione. Lo stesso sarebbe avvenuto secondo Lacoon Mobile Security per i telefonini Apple, anche se diversi ricercatori ne dubitano e le prove di un effettivo utilizzo non ci sono. Se non bastasse, gli attivisti anti-censura di Greatfire.org denunciano anche attacchi ai danni di Yahoo — secondo quanto riferito a Mashable da un membro del collettivo, originati dalle autorità cinesi.
L’obiettivo di quello che in gergo è chiamato “attacco man-in-the-middle” sarebbe vincere le protezioni crittografiche garantite dal colosso di Sunnyvale, e bloccare termini di ricerca e link sgraditi. Se a tutto questo si aggiungono i ripetuti black-out delle reti mobili riportati nei dati di Google Transparency e nelle denunce di svariati utenti, si comprende come i manifestanti abbiano cercato un modo alternativo di comunicare, che non dipendesse dalla connessione a Internet. Oltre 100 mila in poche ore l’hanno trovato nell’applicazione FireChat, che consente di creare una rete “mesh”, ossia decentralizzata (peer-topeer), indipendente dalla connettività di rete (basta il Bluetooth) e più resistente al crescere della concentrazione fisica degli utenti — ideale per un luogo come Hong Kong, dove infatti secondo Frederic Jacobs, su Bellingcat, sta funzionando meglio che altrove. Da non sottovalutare tuttavia i limiti: i messaggi non si possono scambiare che a poche decine di metri di distanza, non c’è cifratura (quindi nessuna conversazione è realmente privata) ed è semplice per le autorità tracciare chi la sta usando.

Corriere 3.10.14
Jordan, l’americano che combatte con i curdi siriani contro l’Isis
Le parole a un amico: «Ho lasciato la mia ragazza e ho smesso di cercare lavoro»
Voci su dozzine di ex soldati Usa che avrebbero fatto lo stessa scelta

di Guido Olimpio
qui

Repubblica 3.10.14
Perché i raid non fermano il Califfo sanguinario
di Bernardo Valli


IL PELLEGRINAGGIO alla Mecca avviene in un momento di grande tensione nel mondo musulmano. Il frammento zelante, almeno un milione del miliardo e mezzo di uomini e donne appartenenti all’Islam, che si riversa in queste ore nella città santa in obbedienza al quinto dei pilastri prescritti dal Corano è inseguito dalle notizie del conflitto in corso nella valle del Tigri e dell’Eufrate. Dove si affrontano in una mischia micidiale sciiti e sunniti. La tenzone risale all’epoca della successione a Maometto, ma non è sempre un’ostilità con una netta impronta religiosa. Spesso ha le caratteristiche di una schietta lotta per il potere politico tra comunità avversarie. Nelle guerre di religione i confini sono tracciati dalla fede, limpida o fanatica; quelli tra gli avversari di oggi sono spesso zigzaganti, frastagliati. Mobili. Capita infatti che le alleanze cambino secondo le situazioni.
TORMENTA i pellegrini della Mecca il fatto che a rendere rovente lo scontro, fino a trasformarlo in una carneficina, sia la nascita dello « Stato islamico », autoproclamatosi califfato, quindi con alla testa un califfo che si considera il successore del Profeta. L’avvenimento accende passioni: esalta, crea diffidenza, ripugna. Chi è quel califfo? Un apostata ? Un millantatore ? Un capo religioso e al tempo stesso un combattente come ce n’era un tempo ? Uno che sfida l’Occidente infedele fonte di tante frustrazioni ? Un terrorista, un tagliateste di cui vergognarsi ? In queste ore, mentre sciiti e sunniti si confondono, avvolti nell’identica tunica senza cuciture come vuole la regola, attorno alla Kaaba, il cubo sacro della Mecca, non è poi tanto azzardato immaginare che nelle loro teste, tra preghiere e giaculatorie, frullino quegli interrogativi.
Impossibile ovviamente precisare con quale intensità. Ma possiamo essere certi che la piaga riapertasi tra l’Iraq e la Siria, come a significare un ritorno a secoli crudeli, accende nel mondo musulmano tormenti molto più intensi dei timori che assalgono noi occidentali. Loro vi sono immersi, noi paventiamo rigurgiti nelle nostre contrade. Per rendersene conto basta uno sguardo all’ampio campo di battaglia tra la siriana città di Raqqa e quella irachena di Falluja. Le potenze occidentali più ardite, Stati Uniti in testa, intervengono soltanto con incursioni aeree, si guardano bene dal mandare soldati a terra. Dopo Afghanistan e Iraq, l’America ne ha abbastanza. Le stesse cinque nazioni arabe partecipanti alla grande coalizione (Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Emirati Uniti, Giordania) hanno la stessa reazione, sia pure per altre ragioni. Si limitano a mandare caccia e bombardieri. Niente fanteria. E nell’annunciare le loro azioni adottano toni lapidari. Poche parole. O addirittura il silenzio. Il Qatar non ne ha fatto parola. È come se i cinque monarchi non volessero farlo sapere ai loro sudditi. Non desiderassero turbarli. Hanno aderito all’invito di Barack Obama, non potevano fare una sgarbo alla superpotenza, ma non se la sentono di esaltare un’operazione che li affianca agli occidentali contro dei musulmani. Il califfo usurpatore è sunnita come il re saudita e quello giordano (hashemita), e sunniti sono anche gli emiri, ma uniti lo combattono nonostante l’affinità religiosa perché è un apostata, perché è impresentabile, perché offende l’Islam con le sue decapitazioni e le sue esecuzioni di massa. Ma all’inizio, prima che lo Stato islamico diventasse un tumore, cioé troppo potente, quasi tutte le capitali oggi a fianco degli Stati Uniti hanno aiutato i movimenti islamici. Erano strumenti utili: si opponevano al regime di Damasco, dominato da Bashar el Assad, un alawita imparentato con gli sciti, e quindi alleato del regime iraniano. Il passato riversa nel presente ambiguità, incertezze, doppi giochi, intese segrete. E tanta paura. Lo Stato islamico fa proseliti nel mondo. Gruppi islamici in Africa, in Asia, in Europa che un tempo si richiamavano ad Al Qaeda, oggi si dichiarano seguaci dello Stato islamico.
Ma soprattutto appare evidente che il solo intervento aereo non ridurrà al silenzio le unità armate del califfato. In Iraq l’esercito nazionale stenta a ricomporsi dopo la grave sbandata di fronte alla prima offensiva jihadista. Delle cinquanta brigate formate dagli americani prima di lasciare il Paese, ne sono rimaste più o meno operative la metà. Per recuperare i disertori, ufficiali e soldati, ritornati in famiglia, il governo accetta che essi tornino impuniti nelle caserme. Ci vuole tuttavia del tempo per ricreare unità da impiegare sul fronte. E i jihadisti sono a un’ora di automobile da Bagdad. Inoltre molti soldati iracheni preferiscono le milizie sciite, spesso appoggiate, armate, finanziate dall’Iran, rivelatesi in più occasioni le sole capaci di affrontare i jihadisti a terra. A volte con l’appoggio («non concordato ») dell’US Air Force. Una situazione che lascia intravedere l’intesa non confessata tra iraniani e americani. In Siria non mancano gli uomini pronti a operare a terra. Non tutti i gruppi di opposizione al regime di Damasco sono jihadisti legati allo Stato Islamico. Ma gli americani non coordinano le incursioni aeree con le forze moderate a terra. E stando alle proteste di quest’ultime, mancando di informazioni, i bombardamenti non hanno per ora messo in difficoltà le truppe del califfato. Hanno colpito soltanto obiettivi secondari. Le incursioni su Raqqa, la »capitale» islamista, sono avvenute quando la città era già stata abbandonata dai guerriglieri.
Soltanto combattenti arabi, disposti a operare a terra, possono se non neutralizzare perlomeno circoscrivere le forze jihadiste che Barack Obama e i suoi alleati vorrebbero in un primo tempo arginare. Al Baghdadi, il califfo, è circondato da militari di carriera, disertori dell’esercito siriano oppure ufficiali del disperso esercito iracheno di Saddam Hussein. Uomini abituati a battersi senza un appoggio aereo e sotto i costanti attacchi dell’aviazione nemica. La guerriglia anti americana in Iraq dopo l’invasione del 2003 e la guerra civile siriana sono stati lunghi addestramenti. Conta altresì lo stato d’animo della popolazione. Le repressioni dello Stato islamico non attirano la solidarietà, ma non la suscitano neppure i bombardamenti aerei di stranieri, invisibili, lontani, e con effetti inevitabilmente micidiali anche per i civili, nonostante siano mirati.

Corriere 3.10.14
Netanyahu alla Casa Bianca e la pace lontana

«Come può Netanyahu parlare di pace e, allo stesso tempo, espandere gli insediamenti ebraici a Gerusalemme Est?». All’indomani della visita del premier israeliano alla Casa Bianca, un editoriale di Haaretz critica gli «slogan vuoti» di Netanyahu poiché il suo governo ha approvato «l’occupazione da parte di dozzine di coloni di sette edifici nel quartiere arabo di Silwan». «Un altro chiodo nella bara del processo di pace», afferma il quotidiano liberal israeliano, che ritiene che l’obiettivo sia «abbattere ogni chance di accordo tra Israele e i palestinesi»

Corriere 3.10.14
I lavoratori si svegliano anche in Asia

«L’idea che la sicurezza sul lavoro sia un diritto umano fondamentale si sta facendo strada anche in Asia meridionale», scrive sul quotidiano pachistano Dawn l’esperta Zeenat Hisam . Si tratta di Paesi «gravati da un concetto del destino che porta la gente a pensare che, se il tetto ti cade addosso, era scritto che tu morissi così». Ma oggi i lavoratori del Bangladesh sono un modello per i vicini: dopo 2.000 morti, dal 2005 al 2013, nelle fabbriche di abiti, chiedono tutele. Un accordo del 2013 tra sindacati e multinazionali sta offrendo più controlli. Ma lo Stato (gli Stati) dovrebbero fare di più.

Corriere 3.10.14
Usa e Israele, il gelo cortese (e la carta Iran)
di Francesco Battistini


Fra appuntamenti all’Onu e alla Casa Bianca, l’altra sera il premier israeliano Bibi Netanyahu è andato a cena a Manhattan, ha scelto un ristorante non kosher con menù di maiale e ha fatto arrabbiare gli ebrei ultraortodossi. Non è stato quello, però, il boccone più amaro del suo viaggio americano: i 40 minuti con Obama, due leader che si detestano come pochi, sono difficili da far digerire secondo la trita formula dell’«incontro costruttivo». Ha scritto Haaretz che per Obama incontrare Netanyahu è come andare dal dentista: probabilmente, viceversa. Guardando l’espressione dei due — con Barack che chiedeva a Bibi delle ennesime 2.610 case illegali a Gerusalemme Est («si può sapere qual è la tua visione della pace?»), con Bibi che paragonava Hamas all’Isis e avvertiva di non sottovalutare certi pericoli («anche il vecchio Kissinger l’ha capito») —, l’appuntamento ha avuto il pregio di chiarire almeno due cose: che il presidente Usa non s’aspetta più nulla dal governo di Gerusalemme, per lui chiaramente disinteressato a risolvere la questione palestinese; che il premier israeliano è ormai a zero nella capacità d’influire sulle scelte mediorientali degli Stati Uniti. Il problema è d’entrambi. Perché l’uno non può fare a meno dell’altro e tutt’e due nelle prossime settimane dovranno affrontare una questione che ora non sembra centrale, ma lo è: il nucleare iraniano. Dopo infiniti negoziati, il cosiddetto 5+1 (Usa, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia e Germania) potrebbe decidere a novembre se le centrifughe di Teheran abbiano o meno scopi pacifici. La risposta non è scontata: Teheran è il possibile playmaker d’una guerra all’Isis e un alleggerimento delle sanzioni basterebbe a Obama per convincere gli sciiti recalcitranti a impegnarsi contro i sunniti del Califfato. Questo teme, Netanyahu, di nuovo prigioniero della sua linea tutta difesa e insediamenti, senza concessioni: che sarà in grado di garantire la sicurezza, di battere avversari inconsistenti come Abu Mazen o di schiacciare militarmente Hamas, ma nel nuovo Medio Oriente è inadatta ad andare oltre la sopravvivenza politica. «Vincere oggi una battaglia con l’Isis significa perdere domani la guerra con l’Iran», ha detto Bibi a Obama. L’altro però lo stava già accompagnando alla porta.

La Stampa 3.10.14
Ghetto di Varsavia, nessuno voleva credere all’orrore
Parla uno degli ultimi sopravvissuti alla rivolta del 1943 che pubblica il suo diario di quegli anni: fu un ragazzino, scampato per caso a Treblinka, a innescare la scintilla
di Maurizio Molinari


«Un bicchiere di cognac?». Golf girocollo bianco, jeans blu e fisico asciutto, Simcha Rotem ci accoglie nel salotto della sua casa di Abu Tor da dove è appena uscito un drappello di soldati dei corpi scelti della Marina israeliana.
Sul tavolo basso, di legno, c’è l’omaggio che gli hanno lasciato: un cappello da ufficiale, con dentro cucita a mano la scritta «all’uomo che ha dedicato la vita a salvare il popolo ebraico».
Simcha Rotem, nato in Polonia nel 1924 con il nome di Szymon Ratajzer, è uno degli ultimi tre sopravvissuti della rivolta del ghetto di Varsavia ed è in arrivo a Roma per presentare il suo diario Il passato che è in me, uscito per i tipi di Salomone Belforte & Co. di Livorno, con introduzione di Anna Rolli e postfazione di David Meghnagi. La prosa tagliente riflette i ricordi, ancora vivi. «Era la fine del 1942», racconta, seduto in un salotto decorato con le opere della moglie Gina, anch’essa sopravvissuta alla Shoah. «Le deportazioni erano già iniziate e nel ghetto la discussione era su cosa fare, in molti non volevano credere all’intenzione dei tedeschi di ucciderci tutti. Poi arrivò il nostro primo testimone».
Era un ragazzo, suo lontano cugino. «Lo avevano preso in una retata, era finito su uno dei treni che andavano a Treblinka, che era un campo di pura eliminazione poco distante da Varsavia. Quando vi arrivò, esile come era, riuscì a fuggire dalla rampa, tornando dentro il vagone e quindi indietro, alla destinazione iniziale, sotto una montagna di indumenti tolti agli altri deportati». Fu questo ragazzo a raccontare ai giovani del ghetto l’«odore dei corpi bruciati, il fumo puzzolente che usciva dalle ciminiere e impregnava l’aria di morte». Poco dopo un membro del partito Bund, di nome Zygmunt, venne segretamente inviato sempre a Treblinka per confermare quanto il primo testimone aveva visto. Fu la prova incontrovertibile che lo sterminio era in corso e per il Zydowska Organizacja Bojowa (l’Organizzazione ebraica di combattimento guidata da Mordechai Anielewicz) segnò il momento di non ritorno verso la preparazione della rivolta, poi iniziata il 19 aprile 1943 con l’esplosione di una mina sotto una colonna di soldati tedeschi.
«Ma la tragedia fu che la maggioranza delle persone nel ghetto continuavano a non credergli, gli stessi genitori di mio cugino non gli credettero», ricorda Rotem, nome di battaglia Kazik, derivato dal polacco Kazimierz, dovuto al fatto che aveva un look da gentile e parlava polacco senza accento yiddish. Furono queste caratteristiche che, a 18 anni, lo fecero diventare la staffetta della resistenza ebraica, il cui compito era di creare passaggi attraverso le macerie del ghetto in fiamme e il muro di cinta per tenere i contatti con il comando esterno della rivolta e la resistenza polacca. Per questo, quando scattò l’attacco finale dei tedeschi contro le ultime postazioni dei ribelli, lui era fuori delle mura. Per due settimane tentò ogni notte di rientrare, ma senza successo. Quando infine vi riuscì, «emersi da un tombino in uno scenario spettrale, il ghetto non c’era più, sostituito da cumuli di rovine a perdita d’occhio, ogni punto di riferimento sparito: in quel momento pensai di essere l’ultimo ebreo in vita».
Nel tentativo di trovare superstiti «seguii un percorso fra le rovine gridando in continuazione la nostra parola d’ordine, ma fu il silenzio più assordante, rotto solo dalla voce di una donna rimasta intrappolata, con una gamba rotta». Rassegnato al peggio, Kazik tornò nel cammino sotterraneo. «Fu allora che sentii in lontananza un rumore, gridai la parola d’ordine e scoprii che c’era un intero gruppo che stava aspettando proprio me per sapere come uscire». Circa ottanta combattenti del ghetto - incluso Marek Edelman, nuovo comandante dopo la morte di Anielewicz - riuscirono così a lasciare Varsavia, passando attraverso i tunnel delle fognature, e una trentina di loro sopravvisse alla Seconda guerra mondiale.
«Quel che ho visto nel ghetto di Varsavia, però, non mi lascia mai», assicura il sopravvissuto, rosso di rabbia quando parla dei «neonati presi per i piedi e sbattuti contro il muro dai soldati tedeschi», oppure del «rifiuto degli americani di ascoltarci quando li pregammo di bombardare Auschwitz e distruggere almeno uno dei forni crematori». Ai tedeschi rimprovera di «averci tolto anche l’umanità». E per spiegare cosa intende, ecco quel che racconta: «Un giorno per strada nel ghetto sentii il pianto di un bambino, gettai lo sguardo, vidi che a fianco aveva la madre morta e andai via d’istinto. Ecco come ci avevano ridotto». Non usa mai il termine «nazisti», perché «non mi dice nulla, erano tedeschi e basta, bestie su due gambe».
La riflessione sull’origine di tale brutalità lo accompagna da allora, ma confessa di non essere riuscito a trovare risposte o spiegazioni sufficienti: «L’essere umano ha due gambe ma anche una bestia può avere due gambe, noi siamo esseri umani e i tedeschi erano bestie, la trasformazione degli uomini in bestie avviene in maniera impercettibile, immediata, devastante». E questa «genesi del male continua a essere fra noi, afferma, citando l’esempio delle brutali decapitazioni da parte di Isis in Iraq e Siria: «È la dimostrazione che ancora oggi può ripetersi ciò che avvenne allora, i tedeschi erano i più colti d’Europa e diventarono un popolo di bestie, così come i tagliatori di teste di Isis sono cresciuti in molti casi nelle città della pacifica Europa». Per difendersi da questa «orribile trasformazione dell’uomo», conclude, «bisogna combattere, sapersi difendere, non abbassare mai la guardia, come facemmo noi pur consapevoli di non poter vincere, e come fanno i giovani marinai israeliani che rischiano la vita per il popolo ebraico e mi hanno regalato questo cappello.

Corriere 3.10.14
La neutralità svizzera da una guerra all’altra
risponde Sergio Romano


Ho qualche domanda a cui vorrei che lei rispondesse. Può parlare della neutralità svizzera durante la Grande guerra? Come ha potuto starne fuori? Quale fu in quegli anni il ruolo del generale Ulrich Wille ?
Bruno Nunziati

Caro Nunziati,
Allo scoppio della Grande guerra, nell’agosto di cento anni fa, Wille fu nominato generale dal parlamento elvetico (nell’esercito svizzero i gradi non andavano oltre quello di colonnello) e divenne comandante in capo delle forze armate confederali. Era nato ad Amburgo nel 1848, aveva una formazione culturale tedesca, non nascondeva le sue simpatie per il Reich guglielmino e si era fortemente impegnato durante la sua carriera per introdurre nell’apparato militare dello Stato svizzero i principi e i metodi che erano stati sperimentati con successo dallo stato maggiore prussiano nel secolo precedente. Vi erano state polemiche con coloro che auspicavano un esercito di cittadini, nello spirito della Rivoluzione francese. Ma Wille, per la sua esperienza e autorevolezza, finì per sembrare indispensabile anche a coloro che avrebbero preferito un comandante meno ambizioso e filo-tedesco. Le loro preoccupazioni non erano infondate. Wille lasciò intendere più volte che avrebbe desiderato trascinare il Paese in guerra a fianco degli Imperi centrali e protesse un piccolo gruppo di ufficiali che aveva trasmesso informazioni riservate allo stato maggiore tedesco. La sua presenza al vertice delle forze armate ebbe così l’effetto di accentuare le divisioni di un Paese dove i cantoni latini simpatizzavano per la Francia e l’Italia, mentre quelli di lingua tedesca desideravano la vittoria dell’Austria e della Germania.
La sconfitta degli Imperi centrali sciolse i dubbi e dimostrò che la neutralità era stata la migliore delle scelte possibili. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale la Svizzera era culturalmente e materialmente preparata ad affrontare la nuova sfida. Voleva essere neutrale, ma aveva piani militari che le avrebbero permesso di difendere il cuore montano del Paese contro qualsiasi aggressione E aveva un comandante delle forze armate, Henri Guisan, che avrebbe dato prova di equilibrio e prudenza.
Un’ultima osservazione, caro Nunziati. La neutralità non è una categoria immutabile della politica internazionale e può essere praticata in modi diversi. Durante la Seconda guerra mondiale la Svizzera fu costretta a consentire che le sue banche facessero qualche concessione all’ingombrante vicino tedesco, ma riuscì a difendere la sua integrità e la sua indipendenza. Si astenne da qualsiasi intervento internazionale, ma fece una eccezione alla regola ospitando sul suo territorio i negoziati segreti per la resa delle truppe tedesche nell’Italia settentrionale, evitando in tal modo che la Lombardia e il Veneto diventassero, come altre regioni italiane, un campo di battaglia.

Repubblica 3.10.14
Se l’economia dei numeri minaccia la convivenza
Le parole del ministro Padoan rilanciano una questione che ha attraversato il ’900
Quali sono i contraccolpi di una lunga crisi sulla tenuta dell’ordine democratico?
di Giancarlo Bosetti


QUANDO dice che la tenuta della società è a rischio se non si mette subito mano a una manovra per la crescita, il ministro Pier Carlo Padoan sa di sfiorare la leva della estrema emergenza, sa di fare come chi avvicina la mano al bottone che scatena le sirene dell’allarme. Si tratta di una minaccia, non ancora di un fatto compiuto. Ma il senso di quelle parole è chiaro: o si comincia a risalire o si annega. Dietro le schermaglie europee sui parametri del debito e i tempi del rientro si affaccia un incubo sociale, il peggio è dietro l’angolo. Padoan è un economista collaudato nelle valutazioni macro e non proviene da una formazione strettamente keynesiana.
Ma sa che una crisi della coesione sociale è l’equivalente di un fallimento assoluto, per chi fa il suo mestiere. E per tutti noi con lui. L’equilibrio infatti è l’obiettivo degli economisti, i quali sanno pure che la crisi della «coesione» e cioè un collasso dei fattori che tengono in vita una società sono l’estremo male da cui ogni mossa di governo è tenuta a preservarci. La crisi del ‘29 insegna.
I requisiti della «tenuta» sociale sono parenti stretti di una gestione economica funzionante e sono fatti di occupazione, reddito, istruzione, sicurezza sociale, servizi sanitari efficienti e accessibili a tutti. La macroeconomia si è definita, in negativo, attraverso la catastrofica esperienza degli anni seguiti alla Grande Guerra. Allora, nel 1919, il promettente, prodigioso talento di Cambridge, che partecipava alle trattative di Versailles come delegato del Tesoro britannico, fu sconfitto e le clausole punitive nei confronti della Germania furono dure come le volevano soprattutto i primi ministri francese e britannico, Clemenceau e Lloyd George. Keynes abbandonò i lavori e scrisse di getto un’opera, Le conseguenze economiche della pace , che ebbe grande successo sul piano intellettuale, ma esiti politici purtroppo tardivi, solo trent’anni e molti milioni di morti dopo, con il Piano Marshall, che è stato il rovesciamento speculare della politica di Versailles, quella che aveva spinto la Germania nelle spire dell’inflazione e di Hitler.
Appresa la lezione — sostenere la crescita e la domanda, soprattutto nei paesi sconfitti —, l’economia europea e quella di tutto l’occidente attraversarono un luminoso periodo di stabilità, sviluppo industriale, aspettative crescenti, benessere e coesione sociale; un periodo definito di «compromesso socialdemocratico ». Un compromesso i cui contraenti erano le imprese, il capitale e «il mercato», da una parte, e il lavoro, i partiti, i sindacati dall’altra. Chi c’era ricorda anche violenti conflitti, ma il senso generale della storia era chiaro. In quei decenni benigni, ‘50, ‘60, ’70, i requisiti della «coesione sociale » hanno messo radici diventando come il teatro naturale non solo di una ragionevole equità, ma anche dell’affermazione dei diritti, delle diverse generazioni di diritti della persona, dei diritti di libertà attraverso lo Stato, vale a dire dei diritti garantiti da una prestazione pubblica. La società ne ha ricevuto benefici di sicurezza, crescita economica e civile attraverso molte contraddizioni, ma sempre confermando per l’essenziale uno scambio di comunicazioni tra l’individuo e la collettività.
Da almeno due decenni questo scambio presenta aspetti inquietanti. L’idea che «il diritto di avere diritti» si presenti come una linea semiretta, da qui verso l’infinito futuro, non è più moneta corrente. La qualità dei diritti non ha perso il suo fascino e nemmeno la sua attualità (dalla scuola alla casa, dalla sicurezza sul lavoro all’ambiente): quel che ha perso forza è la loro capacità di attuarsi in sintonia con la crescita economica, che si è fermata, mentre si sono allargate le distanze sociali e si sono allentate le prestazioni dello Stato che ne attenuavano la percezione. Aumenta la povertà e lo sguardo verso il futuro non offre più autostrade dei diritti, né prospettive migliori per i figli.
In Italia la presa d’atto del cambio di orizzonte è stata più lenta che altrove e il conto degli arretrati (che ha preso la forma di un terribile debito pubblico) si presenta più pesante. Le ragioni del ritardo sono oggetto del dibattito a destra e a sinistra. Il campanello delle politiche di Terza Via è suonato in Gran Bretagna e in Germania dalla fine degli anni Novanta ed ha tenuto il campo per quasi tutto il decennio successivo. Nella sua forma più esplicita, quella del New Labour, si è affermato anche grazie alla forza ideologica con cui Tony Blair ha voluto annunciare un cambiamento di orizzonte: meno protezioni pubbliche più responsabilità individuale, meno garanzie dall’assistenza sociale più spinte all’intraprendenza privata. Unica certezza l’assegno universale di disoccupazione, che da noi ancora non c’è. Ora il campanello suona anche qui, davanti alla minaccia di un declino che non è cominciato oggi, ma che produce scricchiolii ai quali può seguire il frastuono di un cedimento strutturale.
Da una parte la linea punitiva — fate i compiti — deve essere piegata, anche in questa Europa che non è reduce da una guerra, ma solo dalla crisi dell’euro e dell’Unione, ed è indispensabile far cambiare verso alla Merkel. In metafora: quello che non riuscì a Keynes nel 1919 contro Clemenceau- Lloyd George. Dall’altra il cambiamento di orizzonte deve essere reso esplicito se si vogliono attenuare i contraccolpi su una società, la nostra, alla quale le cattive notizie sono state, in un certo senso, taciute e messe in ombra da varie promesse. La tentazione dei politici è stata a lungo quella di rinviare il momento doloroso, con la conseguenza di renderlo ancora più difficile e di prolungare aspettative non più realistiche. È ormai chiaro che la combinazione virtuosa per l’Europa di crescita economica, crescita demografica e compromesso sociale redistributivo dei benefici, si è interrotta non solo a causa degli errori dell’Unione, ma anche perché ne sono venute meno le basi materiali e le condizioni internazionali. Ma evitare il disastro di una lacerazione sociale senza fine resta l’assoluta priorità, anche degli economisti.

Repubblica 3.10.14
Il sociologo: “Così si fronteggia lo strapotere dei mercati”
Touraine “Ripartiamo dall’etica individuale”
intervista di Fabio Gambaro


PARIGI «DI fronte alla disgregazione sociale prodotta dall’economia non resta che ripartire dai diritti universali del soggetto ». Da tempo Alain Touraine mette in guardia contro la fine del sociale — lo ha fatto nel suo ultimo libro pubblicato in Francia, La fin des sociétés ( Seuil) — aggiungendo che non saranno i movimenti sociali a salvare la democrazia, ma solo i singoli individui decisi a difendere i loro diritti fondamentali. «Con la dissoluzione del sociale, il potere tende a cambiare natura, diventando totale: oltre alla dimensione oggettiva del reale, controlla anche quella soggettiva, penetrando gli individui, le loro coscienze e i loro comportamenti», spiega il sociologo francese, tra i cui libri figurano La globalizzazione e la fine del sociale ( Il Saggiatore) e Dopo la crisi. Una nuova società è possibile ( Armando). «Proprio perché il potere diventa totale, il movimento d’opposizione — da cui può nascere una nuova vita sociale e politica — deve partire da un’affermazione totale del soggetto e dei suoi diritti universali: il diritto alla libertà, all’uguaglianza e alla dignità».
Quindi non basta difendere i diritti sociali particolari?
«È una prospettiva perdente. Il sociale non è più il luogo centrale della battaglia. Non possiamo più pensarlo con le categorie tradizionali del passato ormai inoperanti. La minaccia oggi pesa più in generale sull’essere umano. Bisogna tornare a Hannah Arendt, quando dice che l’uomo ha diritto di avere dei diritti. Una formula che condivido, ma specificando che i diritti — proprio perché universali — sono al di sopra delle leggi e della politica. Per opporsi alla fine del sociale e ricostruire un vivere collettivo occorre legare l’individuale e l’universale, dando luogo a movimenti che non siano più sociali, ma eticodemocratici: democratici perché rimettono in discussione il potere nella sua totalità e etici perché difendono l’essere umano nella sua realtà più individuale e singolare».
In questo modo diventa possibile riappropriarsi della politica e tentare di contrastare l’apparente onnipotenza dell’economia?
«Sì. Nonostante ci sia una tradizione intellettuale che difende il primato della politica, questa oggi è screditata e impotente. Bisogna ripartire dall’etica, che viene prima della politica perché si colloca su un piano universale: solo così sarà possibile rifondare la democrazia e ricreare legami sociali. Quando le intenzioni individuali si caricano di significati universali, si trasformano in agenti di una trasformazione sociale e democratica. L’azione politica democratica non rinasce da una politica di classe, da una politica nazionalistica, da una politica degli interessi privati o da una politica del sacro. L’azione politica democratica rinasce solo dall’etica, il che significa che le leggi devono essere subordinate ai diritti. Se così è, diventa possibile riprendere il controllo sull’economia e arrestare la sua deriva distruttiva nei confronti del sociale».
Qual è il ruolo della cultura in questa prospettiva?
«È fondamentale, perché la lotta per la cultura e l’autocoscienza culturale contribuiscono a trasformare gli individui in soggetti capaci di essere attori postsociali. Di fronte a un’economia di consumo che riduce la società a un mercato dominato dal capitalismo finanziario globale, il lavoro di riflessione e di decostruzione dei modelli di pensiero diventa decisivo. L’accesso alla cultura è un diritto fondamentale. E gli intellettuali devono ritrovare un ruolo indipendente e attivo, guardando a quello che accade al di là del mondo occidentale, la Cina, l’India, il mondo arabo. Lì emergeranno le novità dei prossimi decenni ».

La Stampa 3.10.14
Avanguardie russe
Da oggi a Torino trecento opere di una celebre collezione che ripercorre lo sperimentalismo nei primi anni dell’Unione Sovietica
di Elena Del Drago


Le magnifiche tele di Malevic, El Lissitzky o Popova, ma anche inediti materiali d’archivio, disegni, opere di artisti meno conosciuti in un insieme in grado di illuminare il fenomeno delle avanguardie russe nella sua totalità. Arriva finalmente in Italia la celebre collezione di George Costakis, che ha salvato le più sperimentali opere della storia sovietica dall’oblio e dalla distruzione. La mostra procede per sezioni tematiche con lo scopo di illustrare il percorso dell’avanguardia russa scandito dai suoi movimenti. I primi trenta anni, dal cubofuturismo in poi, scorrono davanti ai nostri occhi con capolavori come il Ritratto di donna di Malevic, la Salomè creata per l’omonima rappresentazione teatrale di Wilde da Popova, autrice anche di Donna in viaggio, tra le opere più forti e sorprendenti della rassegna, e ancora Rodchenko con il celebre La rottura, fondamentale per raccontare il grado di sperimentazione raggiunto in quel momento, fino ad una vera e propria chicca: una porcellana disegnata da Kandinski. Ce ne parla Maria Tsantsanoglou che dirige il Museo di Salonicco sede della raccolta e ha co-curato l’esposizione torinese.
Centinaia di opere salvate dalla passione e il fiuto di un solo uomo, George Costakis. Chi era?
«George Costakis non aveva alcuna educazione speciale, non aveva studiato arte. La sua era una famiglia greca che si trasferì a Mosca per affari, arrivavano da Zante, e dopo la Rivoluzione decisero di rimanere. George nacque nel 1913, frequentò solo le scuole dell’obbligo, non andò all’università e iniziò subito a lavorare come autista presso l’Ambasciata greca. Gli capitò così di accompagnare i diplomatici appassionati di arte antica negli acquisti presso gli antiquari della città. Capì presto di avere un buon occhio, di saper riconoscere cosa valeva davvero, non solo da un punto di vista economico, ma artistico e culturale. Cominciò così con i pochissimi soldi che guadagnava a comprare qualcosa per se stesso: all’inizio erano icone religiose, incisioni, oggetti del periodo degli zar. Poi ci fu la seconda guerra mondiale, e quando l’ambasciata greca chiuse, trovò lavoro presso quella canadese dove, come capo dello staff tecnico, aveva uno stipendio migliore: cominciò a comprare sempre più opere e comprese di voler essere un collezionista.
Che opinione aveva delle avanguardie?
«Credeva per esempio che l’avanguardia fosse come un esercito, in cui tutti gli artisti, proprio come i soldati, sono ugualmente importanti. Decise così di comprare tutto ciò che trovava, anche materiali d’archivio, piccoli pezzi di carta, disegni, quadri e formò la più importante collezione di arte d’avanguardia, salvando questo capitolo di arte dalla distruzione».
Un lavoro certosino e impressionante che a lungo restò nascosto..
«Nel 1977 Costakis lasciò l’Unione Sovietica e andò prima a Roma, dove restò un anno con la sua famiglia, e poi in Grecia. I lavori nel frattempo restarono in parte in Russia, mentre i restanti cominciarono a viaggiare in diverse esposizioni, a partire da quella al Guggenheim di New York. Da allora la sua collezione divenne conosciuta in tutto il mondo».
Ma è la prima volta che, con questa mostra a Torino, arriva in Italia...
«Si, e tutti ne sono particolarmente felici perché Costakis, che amava moltissimo il vostro Paese, desiderava esporla proprio in Italia. Anche perché il periodo iniziale delle avanguardie russe è influenzato dall’arte italiana: nei quadri di Popova si trovano echi non solo del Futurismo, ma anche della pittura rinascimentale».
Cosa avete scelto di mostrare della collezione per questo debutto italiano?
«Una selezione di 300 opere tra disegni, dipinti e materiali d’archivio che esponiamo per raccontare in modo didattico le avanguardie russe: dal simbolismo e il neo impressionismo influenzati dall’arte europea, fino al Suprematismo e all’astrattismo, mostrando come fossero connessi alla rivoluzione e convinti di influenzare la vita quotidiana attraverso l’estetica. Sono in mostra anche movimenti e gruppi meno noti come quello cosmico o della scuola organica, che voleva connettere la pittura con la natura e la musica. E’ infine esposto l’ultimo periodo delle avanguardie con il ritorno al cavalletto e alla rappresentazione. L’ultimo lavoro che mostriamo, però, è un dipinto di Aleksandr Rodchenko del 1943, molto sperimentale: la sua tecnica ricorda il dripping di Jackson Pollock, 8 anni prima che Pollock dipingesse con questa tecnica, perché vogliamo spiegare che, nonostante il realismo socialista fosse l’unico stile accettato in Unione Sovietica, gli artisti continuavano a sperimentare pur non potendo esporre. Non desideravamo infatti terminare la mostra in modo triste e pessimistico, ma con uno sguardo aperto verso il futuro».

La Stampa 3.10.14
Costakis, il greco che ha salvato Kandinsky & C.
Figlio di un commerciante, iniziò collezionando arte antica e poi fu folgorato da un quadro della Rozanova
di Mario Baudino


Non doveva essere facile essere un collezionista d’arte nella Mosca staliniana, e poi in quella degli Anni 70, e per di più farlo apertamente, coltivando i contatti non solo con gli artisti ma anche con le istituzioni, trasformando il proprio appartamento in un centro culturale. Una collezione privata era già qualcosa di «borghese» quindi fortemente sospetto; ma una collezione di artisti d’avanguardia, non conformisti, banditi dai musei e per l’ufficialità del tutto inesistenti poteva rappresentare una provocazione grave, un’attività antisovietica.
George Costakis non solo ci è riuscito, con l’abilità dell’uomo di gran mondo, con un fiuto infallibile e non poca destrezza; anzi ha raccolto la collezione più strepitosa e completa, prima a casa sua a Mosca e poi irradiandola in Occidente. Migliaia di sculture, quadri, disegni, appunti, studi soprattutto d’inizio Novecento, da Chagall a Malevich, da Kandinsky a Tatlin, da Rodchenko a Popova, da Rozanova a El Lissitzky sono passati per le sue mani, acquistati con tenacissima furia in base a regole che prevedevano anche non si dovesse mai trattare sul prezzo: perché, come spiegò in più occasioni, lo sconto alla fine si ritorce contro il collezionista.
Nato nel 1913 da un agiato commerciante greco trasferito in Russia a inizio secolo (che non aveva ritenuto la rivoluzione un valido motivo per andarsene), dopo aver lavorato per l’Ambasciata del Belgio – come autista –, aveva rapidamente conquistato una solida posizione come funzionario dell’ambasciata canadese, che gli garantiva una certa extraterritorialità. Per lui tutto cominciò nel 1946, quando, racconta, venne fulminato da un quadro di Olga Rozanova. «Mi accorsi che fino a quel momento avevo vissuto senza aprire le finestre», avrebbe poi spiegato in varie interviste. Era il punto di arrivo di un tirocinio come intenditore d’arte, antiquariato e in genere di ogni tipo d’oggetto collezionabile che potesse interessare gli ospiti stranieri quando, da autista, li portava a visitare Mosca.
Dopo l’opera della Rozanova non smise più di comperare, ma solo per sé. Furono trent’anni di furioso e selezionatissimo collezionismo, che fecero di lui uno snodo inevitabile per chiunque si interessasse di arte russa e sovietica. Visse a Mosca fino al ’77, poi si spostò in Grecia (dopo un anno trascorso a Roma) con la benedizione delle autorità e qualcosa come 1200 capolavori nei bauli, avendone donati quasi altrettanti alla Galleria Tretjakov, il museo deputato all’arte moderna. Va detto che intratteneva da tempo rapporti eccellenti – e riservati – con un’altra istituzione, il Museo di Leningrado, dedito a tutt’altro. Ma il direttore, che pure era un fedele membro del partito, gli acquistava sottobanco un bel po’ di opere, pensando al futuro, e mise insieme quello che nel mondo dell’arte divenne noto come il «museo segreto», a lungo interdetto ai visitatori, e solo rarissimamente a partire dagli Anni Ottanta mostrato a stranieri di rango. Non era facile essere un collezionista come Costakis nel Paese del socialismo reale, ma senza di lui forse la grande produzione dell’avanguardia sovietica sarebbe andata persa. Il «greco pazzo» che «raccoglieva spazzatura inutile» (era il suo soprannome a Mosca, come ci ricorda nel catalogo Maria Tsantsanoglou, direttrice del Museo di Arte contemporanea di Salonicco che raccoglie il più importane lascito) aveva il piccolo vantaggio di essere appunto cittadino greco, anche se ciò non impediva al Kgb di tenerlo sotto stretto controllo. Nella biografia racconta che almeno in un caso ebbe il timore di essere ucciso. Lasciò la Russia a causa delle crescenti provocazioni del temibile servizio segreto, che tentò infine di coinvolgerlo in una storia di spionaggio. Fino ad allora non gli erano mancati gli ammiratori e gli amici anche al vertice del potere. Arrivò anzi a un passo da quello che sarebbe stato un capolavoro politico-culturale: anticipare agli Anni 60 la riabilitazione almeno ufficiosa delle avanguardie russe e sovietiche grazie a Yekatrina Fursteva, esuberante ministro della Cultura nel periodo krusceviano (e secondo le voci del palazzo, amante di Kruscev). Il segretario del partito lanciava rumorose campagne contro gli artisti non-ufficiali, ma la Fursteva promise al collezionista di visitare le sue opere. Sarebbe stato un gesto di grande portata. Venne cancellato all’ultimo momento: la ministra non voleva mettersi in conflitto col capo. L’appuntamento era rinviato, e di parecchio.
Nel ’77 una selezione venne presentata a Düsseldorf, e due anni dopo al Centre Pompidou a Parigi. Ma la consacrazione è dell’81, quando i pezzi migliori vengono esposti al Guggenheim di New York, i musei russi aprono le porte, un intero mondo torna alla luce. Costakis morì nel 1990, alla vigilia della prima mostra in terra ellenica delle sue opere. Negli anni seguenti, l’intera collezione è stata acquistata dallo Stato greco, e conferita al Museo statale di arte contemporanea di Salonicco.