domenica 5 ottobre 2014

Corriere 5.10.14
Tremila migranti in meno di 24 ore
Duecento persone a Lampedusa, 670 a Pozzallo (Ragusa), 1.789 a Reggio Calabria e altre 807 a Vibo Valentia. In tutto sono più di 3 mila i migranti arrivati ieri in Italia dal mare. Fra di loro c’erano centinaia di minori e una ventina di donne incinte.

il Fatto 5.10.14
PD (Parito Desaparecido)
di Antonio Padellaro

Che gli iscritti del Pd fossero in fuga dal Pd non occorreva la Sibilla cumana per saperlo. Pure che il gruppo dirigente democratico avrebbe finito per scannarsi in preda a un’insofferenza collettiva quasi fisica, era prevedibile. Bastava andare al cinema per capire anche il perché. Il film si chiama Arance e martello, autore e protagonista Diego Bianchi, in arte Zoro, narratore embedded di quella sinistra romana che dà il cattivo esempio alla sinistra tutta. Non racconteremo la storia, ma gli epifenomeni che l’avvolgono come un sudario funebre. La sezione di partito a conduzione familiare, desertificata e adibita a location di calciobalilla e fancazzisti. La canonica di raccolta di firme per ingannare il tempo. Pallosi dibattiti sul nulla e microscissioni caratteriali. Si votano mozioni, ma non si capisce mai chi ha vinto e chi ha perso. E poi i berluscones che corteggiano i democratici fino al grand guignol del tutti contro tutti. Renzi ancora non c’è, ma preannuncia lo spirito del nuovo tempo una ricercatrice dalle belle gambe che vuole rottamare il mercato rionale per farne un biomarket. “Non resta più niente, i militanti se ne vanno”, osserva intristito l’ex tesoriere Sposetti che su Repubblica lamenta la fine del partito-comunità che era “come una famiglia”. Ma poi presenta il conto, rivelando che il Pd sta in milleottocento circoli di proprietà dei Ds, “e non paga né Tarsu né Imu né condominio”. Fatto è che quella roba da quel dì è stata distrutta pezzo dopo pezzo con furia iconoclasta. Via le feste dell’Unità e poi via la stessa Unità, le vecchie sezioni liquidate dal partito liquido di Veltroni, mentre della dolce “famiglia” sopravvivono i parenti-serpenti dell’apparato sparsi nelle ex regioni rosse, che si spartiscono con le tessere residuali rendite di posizione e tutto il sottogoverno possibile. La verità è che Renzi non poteva rottamare ciò che già era stato raso al suolo, ma da furbo qual è ha fatto credere il contrario, avendo bisogno di totem da abbattere mentre sgominava mummie e statue di cera (salvo poi, con le primarie, accogliere tutti sul carro del vincitore perché tutto fa brodo). Bersani che piange sul “partito che muore” fa una certa tenerezza perché l’hanno capito tutti che nel Pd la minoranza cerca soltanto un compromesso onorevole e qualche candidatura alle prossime elezioni. E che la difesa dell’art. 18 è il ridotto in Valtellina da cui la cosiddetta sinistra sta uscendo alla spicciolata con le mani alzate. No, nessuna nostalgia: e di cosa poi?
L’inciucio con Berlusconi, per dire, lo ha inventato D’Alema e sui piccoli e grandi cedimenti – dalla finta lotta alla corruzione alle amnesie sulle evasioni fiscali – il governo Renzi appare in perfetta continuità con chi lo ha preceduto. Non meravigli dunque che l’esaurimento del Pd coincida con il trionfo del suo leader. Che sarà anche superficiale e inattendibile ma che almeno saluta, sorride e distribuisce gli 80 euro a piene mani. Di lui l’accigliato Fassina, pensando di deriderlo, ha detto “è simpatico”. Di questi tempi agli italiani basta e avanza.

il Fatto 5.10.14
Riforme
Da destra verso destra, Renzi e il modello Reagan
di Furio Colombo

Considerate il “trattamento di fine rapporto” da distribuire, frammentato in piccole parti, subito, in busta-paga. Paghiamolo a rate. Poi il progetto è stato forse ritirato, ma l’idea resta. A te, capo del Governo, serve per dire: ti ho dato cento euro in più. Per la persona che lavora, vuol dire un lieve respiro, più tasse, e niente soldi alla fine di una vita di lavoro.
Per Roosevelt era il cuore del New Deal. Si chiamava (si chiama) Social Security ed è una somma di danaro modesta, certa, indipendente dalla pensione pubblica o privata, che hai o che non hai. La Social Security viene accantonata su un conto di ogni cittadino americano, per ogni anno di vita attiva. Entrando nella vita attiva, entri nella Social Security, ricevi un numero che ti identifica per tutta la vita, e che va indicato, con il nome e l'indirizzo, in ogni documento. Il principio è che, alla fine della vita di lavoro, tutti (tutti, dall’amministratore delegato al netturbino) ricevono un assegno ogni mese, che viene automaticamente inviato all'ultimo indirizzo al compimento dei 65 anni. È una cifra modesta, rispetto alla vita attiva, ma viene data sempre, per sempre. Non concepisce eccezioni o rinunce, ed è stata ispirata al presidente del New Deal dall'immagine dei giorni peggiori del crollo del capitalismo americano negli Anni Trenta. Molti raccontano ancora di alcuni ricchi che si buttavano dai grattacieli. Roosevelt aveva negli occhi l'immagine (milioni di poveri) che tentavano di sopravvivere ma non avevano nulla. E venivano abbattuti a fucilate quando tentavano di passare il confine di un altro Stato americano sperando in un lavoro che non c'era.
LA PAROLA New Deal, che noi adesso citiamo come un evento politico della storia americana, si può tradurre “Nuovo accordo fra lo Stato e i suoi cittadini”. Significa “Non sarai mai più abbandonato”. Roosevelt infatti ha pensato che lo Stato e i governi esistono per questo: non abbandonare i cittadini. Da allora tutti i presidenti che hanno tentato di rimuovere o ridurre la Social Security (anche negli USA si dice “fare le riforme”) su questo punto vengono battuti.
Perché l'Italia, adesso, dovrebbe ispirarsi a un sistema fallito, il capitalismo d’avventura dei ricchi, visto che ha già definitivamente rifiutato l’altro sistema simmetrico e fallito, il comunismo? Nessuno sa dirci chi ha ordinato, o autorevolmente consigliato, di andare sempre un po’ più a destra. Dati i fallimenti paurosi incassati dalla storia (l’ultimo, la finanza americana che ha scosso il mondo nel 2008, e a cui Obama, presidente “di sinistra”, ha posto rimedio nel 2014) può essere il disegno di chi ha a cuore un futuro politico? Eppure i segnali di una clamorosa svolta a destra sono chiari. E non sono (come spesso accade in Italia), vecchia destra fascista. Sono una dichiarazione aperta del capitalismo puro e semplice che rivuole i diritti incontrastati che aveva prima che un secolo di riforme imponessero un minimo di equilibrio. Al punto che il Ministro dei Beni Culturali e il sindaco di Roma, uniscono la forza e il prestigio delle loro immagini e licenziano in tronco, via messaggio telefonico, tutta l' orchestra e tutto il coro dell'Opera di Roma, che sta dando noie sindacali.
Impossibile non vedere la coincidenza simbolica ma anche politica con il non dimenticato primo atto presidenziale di Ronald Reagan (1980): il licenziamento in tronco di tutti i controllori di volo che erano in sciopero contro gli orari eccessivi e pericolosi, quando Reagan è arrivato alla Casa Bianca. Reagan era un personaggio affabile, simpatico, eccellente comunicatore, e si pensava che avrebbe portato alla presidenza americana poca ideologia e molto buon senso. Invece ha iniziato in modo sistematico il cammino da destra verso destra che nel mondo continua ancora: lo smantellamento del New Deal roosveltiano, una lotta senza quartiere ai sindacati (vilipesi e accusati di tutto nei modi più grotteschi), il prosciugamento dei fondi federali alle università e alle attività culturali, il principio secondo cui hai diritto alle cure mediche se puoi, e se hai una assicurazione privata (che comunque decide sulle tue cure) oppure non entrerai in alcun ospedale (si ricordi, in proposito il documentario di Michael Moore, il regista che racconta e filma i casi di malati gravi americani espulsi dai loro ospedali per insolvenza). Nasce a questo punto, nella visione conservatrice di Reagan, l’idea di rovesciare la credenza socialistoide secondo cui chi ha di più deve dare di più.
REAGAN taglia le tasse in modo da stabilire che chi ha di più deve dare di meno. In tal modo, migliorando sempre di più la qualità della vita in alto, ci saranno più incentivi a chiedere servizi a chi sta in basso, e ci sarà più lavoro. Modesto, ma ci sarà. Ciascuno al suo posto. Ma aumenterà la voglia, tipica dei più intraprendenti, di “fare impresa”. Il principio ispiratore era, ed ancora, lo smantellamento progressivo dello Stato che “non risolve il problema perchè è il problema”. Lo Stato, come apparato organizzativo che tutela i cittadini, viene ridotto, “snellito”, se necessario umiliato (perchè blocca lo slancio della nostra iniziativa) in modo da ri-orientare noi tutti, la nostra fiducia, il nostro impegno, il nostro voto, verso il privato e il privatizzato, in nome di una benefica concorrenza che naturalmente non esiste, dati gli incroci di interessi commerciali e finanziari che attraversano il mondo Ecco dunque dove stiamo andando: da destra verso destra. La strada delle “riforme” è ancora lunga.

Corriere 5.10.14
Porta l’industriale a cena con Matteo. Gelo tra i dem
Obiettivo: 5 mila euro a serata. Damiano: non servirebbero se i parlamentari versassero il dovuto
di Alessandro Trocino

ROMA «Ci mancavano solo le cene di finanziamento». Tirava un vento gelido alla riunione di giovedì, nella sala Berlinguer della Camera. Il tesoriere Francesco Bonifazi e Alessia Rotta, responsabile comunicazione della segreteria, avevano convocato i parlamentari pd del Nord per annunciare l’ultima iniziativa del partito. Obiettivo, racimolare un po’ di denaro: «Ognuno di voi troverà 5.000 euro, chiamando un certo numero di imprenditori». La prima cena si terrà a metà novembre, a Milano (Bonifazi ha già fatto i sopralluoghi). Poi ne è sicura una seconda, a Roma. Ma altre tavole potrebbero essere imbandite con il segretario a Firenze, Bari, Napoli e Palermo. Con un piccolo problema: il gelo e l’imbarazzo dei parlamentari convocati giovedì è l’avvisaglia di un vento di rivolta tra i democratici, non solo della minoranza, poco entusiasti dell’idea.
Il modello citato dal partito è quello di Obama, ma sono in diversi a tirare in ballo le cene berlusconiane a base di pennette tricolori, canzoni di Apicella e barzellette. Cesare Damiano critica apertamente l’idea: «Non mi sento molto stimolato da questa iniziativa. Piuttosto che organizzare le cene con gli industriali, preferirei farle con esodati e cassa integrati». D’accordo, ma servono soldi. «Facciamo i conti allora. Io verso ogni mese 1.500 euro al partito. Per l’elezione mi hanno chiesto 50.000 euro di contributo. Ne ho già versati 25.000. Tutti soldi che, sia chiaro, do volentieri. Bene, se tutti versassero lo stesso, arriveremmo a una cifra di quasi 11 milioni di euro all’anno». Mica male. «Sì, ma li versano tutti? Non credo proprio. Ecco, io chiedo al partito la lista di chi paga. E chi non paga sia cacciato. Poi voglio un bilancio consolidato, con il fabbisogno, per le esigenze di Roma e dei circoli. Servono regole, altrimenti è un circo Barnum». E se uno non trovasse i 5.000 euro? «Infatti, la velata richiesta del partito è questa: dateci 5.000 euro a testa». Pippo Civati è in linea: «Io passo per contestatore, ma sono in regola e verso tutti i mesi la mia quota. Gli altri? Vorrei sapere chi paga. Quanto alle cene, altro che Obama, le fa la destra conservatrice. E poi mi pare un messaggio equivoco: in un momento di crisi ci mettiamo a fare cene da 1.000 euro?».
Non tutti la pensano come Damiano e Civati, naturalmente. Matteo Mauri, per esempio: «Non è una novità, si è fatto spesso in passato. Poi gli imprenditori hanno sgravi per le donazioni che fanno, quindi non è impossibile. Non è detto che non si faranno anche delle cene popolari, a prezzi più bassi con più gente: una cosa non esclude l’altra».
L’importante è fare cassa: «Dobbiamo campare — spiega Michele Anzaldi —. La situazione è disperata. Certo, che tutti riescano a raccogliere 5.000 euro mi pare fantascienza». Davide Faraone non capisce le critiche: «Sono strumentali, fatte dai soliti noti. Le cene di autofinanziamento si sono sempre fatte». A proposito di soldi e conti, Faraone ha qualcosa da dire anche a Ugo Sposetti: «Sequestra il nostro patrimonio e invece di tacere, parla di assenza di iscritti, risorse e democrazia nel Pd. È incredibile».

Corriere 5.10.14
Quei poteri forti alla perenne ricerca di un’intesa
di Paolo Franchi

Lasciamo stare i poteri «aristocratici», e restiamo a quelli forti (o presunti tali). Matteo Renzi non è certo il primo a evocarli, per denunciarne ora i «pensieri deboli», ora l’aggressività, più spesso le due cose insieme. È dalla fine della Prima Repubblica, spesso rappresentata come il frutto di un loro disegno, che vengono chiamati in ballo da leader politici e capi di governo (Silvio Berlusconi, ovviamente, compreso) in difficoltà. Tutti ne denunciano i disegni perversi, nessuno, e men che meno Renzi, si preoccupa di dare loro un’identità precisa. Meglio stare nel vago.
Le dietrologie, i complottismi, l’invenzione del Nemico sono un aspetto cruciale del populismo vecchio e nuovo, e come tali dovrebbero, alla lunga, provocare una (sana) reazione di rigetto. Ci devono essere dei motivi, però, se tirano alla grande. Uno, in particolare, ci riguarda da vicino.
In breve. Il rifiuto (verrebbe da dire: pregiudiziale) di qualsiasi visione complottistica del mondo è, o dovrebbe essere, un punto d’onore per ogni individuo ragionevole, ma non può comportare quasi per contrappasso, come di fatto è avvenuto, la rinuncia all’analisi, storica e politica, delle dinamiche dei poteri e delle classi dirigenti. Di poteri che non sono solo quelli democratici (in crisi), di classi dirigenti che non sono solo quelle politiche liberamente espresse dal popolo sovrano (seppure solo in elezioni europee e non in elezioni politiche nazionali).
Lo scriveva tanti anni fa non un dietrologo da strapazzo, ma Norberto Bobbio: «Non si capisce niente del nostro sistema di potere» se non si riconosce l’esistenza di «un potere invisibile che agisce accanto a quello dello Stato, insieme dentro e contro, sotto certi aspetti concorrenziale e sotto altri connivente».
Ce lo ricorda oggi, in un’altra ottica e con altre parole, nella postfazione a un suo racconto «a chiave» ( I Santuari ) pubblicato nel 1981 da Panorama, e riproposto adesso in libreria da Castelvecchi con una bella prefazione di Massimo Bordin, Emanuele Macaluso. Che è stato un protagonista della lotta politica in Italia, e ne è tuttora, a novant’anni, qualcosa di più che un testimone attento e vivace.
«È il caso italiano — sostiene Macaluso — che ci dice come i poteri “esterni” allo Stato spesso si sono identificati con lo Stato e ne hanno influenzato e condizionato gli organi: governo, Parlamento, apparati».
Tutto questo era in buona misura vero negli anni di cui parla il racconto, quei Settanta segnati dalla crisi irreversibile del centrosinistra, dall’assenza di alternative e dal consolidarsi, nella gestione di leve decisive dell’economia e del potere, del superpartito (Macaluso dice: della Triade) mafia-massoneria-Servizi: gli anni, come ricorda Bordin, in cui «i grand commis di Stato e i boiardi del parastato legati a Fanfani passarono in blocco ad Andreotti, parecchi di loro portandosi appresso la tessera della P2».
Ma, seppure ovviamente in forme diverse, resta vero ogni qual volta vengono meno gli assetti di potere (confessabili e inconfessabili) consolidati. Dunque, anche oggi. O soprattutto oggi. Quando «i Santuari» (non solo quelli massonici, non solo quelli mafiosi, non solo quelli annidati nei gangli nevralgici dello Stato), o «i Circoli», come li definisce Macaluso, attivi, influenti, e a tratti preponderanti sin dalla formazione dello Stato nazionale, esistono ancora. Di fatto indeboliti, certo, ma in potenza (non è un paradosso) più forti, grazie soprattutto alla scomparsa dei grandi partiti di massa che in passato spesso si acconciarono al compromesso, ma ne furono pure il principale argine e contraltare.
Per gli interessi che rappresentano, e per l’ideologia che esprimono, oggi come ieri questi poteri non puntano, in politica, né a spallate reazionarie né a soluzioni apertamente autoritarie. Sono in cerca, semmai, nella società, nel governo e nello Stato, di un punto di equilibrio (forse potremmo definirlo centrista, in ogni caso continuista) che è loro — per così dire — connaturato. Ma, almeno per il momento faticano assai più che nel passato a trovare un’intesa, e si dividono duramente su chi possa incarnarla: anche perché da un pezzo non esprimono più, sempre che lo abbiano mai espresso, un punto di vista almeno nelle ambizioni egemonico, e ragionano pressoché solo in termini di autoconservazione. Così che una loro frazione fa la guerra al Renzi che, in tempi di eclissi della politica democratica, invoca il primato della politica intesa come consenso, un’altra lo sostiene, o quanto meno si adegua.
Macaluso si chiede se non sia il caso che qualcuno torni a esercitarsi, magari con un altro racconto «a chiave», sulla spinosa questione. A chi volesse accingersi all’impresa, consiglieremmo di prendersi il tempo necessario per capire un po’ meglio, se non proprio come andrà a finire, almeno da che parte tira il vento.

il Fatto 5.10.14
Vedi alla parola “rivoluzione”
risponde  Furio Colombo

CARO COLOMBO, ho notato che la parola “rivoluzione” viene usata volentieri sia da Renzi sia da Berlusconi, per definire le cose che vogliono imporre. Ormai sappiamo che si tratta di un progetto congiunto. Ma poiché è un progetto che parte dal potere, perché chiamarlo “rivoluzione”?
Luciano

SE CI SI PENSA BENE, la parola non è fuori posto né per Renzi, che l’ha detta e ripetuta nei discorsi del viaggio in America, né per Berlusconi che dice “rivoluzione” per annunciare e poi celebrare il suo ritorno alla rilevanza nazionale dopo la condanna, l’espulsione dal Senato, l’interdizione dai pubblici uffici. Infatti rivoluzione significa “cambiamento immediato della organizzazione sociale”. Le prove: 1- La elezione a Camere riunite del Capo dello Stato, imposta dalla scadenza dell’attuale titolare della carica, non ha avuto luogo. La sequenza di votazioni è stata interrotta dopo due tentativi, ed è stata decisa la rielezione del Presidente in carica, benché la Costituzione non lo preveda. 2 - Maggioranza e opposizione sono state abolite, introducendo la formula, senza precedenti, nel mondo democratico, delle “larghe intese” (tutto il Pd più tutto il Popolo delle Libertà) al fine di realizzare insieme (ovvero contro o al di fuori delle indicazioni degli elettori) le cosiddette “riforme strutturali”. La strana formula delle larghe intese si è poi evoluta attraverso un curioso camuffamento: una parte del Popolo delle Libertà si è riorganizzato in una vecchia-nuova aggregazione politica detta Forza Italia, e ha finto di passare all’opposizione. Un’altra parte si è organizzata in “Nuova Destra”, ed è diventata socia di governo con ministeri importanti, e sostiene il governo in Parlamento. Berlusconi controlla direttamente una parte (la finta opposizione) ma è il leader storico anche dell’altra, che sta trattando per rientrare. 3 - È stato chiamato a fare il primo ministro un cittadino noto e apprezzato come sindaco di Firenze, ma senza rapporti con il Parlamento. Si è deciso di scambiare la sua vittoria interna alle Primarie del Pd per elezione a capo del Governo e la sua vittoria a elezioni europee intese a decidere se restare in Europa o uscirne, come un plebiscito su di lui in quanto premier. Allo stesso tempo uno dei partiti di “maggioranza”, il Pd, lo ha eletto segretario. In questa doppia veste di eletto - non eletto, e di vincitore di elezioni nazionali che non ci sono state, guida il governo sulla base di un sostegno automatico preventivo. 4 - Il capo del Governo così eletto e così sostenuto è tenuto a consultarsi a stretti intervalli, e nelle forme più vistose, con il capo della presunta opposizione (Berlusconi) che però garantisce i suoi voti in tutti i casi che dovessero essere difficili o delicati o simbolici. Evidentemente non è importante che il capo della presunta opposizione sia un condannato a pena definitiva per crimine rilevante, e arrivi scortato e in gran cerimoniale a Palazzo Chigi, benché interdetto dai pubblici uffici. Il suo assenso è indispensabile alle decisioni chiave del governo. Si può parlare o no di rivoluzione?

il Fatto 5.10.14
Un problema lo abbiamo risolto: “sinistra” non ha più significato
di Silvia Truzzi

DICE IL SINDACO Marino che la cacciata collettiva dei 182 membri del coro e dell’Orchestra dell’Opera di Roma è “di sinistra”. A Ballarò martedì sera Massimo Giannini intervista il ministro per le riforme Maria Elena Boschi: “Io sono di sinistra. Essere di sinistra significa non essere custodi della memoria. Significa anticipare il futuro. Essere riformisti”.
Alla fine della “infuocata” direzione del Pd (poi son rientrati tutti nei ranghi), Luca Bottura ha postato su Twitter una fulminante battuta: “Siamo un paese talmente arretrato che Nanni Moretti glielo aveva chiesto vent’anni fa, e D’Alema ha detto qualcosa di sinistra stasera”. Intanto Openpolis, il sito che monitora l’attività dei parlamentari, c’informa che le larghe intese veleggiano alla grandissima. La comunità d’intenti di due tra le maggiori forze (al governo e all’opposizione) è altissima e la matematica ci viene in soccorso. In Senato i capigruppo di Forza Italia e Pd, Paolo Romani e Luigi Zanda, hanno una percentuale di votazioni comuni che sfiora il 91%. Matteo Richetti (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Fi), hanno votato allo stesso modo 1.605 volte: il voto convergente arriva all’86,4%. Il ministro Maria Elena Boschi (Pd) e l’onorevole Daniela Santanchè (FI) hanno una concordanza di opinioni pari all’81,5%. La percentuale di votazioni uguali tra il renziano Lorenzo Guerini e l’onorevole forzista Annagrazia Calabria tocca l’87%.
Il desiderio di essere come tutti, ma proprio tutti. Dunque, non bastassero gli abbracci della Boschi e Romani, sono in numeri a dirci che la questione destra e sinistra, lungi dall’essere superata nei dibattiti, è semplicemente inutile. Un confronto fatto di slogan completamente svuotati di significato, e non perché i vecchi bacucchi nipotini di Togliatti non capiscono – come dicono i giovani virgulti che hanno preso il Palazzo d’inverno – che l’articolo 18 è un totem (qualche volta è anche un tabù, dipende dal dichiarante). E pazienza se il modello industriale vincente è per i nuovi governanti la Fiat, che fa le macchine negli Usa, ha la sede legale in Olanda e pagherà le tasse a Londra, lasciando in Italia i cassintegrati. Il dibattito sta facendo (anzi: ha già fatto) la fine ingloriosa dell’infinita e ormai superflua querelle fascismo/antifascismo.
Una brutta vicenda di rimozione collettiva, invenzione e mistificazione: finita la guerra abbiamo finto di averla vinta, ognuno si è inventato un fratello o un cugino partigiano (con gli anni diventato nonno), la Resistenza è diventata l’epica salvifica e opportunista di un paese sconfitto. La guerra santa combattuta da pochi e utilizzata, dopo, da molti.
ORA SIAMO arrivati allo stesso punto: il dibattito è inutile perché le visioni della società – dunque i valori – dei due schieramenti sono sostanzialmente allineati. Fine delle ideologie, fine delle idee, diciamo fine anche alle finte categorie politiche. Così magari ci sentiamo anche un po’ meno presi in giro.
ps: siccome gli artisti spesso anticipano (altro che Boschi), sarà bene ricordarsi quel che già nel ‘94 cantava Gaber: “È evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra”.

il Fatto 5.10.14
Jobs act, Fassina: “Così com’è non lo voto”. Landini: “Allora siate coerenti”
Assemblea di Sinistradem a Bologna. Il leader della Fiom: "Mettiamo da parte l'articolo 18 e discutiamo sul resto"
L'ex viceministro: "Nessuna delega in bianco al governo senza misure di contrasto alla precarietà"
Cuperlo: "Credo nella disciplina di partito, ma vedremo il testo finale e valuteremo"
qui

Repubblica 5.10.14
Tessere, l’attacco di Cuperlo “Guai se il Pd diventa acido” I renziani: non si torna al ‘900
Il capo della minoranza lancia una contro-convention per ripensare la sinistra
“Sul calo degli iscritti Renzi non m’è piaciuto. Non vorrei che dal partito liquido fossimo passati a quello acido”
“Scissione? Neanche a parlarne”
di Goffredo De Marchis

ROMA L’allarme iscritti arriva anche da Gianni Cuperlo. L’ex sfidante di Renzi propone un modello di partito in cui i «militanti danno forza alle idee e agli ideali di cui ha parlato proprio Matteo l’altro ieri. Altrimenti si ha l’impressione che il Pd diventi un comitato elettorale e basta ». Ma il premier sembra avere in mente un diverso modello di forza politica, quella che pensa prima ai voti e poi alle tessere, quella che guarda agli elettori e meno alla base. Lo ha detto con chiarezza a Ferrara. «E non mi è piaciuto — osserva Cuperlo —. Non vorrei che dal partito solido si passasse al partito liquido e infine al partito acido, dove si fanno battute allo scopo di mettere in difficoltà l’interlocutore».
A Bologna Cuperlo lancia un nuovo pezzo della minoranza democratica. Non una corrente, dice, ma un campo aperto. Si chiama Sinistradem, ospiti alla prima uscita Stefano Fassina e Maurizio Landini, già nel nome fa capire qual è il valore da recuperare. A suo modo, Cuperlo con il vertice del Pd è molto critico. «Se ci sono problemi sul tesseramento affrontiamoli insieme, lavoriamoci ». Ma non come fa Renzi: «Il nemico non è mai dentro la tua parte tantomeno dentro al tuo partito». Cuperlo giura che non è l’orizzonte della scissione a muoverlo, seppure in questi giorni il fantasma sia molto presente. «È una parola che non voglio nemmeno evocare». Però sul Pd così come è oggi strutturato, il cambiamento dev’essere radicale. «Vedo anche che si lanciano le cene di finanziamento a 1000 euro. Sono troppi — spiega —. Io lancio un pranzo a 20 euro».
La verità è che sul modello di politica i fronti sono davvero contrapposti e difficilmente conciliabili. Al di là delle precisazioni del vicesegretario Lorenzo Guerini che fissa il traguardo a 300 mila tessere entro la fine dell’anno, l’eurodeputata renziana Simona Bonafè dice chiaro e tondo: «Non dobbiamo ricostruire un partito di novecentesca memoria ma adeguarlo alla realtà che sta cambiando. Per questo non vedo come un problema quello del numero di iscritti». Anche chi non è tesserato deve avere voce nel Pd di Renzi, partecipare alla sua vita attiva: «Una realtà — spiega la Bonafè — che magari ha un pò meno iscritti ma che poi è presente nella società e da un contributo alle nuove dinamiche».
Per questo i renziani non solo confermano l’appuntamento con la Leopolda, l’evento annuale di Firenze che ha caratterizzato l’ascesa del premier (24-26 ottobre). Confermano anche che non ci saranno i simboli del Pd. Cuperlo dunque non vede cambi di rotta da parte della maggioranza e annuncia una manifestazione parallela a febbraio. Si chiamerà Leopoldo. «Mi hanno detto che c’è un albergo con quel nome a Castiglioncello. Non potevo lasciarmi scappare l’occasione».
L’accusa di creare un comitato elettorale arriva anche da Nichi Vendola. Del resto, Sel, attraverso Pippo Civati, osserva le mosse di una parte del Pd e si prepara a lavorare su un nuovo soggetto politico. Al governatore risponde il dem Dario Ginefra: «Non accettiamo lezioni da Sel e da Vendola che ha passato gli ultimi anni a teorizzare il modello “Io e il popolo”». Uscendo dai confini dello scontro Roberto Morassut, deputato Pd, ha un’altra proposta: «Quelle sulla forma partito sono chiacchiere. Gli iscritti del passato hanno spesso riposto alle logiche dei capitribù, questa è la malattia del partito. È necessario un tesseramento vero, in cui l’iscrizione non costi 20 euro ma sia parametrata al reddito di ciascuno. Così spariranno i pacchetti di tessere».

il Fatto 5.10.14
Cuperlo “il Leopoldo” contro la Leopolda
L’area di sainistra del partito si organizza e studia una nuova kermesse: “C’è un albergo che si chiama così”
di Wanda Marra

Dopo la Leopolda, ora arriva il Leopoldo. “So che questa idea mi inchioderà, ma ho visto che c’è un hotel Leopoldo, e solo l’idea che noi organizziamo il Leopoldo mi sembra una cosa straordinariamente carina”. La proposta l’ha lanciata ieri Gianni Cuperlo, durante una manifestazione a Bologna di Sinistra Dem, la sua corrente. Tessere in calo nell’era Renzi, buchi di bilancio lasciati dalla “ditta”, immobili dei vecchi Ds ancora in mano all’ex tesoriere, Ugo Sposetti.
LE MINORANZE sono all’attacco e nel Pd la guerra ormai va avanti da giorni. E immancabile, è in arrivo la battaglia delle piazze. Il 25 ottobre, a Roma, manifestano i sindacati. E in contemporanea a Firenze Matteo Renzi ha già annunciato la Leopolda. Ovvero la sua kermesse tradizionale, quella da cui ha lanciato l’assalto al Partito democratico e, contemporaneamente, alla guida dell’Italia. Nel segno della rottamazione. Mancano ancora tre settimane, ma tutti si chiedono come sarà la Leopolda, quinta edizione, la prima del segretario-premier. Un tempo sul palco della vecchia stazione industriale di Firenze non c’erano neanche i simboli del Pd. Un tempo, l’allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani contro-programmava in quelle date le riunioni nazionali dei Circoli. E adesso? Adesso, è già polemica. L’ha lanciata per primo Stefano Fassina: “Il segretario nazionale dovrebbe preoccuparsi del Pd che non è in grande forma, invece che della sua manifestazione”. Dalle parti di Renzi, cosa si dice? Per ora, poco. Nel perfetto stile del premier, c’è da scommettere che l’organizzazione la chiuderà tutta nell’ultima settimana. Ma insomma, sarà un evento di partito oppure no? I renziani dicono di no, ricordano che non lo è mai stata. In effetti, si è sempre trattato di un evento diverso, che metteva insieme spezzoni di Pd, ma soprattutto società civile e persone provenienti da vari mondi. Compresi imprenditori, scrittori e vip a vario titolo. Cinque minuti sul palco ciascuno, e un gong a scandire gli interventi. Una forma di certo più vicina all’idea di partito “liquido” di Matteo. Una struttura leggerissima, una via di mezzo tra comitato elettorale permanente e aggregazione quasi spontanea. “Quella non è la manifestazione del Pd, è la manifestazione di Renzi”, spiegano adesso i vicinissimi.
VISTO che in questa fase Renzi è il Pd, il confine è labile. “Ci hanno invitato? No. Perché avrebbero dovuto? Non è un’iniziativa del partito. Nonostante occupi l’attenzione del segretario”, ancora Fassina. Il Leopoldo sarà in contemporanea? “No. È un’iniziativa programmatica prima delle regionali per rafforzare la nostra agenda e la nostra proposta. Piuttosto il segretario nazionale prima dovrebbe riunire i coordinatori dei Comitati nazionali”. La temperatura è già parecchio alta. E hanno un bel dire i renziani che la Leopolda è sempre stata aperta a tutti: Bersani fu invitato durante le primarie 2012, ma non andò. Il reggente Guglielmo Epifani l’anno scorso un giro se lo fece. Ma erano altri tempi e tutti si prenotavano un posto sul carro del vincitore. Cosa succederà adesso è tutto da vedere.

Repubblica 5.10.14
Emanuele Macaluso
“Senza una struttura forte democrazia a rischio è colpa delle primarie”
intervista di Concetto Vecchio

ROMA Emanuele Macaluso, cosa ha pensato quando ha letto che il Pd ha ormai appena 100mila tesserati?
«Non mi sono stupito. L’attuale dirigenza del resto non è interessata a costruire un partito che sia presente nella società. Ma questo annacquamento non è figlio del renzismo, ma nasce negli anni in cui si decise di fare le primarie per l’elezione del segretario. Se il leader non lo elegge l’iscritto ma anche il cittadino, l’iscritto che ci sta a fare? E infatti non si iscrive».
Renzi pone questo dilemma: preferivate un partito con 400mila iscritti, ma fermo al 25%. La convince?
«No, è una falsa alternativa. Perché le due cose non dovrebbero coesistere? Avere il 41% e 600mila iscritti? La verità è che a Renzi non interessa avere uno strumento che orienti la comunità ».
Ma il segretario non orienta la società da Palazzo Chigi?
«Sì, ma è un orientamento individuale, non collettivo. Un partito — un partito vero, dico — deve avere un progetto politico che coinvolga migliaia di persone che a quelle idee si ispirano. Un luogo permanente di confronto articolato, di formazione del pensiero, di dibattito. È il tema su come incidere sulla cultura di massa. Per il Pd non è un problema vedo. Ma così si amministra solo l’esistente. Non c’è il progetto, perché non c’è l’elaborazione».
L’onorevole Bonafé lo rivendica chiaramente: il partito di massa è morto con il Novecento. Non ha ragione?
«No, dice una stupidaggine. I problemi oggi sono enormi, come del resto nel ‘900, e coinvolgere e conquistare le persone attorno a un’idea, a una visione del mondo, attiene al modo di concepire la democrazia: ieri come oggi».
Nel suo ultimo libro “Santuari” lei sostiene che i partiti di massa salvarono la democrazia negli anni della strategia della tensione. In che senso?
«Pensi al ruolo che svolse il Pci nei confronti del terrorismo. Fu anzitutto una battaglia culturale. Non solo di ordine pubblico: cul-tu-rale. Le Brigate Rosse non andavano semplicemente sconfitte sul piano della repressione. Questo fece il Pci, la parte migliore della Dc e i socialisti come Pertini. Infatti il terrorismo fu sconfitto nelle fabbriche».
Nel saggio afferma che un’Italia di partiti deboli corre un rischio enorme. In che senso?
«Nulla è neutrale nella formazione dell’opinione pubblica. E con partiti e sindacati così malmessi è inevitabile che alla lunga tornino a prevalere forze opache. Del resto l’articolo 49 della Costituzione, “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, non fu messo lì a caso, perché il rischio di influenze esterne, di circoli, o super circoli, che condizionino la vita pubblica, è un problema eterno della storia nazionale, che si pose già all’indomani dell’Unità d’Italia».
Lei era scettico su Renzi premier. Che giudizio dà dopo 8 mesi al governo?
«Ha dimostrato di avere intelligenza politica, e anche una buona dose di scaltrezza, ma non ha saputo mettere insieme un vero governo del Paese. Mi pare un limite non da poco».
Vuol dire che il governo è debole?
«Molto. Renzi accentra, ma il premier non ha un retroterra tale per poter fare a meno di una buona squadra. Ne avrebbe bisogno anche lui».

Repubblica 5.10.14
A Bettola neanche un iscritto è super-flop nel paese di Bersani
PIACENZA Il crollo delle tessere colpisce anche l’Emilia dell’ex segretario Pier Luigi Bersani. Finora nella sua Piacenza risultano, rispetto al 2013, circa duemila iscritti in meno. L’anno scorso le tessere erano circa 3 mila. Zero iscritti finora a a Bettola, paese natale di Bersani, i cui dati sono conteggiati insieme a quelli di altri di due piccoli Comuni della Val Nure, Farini e Feriere. In questi tre paesi l’anno scorso i tesserati democratici erano una quarantina. Nessuno di loro ha però rinnovato la tessera. Sono dati che tuttavia non preoccupano il segretario provinciale Gian Luigi Molinari. Sebbene i numeri, di fatto, segnino un’oggettiva diminuzione delle tessere rinnovate rispetto allo scorso anno, la partecipazione alle chiamate elettorali a Piacenza e provincia non è mancata. «Alle primarie regionali del 28 settembre — ricorda Molinari — hanno votato circa 2 mila persone». Cioè il doppio dei tesserati.

Repubblica 5.10.14
Renzi scardina la tradizione, Bersani e D’Alema resistono
Ma i “figli” dei vecchi big sono attratti dal leader
Civati e la scissione: “Tanti la chiedono”
Il Ragazzo e la Ditta due partiti in uno il futuro dei democratici alle prove d’autunno
di Concita De Gregorio

LADITTA, il Ragazzo. La luna di miele era per i fotografi, in verità una tregua armata. Estranei erano ed estranei sono rimasti. Al Partito (quello novecentesco, quello delle tessere che non ci sono più) il Ragazzo non è mai piaciuto: un’altra tradizione politica, tutta quella spregiudicatezza, occhiolino alle telecamere e nessuna gratitudine verso i padri. Alle Frattocchie lo avrebbero messo a rilegare atti del congresso, così si calma. Ma il Ragazzo le Frattocchie sa a malapena cosa siano, e poi quello era il Pci. A Renzi, d’altra parte, la Ditta è servita soprattutto come mezzo di trasporto: capolinea Palazzo Chigi. Come legittimazione, anche: vuoi mettere l’aura che ti dà essere alla guida del primo partito del centrosinistra europeo in confronto, mettiamo, a una lista civica. Difatti pazienza se non si iscrive più nessuno, “contano gli elettori”, ha ripetuto venerdì. Pazienza se nemmeno in Emilia vanno più a votare alle primarie, “nessuno ha interferito”, se la Ditta è in liquidazione perché “un partito senza iscritti non è più un partito”, parola di Bersani. Renzi: “Io parlo agli italiani, non ai dirigenti del Pd. Ogni volta che D’Alema apre bocca mi regala un punto”. Ecco, questo.
Dall’ultima direzione Pd è cambiato il mondo: ora è finalmente chiaro a tutti. Esistono due partiti dentro il Pd, anzi tre. Il partito di Renzi, la vecchia Ditta, la sinistra di Civati. Guardate i video su Youtube. Osservate come si muovono, ascoltate cosa dicono. La velocità, la quantità di parole per minuto. Lo schema di gioco: i vecchi in difesa, il Ragazzo all’attacco. I verbi al passato, i verbi al futuro. Bersani, D’Alema, i dirigenti venuti dal Pci hanno patito, irriso, combattuto Matteo Renzi — un boy scout scaltro e ambizioso, un democristiano 2.0 fissato con Twitter, ridevano — fino a che non ha vinto: le primarie prima, le europee dopo con un risultato da lasciare tutti muti. Il 40, e zitti. In mezzo la partita del Quirinale, che senza i 101 e rotti “traditori” avrebbe potuto davvero cambiare le sorti del Paese, ma non è accaduto e ancora resta da spiegare come, perché, per mano di chi. Ora preparano la fronda. D’Alema riunisce i suoi parlamentari a cena, Bersani parla con Pippo Civati il quale a sua volta parla con Vendola. Ieri erano insieme in manifestazione in piazza Santi Apostoli: Vendola, Civati, Landini. Un’altra sinistra possibile, ancora una. La scissione è il tema del momento. Subito? A dicembre? Non appena mancheranno i voti al Senato, magari per la legge di Stabilità?
Ora: a chi vive nel mondo reale è piuttosto chiaro che quel che accade dentro il Pd interessa ormai solo a chi lo abita. Agita curve sempre più esigue. Interessa pochissimo anche Renzi, infastidito dalle diatribe delle minoranze interne almeno quanto Berlusconi lo era dal dibattito parlamentare. Una zavorra: “Se decidono di uscire fanno il 5, e andiamo più veloce”, ha detto l’altro giorno a uno dei suoi tre uomini di fiducia — di tre persone sole si fida davvero. Fanno il 5, dice di Civati e del possibile “nuovo soggetto politico” che si è affacciato ieri dal palco di Sel. “E’ troppo presto, ora, per rompere”, dice rientrando verso casa Felice Casson, senatore civatiano e possibile candidato sindaco per Venezia. “Con l’articolo 18 in aula si andrà per le lunghe. Lo stesso governo non ha chiesto, in conferenza di capigruppo, di contingentare i tempi del dibattito: segno che il governo per primo non ha fretta”. Il governo non ha fretta di arrivare al voto finale. Civati ragiona sui tempi: “Mi chiedono di uscire dal Pd per strada, in treno, al bar mentre prendo un caffè”. Ma è presto, ripete. “Non prima di dicembre di sicuro, deve passare dicembre”.
Dicembre è il mese chiave. Perché se il riposizionamento dei Giovani turchi e le strategie di Area democratica (se Roberto Speranza in Direzione si astiene, se Andrea Orlando vota a favore e D’Attorre contro) sono ghiottonerie solo per i feticisti della materia è anche evidente che si tratta di segnali che annunciano una partita più grande. Fuori dal Pd c’è il campo esteso del centrosinistra, il destino del governo e delle istituzioni supreme, presidenza della Repubblica in testa. Civati guarda allo spazio politico di Sel, vampirizzata alle europee dalla lista Tsipras. Lavora intanto al fianco dei ‘movimenti’ storicamente diffidenti verso la Ditta, diffidenza ampiamente ricambiata, e cerca sponda nel sindacato pronto a scendere in piazza il 25 ottobre. Un’area che va da Landini a Rodotà, Zagrebelsky, Libertà e Giustizia, Sel, i verdi rimasti. “Più o meno un dieci per cento dell’elettorato”, stima Civati raddoppiando la valutazione di Renzi. Quanti siano nel Paese si vedrà al momento del voto: intanto è interessante sapere quanti sono al Senato, e se per caso la loro defezione al momento di votare le riforme possa portare, appunto, al voto anticipato e quel che ne consegue.
Ecco il nodo di dicembre. I sondaggi danno il Pd in lieve crescita rispetto al 40 e la fiducia in Renzi in ascesa. Al Presidente del Consiglio — che non è passato da un voto politico ma ha avuto una legittimazione per così dire postuma, con le europee — converrebbe andare a votare al più presto, lo sa e lo dice. Per liberarsi dalla zavorra del dissenso interno e ricalibrare le forze rispetto a Forza Italia e a Berlusconi, in declino — quest’ultimo — personale e di consensi. C’è tuttavia il vincolo del patto del Nazareno che prevede, tra l’altro, un accordo per l’elezione del prossimo Presidente da farsi con questo Parlamento. Giorgio Napolitano ha fin dalla rielezione immaginato di dimettersi per i suoi 90 anni, a giugno. Renzi vorrebbe “che fosse lui ad inaugurare l’Expo 2015”. Ma neppure il presidente del Consiglio sa con certezza se a maggio ci sarà questo o un altro Parlamento. Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme, renziano: “Ai dissidenti non conviene andare a votare, parecchi metterebbero a rischio la propria rielezione. E’ piuttosto triste, inoltre, assistere ad un’alleanza fra D’Alema e Civati in chiave anti-renziana. D’Alema e Bersani incarnano una sinistra conservatrice: operaista fuori tempo massimo, tutta schiacciata a garantire un mondo in estinzione, il loro mondo. Non li abbiamo mai visti in piazza a difendere le finte partite Iva dei giovani senza garanzie, né dei precari. Hanno governato, non hanno fatto quel che potevano e dovevano.
Civati, mi duole dirlo, finisce per ingrossare le fila di quella sinistra minoritaria e identitaria, quella che sta sempre e solo all’opposizione felice di occupare una riserva indiana in cui tutti sono puri e sono amici, si conoscono. La polemica lessicale dell’altro giorno in direzione — se gli imprenditori siano ‘padroni’ o ‘datori di lavoro’ — sembrava una riedizione dello scontro fra Occhetto e Berlusconi”. Padroni che sfruttano i lavoratori, diceva Fassina. Datori di lavoro che partecipano al destino dei loro dipendenti, insisteva al contrario Renato Soru. Pippo Civati: “Partirei da Soru, che ha avuto problemi col fisco e siede al Parlamento europeo mentre i lavoratori dell’ Unità di cui era editore sono in cassa integrazione: fossi in lui parlerei d’altro, non di rapporti societari e aziendali. Quanto al rischio scissione: certo che esiste. Oggi è il lavoro, domani sarà la legge di stabilità: che cosa facciamo, continuiamo a votare contro, restiamo dentro in dissenso dalle scelte fondamentali? Non mi pare possibile”.
Sull’altro fronte, quello della Ditta, due sono i livelli di frattura con Renzi. Quello evidente della vecchia guardia, D’Alema e Bersani ostili. Poi quello generazionale e “ministeriale”: i giovani ex dalemiani, figli di quegli anziani padri, oggi al governo del paese e del partito — ministri, capigruppo, presidenti — che proiettano su Renzi la loro personale traiettoria politica. Orfini, Orlando, Speranza, Martina. Il Ragazzo e la sua capacità di vincere trascinano nell’orbita renziana i più giovani della Ditta.
Queste le divisioni cellulari interne al Pd. Più seria e più grave, tuttavia, è l’unica divisione di cui Renzi dovrebbe aver timore: il solco che si è creato fra il vertice del partito che dirige e la sua base, quel che ne resta nell’emorragia di iscritti. Esiste il mondo della direzione del Pd, esiste il mondo di Twitter e Facebook, poi esiste il mondo fuori. C’è un’Emilia in cui vanno a votare alle primarie solo i politici di professione, una Puglia che fa accordi con il centrodestra incomprensibili ai militanti. Una Toscana che ha lasciato Livorno ai Cinquestelle, c’è Venezia commissariata, il sindaco eletto dal Pd travolto dagli scandali. C’è un Pd che si sfalda, sul territorio, una disillusione che cresce nell’ironia feroce e nella rabbia. Renzi parla al Paese, non al partito. In questo senso l’unico che davvero, per ora, ha mostrato di potere e volere “uscire dal Pd” è stato lui.

La Stampa 5.10.14
Sinistra, una Rete contro Renzi. Landini: “Ci riporta all’Ottocento”
Alla manifestazione di Sel anche Civati: sono tentato dall’addio al Pd
di Riccardo Barenghi
qui

il Fatto 5.10.14
In piazza
Vendola, Landini e Civati: patto anti-Renzi
di Sa. Can.

Pippo Civati lo chiama il “patto degli Apostoli”, dal nome della piazza dove Sel ha riunito alcune migliaia di militanti. Nichi Vendola, concludendo la giornata rilancia l’idea di una “coalizione dei diritti e del lavoro” e mette Sel a disposizione di un nuovo progetto. Maurizio Landini, il più applaudito, lancia la manifestazione Cgil del 25 ottobre e invita tutti alla “coerenza” perché questa volta “si fa sul serio”. Non escluso lo sciopero generale. Non è un nuovo partito ma non è solo una piazza in comune. La lista Tsipras sembra un ricordo (anche se oggi ad Atene lo stesso Landini parteciperà a un dibattito con il leader greco) e nasce un’alleanza di sinistra contro le politiche di Renzi che, come dice Civati “sono quelle della vecchia destra”. C’è molta Cgil: il segretario di Roma, quella della Funzione Pubblica, Rossana Dettori, della Flc, Mimmo Pantaleo; c’è la direttrice del manifesto, Norma Rangeri, Corradino Mineo, Vincenzo Vita, Luca Casarini, l’ex Fiom Giorgio Airaudo. Difficile dire dove andrà questa nuova carovana. Civati fa capire che non voterà per la soppressione dell’articolo 18 e battezza la giornata come “la prima di una sinistra possibile”. In Sel i “giovani” Nicola Fratoianni e Massimiliano Smeriglio scalpitano immaginando per Vendola un ruolo più “nobile” e per loro uno più operativo. Il primo banco di prova sarà un “viaggio comune” nelle piazze d’Italia come propone Civati. Sullo sfondo, resta il nodo della minoranza Pd, della Cgil ma anche la necessità di una leadership che, prima o poi, possa sfidare Renzi da sinistra.

Corriere 5.10.14
I dissidenti pd tra Landini e la piazza
La sinistra prova a resistere al Jobs act
Assemblea dei cuperliani: no all’idea della scissione. Ma Fassina: la riforma non è votabile
di Francesco Alberti

BOLOGNA L’adrenalina e la vis agonistica, nei serbatoi in ebollizione delle anime sparse del Pd in guerra con il premier-segretario Renzi sulla frontiera dell’articolo 18, la mette uno di quei mediani che alle caviglie picchia duro, Maurizio Landini. A Bologna, a metà mattina, il segretario della Fiom infiamma sotto il tendone bianco di una balera della Festa dell’Unità a Borgo Panigale i mille e più seguaci di Gianni Cuperlo, area Sinistradem nelle quali spiccano per durezza verso le posizioni renziane le voci di Stefano Fassina e Sergio Cofferati. Qualche ora dopo, Landini si rimaterializza a Roma, alla manifestazione di Sel in piazza Santi Apostoli, un tempo culla dell’Ulivo prodiano e ora teatro del secondo tempo di un duello che è solo agli inizi. «Vado ovunque, vado da chi mi chiama — tuona dal palco il leader della Fiom —, è una battaglia che mi ricorda quella di 4 anni fa alla Fiat e anche stavolta va fatta fino in fondo: dallo sciopero generale a manifestazioni che uniscano lavoratori, precari, cassintegrati e disoccupati. Il primo obiettivo è togliere dal tavolo l’articolo 18».
Sabato di lotta. E di chiamata alle armi. La minoranza pd ha ancora troppe voci dissonanti, troppi volti che si sovrappongono. L’assemblea nazionale dell’area Cuperlo si intitola «Campo aperto» e, come fanno notare molti, «giusto aprire le porte a tutti, ma alla fine vanno trovate convergenze». Landini ci mette passione e chilometri, ma alla fine toccherà alla sinistra pd trovare una strategia comune, e non è detto che ci riesca. Per ora c’è chi, come Fassina, ritiene «non votabile» la delega del Parlamento al governo in materia di lavoro. Chi, come Cuperlo, punta a svolgere un ruolo di cerniera tra le anime del dissenso, mettendo qualche paletto («Di scissione non voglio sentire parlare») e lasciando campo aperto sul voto alle Camere («Vedremo il testo finale, ma porre la fiducia su una legge delega di questa portata sarebbe un errore»). Poi, da Roma, c’è il leader di Sel, Nichi Vendola, che vede nella difesa dell’articolo 18 l’ombrello per «una nuova coalizione sui diritti e sul lavoro». E il dem Pippo Civati, al suo fianco: «Alle prossime elezioni ci dobbiamo presentare con Vendola, non con Verdini».
A Bologna Cuperlo sceglie «La notte delle Case del popolo» per lanciare la sua offensiva, rischiando che qualcuno tiri in ballo «Nostalgia canaglia» di Al Bano e Romina. Ma lui, tra gli applausi, guarda avanti: «Non siamo noi il vecchio: noi vogliamo portare nel futuro il meglio del Novecento. Casomai lo è chi all’improvviso scopre il bello dell’Ottocento». Concetto da approfondire. Ci pensa da Roma Vendola: «Renzi ci propone l’Ottocento 2.0». E Cofferati: «Non vorrei che la solidarietà di cui parla il premier si tramutasse nella filantropia del ricco che fa cadere la moneta: sarebbe un grave regresso». In ballo, molto di più dell’articolo 18. «C’è un preciso disegno — incalza Landini — che punta a far sì che il padrone torni a fare il padrone». E ancora Vendola, stavolta in fotocopia con Fassina, censura «l’impianto conservatore del piano Renzi: una controriforma che scarica sul sindacato le colpe della precarietà e punta ad una compressione del costo del lavoro».
Ma ora viene il difficile per la minoranza pd. Parola di uno che ci è già passato: Sergio Cofferati, che il 23 marzo del 2002 radunò al Circo Massimo 3 milioni di persone in difesa dell’articolo 18. «Oggi è tutto più difficile — afferma —: allora eravamo contro Berlusconi, adesso parliamo criticamente a un governo che abbiamo votato…». E non è un caso se l’ex leader cgil mette le mani avanti, a costo di beccarsi del gufo: «Compagni, si può perdere la battaglia, non essere maggioranza, ma l’importante è ricominciare il giorno dopo». Ci prova Cuperlo a smorzare la tensione. Prima lancia l’idea di «un Leopoldo» in contrapposizione alla Leopolda renziana per discutere del nuovo assetto del partito. Poi, togliendosi la giacca, ammette: «Mi sto modernizzando, non escludo di arrivare alla camicia bianca…».

il Fatto 5.10.14
Orlando si arrende al patto: “Niente falso in bilancio”
Il guardasigilli si piega al Renzusconi: impossibile anche l’autoriciclaggio
Nessuna speranza di colpire i reati finanziari
Un altro regalo del patto del Nazareno
di Fabrizio d’Esposito

Al congresso Idv il ministro della Giustizia allarga le braccia sull’autoriciclaggio e il falso in bilancio: “Nella maggioranza idee diverse”. Traduzione: l’Ncd di Alfano non vuole, e B. nemmeno. Un altro regalo del Patto del Nazareno

Antonio Di Pietro è rimasto in un angolo, quasi invisibile. In netta minoranza. Poi è andato via. Sul palco, il guardasigilli Andrea Orlando, leader dei giovani turchi filorenziani del Pd. Sansepolcro, in provincia di Arezzo. L’Italia dei Valori ricomincia laddove tutto iniziò sedici anni fa. Ma con qualche sorpresa. Per esempio, la pubblica ammissione del ministro della Giustizia sull’impossibilità di fare una seria riforma della giustizia nell’attuale paesaggio politico. Orlando evoca solo le mediazioni dentro la maggioranza, alludendo al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano.
IL VERO CONVITATO di pietra è però il patto segreto del Nazareno tra il premier e il Pregiudicato. Il falso in bilancio? Orlando dixit: “Sarà difficile reintrodurre il reato falso in bilancio, anche perché dobbiamo relazionarci con i nostri partner nell’esecutivo”. Altro esempio: l’auto-riciclaggio, finito sotto tutela dell’ineffabile coppia composta dalla renziana Maria Elena Boschi e dal berlusconiano Niccolò Ghedini. Orlando, ancora, ai limiti dell’impotenza: “Non è semplice, anche in considerazione dell’attuale quadro politico in cui convivono, diciamo, sensibilità diverse”. Insieme con Orlando, alla festa della rediviva Idv guidata da Ignazio Messina, che aspira a ritrovare una solida alleanza con il Pd di Renzi, il vicepresidente dell’Anm Valerio Savio e l’ex parlamentare di-pietrista Federico Palomba, esperto di politica giudiziaria.
LA DELUDENTE risposta del guardasigilli sulle “sensibilità diverse” è arrivata da una chiara considerazione di Savio sull’auto-riciclaggio: “Vorrebbe dire poter colpire chi ricicla in imprese proprie il denaro frutto di reati. Un meccanismo che adesso è difficilissimo stroncare proprio in mancanza di una legge”. La confessione pubblica del ministro non ha risparmiato neanche la questione della riduzione della custodia cautelare, altro storico cavallo di battaglia della destra berlusconiana. Ha detto Orlando: “Dobbiamo capire quanto lungo è il passo che dobbiamo fare. Sulla custodia cautelare bisogna chiedersi: è meglio riempire le carceri e poi essere costretti a provvedimenti come l’amnistia e l’indulto o piuttosto è meglio utilizzare la custodia con più parsimonia?”.
Un falso problema per il vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati: “Il punto è che le carceri sono piene di persone arrestate per reati comuni, soprattutto stupefacenti. Mentre il potere repressivo è quasi nullo rispetto ai reati che commettono i colletti bianchi”.
In pratica, l’unico risultato che il ministro della Giustizia porterà a casa entro dicembre, anche a costo di fare un decreto, è la responsabilità civile contro i magistrati, con la formula indiretta, per non apparire “troppo punitivi con le toghe”. L’uscita di Orlando alla festa dell’Idv è l’ennesima conferma delle riforme a trazione renzusconiana.
Ed è stato proprio il Condannato, nel recente ufficio di presidenza di Forza Italia, a parlare del suo rapporto con Renzi. Non solo sull’articolo 18: “Siamo pronti a dare una mano anche sulla giustizia a patto che siano rispettati gli impegni presi”.
IMPEGNI, ovviamente, che rientrano in quel patto segreto cui è impiccata la nuova gloriosa era renziana. Del resto, lo stesso guardasigilli Orlando, appena diventato ministro, annunciò proprio dalle colonne del nostro quotidiano: “Presto il falso in bilancio e l’auto-riciclaggio”. Otto mesi dopo non solo non è arrivato nulla, ma la mediazione è al ribasso per la doppia interdizione del Nuovo Centrodestra e di Forza Italia.
Senza dimenticare il ministro confindustriale Federica Guidi, apertamente contraria alle misure che spaventano il Pregiudicato. Il renzismo è di destra anche sulla giustizia. E ieri Orlando lo ha ammesso.

Corriere 5.10.14
Autoriciclaggio, torna la tensione governo-toghe sulle nuove regole
di Tommaso Labate

ROMA La responsabilità civile dei magistrati? «La via del decreto è l’ extrema ratio ». Andrea Orlando mette ordine rispetto ai punti interrogativi sulla riforma della Giustizia. Ma l’aspetto destinato a far riaccendere lo scontro coi magistrati riguarda i paletti dell’autoriciclaggio.
Il punto contestato dell’ultimo testo, su cui ieri ha ironizzato il Fatto quotidiano , è il «godimento personale». In sintesi: se un bene acquistato con soldi riciclati è usato per godimento personale, le norme sull’autoriciclaggio — che scattano nella versione hard (dai 2 agli 8 anni) se il reato alla base è punito con pene sopra i 5 anni — non valgono. Facile regolarsi se i soldi sporchi vengono usati per acquisire un albergo, che è un investimento. Ma, come nel caso di scuola più citato tra i tecnici, come regolarsi se vengono usati per comprare diamanti? Il criminale può spacciarsi per un amante dei carati (e invocare il «godimento personale») o le toghe possono opporgli che anche un diamante è un investimento? I tecnici del ministero della Giustizia accettano parte delle critiche e annunciano che «nei sub emendamenti il concetto di “godimento personale” sarà esplicitato meglio». Ma una cosa la rivendicano. L’impostazione iniziale di Orlando partiva proprio dal testo sull’autoriciclaggio più «netto», mutuato dalla commissione Greco. Poi la versione del ministero dell’Economia, preoccupato dall’obiettivo del rientro dei capitali — spiegano –—aveva definito la sfera dell’autoriciclaggio «solo ai casi di occultamento dei proventi».
Tra la versione hard e quella soft, anche a seguito di una dura contesa con Ncd e con quel pezzo di magistratura (tra questi, Nello Rossi) che temeva invece pene eccessive o doppie pene per un singolo reato, s’è trovato un compromesso. Verrà punito non solo «l’occultamento dei proventi» ma anche «l’impiego degli stessi». Da quest’ultima fattispecie, che comprende l’area degli investimenti (se rubo e compro un albergo vengo punito per furto e autoriciclaggio), è stato escluso «il godimento personale» (se rubo e compro una macchina, vengo punito per furto e basta, perché non ho inquinato il mercato). Ma come regolarsi rispetto al diamante? Nei sub-emendamenti la risposta. Con la certezza che il governo non metterà mano alla soglia dei 5 anni. Per non riaprire una contesa nella maggioranza, dicono, che rischierebbe solo di far saltare tutto.

il Fatto 5.10.14
Brutte imitazioni
Articolo 18: ecco la “Via” di Matteo per fare Blair
Il pugno duro di Tony: si chiamava clausola 4, statut labour
di Caterina Soffici

Londra Anche Tony Blair aveva cominciato dai sindacati. Matteo Renzi vuole usare come grimaldello l’articolo 18. Per Blair fu la cosiddetta “clausola 4” dello statuto del partito laburista, che prevedeva “la proprietà collettiva dei mezzi di produzione”. Con quello impose la sua svolta socialdemocratica al vecchio Labour e ai sindacati che erano il suoi maggiori finanziatori. Era il 1994.
L’ABOLIZIONE della clausola marxista sanciva ufficialmente la nascita del New Labour e tutta l’Europa guardò al brillante quarantenne come alla stella da seguire nella costruzione di una nuova via, la Terza Via appunto, verso sorti progressiste ma non più socialiste. Articolo 18 e clausola 4: in entrambi i casi una battaglia simbolica, perché l’articolo 18 in Italia oggi è per Renzi così anacronistico inutile quanto lo era la clausola marxista cancellata da Blair la cancellò.
Anche se nessuno in Uk, negli anni Novanta, aveva la minima intenzione di collettivizzare i mezzi di produzione. La sinistra britannica è stata sempre molto poco ideologica e molto pragmatica, come tutte le cose da queste parti. Erano più attenti alle reali condizioni di vita dei propri elettori, agli alloggi, alla sanità e ai salari dei lavoratori, che alla costruzione di una ideale società socialista e al vagheggiamento dell’abolizione della proprietà privata. Quindi la clausola 4 era solo un pretesto. L’obiettivo era colpire il potere di veto e di indirizzo delle potenti Union dentro il Labour. Un forte segno di discontinuità e la rottura definitiva di un dominio dei sindacati, che comunque sono rimasti, nonostante tutti gli sforzi di Blair di sciogliere il legame, i maggiori azionisti del partito fino al 2010. L’obiettivo di Renzi è analogo: fine della concertazione con un sindacato. Non rappresenta più i lavoratori ma solo una piccola parte di privilegiati, quindi noi che siamo il nuovo lo facciamo fuori. Se Renzi riuscirà a mandare in soffitta l’articolo 18, sarà il completamento dell’operazione di rottamazione iniziata con le primarie e la sfida agli ex leader, da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani. È chiaro che Blair è il modello ideale di Renzi. A cominciare dal linguaggio. I sindacati sono una “eredità arcaica” diceva Blair. “I vostri metodi, le vostre risoluzioni, le commissioni, i gruppi di potere, non hanno un futuro”. “Flessibilità, modernità, competitività”. “I sindacati non governano. Siamo noi che governiamo il paese perché siamo eletti dalla gente per farlo”. Sono tutte frasi di Blair, sono le stesse cose che ripete Renzi oggi. Con il piccolo particolare, che a Blair l’operazione è riuscita perché i sindacati erano già stati piallati dal passaggio di Margaret Thatcher. La fascinazione di Matteo per Tony è di lunga data. L’altra giorno, al Guildhall, nel discorso tenuto nel tempio della City, Renzi ha citato Blair a più riprese. A un certo punto è uscito con un “Education education education”, che era una chiara evocazione del fantasma aleggiante di Blair.
OGGI PER LA sinistra il vecchio Tony è grande motivo di imbarazzo, per le bugie sulla guerra in Iraq e per la spregiudicatezza con cui si è arricchito a dismisura, tramite la sua società di consulenza che fa affari con dittatori ed equivoci personaggi. Comunque tutti, anche i suoi critici più feroci, riconoscono che il bilancio del suo governo (1997-2007) rimane molto positivo: l’introduzione del salario minimo per tutti i lavoratori, i permessi di paternità, la riforma dell’istruzione con miglioramento degli standard delle statali, una grande attenzione per le periferie e diminuzione della microcriminalità. Blair ce l’ha fatta. Ma l’Italia non è la Gran Bretagna. Gli italiani non sono gli inglesi. E soprattutto Renzi non è Blair.

il Fatto 5.10.14
Marianna Mazzuccato
“Il premier in Usa? Solo tanti inchini”
“Dovrebbe far pagare le tasse”
di Carlo Di Foggia

“Secondo me non l’ha capita”. Matteo Renzi e la Silicon Valley. Il viaggio del premier nel più grande distretto tecnologico del mondo (sede di colossi come Google o Apple) ha colpito gli americani, “conquistandoli”, ha sentenziato entusiasta la stampa italiana. “Dal dibattito di queste settimane, dubito che ne abbia capito i meccanismi”, spiega invece l’economista Mariana Mazzucato, ospite a Roma della Maiker Faire, la fiera dell’innovazione tecnologica. L’autrice del “brillante” (giudizio del Financial Times) Lo Stato innovatore (Laterza), romana d’origine e inglese d’adozione, si accalora quando le ricordano che il suo lavoro è finito nella libreria del premier: “Non è servito. È sconsolante che discuta di articolo 18 e di riforma del mercato del lavoro come se fossero una priorità, con la solita mistica del polo pubblico parassitario che va ridimensionato”, spiega al Fatto.
LA TESI DI QUESTA giovane docente all’Università del Sussex elogiata dalla bibbia del potere finanziario è nota: il vero agente dell’innovazione non è il mercato, o le multinazionali, neppure i pionieri visionari chiusi nei loro garage, tanto meno i fondi speculativi: è lo Stato. Quello che ha la pazienza e la possibilità di assumersi il rischio degli investimenti nella ricerca di base per produrre oggetti radicalmente nuovi. Un esempio? L’Iphone, “frutto di progetti finanziati con miliardi di dollari dallo Stato federale”. “Per fare questo - spiega - non basta la promessa di qualche sgravio fiscale o di sfoltire la burocrazia: servono gli investimenti, che in Italia sono ai minimi storici. Come si fa in questo contesto a parlare ancora dello Statuto dei lavoratori? ”. Eppure è quello che sta avvenendo. “Renzi sta sbagliando tutto - spiega - È più interessato Landini all’economia dell’innovazione del premier”. Lei si sente con il segretario della Fiom? “Certo, è interessato al mio lavoro e in Ducati ha firmato accordi rivoluzionari. Non è vero che sanno dire solo no. Vengo ora dalla Svezia, dove il premier è un ex metalmeccanico, e lì il problema dei manager delle grandi aziende non è certo la flessibilità. Al massimo serve alle piccole imprese”. Quelle che però costituiscono buona parte del tessuto produttivo italiano: “Non hanno l’articolo 18, e non è vero che per questo restano piccole: la media è di tre addetti e la tutela scatta dopo i 15”.
Il viaggio negli Usa, secondo Mazzucato, avrebbe dovuto ispirare al premier un concetto basilare: oltre a investire nella ricerca, occorre trattare con le aziende. “Obama - continua - ha permesso a Marchionne di acquistare Chrysler con soldi americani, ma l’ha obbligato a investire nei motori ibridi. Renzi si è limitato a guardare Fiat spostare la sede fiscale dove paga meno tasse”.

il Fatto 5.10.14
Dietro la siepe. Svolta voyeur
Effetto Boschi: altro che tessere, meglio guardare
di Wanda Marra

“Perché veniamo a sbirciare la Boschi? Perché è bellina”. Festa dell’Unità di Firenze, ministro delle Riforme in visita, folla in delirio immortalata da Servizio Pubblico., durante un divertente servizio andato in onda giovedì scorso su La7.
La trovata registica, stavolta, è osservare l’occhio azzurro della Maria Elena nazionale attraverso la siepe. La gente si avvicina incuriosita, sgomita e cerca di scrutare il ministro (che partecipa a tanti eventi pubblici, soprattutto di partito).
Una sorta di vedo-non-vedo, guardo-non-guardo, ascolto-non-ascolto. “Giudicatemi per le riforme, non per le forme”, disse lei in una delle prime apparizioni tv da ministro. Qualche mese dopo, più che una carica istituzionale è un’icona, più che una dirigente politica è una stella del firmamento pubblico. “Parlare così di me mi sembra una perdita di tempo”, dice ancora lei dal Palco di Firenze. Ma ormai i tacchi da giaguara, i tailleur pantaloni attillati, il sobrio costumino nero, la vertiginosa scollatura rossa sono tutti fotogrammi entrati nell’immaginario collettivo. Che guarda l’arrivo in Senato della bionda visione come se fosse la passarella della Croisette e fa la calca davanti alle cucine delle Feste dell’Unità che manco a Sanremo. Le tessere calano, i fan aumentano.
SIAMO DI FRONTE alla fascinazione collettiva da maschi innamorati e femmine ammirate? Forse. Ma forse anche no. Prendiamo l’esempio maschile al top, ovvero quello di Matteo Renzi: tra selfie, camicia bianca, giubbotti da Fonzie, bagni di folla, videomessaggi alla nazione, trovate politiche a effetto, non si può dire che pure lui non sia diventato un’icona. Lo amano, lo odiano, lo criticano, lo invidiano. Ma le masse, comunque, per ora lo seguono: ovunque vada ancora si porta dietro l’effetto rockstar. Alla quale, magari, si cominciano a tirare le uova, visto che stecca.

il Fatto 5.10.14
Onorevoli pregiudicati, ma con il vitalizio
Lo Stato prima li condanna e poi li paga
L'elenco degli ex parlamentari che prendono la pensione dalle stesse casse che hanno derubato
qui

il Fatto 5.10.14
Vitalizi: tra imprenditori, giornalisti e vecchie glorie della politica. Ecco l’elenco
Pubblichiamo la lista completa degli ex deputati e senatori che percepiscono la pensione da ex onorevoli
In tutto un esborso per lo stato di 236 milioni l'anno
di Primo Di Nicola
qui

Corriere 5.10.14
Università, primato italiano imposte cresciute del 63%
I rincari in 10 anni. E in Germania si studia gratis
di Leonard Berberi

Di là, in Germania, è caduta pure l’ultima «roccaforte», la Bassa Sassonia: dal 1° ottobre l’università è gratuita. Di qua le tasse restano. E aumentano del 63% in dieci anni.
Tedeschi o no, quando si tratta dei conti del sistema accademico l’Italia non brilla. Lo spiega un documento della Commissione europea che ha preso in esame la contribuzione studentesca, le borse di studio e le esenzioni previste nella dichiarazione dei redditi.
Ci si laurea gratis in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia (e Germania). In Spagna per un percorso triennale si spendono 1.074 euro, in Belgio fino a 837, in Francia 183, in Gran Bretagna 11.099, tra 830 e 3.319 in Svizzera. L’Italia fa pagare in media 1.300 euro. L’Estonia, invece, spicca per la sua «originalità»: se lo studente raccoglie 30 crediti formativi in sei mesi (o 60 in un anno) non paga nulla. Altrimenti per ogni credito mancante deve sborsare 50-120 euro, a seconda del corso.
Le cose non vanno meglio alla voce «diritto allo studio». Secondo il dossier comunitario siamo il Paese che dà meno supporto finanziario (tra borse per motivi di reddito e premi per merito), se si esclude la Grecia: lo riceve soltanto il 7,5% degli studenti. Lontani dalla Francia, dove lo ottiene più di un giovane su tre. Lontanissimi dalla Danimarca dove lo Stato, oltre a non far pagare le rette, mette a disposizione fino a 9.274 euro.
E la percentuale italiana potrebbe pure diminuire — denunciano le associazioni studentesche — se va in porto un punto dello sblocca Italia che permetterebbe di far inserire alle Regioni i fondi per le borse nel patto di Stabilità.
Un’università gratuita per tutti anche da noi? «Me lo auguro, magari non da un anno all’altro, ma per gradini», ragiona Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, un ateneo che conta 87 mila iscritti. Sarebbe un modo, secondo il docente, «per fermare l’emorragia di studenti che non si iscrivono più nei nostri atenei e per trattenere quelli che vanno a formarsi all’estero. La fuga dei cervelli non è più solo quella dei ricercatori trentenni, ma anche dei 18-19enni». Sarebbe anche un modo «per garantire davvero il diritto allo studio: un principio costituzionale rispettato più negli anni 60-70 che oggi».
Copiare la Germania sì, ma con due precisazioni. La prima: «Il sussidio non deve essere un assegno di pre-disoccupazione, ma deve verificare che lo studente abbia un percorso regolare negli studi, che dia gli esami». La seconda: «La gratuità non si può applicare a chi ha un reddito elevato, di centinaia di migliaia di euro».
Tutto questo in tempo di crisi. «Mi rendo conto che per il Paese sarebbe un costo immediato notevole — continua Dionigi — ma si tratta di un investimento». Certo, per i tedeschi è facile. «A loro i soldi non mancano e a livello pro capite spendono più dell’Italia», aggiunge Stefano Paleari, numero uno dell’Università di Bergamo e presidente della Crui, la Conferenza dei rettori. Preso il finanziamento pubblico agli atenei nel 2012, la Germania ha dato alle sue istituzioni quasi 25 miliardi di euro, 304 per ogni cittadino. In Italia quella voce è stata di 6,6 miliardi, pari a 109 euro a testa. Un terzo. «E dal 2008 quella spesa è aumentata del 20% in Germania, ma diminuita del 14% in Italia».
Paleari non è molto d’accordo sulla gratuità. «Noi e i tedeschi abbiamo sistemi diversi e di là le tasse non sono mai state altissime». Però, se vogliamo fare come loro, «dobbiamo copiare tutto il modello, altrimenti il meccanismo salta». «Quello che ci serve nell’immediato è una stabilità del sistema contributivo — analizza Paleari —: stop a ulteriori tagli dei finanziamenti statali e di conseguenza stop all’aumento delle tasse universitarie». Un modo per concentrarsi sul diritto allo studio «che in Italia funziona male ed è insufficiente».

Il Sole 5.10.14
Le scelte obbligate del Governo
Molti non hanno ancora capito cosa è successo con il voto del 25 febbraio 2013
Quelle elezioni non sono state come le altre
di Roberto D'Alimonte


Hanno segnato una rottura profonda degli equilibri politici su cui si regge il Paese. Hanno rappresentato una svolta, per certi aspetti drammatica, della nostra storia recente. Ricordiamo i fatti. L'aspettativa largamente diffusa era che da quel voto sarebbe venuta fuori una maggioranza di centro-sinistra imperniata sull'asse Bersani-Monti. Era l'esito auspicato dall'Europa. E invece non è andata così. Gli elettori italiani non si sono allineati alle aspettative prevalenti fondate su wishful thinking e sondaggi fasulli.
Per la prima volta in un Paese dell'Unione Europea le elezioni politiche sono state vinte da un partito populista, anti-europeo. Perché il vincitore di quelle elezioni – sia chiaro – è stato Grillo. Per chi non lo ricordasse il M5S alla Camera ha preso il 25,6% dei voti contro il 25,4% del Pd e il 21,6% del Pdl. Nemmeno Forza Italia nelle elezioni del 1994 ha ottenuto un risultato simile. Per Grlllo hanno votato tutti: giovani e meno giovani, laureati e diplomati, manager e operai, lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi. Un vero "partito acchiappatutti". Il successo di Grillo è stato un urlo di protesta di un Paese che non ne può più. E la sua vittoria è stata anche la vittoria di Renzi. Se dal voto del 25 febbraio fosse venuto fuori un governo Bersani-Monti oggi Renzi sarebbe una figura marginale della politica italiana. E invece quel voto ha aperto a Renzi prima la strada del partito e poi quella del governo.
Cosa è cambiato da quel giorno? Poco o niente. La situazione politica, e soprattutto quella parlamentare, sono più o meno le stesse. Certo, ci sono stati movimenti fra i gruppi parlamentari e ci sono state scissioni ma il quadro di fondo è sempre fragilissimo. L'Italia è ancora sull'orlo della ingovernabilità. Stretta tra un Berlusconi, che è sempre lì con il suo pacchetto di elettori fedeli, le sue Tv e le sue figlie, e un Grillo che aspetta il cadavere del Paese sulla riva del fiume. Le defezioni nel campo di Berlusconi e in quello di Grillo non hanno cambiato gli equilibri parlamentari. Il M5S non si è sgretolato e il Ncd di Alfano non è decollato. Il governo si regge ancora su una maggioranza fragilissima. Al Senato il premier può contare, sulla carta, su circa 170 voti. Ma in questo calcolo ci sono tutti, i delusi dentro il partito di Alfano e i dissidenti dentro il Pd. Questi sono i numeri. Il resto sono chiacchiere.
Ma forse c'è chi pensa che esistano altre maggioranze. Quali? Tra chi? O magari c'è chi pensa che Renzi sia sostituibile con un altro leader del Pd. Illusione. Renzi oggi è il Pd. Che piaccia o meno. Ma il vero punto è un altro. Il Paese di oggi non è diverso rispetto a quello che ha urlato la sua voglia di cambiamento il 25 febbraio. La voglia di votare contro tutti e contro tutto è la stessa e cova sotto la cenere. I condizionamenti europei sono gli stessi e, come abbiamo già detto, gli equilibri in Parlamento sono gli stessi. E di tutto questo Renzi deve tener conto nella sua azione di governo.
Il premier ha sicuramente fatto molti errori da febbraio a oggi. Nella composizione del governo, nella tempistica delle riforme, nella sottovalutazione della complessità del processo legislativo, nel rifiuto di costruire intorno a sé uno staff di collaboratori che non siano solo gli amici fidati. E chi più ne ha più ne metta. Ma non ha sbagliato nel rivolgersi al Paese reale cercando un consenso senza il quale oggi in Italia non si va da nessuna parte. In democrazia contano i voti, non i desideri. E Renzi ha dimostrato – alle europee – e continua a dimostrare – con la popolarità di cui gode – cosa serve per mantenere il consenso. E tutto ciò nonostante il perdurare della crisi economica. Con una situazione parlamentare difficile come quella che ha ereditato e con la difficoltà di andare alle urne con questo sistema elettorale, o con il prossimo che ancora non c'è, il consenso popolare è la sola carta che il premier ha in mano in questo momento.
È giusto però incalzare Renzi, spingerlo a dare concretezza alla sua azione, perché è solo nei risultati sull'economia che il premier saprà mantenere quel consenso e trasformarlo in qualcosa di positivo per il Paese. Visti gli scenari parlamentari che abbiamo descritto è anche un percorso obbligato, perché altri scenari sono astratti. A meno che qualcuno non pensi che la vera alternativa a Renzi sia la troika. Ma anche la troika avrebbe bisogno di voti in Parlamento. Chi glieli darebbe?

Il Sole 5.10.14
Nell'anno zero della destra nemmeno la legge elettorale basta a salvare Forza Italia
di Stefano Folli


Dietro i litigi interni c'è un inarrestabile declino che il patto con Renzi non può frenare
Se per ipotesi si votasse domani, i sondaggi prevedono che Forza Italia si collocherebbe fra il 15 e il 16 per cento, un risultato parecchio inferiore a quello delle elezioni europee. Il partito di Grillo, pure in crisi, otterrebbe intorno al 20 per cento, forse qualcosa di più, mentre in cima alla montagna, inattaccabile, resta il Pd di Renzi. Tutto questo immaginando di andare a votare con il cosiddetto "Italicum" nella versione originale o quasi, quella a cui tendono con insistenza sia Renzi sia Berlusconi (ma sappiamo che il Parlamento deve ancora pronunciarsi).
Le previsioni elettorali aiutano a capire l'inquietudine in cui si agita il partito berlusconiano. Non sono rilevanti i litigi interni e le urla contro i dissidenti del momento, in questo caso Fitto e Capezzone. È un copione già noto che si conclude sempre – e non potrebbe essere altrimenti – con la piena vittoria del leader storico, l'uomo che paga i conti e garantisce i debiti del partito «con le mie fideiussioni»: come egli stesso tiene a precisare. In definitiva Forza Italia è sempre più "Forza Silvio" e non c'è bisogno di cambiare il nome del movimento o di smentire le indiscrezioni che parlano di una forte tentazione al riguardo. Nei fatti la trasformazione si sta già compiendo, benché il prezzo sul piano elettorale si prospetti tutt'altro che irrilevante.
Basterebbe questo per comprendere come la destra oggi sia all'anno zero. Mancano le idee liberali e un'adeguata organizzazione, manca del tutto la capacità o la volontà di andare "oltre" Berlusconi. Esiste solo il famoso "patto del Nazareno", il cui punto-chiave, forse l'unico davvero significativo, riguarda appunto la riforma elettorale, l'Italicum. Tale riforma dovrebbe garantire a Berlusconi e alla cerchia di potere intorno a lui un onorevole secondo posto, utile a perpetuare anche nella prossima legislatura l'accordo di buon vicinato con il centrosinistra "renziano". Il problema è che a questo punto niente e nessuno, nemmeno l'Italicum blindato, garantisce che tale secondo posto verrà raggiunto da Forza Italia-Forza Silvio e dai suoi pochi alleati.
Oggi al secondo posto c'è Grillo, non Berlusconi. Anzi, si direbbe che è molto difficile per la destra recuperare quei cinque punti minimo che le permetterebbero il sorpasso sui Cinque Stelle. Nemmeno l'innesto dei centristi di Alfano basterebbe allo scopo e si dovrebbe andare alla ricerca della Lega. Ma è passato il tempo in cui Berlusconi riusciva a legare insieme, sia pure alla bell'e meglio, segmenti diversi e talvolta opposti dell'universo politico. Ormai la realtà è un'altra: Forza Italia sembra ancora una volta sull'orlo della disintegrazione e forse nemmeno una discutibile riforma elettorale basterebbe a rincollare i cocci. Un punto è certo: arrivare, in caso di elezioni, al terzo posto segnerebbe per Berlusconi la fine di un'epoca. E metterebbe in moto un processo politico i cui esiti non sono facilmente prevedibili.
Renzi dichiara da tempo – lo ha ripetuto anche oggi – che il patto con il capo della destra è obbligato a causa dei «milioni di voti» che questi raccoglie. Ma cosa accadrebbe se si dimostrasse che non è più così? La destabilizzazione potrebbe travolgere tutti gli schemi. Ecco perché è interessante seguire il dibattito interno a Forza Italia. La linea berlusconiana è carica di contraddizioni che stanno ormai venendo al pettine.

il Fatto 5.10.14
Papa Francesco ‘pensiona’ il vescovo donnaiolo per relazioni con parrocchiane
Bergoglio ha rimosso monsignor Kieran Conry, della diocesi di Arundel and Brighton, in Inghilterra. Il presule non si era mai nascosto ed era solito farsi vedere a passeggio, in abiti civili, con le sue compagne
di Francesco Antonio Grana
qui

La Stampa 5.10.14
Francesco apre il Sinodo: “La Chiesa si rinnovi di fronte alla famiglia”
Il messaggio davanti a ottantamila fedeli: non temo il dibattito“
Il filosofo Cacciari: “Il vero nodo è il fine vita, mi auguro che decida la misericordia”
intervista di Giacomo Galeazzi

«Al Sinodo arrivano al pettine i nodi del Concilio». Per il filosofo Massimo Cacciari la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia rappresenta «un passaggio fondamentale per il pontificato di Francesco».
Sui sacramenti ai divorziati risposati si spaccherà il Sinodo?
«Al punto in cui si è arrivati sarà impossibile ridurre la discussione a una dimensione esclusivamente interna alle gerarchie ecclesiastiche. Dopo aver riorganizzato la Chiesa in modo radicale, Francesco non poteva non affrontare questioni di grande impatto non solo sulla vita dei credenti ma anche sull’intera etica pubblica».
Sarà muro contro muro?
«Attraverso il cardinale Kasper, favorevole alla comunione ai divorziati risposati, il Papa ha posto la questione in termini di apertura. I cardinali che gli si oppongono non rappresentano semplicemente un’ala anti-conciliarista, lefebvriana: ritengono che sia in ballo la fedeltà a Cristo. Il confronto sarà serrato e il Sinodo dovrà decidere assumendo posizioni tutt’altro che indolori. Da parte sua Francesco non cercherà facili compromessi».
Quali difficoltà si troverà davanti Francesco?
«Con Wojtyla e Ratzinger non sono stati sviscerati i temi posti dall’età contemporanea. Le esigenze e le priorità negli ultimi decenni sono state altre. E cioè la posizione geopolitica della Chiesa nel mondo e l’evangelizzazione. Dopo il Concilio sono rimaste tra parentesi le risposte da dare. Finora la Chiesa si è sostanzialmente limitata all’indicazione di principi generali. Ora si tratta di scegliere tra diverse posizioni in merito a grandi questioni: etica sessuale, famiglia, matrimonio. E, senza dubbio in prospettiva anche il fine vita».
A cosa è dovuta questa accelerazione?
«Adesso gli effetti della secolarizzazione esigono parole che non sarà facile pronunciare. Tutto si giocherà sul fatto che la tradizione possa essere modificata oppure no. E’ molto di più della consueta contrapposizione tra conservatori e progressisti. Il dato di fondo è ridefinire il comunque assai labile confine tra ciò che è tradizione e cio che è principio. I cardinali che come il prefetto per la Dottrina della fede Müller si oppongono a qualunque cambiamento su famiglia e matrimonio sostengono che non si discute puramente di tradizione».
Di cosa si tratta?
«Per Müller e gli altri cardinali del no alla revisione della dottrina sono in ballo aspetti che la tradizione ha sviluppato sulla base della parola di Cristo. In pratica bisognerà stabilire se si rimane fedeli a Cristo modificando la tradizione su famiglia e matrimonio. È di questo che si dovrà discutere al Sinodo. Qui sarà il dibattito autentico. E anche la principale difficoltà. Personalmente auspico che emerga la posizione teologica del cardinale Walter Kasper. Ossia: ciò che decide è la misericordia. È una speranza per tutti. Fuori e dentro la Chiesa».

Repubblica 5.10.14
Il senso di Bergoglio per la politica
di Agostino Giovagnoli

UN’INEDITA tensione è emersa negli ultimi giorni tra la Conferenza episcopale italiana e il governo Renzi. Il segretario della Cei, monsignor Galantino, ha richiamato il presidente del Consiglio ad una maggiore incisività sui problemi del lavoro, oltre che in materia di famiglia e di scuola, invitando il governo a «ridisegnare l’agenda politica» e ad accantonare gli «slogan». Nelle sue parole si è espressa una Chiesa italiana che, per impulso di papa Francesco, si sta spostando gradualmente verso le periferie del Paese, a partire dal Mezzogiorno dove la disoccupazione, soprattutto giovanile, è ormai stabilmente a livelli drammatici. I collaboratori di Renzi hanno reagito in modi diversi: Lorenzo Guerini ha parlato di un «appello importante» da parte del segretario della Cei, mentre Debora Serracchiani ha risposto auspicando che il cambiamento portato dal governo «diventi patrimonio comune. Mi pare che papa Francesco l’abbia capito prima e me- glio di tanti altri». Infine Renzi ha dichiarato a Repubblica che, pur essendo cattolico, non risponde ai vescovi ma ai cittadini.La sua affermazione ricorda la definizione di Romano Prodi che, nel 2005, dichiarò di sentirsi un «cattolico adulto» e votò al referendum sulla fecondazione eterologa disattendendo l’indicazione per l’astensione data dal cardinal Ruini. In realtà, da allora molte cose sono cambiate. Non solo, infatti, il papa non è più Giovanni Paolo II — e prima di Francesco c’è stato anche Benedetto XVI — ; non solo sono pure cambiati, in parte, i vertici dell’episcopato italiano; ma è cambiato anche l’oggetto del contendere. Oggi non si discute più, in primo luogo, di questioni bioetiche o di valori non negoziabili, ma di problemi del lavoro. Rispetto al tradizionale schema destra-sinistra, le posizioni sembrano addirittura rovesciate, con una segreteria della Cei più sensibile alle ragioni dei lavoratori e il leader del Partito democratico più vicino a quelle degli imprenditori. Sono cambiati anche i rapporti di forza. I “cattolici adulti” di venti o dieci anni fa soffrivano per le difficoltà create loro dalla propensione filo-berlusconiana dei vertici episcopali. Se oggi Renzi afferma chiaramente l’autonomia della sua politica dalle indicazioni dei vescovi è anche perché la Chiesa rappresenta una delle tante componenti della società italiana dal cui appoggio pensa di poter prescindere.
Indubbiamente, il ruolo della Chiesa nella politica italiana si è ridotto rispetto ai decenni passati. Tale riduzione riflette anzitutto il disinteresse di papa Francesco per il potere. Ma è in atto anche un declino dell’influenza della Chiesa sulla politica italiana che è invece frutto di una lunga gestione ecclesiastica incentrata sui valori non negoziabili, l’intervento diretto sui leader politici, l’appiattimento sul centro-destra. Sembra ora aprirsi una stagione nuova. Il richiamo di Galantino al governo, perché cerchi risultati concreti in tema di lavoro, non è in linea con la passata gestione ma in sintonia con papa Francesco. Se la Chiesa appare oggi in Italia meno rilevante del passato non è perché troppo in linea con l’attuale pontificato, ma, al contrario, perché lo è ancora troppo poco. Anche il futuro del rapporto tra cattolici e politica passa per la loro capacità di recepire pienamente la novità di Francesco. Non è un problema inedito. Già dopo l’elezione di Giovanni Paolo II, la Chiesa italiana ha avuto difficoltà a sintonizzarsi con il papa “straniero”. E i cattolici italiani non hanno saputo raccogliere né la consapevolezza wojtylana delle fragilità del blocco sovietico, che ne hanno poi determinato la rapida fine, né le sue intuizioni sull’urgenza di affrontare le sfide di un mondo sempre meno dominato dall’egemonia occidentale, anzitutto riguardo all’Islam. Oggi il problema si ripresenta, seppure in forme diverse. Il futuro dell’Italia dipende dalla sua collocazione in quel mondo globale al cui interno le periferie stanno diventando sempre più cruciali, come ben sa Jorge Bergoglio. Forse ha ragione Renzi a pensare che, alla breve e sul piano puramente elettorale, può fare a meno della Chiesa. Ma, alla lunga e sulle questioni di fondo, le cose stanno diversamente e anche Renzi ne è consapevole. Molto, però, dipenderà dalla capacità del cattolicesimo italiano di accogliere pienamente e rilanciare largamente la novità di papa Francesco.

il Fatto 5.10.14
Marino scavalca Renzi “Licenziare è di sinistra”
di Luca De Carolis

Più renziano di Renzi. “Licenziare è di sinistra”, garantisce Ignazio Marino. Ed è subito dibattito, per citare alla rovescia un Nanni Moretti d’annata. Intervistato da La Stampa, il sindaco della capitale difende la scelta di mandare a casa in un colpo solo orchestra e coro dell’Opera di Roma, per un totale di 182 persone. “L’unica azione veramente di sinistra era rifondare tutto sulla cultura del merito” assicura l’ex chirurgo. Orgoglioso di rivendicare: “Nel 2009 mi candidai alle primarie del Pd contro Bersani e dissi in tutto il Paese che non bisognava conservare l’articolo 18, ma puntare su uno Statuto dei lavori, per allargare i diritti a tutti i lavoratori precari. Allora questa visione ottenne il 14 per cento, oggi con Renzi questa impostazione è largamente maggioritaria”.
INSOMMA, prima Marino. Poi, molto dopo, il rottamato-re del 40,8 per cento, che pochi giorni fa ribadiva così la sua verità: “Un imprenditore deve avere il diritto di lasciare a casa un dipendente”. E con la frase del sindaco è quasi rima. A margine però ci sono le reazioni: tante. Da sinistra, per esempio. Giuseppe Civati risponde proprio da Roma, e proprio dalla manifestazione di Sel Fate il lavoro. Sbuffa: “Ormai sull’articolo 18 siamo alla chiacchiera da bar dello sport”. Argomenta: “Licenziare non è di sinistra o di destra, è un fatto doloroso. Qui non si tratta di scegliere una parte, ma di discutere nel merito di come risolvere le controversie tra imprese e lavoratori. E il tema è che l’art. 18 è stato cambiato appena due anni, dopo quel congresso del Pd a cui partecipò anche Marino”. Ma una frase come quella del sindaco danneggia chi fa muro contro l’abolizione? “Ripeto, per ora si chiacchiera, non c’è neppure un testo su cui esprimersi. Certo, su alcuni giornali tira un’aria contro l’articolo 18”.
CHIARA GELONI, bersaniana di stretta osservanza, twitta il suo malessere: “Dopo ‘licenziare è di sinistra’ quale sarà il prossimo sproposito nel titolo di un’intervista a uno del Pd? #fateilvostrogioco”. In viva voce, sostiene: “Ormai siamo alla rincorsa al renzismo, al bisogno di mettersi in luce seguendo la linea. Comunque io propongo il mio slogan inverso: assumere è di destra”. La Geloni insomma va di sarcasmo. Claudio Di Berardino, segretario della Cgil di Roma e del Lazio, sceglie il contropiede: “Trovo contraddittorie le esternazioni del sindaco, che fino a qualche giorno fa destinava parole lusinghiere al sindacato, riconoscendo un’accresciuta maturità di rapporti, e che ora gli spara contro dichiarandosi a favore dell’abolizione dell’articolo 18, e quindi dei licenziamenti di massa”. Segue pro-memoria: “Sarebbe un buon segnale da parte dell’amministrazione capitolina se i precari del Comune venissero stabilizzati”. Si cambia parte del campo, e si passa a Luca Zaia, governatore leghista del Veneto: “Fino a poco tempo fa era di sinistra protestare. Siamo veramente al fallimento della sinistra, a Roma come nel Paese. Non sanno più dove traghettare l’Italia, le promesse fatte non sono state mantenute”. Chiara la voglia di infierire, dalla Lega che punta a rappresentare gli scontenti. E che al sindaco di Roma una botta la tira sempre volentieri.
DALLE AGENZIE si trasloca sul web, ed è un fiorire di proteste e ironie contro il sindaco. C’è chi “non si dà pace” per averlo votato. Ma il fronte dei pro-Marino non è così minoritario, anzi. “Bene così, bisogna far funzionare il settore pubblico, non esistono solo i diritti ma pure i doveri” è il messaggio (in sintesi) dei sostenitori. Forse renziani. O forse no.

Repubblica 5.10.14
“Lirica, basta sprechi e in futuro nei teatri solo contratti a termine”
Il ministro Franceschini dopo i licenziamenti all’Opera di Roma “Non spendo le poche risorse per pagare indennità di frac o umidità”
intervista di Anna Bandettini

Quello romano è un caso isolato. Ma anche altrove vorrei assunzioni a tempo per fare spazio ai giovani
Un sistema basato su rendite di posizione non lo tutelo, lo cambio.
In Italia dobbiamo aprirci al merito

ROMA Tempi duri per il ministero di Dario Franceschini: 1.500 milioni di euro (lo 0,20% del bilancio totale dello Stato) di budget, per il triennio 2014-2016 le previsioni di un’ulteriore calo a 1,4 miliardi e un mucchio di problemi: oggi il tema al dicastero della Cultura è il licenziamento collettivo di coro e orchestra dell’Opera di Roma e il destino futuro delle fondazioni lirico-sinfoniche, un patrimonio artistico a cui lo Stato versa 186 milioni di euro.
Ministro adesso si teme che il provvedimento “lacrime e sangue” di Roma si estenda ad altre fondazioni in crisi. È così?
«No, non ci sarà un contagio. Il caso di Roma è isolato, questo è chiaro. Nessuno degli altri otto teatri lirici in crisi è in quelle condizioni. Ma auspico che in futuro si vada verso situazioni in cui orchestre e coro siano interne ai teatri ma con contratti a termine. Una procedura che potrebbe essere applicata ai nuovi assunti. È un modo per aprire ai giovani e per mettere fine alle rendite di posizione».
Una deregulation del lavoro anche nella lirica?
«Sì, bisogna che i teatri lirici non sprechino più e che si dotino di rapporti di lavoro più moderni. Sono qui per cambiare. Lo Stato dà alle fondazioni 186 milioni di euro, più 125 a quelle in crisi. Per tutto il resto del sistema musicale rimane il 23% dei finanziamenti e parliamo di 29 teatri di teatri di tradizione, 50 festival, tutto il jazz e la musica contemporanea... Bisogna che a questo impegno così sostenuto corrisponda una gestione della lirica più sana. La mia idea è che la lirica vada finanziata perché è una eccellenza italiana ma se lo Stato investe per 14 fondazioni il 47 per cento del Fondo unico per lo Spettacolo, cinema e teatri compresi non è per garantire l’indennità umidità o di frac».
Su questo gli orchestrali dell’Opera di Roma dicono che le indennità ce le hanno tutte le orchestre del mondo, e il loro è uno stipendio normale.
«Lo so, ma aggiungo due cose: produttività e meritocrazia».
È il metodo Renzi nella lirica: regole di lavoro meritocratiche, elastiche e ammazza sindacati.
«Nella mia carriera ho difeso battaglie sindacali giuste ma qui il sindacato si è fatto male da solo: a Pompei con i turisti rimasti fuori per lo sciopero dei custodi, all’Opera dove hanno fatto saltare gli spettacoli a Caracalla con il pubblico ad aspettare e perdite che avrebbero portato il teatro alla liquidazione coatta».
Come ci si sente ad aver licenziato 182 persone?
«Che orchestra e coro dell’Opera restino a casa è da dimostrare. Finora è stato solo prospettato un percorso il cui sbocco finale è che si ricomponga il rapporto con gli stessi professori d’orchestra e coristi, in forma nuova, con una esternalizzazione, che si è resa doverosa, con rapporti contrattuali diversi e trasparenti. Io mi auguro che gran parte degli artisti torni a lavorare sotto forma di cooperativa, società. D’altra parte era l’unico modo necessario anche se doloroso per salvare il teatro da un tracollo vicino».
Ma la causa secondo lei sono solo i lavoratori? Non gestioni incapaci?
«Certo. Le cause di una situazione come l’Opera di Roma sono da rintracciare in una corresponsabilità di un sistema seduto sulla gloria e sulla rendita di posizione. Io quel sistema non lo tutelo, lo cambio. Nella lirica dobbiamo essere competitivi, aprirci a sfide nuove, anche mettendo fine a rapporti di lavoro che non possono cambiare mai. All’estero ci sono orchestre interne ai teatri ma con contratti triennali e quadriennali che poi si ridiscutono. Questo è il modello che mi piace e che permetterebbe anche ai giovani di avere delle possibilità. Guardi Bari, al Petruzzelli, dove c’è stato sempre Fuortes. Hanno fatto le selezioni, i candidati suonavano dietro una tenda. Alla fine hanno preso in maggioranza giovani, perché erano i più bravi. Spero che anche a Roma si arrivi a qualche innesto nuovo».
Ministro ma il Petruzzelli è un’orchestra di secondo livello, e la stabilità del complesso per un’orchestra è sinonimo di qualità.
«Certo. Ma devono essere possibili integrazioni meritocratiche. L’esempio è Santa Cecilia che fa 45 giorni di tournèe all’estero l’anno, bilancio sani... Con fondi e norme come per l’Opera ».

il Fatto 5.10.14
Sempreverde
Franceschini, (l’eterno) fantasma dell’Opera
di fd’e

L’ineffabile Dario Franceschini è sempre sul luogo del delitto ma non si vede, non lascia impronte digitali. Invisibile. Un fantasma. Meglio, il fantasma dell’Opera. La controrivoluzione culturale della sinistra che licenzia è figlia di più padri ma alla fine il papà più papà ha la faccia di Ignazio Marino, il sindaco di Roma, l’uomo ideale per fare il capro espiatorio che si intesta anche le decisioni peggiori. Franceschini s’inabissa e colpisce e quando parla lo fa a Opera compiuta, magari con un paio di interviste che usciranno oggi per difendere Marino.
IL MINISTRO con la barba è il prototipo del democristiano contemporaneo che riesce a transitare indenne da una fase all’altra. In primissima fila nell’accoltellamento dell’ex amico Enrico Letta, Franceschini ha contribuito al grande casino renziano per avere in cambio la poltrona di un ministero rimasto di serie B. Quella dei beni culturali che si trasfigura nel burocratico acronimo del Mibac. Chissà se ci ha mai pensato l’ex segretario del Pd, che quando prese il posto di Veltroni alla guida del Pd si beccò la seguente scomunica dell’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi: “Se Veltroni è stato un disastro non si elegge il vicedisastro per gestire la transizione”. Franceschini, infatti, era il vice di Veltroni. Ma la politica è evoluzione e rivoluzione e il titolare del Mibac è l’ennesimo peso massimo che va fare il ministro della Cultura con l’illusione di farne la locomotiva dell’esecutivo. È accaduto già con Sandro Bondi, poeta berlusconiano (a proposito, Franceschini è un romanziere tradotto anche in Francia), e con Francesco Rutelli. L’esordio di “Dario Mibac”, lo ricordò Tomaso Montanari sul Fatto del 25 febbraio scorso, fu all’insegna del più inascoltabile luogo comune sul tesoro del Belpaese: “Penso che il ministero della Cultura sia in Italia come quello del petrolio in un Paese arabo. La cultura è il nostro petrolio”. A inventare la metafora fu un anonimo democristiano piduista, Mario Pedini buonanima, e a rilanciare il tormentone dei “giacimenti” culturali fu poi il socialista Gianni De Michelis. Dopo vent’anni il sigillo al nostro petrolio lo appose lo spietato Giulio Tremonti: “Con la cultura non si mangia”. E anche per questo una delle fatidiche linee guida di Franceschini è stata l’apertura dei “giacimenti” ai soldi dei privati. “Il mio piano”, disse, “è il più renziano del governo”. Un’altra rivoluzione culturale per la sinistra: contro l’occupazione del Valle, a Roma; lotta dura e pura contro i sindacati, sia per gli scavi di Pompei, sia per il Colosseo. Come se non esistesse una via alternativa alla sinistra che copia la destra tout court. Questo il vero fallimento del Pd. Ancora su Pompei: quando ci sono stati i crolli sotto la sua guida, Franceschini è stato costretto a chiedere scusa al povero Bondi, messo in croce a suo tempo per la stessa questione.
Tra gaffe, musei mai più gratis per gli anziani e sottosegretarie indagate, la sarda Francesca Barracciu, l’unica volta che “Dario Mibac” ha suscitato un ampio dibattito culturale è stata con la controversa riforma delle Soprintendenze. La verità è che non ci sono soldi ed è inutile annunciare “l’Italia delle grandi bellezze”, parafrasando volutamente l’Oscar di Paolo Sorrentino, se poi la crisi del turismo continua a peggiorare. E in futuro, raccontano a Montecitorio, sarà ancora peggio. Non a caso, nel Pd ci sono grandi mal di pancia “culturali”, travestiti da emendamenti, che aspettano l’arrivo in aula del decreto Sblocca Italia.
EPPURE bisogna essere indulgenti con il ministro del petrolio italiano. Se l’è vista brutta con il cuore (infarto) e il perfido amico “Matteo” parlò in direzione di “coccolone”, sinistro termine che anticipa una dipartita politica (solo questa, ci mancherebbe). Poi il cuore è risorto grazie al matrimonio, tre settimane fa, con Michela Di Biase, compagna di partito. Nozze celebrate a Sutri, vicino a Viterbo, lungo quella via Francigena che il ministro vorrebbe trasformare nel nostro Cammino di Santiago. Unico sussulto, senza seguito, è stato quando “da ministro della Cultura intendo sfidare la tv, pubblica e privata: ha fatto tanti danni, ora deve risarcirci”. Nel senso che in Italia non si legge più anche a causa delle televisione. Ma di talk show riconvertiti alla letteratura non si ha notizia dopo la sfida franceschiniana. E il Mibac sta sempre lì, sullo sfondo. Nell’incuria generale dei nostri “giacimenti” culturali.

Repubblica 5.10.14
La nuova verità su Shahzad “Massacrato a calci e pugni fu un pestaggio a freddo”
La morte del pakistano a Roma: il racconto dei testimoni davanti al pm “Non fu lui a provocare”
Dopo l’omicidio di Shahzad a Tor Pignattara ci sono stati due cortei: uno a favore di Daniel, il minorenne arrestato, l’altro in ricordo della vittima da parte della comunità pakistana
Indagato il padre del diciassettenne omicida
di Fabio Tonacci

ROMAChi ha visto Shahzad morire per la furia acerba di un ragazzino di 17 anni non parla di sputi. Né di spintoni o provocazioni da parte del pakistano ucciso. Chi lo ha visto morire su un marciapiede di Tor Pignattara sporco del suo stesso sangue senza che nessuno dei presenti lo abbia ritenuto degno di un tentativo di soccorso, racconta la notte del 18 settembre scorso per quella che è stata. Un pestaggio a freddo. Istigato, forse, da chi avrebbe dovuto e potuto fermarlo.
La storia dell’omicidio di Muhammad Shahzad Khan, il 28enne pakistano arrivato in Italia dal 2007 e padre di un figlio di quattro mesi che non ha mai visto (è rimasto a Bagh Ajk City con la madre), è stata riscritta da alcuni testimoni oculari sentiti, in sede di incidente probatorio, dal pm minorile Carlo Paolella. Confronti faccia a faccia con Daniel, il minorenne arrestato, che ha ammesso sì di aver dato un cazzotto a Shahazad, «ma uno solo», perché «mi aveva sputato», perché «era ubriaco e molesto », perché «con uno spintone mi ha fatto cadere dalla bicicletta». Non è quello che hanno visto i testimoni. La versione che risulta incrociando le diverse deposizioni, definite «congruenti » dagli investigatori, è un’altra. Questa.
Giovedì 18 settembre, undici e quaranta di sera, via Pavoni, Tor Pignattara. «Shahzad era passato già tre o quattro volte quel giorno», sostengono. «Canticchiava una sorta di nenia in arabo, aveva in mano una specie di “rosario” o qualcosa di simile». Il 28enne sta recitando probabilmente delle Sure del Corano: ha avuto un lutto recente in famiglia ed è vestito in abiti religiosi. Non viene visto infastidire nessuno, se non con il tono alto della voce. «Dalla finestra di casa il padre di Daniel gli aveva urlato qualcosa ». L’ultimo “giro” in via Pavoni di Shahzad, che non beveva mai stando a quanto dicono gli operatori del centro di accoglienza dove dormiva da una ventina di giorni, è quello fatale.
«Tutto è durato nemmeno un minuto». Cosa accade, in quell’ultimo minuto di vita di Shahzad? «Quando appare di nuovo in strada, sempre canticchiando, dalla finestra della casa di Daniel qualcuno gli scaglia una bottiglia». Il pakistano non viene colpito, ma si ferma. Intuisce che sta per accadere qualcosa di brutto. In quel momento — vedono gli “spettatori” involontari di quella notte di sangue — piomba lì Daniel in bicicletta, in compagnia di un suo amico, anche lui in bici. Il ragazzo scende e si avventa su Shahzad. «Prima lo colpisce con un cazzotto, il pakistano cade, e quando è a terra lo prende a calci sulla testa». Alcuni residenti si affacciano alla finestra, gli urlano di fermarsi. Inutile. Ci sono anche altre cinque o sei persone un po’ più lontane, davanti a una pizzeria al taglio. Non intervengono. «L’amico di Daniel — si legge nei verbali — non partecipa al pestaggio ».
Shahzad è gracile, pesa cinquanta chili o poco più. Non riesce nemmeno ad accennare una qualche difesa. Cade a terra dopo il primo pugno e da lì non si alza più. Sul referto dell’autopsia il professor Giorgio Bolino scriverà: «Reiterato traumatismo contusivo del capo con frattura temporale destra ed emorragia sub aracnoidea diffusa». Gergo medico che inquadra l’esito fatale di un pestaggio violento, non certo di un colpo unico.
Dunque è lì, steso sul marciapiede, nessuno che prova a rianimarlo. Si raduna un capannello attorno al suo corpo, c’è anche chi lo ha picchiato. Scende in strada il padre di Daniel che inveisce contro quelli che avevano assistito alla scena. Sbraita, minaccia, si agita. Vuole proteggere il figlio da ciò che sta per piombargli addosso. « Fateve li cazzi vostra », «gliel’ho detto io di farlo», «tornatevene ai Parioli», «zecche ». Parole solo in apparenza sconnesse, ma che individuano in realtà il focolaio di intolleranza o esasperazione che cova in qualcuno dei “nativi” di questo quartiere, agglomerato di ex operai diventato negli anni multietnico, scelto da stranieri e romani di altre parti della città per vivere.
L’uomo è stato iscritto nel registro degli indagati dal pm Palazzi per favoreggiamento di omicidio volontario. E di omicidio con la formula del dolo eventuale è accusato dalla procura minorile suo figlio, per il quale il Tribunale del Riesame ha respinto venerdì la richiesta di scarcerazione. Per gli investigatori della Compagnia Casilina, però, l’indagine non è finita. Non tutto quadra. Si cercano telecamere che possano aver ripreso qualcosa, se non sulla scena del delitto, almeno nelle vie contigue dove potrebbe essere effettivamente avvenuto un contatto tra Shazhad e il suo omicida. «Daniel non è un razzista, non voleva uccidere », dice chi lo conosce. Sui suoi indumenti la scientifica fa i rilievi per vedere se ci sono tracce di saliva. Daniel indossava davvero dei sandali infradito, come sostiene la difesa alludendo al fatto che non poteva sferrare calci? Padre e figlio si sono davvero scambiati i vestiti prima dell’arrivo della gazzella dei Carabinieri nel tentativo di confondere le acque?

il Fatto 5.10.14
Hong Kong, giovani chiedono più giustizia sociale. Quando accadrà anche in Italia?
Ma nel nostro Paese i coetanei dei manifestanti non conoscono neanche l'articolo 18
di Pio d'Emilia
qui

Corriere 5.10.14
Nastri blu, dragoni (e pipa)
Tra i picchiatori delle triadi
A Hong Kong la mafia cinese interviene contro gli studenti
di Guido Santevecchi

HONG KONG Il primo Nastro blu salta a piedi pari sulla barricata piazzata dagli studenti. Le due del pomeriggio a Nathan Road, la strada dei mille negozi e delle infinite trame del quartiere Mong Kok a Kowloon. Dietro il tizio grosso, che fuma la pipa per darsi un’aria importante, ci sono altri due, con la faccia da picchiatori. «Teppisti da Triadi, stia attento a non avvicinarsi, ieri hanno tirato pugni anche ai cronisti quelli lì», suggerisce un ragazzo. I Nastri blu sono la risposta dei filocinesi di Hong Kong a quelli gialli portati dagli studenti che occupano da otto giorni il centro della city e sfidano il potere di Pechino. L’altra notte i filocinesi sono andati all’assalto, hanno tirato colpi, minacciato e ferito una dozzina di manifestanti democratici e pacifici, che tenevano le mani alzate. La polizia è intervenuta in ritardo e senza convinzione.
Entra in scena un altro tizio, capelli grigi, aria da capo, urla ai giovani: «Andatevene, basta occupazione, venite a battervi con noi, vigliacchi». Dal gruppo di studenti ancora mani levate con le mani aperte e la risposta: «Mostra la carta d’identità, vediamo se sei davvero di Hong Kong». Il sospetto è infatti che dietro gli assalti dei filocinesi ci sia il governo, che ha reclutato elementi fatti venire dalla vicina provincia di Canton e bassa manovalanza prestata dalle Triadi. Le associazioni segrete e mafiose storicamente sono favorevoli al potere di Pechino e a volte si prestano a fare lavori sporchi.
Il tizio grosso, con un tatuaggio sul collo, due anelli e la sua pipa, ha cominciato a comportarsi da padrone della strada e come prova di superiorità, dopo aver preso a calci la barricata, mi ha soffiato in faccia il fumo della pipa. Poco male. Dietro, un altro con tunica intarsiata di draghi vari e codino annodato in verticale sulla testa ha cominciato a inveire verso il gruppo dei cronisti. «Fotografatelo, così lo identifichiamo», incitano i ragazzi. Qualche spintone, minacce e imprecazioni. Cori di «Difendete gli studenti». Polizia sempre spettatrice.
Davvero il sorridente Chief Executive di Hong Kong, CY Leung, spalleggiato dal governo centrale di Pechino, sta usando il trucco di affidare a picchiatori venuti da fuori e Triadi la «pulizia» delle strade occupate? La polizia smentisce, fa sapere di aver arrestato 19 aggressori e che otto di loro erano collusi con le Triadi.
Rex Yip, 27 anni, vive nel quartiere: «Qui c’è di tutto, gente onesta, bulli, mafiosi. E ci sono quelli che per pochi dollari menano le mani. Ho visto tipi strani, parlano cantonese ma non con l’accento di Hong Kong». Però, tra i Nastri blu, ci sono anche cittadini di Hong Kong che davvero non hanno niente da eccepire sul governo locale fedele al partito comunista cinese; e ci sono tanti esasperati dalla paralisi delle vie dei negozi, delle superstrade, delle scuole. Fino a quando vuole insistere l’alleanza degli studenti e di Occupy Central? Non state esagerando? «Eh, questi che protestano per gli affari rovinati sono gioiellieri, arricchiti, fanno un sacco di soldi e piangono per pochi giorni di disagio. Noi pensiamo al futuro dei nostri figli», ci dice un uomo di 59 anni, ex studente dai salesiani. C’è anche molto risentimento per la diseguaglianza economica in questa crisi.
Sulla superstrada che taglia la city ad Admiralty, nella notte grande manifestazione degli studenti e di Occupy Central (che riunisce professori, intellettuali e religiosi). Un mare di gioventù entusiasta e ispirata dal sogno democratico. Canzoni e promesse di resistere.
Il Chief Executive CY Leung va in tv, dice che per lunedì mattina vuole la city sgomberata: «Ora basta, la polizia farà tutto il necessario per ripristinare l’ordine».
Appiccicato a un muro di Admiralty un manifesto scritto a mano: «Notte, neanche la luna, solo le cinque stelle della bandiera cinese, immaginate il buio che ci avvolge».

Repubblica 5.10.14
Io, leader dei diritti vi spiego perché l’Occidente ci deve difendere
di Martin Lee fondatore del movimento democratico

Il comportamento violento degli agenti ha rafforzato la determinazione degli studenti ad andare avanti nella loro battaglia
Vogliamo continuare a vivere nella libertà, non essere una città della Cina Londra e Washington hanno il dovere di aiutarci

HONG KONG A SETTANTASEI anni non mi sarei mai aspettato di essere attaccato con i lacrimogeni a Hong Kong, la mia patria un tempo pacifica. Come molti delle decine di migliaia di dimostranti non violenti che domenica scorsa erano in strada, quando la folla è stata accolta da una massa di poliziotti in tenuta antisommossa, armati e che sparavano lacrimogeni senza motivo, sono rimasto sconvolto. Dopo aver esortato a mantenere la calma di fronte a una simile provocazione, sono stato raggiunto da una nuvola di fumi urticanti.
I manifestanti non hanno ceduto. Se colpiti dal gas correvano a sciacquarsi il volto per poi tornare con le mani alzate. Ma gli agenti hanno continuato a far salire la tensione. Il loro comportamento aggressivo non ha fatto che rafforzare la determinazione dei dimostranti — molti dei quali sono troppo giovani per votare — nel difendere le nostre libertà. Come il diritto, a lungo promesso, di eleggere il nostro leader. Le squadre antisommossa si sono ritirate lunedì mattina e da allora il governo ha adottato una strategia di attesa. Il centro di Hong Kong si è trasformato in un festival di strada, con gruppi musicali e tende che spuntavano ovunque e i giovani che chiacchieravano, consultavano i telefonini e dormivano.
Perché noi manifestanti — compresi molti liceali e universitari che hanno tutta la vita davanti — combattiamo in strada per i nostri diritti? Perché questo è un estremo tentativo di difendere i valori fondamentali di Hong Kong, che da tempo ci separano dalla Cina: Stato di diritto, libertà di stampa, buon governo, indipendenza della magistratura, tutela dei diritti umani. La reazione esagerata di Pechino dimostra che il nostro futuro in quanto società libera è a rischio. A rendersene conto più di tutti sono i giovani — molti dei quali nel 1997, quando Hong Kong passò dalla Gran Bretagna alla Cina, non erano nemmeno nati. Non vogliono vivere in una Hong Kong obbligata a diventare come una qualsiasi città della Cina, corrotta dal clientelismo e basata su un ipocrita sistema monopartitico, e riconoscono e apprezzano l’importanza della libertà accademica, la possibilità di parlare e scrivere liberamente.
La protesta è destinata a raggiungere un punto di crisi che da soli non potremo superare. Serve che il resto del mondo si schieri dalla nostra parte, incluse le tante multinazionali la cui prosperità dipende dalla libertà del nostro mercato e dall’onestà e apertura della nostra società. E comprese, soprattutto, le democrazie libere di tutto il mondo. Gli abitanti di Hong Kong meritano di ricevere mag- giore sostegno da parte di Washington e Londra. Non essendosi schierate inequivocabilmente con i pacifici dimostranti democratici, sia Washington che Londra hanno di fatto preso le parti di Pechino in questa vergognosa politica della forza.
I miei timori più grandi ora sono due: che Pechino mostri ai manifestanti qualche insulsa “carota” e propini alla comunità inter- nazionale delle banalità diplomatiche. E che così facendo le manifestazioni — e l’attenzione dei media necessaria a tenerle in vita — perdano impeto. O che Pechino decida di ignorare la riprovazione globale, sicura che rispondere a dei manifestanti pacifici con lacrimogeni e violenza gli costerebbe solo flebili rimostranze da parte della comunità globale.
Il popolo di Hong Kong aspetta da decenni che la Cina onori la promessa di lasciar loro governare la città con un “elevato grado di autonomia”, impegno assunto nel 1984 con la Dichiarazione congiunta tra Cina e Gran Bretagna: un trattato internazionale riconosciuto dalle Nazioni Unite. La Gran Bretagna, che ha sottoscritto la Dichiarazione, ha il dovere di intervenire, e la politica del presidente Obama dovrebbe ispirarsi all’accordo che lega Usa e Hong Kong, nel quale si afferma che la sua sopravvivenza come società libera è interesse dell’America. Londra e Washington, che hanno un certo ascendente sui leader cinesi, hanno il dovere di esortare la Cina ad onorare i suoi obblighi. Il messaggio della scorsa settimana è chiaro: gli abitanti di Hong Kong si batteranno per tutelare le proprie libertà e il proprio stile di vita. E oggi, mentre il mondo si domanda se la Cina si comporterà come membro responsabile della comunità globale, Hong Kong rappresenta un banco di prova essenziale.
(© New York Times. Traduzione di Marzia Porta)

il Fatto 5.10.14
I turchi aprono il fuoco ma i nemici sono i curdi
di Cosimo Caridi

A POCHI CHILOMETRI DA KOBANE, ASSEDIATA DAI JIHADISTI, SI RADUNANO I MILIZIANI DEL PKK PER COMBATTERE: MA I SOLDATI “ALLEATI” LI RESPINGONO

Suruc (Turchia) Piano, ma avanza. L’offensiva dell’Isis nel nord della Siria non si arresta. I carri armati del califfato, buona parte iracheni, bombardano senza sosta Kobane, ultima roccaforte curda del paese. Dalla città rispondono con colpi di mortaio verso le colline. I miliziani muovono in continuazione le postazioni di tiro, colpirle è un’impresa ardua. A poche centinaia di metri dalla periferia nord della città un filo spinato segna il confine. Le prime case turche dopo la frontiera sono costruite in mattoni di fango. Sui tetti decine di uomini, molti con il binocolo in mano e altrettanti con cartine e tabacco, osservano lo spettrale spettacolo della guerra. “Non sono qui per guardare – esclama – sto per andare a lottare. I turchi vogliono impedirci di varcare il confine, ma ci sono molti punti della frontiera che non sono controllati”. Khalil è avvolto in una kefiah a scacchi bianchi e neri, simbolo di appartenenza ai volontari del YPG (Unità di Protezione Popolare), milizia curda legata al movimento politico clandestino PKK; ha percorso oltre 400 chilometri per combattere, arriva da Cizre, città curda della Turchia sud-orientale. Non ci sono numeri ufficiali, ma secondo YPG sono almeno duemila i curdi entrati in Siria per combattere l’Isis.
I MEZZI MILITARI turchi presidiano la frontiera, ma sono rivolti spalle ai bombardamenti. Centinaia di poliziotti in assetto antisommossa sono distribuiti su tutta l’area di Suruc, il villaggio turco più vicino a Kobane. Questo è considerato il punto di raccolta per i turchi, provenienti da tutte le regioni orientali, che vogliono rompere l’assedio - dura da oltre due settimane - del califfato alla cittadina siriana. “Viva Öcalan” esordisce Taybet Ter, una robusta cinquantenne che arriva dalla provincia di Sirnak, a oltre 500 chilometri da Suruc. “Noi qui non stiamo lottando contro l’Isis – continua, mentre una piccola folla le si raduna attorno – ma contro la Turchia”.
Applauso, interrotto da un colpo di mortaio. “Se Erdogan volesse – ricomincia, con più foga di prima – ci potrebbe aiutare, invece dà le armi ai jihadisti e cura i miliziani negli ospedali. Siamo qui per mostrare solidarietà ai nostri fratelli. Se cade Kobane cade il Kurdistan”.
Con il passare delle ore, complice il giorno di festa, il numero dei curdi nelle aree vicine al confine aumenta notevolmente. La strada si trasforma in un serpentone di auto.
TUTTI VOGLIONO assistere e nella confusione qualcuno tenta di avvicinarsi alle reti della frontiera. La polizia turca ordina un fitto lancio di lacrimogeni. Il fumo nero di Kobane che brucia viene coperto da una coltre di gas. Una giovane coppia, lei incita di sei mesi, si allontana correndo, ma i loro occhi sono ormai pieni di lacrime. Mohammed, chiede alla moglie come sta e poi esplode: “Un paio di giorni fa il parlamento turco ha approvato l’inizio delle operazioni militari. Contro di noi o contro l’Isis? ”.

Corriere 5.10.14
Le ingiuste critiche ai moderati dell’islam
Da Londra a Parigi sono sempre più numerosi i musulmani contrari a decapitazioni e stragi dell’Isis
di Bernard-Henri Lévy

È il dibattito più assurdo del momento. Riassumiamo. Sono sempre più numerose le autorità spirituali che finalmente si decidono a condannare — dal Cairo a Riad e Giakarta — i crimini di un islamismo verso cui finora erano state molto indulgenti. A Londra nasce un movimento in cui migliaia di persone gridano, su internet, il loro rifiuto di accettare che gli omicidi, le decapitazioni in serie, gli appelli alla guerra santa lanciati dall’Iraq siano perpetrati in loro nome. Il movimento si estende in Francia dove l’imam di Drancy, Hassen Chalghoumi, poi il rettore della Grande moschea di Parigi, Dalil Boubakeur, trovano le parole per dire l’orrore che ispira loro l’assassinio, sulle montagne della Kabilia, di Hervé Gourdel e invitano i fedeli a scendere in piazza per esprimere, anch’essi, il loro disgusto.
Ed ecco un manipolo di persone dalla mente limitata che, invece di felicitarsi per questo segnale di unità nazionale di fronte al peggio e invece, soprattutto, di ammirare il coraggio dei manifestanti consapevoli che, agli occhi dello Stato islamico, il fatto di sventolare il ritratto di uno «sporco francese» fa di loro dei traditori, degli apostati e degli assassinati in potenza, trovano da dire soltanto una cosa: «Che sono manipolati... obbligati a scusarsi di un misfatto che è loro estraneo... che quella gente, manifestando la propria fratellanza, in realtà ha soltanto obbedito a un ordine e confermato il sospetto di cui era oggetto...». Sorvoliamo sul disprezzo. Sorvoliamo sul fatto che esistono ancora editorialisti «di sinistra» che vedono i loro concittadini di origine araba, berbera e, in ogni caso, musulmana, come eterne vittime, oggetti della Storia e mai soggetti, incapaci di produrre un discorso proprio, alienati.
La verità è che l’Islam stesso, l’Islam invocato dagli assassini di Mosul non meno di quello degli imam di Lione o di Parigi, l’Islam di cui l’Isis è — lo si voglia o meno — lo stendardo sanguinoso, è diventato un luogo di dibattito, anzi, un campo di battaglia. E di questa battaglia i musulmani sono i primi arbitri. Islam contro Islam. Guerra di appropriazione attorno ai nomi dell’Islam. Lotta ideologica, interna quindi all’Islam, fra chi ritiene che jihad , per esempio, sia un comandamento spirituale e chi una chiamata all’omicidio e alla guerra santa.
Prendiamo in considerazione uno qualsiasi dei giovani invitati da predicatori improvvisati a raggiungere il migliaio di loro concittadini già partiti per la Siria e l’Iraq. Immaginiamolo tentato dal gruppo che si vuole fondere con il jihadismo, che egli vede formarsi nella propria città o sulle pagine Facebook e ripetono che essere musulmani significa dare la caccia agli ebrei, ai cristiani, agli yazidi e agli sciiti. Ebbene, è di importanza capitale che egli ascolti da veri imam che il Corano non è questo. È decisivo che abbia davanti a sé l’immagine di altri gruppi che testimonino che l’Islam è una religione di fratellanza e di pace. È essenziale che all’idea di Islam predicata dalla nuova setta di assassini si opponga un’altra idea, sostenuta da voci più potenti, forti di tale potenza, atte a screditare i sostenitori della prima idea.
Dire questo non significa offendere i musulmani, ma onorarli. Non significa non fidarsi, è credere nelle loro forze vive e nella loro capacità di difendere la Repubblica. Non significa fare «comunitarismo», ma fare, o rifare, politica: la vera politica, che traccia linee di demarcazione all’interno delle formazioni ideologiche al cui proposito i nostri maestri ci insegnavano che si ha sempre ragione nel farvi passare il filo che separa i due eterni partiti dell’inumanità e del vivere insieme. È l’occasione, adesso, di esaminare la malattia dell’Islam di cui parla da vent’anni Abdelwahab Meddeb. Le tragedie a catena, il grande ciclone planetario dove volteggiano alcune fra le parole dell’Islam: forse tutto questo sarà, per coloro che tengono a tali parole come alla loro fede più intima, il punto di partenza di una lunga e bella marcia al termine della quale la terza religione del Libro si libererà, anch’essa, della parte oscura di sé.
Ci auguriamo che i musulmani di Francia non perdano questa occasione. E che gli irresponsabili che li invitano a restare a casa non li facciano desistere alla vigilia della lotta che essi attendono da lungo tempo. Siamo tutti sulla stessa barca. Ma loro sono in prima linea: bisogna che vincano.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Il Sole 5.10.14
Contro l'Isis ognuno combatte il suo nemico
di Alberto Negri


L'assedio alla città curda di Kobane, accompagnato dalla spaventosa regolarità delle decapitazioni dell'Isil, sta facendo esplodere contraddizioni e paradossi del Medio Oriente ma anche nella coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Questo non è un fronte coeso e omogeneo ma un'alleanza forzata dagli eventi: i partecipanti, come la Turchia e le monarchie arabe del Golfo, perseguono obiettivi diversi tra loro e anche divergenti rispetto a quelli americani e occidentali.
Da queste parti i massacri non sono una novità ma quando le nazioni si disintegrano, i confini degli stati crollano e interi popoli vengono cancellati dall'anagrafe del loro Paese per entrare in quella dei profughi senza ritorno, anche la polemica esplosa tra il presidente turco Tayyep Erdogan e il vicepresidente americano Joe Biden può aiutare a capire cosa sta accadendo.
Biden ha dichiarato in una conferenza a Harvard che Erdogan ha ammesso di avere compiuto un errore facendo passare dalla sua frontiera con la Siria migliaia di jihadisti per combattere Bashar Assad: gran parte di questi si sono poi arruolati nelle milizie del Califfato. Erdogan nega di avere mai detto questo, esige da Biden delle scuse e afferma che i volontari anti-Assad per le autorità turche erano soltanto dei «turisti». Siamo ai ferri corti, anche se il Parlamento di Ankara giovedì ha dato via libera alle operazioni militati contro l'Isil.
La polemica divampa mentre i jihadisti sono entrati a Kobane e i carri armati turchi continuano a guardare dalla collina il massacro dei peshmerga, i guerriglieri curdi. E questo nonostante il primo ministro turco Ahmet Davutoglu avesse dichiarato di essere pronto a intervenire per evitare che questa città strategica, a 500 metri dal confine con la Turchia, e quindi anche della Nato, cadesse nelle mani delle milizie islamiche. In realtà mentre infuriava la battaglia di Kobane, di fronte la gendarmeria turca ieri ne ingaggiava un'altra a colpi di lacrimogeni, assai meno letale ma poco confortante, per fermare i volontari curdi che intendono aiutare i loro fratelli siriani.
Naturalmente niente di quanto promesso finora dai turchi è accaduto perché non hanno nessuna intenzione di rischiare i loro soldati per salvare i curdi di Rojava - così viene chiamato il Nord della Siria - alleati del Pkk di Abdullah Ocalan, storica formazione della guerriglia anti-turca nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. «Per noi l'Isil e il Pkk sono la stessa cosa» ha detto Erdogan davanti alla Moschea Blu di Istanbul alla fine della preghiera per la Festa del Sacrificio.
Americani e turchi sui curdi siriani hanno posizioni assai divergenti. Gli Stati Uniti intendono cooptarli nella coalizione contro il Califfato che conta già nelle sue file i curdi iracheni. Una posizione che può apparire ragionevole per chi cerca truppe cui affidare il "lavoro sporco" sul terreno ma ai turchi fa venire il voltastomaco. Alla parola Pkk i militari di Ankara mettono mano alla fondina, ossessionati da tre decenni di battaglie e attentati terroristici. È anche questo un atteggiamento comprensibile. Un po' meno quello di Erdogan che per un paio d'anni ha lisciato il pelo ai curdi della Turchia con la promessa di concludere un negoziato di pace con il Pkk di Abdullah Ocalan, il recluso di Imrali. Ma Erdogan è irritato dal fatto che il partito curdo in Parlamento, l'Hdp, difficilmente gli darà i voti per ottenere la maggioranza di due terzi necessaria a cambiare la costituzione e varare una repubblica presidenziale.
I turchi per ora non sono intervenuti militarmente a Kobane anche per altri motivi, legati non soltanto agli avvertimenti dai loro vicini, dalla Siria, all'Iran all'Iraq, ma condizionati dai rapporti sempre più tesi con gli Stati Uniti. La Turchia a Kobane tira la corda, lasciando che i curdi vengano lentamente stritolati, perché intendono trattare con Washington.
Nei prossimi giorni arriverà ad Ankara Joe Allan, inviato speciale del presidente Barak Obama per la guerra al Califfato: i turchi chiederanno l'imposizione di una "no fly zone" in alcune parti del Nord della Siria a contatto con il confine turco, una zona con il divieto di sorvolo simile a quella attuata in Iraq nel 1991 e nel 2003. In cambio la Turchia è pronta a concedere la base di Incirlik ai caccia della coalizione.
La "no fly zone" ovviamente non è contro l'Isil, che non ha un'aviazione, ma prende di mira Bashar Assad. Per Erdogan la battaglia per abbattere il regime di Damasco è prioritaria rispetto a qualunque altro obiettivo, Califfato compreso. Mentre per Washington il cambio di regime a Damasco sembra finito ai margini dell'agenda siriana.
Il negoziato sulla "no fly zone", osteggiata da Mosca e da Teheran, alleati di Assad, riguarda anche la polemica esplosa tra Erdogan e Biden. I turchi la vogliono per proteggere il Free Syrian Army che, dicono, è stato bombardato da Assad mentre stava combattendo contro il Califfato. La tesi dei turchi è che Assad ha favorito l'ascesa dell'Isil per presentarsi come l'unica alternativa ai jihadisti. Ma è soltanto una parte della storia: Erdogan, come dice Biden, ha lasciato via libera ai combattenti islamici anti-Assad sperando di controllarli. E ora questa coalizione anti-Califfato, che sul campo dovrebbe mettere insieme interessi diversi e persino dei nemici come l'Iran, appare sempre più un terreno mobile, sdrucciolevole, dove rischiano di scivolare alleanze consolidate da decenni. Se cade Kobane questa volta saranno in molti a perdere la faccia, certo non i curdi asserragliati nella loro Stalingrado.

Il Sole 5.10.14
Occidente e Oriente
La democrazia in crisi e le sirene autoritarie
di Guido Rossi


L'attuale disordine mondiale mostra contraddizioni evidenti e crescenti. Il capitalismo autoritario risulta vincente su quello liberaldemocratico, tradito ormai dalla globalizzazione del mercato e da uno sviluppo tecnologico dirompente. Globalizzazione e tecnologia hanno via via trasformato il capitalismo di produzione in un capitalismo finanziario: un'arena nella quale la creazione di valore nei beni prodotti ha ceduto alla speculazione basata sul debito, sia privato che pubblico.
Dalla guerra fredda in poi il costituzionalismo democratico ha interrotto il suo cammino: gli Stati europei vanno perdendo identità, le loro istituzioni fondamentali si dileguano in poteri tribali alla fine traballanti, spesso nel segno di impossibili autonomie. La soluzione, infine, di una salvifica federazione europea sta svanendo negli umori di un elettorato che in larga misura la aborre, con grande rumore mediatico. È così che la troika (Ue, Bce, Fmi), imponendo una rigorosa austerità, si è eretta a governo di fatto dell'Europa, pur priva di ogni legittimazione democratica.
Non per caso è stato sufficiente che il presidente della Bce (dai poteri limitati) si sia pronunciato sulla drammatica situazione di un'economia ristagnante e in un sol giorno le borse europee sono crollate. Dal punto di vista politico, intanto, la Germania insiste nelle sue pretese egemoniche e tende a svilire ogni tentativo di governo collegiale all'interno dell'Unione europea.
Non meno critica appare, per altri versi, la situazione della democrazia americana. Qui il presidente Obama è palesemente accusato di violare la costituzione per aver scatenato la recente guerra contro l'Isis senza l'approvazione del Congresso. Altrettanto inquietanti e rovinose si erano rivelate le decisioni della Corte Suprema nel caso Citizen United del 2010 e ancor più in quello McCutcheon del 2 aprile 2014, già da me qui commentate, che avevano deciso che ogni tipo di contributo a uomini, organizzazioni, o partiti politici da parte delle grandi società non possono essere né regolati, né limitati, in quanto protetti dal primo emendamento della Costituzione americana. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha legalizzato definitivamente la corruzione politica e il governo statunitense – come ha sottolineato lo stesso ex giudice John Paul Stevens - ha mutato la sua natura: da governo dei cittadini a governo delle corporation. Il parelleo è lecito: sia in Europa, sia negli Stati Uniti il potere delle democrazie ha abdicato agli interessi del denaro e dei potentati economici.
A ciò va aggiunta la invadente globalizzazione della Nato, la più estesa organizzazione guidata dagli Stati Uniti: ormai una forza di polizia mondiale basata su uno strapotere militare, minaccioso ea dubitativamente lecito. È un potere che ha tolto ogni funzione alle Nazioni Unite - forse ormai inadeguate - e alla loro istituzionale vocazione pacifista. È così che la storia della globalizzazione della Nato, dalla Jugoslavia al Kosovo, dall'Afghanistan alle variegate guerre al terrorismo, ha alimentato devastanti operazioni belliche, brutalmente alternative ad un ordine mondiale democratico.
In concorrenza alle democrazie occidentali un blocco di capitalismo autoritario si sta costituendo fra Russia e Cina. I recenti accordi tra Vladimir Putin e Xi Jin Ping hanno sancito e celebrato precise, ben al di là di un semplice trattato economico sul gas. Si tratta in verità di un'alleanza di Stati autoritari, con una popolazione di circa un miliardo e seicento milioni di persone, nel territorio che va dai confini della Polonia al Pacifico e dal circolo artico alla frontiera afghana, compresi altri Stati come ad esempio la Corea del Nord, la Georgia, l'Armenia.
Mentre il binomio "capitalismo - democrazia" è ideologicamente degenerato in "capitalismo - mercato", creando povertà e disuguaglianze, le élite politiche si sono via via indebolite con le loro istituzioni, dando vita alla lenta, evanescente riduzione dei poteri dello Stato, sempre più sostituiti dall'impero del mercato.
Laddove invece, nella Repubblica Popolare Cinese e nella Russia di Putin, i modelli di Stati dominanti sono ancora estremamente vitali, pur nella loro varietà, un forte interesse comune nei confronti sia della politica estera che della politica interna li unisce e li aggrega. Per la politica estera basterà ricordare il loro identico voto nel Consiglio di Sicurezza e nel sostegno a dittature sanguinarie come quella della Siria, nonché il loro comune risentimento nei confronti di un ordine mondiale imposto dagli Stati Uniti. Per la politica interna, la strategia economica appare identica nell'assicurare i benefici di un'integrazione globale ed una notevole apertura nei confronti di una modernizzazione, che avvenga nell'identico controllo ideologico sulla popolazione e nella repressione dei dissidenti.
L'economia russa e quella cinese sono aperte alle pressioni dell'economia globale, ma l'allocazione delle ricchezze è determinata non già dalle forze irrazionali e sovente oscure del mercato, ma dagli apparati centrali di uno Stato nelle mani di un'organizzazione politica centrale, di oligarchie di comando, dirette da un Presidente e dai suoi fedeli subordinati. Incredibilmente eguale e scambievole è l'esaltazione del Capo, tant'è che uno dei maggiori best seller nelle librerie cinesi è la biografia di: "Putin il grande".
La libertà del mercato capitalista consente a tali élite di mantenere il potere, poiché la libertà privata a livello individuale, di comprare e vendere, di ereditare e muoversi ed arricchirsi, da un lato facilita la crescita economica che il completo controllo dello Stato non potrebbe garantire, ma dall'altro diminuisce la domanda delle libertà pubbliche e politiche da parte dei cittadini.
Il nuovo capitalismo autoritario porta con sé un fascino che sta altresì seducendo le élite politiche di vari Paesi africani, sudamericani ed asiatici, presentando l'alternativa a uno sviluppo economico moderno, nella crescita senza democrazia e nel progresso senza libertà politica. È così che il fascino dell'autoritarismo scivola spesso in una sorta di apprezzamento o passione per i tiranni, magari nella veste di esperti, costantemente comunque indifferenti al destino dei diritti umani.
Un evento completamente nuovo si sta peraltro verificando ad Hong Kong, dove una protesta pacifista, dominata dagli studenti che si identificano nell'organizzazione "Occupy Central", sta chiedendo le dimissioni del reggente della città, dal 1997 sotto la sovranità cinese come speciale regione amministrativa, ma con un proprio riconosciuto sistema legale. I dimostranti, protagonisti di quella che viene chiamata "Umbrella revolution", chiedono elezioni popolari per la nomina del reggente, attualmente scelto da un Comitato di membri legati a Pechino e una maggior partecipazione democratica nella vita politica e sociale.
Il comportamento del governo cinese è ancora estremamente incerto.
La conclusione, peraltro, sembra a questo punto quantomeno paradossale. Negli Stati autoritari serpeggia crescente una nuova spinta verso i diritti umani di libertà politica, mentre negli Stati liberali la democrazia è addirittura considerata un fenomeno sorpassato, tanto da non essere, come ha correttamente rilevato nel suo recente libro William Easterly, ("The Tyranny of Experts: Economics, Dictators, and the Forgotten Rights of the Poor") neppure menzionata dallo statuto della Banca mondiale tra i suoi peraltro nobili scopi. Se la concorrenza fra capitalismo autoritario e quello liberale dovesse improvvisamente svolgersi sul terreno della conquista e difesa dei diritti umani, piuttosto che sul predominio mercantile e militare, l'attuale globalizzazione senza regole troverebbe finalmente un suo destino di civiltà. 

Corriere 5.10.14
Francia
L’onda cattolica e la retromarcia del socialista Valls
di Stefano Montefiori

Alla rivista gay Têtu , nel 2011, l’allora candidato alle primarie Manuel Valls (foto) aveva detto che la pratica dell’utero in affitto «se controllata è accettabile, io sono favorevole». Due giorni fa, in un’intervista al quotidiano cattolico La Croix , lo stesso Valls ormai primo ministro si è invece dichiarato contrario, «l’utero in affitto è una intollerabile mercificazione del corpo delle donne». A cosa si deve questo spettacolare cambio di opinione? Di sicuro vi ha contribuito la Manif pour tous , il movimento in difesa della famiglia tradizionale che si è battuto invano contro il matrimonio degli omosessuali e che oggi spera di portare di nuovo in piazza almeno centomila persone, in due grandi raduni a Parigi e Bordeaux. «Vogliamo l’abrogazione (non retroattiva) del matrimonio gay, il divieto dell’utero in affitto, la proibizione della fecondazione assistita per i gay, e cacciare l’ideologia di genere fuori dalle nostre scuole», dice la portavoce Ludovine de La Rochère. Una richiesta poco fondata nella realtà sembra l’ultima: l’ideologia di genere, posto che esista, nelle scuole francesi non è mai entrata, l’insegnamento della parità uomo-donna non prevede affatto l’«abolizione della differenza sessuale» ma solo la lotta alle discriminazioni. Quanto all’utero in affitto e alla fecondazione per le coppie omosessuali, invece, è vero che sono già vietate dalla legge francese, ma il governo non è immune da ambiguità: quando a giugno la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato la Francia per la mancata trascrizione all’anagrafe di due bambine nate in California, Parigi ha rinunciato a ricorrere in appello. Quindi oggi basta andare all’estero, in Grecia per esempio, e il divieto è aggirato. Movimento eterogeneo, che raccoglie migliaia di famiglie comuni, alcuni militanti di estrema destra ma anche il recente plauso degli arcivescovi di Milano Angelo Scola e di Vienna Christoph Schönborn, la Manif pour tous sembra in grado di condizionare le scelte del governo socialista. Valls ha già annunciato un’iniziativa internazionale per chiedere ai Paesi dove l’utero in affitto è legale di vietarne il ricorso ai cittadini stranieri.

il Fatto 5.10.14
Svezia, parto con utero trapiantato
Una donna ha dato alla luce un bambino grazie a un utero trapiantato. È il primo caso al mondo, stando a quanto riportato dal Telegraph. La donna, di cui non è nota l’identità, avrebbe ricevuto l’organo da una amica di famiglia. Il parto sarebbe avvenuto il mese scorso in Svezia. LaPresse

La Stampa 5.10.14
Quel figlio dall’utero trapiantato
di Elena Loewenthal

Che cos’è un utero, in fondo? Un puro contenitore, un organo vuoto dotato di uno spesso strato muscolare capace di dilatarsi per fare spazio alla vita. Nulla di particolarmente complicato, né di problematico. Si trapiantano ormai pezzi di corpo che sentiamo assai più legati alla nostra identità – intesa come individualità, visto che la caratteristica della vita è proprio quella di non produrre mai due esemplari perfettamente identici. Se la cifra della vita è la sua inesauribile diversità, il trapianto di un utero dovrebbe valere quanto quello di cuore, reni, cornee, fegati: cura, salva, preserva.
Siamo magari possibilisti e financo scettici finché non capita a noi, ma quando tastiamo con mano i progressi della medicina e della chirurgia diventiamo immensamente grati a entrambe.
A maggior ragione, nel caso di un organo non complesso né simbolico della nostra identità. Se non altro per smentire il luogo comune secondo cui l’utero servirebbe alle donne per ragionare. No, non è di lì che viene la nostra logica: lo sappiamo tutte e lo sanno anche gli uomini di buona volontà. In fondo, è solo un cavo contenitore che si può trapiantare da una donna all’altra, come è successo in Svezia fra una aspirante madre colpita da una malattia genetica che l’ha fatta nascere senza utero, e una congiunta in menopausa - l’età della vita in cui l’utero va in pensione. A maggior ragione visto che l’utero ha fatto il suo lavoro e ora madre e neonato stanno bene.
Eppure, al di là di tutta la neutralità che dobbiamo investire nel guardare a questo caso clinico, c’è qualcosa che stride. Perché se le donne non ragionano con l’utero, che è solo un fascio di muscoli particolarmente bravi a dilatarsi, è anche vero che nella lingua della Bibbia «utero» è sinonimo di «compassione». Sono quelle viscere che nulla hanno a che vedere con la logica ma molto con la sfera delle emozioni. Cioè della nostra capacità di amare e condividere, di dare e prendere in fatto di affetti. Certo, quella biblica è una pura ed empirica metafora. Certo, trapiantare un utero ha significato, nel caso specifico, dare a una donna sterile la possibilità - ambita - di diventare madre. Dunque, in questa storia che arriva dalla Svezia e che riguarda due donne sembra non esserci nulla di sbagliato: tutto combacia. Desiderio e generosità, scienza e sentimenti.
Eppure, nella sua «neutralità», questa storia disegna un’idea di maternità alla quale forse dobbiamo abituarci, o forse tentare di correggere la rotta – non drasticamente, qualche aggiustamento appena. Ricordarci, ad esempio, che «avere un figlio» è una frase sbagliata. E’ il figlio che ti ha. Infatti la lingua biblica usa il dativo, invece del possesso: «a me è un figlio». Che essere madre è la cosa più naturale che c’è e proprio per questo non è un dovere ma una condizione. Che si può vivere bene, e financo beatamente, anche senza fare figli. O adottandoli invece di tenerli dentro il proprio utero per nove mesi. Che la vita ti offre un sacco di opportunità d’affetto, al di fuori della genitorialità. Questo non significa gridare allo scandalo per un trapianto di utero che in fondo non ha alcuna rilevanza etica di per sé. Ma che potrebbe e dovrebbe diventare un’occasione per riflettere sul nostro posto nel mondo e su quel senso di responsabilità verso se stessi e verso gli altri che è il principio fondativo della vita. Più che mai quando quella vita prima di vedere la luce ti sta in grembo per nove mesi.

il Fatto 5.10.14
La tv svizzera in Italia grazie al web. “Spazio a esteri e ‘notizie dalla frontiera’”
Sette video giornalisti nella redazione del sito tvsvizzera.it, costola dell'emittente Rsi. "Le notizie internazionali occupano il 50 per cento del nostro tg"
di Chiara Carbone
qui

Repubblica 5.10.14
Sior paron dalle belle brache bianche caccia le palanche
di Eugenio Scalfari

DATE le palanche, cioè salari adeguati alle persone e ai lavori che svolgono nell’azienda. Questa bella canzone cantata dai braccianti e dai coloni delle leghe contadine nel Veneto e nell’Emilia io l’ho sentita per la prima volta nel bellissimo film “Novecento” di Bernardo Bertolucci. Lui ha raccontato come pochi altri la società italiana del secolo scorso. L’hanno chiamato alcuni storici il secolo breve; invece è stato lunghissimo: è durato almeno centovent’anni e come sempre accade nella storia degli uomini ci ha lasciato del bene e del male.
I padroni con le belle brache bianche che fanno parte integrante di questa storia cominciarono ad apparire nella società nella tarda metà dell’Ottocento e molti di essi lavoravano diversamente ma con eguale intensità dei loro dipendenti. Il loro problema è di creare imprese laddove esistevano soltanto latifondi e paludi. E il sistema in qualche modo funzionò perché ne sorsero in vari luoghi e non più soltanto nell’antico triangolo il cosiddetto «polo» e cioè Torino Milano e Genova. Ad essi si aggiunsero Savona, Alessandria, Novara, Varese, Brescia, Bergamo, Treviso, Padova e poi questa specie di coda di una stella cometa che aveva il suo centro tra Piemonte e Lombardia si diffuse anche sulla costiera adriatica arrivando fino a Pescara, Foggia, Bari, Lecce. Lì si fermò la luce di quelle stelle grandi e soprattutto piccole. E i padroni rimasero più saldi che mai ma in molti punti diventarono padroncini per la piccolezza delle aziende e la scarsità di manodopera che vi era impegnata.
La canzone che serve da titolo di quest’articolo termina con la richiesta dalla quale abbiamo iniziato il testo: «Date le palanche».
ABBIAMO già detto che cosa sono le palanche ma nella situazione che stiamo attualmente vivendo la parola serve da metafora: la palanca non è più denaro ma è la pubblica opinione, il consenso, che premia o punisce i padroni. I quali ovviamente vivono soprattutto di relazioni di favore dell’opinione pubblica, di affari con lo Stato e soprattutto di buoni profitti. Lavorano ancor più dei loro predecessori e non portano più le brache bianche. Adesso il governo in carica vuole favorirli abolendo l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè abolendo la giusta causa secondo la quale il licenziamento di un dipendente è condizionato appunto da una motivazione giuridicamente accettabile. Verrebbe mantenuto però il reintegro in caso di licenziamento dovuto a motivi disciplinari e discriminazione che è qualche cosa di più (o di meno secondo i punti di vista) della giusta causa. La discriminazione serve a vietare con l’apposito ricorso alla legge alcuni tipi di licenziamento e cioè quelli determinati da differenze di etnia, di religione e di sesso. Qualcuno pensa di abbinarvi anche provvedimenti discriminatori di tipo economico, ma la norma ancora non è scritta e quindi attendiamo.
A me tuttavia non sembra che questi provvedimenti siano utili e dirò il perché. * * * L’illegittimità per discriminazione sarà rigorosamente indicata dalla legge che il giudice dovrà ovviamente e altrettanto rigorosamente applicare. Personalmente ho la sensazione che tra discriminazione e giusta causa ci siano molte coincidenze e in certe circostanze e per certe ragioni possono diventare addirittura sinonimi o essere invocati come tali dagli interessati.
Facciamo un esempio: un dipendente di pelle scura o comunque di etnia diversa viene sospettato di essere colpevole di appropriazione indebita e per questo licenziato È ovvio pensare che l’interessato incolpato si difenda negando il fatto del quale non esistono prove concrete.
Che fa il giudice a questo punto? Se accerta l’inesistenza delle prove deve far valere la discriminazione in favore del dipendente di colore. A questo punto il giudice può e probabilmente deve appellarsi alla Corte costituzionale perché risolva un caso molto difficile e cioè la perdita del posto di lavoro da parte di persona accusata con prove quantomeno incerte ma coperta da una norma di legge molto precisa che impedisce che sia licenziato soltanto per il colore della pelle.
Che deciderebbe a quel punto la Corte? E a ben pensarci una legge di questo genere è costituzionalmente corretta o invece crea una situazione che rende diseguali i cittadini i quali, sulla base della Costituzione tutelata dalla Corte, debbono essere assolutamente eguali di fronte alla legge. Questa è una situazione molte ingarbugliata che probabilmente darà luogo ad una sequela di processi innumerevoli e potrebbe anche essere eccepita dal presidente della Repubblica.
Ho saputo poche ore fa che il presidente della Confindustria, Squinzi, asserisce che i padroni non esistono più ma ci sono soltanto lavoratori che svolgono lavori diversi, alcuni manuali più o meno sofisticati di primo o di secondo o di terzo livello ed altri, gli imprenditori ed i loro collaboratori, lavori di testa, dedicati a relazioni sociali e politiche, alla creatività aziendale.
Purtroppo questa situazione auspicata da Squinzi avviene di rado e sarebbe bene che avvenisse più spesso. Ma sta di fatto che l’abolizione dell’articolo 18 fornisce al lavoratore-imprenditore una libertà di decisione che nessun altro nell’azienda ha e quindi padrone era, padrone resta anche perché il governo sta mettendo fuori gioco le rappresentanze sindacali. Di palanche, quelle vere, ce ne sono poche o nessuna ma a questo punto voglio ricordare una questione che ho già sollevato nel mio articolo di domenica scorsa. Il governo sta pensando, e fa benissimo a pensarlo ed attuarlo, a compensare almeno i licenziati con appositi sostegni economici che rientrerebbero nella definizione di salario nazionale. Scarso ma sufficiente alla vita: pane ed acqua e poco contorno.
Questo compensa sicuramente, nei limiti del possibile, la perdita del salario o stipendio che sia, ma non compensa la dignità del lavoro cioè la perdita del posto di lavoro il quale nel 99 per cento dei casi non sarà rinnovato perché di lavoro in giro non ce n’è. Il lavoratore quindi non perde soltanto il salario ma perde la dignità e l’esistenza del lavoro, se ne sta a casa a quarant’anni o poco più in attesa che arrivi l’età della pensione e intanto incrocia le dita o legge la Settimana enigmistica . Questa dignità non va compensata monetariamente? E in cifra superiore perché superiore ne è il danno d’averla perduta, rispetto al sostegno del mancato salario? Ci sono le risorse per far questo? A me non pare ma questo aggrava di gran lunga la situazione che stiamo vivendo anche perché non a caso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci ricorda un giorno sì e un giorno no che la dignità del lavoro va comunque preservata e — aggiungo io — è tutelata dal primo articolo della Costituzione.
* * *
A questo punto si pone il problema, del resto strettamente connesso a quelli che abbiamo fin qui svolto, sulla natura del Partito democratico italiano. Il nostro giornale ha dato notizia che gli iscritti al Pd sono attualmente centomila mentre furono cinquecentomila appena un anno fa. I circoli del partito sono praticamente vuoti; i leader di corrente quando vogliono mobilitare i loro amici li riuniscono in luoghi fuori dai circoli dove dovrebbero parlare a tutti anziché soltanto ai loro. Si chiama partito liquido o così lo chiamano e sarebbe appunto basato non sui militanti ma sul popolo e sono tre i partiti o movimenti di questa natura: il Pd guidato da Renzi, Forza Italia guidata da Berlusconi e i 5 Stelle guidati da Grillo.
Tre partiti populisti. Può piacere o meno questa definizione ma di questo si tratta e Renzi infatti non sembra affatto preoccupato di questo declino quantitativo; sembra anzi che gli faccia piacere e lo ha anche pubblicamente detto. Lui si rivolge al popolo e naturalmente al popolo di sinistra visto che noi abbiamo aderito per sua iniziativa e come era giusto avvenisse al Partito socialista europeo. Dunque siamo socialisti. Dalle riforme fin qui annunciate (ma pochissimo eseguite) di socialismo non pare ci sia granché. Tant’è che mentre i sindacati battono i piedi e pensano al peggio il presidente della Confindustria è felice della situazione e non è il solo, ce ne sono molti altri come lui altrettanto felici.
Non che ricevano favori specifici ma promesse d’incentivi, quelli sì, miglioramento della loro posizione nelle aziende sicuramente e infine l’abolizione di questo articolo 18 che a loro certo non dispiace.
In realtà Renzi ha realizzato un piccolo capolavoro, bisogna dargliene atto e per quanto mi riguarda lo faccio con piacere: ha creato un nuovo partito il quale in sede europea aderisce ai socialisti ma poi va molto d’accordo sia con Hollande che certamente socialista è sia con Cameron che è un conservatore della più schietta specie. Il partito Pd trattiene o addirittura recupera dagli astenuti una parte dei votanti ma prende anche molti voti dalla destra berlusconiana o da quegli astenuti che votarono l’ultima volta per Forza Italia e questa volta hanno preferito Renzi.
Naturalmente alle elezioni del 25 maggio siamo stati quelli che hanno stravinto rispetto al totale degli altri partiti europeisti. Abbiamo vinto con 11 milioni di voti. Sono molti? Sono il 41,8 per cento degli elettori italiani, una percentuale formidabile e quasi mai raggiunta. Non si guarda mai però ai voti assoluti. I voti assoluti presi da Renzi sono stati 11 milioni; quelli presi da Veltroni quando guidò il partito per la prima volta al voto politico (non europeo) furono 13 milioni. Le percentuali erano molto più basse perché paragonate con un numero di elettori molto più alto. È curioso che questo rapporto tra cifre percentuali e cifre assolute non venga mai ricordato ed è un errore per un partito che si dice di sinistra e prende soprattutto voti da destra.
Ripeto: è un piccolo capolavoro ma la natura del partito è completamente cambiata. * * * Una brava economista che vive a in Inghilterra insegna nell’Università del Sussex, Mariana Mazzucato in un articolo da noi pubblicato venerdì ha analizzato la differenza tra la politica di incentivi agli interventi privati e la politica effettuata da enti di vario genere e specializzati in diversi settori ma tutti della stessa natura pubblica. Questi enti promuovono ed effettuano e guidano gli investimenti e finora i privati hanno accettato con franca soddisfazione queste offerte ed hanno ingrossato le dimensioni di capitale e posti di lavoro di queste iniziative.
Il luogo di tutto ciò si trova nella Silicon Valley dove fioriscono queste iniziative le quali hanno contribuito in modo ampio ad una ripresa negli Stati Uniti. Credo sia opportuno ricordare che iniziative analoghe costituirono la dorsale di politica economica di Roosevelt il quale la portò avanti e la lasciò in eredità al Paese.
Il nostro Renzi è stato di recente alla Silicon Valley, ha visitato una buona parte degli impianti e degli investimenti ivi esistenti, ha parlato con i responsabili sia pubblici sia privati. Se le affermazioni della Mazzucato sono esatte (come ho motivo di pensare) Renzi dovrebbe star per cambiare i suoi progetti che riguardano appunto l’avvio di nuovi investimenti e la creazione di posti di lavoro e in qualche modo ricavarli da quanto ha visto e constatato nella Silicon Valley altrimenti non si capisce a che cosa sia mai servita quella gita.
Del resto voglio ricordare che la nascita dell’Iri avvenne per analoghe considerazioni e l’Iri nei primi quarant’anni della sua esistenza fu una leva di direzione e di esecuzione di investimenti importantissimi per l’Italia, a cominciare dalla siderurgia che a quell’epoca era un investimento modernissimo, alle autostrade che misero sulle ruote l’unificazione linguistica e culturale del Paese. Poi decadde perché mani inesperte (non tutte di certo) e spesso conniventi e non collaboranti con interessi privati, ridussero l’Iri ad un ospedale o poco più. Prodi fu il primo dei suoi presidenti a voler disfare quella istituzione ormai logora e lo fece vendendo o tentando di vendere alcune attività alimentari che erano le più lontane dal ciclo originario.
Comunque oggi non c’è più e nessuno lo rimpiange. Ma l’esperienza della Silicon Valley opportunamente aggiornata e rinnovata come essa stessa fa di continuo, non va dimenticata con leggerezza.
Caro Squinzi, lei dice a volte cose molto sensate e a volte — mi permetta di dirlo — alcune sciocchezze. I padroni ci sono sempre ed oggi semmai sono più forti e più ricchi di prima e questo è un punto sul quale lei di solito sorvola ma che rappresenta uno degli aspetti essenziali per risanare la struttura economica e politica di questo Paese.

La Stampa TuttoLibri 4.10.14
“Marx era un genio, ma che noia leggerlo”
“Il mio Capitale non è apocalittico e crede nel capitalismo
La democrazia deve controllare le forze del mercato”
intervista di Giuseppe Salvaggiulo

Niente effetti speciali. Se Il capitale nel XXI secolo fa discutere in tutto il mondo politici ed economisti, affascinando premi Nobel e neofiti della materia - anzi delle materie, come vedremo - è perché al rigore scientifico (un’analisi dell’evoluzione del reddito e del patrimonio in venti Paesi nell’arco di tre secoli) associa l’approccio pop; alla profondità multidisciplinare, l’esposizione piana e accessibile. Una rigorosa semplicità che si ritrova chiacchierando con l’autore Thomas Piketty, poco più che quarantenne docente parigino di economia, alla vigilia della sua partenza per l’Italia.
Professore, che cosa dirà ai politici italiani?
«In realtà non vengo per parlare ai politici italiani, ma a persone che leggono libri. In Francia i politici non lo fanno, non so in Italia. Se sì, sarò lieto di rivolgermi anche a loro».
Chi sono i destinatari del suo libro: politici, intellettuali, economisti, élite finanziarie, una o più classi sociali?
«Il reddito e il patrimonio sono questioni troppo importanti per essere lasciate ai politici e agli economisti. Ho cercato di scrivere un libro molto leggibile, da chiunque. L’unico problema è che è un po’ troppo lungo. Me ne scuso».
E qual è l’obiettivo?
«Contribuire alla democratizzazione dell’economia, rendendo accessibile il sapere economico. La novità di questo libro è che io e altri 30 esperti provenienti da alcune dozzine di paesi abbiamo raccolto la più grande banca dati storica mai creata sulla distribuzione del reddito e della ricchezza. Non è un libro tecnico, tutti coloro che sono interessati alla storia della società possono essere interessati».
Come mai un libro del genere non è stato scritto prima?
«Perché i dati sul reddito e sulla ricchezza che ho utilizzato erano considerati troppo storici dagli economisti e troppo economici dagli storici. Quindi nessuno se ne occupava. Sto cercando di contribuire allo sviluppo di un’economia più storica e politica… e più interdisciplinare. Spesso gli economisti usano modelli e tecniche matematiche sofisticati ma privi di sostanza empirica. Credo che la teoria sia utile solo con molti fatti che la illustrano».
Lei è uno strano economista, se ne rende conto?
«Mi considero più un sociologo che un economista. Non ho nessun problema nei confronti dell’economia e degli economisti, ma penso che i confini tra economia storia sociologia scienze politiche e antropologia siano molto meno definiti di quanto talvolta gli economisti e gli storici ritengono. Francamente non mi interessano molto le controversie metodologiche. Dobbiamo essere più pragmatici. Il mio libro è sia di storia che di economia».
Quali testi di economisti l’hanno maggiormente influenzata?
«Fondamentale è Shares of upper income groups in income and savings scritto da Simon Kuznets nel 1953. In un certo senso, tutto quello che faccio è un prolungamento di quel lavoro pionieristico. Più recenti, Growing public di Peter Lindert (2004) e Inherited wealth di Jens Beckert (2008)».
Nel libro auspica una politica economica multipolare: che cosa intende?
«Lo stesso significato inteso in geopolitica. Io amo gli Usa, ma penso che anche l’Europa e la Cina siano importanti. Trascorro molto tempo nelle università americane, dove ho cominciato la carriera e ho molti amici, ma ritengo che non sia appropriato che il 99% degli esperti economici provenga dagli Usa. È un punto di vista parziale».
Un’altra parola ricorrente nel libro, e per nulla tecnica, è «apocalisse». Come mai?
«Non amo le previsioni apocalittiche. Pare che alcuni si sentano depressi dopo aver letto il mio libro: mi dispiace, in realtà ho una visione molto più ottimistica. Quindi mi riferisco alle previsioni apocalittiche marxiste, ma le mie non lo sono affatto».
Ma il «Capitale» di Marx è stato fonte d’ispirazione per lei?
«Marx era preoccupato, a ragione, per la crescente ineguaglianza e i redditi bassi durante la rivoluzione industriale. La soluzione da lui proposta, la fine della proprietà privata, non era giusta. Il mio problema con quel libro è che c’è qualcosa di troppo astratto e teorico. Naturalmente i dati di cui disponeva erano assai più limitati di quelli attuali, ma avrebbe potuto utilizzarli più intensamente. Inoltre quel libro è abbastanza faticoso da leggere (almeno così fu per me!). Penso che il mio sia più facile e brillante».
Che cosa pensa dell’accusa di marxismo che le viene da taluni rivolta?
«Ridicola. Il problema è che alcuni vivono ancora nella guerra fredda. Io appartengo alla prima generazione post-guerra fredda: ho compiuto 18 anni quando cadeva il muro di Berlino e non ho mai avuto la tentazione del comunismo. Per me semplicemente non esiste nel senso che è perfettamente ovvio, per chiunque apra il libro, che io credo nella proprietà privata, nelle forze di mercato. Non solo per i soliti motivi di efficienza economica ma anche perché fa parte della nostra libertà personale. Dico solo che abbiamo bisogno di istituzioni democratiche e fiscali forti, nonché di trasparenza riguardo al reddito e alla ricchezza per assicurarci che il capitalismo e le forze di mercato siano mantenuti nell’interesse comune. Ciò non ha niente a che vedere col comunismo».
Vale anche per quella parte della sinistra, un po’ smarrita, che vede nel suo libro una bussola?
«Credo che questo libro non sia per la sinistra né per la destra: io sono sconcertante per entrambe. Propone molto materiale storico che può essere interessante per tutti, indipendentemente dal credo politico».
Che cosa pensa delle reazioni suscitate dal libro tra gli economisti?
«Talvolta gli economisti non sono i migliori lettori, ma io ne ho trovati molti attenti: Robert Solow, Paul Krugman, Steve Leeds. Sono molto soddisfatto dell’accoglienza ricevuta dal libro: a volte crea polemiche, ma fa parte del gioco. A me piacciono».
Il «Financial Times» ne ha messo in dubbio la solidità scientifica.
«Oh, sì. Ho risposto dettagliatamente. Credo che perfino i lettori del Financial Times fossero molto delusi dal Financial Times: ha fatto una figuraccia».
Il «New York Magazine» l’ha definita «la rockstar dell’economia». Che effetto le fa la popolarità?
«Non esageriamo. Quando passeggio per le strade di Parigi non vedo gruppi di fan a caccia di autografi. Credo nel potere dei libri: se la pubblicità serve a farlo leggere, non ho problemi».
Il capitalismo rischia di uccidere la democrazia?
«Voglio che la democrazia controlli il capitalismo, altrimenti sempre più persone si rivolgeranno a soluzioni nazionaliste e populiste. Questa è una grave minaccia. Sta succedendo in Francia, ma anche in altri paesi europei».

Corriere 5.10.14
La sinistra italiana una storia di cambiamenti
risponde Sergio Romano

Oggi nel terzo millennio la sinistra esiste in Italia? Il nostro presidente del Consiglio Renzi è di sinistra? Ha gli stessi valori del passato, difende i nostri disoccupati, i giovani, i precari, i pensionati, i lavoratori che perdono il posto di lavoro e non sanno come affrontare la vita e cercare di dare un futuro alla propria famiglia ed ai propri figli? Gli uomini di sinistra, se esistono veramente nel nostro Paese, perché non fanno sentire più la propria voce? Perché non sono franchi e leali con gli elettori di centrosinistra? Una volta i dirigenti, gli amministratori e i parlamentari di sinistra parlavano con i militanti dei partiti locali e accettavano le critiche e facevano autocritica per migliorare la società e i partiti. Perché a livello nazionale non c’è l’unità della sinistra? Forse gli uomini di questi partiti(Pd, Sel, Psi) non sono più di sinistra? Antonio Guarnieri antoniocav.guarnieri@libero.it

Caro Guarnieri ,
Un partito politico, se non è afflitto da una forma di sclerosi, non può conservare intatti i propri obiettivi da una generazione all’altra. Dopo la fine della Grande guerra, poco meno di cento anni fa, i grandi temi, per coloro che volevano rappresentare le masse popolari, erano la terra ai contadini, la tutela degli operai sul lavoro, la previdenza sociale, la sanità pubblica, l’edilizia popolare, il ruolo dei sindacati nelle fabbriche, Gli stessi temi continuarono a dominare l’agenda politica del secondo dopoguerra, ma in un contesto modificato dalla necessità di favorire l’integrazione delle economie nazionali europee e la creazione di un Mercato Comune.
Nei primi quarant’anni dopo la fine del conflitto non vi è stato Paese in cui i partiti di sinistra non abbiano perseguito obiettivi analoghi e creato quello che fu definito in Gran Bretagna il Welfare state (Stato del benessere), in Francia Etat providence (Stato-provvidenza), in Germania Vaterstaat (Stato-papà), in Italia Stato assistenziale.
Oggi la situazione è diversa. Lo Stato assistenziale ha creato una nuova burocrazia amministrativa e sindacale, è diventato col passare del tempo sempre più costoso, ha indotto molti governi a considerare il consenso popolare più importante della buona gestione dei conti pubblici, ha avuto conseguenze negative per la competitività della mano d’opera e quindi della produzione industriale. Tutto questo è accaduto, per di più, in un’epoca in cui le nuove tecnologie contribuivano a rendere il mercato sempre più largo e la crisi del credito ha stracciato i veli con cui gli Stati più indebitati e meno efficienti erano riusciti a nascondere le loro magagne.
Che cosa può fare una sinistra di governo, in queste circostanze, se non cercare di mettere ordine nei conti dello Stato, tagliare le spese superflue, rilanciare la produzione, rendere il Paese più attraente ai capitali stranieri? Cercherà di farlo tenendo conto delle esigenze dei suoi elettori. Ma chi sono oggi gli elettori della sinistra? Esistono ancora tutti i ceti sociali in cui la sinistra, in altri tempi, trovava i propri consensi? Lei si chiede infine, caro Guarnieri, perché i partiti di sinistra, a livello nazionale, non siano uniti. Converrebbe chiedere, più correttamente, perché non siano mai stati uniti. Dalla scissione dei social-democratici russi fra menscevichi e bolscevichi alla più recente nascita di un nuovo partito – Linke – da una costola della social-democrazia tedesca, la storia del socialismo europeo è una storia di divorzi e frammentazioni. E il capitolo italiano, in questa storia, è uno dei più lunghi e affollati.

Corriere Salute 5.10.14
Se volete essere creativi imparate ad annoiarvi
Un ambiente molto ricco di stimoli come quello in cui viviamo oggi sembra aver favorito lo sviluppo di alcune facoltà mentali, ma sarebbe anche responsabile di un calo dell’inventiva, specialmente nei bambini
Basta però concedersi una tregua per dare nuovo impulso all’originalità
di Elena Meli

Leonardo Da Vinci è l’esempio più famoso di creativo a tutto tondo: ha realizzato capolavori di ingegno e maestria in innumerevoli campi. Musicisti, pittori, scrittori fanno della creatività un lavoro e sono creativi per contratto pure i pubblicitari. Ma creativa è anche la massaia che deve reinventarsi una ricetta perché le manca un ingrediente, o l’elettricista che trova una soluzione diversa dal consueto per far funzionare un impianto. Il pensiero creativo, insomma, sembra poter essere ovunque. Ma che cos’è davvero la creatività? La possediamo realmente tutti, o è un dono di pochi talentuosi? È legata a doppio filo con l’intelligenza? Ma soprattutto, è vero che è in crisi, come sostiene uno studio apparso di recente sul Creativity Research Journal ?
Stando, infatti, ai risultati della ricerca, condotta su 300 mila persone sottoposte a uno dei test più usati per misurare la creatività, dal 1990 in poi c’è stato un chiaro declino dei punteggi, mentre gli analoghi test sull’intelligenza indicano una continua crescita del quoziente intellettivo: un ambiente molto ricco di stimoli come quello attuale pare averci reso più intelligenti, “addormentando” però l’inventiva, specie nei bambini, che invece, di solito, sono i migliori nei test di creatività. Secondo i ricercatori, ciò accade perché interagiamo in modi sempre più impersonali grazie alla tecnologia, perdendo “segnali” comunicativi che arrivano dal contatto diretto e aiutano a sviluppare una personalità estrosa. Ma la nostra creatività diminuisce pure perché oggi tutti, bambini compresi, abbiamo poco tempo per pensare in libertà: nel caso dei bimbi, ad esempio, programmi scolastici molto ampi, attività collaterali di ogni genere e giochi elettronici hanno fagocitato il tempo libero, che invece andrebbe dedicato anche ad annoiarsi un po’. Perché proprio la noia è benzina per le nuove idee.
Una ricerca pubblicata su Frontiers in Psychology , ad esempio, ha dimostrato che favorire le attività poco strutturate, dal gioco all’aperto alla lettura, dalle visite allo zoo alle passeggiate nel parco, aiuta gli alunni delle scuole elementari ad avere performance creative migliori: il gioco di ruolo, un classico delle attività infantili, è uno dei modi migliori per stimolare il “genio”. E uno studio americano su 56 adulti conferma: bastano quattro giorni di full immersion nella natura, senza diavolerie elettroniche, per dare una tregua alla mente che, non più costretta a dare fondo alle sue capacità di attenzione, ritrova slancio e creatività.
Ma se lo stile di vita attuale sembra soffocare l’inventiva, d’altro canto c’è sempre maggior consapevolezza che fantasia e creatività siano talenti da incentivare. Spiega Barbara Colombo, coordinatrice dell’unità di ricerca di Psicologia della Creatività all’Università Cattolica di Milano: «Studi su persone che hanno perso l’impiego hanno dimostrato che il pensiero creativo si associa a una maggior probabilità di reinserirsi nel mondo del lavoro o di migliorare la propria posizione: chi è molto esperto nel suo campo, ma è “rigido”, non lascia mai la strada vecchia per la nuova e spesso non trova alternative; chi è esperto ma ha un pensiero flessibile, capace di spaziare con creatività, riesce a riciclarsi meglio. Ed è più apprezzato dai datori di lavoro». Tutto sta nella capacità di avere un pensiero divergente , caratteristica alla base della creatività secondo molti studiosi: chi vede oltre gli steccati, facendosi distrarre da stimoli collaterali insoliti, è più ingegnoso e innovativo di chi utilizza solo il pensiero convergente, ovvero focalizzato su un obiettivo, logico e razionale.
Secondo molte ricerche, poi, chi è creativo è anche più intelligente (mentre l’inverso non è scontato). Ma è possibile definire la creatività? «È composta da diversi fattori: fluidità (quante idee siamo capaci di partorire); flessibilità (capacità di trarre spunto da elementi diversi e passare dall’uno all’altro); originalità , (effettiva innovazione del pensiero); elaborazione (il grado di dettaglio con cui si specificano le idee) — spiega l’esperta —. Secondo un altro tipo di approccio, la creatività è soprattutto la capacità di associare elementi molto distanti fra loro per trarne una novità».

Corriere Salute 5.10.14
La fantasia «paga»
Più dell’intelligenza
di E. M.

Non è semplice definirla, ma la creatività può essere misurata: il primo a provarci, negli anni ‘60, fu lo statunitense Ellis Paul Torrance, “papà” dell’omonimo test, che tuttora è il più usato per valutare il pensiero creativo nelle sue quattro principali caratteristiche ovvero fluidità , flessibilità , originalità ed elaborazione .
Torrance lavorò su circa 400 bambini, mettendo a punto un test che propone diversi compiti da portare a termine: ad esempio, vengono fornite semplici figure geometriche da usare, combinare o completare per creare disegni, oppure vengono presentate situazioni improbabili di cui è chiesto di immaginare le conseguenze.
Quello che forse Torrance non si aspettava è scoprire, a distanza di qualche decennio, che i bambini risultati più creativi al suo test sono anche gli adulti che poi hanno fatto più strada nella vita: la capacità del test della creatività di anticipare il successo personale è stata tre volte superiore a quella del test dell’intelligenza, a cui i piccoli erano stati sottoposti.
Essere creativi è quindi come avere una marcia in più, per molti motivi: rende più flessibili e quindi in grado di adattarsi meglio ai cambiamenti della vita (chi è creativo pensa sempre che ci sarà sempre una soluzione ai suoi problemi), migliora le performance sul lavoro, ha effetti positivi sulla gestione delle emozioni, delle relazioni e perfino dello stress.
«Nei bambini e negli adolescenti il pensiero creativo è più pronunciato e va stimolato perché serve a mediare le emozioni e aiuta nei rapporti sociali; inoltre, potenzia il pensiero critico che è in fase di sviluppo, aiutando i ragazzi a vedere il mondo da diversi punti di vista, e li aiuta a capire meglio le proprie potenzialità e capacità — spiega Barbara Colombo, coordinatrice dell’unità di ricerca di Psicologia della Creatività all’Università Cattolica di Milano —. La creatività però è utile anche da anziani perché aumenta la riserva cognitiva, favorendo un invecchiamento in salute. Il pensiero creativo infatti si esprime a cavallo fra pensieri ed emozioni, ed è proprio per questo che incentivarla significa arricchire la riserva cognitiva, rallentando la progressione di varie forme di demenza».
La creatività, che ha il suo picco da giovanissimi, sembra purtroppo “addormentarsi” crescendo, schiacciata quando la scuola prima, e il lavoro poi, ci sovraccaricano la mente di incombenze e doveri che tarpano le ali alla fantasia. La buona notizia è che, a qualsiasi età, la creatività può essere però allenata e potenziata: anche in Italia esistono strutture che offrono corsi per diventare più creativi, oppure si possono seguire percorsi online o programmi specifici su testi specializzati.
«Esistono molti modi efficaci per esercitare il pensiero creativo, che sfruttano la plasticità del cervello e sono spesso anche divertenti. Bastano anche corsi di mezza giornata per veder cambiare la prospettiva, anche se magari non si diventa Leonardo Da Vinci; con programmi più strutturati gli effetti sono ancora più evidenti, soprattutto in chi parte da un basso livello di creatività. Gli adulti, ad esempio, sono in media più inibiti e fanno passi da gigante rispetto ai bambini, di per sé più “fluidi” ed estrosi — racconta Colombo —. Si possono scegliere percorsi di gruppo o individuali, che puntino a migliorare uno degli aspetti della creatività o tutto il pensiero creativo; i programmi sono adattati all’età di chi li svolge e anche alle caratteristiche dei partecipanti. Gli anziani, ad esempio, traggono molto beneficio dall’allenamento della creatività anche quando hanno piccoli deficit cognitivi: in questi casi si può lavorare con la musica o con il disegno, entrambi in grado di liberare la fantasia e aiutare a focalizzare l’attenzione.

Corriere Salute 5.10.14
L’esperimento
Scelte migliori se la scrivania è in disordine
di E. M.

Secondo uno studio di Kathleen Voos, dell’Università del Minnesota, a seconda del grado di ordine degli oggetti che si accumulano sulla scrivania si possono delineare alcuni tratti del carattere. Chi sistema tutto con cura sembra più portato a fare ciò che ci si aspetta da lui e a essere generoso; chi ha la scrivania piena di oggetti messi alla rinfusa riesce in media ad avere idee migliori ed è portato a fare scelte anticonvenzionali. La faccenda si fa ancor più interessante quando Voos spiega che la tendenza a essere creativi può essere stimolata proprio cambiando l’ambiente attorno a noi: in una serie di esperimenti è stato chiesto ad alcuni volontari di riempire questionari o immaginare nuovi utilizzi di una pallina da ping pong facendoli stare in un ufficio lindo o in una stanza lasciata a bella posta nello scompiglio. Ebbene: l’ambiente ha influenzato i comportamenti, facendo emergere meglio il pensiero creativo quando si era circondati da un po’ di caos.
E. M.

Corriere Salute 5.10.14
Il disagio mentale si può curare
di Claudio Mencacci
Dir. Neuroscienze Osp. Fatebenefratelli, Milano, Past president Soc. It. di Psichiatria

I disturbi psichici sono in costante aumento e coinvolgono sempre di più la popolazione femminile (30 per cento di tutte le disabilità). Da qualche anno, fortunatamente, la sensibilizzazione su questi temi sta facendo progressi intaccando lo stigma e la vergogna sociale che aleggia su queste patologie. I disturbi mentali, la cui origine è complessa e vede implicati fattori genetici e ambientali, nonché gli stili di vita, compaiono in oltre il 70 per cento dei casi entro i 25 anni, riducendo così notevolmente le possibilità di sviluppo personale e professionale di molti giovani, condizione peraltro aggravata dalle difficoltà economiche attuali. Sotto questo profilo è quindi fondamentale intensificare gli sforzi volti alla prevenzione, investire in ricerca, potenziare la rete dei Dipartimenti di Salute Mentale pubblici, che da oltre 36 anni continuano a dare, pur con mezzi limitati, risposte concrete alle persone affette da malattie mentali e ai loro famigliari. Ancora troppo ancillare è però il ruolo della psichiatria nei confronti di altre discipline mediche maggiormente finanziate malgrado l’enorme incidenza di queste patologie, segno dello stigma esistente anche a livello istituzionale. Il 10 ottobre ricorre la Giornata mondiale sulla salute mentale, quest’anno dedicata alla schizofrenia, una delle patologie più gravi con esordio giovanile (600 mila casi in Italia con un’incidenza di 2 nuovi casi ogni 10 mila persone) per la quale gli esiti sono migliori quanto prima si interviene, agli esordi e con modalità terapeutiche combinate (nuovi antipsicotici, psicoterapia cognitiva, inserimenti psicosociali, psicoeducazione). Allo scopo di comunicare che tutte le patologie psichiche sono curabili (anche se non tutte guaribili) in questa giornata sono previste molteplici iniziative in tutta Italia. Tra le altre, O.N.Da, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria, ha coinvolto gli ospedali con i Bollini rosa (“certificazione” per gli ospedali con particolare attenzione alle donne) che in molteplici realtà su tutto il territorio offriranno servizi gratuiti di informazione e consulenza alla popolazione. Vi è una sola strada da percorrere, facendo rete, e un compito da assolvere: assicurare che la nostra sia l’ultima generazione in cui la vergogna e lo stigma regnano al di sopra della scienza e della ragione. 

Corriere La Lettura 5.10.14
Newton, l’ultimo dei maghi
I manoscritti mostrano un volto inedito del genio britannico
Teologia e alchimia per lui venivano prima della matematica
di Stefano Gattei

Quando morì, il 20 marzo 1727 (secondo il calendario giuliano, allora vigente in Inghilterra), Isaac Newton non lasciò alcun testamento né eredi diretti. Oltre ai beni, alla biblioteca e a un certo numero di strumenti scientifici, l’inventario stilato dai curatori segnalava un’enorme quantità di fogli manoscritti, difficilmente classificabili. Alcuni contenevano annotazioni scientifiche di vario genere, altri trattavano di alchimia, cronologia, teologia, storia della Chiesa.
John Conduitt, successore di Newton come governatore della Zecca e marito di Catherine Barton, figlia della sorellastra dello scienziato, chiese alla Royal Society di valutare i manoscritti in vista di una loro eventuale pubblicazione. Dopo soli tre giorni di lavoro furono individuati cinque documenti che valeva la pena di dare alle stampe. Il resto, si disse, era stato lasciato in una forma troppo frammentaria, o era comunque inadatto a essere divulgato.
Nel 1740 i manoscritti entrarono in possesso della famiglia Portsmouth, che nel 1872 decise di donarli interamente all’Università di Cambridge, tranne un piccolo numero di testi teologici e cronologici, inviati nel 1755 ad Arthur A. Sykes e successivamente confluiti nella Bodleian Library di Oxford. Venne istituita una commissione, che incaricò due importanti matematici del tempo, John C. Adams e George Stokes, di esaminare gli scritti «scientifici»; a Henry R. Luard, medievista, vennero invece affidati i testi teologici e alchemici. Dopo lunghe indagini, nel 1888 i manoscritti «non scientifici» vennero restituiti alla famiglia, e di essi non si parlò più. Fino al 1936, quando Sotheby’s li mise all’asta a Londra.
I 332 lotti di carte e altri Newtoniana vennero battuti per poco più di novemila sterline, una cifra considerevolmente inferiore a quella cui oggi viene valutato anche un solo foglio manoscritto di Newton. Fra gli acquirenti anche John Maynard Keynes, padre della macroeconomia moderna, che riuscì ad aggiudicarsi 39 lotti. Più tardi, quando provò ad acquistarne altri da alcuni dei partecipanti, scoprì di essere in competizione con un arabista e imprenditore ebreo, Abraham S. Yahuda, particolarmente interessato ai manoscritti teologici. Keynes riuscì alla fine a entrare in possesso di 130 lotti, Yahuda di 39. Alla morte di Keynes, nel 1946, i manoscritti in suo possesso furono donati a Cambridge; quelli di Yahuda, respinti da Harvard, Yale e Princeton, vennero lasciati allo Stato di Israele, che nel 1969 decise finalmente di destinarli all’Università di Gerusalemme.
C’è un tocco di Borges nell’odissea di questi manoscritti, narrata come un romanzo da Sarah Dry nel suo recente lavoro The Newton Papers (Oxford University Press). Il libro unisce la storia avventurosa dei testi alla descrizione dell’immagine pubblica del grande scienziato, evolutasi di pari passo con la scoperta del «multiforme ingegno» di Sir Isaac.
Migliaia di fogli documentano infatti la lettura, la trascrizione e il commento minuzioso di vari testi alchemici. Le pagine più controverse sono però quelle di carattere teologico. Newton credeva in Dio, ma nel 1667 aveva insistito per farsi esentare, con apposita dispensa regia, dal prendere gli ordini religiosi in seno alla Chiesa anglicana, come veniva richiesto a ogni membro dell’Università di Cambridge; e in punto di morte, alla presenza di due sole persone (che tennero accuratamente nascosta la notizia), rifiutò i sacramenti.
Egli riteneva che nella disputa che aveva segnato la storia della Chiesa durante il IV secolo fosse stata perpetrata, da parte di Atanasio e dei suoi seguaci, una gigantesca frode: il testo sacro sarebbe stato alterato in molti punti allo scopo di affermare la dottrina del Trinitarismo. Fellow (paradossalmente, viene quasi da dire) del Trinity College, uno dei più prestigiosi dell’Università, Newton si era convinto che la dottrina della Trinità — divenuta dogma, secondo cattolici e anglicani, con il Concilio di Nicea del 325 — fosse stata «inventata» e imposta ai cristiani all’epoca della trionfale vittoria su Ario e sugli «eretici» Ariani. Adorare Cristo come Dio costituiva, per Newton, una manifestazione di idolatria: mediatore fra l’uomo e Dio, Cristo non è consustanziale al Padre. Se «non si devono ammettere più cause delle cose naturali di quelle che bastano a spiegare i loro fenomeni», come si legge nei Principia , allo stesso modo, per Newton, Dio non va moltiplicato praeter necessitatem .
In alchimia o teologia, come in meccanica e astronomia, Newton non si accontenta del linguaggio metaforico o allusivo comune a tanti autori del tempo, ma conduce un’indagine di carattere quantitativo, esigendo sempre un linguaggio rigoroso, un’argomentazione stringente. Il teologo e il matematico sono in Newton due facce della medesima medaglia: forse, come piaceva pensare a Maurizio Mamiani (che per primo, nel 1994, pubblicò il Trattato sull’Apocalisse , tratto dai manoscritti di Yahuda), lo studio dei «principi matematici della filosofia naturale» è stato solo l’esercitazione scientifica di un gigante della teologia.
Poco prima di morire, Keynes scrisse che «Newton non fu il primo rappresentante dell’Illuminismo. Fu l’ultimo dei maghi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri, l’ultima grande mente che guardò al mondo con gli stessi occhi con cui lo avevano guardato coloro che migliaia di anni prima avevano gettato le fondamenta del nostro patrimonio culturale». Alla luce dei manoscritti, che vengono a poco a poco resi disponibili online sul sito del Newton Project, riportare tutte le affermazioni dell’autore dei Principia entro un contesto «scientifico», così come lo intendiamo ora, costituisce senza dubbio un tradimento della sua eredità intellettuale. Ciò non vuol dire sminuirne il genio, anzi. Come osservò ancora Keynes, «credo che Newton fosse diverso dal quadro che convenzionalmente è stato dipinto di lui. Ma non penso, per questo, che egli fosse meno grande».

Corriere La Lettura 5.10.14
La perfidissima Albione
L’antisemitismo, l’antibolscevismo e il mito della cuginanza animavano un mondo che andava dal padre delle sorelle Mitford a Edoardo di Windsor
In tanti pensavano che le democrazie parlamentari fossero troppo deboli e che solo governi autoritari potevano salvare l’Europa dal pericolo comunista
Una fascinazione per Hitler stregò l’aristocrazia inglese. Poi la redenzione
di Sergio Romano

La recente morte di Deborah Mitford, figlia di Lord Redesdale e della duchessa di Devonshire, ha risvegliato ricordi che molti inglesi, forse, avrebbero preferito cancellare. Deborah fu una gentildonna impeccabile. Dedicò la sua vita al restauro e alla conservazione del castello di Chatsworth, nel Derbyshire, che gli antenati del marito avevano riempito con una straordinaria collezione d’opere d’arte. Fingeva di essere sciocca e ingenua, ma scrisse libri interessanti e articoli vivaci, fece del castello una redditizia meta turistica e riuscì a saldare i grossi debiti accumulati dalla famiglia negli anni precedenti. Recitò perfettamente, insomma, la parte che la società inglese assegna ai suoi duchi, conti e marchesi. Hanno perduto il potere, tuttavia possono conservare rango e onori purché siano zelanti custodi delle tradizioni e della memoria nazionale.
Ma la carriera delle cinque sorelle di Deborah fu alquanto diversa. Pamela era una rabbiosa antisemita. Jessica divenne comunista, corse in Spagna per combattere contro il generale Franco, criticò ferocemente l’«imperialismo» americano dagli Stati Uniti, di cui era diventata cittadina. Nancy scrisse romanzi brillanti e piccanti. Unity Valkyrie fu appassionatamente nazista e cercò di uccidersi con un colpo di pistola alla testa quando la Gran Bretagna dichiarò guerra al Terzo Reich dopo l’invasione della Polonia nel settembre del 1939. Sopravvisse, ma morì pochi anni dopo. Diana s’innamorò di un baronetto irrequieto che aveva vagato da un partito all’altro sino al giorno in cui, affascinato da Mussolini, fondò la British Union of Fascists, un movimento composto da militanti che indossavano la camicia nera, organizzavano comizi nelle vie di Londra e non perdevano mai l’occasione di menare le mani.
Sembra che il matrimonio fra Diana Mitford e Oswald Mosley sia stato celebrato a Berlino, nel 1936, in un salotto di casa Goebbels, ministro della Propaganda del Reich, al cospetto di Hitler. Dopo l’inizio della guerra, la «coppia nera» dell’alta società britannica fu internata in un campo di custodia per stranieri nemici, ma ebbe diritto a un alloggio separato in una cadente casupola.
Mosley e sua moglie erano forse più eccentrici e velleitari di quanto fossero veramente pericolosi, ma Hitler aveva devoti ammiratori anche in altri settori della nobiltà inglese. Erano filotedeschi, con diverse sfumature, il padre delle sorelle Mitford, Lord Redesdale, Lord Brocket, amico di Ribbentrop (ambasciatore a Londra dal 1936 al 1937), il duca di Westminster, proprietario delle migliori aree residenziali del centro di Londra, il quinto duca di Wellington, discendente del vincitore di Waterloo, il duca di Buccleuch, discendente di Carlo II, re di Scozia e d’Inghilterra. Erano quasi tutti membri dell’Anglo-German Fellowship, un’associazione creata nel 1935, due anni dopo l’avvento di Hitler al potere, quando Edoardo, principe di Galles, pronunciò un discorso in cui auspicò una «migliore comprensione» tra la Germania e il Regno Unito.
Edoardo ereditò il trono dopo la morte del padre, un anno dopo, ma abdicò nel dicembre, quando gli fu impedito di sposare una borghese divorziata, Wallis Simpson, di cui si bisbigliava che fosse dotata di una straordinaria perizia sessuale. Finalmente liberi di manifestare pubblicamente le loro simpatie, Edoardo e Wallis fecero un viaggio in Germania nell’ottobre nel 1937, furono ricevuti da Hitler, pranzarono con il suo delfino, Rudolf Hess, visitarono un campo di concentramento, esibito agli ospiti come prova dell’umanità con cui il Terzo Reich trattava i suoi nemici.
Un caso a sé è quello del duca di Hamilton, protagonista, forse involontario, della bizzarra fuga di Rudolf Hess in Scozia nel maggio del 1941. Nel 1936, quando era membro della Camera dei Comuni, Hamilton era stato invitato dal governo tedesco, con altri parlamentari, ai Giochi olimpici di quell’anno. Era molto sportivo, atterrò a Berlino con il suo aereo, conobbe esponenti delle gerarchie naziste, sembrò stabilire rapporti cordiali con alcuni di essi. Quando fece un atterraggio di fortuna in Scozia, Hess si dichiarò amico di Hamilton e questi gli fece visita nell’ospedale in cui era stato ricoverato. Ma il duca negò di averlo conosciuto a Berlino e la sua dichiarazione, nonostante dubbi e sospetti, fu sempre creduta. Qualche nome in più è in un libro di Lawrence James, Aristocrats . Power, Grace & Decadence pubblicato da Little, Brown Book nel 2010.
Le ragioni di queste diffuse simpatie per la Germania furono diverse. Molti pensavano che le democrazie parlamentari fossero troppo deboli e rissose per fare fronte al pericolo comunista e che soltanto uno Stato fortemente autoritario potesse salvare l’Europa dalla minaccia bolscevica (un sentimento non troppo diverso da quello che Churchill ebbe per il fascismo sino alla metà degli anni Trenta). Altri approvavano la politica antisemita del nazismo ed erano per molti aspetti gli eredi di un intellettuale inglese, dichiaratamente razzista, della generazione precedente.
Si chiamava Houston Stewart Chamberlain, aveva fatto studi scientifici a Vienna, era convinto che la natura fosse pervasa da una «forza vitale» e che al vertice delle razze umane vi fossero, indiscutibilmente, i popoli teutonici. Spiegò le sue teorie in un libro sulle Fondamenta del XIX secolo che fu bene accolto negli ambienti più conservatori. Sposò Eva Wagner, figliastra di Richard e nipote di Liszt, fu folgorato da un incontro con Hitler, divenne tedesco durante la Grande guerra e si iscrisse al partito nazista nel 1927.
Gli intellettuali britannici che si lasciarono incantare, come accadde a Chamberlain, dal fascino di Hitler, furono tutto sommato un piccolo numero. Più numerosi invece furono quelli che, come John Maynard Keynes, consideravano stupide e controproducenti le dure condizioni economiche imposte alla Germania con la pace di Versailles. Non avevano torto. Quelle misure ebbero l’effetto di coltivare i risentimenti degli sconfitti e di offrire a Hitler alcuni degli argomenti con cui avrebbe conquistato il consenso delle masse tedesche.
Altri ancora pensavano, come Rudolf Hess e forse lo stesso Hitler, che fra inglesi e tedeschi corresse un rapporto di antica cuginanza, rafforzata dall’approdo in Gran Bretagna di due dinastie tedesche: gli Hannover all’inizio del Settecento, i Sassonia Coburgo Gotha dopo il matrimonio del principe Alberto con la regina Vittoria nel 1840. Anziché combattersi, i due popoli avrebbero dovuto accordarsi per spartirsi pacificamente il dominio del mondo civile.
Appartiene a questa categoria Lord Darlington, il personaggio di un romanzo dello scrittore anglogiapponese Kazuo Ishiguro ( Quel che resta del giorno ), da cui James Ivory ha tratto nel 1993 un film elegante e intelligente con Anthony Hopkins, Emma Thompson e James Fox. Nella speranza di evitare la guerra durante i turbolenti mesi del 1938, Darlington organizza nella sua villa un grande incontro anglotedesco. L’ingenuo lord perderà la partita e i molti debiti contratti per finanziare le sue donchisciottesche iniziative anglotedesche verranno pagati soltanto quando gli eredi, dopo la sua morte, avranno venduto la villa a un rozzo magnate americano. Nel frattempo la nobiltà britannica si era ravveduta e riscattata perdendo molti dei suoi figli sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale.

Repubblica 5.10.14
Il ragazzo sulla macchina
Si chiamava Mario Savio e il primo ottobre 1964 si levò le scarpe, salì sull’auto della polizia e da Berkeley fece scoccare la scintilla che avrebbe infiammato il mondo
di Enrico Deaglio

IL DISCORSO ...arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli ingranaggi, fermare tutto. E far capire a chi la guida che fino a quando non saremo liberi non potremo permettere a quella macchina di funzionare...

SAN FRANCISCO “LO STUDENTE CHE CAMBIÒ IL MONDO ” oggi avrebbe settantadue anni. Avrebbe potuto diventare un grande leader politico, ma non volle: la vita pubblica gli avrebbe richiesto troppi compromessi; quella privata fu fin troppo tormentata. Morì giovane, per un infarto, a soli cinquantaquattro anni. Si chiamava Mario Savio e il primo ottobre 1964 all’università di Berkeley — cinquant’anni fa — diventò il simbolo genuino e quasi involontario di un movimento degli studenti che sarebbe poi esploso in tutto il mondo quattro anni dopo, nello storico 1968. Ed ecco come andò la storia. Siamo nell’autunno del 1964, nel campus di Berkeley, la più antica delle università statali della California, nella baia di San Francisco; l’anno che si avvia a finire è un concentrato di contraddizioni americane. John Kennedy è stato ucciso da appena dieci mesi, il repubblicano Barry Goldwater — uno che vede comunisti dappertutto e vorrebbe tirare la bomba atomica su Mosca — sfida il democratico texano Lyndon Johnson per diventare presidente. I ragazzi americani cominciano a morire in numero allarmante in un lontano posto chiamato Vietnam; nel Mississippi e in Alabama strani pastori battisti marciano chiedendo la fine della segregazione razziale e la televisione mostra immagini di attivisti picchiati, derisi, e qualche volta uccisi. Berkeley è il più grande campus della California, ventimila studenti bianchi, figli della nuova middle class. Di loro si dice che sono stati concepiti tra l’entrata in guerra e la prima licenza del coscritto. Le ragazze hanno i capelli cotonati; occhiali di celluloide e camicia bianca per i maschi. Ci sono anche i primi gruppi politici del post maccartismo, che fanno propaganda alle più svariate cause; chiedono di poter svolgere liberamente l’attività politica dentro il campus, in particolare nella Sproul Plaza, il luogo di incontro studentesco su cui si affacciano biblioteche, laboratori, uffici, il teatro. Ma il rettore, Clark Kerr, è uno dalle idee chiare: niente volantini, niente raccolta di fondi, niente comizi con megafoni. Per il rettore Kerr, «le idee devono restare fuori dal campus, l’università è una fabbrica e serve a riempire le teste vuote, per farle lavorare per il sistema». Il rettore autorizza la polizia a circolare nel campus per garantire che la nuova classe dirigente non venga a contatto con idee strane.
Il primo ottobre la polizia ferma uno studente, Jack Weinberg, che ha allestito un tavolino da cui pubblicizza l’attività del CORE, il gruppo politico che si batte per il diritto al voto dei neri negli stati segregati del sud. Weinberg si rifiuta di dare i documenti, la polizia lo chiude in macchina, una folla di studenti accorre a proteggerlo. Ed ecco che uno sconosciuto studente si fa avanti. Alto, magrissimo, capelli a cespuglio, occhi azzurri, si toglie le scarpe «per non danneggiare una proprietà dello Stato» e sale sul tettuccio dell’automobile della polizia. Si chiama Mario Savio, viene da New York, figlio di emigrati siciliani. Rivendica il diritto degli studenti a parlare, scandisce « free speech! », invita gli studenti a resistere, ad opporre il proprio corpo al sopruso, «in modo non violento, ma con dignità». La trattativa, con Weinberg chiuso in macchina e i poliziotti intorno, durerà trentadue ore (!) fino a quando il rettore accetta di liberarlo. Ma non torna sui suoi passi sui divieti e la polizia diventa ospite fisso del campus.
Il 2 dicembre quattromila studenti si ritrovano di nuovo nella Sproul Plaza e di nuovo quello studente, Mario Savio, prende il microfono. Questa volta pronuncia il breve discorso che resterà nella storia della grande oratoria americana. Non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi: “Il rettore ci ha detto che l’università è una macchina; se è così, allora noi ne saremo solo il prodotto finale, su cui non abbiamo diritto di parola. Saremo clienti — dell’industria, del governo, del sindacato… Ma noi siamo esseri umani! Se tutto è una macchina, ebbene… arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli ingranaggi, sulle leve, sull’apparato, fermare tutto. E far capire a chi sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché non saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare”.
Tutti i ragazzi che ascoltarono (la scena si può vedere oggi in tutto il suo pathos sulla Santa You Tube) furono rapiti dalla passione, dalla semplicità e dalla forza morale del discorso (anni fa, una testimone oculare mi disse. «Mario sembrava Mosè e noi di fronte al Mar Rosso»). Partì un corteo, guidato dalla cantante Joan Baez che cantava We shall overcome . La polizia, schierata in forze, eseguì 792 arresti, gli studenti vennero portati in varie prigioni della California. Con gli studenti in carcere, il Free Speech Movement ottenne però la sua prima vittoria, quando il Senato accademico di Berkeley votò a stragrande maggioranza la libertà di parola e di propaganda nel campus. Il movimento presto dilagò in tutte le università americane, diventando la spina dorsale del movimento contro la guerra in Vietnam, e la forza fresca delle idee di giustizia sociale.
Mario Savio diventò così la prima icona politica degli anni Sessanta, il suo simbolo libertario: poter parlare liberamente, ribellarsi all’autorità ottusa. Con Mario Savio risbocciarono due protagonisti: l’università, un po’ Alma Mater, ma anche luogo dell’inquietudine, e lo Studente, immaginario e reale, come la principale forza di contestazione della società. Gli emuli di Savio saranno tantissimi in tutto il mondo e, in qualche modo, anche il ragazzo di Tien An Men che si mette davanti al carrarmato (usare il corpo per fermare gli ingranaggi del potere) è un po’ figlio suo.
Ma chi era quel ragazzo col megafono? I giornali lo fecero diventare immediatamente una star, l’Fbi lo etichettò (e lo vessò per vent’anni) come spia comunista, gli stessi movimenti di sinistra lo guardavano come un animale non ortodosso. Mario Savio, però, non apparteneva a un cliché; era piuttosto il frutto del melting pot newyorchese. Primo nato in America della famiglia, cresciuto in una casetta nel quartiere di Queens, con un nonno (don Peppino) emigrato da Santa Caterina Villermosa, provincia di Caltanissetta, ammiratore di Mussolini; il padre, operaio in fonderia, che aveva servito con l’esercito americano proprio in Sicilia e che litigava continuamente con il nonno, la mamma silenziosa. Il ragazzo Mario serviva messa in parrocchia e veniva preso in giro a scuola per quel nome e cognome con così tante vocali e perché balbuziente; a quindici anni si scoprì un piccolo genio della fisica (aveva scoperto un errore nelle tabelle della Marina americana sulla propagazione del suono in acque profonde, aveva mandato il suo lavoro alla Westinghouse, che lo aveva premiato con una borsa di studio) e così era arrivato a Berkeley.
Mario a quel punto aveva maturato dubbi su molte cose. Sulla Chiesa (non era più cattolico praticante), sulla giustezza di quanto gli avevano insegnato nelle esercitazioni a scuola: era proprio vero che sarebbe bastato rannicchiarsi, mettersi la maschera antigas e respirare contro vento per salvarsi dalla bomba atomica? Sulla guerra appena finita: come era stato possibile che il popolo tedesco non sapesse niente dell’olocausto? Mario Savio — che fu sempre di poche parole e non lasciò scritti importanti — si descrisse così parecchi anni dopo essere diventato una star: «Un membro della prima generazione che si conquistò il diritto di vedere le cose». Queste idee lo portarono, nelle estati universitarie, prima ad aiutare i poveri in un paese messicano, poi a cercare di organizzare il voto dei neri nel Mississippi. Fu quest’ultima esperienza, durante la quale fu arrestato e picchiato, a segnarlo. Disse, «ho visto che cosa è l’ingiustizia e che cosa è la tirannia». E, tornato al campus, aveva concluso: «Mi sentirei un Giuda se dopo essere stato in Mississippi a spingere i neri a lottare per i propri diritti, non facessi lo stesso per i diritti degli studenti violati dal rettore». Il ragazzo che l’Fbi considerava uno dei dieci uomini più pericolosi d’America scomparve quasi subito dalla scena. L’università di Oxford in Inghilterra gli offrì un insegnamento, ma in Inghilterra Mario non si trovò bene. Tornò a San Francisco, lavorò come bibliotecario, si presentò senza successo alle elezioni del Senato della California con il partitino “Pace e libertà”, insegnò fisica e letteratura. Mille persone commosse, a Berkeley, lo ricordarono quando morì nel 1996. Altri, nella baia di San Francisco, erano diventati, nel frattempo, capi di movimenti, in qualche modo figli del suo esempio. Harvey Milk, che per primo al mondo aveva fatto vedere che si poteva essere eletti a una carica pubblica, in quanto omosessuale. Steve Jobs, studente fallito, aveva fatto vedere che si poteva, in un garage, sfidare il monopolio della Ibm. A Mario, quando morì, intitolarono un grande bar nel campus — dove sono le gigantografie in bianco e nero del Free Speech Movement — una targa dove fece il famoso discorso e un monumento nella via principale della città. Ma Berkeley, come tutto, è cambiata. Ci sarà un ciclo di conferenze per ricordare Savio. Uno studente ha chiesto «dove trovo il programma?» e quando gli hanno detto: «là, sul tavolo, c’è un volantino», ha guardato storto. «E cos’è un volantino?». Nessuno usa più i volantini; d’altra parte i vecchi volantini e i muri dei dormitori dove gli studenti pinzavano bigliettini con i loro desideri, sono stati lo spunto per la costruzione di Facebook.
I trentaseimila studenti di Berkeley sono oggi in maggior parte asiatici e il campus è quieto. Savio aleggia, quasi sconosciuto, come un buon papà del secolo scorso. L’università — tutte le università, verrebbe da dire — da tempo non sono più il centro della contestazione. La libertà di parola è un diritto acquisito. Anzi, ce n’è fin troppa. — Appuntamenti per il 2 dicembre, a cura del circolo Mario Savio. Ore 17, corso sulla Sproul Plaza per imparare a cantare in coro canzoni di protesta e gospel. Ore 21, conferenza in sostegno ai lavoratori dei fast food in lotta per l’aumento della paga minima oraria.

Repubblica 5.10.14
Critica della ragion empatica
Dopo il lungo successo dell’intelligenza emotiva e gli appelli di Obama, psicologi e filosofi ora scoprono che immedesimarsi negli altri non è la base della democrazia
Anzi, il più nobile dei sentimenti individuali sarebbe un ostacolo per il benessere collettivo
di Massimo Recalcati

LO PSICOLOGO di Yale Paul Bloom ha recentemente gettato un secchio di acqua fredda sugli entusiasmi di Barack Obama relativi alle virtù dell’empatia. L’espressione «deficit di empatia» è circolata frequentemente nella retorica efficace del presidente degli Stati Uniti. Una carenza di empatia renderebbe leggibili fenomeni sociali complessi e spiegherebbe le difficoltà a vivere positivamente le relazioni intersoggettive. L’empatia è la capacità di una persona di comprendere e di far risuonare dentro di sé i pensieri e i processi psichici di un’altra persona. Più radicalmente comporta l’unione o la fusione emotiva tra esseri umani. Davvero, si chiede criticamente Bloom, può essere considerata come una delle forme più evolute del legame sociale? Sentire quello che il mio simile sente, condividere i suoi stati emotivi, sentirsi all’unisono è davvero la forma più positiva che può assumere la relazione con l’altro? Una giusta dose di empatia è necessaria in qualunque legame umano. Tuttavia è assai difficile immaginare che un chirurgo possa operare una persona a lui molto cara: la freddezza necessaria al proprio mestiere sarebbe ostacolata dall’intensità del legame affettivo con il paziente. Un eccesso di empatia sopprimerebbe quella quota necessaria di distanza affettiva che si impone nella pratica chirurgica. Questa freddezza non deve essere letta però come una semplice indifferenza nei confronti delle sorti del malato, quanto piuttosto come un modo per fare esistere una differenza necessaria. È quello che viene meno, per restare all’esempio della chirurgia, nella vicenda atroce della morte del padre di Gustave Flaubert nella ricostruzione proposta ne L’idiota della famiglia da Jean-Paul Sartre. Celebre e blasonato chirurgo, intellettuale carismatico, Achille Flaubert avrebbe incaricato il figlio primogenito — al quale aveva attribuito il suo stesso nome proprio come se fosse una brutta fotocopia — il compito di eseguire una semplice operazione sul suo corpo. Risultato: durante l’intervento il padre muore ucciso dal figlio. La trasmissione dell’eredità drammaticamente fallisce per un eccesso di immedesimazione empatica? Trasfusione dei poteri, clonazione dell’uno nell’altro, assenza di distanza, parricidio truccato da imperizia; l’esigenza della differenza collassa e lascia il posto ad una successione per identificazione integrale, ad una empatia assoluta.
Nel nostro tempo l’empatia come dose necessaria a rendere affettivamente calda una relazione tra persone si è trasformata in un’ideologia che vorrebbe rendere l’altro trasparente, simile a noi, omogeneo (vedi il recente Empathy di Roman Krznaric, citato da Bloom). Si tratta di una missione impossibile: una linea insuperabile ci separa sempre dall’altro. Pensare di costruire un legame o una comunità sull’empatia è illudersi di superare quella linea. Piuttosto un legame o una comunità degna di questo nome dovrebbe tener conto di quella linea e rinunciare ai sogni (totalitari) di assimilazione delle differenze. La democrazia è, in questo senso, anti-empatica per definizione: le differenze non sono abolite ma valorizzate, messe in relazione senza pretendere di dissolverle in una falsa omogeneità. In gradazioni diverse l’esigenza di preservare la differenza da un’empatia eccessiva ispira tutti i legami autenticamente generativi. Non si tratta evidentemente della freddezza necessaria del chirurgo — che sarebbe altamente patologica nella vita comune — ma di quella quota necessaria di solitudine che accompagna inevitabilmente ogni gesto di responsabilità. Per questa ragione Heidegger diceva che si muore sempre da soli, il che non significa affatto che si debba morire abbandonati dall’altro o senza partecipazione emotiva.
Pensiamo alla relazione tra genitori e figli. Sappiamo bene come un eccesso di prossimità rischi di assorbire quel margine di libertà da cui scaturisce la dimensione singolare della vita. È quello che ci insegnano le bugie dei bambini. La loro importanza nello sviluppo psichico non va sottovalutata. Mentire è una prima prova necessaria di libertà: il bambino deve poter custodire i propri segreti senza che nessun altro possa spiarli, deve poter verificare che nessuno possa leggere i suoi pensieri. Un eccesso di empatia nella relazione tra genitori e figli può alimentare invece l’illusione dannosa dell’indifferenziazione come segnala in modo drammatico la morte del padre di Flaubert. Per questo è sempre bene non capire sino in fondo i propri figli, non venire mai a capo del mistero della loro esistenza. I bambini hanno bisogno di non essere mai capiti del tutto, di essere almeno un po’ incompresi. Non sono forse i genitori che presumono di conoscere i propri figli sino all’ultimo capello i più sorpresi di fronte a certe loro scelte o gesti estremi?
Questa esigenza di oscurità, come si sarebbe espresso Nietzsche, non è al fondo di ogni rispetto autenticamente altruistico? L’elogio sperticato dell’empatia come capacità di immedesimazione all’altro, vorrebbe invece attenuare la solitudine della nostra singolarità rendendoci tutti più simili. La psicoanalisi insegna sempre a sospettare della spinta a renderci uguali, a cancellare le differenze soggettive. Non a caso Lacan ha fatto della critica all’empatia un motivo costante del suo insegnamento. Abbiamo non a caso conosciuto l’attitudine empatica di tutti i grandi leader totalitari e populisti nel sentirsi all’unisono con la pancia del loro popolo. Anche il genitore che pensa di sapere tutto di suo figlio perché è come lui, perché risuona in lui empaticamente, non sa lasciare spazio alla differenza. L’empatia rischia di trasformare la relazione tra due soggetti differenti in una relazione speculare tra simili. Ma è proprio con chi riteniamo più simile a noi e non con l’altro diverso che diamo il peggio di noi stessi. È il caso dell’invidia che già Aristotele faceva notare essere un sentimento che non proviamo per chi appartiene ad un mondo troppo diverso dal nostro, ma solo verso chi ci è più prossimo. Anche l’ostilità verso l’accoglienza dei disperati che sbarcano sulle nostre coste scaturisce da un processo di identificazione proiettiva: sono poveri, affamati come ciascuno di noi è o teme di diventare.
Possiamo chiederci: quali sono i legami che sanno durare creativamente nel tempo? Quelli che sanno preservare la differenza come dato inassimilabile, quelli nei quali l’altro resta l’altro, ad una distanza sufficiente per impedire quella “intimità alienata” che Adorno vedeva riflettersi impietosamente nella canottiera bianca del padre-marito sdraiato sul divano. Saper stare generativamente in un legame significa anche saperne stare sempre parzialmente fuori, permanere oscuro a se stesso. Lo sappiamo: i legami più fecondi e duraturi sono quelli che si fondano sulla capacità di stare da soli. È questa l’essenza non-empatica dell’altruismo. Altrimenti la comunità stessa rischia di scivolare verso l’identificazione totalitaria alla massa. La violenza può essere letta come il sintomo estremo dell’illusione empatica: se capisco tutto dell’altro, se mi identifico a lui, se condivido tutto con lui, se nessuno dei suoi processi psichici mi è oscuro, cade quella differenza e quel rispetto per la sua lingua straniera che solo rende possibile un legame nutrito di rispetto. Sapere tutto dell’altro, dissolvere il suo mistero in una trasparenza senza resti, finisce per cancellare la bellezza del mistero dell’alterità. Un incontro non avviene mai allo specchio. Ogni volta che accade davvero noi facciamo esperienza di ciò che ci sfugge, di ciò che non arriviamo mai del tutto a comprendere.

Repubblica 5.10.14
I rischi politici dell’altruismo non razionale
di Giancarlo Bosetti

Con i loro video dell’orrore i terroristi dell’Is usano l’effetto “vittima identificabile”
IL «deficit di empatia» è stato il tema di Obama, quando ancora era celebre solo nell’Illinois. Metteva questa espressione, sofisticata per un comizio, nei discorsi che avrebbero aperto la via al trionfo nelle presidenziali nel 2008. E la spiegava, in inciso, come si fa a scuola: «empathy deficit» significa che serve la capacità di «metterci nei panni degli altri» (gli americani dicono «nelle loro scarpe »), «di vedere il mondo attraverso gli occhi di quelli che sono diversi da noi, dei metalmeccanici licenziati, della famiglia che ha perso tutto nell’alluvione. Ma ci è tornato di nuovo di recente, in polemica coi repubblicani, per sostenere che il «deficit di empatia» è un problema più grave e urgente del «deficit federale». Parole che bene si presterebbero a un adattamento europeo. E che mostrano come la retorica del presidente americano sia il frutto di un sapiente laboratorio di lungo corso.
La discussione aperta dalla Boston Review «contro l’empatia», ispirata da un saggio di Paul Bloom, non prende di mira Obama, ma al contrario mette in guardia contro una idea di empatia che produce divisioni e superficialità. Empatia e simpatia, due parole in questo equivalenti, spingono di per sé ad avvicinarsi emotivamente ai simili, a preferire persone di bell’aspetto, a sviluppare forme di altruismo che si rivolgono superficialmente a quello che di più colpisce attraverso i media: un singolo bambino le cui sofferenze vediamo sul video pesa molto di più di milioni danneggiati da una scelta di governo che taglia i fondi alle scuole pubbliche. La violenza su un singolo gattino, la morte di una singola orsa — recenti casi che hanno dominato il web — hanno un impatto gigantesco che oscura realtà spesso più rilevanti, ma più astratte nella comune percezione, come per esempio dati sull’aumento di siccità, in Medio Oriente e altrove, che devasta la vita di milioni di esseri umani. Non so quanto i terroristi dell’Is conoscano l’«effetto della vittima identificabile», ma certo ne fanno uso quando mostrano a tutto il mondo il video della decapitazione di una singola persona e nascondono quelli (trovati sugli smartphone di qualche jihadista morto) dei massacri di massa e della deportazione di donne schiavizzate.
L’empatia può alterare di molto le proporzioni del giudizio e dividere tra gruppi sociali e lealtà settarie o di razza. Si capisce perché sulla rivista americana si facciano sentire voci come quella di Peter Singer, il filosofo australiano dell’«altruismo efficace», che si pronuncia per una messa in guardia da questi rischi e per riproporre al centro del discorso pubblico la deliberazione razionale.
In verità l’«empatia» di cui parlava Obama a Chicago, da giovane senatore, è vaccinata nei confronti del rischio razzista e ha i caratteri propri della consapevolezza interculturale — «vedere con gli occhi di quelli che sono diversi da noi» — e poi gli appelli al puro ragionamento devono fare i conti con l’enorme incidenza dei fattori non razionali in politica, delle emozioni che influenzano le simpatie, la valutazioni e i voti. Di certo l’empatia che si vorrebbe veder crescere è quella che getta ponti verso «gli altri» e verso il futuro, quella che non necessariamente detesta i gattini e gli orsetti di oggi, ma che riesce, magari anche attraverso di loro, a gettare lo sguardo sul pianeta che si prepara per i nostri figli e nipoti di qui a cinquant’anni. L’empatia può dunque peggiorare un già evidente difetto delle democrazie: la brevità del mandato elettorale e la difficoltà per chi governa di occuparsi dei consensi che una scelta di oggi avrà in un futuro lontano.
Martha Nussbaum ha proposto, nel suo recente Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia ( Il Mulino 2014), i carteggi da cui nacque una realizzazione incredibilmente preveggente, tra le migliori di tutti i tempi, ad opera di una pubblica amministrazione: Central Park a New York. Il giovane progettista americano, Frederick Law Olmsted, era stato ispirato dalla visita a Liverpool, dove vide un parco, che era frequentato da tutte le classi sociali. Quindici anni dopo, attraverso molte battaglie, nel 1857 riuscì a vincere il concorso per i 350 ettari di Manhattan, insieme al collega Calvert Vaux. Scriveva: «Verrà il tempo in cui New York sarà tutta costruita, quando tutto sarà riempito. E quando tutte le formazioni rocciose dell’Isola, così particolari, saranno trasformate in reticoli di strade diritte e monotone e in fondamenta di edifici alti e squadrati. Non rimarrà nulla dell’attuale superficie così varia, con la sola eccezione del Parco…». L’empatia di cui era carica quella scelta gettava ponti tra le classi sociali, offriva aria fresca vicino a casa a chi non aveva un’altra residenza fuori e gettava ponti verso generazioni lontane, i cui voti eleggono ignari sindaci dei secoli successivi.

Repubblica 5.10.14
L’anniversario di un Nobel dimenticato
di Piergiorgio Odifreddi

RICORRE oggi il decimo anniversario della morte di Maurice Wilkins, Nobel per la medicina nel 1962 per i suoi contributi alla scoperta della struttura del Dna. Wilkins condivise l’onore con Francis Crick e James Watson, che però sono molto più noti e celebrati di lui: quando si pensa alla doppia elica si parla sempre di loro, e ci si dimentica di Wilkins.
In parte, la colpa è sua. Invece di accettare la proposta di firmare congiuntamente un unico lavoro, rifiutò e ne scrisse uno autonomo da quello di Watson e Crick, in cui essi riconoscevano di «essere stati stimolati da idee e risultati non ancora pubblicati di Wilkins e Franklin». Un bell’ understatement inglese, questo, visto che lo “stimolo” era un’immagine ai raggi X del Dna fatta da Rosalind Franklin, che Winkins aveva mostrato di nascosto a Watson, che ne aveva immediatamente dedotto la struttura elicoidale della molecola.
L’episodio causò poi molte polemiche, perché fu una scorrettezza nei confronti della brillante ricercatrice, il cui scostante carattere le aveva però alienato le simpatie, oltre che dei competitori Watson e Crick, anche del collaboratore Wilkins. La Franklin non vinse il Nobel, perché morì prima di cancro. Wilkins lo vinse paradossalmente anche per lei, ma rimase sempre una sorta di “terzo escluso” rispetto a Watson e Crick.

Repubblica 5.10.14
Quanti schiavi lavorano per voi ogni giorno?
di Lredana Lipperini

MI COLLEGO al sito, slaveryfootprint. org . La prima pagina del test mi avverte che nel mondo esistono 27 milioni di schiavi, tanti quanti la popolazione di Australia e Nuova Zelanda. Mi chiedono dove vivo, se sono femmina o maschio, qual è la mia età. Mentre rispondo, mi ricordano che molti bambini pakistani iniziano a lavorare a 13 anni. Ho figli?
Sì, e mentre compilo il test apprendo che già in un rapporto del 2007 Save the Children denunciava che 250.000 bambini, in Pakistan, vivono e lavorano in completo isolamento, che in India ne lavorano 200.000, e che molte multinazionali lo sanno benissimo. Avanti. E ancora: mi piacciono i gamberi? So che nel Sud dell’Asia ci sono lavoratori che per venti ore al giorno li sgusciano perché finiscano nel mio piatto? So che chi cerca di scappare viene punito con violenza o molestie sessuali? Non lo sapevo. E il mio armadietto del bagno? Controllo, c’è quel che appare sullo schermo: profumo, rossetto, sapone, colluttorio, ombretto. Grazie al lavoro di bambini indiani che non conosco. Ho pochi gioielli, per fortuna, ma uso cellulare, computer, televisore. Ho abiti di cotone. Grazie al cielo, non ho mai pagato per fare sesso. Eppure, il calcolo finale mi dice che 68 schiavi lavorano per me, ogni giorno. Sotto il risultato, trovo l’elenco dei marchi che li utilizzano, e il link al sito madeinafreeworld. com , il network che ha creato questa e altre campagne, e che crede che i piccoli gesti facciano, davvero, la differenza. Fate il test, leggete il sito. E pensateci su.

Repubblica 5.10.14
Autobiografia
In arrivo le confessioni di Toni Negri, il cattivo maestro condannato per la sua complicità con le Brigate Rosse
di Simonetta Fiori

Ponte alle Grazie le annuncia per il prossimo anno come «un libro che riaccenderà il dibattito pubblico mondiale». Addirittura. «Non una confessione come segno di colpa o come sottomissione a un’autorità giudicante », per carità, Negri non ci pensa proprio, «ma il ritorno al suo senso letterario, come già in Agostino, Nievo, Neruda», tanto per fare esempi dimessi. Confessioni di un comunista, il titolo. Nessun timore di un’inopportuna agiografia? «Tutte le autobiografie sono apologetiche», dice Vincenzo Ostuni, direttore editoriale di Ponte alle Grazie. «Quella di Negri è comunque una storia che merita rispetto».

Repubblica 5.10.14
La lunga marcia dopo il terrorismo
Dal pentitismo al regime speciale carcerario, il racconto di come l’Italia uscì dalla stagione più sanguinosa
di Silvana Mazzocchi

ANNI d’ira e di furore, i Settanta. Una lunga stagione di lotta armata che in Italia, più che in altri paesi d’Europa, riuscì a diffondersi e perfino a radicarsi nella vita sociale. Oltre duecento i morti, migliaia i feriti e innumerevoli gli attentati. Con le Brigate rosse e Prima linea in testa, e con una galassia di sigle minori, tutte coinvolte in un fenomeno la cui intensità toccò il culmine con la strage di via Fani e con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, per poi perdere progressivamente la connotazione iniziale e cedere all’impennata di attacchi ripetuti, sequestri di persona, agguati e omicidi. Fino alla comparsa dei primi pentiti e, successivamente, di quel movimento di dissociazione che invitava dal carcere “a deporre le armi”.
Un cammino accidentato che ora Monica Galfré, apprezzata studiosa della lotta armata negli anni Settanta e insegnante di storia dell’Italia repubblicana all’Università di Firenze, ha voluto ricostruire nel suo libro La guerra è finita, un saggio che per la prima volta offre una fotografia completa di quel periodo, arricchita con materiali inediti e numerose testimonianze.
Una considerazione innanzi tutto illumina la ricerca di Galfré: il tentativo, dichiarato e riuscito, di analizzare i fatti con la duplice lente della dimensione individuale (intrecciata a quella collettiva) e degli avvenimenti. Ecco allora il racconto del pentitismo, un fenomeno contrastato che ebbe inizio con leggi abbozzate già agli albori degli Ottanta, che vennero poi ampliate negli anni successivi con norme premiali destinate a quanti scelsero di parlare in cambio di protezione e sconti di pena. Un’attenzione particolare, però, Galfré la riserva all’universo carcerario, al regime speciale di que- gli anni, al lento riaffacciarsi dei detenuti alla vita. Un movimento del tutto diverso dal pentitismo che, nato dal carcere e dal distacco degli ex terroristi nei confronti della lotta armata, coinvolse nel tempo oltre i due terzi di loro. Utile ricordare come si sviluppò il cammino verso l’agognata riconciliazione, che non si è mai del tutto compiuta. S’inizia da quando, alla presa di distanza degli ex terroristi in carcere, si unirono da sponde opposte e con motivazioni diverse vasti settori della Chiesa e del mondo cattolico, pezzi di società e anche quei magistrati preoccupati di portare a termine le inchieste ancora in corso, che videro nella delegittimazione della violenza da parte di tanti detenuti un terreno fertile per allargare l’area della dissociazione e debellare quel che restava del terrorismo.
La guerra è finita è la storia del come e con quali protagonisti è iniziato ed è proseguito il tormentato cammino verso la normalizzazione. La cronaca degli scogli, dei passi indietro, ma anche dell’impegno e delle accelerazioni che, infine, hanno permesso di recuperare la lealtà a un sistema politico umiliato dalle esigenze emergenziali.

LA GUERRA È FINITA di Monica Galfré LATERZA PAGG . 270 EURO 22

Repubblica 5.10.14
Ermanno Rea nuovo mistero napoletano
di Francesco Erbani

IL CASO Piegari è un’altra diramazione che Ermanno Rea trascina da Mistero napoletano (1995). Dopo La comunista , in cui incontrava il fantasma di Francesca Spada, la giornalista dell’ Unità morta suicida di Mistero napoletano, e raccontava l’astio che il libro aveva provocato fra gli ex dirigenti del Pci (“dillo che è solo un romanzo”, gli ingiungevano), ecco la storia politica, culturale e dai laceranti risvolti umani, di Guido Piegari, anche lui comunista irrequieto nella Napoli del dopoguerra. Rea procede come per i precedenti libri: scrittura narrativa, una memoria dolente, la storia com’è andata e come si presume sia annidata nelle pieghe più nascoste.
Piegari è un intellettuale brillante, studia filosofia, è stimato da Croce, diventa ricercatore di medicina oncologica. È l’animatore del Gruppo Gramsci, un sodalizio che ha l’ardire di contestare la politica meridionalista del Pci. In particolare di Giorgio Amendola e dei suoi compagni più stretti, fra i quali Giorgio Napolitano. Piegari si sente erede dell’hegelismo napoletano (gli Spaventa), che aggiorna interpretando rigorosamente Gramsci: il riscatto del Mezzogiorno sta nell’alleanza fra contadini del Sud e operai del Nord. Piegari e con lui Gerardo Marotta, che fonderà il prezioso Istituto italiano per gli studi filosofici, imputano ad Amendola una spregiudicata strategia di alleanze nel Mezzogiorno, per formare una specie di fronte sudista. Polemica politico-culturale aspra. Ma pur sempre politico-culturale.
Ma il Pci non tollera ed espelle i giovani del Gramsci. Per Piegari è una tragedia esistenziale: la fuga da Napoli, l’instabilità nervosa che, nonostante continui la carriera di ricercatore, lo accompagna durante la tutta la vita, spentasi nel 2007.
Il caso Piegari di Ermanno Rea Feltrinelli, pagg. 144, euro 11

Repubblica 5.10.14
“Quando il tiro si alza”
L’assurdità della Grande Guerra secondo lo scrittore Un lavoro carico di umanità e riflessioni filosofiche su un “nodo cruciale della Storia”
La trincea di Ceronetti una voragine nel cuore
di Anna Bandettini

IN LETTERATURA ci sono classici come Niente di nuovo sul fronte occidentale , nel cinema cult movies come La grande guerra . Solo a teatro, a parte una memorabile edizione di Luca Ronconi di Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, la Grande Guerra è pressocché assente. Nell'anno del centenario fa eccezione lo spettacolo che Guido Ceronetti, scrittore, saggista, teatrante per passione e gioia, ha voluto con ardore per raccontare “la voragine che si è spalancata nel cuore dell'Europa a Sarajevo il 28 giugno 1914”. Al Piccolo Teatro che lo produce, e con il suo Teatro dei Sensibili - una “non-compagnia” da lui fondata negli anni Settanta ispirata allo spettacolo di strada, giovani attori via via riuniti intorno al Maestro, con un loro codice interno - Ceronetti ha scritto e diretto Quando il tiro si alza . Il titolo è preso da una funesta frase di esultanza del capitano inglese Harshwell prima dell'offensiva della Somme nel luglio del '16, dove la fanteria britannica fu poi sterminata dai tedeschi, e subito si capisce che quel che interessa Ceronetti non è la ricostruzione storica né la lettura pacifista della Grande Guerra ma il discorso apocalittico che essa apre. Sotto una grande scritta nella parete di fondo, “1914-1918. La storia dal volto disumano”, si inizia con le musichette Belle Epoque presto sostituite dagli echi degli spari e dei cannoni. Ceronetti, seduto dietro a una scrivania, sempre più simile a Antonin Artaud altro grande visionario, l'inseparabile basco in testa, il corpo piccolo e fragile come un predestinato alla sofferenza, la voce profetica, sorveglia quella “mostruosa costellazione di storie della guerra 14-18”, che i bravi Luca Mauceri (Baruk), Eléni Molos (Dianira), Valeria Sacco (Egeria), Filippo Usellini (Nicolas) e Elisa Bartoli (Durga) ripercorrono con canzoni e parole in un susseguirsi di quadri, annunciati da cartelli, ognuno su un episodio topico: l'uccisione di Cesare Battisti nel 16, quella di Mata Hari nel 17, una delle battaglie dell'Isonzo sul San Michele nel 15. Per buona parte il testo è fatto di citazioni - Meditazioni d'un solitario nel 1-916 di Léon Bloy, La battaglia come esperienza interiore di Junger, Lettere dal fronte di Giosuè Borsi, i Poemi del gineceo dello stesso Ceronetti e poi Céline, Piovene, Doblin, la Bibbia - ma il sio carattere non è narrativo, bensì profetico. Per un genio irrazionalista come Ceronetti, la Grande Guerra è il “nodo cruciale della Storia” da cui guardare “l'assurdità, l'inconoscibilità, l'enigmaticità senza risposta del destino umano”, qualcosa di molto più arditamente filosofico che non la rievocazione storica. Il risultato, nella sua semplicità scenica, è un lavoro nitido e carico di umanità, a cominciare dalla compassione di Ceronetti verso “gli invisibili che ci guardano stupiti”, i milioni di uccisi e feriti “dall'impazienza di conquista” di altri esseri umani.
In questa triste memoria di potenza della violenza, Ceronetti non vede che l'inesplicabile futilità sanguinosa dell'umanità; non vede che un pover'uomo crocifisso su un Golgota fatto di elmetti, divise, zaini delle migliaia di morti che lui stesso ha prodotto e produrrà. Questa immagine umanamente così terribile è forse la più bella delle invenzioni di Ceronetti, insieme alla rosa bianca che depone alla fine tra gli applausi su quelle divise di ignoti mai più tornati.
QUANDO IL TIRO SI ALZA di e con Guido Ceronetti, con Luca Mauceri, Eléni Molos, Valeria Sacco, Filippo Usellini, Elisa Bartoli. Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino a oggi

Il Sole Domenica 5.10.14
Impero romano
Apollonio alter Christus
Il saggio di Miska Ruggeri tratteggia la figura fascinosa e ambigua del filosofo, ritenuta dai pagani superiore a Gesù e dai cristiani un pericoloso sovversivo
di Gennaro Sangiuliano


Miska Ruggeri, Apollonio di Tiana, il Gesù pagano, prefazione di Luciano Canfora, Mursia, Milano, pagg. 224, € 13,00

Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, libro dedicato ai greci, avvertiva che senza mito «ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura», perché «solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà». Così Ernst Junger riprendendo Nietzsche e Dostoevskij inquadra il nichilismo come un moto di «svalutazione dei valori» che si sostanzia «nello sfaldarsi di antichi ordinamenti e nella consunzione di ogni risorsa tradizionale». Ecco perché Martin Heidegger giunge a connotare il nichilismo «come il processo storico attraverso cui il soprasensibile viene meno e vede annullato il suo dominio, e di conseguenza l'ente stesso perde il suo valore e il suo senso».
Se non si considera la peculiarità sfuggente del mondo antico che non è stato mai «tutto logos e razionalità» non si può comprendere la necessità di valutare personaggi come Apollonio di Tiana, figura fascinosa e ambigua ritenuta dai pagani superiore a Gesù e dai cristiani un pericoloso anticristo, diventato padre di tutte le tendenze esoteriche moderne. Celebrato da Pound nei Cantos e prima da Flaubert, considerato e ripreso da Erasmo da Rotterdam e Jean Bodin. Un accurato saggio di Miska Ruggeri, con prefazione di Luciano Canfora, indaga attorno a questa presenza, Apollonio di Tiana, il Gesù pagano, conducendoci in un labirinto della cultura classica che si risolve felicemente nel ritrovamento delle radici dell'Occidente.
Apollonio è per molti l'alter Christus, l'anticristo dei pagani, esponente del movimento neopitagorico, espressione della sete d'irrazionale dell'età ellenistica. I sogni per l'antichità, a partire da Omero, sono realtà oggettiva. Il mondo greco-romano, si era posto da sempre in bilico tra realtà e metafisica, Apollonio torna su questa linea ed è l'artefice di quel neomisticismo che, importato da Oriente, in epoca di crisi troverà terreno agevole. «Rinasce il pitagorismo», scrive Miska Ruggeri, «come culto e modo di vivere, basato sull'io magico separabile, sul mondo quale luogo tenebroso e sulla necessità di una catarsi, con contorno di idee derivate dalla religione astrale, da Platone, dall'occultismo di Bolo».
Nella prefazione Luciano Canfora ne fa una accurata collocazione storica. Nel 212 con Caracalla si era conseguito il massimo punto di coesione politica imperiale, grazie anche all'estensione della cittadinanza a tutte le comunità dell'impero. Nel 235, però, con l'uccisione di Alessandro Severo e l'ascesa violenta al trono del trace semibarbaro Massimino «ha inizio il tracollo della civilitas», l'impero perderà le sue peculiarità perché diventerà con Costantino «un autocratico impero cristiano tendenzialmente sempre più intollerante». In questa transizione di crisi, segnata dall'anarchia e dallo sgretolamento, «la figura di Apollonio di Tiana», spiega Canfora, «taumaturgo e maestro di saggezza assume un significato rilevante». Le sue idee saranno a lungo fertili influenzando il mondo bizantino e in quello arabo, il senso che Ruggeri scorge è chiaro: «Nel mondo mediterraneo tutto è pronto per gli operatori miracoli, l'avvento di Gesù Cristo, considerato un mago da alcuni maestri del Talmud e da parecchi romani, e di Simon Mago. Nonché di Apollonio di Tiana».
La Vita di questo filosofo è conosciuta soprattutto attraverso la biografia scritta da Flavio Filostrato (165 d.C.), già autore della Vite dei Sofisti, che utilizza le lettere e gli scritti Apollonio ricostruendone azione e pensiero. La vicenda umana si snoda attraverso noti personaggi della romanità: Tigellino, Vespasiano, Tito, Domiziano. Centrale è la rivendicazione della libertà come stile di vita, dimensione umana autentica, elemento tipizzante della civiltà. Ezra Pound data nel dopo Apollonio l'inizio del processo di decadenza del mondo: «E contro l'usura e la degradazione dei sacramenti... Dopo Apollonio desensibilizzazione...». La fortuna che ha incontrato negli ultimi quattro secoli, presso diversi autori, indica, in tempi di crisi del pensiero occidentale, la necessità di approfondirne i tratti, genio o ciarlatano che sia.

Il Sole Domenica 5.10.14
Antiche lezioni di tolleranza
Greci e Romani non hanno mai fatto una guerra per affermare la propria religione su un'altra. È quello che ci suggerisce nel suo libro Maurizio Bettini
di Roberto Escobar


I Greci e i Romani non hanno mai fatto una guerra per affermare la propria religione su un'altra. La circostanza è sotto i nostri occhi, ma non la vediamo. È bene stupirsene, sia della circostanza, sia del fatto che non la vediamo. Questo ci ricorda e ci suggerisce Maurizio Bettini in un libro dal titolo trasparente: Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche.
Per quanto la nostra cultura affondi le radici in quella classica, a noi mancano parole che ne indichino direttamente la religione. La chiamiamo idolatria o paganesimo, termini coniati dal cristianesimo vincente. Mai gli antichi li avrebbero usati. E neppure avrebbero usato politeismo o politeistico, che hanno senso solo in una prospettiva monoteistica. Per i Greci e i Romani era ovvio che gli dèi fossero plurali, e non c'era alcun bisogno di ribadirlo con un sostantivo o un aggettivo.
D'altra parte, l'intento di Bettini non è solo liberare la religione classica dal peso fuorviante e spregiativo del lessico cristiano. Il suo intento è anche e soprattutto indicare nella sua visione del mondo, nel suo vivere e procedere un concreto valore d'esperienza, una capacità di far fronte a problemi e a conflitti sociali e politici più e meglio del monoteismo.
Centrale in questa prospettiva è la nozione di tolleranza. Nata dalle guerre di religione che hanno coperto di sangue l'Europa, nella tolleranza c'è comunque l'impronta dell'intolleranza. Essere tolleranti significa astenersi dall'azione violenta nei confronti dell'altro e della sua fede, ma sempre considerando questa un errore e quello un peccatore.
Al di fuori del proprio dio, e anzi al di fuori del proprio modo di intendere quel dio, per il tollerante non c'è verità. La fede e la verità si identificano, per lui come per l'intollerante. I due abitano uno spazio religioso e umano comune: il primo astenendosi con prudenza dal trarne conseguenze più o meno violente, il secondo pronto a farlo anche con passione omicida.
Non erano tolleranti, i Greci e i Romani. Non essendo intolleranti, non ne avevano bisogno. I secondi, in particolare, consideravano gli dèi degli altri non una minaccia – e neppure una falsità –, ma una risorsa (prima di conquistare una città, per esempio, con il rito dell'evocatio ne chiamavano fuori con pio rispetto il dio, pronti a integrarlo nel loro pantheon).
Nessun dio romano si professava geloso, come invece quello monoteistico, che nasce pretendendo signoria totale sulla complessità della vita e degli esseri umani. Piuttosto, ognuno partecipava a un sistema multiforme, in movimento. Per spiegarlo, Bettini propone un parallelo con il linguaggio.
Come accade alle parole che usiamo nei nostri discorsi, anche fra gli dèi romani c'erano un rapporto e un confronto ininterrotti. E se dai nostri discorsi nascono nuove parole, dal rapporto e dal confronto tra dèi nascevano dèi nuovi, che andavano ad arricchire l'intero pantheon.
Questo non valeva solo dentro i confini del mondo romano, ma anche fuori, nell'incontro con dèi stranieri. Era questa l'interpretatio: una mediazione interpretativa, un compromesso raggiunto mediante valutazioni e congetture tra un dio straniero e quello romano che più sembrava essergli vicino. Il risultato era un nuovo dio, o una modificazione e un arricchimento del vecchio.
Al pari di una lingua ben viva, la religione romana si modificava, si muoveva, cresceva. Che bisogno avrebbe mai potuto avere d'esser tollerante? Era invece curiosa, attenta alla relazione con gli dèi degli altri, aperta al loro valore d'esperienza. Attenzione e apertura, queste, che l'assolutismo monoteistico rende impossibili.
Se dio e la verità si identificano, ogni altro dio e ogni altra verità non potranno essere che falsi, perciò da combattere, vincere, eliminare. Per proseguire nella metafora linguistica, i monoteismi sono lingue bloccate: lingue in cui il discorso – la progressione di parola in parola, verso parole e idee nuove – è negato dalla fissità di un testo dato una volta per tutte, e sottratto a ogni interpretatio. Questo loro "blocco" li rende solidi, ma anche aggressivi.
In termini politici contemporanei, si può sospettare che lasciati a sé, in assenza di limiti e correttivi, i monoteismi tendano a opporsi alla laicità e alla democrazia, nel senso che alla pluralità delle opinioni, al loro confronto aperto e "discorsivo" preferiscono l'assoluto di una verità unica e gelosa.
E se anche così non fosse, resterebbe il fatto increscioso che, al contrario del mondo greco e romano, quello cristiano e quello islamico sono stati e restano zeppi di guerre fatte nel nome di dio. Se non altro, dalle religioni antiche dovremmo imparare almeno questo.

Maurizio Bettini, Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, il Mulino, Bologna, pagg. 156, € 13,00

Il Sole Domenica 5.10.14
Dante tra passione letteraria e sperimentazione linguistica
di Jacqueline Risset


Questo testo inedito di Jacqueline Risset, estratto dall'intervento che lei stessa aveva preparato per la Lectura Dantis dell'Istituto di studi italiani, verrà presentato all'Università della Svizzera Italiana, Lugano, l'otto ottobre prossimo. Il 5 novembre prossimo apparirà presso Flammarion Paris «Rimes de Dante, présentées et traduites par Jacqueline Risset», Paris, Flammarion, novembre 2014
Di Beatrice abbiamo un'immagine di Intermediario per eccellenza tra umano e divino; allo stesso modo abbiamo anche una nozione di Paradiso come luogo verso cui costantemente tende il pensiero di Dante. Ma d'improvviso, tra le Rime dette "extravaganti", ci troviamo davanti a una canzone (una soltanto) nella quale Beatrice viene nominata esplicitamente. Allora, con stupore, vediamo costei, «tanto gentile», comportarsi da civetta crudele e insaziabile che «per suo piacere» porta a morte l'amante; e la "novità" in rapporto con il nome adorato cambia senso di colpo, divenendo novità di morte e non di vita…
Quel dolce nome, che mi fa il cor agro,
tutte fiate ch'i' lo vedrò scritto
mi farà nuovo ogni dolor ch'io sento;
Ce doux nom, qui me fait le cœur aigre,
toutes les fois que le verrai écrit,
me renouvellera la douleur que je sens.
(Rime, LXVIII, 15-18)
Qualcosa di quanto viene enunciato in questa canzone "extravagante" resterà nel poema sacro. Intendo la forza del mondo terreno, la persistenza delle immagini di questo mondo , che si manifesterà attraverso la nostalgia che al suo passaggio il viaggiatore ancora vivo provoca in coloro dei quali «le corps s'est tout consumé».
Nelle Rime, nel grado di sperimentazione che esse esprimono, si manifesta la natura della grande passione letteraria di Dante. Fin dalle prime è evidente la grandissima attenzione per il lavoro della scrittura, che poi si tradurrà in verve di emulazione e in fierezza di una padronanza tecnica orgogliosamente dichiarata. Come quando, parlando alla sua canzone Amor, tu vedi ben che questa donna, l'autore stesso, colmo di meraviglia, nelle ultime righe proclama:
La novità che per tua forma luce,
che non fu mai pensata in alcun tempo.
La nouveauté qui brille dans ta forme
qui n'a jamais été pensée en aucun temps.
(Rime, CII, 65-66)
Dante si compiacerà a lungo nel considerare sé stesso come uno straordinario artefice della poesia, rotto a ogni esercizio, a ogni sfida, e capace di innovazioni assolute. Lo spazio di un'esperienza collettiva legata alla poetica del Dolce Stil Novo, nelle Rime coglie momenti compiuti di espressione. Come nel sogno di evasione colmo dell'immaginario dei romanzi arturiani (qui Dante non ricorre ai trovatori provenzali, ma alla letteratura nordica, alla navicella del mago Merlino), che descrive nel famoso sonetto indirizzato a Guido Cavalcanti:
Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch'ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;
Guido je voudrais que toi Lapo et moi
soyons pris par un enchantement
et mis en un vaisseau qui à tous vents
allât par mer à notre seul vouloir.
(Rime, LII, 1-4)
I soggetti, gli amici, si interpellano, si danno del "tu": «Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io…». I poeti del Dolce Stil Novo collaborano ad un'opera collettiva di poesia; partendo da una nozione di "ispirazione assoluta" – il dettato d'amore – analizzano il fenomeno amoroso riconducendolo non all'individuo empirico, ma a un modello universale di uomo. La persona del nuovo troviero, lungi dall'affermarsi, si dissolve nella coralità dell'amicizia.
(Traduzione dal francese di Umberto Todini)

Il Sole Domenica 5.10.14
Juan De Mariana - ii volume
Uccidere il tiranno? Si può
Nel 1599 quando il gesuita spagnolo pubblica «De rege» Shakespeare mette in scena il «Giulio Cesare»
Il corpo del re non è più sacro
di Gianluca Briguglia


Dobbiamo immaginarla, quella Parigi del 1610, già metropoli europea e più somigliante alle stradine del quartiere del Marais, strette, irregolari, a volte cupe. E dobbiamo immaginarla, l'Europa di quel 1610, scossa da tensioni politiche permanenti, attraversata da processi di rafforzamento di istituzioni, di Stati, di regni, ma anche minata da divisioni trasversali, da conflitti irrimediabili, dai tarli della disgregazione. Sembra sempre sul punto di spezzarsi, di essere ingoiata dalla regressione a quello stato di natura pre-civile che i filosofi discutevano nel dettaglio, dando rimedi e indicando rischi; eppure quell'Europa dobbiamo anche immaginarla così piena di novità, di luci, di soluzioni inedite, di capacità di reazione e costruzione.
Possiamo immaginarle, quella Parigi e quell'Europa, quando la mattina del 14 maggio 1610 si seppe che un isolato attentatore, François Ravaillac, era riuscito a uccidere il re di Francia, Enrico IV, l'ugonotto che si era fatto cattolico per spiazzare i suoi nemici cattolici, e che poi aveva emanato il famoso editto di tolleranza per le religioni di tutti, gettando le basi di un'Europa nuova. Ancora un attentato a un re: lo stesso Enrico IV era scampato all'attacco omicida di un certo Jacques Chastel, che guarda caso studiava al collegio dei Gesuiti; e un frate domenicano nel 1589 aveva ucciso Enrico III, nemico dalla lega cattolica.
L'Europa tornava indietro. Ma questa volta sembrava chiaro da dove si originasse l'assurda idea che qualcuno, di sua iniziativa, potesse ritenere di riconoscere nel re un tiranno e di ucciderlo. Quell'idea si trovava nel libro di un gesuita di primissimo piano, lo spagnolo Juan de Mariana, un libro dato alle stampe poco tempo prima, il De rege et regis institutione.
Non aveva scritto Mariana che l'omicida di Enrico III era «eterna gloria della Francia»? Non aveva scritto, in quel libro vietato eppure così diffuso, che tutti i teologi e i filosofi sono d'accordo che in certi casi di tirannia sia doveroso «uccidere il principe»?
Certo l'idea in sé non è nuova. Cicerone l'aveva detto: per salvare lo Stato si possono prendere le armi contro il tiranno. E la figura stessa di Giulio Cesare era stata per secoli lo spunto di una riflessione implicita sul tiranno: i cronisti medievali nelle loro storie del mondo indicano Cesare a volte come «iniziatore dell'impero», altre volte come «usurpatore della repubblica», a seconda del loro giudizio. È curioso che proprio nel 1599, quando Mariana pubblica il suo trattato, Shakespeare a Londra metta in scena il suo Giulio Cesare. Evidentemente è tempo di tiranni (o presunti tali), e ciò provoca il pensiero e l'immaginazione.
Per la riflessione medievale e umanistica si può essere tiranni o per l'esercizio, il comportamento, o per mancanza del diritto a governare. Quindi si tratta di una figura ambigua, che sta tra etica e diritto. L'ambiguità del tiranno si scorge nelle riflessioni dell'inglese Giovanni di Salisbury, nel XII secolo. Stretto collaboratore di quel Thomas Becket ucciso nella cattedrale di Canterbury dai sicari del re Enrico II, Giovanni di Salisbury elabora nel suo Policraticus considerazioni molto ricche. Che cosa fare di fronte a un re, figura sacra, che opprime il popolo oltre ogni limite e non rispetta la legge? In primo luogo bisogna interrogarsi se non sia uno strumento che Dio usa per punire i peccati del popolo e per indirizzarlo. Del resto la Bibbia mostra che Israele è stata spesso consegnata ai tiranni per volontà di Dio. Ma oltre a pregare, ci sono momenti in cui è chiaro che al tiranno bisogna resistere, anche uccidendolo. Chi può farlo? Nessuno che gli abbia giurato fedeltà (quindi non il suo entourage, baroni e feudatari) e non con congiure. Ma ci si può aspettare che qualcuno, ispirato da Dio, prenda l'iniziativa per tutti. E di tale ispirazione dovevano essersi sentiti investiti i tirannicidi dei re di Francia.
Juan de Mariana non è quindi il primo a teorizzare l'uccisione del tiranno. Le influenze classiche e medievali nella sua opera si sentono, ma è come se aprisse un orizzonte nuovo. Lo Stato non coincide con il suo re, ma gli è superiore, deve vigilare perché il potere non diventi tirannia, il corpo del re non è sacro fino al punto da consentirgli di mettere a repentaglio la salvezza pubblica, le leggi, la religione. La Compagnia di Gesù cercherà subito di spegnere il fuoco che quel libro stava accendendo, anche isolando Mariana, mentre re e governanti daranno solennemente alle fiamme il volume. Non manca però molto a che quel trattato venga citato di nuovo. Lo farà esplicitamente Oliver Cromwell, nel 1649, durante il processo che condannerà a morte il re Carlo I Stuart d'Inghilterra, nella prima rivoluzione europea.

Il Sole Domenica 5.10.14
VI lettera alla domenica di Giacomo Leopardi
La morale è sterile senza politica


Miei carissimi Italiani,
credeva che la facoltà d'amare fosse spenta nell'animo mio. Ora mi accorgo per le vostre lettere che ancor vive e opera. Bisogna pure ch'io non sia del tutto morto, poiché mi sento infervorato d'affetto per voi.
Prima di penetrare bene a fondo nel funzionamento del mio sistema (filosofico, metafisico e politico, torno a ripetere) e nei consigli alla patria, voglio dirvi ch'io guardava la luna ma non viveva sulla luna (e in certo senso non vivo sulla luna nemmeno oggidì).
Già nel 1820 io riconosceva la somma importanza della politica che è in tanta relazione colla vita. Del resto, sebbene la morale per se stessa è più importante, e più strettamente in relazione con tutti, di quello che sia la politica, contuttociò a considerarla bene, la morale è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, l'azione, la pratica della morale, dipende dalla natura delle istituzioni sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta se la politica non cospira con lei e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto, e la politica un fatto: la vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo. Osservatelo nella differenza tra la morale pratica degli antichi e de' moderni sì differentemente governati.
Rileggendomi, ho trovato anche quest'appunto che vi porgo come il consiglio di oggi:
Necessità del nostro ritorno alle illusioni. Applicazione della cognizione dell'uomo e della natura in grande alla politica, ancora da farsi. Necessità di rendere individuale l'interesse per lo Stato, il quale è stato cagione della grandezza degli antichi popoli.
C'è ancora molto da fare. Amatemi ma da vero e adopratemi. Vi amo e vi abbraccio. Il Vostro
Giacomo Leopardi

Il Sole Domenica 5.10.14
Aver fede nell'evoluzionismo
Baden Powell, reverendo, padre del fondatore degli Scout, alla vigilia della diffusione delle teorie darwiniane capì che era necessario elaborare una teologia adeguata. Torna un classico di Pietro Corsi che ne racconta le idee
di Franco Giudice


«In questo Museo, il 30 giugno 1860 Thomas Henry Huxley, Samuel Wilberforce e altri discussero sull'Origine delle specie di Charles Darwin». Così recita la scritta scolpita su una piccola colonna di pietra che campeggia davanti all'ingresso del Museo di Storia naturale di Oxford. Vi è stata posta nel 2010 per celebrare il 150º anniversario di quello che è considerato un episodio memorabile: lo scontro tra il vescovo di Oxford Wilberforce, che in nome della creazione divina dileggiò la teoria della selezione naturale di Darwin, e il brillante naturalista Huxley, che invece la difese strenuamente come la migliore spiegazione fino ad allora fornita dell'origine delle specie.
Era il primo dibattito pubblico sul libro di Darwin, apparso da circa sei mesi, il 24 novembre 1859. E sarebbe culminato – ma qui forse siamo già nell'aneddotica – in uno scambio di battute alquanto esplosivo. Sembra infatti che alla sarcastica domanda di Wilberforce, se preferisse discendere da una scimmia da parte di nonno o di nonna, Huxley replicò che trovava meno imbarazzante essere imparentato con una misera scimmia anziché con un uomo che insinuava il ridicolo in una seria discussione scientifica. Questa scena si è ormai cristallizzata in un cliché, entrando a pieno titolo negli annali della storia dell'evoluzionismo per simboleggiare l'aspro conflitto tra scienza e religione. Ma per capire che si tratta di un modo approssimativo di presentare il dibattito sull'origine delle specie nell'Inghilterra vittoriana, è quanto mai istruttivo leggere il libro di Pietro Corsi. Un lavoro ampio, rigoroso e tra i più documentati sull'argomento, pubblicato nel 1988 da Cambridge University Press, cui si deve anche una nuova edizione nel 2008, e che Morcelliana meritoriamente propone in un'accurata traduzione italiana.
La prospettiva offerta da Corsi è, per così dire, decentrata. Nel senso che non ricostruisce l'epoca di Darwin dall'interno delle sue opere, ma adottando punti di osservazione esterni. Che diventano i luoghi privilegiati per guardare Darwin nel suo tempo e per sfatare la convinzione che egli fosse circondato da «vocianti masse di creazionisti o da sedicenti "evoluzionisti" dilettanti poco degni di nota». Il risultato è una storia diversa da quella raccontata di solito, da cui emerge quanto decisivi furono i dibattiti sullo statuto delle scienze naturali, sul ruolo della filosofia, della teologia naturale e dell'ideologia. Sono questi i punti di osservazione che consentono a Corsi di gettare nuova luce sia sul contesto in cui maturò L'origine delle specie, sia sulla sua controversa ricezione. E che si trovano compendiati nella carriera di un personaggio di secondo piano, molto noto ai suoi tempi, ma oggi dimenticato: il reverendo Baden Powell, Savilian Professor di geometria a Oxford e padre del più celebre fondatore dei Boy Scout.
Una scelta che si rivela particolarmente adeguata, poiché l'odissea intellettuale di Powell riflette e rappresenta in modo esemplare le fasi principali delle trasformazioni culturali in Inghilterra tra il 1820 e il 1860. Corsi racconta tutte le tappe di questa affascinante odissea, dalla militanza giovanile di Powell nelle file della High Church più conservatrice, al suo ingresso all'Università di Oxford, fino al trasferimento negli anni Quaranta a Londra, dove frequentò l'intellighenzia della capitale: la scrittrice George Eliot, il teologo unitariano Francis Newman e il filosofo John Stuart Mill.
Ambienti culturali e politici diversi dunque, con i quali Powell entrò in contatto «sempre alla ricerca di una conciliazione tra la fede anglicana e la modernità teologica, scientifica e filosofica», nella consapevolezza che la posta in gioco fosse la sopravvivenza delle élite sociali e politiche di cui si sentiva parte, in un mondo minacciato dalla democrazia e dalla meritocrazia. Non c'erano dubbi: in una società sempre più dominata dal sapere scientifico e dalle innovazioni tecnologiche, bisognava elaborare un sistema apologetico al passo con i tempi. Un obiettivo che Powell iniziò a perseguire fin dagli anni Trenta, quando il dibattito sulle specie in Inghilterra occupò una posizione centrale, grazie soprattutto alle critiche mosse da Charles Lyell, nel secondo volume dei suoi Principi di geologia (1832), alla teoria sulla trasmutazione degli esseri viventi di Lamarck.
Oltre a far conoscere le tesi di Lamarck, Lyell contribuì involontariamente a legittimare una soluzione naturalistica della successione delle specie nella storia della Terra, suscitando curiosità e interesse, ma anche i timori di chi pensava alle conseguenze teologiche di simili dottrine. Come nel caso del celebre filosofo del Trinity College di Cambridge William Whewell, che nel 1837 si scagliò contro l'idea stessa che la questione fosse oggetto di indagine scientifica, poiché ciò avrebbe implicato l'esclusione dell'intervento diretto della volontà divina.
Una posizione che Powell, come mostra Corsi, non condivideva affatto, e che stigmatizzò in un saggio del 1838, dove considerava più che legittima una ricerca delle leggi responsabili dell'apparizione di nuove forme di vita. Anzi, a suo avviso, una teoria che fosse riuscita in questa impresa sarebbe stata un alleato auspicabile per una teologia che intendeva preservare la fede in Dio. Anche perché un Architetto Divino, che garantiva l'ordine della natura con leggi costanti e uniformi, era più credibile e degno di venerazione di un Dio artigiano costretto a continui interventi miracolosi. Darwin inaugurò il suo primo taccuino di appunti sulle specie nel luglio 1837, proprio mentre era in pieno svolgimento questa animata discussione. Ma se Darwin, nei due decenni successivi, mantenne segreti i risultati delle sue ricerche, preferendo assistere da spettatore al dibattito pubblico sulle specie, non fu così per Powell. Che invece negli anni Quaranta continuò ad attirare l'attenzione sulla possibilità che, presto o tardi, una teoria evoluzionistica avrebbe mostrato come anche quei fenomeni che secondo alcuni provavano l'intervento del creatore fossero in realtà il risultato di leggi naturali.
Non stupisce dunque che Powell salutò con favore la pubblicazione nel 1844 delle Vestiges of the Natural History of Creation («Vestigia della storia naturale della creazione»), dove l'anonimo autore, ma che era in realtà il brillante giornalista scozzese Robert Chambers, presentava una storia dell'universo scandita da un processo evolutivo graduale, dai corpi celesti all'uomo, e guidata soltanto da leggi naturali. Il libro di Chambers provocò allarme e scandalo, attirandosi le violente critiche di alcuni teologi e scienziati, irritati anche per il suo straordinario successo editoriale (ben dieci edizioni nel 1853 e quasi 24mila copie vendute fino al 1860). Un turbine di reazioni tale da indurre Darwin a riporre nel cassetto la sua prima versione della teoria della selezione, già abbozzata nel 1842 e poi ampliata in un saggio del 1844 che considerava pronto per la stampa. Ma tale anche da rendere evidente all'opinione pubblica che la questione delle specie costituiva il terreno di scontro tra chi pensava che la natura fosse governata da leggi e chi invece credeva nel continuo intervento di Dio.
Fu in questo clima che nel 1855 Powell decise di intervenire nel dibattito con un saggio che intitolò significativamente Filosofia della creazione. Vi elaborava una raffinata difesa filosofica e teologica della teoria dell'evoluzione, sostenendo che il problema delle specie si poteva considerare risolto, anche se rimaneva ancora da individuare con precisione il meccanismo responsabile dello sviluppo progressivo della vita sulla Terra.
Il saggio di Powell fu accolto con grandi elogi, tanto che l'autore venne subito invitato a predicare nella cappella di Kensington Palace, dinanzi alla famiglia reale. Negli anni Cinquanta, questo membro autorevole dell'establishment accademico diventò il portavoce della legittimità dell'ipotesi evoluzionistica, rendendola del tutto accettabile in diversi circoli culturali, anche delle élite sociali ed economiche dell'Inghilterra vittoriana. Che si erano ormai convinte che il miglior modo per difendere vecchi privilegi e ruoli tradizionali consistesse nel presentarli come nuovi ed espressione della modernità. Furono queste élite che, secondo l'originale interpretazione di Corsi, adottarono Darwin, e non Darwin a "convertirle" al nuovo.
Nel 1860 Powell riuscì, e fu l'unico teologo anglicano a farlo, a esprimere il suo pubblico ed entusiastico sostegno alla teoria di Darwin, che confermava finalmente il principio «dell'origine di nuove specie per cause naturali». Non fece in tempo invece a partecipare al congresso di Oxford della British Association for the Advancement of Science, dove avrebbe dovuto presiedere la sezione resa celebre dal "mitico" scontro tra Wilberforce e Huxley, poiché morì poche settimane prima, l'11 giugno 1860. Ed è questa forse una delle ragioni che hanno portato a eclissare il suo importante contributo al dibattito sulle specie. Un contributo, però, che lo stesso Darwin riconobbe nel compendio storico aggiunto alla terza edizione (1861) dell'Origine delle specie, elogiando il «modo magistrale» in cui Powell aveva discusso il problema della creazione: «Niente risulta più sorprendente di come egli dimostra che l'introduzione di nuove specie è un fenomeno regolare e non accidentale».

Pietro Corsi, L'evoluzionismo prima di Darwin: Baden Powell e il dibattito anglicano (1800-1860), traduzione di Salvatore Ricciardo, Morcelliana, Brescia, pagg 490, € 25,00


Il Sole Domenica 5.10.14
Fisica e vita
Il tempo fuori e dentro il «box»
Per Einstein la scienza non studia il presente, cioè proprio la cosa che ci appare più reale. Una tesi che Smolin cerca di smontare
di Arnaldo Benini


Albert Einstein, nella lettera di condoglianze alla vedova del suo più intimo amico e interlocutore Michele Besso, scrisse: «Ha lasciato questo strano mondo un po' prima di me. Non fa niente. Gente come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro è solo un'illusione testardamente ostinata». Newton aveva concepito il tempo come nozione assoluta esterna all'universo, misurata dall'orologio di Dio. L'universo di Newton evolve secondo una nozione assoluta di un tempo che gli è estraneo, procedendo, diceva Eugene Minkowski, d'astrazione in astrazione. Einstein ha trasferito l'orologio nell'universo, considerando il tempo la quarta dimensione dello spazio. Le due direzioni del tempo nello spaziotempo sono indistinguibili, come lo sono l'alto e il basso, e quindi non c'è presente. E se non c'è presente, non c'è il tempo. Il cosmo quantico, poi, non s'espande e non evolve, esso semplicemente è, senza tempo. Il tempo, per la fisica, non è reale, è un'illusione. Spazio e tempo, disse l'astronomo e fisico inglese Arthur S. Eddington nel 1928, sono stati mescolati in un modo che l'uomo, «nelle sue ossa», non può accettare perché sente che tempo e spazio hanno una natura diversa. Ancora nel 1929 c'era chi sospettava che nemmeno Einstein avesse le idee chiare sul tempo come quarta dimensione dello spazio.
Nell'Intellectual Autobiography il filosofo Rudolf Carnap riporta che Einstein, suo collega a Princeton, gli diceva di essere parecchio tormentato dal problema del presente. «L'esperienza del presente – spiegava Einstein – è qualcosa di speciale per l'uomo, essenzialmente diversa da quella del passato e del futuro, ma è una differenza che nella fisica non c'è». Per Einstein era motivo di «rassegnazione dolorosa ma inevitabile» che l'esperienza del presente non potesse essere affrontata dalla scienza. Carnap lo consola assicurandogli che se la fisica non può considerare reale il senso che l'uomo ha del tempo, di ciò s'occupa la psicologia, anch'essa parte della scienza. Un altro episodio rivela l'ambivalenza di Einstein: alla fine degli anni 20, a Davos, sollecitò Jean Piaget a studiare, nei bambini, lo sviluppo del senso del tempo, anche se per lui era inesistente. Piaget pubblicò il meraviglioso La Génèse du Temps chez l'Enfant a Parigi nel 1946.
Einstein ha ripetuto l'errore di Newton, che noi dobbiamo evitare, scrive Lee Smolin, cofondatore e direttore del Perimeter Institute di fisica teorica a Toronto, di espellere il tempo dall'universo. Dobbiamo però capire, dice Smolin, il disagio di Einstein circa il presente, perché ogni momento della nostra esperienza, ogni pensiero, impressione, azione, intenzione sono parti di un momento, cioè del presente. «Il mondo ci appare come una serie di momenti. Non possiamo scegliere il momento in cui essere, e muoverlo avanti o indietro nel tempo. Il tempo è completamente diverso dallo spazio, nel quale invece possiamo muoverci a piacimento. Non è una differenza marginale, perché essa dà forma all'esperienza». La realtà del tempo dà senso all'esistenza. L'eternità, l'assenza del tempo, lo spaziotempo a quattro dimensioni, sono illusioni.
In questo libro notevole (e talora aggrovigliato), Smolin, studioso di livello mondiale di fisica quantistica, cioè di una delle discipline che ha espulso il tempo dalla natura, spiega che l'eliminazione del tempo non è una visione profonda della realtà, ma la conseguenza del metodo della fisica di selezionare frammenti dell'universo in un subsistema di studio. Ogni esperimento di fisica, dice Smolin, avviene in a box, in una scatola, e per questo non può che essere una drastica approssimazione della realtà, a opera di un sistema isolato dal resto dell'universo. Il successo della fisica a partire da Galileo è dovuto alla sistematica concentrazione su una minuscola parte della complessità dell'universo reale. Ciò è la sua forza e la sua debolezza.
Il tempo non solo è reale, sostiene Smolin, ma nulla di ciò che avviene nella nostra esperienza s'avvicina al cuore della natura più della realtà del tempo. Le stesse leggi di natura non sono universali, cioè fuori del tempo, anche se questa illusione è una delle grandi attrazioni della ricerca scientifica. Esse sono nel tempo. Per convincersene, dice Smolin, basta pensare all'evoluzione naturale: come possiamo ordinare le fasi dell'evoluzione della natura vivente, con le sue immense e profonde trasformazioni, se non in un quadro di riferimento nel quale collochiamo cose ed eventi secondo la sensazione, le prove e gli indizi che uno viene dopo l'altro? Il quadro di riferimento è il tempo, e negarlo, per Smolin, è una distorsione della realtà. Non possiamo giudicare né l'attacco frontale che l'illustre fisico muove ai limiti concettuali e pratici della metodologia della sua disciplina, che indurrebbero a cantonate come la negazione del tempo, né la sua teoria cosmologica (cosmological natural selection) che comprende la realtà del tempo.
Per le neuroscienze cognitive, che da anni studiano i meccanismi nervosi del senso del tempo e dello spazio, questo lavoro è rilevante, perché viene da un campo che non le ha mai prese in considerazione. Smolin dice (e non si potrebbe dir meglio) che la cultura contemporanea è caratterizzata dall'incoerenza, perché chi è alla frontiera di un ricerca ignora totalmente ciò che stanno cercando coloro che sono in un'altra frontiera. L'esempio del tempo nelle neuroscienze e nella fisica è paradigmatico. I dati delle neuroscienze sono inconciliabili con l'inesistenza del tempo, e la fisica, chiusa, direbbe Smolin, nella sua box, li ignora. La biologia sa che nessun animale, neanche il più semplice, potrebbe sopravvivere senza i meccanismi dell'orientamento temporale, le cui origini si rintracciano in sistemi nervosi di pochi neuroni. La ricerca sul cervello conferma l'esistenza di un insieme anatomofunzionale comune ai domini di tempo, spazio e numero, ma spazio e tempo sono eventi con meccanismi nervosi diversi. Smolin sostiene che il tempo è reale, senza specificare che cosa intenda con "reale". Per la fisica reale è ciò che è misurabile, ma la realtà della lampada che ho di fronte non è quella del tempo. La lampada nello spazio è percepita attraverso gli organi di senso, mentre il tempo è sentito come categoria della coscienza, perché è un prodotto di meccanismi nervosi congeniti. Il mondo si percepisce, il tempo si sente. Il neurologo conosce la disgrazia dei disturbi del senso del tempo delle lesioni del cervello, tali a volte da sconvolgere l'esistenza. Se il tempo veramente non ci fosse, che cosa viene a mancare a questa povera gente? Smolin accetta, senza entrare in dettagli, ciò che le scienze cognitive credono di poter dire dello spazio e del tempo come eventi della coscienza. Coscienza e qualia, pur essendo un aspetto della realtà del mondo, dal punto di vista scientifico sono, dice Smolin giustamente, a genuine mistery perché aspetti «dell'essenza intrinseca» del cervello, cioè della coscienza, inaccessibili alla conoscenza e inesprimibili col linguaggio. Il tempo è reborn, rinato, a opera di un luminare della disciplina che l'aveva eliminato. Per le neuroscienze non era mai scomparso.
ajb@bluewin.ch

Lee Smolin, Time Reborn From the Crisis of Physics to the Future of the Universe, Allan Lane & Penguin Books, London New York Toronto et al., pagg. 352, $ 38,00

Il Sole Domenica 5.10.14
La mente va al cinema
In un libro del 1918 si preconizzano temi della psicologia delle folle, svolta con un attualissimo approccio cognitivo
di Emiliano Morreale


Da diversi anni ormai, i primi teorici del cinema sono tornati di moda. Sarà che, tra digitale e nuove modalità di visione, il cinema dà l'impressione di essere giunto alla fine della propria parabola (o, quantomeno, a un cambiamento tanto radicale da imporre un cambio di nome). Certo è che oggi torniamo a guardare con stupore a quei teorici che per lungo tempo sono sembrati "primitivi", e impariamo a inserire i loro discorsi in una rete di saperi che va ben oltre la riflessione sul cinema. Nel far questo, si è riscoperta anche una tradizione anglosassone ignorata. Nel 2006 era uscita la prima edizione italiana di L'arte del film (1916) di Vachel Lindsay, affascinante figura di poeta-profeta-critico; quattro anni fa è stato ritradotto, in eccellente edizione critica, The Photoplay (1915) di Hugo Munsterberg; oggi arriva un altro testo importante, L'arte di fare film di Victor Oscar Freeburg del 1918 (Diabasis, Parma, pagg.236, € 26,00). A curarlo è Michele Guerra, che da tempo si interessa anche al rapporto tra cinema e neuroscienze. Non è un caso, perché vari spunti in questa direzione si trovano nel testo di Freeburg. Il quale ha un'origine pratica, come manuale per un corso universitario di "Photoplay Composition" favorito dall'interesse di produttori come Adolph Zukor e Jesse L. Lasky, a caccia di soggettisti e sceneggiatori. Ma Freeburg supera i limiti del manuale per sceneggiatori costruendo un testo di estetica, e modella il suo "cinema composer" ideale guardando più ai modelli della pittura e della musica che a quelli della letteratura, senza dimenticare i materiali su cui si opera: la suspense, il ritmo, i divi ("le storie passano, ma i divi restano", afferma un suo aforisma folgorante). Per guidare il pubblico la leva, secondo Freeburg, è l'immaginazione, che deve stimolare non solo "gli occhi del corpo" ma "gli occhi della mente". Come nota Guerra, il tema della suggestione si nutre anche di una influente metafora, quella dell'ipnotismo. E il discorso di Freeburg "oscilla tra l'affrancamento dall'idea di cinema come forma di intrattenimento massificata e il desiderio di capire come nobilitare queste masse attraverso opere d'arte in grado di coinvolgerle completamente sia a livello affettivo che razionale". Da qui un percorso duplice: studio degli effetti del cinema sullo spettatore empirico, e sua analisi sociale sotto il segno della psicologia delle folle. Allo stesso modo, le emozioni generate dal cinema nello spettatore sono di due tipi: una social emotion e una una self-emotion (simile al sentimento kantiano del sublime): ma quella finale, davvero nuova sembra essere una sintesi delle due: una art emotion, "quell'emozione che arriva dal mezzo stesso, piuttosto che dal soggetto trattato": un punto, chiosa Guerra, in cui Freeburg anticipa ancora una volta certi temi delle teorie cognitiviste. La ricchezza delle riflessioni del primo '900 vale però anche per l'Italia. Un libro recente di Silvio Alovisio, uno dei nostri maggiori studiosi di cinema muto, apre una finestra su un mondo sorprendente. È tutto l'ambito delle "scienze della mente", tra psicologia, psichiatria, antropologia, neurologia, che tra Otto e Novecento si trovano davanti al nuovo mezzo. L'occhio visibile. Cinema e scienze della mente nell'Italia del primo Novecento (Kaplan), nonostante il tema in apparenza specialistico, è uno dei libri di cinema italiani più appassionanti degli ultimi tempi. Il suo approccio non è soltanto storico, ma epistemologico in senso ampio, teso a ricostruire i saperi con cui il cinema si trova a interagire, e anche "l'impossibilità di stabilire una rigida distinzione tra le diverse culture scientifiche": nell'antologia in appendice, oltre a psicologi troviamo neuropatologi, fisiologi o oftalmologi, e spesso i singoli autori si muovono tra psicologia, neurologia, antropologia criminale.
Le due linee di ricerca dell'epoca sono quella "teorico-sperimentale legata allo studio dei processi della percezione", e quella sulle "implicazioni psico-sociali del nuovo medium", ma la demarcazione non è sempre facile. Anche perché, nota Alovisio, "le nascenti scienze sociali traevano una parte significativa del loro armamentario teorico dalle scienze della mente". Uno dei padri del positivismo italiano, Roberto Ardigò, in L'unità della coscienza (1898) già usa il cinema come esempio di come il movimento, che ci appare continuo, sia in realtà divisibile in istanti, e questa metafora ritorna nel tardo-positivista Cosmo Guastella: «non è il meccanismo del nostro pensiero che è cinematografico, è la realtà stessa che è cinematografica: al cospetto del divenire reale dei fenomeni noi proviamo la stessa illusione che al cinematografo; crediamo di vedere il continuo, mentre non vediamo che il discreto». Lo psicologo Pasquale Rossi (nel 1899!) parla delle "scariche simpatetiche" diffuse dal cinema nel pubblico, grazie alle quali "noi viviamo del mondo affettivo altrui", e Mario Ponzo studia la persistenza del cinema nella memoria, e il suo costituire, nel ricordo, una "pseudologia fantastica" che si frammischia alla vita reale.
Dall'altro lato c'è il filone psichiatrico, teso a identificare i rischi del cinema, specie sui soggetti "deboli": classi lavoratrici, donne, bambini. Anche qui, come in Freeburg, emerge la figura inquietante della folla, e anche qui il punto difficile è capire se esista, e chi possa essere, il "cervello" di quella folla degli spettatori. Torna la metafora dell'ipnosi, ma non si sa chi sia l'ipnotizzatore, il dottor Mabuse di questo corpo "acefalo". Viene qui fuori l'ideologia e il paternalismo della psicologia collettiva, con raccolte di decine di casi clinici che cercano di scoprire l'esistenza di una "psicosi da cinematografo", generata non solo dai singoli contenuti delle immagini (il cinema è una «grande scuola di tecnica criminale», scrive Sante De Sanctis ancora nel 1930) ma dal dispositivo stesso, che confondendo reale e irreale, offre agli occhi di un nevrotico "quadri allucinatori belli e formati" (così Giuseppe D'Abundo, nel 1911). I film, e il luogo buio e promiscuo che li ospita, sono pericolosissimi anche per come risvegliano gli istinti sessuali di donne e fanciulli. Tuttavia non manca chi vede nel cinema anche un possibile metodo di cura, per reinserire gradualmente il malato nella realtà, visto che "il nevrastenico al cinema fa da spettatore alla vita". Dal canto suo, padre Agostino Gemelli, nel '26, smorza l'allarmismo sui rischi del cinema, il cui spettatore è in fondo in una situazione simile a quella del sognatore: e, secondo lui, è tanto più coinvolto nel film quanto più esso è illogico e oscuro-onirico, appunto. Curiosa posizione, certo contraddetta dal funzionamento del cinema narrativo classico. Ma magari Bunuel o Lynch, qualche decennio dopo, sarebbero stati d'accordo.

Il Sole Domenica 5.10.14
Identità personale
Ricerca di un io irreperibile
di Nicla Vassallo

Il problema dell'identità personale è notoriamente complesso e, dall'antichità ai giorni nostri, ogni grande filosofo vi cozza contro, proponendo soluzioni più o meno convincenti, che fanno di noi mere menti, o meri corpi, o, ancora, corpi-menti, senza addentrarci poi nella questione se la mente esista, sia localizzata o diffusa, oppure debba venire "sostituita" dal cervello, e via dicendo. Nel nostro Paese, oggi, chi s'interessa del problema è in genere uno specialista di filosofia della mente, e questo rappresenta un segno determinante di quanto si sia finiti a concentrarsi su una parte del problema, fronteggiando meno la complessità del nostro corpo, oltre che del nostro io. Complessità divenuta manifesta ben prima delle mode post-moderne, col dissolversi sia della certezza del cogito ergo sum cartesiano, sia della fiducia trasparente e autoevidente nell'io stesso.
Questa perdita di fiducia, insieme al turbamento che ne segue, viene magistralmente sottolineata da Pirandello: «Ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppure questo, il non poter più rispondere, cioè come prima, all'occorrenza: "Io mi chiamo Mattia Pascal"». Virginia Woolf ci domanda, invece, e di nuovo, non senza smarrimento, «se ci sono, mettiamo, settantasei ritmi diversi che battono all'unisono nello spirito umano, quante diverse persone – Dio ci aiuti – non albergano in un momento o nell'altro nello spirito umano?».
Un modo di ripensare ciò viene offerto, qui e là, in una certa filosofia incentrata su fenomenologia ed esistenzialismo, che, posta di fronte a «quando siamo davvero noi stessi?», non esita ad affermare «quando non siamo noi stessi». Col presupporre che esistiamo per poi negarlo, o meglio deliberare che non siamo entità, si cede a una sorta di gioco di parole o a qualche assurda ilarità, se non a un perverso ragionare. Eppure la filosofia in questione trova radici in parecchi pensatori e tenta, non senza serietà, di riconfigurare il concetto di identità attraverso quello di fluidità, nel tentativo di evitare le identità multiple, sottolineando piuttosto un essere umano, che si sottrae alla staticità, per innovarsi e rinnovarsi nel tempo con la massima creatività. In un certo senso, l'esistenza si trasforma così in una lunga e avventurosa indagine, in cui si supera costantemente il limite di un sé alla ricerca di un sé successivo, in un processo dinamico: le ombre, menzionate del titolo del volume di Stephen Mulhall (filosofo di Oxford, che mescola con sapienza Nietzsche, Schopenhauer, Wittgenstein, e Sartre, senza dimenticare alcune lezioni di heideggeriana memoria), sono quelle che ci siamo lasciati dietro e quelle che ci ritroviamo davanti e stiamo inseguendo.
Rispetto a tutto ciò potrebbe mostrare disinteresse o sospetto il filosofo, che, oltre a interessarsi di identità personale, si interroga perlopiù sulla mente stessa in relazione alle rappresentazioni della realtà esterna, sulle capacità e know-how mentali, sulla coscienza, sull'intenzionalità, sui rapporti mente e percezione. Commetterebbe, tuttavia, un errore. Perché Stephen Mulhall, oltre a trattare di individualità come negazione, si pone l'obiettivo – a mio avviso, conseguito – di mostrare che su certi temi la filosofia costituisce sì un ottimo metodo d'indagine, ma va integrata con spunti tratti da altre discipline. Si potrebbe, a ragione, pensare alla psicoanalisi, poiché, proprio a partire da Freud, abbiamo meglio compreso le nostra complessità ed enigmaticità. Pur presente nelle sue differenti variazioni, la psicoanalisi non viene ancora ritenuta sufficiente, e così, con rigore filosofico e scientifico, ma pure con una buona dose d'inventiva, Mulhall interpreta diversi film (dai contenuti attinenti alla diverse tesi considerate sull'identità, senza evitare l'eccentricità, pur sempre piacevole, di immergersi, tra l'altro, nei melodrammi hollywoodiani), si appella ai romanzi di Kingsley Amis (da non confondersi col figlio, il postmodernista Martin), di J.M. Coetzee e di David Foster Wallace, mentre chiama spesso in causa un musicista d'eccezione, Richard Wagner, e, in particolare, il suo innovativo L'anello del Nibelungo.
Il messaggio è chiaro e triplice: non solo il sé costituisce una ricerca senza fine in un'esistenza mobile, in cui a prevalere deve rimanere il moto verso un'irraggiungibile orizzonte, non solo per comprendere ciò la filosofia analitica va mescolata con quella continentale (per esempio, come si è detto, Wittgenstein – sempre che sia analitico – a Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger e Sartre), ma, soprattutto, quando la filosofia fatica a procedere da sola, occorre supportarla con la psicoanalisi e, senza alcun timore, pure con i film, la letteratura, i drammi musicali. E per trasmettere bene il messaggio non basta certo frullare le cose assieme, magari al fine di ammaliare il lettore; si richiedono piuttosto ottime competenze, tra cui in filosofia post-kantiana, filosofia wittgensteiniana, filosofia dei film, filosofia della letteratura, filosofia della musica, competenze che Mulhall possiede, e che non sono proprio da tutti.
www.niclavassallo.net

Stephen Mulhall, The Self & Its Shadows, Oxford University Press, Oxford, pagg. 352, £ 36,00