lunedì 6 ottobre 2014

La vera domanda dovrebbe essere: come ha fatto finora il Pd a tenersi mezzo milione di iscritti?
La Stampa 6.10.14
Senza partiti e senza istituzioni
di Giovanni Orsina


Perché il Partito democratico è in crisi di iscritti – perché è crollato dal mezzo milione del 2013 ai centomila di oggi? In questi ultimi giorni il dibattito interno al Pd si è sviluppato, aspro e disordinato, intorno a questa domanda e ai suoi molti corollari: quali siano davvero le cifre, come debbano essere lette, se gli iscritti siano più importanti degli elettori. Dal punto di vista dell’analista, però, la questione è in larga misura mal posta. La vera domanda dovrebbe essere: come ha fatto finora il Pd a tenersi mezzo milione di iscritti?
Gli studiosi hanno constatato da tempo la crisi europea del partito di militanti – radicato sul territorio, legato a interessi sociali, dotato di una cultura robusta. Basti un nome solo fra tanti: Bernard Manin, che ha teorizzato il passaggio dalla democrazia dei partiti alla «democrazia del pubblico», incardinata sulla leadership e sui mass media, in un libro uscito quasi vent’anni fa e diventato ormai un classico. Pure se ci spostiamo dalla riflessione teorica al terreno empirico, poi, il quadro non cambia molto. La socialdemocrazia tedesca alla fine del 2013 aveva meno di mezzo milione di iscritti, ma alla metà degli Anni Novanta erano quasi il doppio, e da allora il calo è stato ininterrotto.
Lo stesso è accaduto alla Cdu, l’Unione cristiano democratica. Il partito socialista francese l’anno scorso dichiarava 170 mila iscritti: meno 25 mila in ventiquattro mesi.
Al di là della Manica la musica non cambia: crollo alla metà o meno in vent’anni per laburisti, conservatori e liberali – con i conservatori a poco più di centomila tessere e i laburisti a meno di duecentomila. Sempre a due decenni fa risale la fragorosa crisi del partito politico anche nel nostro Paese. O c’è ancora chi pensa che quella di Tangentopoli sia stata una vicenda soltanto etica e giudiziaria, e non abbia segnato invece il collasso d’un modo di fare politica che si incardinava proprio sui partiti? «Il numero di iscritti ha ormai raggiunto un livello così basso da non poter più essere utilizzato come un indicatore significativo della capacità organizzativa di un partito»: così scrivevano nel 2012 tre noti politologi sull’«European Journal of Political Research».
È partendo da queste premesse che possiamo permetterci di rovesciare la domanda sulla crisi del Pd – chiedendoci non perché stia perdendo iscritti, ma, al contrario, come abbia fatto la tradizione organizzativa postcomunista a sopravvivere finora. E sempre queste premesse ci consentono di spiegare per quale ragione la sopravvivenza dell’apparato sia stata per la sinistra italiana croce e delizia: delizia perché le ha dato radici e sostanza; ma croce perché l’ha confinata in un recinto novecentesco ormai antiquato. E tanto più antiquato quanto più all’esterno imperversava felice il Cavaliere, pienamente a suo agio nell’Italia post-partitica generata da Mani Pulite. La crisi del Pd, se la leggiamo così, non data dal 2014 né dipende da Renzi. Ma in una prospettiva storica profonda data dal 1994, e in una meno profonda dalle elezioni del 2013: quando molti elettori progressisti hanno capito infine che il recinto non serviva più a difendersi da un Cavaliere ormai azzoppato, ma impediva di colonizzare le praterie che quello non riusciva più a presidiare, confinando la sinistra entro limiti vasti ma insufficienti.
Tutto bene, dunque – il crollo verticale degli iscritti democratici non segna altro che il riallinearsi della sinistra con la «seconda Repubblica» e dell’Italia con l’Europa? Al contrario: tutto male. La leadership berlusconiana e l’apparato postcomunista sono stati per vent’anni le due colonne portanti del sistema politico italiano. Sistema sgangherato e colonne disfunzionali, certo – ma pur sempre meglio della mucillagine politica che ci sarebbe toccata se Pds-Ds-Pd e Berlusconi non ci fossero stati. Lo sgretolarsi ormai palese delle due colonne ci fa adesso ripiombare nella mucillagine: fuor di metafora, ci spinge verso un esito neocentrista e neotrasformista, al di sopra del quale si erge (per il momento) l’erede dell’una colonna e dell’altra, la loro sintesi – Matteo Renzi.
Constatare che il modello novecentesco di partito è superato ovunque in Europa e non può che esserlo anche in Italia, insomma, non significa affatto augurarsi la completa liquefazione dei partiti. Ma soprattutto, a quella constatazione deve accompagnarsene un’altra: al di là delle Alpi l’indebolimento dei partiti è controbilanciato da istituzioni forti, capaci di garantire un minimo di rappresentatività e di efficienza. La fine della democrazia dei partiti può portare a un diverso modello di democrazia, non necessariamente peggiore del suo predecessore e adatto al ventunesimo secolo – ma occorre che le istituzioni siano disegnate per questo nuovo modello, perché a loro toccherà sopportarne il peso.
Europeizzatasi nella debolezza dei partiti, però, l’Italia non si è affatto europeizzata nella forza delle istituzioni. Ed è lecito restare assai scettici sulla possibilità che l’opera sia compiuta dal Parlamento attuale: la riforma del Senato non è sufficiente; quella elettorale è politicamente in alto mare; la revisione della forma di governo non è in agenda. Priva di partiti forti, priva di istituzioni forti, all’uscita dal ventesimo secolo l’Italia, invece che entrare nel ventunesimo, rischia così di risprofondare nel diciannovesimo. Avanti Savoia.

La Stampa 6.10.14
Il Pd non va più a caccia dei suoi tesserati Così crollano gli iscritti
Niente banchetti alle kermesse estive, circoli svuotati Giallo sui numeri. Renzi: meglio avere meno falsi militanti
di Fabio Martini


Le quattrocentomila tessere del Pd che mancano all’appello, sono quasi tutte «sparite» perché i segretari di circolo non sono andate a cercarle. 
L’accalorata discussione che da giorni divide il partito del premier e appassiona i mass media ha finora omesso un dato essenziale: essendo oramai isolati i casi di cittadini che vanno per conto proprio in sezione a chiedere la tessera, tocca ai segretari dei circoli organizzare la «caccia» al rinnovo. 
Ebbene, secondo la ricostruzione riservatamente condotta in questi giorni dall’ufficio Organizzazione del Pd, dal 25 aprile - giorno di apertura della campagna di tesseramento - sono rimasti quasi totalmente inerti tutti i dispositivi «tecnici» per aprirlo per davvero il tesseramento.
I soliti banchetti per far tessere alle Feste dell’Unità? Zero, o giù di lì. I controlli mese per mese che di solito vengono fatti da Roma sullo stato dell’arte? Zero. I canonici tre giorni di lancio nazionale del tesseramento? Zero. Il responsabile dell’Organizzazione del partito? Assente. Luca Lotti, da marzo, si è trasferito a Palazzo Chigi e lì ha avuto altro da pensare, visto che si è confermato il vero uomo di fiducia, l’unico, di Matteo Renzi.
Sostiene Lorenzo Guerini, l’ex Dc che da pochi giorni ha assunto la guida dell’ufficio Organizzazione: «I dati diffusi nei giorni scorsi sono campati in aria». Dunque, non sarebbero centomila gli iscritti che per ora hanno preso la tessera del Pd: ma quanti sono realmente? «In linea con gli anni precedenti», dice Guerini e nulla più. 
Morale: il numero vero degli iscritti è come un’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, quale sia nessun lo sa. Ma Guerini non fa numeri precisi perché ancora non li conosce. Da quel che trapela dal Nazareno, infatti, quanti siano esattamente gli iscritti al Pd al 5 ottobre, non è stato ancora possibile stabilirlo con certezza.
E allora, la prima «verità» sul crollo del tesseramento è un po’ diversa da quella che circola da qualche giorno e riguarda, prima ancora di una crisi di vocazioni, anzitutto un’eclissi organizzativa: la quasi totale disattivazione da parte della leadership renziana dei consueti escamotage che servono per «tenere» le quote dell’anno precedente.
E ancora: il 2013, l’anno dal quale si desume il crollo di tessere è stato un anno speciale: un anno congressuale. Anni «strani» che fanno puntualmente lievitare le tessere. Nel 2009, anno del congresso che vide la sfida tra Pier Luigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino, gli iscritti erano stati 831.000, mentre l’anno successivo precipitano a 620.000, con una caduta del 25 per cento. Un iscritto su quattro non ha rinnovato, perché l’anno precedente si era iscritto solo per assecondare qualche «signore delle tessere»? In mancanza di risposte «scientifiche», basta confrontare il dato 2012 (500.163 iscritti) e quello del 2013, quando si celebra il congresso della sfida Renzi-Cuperlo-Civati. Ebbene, dopo anni di calo, gli iscritti tornano a salire: diventano 539.354. E ora, puntualmente, tornano a scendere.
Naturalmente nel crollo delle vocazioni giocano anche gli argomenti agitati in questi giorni dalla minoranza del Pd. Sostiene Stefano Fassina: «Il Pd sta scivolando surrettiziamente verso una forma tipo il comitato elettorale. D’altra parte il segretario è più attento ad organizzare la Leopolda invece di concentrarsi sul partito». 
E l’ex popolare Beppe Fioroni, che è stato responsabile dell’Organizzazione, conviene, ma da un punto di vista opposto: «Per la sinistra, dopo la caduta del Muro, l’organizzazione, le tessere, le Feste, le sezioni hanno rappresentato il collante portato in dote nel Pd. Ma oramai siamo in un’altra stagione, in un altro partito, si crede in qualcuno più che in qualcosa». 
Un ex dirigente del Pci come Emanaule Macaluso sostiene che la colpa del crollo del tesseramento sarebbe delle Primarie. Dice Salvatore Vassallo, ispiratore dello Statuto del Pd: «Ma la caduta della militanza in quasi tutto il mondo dimostra che le Primarie, che hanno ampliato e di molto la platea degli aderenti, sono la soluzione non la causa di un fenomeno iniziato da decenni». Ieri ha detto la sua anche Matteo Renzi: «Un crollo perché il Pd non è in salute? Un partito che arriva dove non arrivava nessuno dal 1958, vince tutte le regionali in trasferta, stravince nei comuni è un partito che gode di buona salute. Ma il tema esiste. Anche se preferisco avere una tessera finta in meno e un’idea in più». 
Il 20 ottobre se ne parlerà in Direzione.

Repubblica 6.10.14
Il premier e il crollo iscritti “Il caso c’è, il Pd discuterà”


ROMA Matteo Renzi torna sul crollo delle tessere del Pd e dopo l’iniziale scrollata di spalle, seguita alla notizia data venerdì da Repubblica, prende di petto il caso e fissa una direzione, il 20 ottobre, in cui il tema-partito sarà affrontato, come in molti gli chiedevano. «Qualcuno ha detto che il Pd ha questo crollo delle tessere perché non è in salute — scrive il segretario-premier nella Enews di ieri —. A me pare che un partito che arriva dove non arrivava nessuno dal 1958, vince tutte le regionali in trasferta (Piemonte, Abruzzo, Sardegna), stravince nei comuni, è un partito in salute. Ma non possiamo girarci intorno: il tema tesseramento esiste. Poi io posso dire che preferisco avere una tessera finta in meno e un’idea in più». Ad ogni modo, aggiunge, «quella parte del Pd che chiede una discussione sulla forma partito, su come si sta insieme, sulle regole interne, sul rapporto partito-governo pone un tema che per me è un tema vero». Un’apertura che cade nel giorno in cui un renziano doc della prima ora fa le pulci a questi mesi di governo e confessa la sua parziale delusione. Si tratta di Matteo Richetti, ritiratosi dalla corsa alle primarie in Emilia dopo la notizia di un’inchiesta a suo carico. «La critica che faccio a Renzi è che tutte le persone che stavano con lui alla Leopolda o nei comitati che lo sostenevano o hanno fatto liste civiche o sono state messe ai margini — spiega a Lucia Annunziata, “In mezzora” —. È necessario un rilancio dello spirito originario, che prevede qualche comparsata in meno e un po’ di studio e approfondimento in più».

il Fatto 6.10.14
Annuncite della domenica
Renzi: “Subito Tfr in busta paga e ora decidiamo la forma-partito”


COLPISCE ANCORA l’annuncite. In una domenica di stanca politica, ecco che a sera il premier non ha retto al silenzio su di sé, ha inforcato la sua Enews e avanti con le promesse. Così, alla vigilia di una settimana in cui si incroceranno il job act (sicura la fiducia), il vertice Europeo e la 17ª votazione per la Consulta, con un occhio alla corsa per il varo della legge di Stabilità, ecco che il premier non demorde sul Tfr in busta paga: “Mi piacerebbe che dal prossimo anno i soldi del Tfr andassero subito in busta paga mensilmente”. E qui arriva l’apertura ai sindacati: “Quando martedì incontreremo le parti sociali – sottolinea – verificheremo la fattibilità di una proposta sul Tfr che viene incontro ai lavoratori senza gravare sulla situazione bancaria delle piccole e medie imprese”. Per l’occasione, aggiunge, “riapriremo persino la sala verde di Palazzo Chigi, quella degli incontri coi sindacati, si vede che sto invecchiando”. Renzi ha affrontato anche il nodo del calo dei tesserati Pd. “Quella parte del Pd – continua – che chiede una discussione sulla forma partito, pone un tema vero”. Direzione convocata il 20 ottobre. Ma, soprattutto, ecco l’ultimo uscita: la quinta edizione della Leopolda, da venerdì 24 ottobre fino a domenica 26 a pranzo. “Impossibile da spiegare cos’è – ha precisato – bisogna esserci, uno spazio di libertà, dove si trova gente che pensa che la politica non sia una parolaccia”. L’ottimismo è il sale della vita per Renzi: “Abbiamo segnali incoraggianti su ripresa dell’occupazione”.

Corriere 6.10.14
Lavoro, scontro sul voto di fiducia
Il governo vuole accelerare sulla legge. La minoranza pd: così si nega il confronto


Non si placa lo scontro sul Jobs act: la minoranza del Pd chiede che il governo non ponga la fiducia e accetti il confronto in Senato, dove la legge delega arriverà domani. Ncd si oppone invece a ogni modifica del testo iniziale. Ma il premier Renzi intende portare il primo sì al provvedimento al vertice europeo sul Lavoro, mercoledì a Milano. E insiste: «Mi piacerebbe che dal 2015 i soldi del Tfr andassero in busta paga»

Corriere 6.10.14
Jobs act e Tfr, Renzi va avanti
Pronto a porre la fiducia
di Marco Galluzzo


ROMA La decisione sembra tratta, Renzi, a meno di ripensamenti, è pronto a mettere la fiducia sul provvedimento di delega sul lavoro. Resterebbe da decidere se lasciare il testo base, così com’è, oppure presentare un emendamento che in queste ore viene discusso con la minoranza interna del Pd e con il partito di Angelino Alfano.
Da oggi a mercoledì mattina, prima del vertice europeo sul lavoro, a Milano, può accadere di tutto. Di sicuro Renzi ha voglia di presentare i risultati dell’azione di governo ai partner europei, un voto di fiducia fra martedì e mercoledì lo aiuterebbe a presentarsi come colui che le cose non le annuncia ma le ha già fatte, e ne presenta i risultati. Domani ci sarà l’incontro con i sindacati. Si discuterà della riforma del lavoro e dell’ipotesi di mettere il Tfr nella busta paga dei lavoratori. Ieri il viceministro all’Economia, Enrico Morando, ha detto che non è stata ancora presa alcuna decisione, ma in ogni caso l’intervento, se si realizzerà, «sarà senza aggravi Irpef per i lavoratori e a costo zero per le imprese sotto i 50 dipendenti». Sul Tfr ieri è intervenuto anche il premier, «la filosofia oggi è protettiva, i soldi arrivano alla fine, ma io la vedo diversamente, un cittadino è un adulto consapevole, non può essere lo Stato a decidere per lui». Proporrà un modello diverso, con autonomia di scelta per il lavoratore, «mi piacerebbe che dal prossimo anno i soldi del Tfr andassero subito in busta paga. Sarebbe un raddoppio dell’operazione degli 80 euro».
Renzi presenterà ai sindacati una soluzione che «grazie alle misure della Bce viene incontro ai lavoratori senza gravare sulla situazione bancaria imprese». Aggiunge che ci sono anche «segnali incoraggianti» sul numero degli occupati, cresciuti di «oltre 80 mila unità» da febbraio: è vero che nella crisi abbiamo perso un milione di posti di lavoro, «però è un primo segnale positivo dopo tanto tempo».
Parla anche del partito, promette per il 20 ottobre una direzione che dovrà decidere il formato del futuro, aggiunge sul crollo delle tessere che «il problema esiste, ma senza dimenticare che godiamo di ottima salute, visto che vinciamo tutte le Regionali e abbiamo preso un risultato che non arrivava dal 1958, preferisco una tessera finta in meno e un’idea in più». C’è da aggiungere l’organizzazione della quinta edizione della Leopolda, dal 24 ottobre.
La possibile fiducia sul lavoro incrocia anche le difficoltà parlamentari sul voto per i nuovi giudici costituzionali, ma per Palazzo Chigi sembra un problema superabile. Morando precisa che nella legge di Stabilità ci sarà un intervento di «circa 15 miliardi» fra conferma del bonus e nuovi interventi fiscali sulle imprese e sostegno al Jobs act.
Domani con i sindacati saranno almeno tre i temi sul tappeto, oltre all’articolo 18: contratti di lavoro non più nazionali, ma legati al territorio. Una riforma della rappresentanza, tema su cui Confindustria e sindacati hanno già raggiunto un accordo, non ancora tradotto in legge. Il tema del tfr in busta paga. E infine una soglia minima di salario orario, prevista in tutta Europa, o quasi, ma non ancora in Italia.

Repubblica 6.10.14
Renzi pronto alla fiducia sulla riforma del lavoro
Minoranza Pd disinnescata
«Serve un’approvazione rapida e certa del Jobs Act. Il governo vuole fare le cose»
«La fiducia è dura da digerire, ma nessuno di noi vuol far cadere l’esecutivo»
Il voto sulla legge delega verificherà la tenuta complessiva del governo
di Goffredo De Marchis


ROMA Il governo è orientato a mettere la fiducia sulla riforma del lavoro. Lo fa capire il ministro Giuliano Poletti quando dice «abbiamo la necessità di un’approvazione rapida e certa » perché mercoledì, al vertice europeo sul lavoro convocato proprio dall’Italia, «deve essere chiara la volontà del governo di fare le cose». Quindi, dopodomani la legge delega verrà approvata dal Senato con un voto su cui l’esecutivo verifica la sua tenuta complessiva. Matteo Renzi scontenta così la minoranza del Pd e quei senatori che avevano chiesto di discutere gli emendamenti per salvare l’articolo 18. Ma la fiducia gli garantisce, in fondo, il consenso dei dissidenti o almeno dei più moderati tra di loro. Se ci fossero 4 o 5 “no” non sarebbe un dramma.
Adesso il confronto dentro il governo è su come arrivare al momento cruciale. In questo senso il programma delle prossime ore appare decisivo, anche per capire se ci sono i tempi tecnici per arrivare a un voto finale senza passare dallo strumento della fiducia che rischia di irrigidire le posizioni dei ribelli democratici. Oggi si vedranno a Palazzo Chigi Renzi e i ministri interessati. È convocato anche un Consiglio dei ministri che potrebbe già autorizzare la fiducia per mercoledì. Però domani il premier ha appuntamento con i sindacati nella sala Verde, ovvero nel luogo-simbolo degli anni della concertazione. Farli sedere a cose fatte non sarebbe un grande segnale di distensione.
Gli uffici di Palazzo Chigi e del ministero del Lavoro si tengono pronti per ogni tipo di soluzione. Anche ieri sono continuati gli scambi telefonici con i dissidenti del Partito democratico e con il presidente dei senatori del Nuovo centrodestra Maurizio Sacconi. L’Ncd ha messo il veto su un nuovo testo che precisi troppo nel dettaglio il contenuto della riforma. «Se irrigidiamo il mercato in entrata con il contratto a tutele crescenti e eliminando altre forme contrattuali e allo stesso tempo lasciamo in sostanza tutto com’è per i licenziamenti, la riforma non serve a niente», continua a ripetere il coordinatore Gaetano Quagliariello. Gli alfaniani dunque sono favorevoli a un voto sul testo uscito dalla commissione, ovvero su una delega molto ampia e generica. Sarà poi l’esecutivo a riempirla. Ma Poletti non esclude, al contrario, un super-emendamento che includa alcune novità. Le regole sui licenziamenti e il reintegro in alcune fattispecie. La precisazione sui casi in cui si può ricorrere al giudice e gli altri in cui è previsto un indennizzo standard e automatico. È quello che c’è scritto nel documento approvato dalla direzione del Pd. «La fiducia senza emendamento sarebbe uno schiaffo non solo ai dissidenti ma alla stessa maggioranza del Pd, allo stesso Renzi. Può permetterselo?», si chiede il senatore Francesco Fornaro, uno dei 30 firmatari delle proposte correttive. A Renzi interessa però portare a casa il risultato e farlo in tempo per mercoledì. «La fiducia — dice Fornaro — è dura da digerire. Ma nessuno di noi vuole far cadere il governo. Saremo responsabili ». Vale a dire: alla fine i voti del Pd non mancheranno.
Certo, la mediazione conquistata a Largo del Nazareno e sbandierata come un successo, perderebbe il suo appeal iniziale. Tanto più con la fiducia. Eppure anche chi ha lavorato a quel punto d’intesa, sembra preoccuparsi poco. «I veti di Sacconi non mi fanno paura — spiega il presidente del Pd Matteo Orfini —. È meglio precisare la delega, ma se non si riesce a farlo per mercoledì, è bene sapere che i decreti delegati li scriveranno e approveranno Renzi e Poletti, ossia due esponenti del Pd. Io mi fido di loro». Il ministro del Lavoro annuncia per esempio che accanto al reintegro per i licenziamenti discriminatori, «mai stati in discussione», saranno previsti specifici «casi di reintegro» del posto di lavoro «per i licenziamenti disciplinari che poi saranno risolti nel testo del decreto». Cioè dopo il voto sulla legge delega. E Poletti è sicuro che oggi si troverà una base di accordo. Ma sarà un accordo che andrà spiegato per evitare sorprese in aula. Domani infatti il titolare del Welfare sarà anche al Senato per l’assemblea dei senatori del Pd.

Repubblica 6.10.14
Serracchiani
Il vicesegretario del Pd convinta che la minoranza si allineerà
«L’80 per cento in direzione va rispettato»
«La sinistra dem dirà sì sul lavoro se Fi si aggiunge non c’è scandalo»
«Metto in conto il voto contrario di Fassina, Damiano o Civati. Ma molti degli astenuti in direzione daranno l’ok»
«Soccorso azzurro? Per niente. Sarebbero consensi aggiuntivi e non ci sarebbe cambio di maggioranza»
intervista di Umberto Rosso


ROMA «Sul Jobs Act siamo arrivati al dunque, alla fine del processo. Sui temi del lavoro abbiamo discusso a lungo, e la direzione del partito ha raggiunto un punto di equilibrio. Che adesso va rispettato».
Presidente Serracchiani, in aula i parlamentari della minoranza del partito dovranno adeguarsi alla mozione della direzione?
«È passata con l’80 per cento dei voti. Continueremo a confrontarci fino all’ultimo minuto utile, il ministro Poletti sta lavorando a definire nei dettagli la tipologia dei licenziamenti disciplinari da tutelare nell’articolo 18. Ma alla fine bisogna votare in base alla volontà della stragrande maggioranza del Pd».
Nessuna apertura alle richieste della minoranza?
«Oltre a tenere fermo il reintegro per i licenziamenti discriminatori, si stanno definendo le forme di licenziamenti disciplinari da inserire nella tutela. Per esempio quelle più border line, mettiamo un lavoratore accusato di furto che poi si dimostri infondato».
Ma per i licenziamenti di natura economica?
«Come già deciso, non è previsto il reintegro».
Al Senato avete numeri stretti. Teme che il Pd possa dividersi sul Jobs Act?
«Io credo che un pezzo della minoranza, i giovani turchi e la sinistra dem che già in direzione in parte si erano astenuti, alla fine voteranno sì rispetteranno così il voto della direzione del partito. Sono molto fiduciosa perciò, mettendo pure nel conto il voto contrario di Fassina, piuttosto che di Damiamo o Civati».
E se arriva il soccorso azzurro di Forza Italia?
«Porte aperte, non ne faccio una questione di colore o politica. Se qualcuno prende atto che il Jobs Act è un passo avanti importante per il nostro paese, ben venga. Forza Italia come il Nuovo centrodestra o i grillini».
Non c’è il rischio di un cambio di maggioranza?
«Nient’affatto, se si tratta di voti aggiuntivi, e su un singolo provvedimento. Sempre che arrivino, questi voti».
E se invece il Pd dovesse andare sotto in aula?
«Sarebbe un fallimento, e non solo per noi ma per il paese intero».
Ma il Pd non ha intenzione di porre la fiducia sul Jobs Act?
«Lo deciderà il governo, insieme ai gruppi parlamentari di maggioranza, nei prossimi giorni».
Il ministro Poletti vuol presentarsi mercoledì al vertice europeo già con in tasca un via libera sull’articolo 18.
«L’Italia ha preso una posizione diversa rispetto alla Francia, abbiamo detto che comunque rispetteremo il vincolo del 3 per cento, pur mettendo in discussione il pareggio di bilancio. Però davanti al Consiglio europeo, alla Commissione, agli organismi di Bruxelles, non c’è più spazio per il piccolo cabotaggio: dobbiamo volare alto».
Che vuol dire?
«Che da Juncker vogliamo sapere come e dove intende investire i 300 miliardi previsti ma, per farlo dobbiamo presentarci con tutte le carte in regola sulle riforme».
Ovvero con la cancellazione dell’articolo 18?
«Abbiamo già approvato in prima lettura la riforma del Senato e del titolo V, un pezzo della riforma della giustizia e della pubblica amministrazione, e stiamo ridisegnando il sistema lavoro con un meccanismo a tutele crescenti. Mantenendo la difesa dei licenziamenti per motivi discriminatori e per alcuni tipologie di licenziamenti disciplinari, che si stanno appunto definendo nel dettaglio della legge delega».
Bisognerà convincere i sindacati, che Renzi incontra domani, in primo luogo la Cgil che resta assolutamente contraria e accusa il governo di attaccarla.
«L’apertura da parte del governo di un confronto che ruota su salario minimo, legge per la rappresentanza sindacale e contrattazione di secondo livello, penso dimostri il contrario».

Corriere 6.10.14
Latorre: se parte l’ostruzionismo la fiducia sarà legittima difesa
intervista di Alessandro Trocino


ROMA «L’auspicio è che non sia necessario porla. Ma se in Parlamento si produrrà un atteggiamento ostruzionistico, allora la fiducia diventerebbe uno strumento di legittima difesa». Nicola Latorre, senatore pd e presidente della commissione Difesa, è più renziano di Renzi nel difendere la riforma del mercato del lavoro. E nella necessità di sconfiggere le resistenze anche di una parte del Partito democratico.
Che clima si respira in Senato?
«Meno rovente di quello che si legge. Inutile nascondere che ci sono opinioni diverse. Ma confido nel fatto che alla fine il partito voterà in maniera compatta».
L’articolo 18 resta il nodo.
«Fare la discussione solo sull’articolo 18, prescindendo dall’insieme della riforma, è un errore gravissimo. Quello che stiamo proponendo è un nuovo sistema di protezione sociale. Non si tratta di togliere a qualcuno per dare altri: la discussione in questi termini è falsa. Noi stiamo proponendo un nuovo assetto globale, in sintonia con i cambiamenti del mercato del lavoro».
Una riforma di destra, dicono alcuni esponenti del Pd.
«No, perché il centrodestra ha un’idea radicalmente diversa, che non attribuisce nessuna funzione allo Stato e liberalizza in modo selvaggio il mercato del lavoro. Noi invece affidiamo un ruolo cruciale allo Stato: di accompagnamento di chi perde un posto verso un altro e di accompagnamento dei giovani disoccupati verso il mondo del lavoro. Le tutele vengono riorganizzate».
C’è chi dice diminuite, con vaghe promesse di riequilibro.
«No, è evidente che tutto si regge se anche il tema degli ammortizzatori sociali viene affrontato. Questo è un punto non marginale. Dobbiamo evitare di replicare l’errore commesso con la riforma Treu, che rese flessibile il lavoro e poi non cambiò, come annunciato, il sistema di protezione sociale. Anzi, aumentò in modo inaccettabile il numero dei contratti, producendo una grave precarizzazione nel mondo del lavoro. Serve una visione d’insieme. Solo così sarà chiaro che stiamo facendo una cosa di sinistra».
Una parte del sindacato non è d’accordo.
«Purtroppo il sindacato ha abbandonato negli ultimi anni la frontiera riformista. Una volta era la parte più avanzata del mondo progressista. Il partito inseguiva il sindacato. Ora è il contrario».
Anche la minoranza pd è duramente critica.
«Critiche legittime. Ma vedo troppo tatticismo. Si vogliono raccogliere gli inevitabili malcontenti generati dalle riforme. Ma questo è tipico di una sinistra minoritaria che rinuncia alle grandi sfide».
Chiedono una mediazione.
«È giusto discutere, ma non per ripetere il vecchio schema, che vuole impedire le riforme. La minoranza non può imporre il suo punto di vista. Va bene che non c’è il vincolo di mandato, ma qui non ci sono questioni di coscienza. Non c’è più tempo da perdere».
Persino un renziano come Richetti critica la politica degli annunci.
«Non è annuncite. Fa bene Renzi a richiamare i capitoli fondamentali della sua azione. Bisogna tenere alta l’attenzione e chiara la rotta. Guai se ci fosse un calo di tensione».

Corriere 6.10.14
Boldrini: «I voti di fiducia? Meglio che il governo non ecceda»
«Meglio evitare i voti blindati. Partiti in crisi per il leaderismo»
«Sbagliato abolire i finanziamenti, la politica cercherà gruppi di potere»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA Laura Boldrini controcorrente. La presidente della Camera è preoccupata per la forza con cui il vento dell’antipolitica continua a soffiare nel Paese. Teme che la demagogia finisca per danneggiare la democrazia e propone una riflessione che ribalta il punto di vista dopo anni di attacchi alla «casta». Il primo passo? Riportare al centro il valore delle istituzioni. Poi riaprire il dibattito sul finanziamento ai partiti: «Quando il Parlamento votò l’abolizione io non fui affatto contenta. Non perché le norme di prima andassero bene, ma perché averle abbattute con la scure e senza una legge sulle lobby, fu cosa poco oculata».
Lei vede un rischio per la democrazia?
«Nel 2017, quando i rubinetti si chiuderanno,ogni partito si troverà costretto ad andare a caccia di gruppi di potere e di imprenditori che poi ti presenteranno il conto».
La legge che abolisce il finanziamento va rivista?
«Non sta a me deciderlo, ma dobbiamo essere consapevoli che stiamo andando verso un ulteriore depotenziamento della politica nei confronti della finanza e dell’impresa. La politica deve tornare centrale, perché se è forte detta le regole, se è debole le subisce».
I nostri leader fanno le leggi per il consenso?
«Cercare consenso denigrando le istituzioni è pericoloso. Salvemini esortava a trasformare la protesta in riforme e non in voti. E poiché la sfiducia nei confronti delle istituzioni mina la fiducia nel futuro, la sfida è rinnovarle affinché i cittadini ne abbiano più rispetto».
Qualcuno ha osservato che a volte i suoi moniti sembrano rivolti anche al premier.
«Dico quel che penso. Io non ho alcuna prevenzione verso Renzi, anzi ho anche apprezzato cose da lui dette, come di recente la difesa di Mare Nostrum. Ma la mia più grande responsabilità, oggi, è rivalutare l’istituzione che rappresento. Per avere tanti applausi io potrei dire di essere a capo di una istituzione di fannulloni, ma non è vero, a Montecitorio ci sono tanti bravi deputati e tanti bravi dipendenti. La cattiva politica c’è stata, ma le cose possono funzionare diversamente. Oggi ad esempio, per la prima volta, ospitiamo nell’aula della Camera seicento sindaci. La lista delle loro doglianze è lunga».
«Ce l’hanno con il governo?
«Non è questo, è che si sentono lasciati soli. Vogliamo fare sistema Paese con le commissioni, il governo e l’Anci, per contribuire appunto ad arginare l’antipolitica, istituzionalizzando la triangolazione fra territorio, Parlamento e governo».
Sulla legge di Stabilità prevede scontro?
«Ci sarà una opposizione, come è giusto che sia in un momento di crisi dura. Ma io mi auguro che si accolgano le istanze delle opposizioni e di chi cercherà di rendere la legge di bilancio più completa e più equilibrata».
È ancora preoccupata per il combinato disposto tra Italicum e nuovo Senato?
«È bene che le firme per le proposte di legge di iniziativa popolare siano state ridotte rispetto alla modifica iniziale. Anche le soglie non possiamo tenerle troppo alte, l’8% tiene fuori dal Parlamento due milioni di cittadini».
Il governo accelera sul lavoro, ma la sinistra chiede di togliere dal tavolo l’articolo 18.
«Se l’obiettivo è creare posti di lavoro, la discussione sull’articolo 18 non mi pare cruciale. Cruciale è la crescita che non c’è, sono i posti di lavoro che mancano. Il problema è crearli, non erodere le garanzie di chi un lavoro ancora ce l’ha. Invece di concentrarci sull’articolo 18 dovremmo avere più coraggio e spostare il focus su un modello di sviluppo alternativo».
Il modello Italia non va?
«Penso a una economia non rapace, che tuteli ambiente e territorio e investa su ricerca e innovazione. L’economista americano Rifkin ha detto che il vento e il sole non ti mandano la bolletta a casa, eppure la rivoluzione dell’economia sostenibile da noi stenta a decollare».
E se il governo mette la fiducia sul Jobs act?
«È sempre auspicabile non eccedere nella richiesta di voti di fiducia, che hanno valore in quanto strumenti eccezionali nelle mani del governo».
Con i sindacati sotto attacco, la ripresa della concertazione è un segnale di disgelo?
«Trovo positivo che il premier li incontri, per fare le riforme c’è bisogno di un approccio inclusivo. Sindacati e partiti soffrono della stessa crisi, devono rinnovarsi senza arroccarsi. Delegittimarli non fa bene all’assetto democratico».
Cosa innesca la crisi dei partiti?
«Se sono in sofferenza è perché in passato si sono allontanati dalla realtà vissuta dai cittadini. Ma anche per un leaderismo sempre più forte».
Si può invertire la rotta dell’antipolitica?
«Sì. Se vogliamo cambiare il clima e fare pace con l’opinione pubblica è l’ora di ribaltare la prospettiva: anziché lucrare sul discredito delle istituzioni, bisogna mettere in atto il cambiamento e avere il coraggio di rivendicarlo».
Monica Guerzoni

Corriere 6.10.14
L’articolo 18 lacera i democratici
Damiano insiste: il governo accetti il confronto. Ma Zanda è ottimista: voteremo compatti
Richetti, renziano della prima ora, critica il leader: messo ai margini chi stava alla Leopolda
di Al. T.


ROMA La maggioranza giura: «Il Pd voterà compatto». La minoranza, con Cesare Damiano, insiste: «Il governo non ponga la fiducia e accetti il confronto». Mentre si avvicina il giorno della verità per il Jobs act, con il voto di domani, il Pd continua a mostrarsi diviso. La minoranza allarga lo sguardo, con il «patto degli Apostoli» (Landini, Civati e Vendola), mentre Gianni Cuperlo lancia il suo «Leopoldo», in risposta alla Leopolda del premier (è in arrivo la quinta edizione). E qualche fibrillazione c’è anche nella maggioranza, se perfino un «renziano della prima ora» come Matteo Richetti arriva a criticare il segretario e il partito.
Richetti, che ha da poco dovuto rinunciare alle primarie in Emilia Romagna («Renzi mi disse, “è meglio se fai altro, ma decidi tu”), interviene a In mezz’ora , da Lucia Annunziata. E stupisce tutti. Si toglie qualche sassolino dalla scarpa e prende le distanze dal renzismo attuale. Nega di essere «un pretoriano» del premier e uno «yes man». E lo dimostra, spiegando che «tutte le persone che stavano con Renzi alla Leopolda e nei comitati o hanno fatto delle liste civiche o sono state messe ai margini. Serve un rilancio dello spirito di un tempo: il renzismo originario prevedeva qualche comparsata in meno e un po’ di studio e approfondimento in più». Accenti quasi civatiani in diversi passaggi. Sull’articolo 18, per esempio: «Come si fa a fare una battaglia epocale come quella della riforma del mercato del lavoro con il capogruppo alla Camera (Speranza) che si astiene? Io non avrei voluto una discussione sull’articolo 18 poco chiara e sul Tfr a questo punto inutile». Richetti critica una certa «disinvoltura» del premier: «Quando si governa, la dinamica non è “sparo l’annuncio” e ti faccio discutere per settimane, per poi scoprire che la proposta non è percorribile». Anche sul partito Richetti è duro: «Può essere il più grande nemico di se stesso». Ed è vero che il «solco profondo» tra il partito e i suoi elettori è colmato da Renzi, «ma lui ha reso credibile e votabile se stesso, non il Pd».
Quanto basta per scatenare i malumori nel «giglio magico», non abituato a questi accenti così critici. Il senatore franceschiniano Salvatore Margiotta ironizza: «Richetti chi?». Allusione alla frase, pronunciata da Renzi, «Fassina chi?», che portò alle dimissioni dell’allora viceministro.
Il governo se la deve vedere ora con la minoranza. Rosy Bindi chiede «più collegialità» e sul patto «degli Apostoli» (dalla piazza dove si sono incontrati Vendola, Civati e Landini) dice: «Siccome Renzi non è Gesù Cristo, scegliere tra gli apostoli e lui è un po’ più complicato». Civati intanto affonda il colpo: «Renzi vuole essere la nuova sinistra, ma fa la destra da dieci anni. Una minoranza all’interno di un partito non deve fare il tappetino del segretario». Quanto alla scissione paventata e ventilata, «non c’è il rischio di un divorzio tra di noi, ma che si comprometta il rapporto con gli elettori».
Critiche che non sembrano scalfire la fiducia della maggioranza in un rapido cammino della riforma. L’arma finale, che resta ancora sullo sfondo, è quella del voto di fiducia. Ma il capogruppo al Senato Luigi Zanda si dice sicuro: «Il nostro gruppo a Palazzo Madama è molto equilibrato e maturo. Voteranno compatti perché c’è la consapevolezza di tutti dell’importanza di questo provvedimento». Più scettico Damiano: «Il voto del Senato entro il vertice Ue di mercoledì non mi sembra compatibile con i tempi di una normale discussione parlamentare. Si può tentare di farcela comunque, purché non si metta la fiducia per raggiungere l’obiettivo».

Corriere 6.10.14
La diffidenza dei sindacati sui contratti
Cautela alla vigilia dell’incontro con il governo: «Il vertice non sia uno spot del premier» Nuovi accordi aziendali, rappresentanza, salario minimo e Tfr i nodi da sciogliere
din Antonella Baccaro


ROMA C’è molta diffidenza tra i sindacati che, a ieri sera, non avevano ancora ricevuto la convocazione ufficiale a Palazzo Chigi per l’incontro di domani con il presidente del Consiglio nella «sala verde». La domanda più comune che nessuno accetta di porre ufficialmente è: «Perché proprio ora?». Il timore è che si tratti solo di un accenno di dialogo, fatto, magari in diretta streaming , in concomitanza con il passaggio stretto dell’articolo 18 in Senato. E qualcuno paventa (e respinge) l’ipotesi di uno scambio tra la sua abolizione e il tema della contrattazione: lasciare l’articolo 18 sui licenziamenti disciplinari ma abolire il contratto nazionale.
«Finalmente ci incontriamo — esordisce per la Cisl, il segretario confederale Luigi Sbarra — qual è la proposta del governo? Che farà per rilanciare l’occupazione? Noi le nostre idee le abbiamo». La Cisl si dice pronta a aprire sul tema della contrattazione aziendale: «Ci crediamo: in un solo anno ne abbiamo sottoscritti 3 mila». Ma anche sulla rappresentanza c’è la disponibilità a recepire gli accordi interconfederali in una legge. A un patto: «Niente lezioni sul cambiamento perché in Cisl il rinnovamento è in atto da mesi» ricorda Sbarra. Ed è giunto all’avvicendamento del segretario, che verrà ufficializzato mercoledì. E guai a chi taccia i sindacati di essere poco rappresentativi: in Cisl rispondono che loro hanno 4 milioni e mezzo di iscritti, la metà dei quali lavoratori attivi, mentre il Pd ne ha centomila. «Poi è vero — ammette Sbarra — la crisi ci ha un po’ logorati...».
In Cgil si affilano le armi: «Andiamo a sentire cosa ha da dirci il presidente, purché non sia l’occasione di fare propaganda». Il sindacato di corso Italia ha grosse critiche sull’operato svolto fin qui perché «la politica di Renzi è quella di Confindustria e di Sacconi (l’ex ministro del Lavoro di Forza Italia, ora senatore Ncd, ndr )». «L’articolo 18 non è il problema, bisogna creare lavoro» si sottolinea. Nessuna apertura sul contratto di secondo livello mentre sulla legge sulla rappresentanza, «è sufficiente applicare l’articolo 39 della Costituzione».
La Uil si presenta all’appuntamento «senza mettere le mani avanti»: Luigi Angeletti aveva chiesto la convocazione al premier con una lettera qualche giorno fa. «Mi auguro che non sia una sfida — dice il segretario di Uiltec, Paolo Pirani — la gravità della situazione richiede politiche mirate, non libertà di licenziare. Siamo disponibili al dialogo ma niente interventi a gamba tesa». Il premier ha già fatto sapere che proporrà ai sindacati che il Tfr (Trattamento di fine rapporto) vada direttamente in busta paga ogni mese: «Rischiamo di fare solo un regalo alle banche — osserva Pirani — che attingerebbero soldi a poco prezzo dalla Bce per poi prestarli. Senza dire che il Tfr verrebbe tassato in busta paga e che i fondi pensioni ne risentirebbero. Ancora una volta a vantaggio delle banche».

Repubblica 6.10.14
Landini
Il leader dei metalmeccanici della Cgil rilancia il no all’abolizione dell’articolo 18
«Il tema va semplicemente tolto dal tavolo»
«Ma se va avanti l’attacco ai diritti la Fiom occuperà le fabbriche»
intervista di Roberto Mania


Alla Thyssen di Terni propongono di licenziare 250 operai e di ridurre il salario: E il governo ci invita ad accettare
Il premier ha scelto il conflitto e lo scontro ma così si rischia di andare verso il modello Fiat

ROMA «Il governo deve sapere che noi siamo pronti ad occupare le fabbriche se dovesse passare la linea della riduzione dell’occupazione, dei diritti e del salario dei lavoratori. Una linea che potrebbe trovare una prima applicazione alla Thyssen di Terni. Per noi sarebbe inaccettabile », dice Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, da Atene dove partecipa alla festa di Syriza, il movimento di Alexis Tsipras.
E voi occupereste la fabbrica?
«Non possiamo accettare il licenziamento di 250 lavoratori e la riduzione del salario. È questo che ci stanno proponendo ed è questo che il governo ci sta chiedendo di accettare. È un modello che sta avanzando: l’abolizione dell’articolo 18 e dell’attuale sistema contrattuale con la possibilità di derogare al contratto nazionale come prevede l’articolo 8 della cosiddetta “legge Sacconi” e come chiese la Fiat».
Il governo, però, è pronto a preparare una legge sulla rappresentanza sindacale, come chiede la Fiom, e spinge per rafforzare la contrattazione in azienda. Ci stareste?
«No. La verità è che Renzi ha scelto il conflitto e lo scontro. Dietro l’operazione sull’articolo 18 c’è questo, mentre ci sarebbe bisogno di unità nel Paese, di un rilancio della contrattazione nazionale, dell’affermazione del diritto dei lavoratori di scegliere i propri rappresentanti e di decidere sui contratti che li riguardano. Non c’è nessuno scambio da fare. Da una parte Renzi realizza l’operazione 80 euro e dall’altra chiede al tanto vituperato sindacato di fare accordi per la riduzione del salario e dell’occupazione».
Questo sarebbe il progetto del premier Renzi?
«Sì. Riaprire in questo modo la partita sui contratti aziendali vuol dire andare verso la deregulation, vuol dire il modello Fiat».
Ma la legge sulla rappresentanza è proprio una richiesta della Fiom.
«Certo che è una nostra richiesta. Ma ripeto: non ci sono scambi possibili sul modello contrattuale ».
Non crede che i bassi salari dei lavoratori italiani dipendano anche dal sistema contrattuale?
«No. I bassi salari dipendono dai bassi investimenti e dalla bassa qualità dei prodotti. Non a caso dove si investe lo spazio per la contrattazione aziendale integrativa è significativo perché c’è ricchezza da distribuire. La imprese non sono tutte uguali. Quelle di piccole dimensioni oggi soffrono di più. C’è bisogno di far ripartire gli investimenti e spetta al governo indicare le politiche industriali per i settori.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’articolo 18 che andrebbe semplicemente tolto dal tavolo».
Lei è però d’accordo sulla proposta di Renzi di mettere in busta paga il Tfr.
«Sì. È una proposta che la Cgil ha avanzato prima con Trentin e poi con Cofferati. E a dicembre siamo stati noi della Fiom a riproporla. Il Tfr è salario differito dei lavoratori ed è giusto che possano decidere loro quando riceverlo ».
Squinzi dice che le aziende non possono permetterselo perché “sparirebbero” tra i 10 e i 12 miliardi.
«È davvero paradossale sentir dire che gli imprenditori italiani fanno i capitalisti con i soldi dei lavoratori. Credo che i lavoratori possano volontariamente decidere cosa fare del proprio Tfr e penso che il governo dovrebbe defiscalizzare tutti gli aumenti salariali anziché prevedere lo sconto per le ore di straordinario».
Landini, lei pensa che sabato a Roma alla manifestazione di Sel, con la sua partecipazione quella di Civati, si siano messi i germogli di un nuovo movimento della sinistra?
«Non lo so. Proprio perché rivendico l’autonomia del sindacato mi confronto con tutti coloro che me lo chiedono e pensano che ci sia bisogno di un’altra idea di Europa, fondata sui diritti e sul lavoro».

La Stampa 6.10.14
Salario minimo e contratti, l’Europa va in ordine sparso
Le regole sul lavoro escluse dai trattati
di Marco Zatterin


L’Europa non ha voce su rappresentanza sindacale, contratti e salari. Non ne ha diritto, perché quando i governi si sono dati i Trattati e le regole per governare il mercato interno hanno tenuto per sé il diritto di decidere su lavoro e connessi. Le competenze sono rimaste nelle capitali, circostanza che si manifesta nella difformità di codici e comportamenti. Anche quando si è occupata della materia, l’Ue l’ha toccata con la punta del dito. «Si propone che la Commissione valuti, eventualmente, l’ipotesi di un quadro giuridico facoltativo europeo per gli accordi societari transnazionali», ha chiesto l’Europarlamento nel 2013. Testo di cornice, ipotetico, finito nel limbo dei desideri non accolti.
Del resto si tratta di materie difficili da discutere a livello europeo. Un salario minimo per tutti i Ventotto sarebbe impensabile: qualunque fosse la soglia fissata, risulterebbe troppo bassa per alcuni e troppo alta per altri. Chi lo vuole, se lo fa, opzione scelta dalla maggior parte degli stati europei, ma non da Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Cipro e Italia, che delegano le decisioni al confronto fra le parti sociali. In Francia sono 9,53 euro l’ora almeno, in Spagna scendono a 5,57, in Grecia a 5,06, mentre nel Regno Unito si torna a 6 sterline e mezzo (8,30 euro ai valori attuali). In Svizzera, fuori dall’Ue, un referendum ha bocciato fra la sorpresa la paga minima di 4000 franchi per tutti (3250 euro). In Germania è passata in luglio una legge che introduce una soglia minima per le retribuzioni a livello federale da gennaio, rivoluzione che smosso anche Roma.
L’approccio tedesco alla contrattazione è peculiare, ma efficace, a vedere i risultati su occupazione e attività. Posto che in Italia si lavora su due livelli - contratti nazionali di settore e integrativi aziendali basati su redditività, produttività, qualità -, in Germania si parte dalle regioni. Si sceglie un «land» rappresentativo e si chiude un’intesa a livello locale che, in seguito, viene estesa a tutte le altre regioni. Fatto questo, ciascuna impresa contratta poi il proprio livello salariale che non può scendere sotto il livello distrettuale.
Nel Regno Unito non c’è contratto nazionale collettivo di settore, il sindacato discute azienda per azienda. In Francia si negozia su tre livelli (nazionale, settoriale, aziendale): obbligatoria la contrattazione annuale di categoria sul salario minimo e ogni cinque anni sull’inquadramento professionale, senza però obbligo di raggiungere un’intesa.
Interessante il sistema scandinavo. Ci sono contratti nazionali per tutti i settori in cui vengono stabilite solo condizioni di perimetro, mentre gli aspetti più specifici vengono demandati al confronto aziendale. Qui, le materie in campo sono numerose e sensibili, riguardano i salari e i benefit. Il sindacato svolge un ruolo diverso rispetto a quello a noi familiare, paga i sussidi ed ha un ruolo di mediatore fra domanda e offerta del lavoro. Insomma si sostituisce con frequenza alla mano pubblica. 
Nel Grande nord, il sindacato nel consiglio delle grandi aziende è la regola. In quasi tutti i paese europei la rappresentanza è disciplinata per legge (non in Italia). In Germania si prescrive l’esistenza di una rappresentanza sindacale in ogni azienda con più di dieci dipendenti, mentre oltre i duemila si richiede un consiglio di sorveglianza in cui azionisti e lavoratori si spartiscono le poltrone. In Francia le prerogative del consiglio aziendale sono ampie, possono impegnare un pacchetto di licenziamenti e chiedere l’intervento di un mediatore. Qualcuno potrebbe dire che non hanno aiutato l’economia transalpina negli ultimi anni. Ma questo, è un altro discorso.

Repubblica 6.10.14
Contratti e turn over fermi gli statali perdono 8 miliardi: 5000 euro in meno a testa
I dati dell’Istat e della Cgil fotografano gli anni dal 2010 al 2013: la spesa dello Stato per il personale giù del 4,5%
Ridotte al minimo le speranze per la riapertura della contrattazione, l’8 novembre i sindacati in piazza a Roma
di Luisa Grion


ROMAOtto miliardi di spesa in meno in soli tre anni: la crisi ha picchiato duro sul settore pubblico e fra blocco del contratto e blocco del turn over, dal 2010 ad oggi lo Stato ha “risparmiato” un bel po’ di soldi in stipendi ai travet. Negli ultimi anni la voce si è andata via via sgonfiando, passando dai 172,5 miliardi del 2010 ai 164,7 del 2013: così certificano le ultime tabelle sulla contabilità nazionale prodotte dall’Istat secondo le nuove regole europee.
Il taglio è pesante, il 4,5 per cento in meno in tre anni: in pratica la voce di spesa è tornata ai livelli del 2007. Una «ibernazione » dei redditi che, tradotta in potere d’acquisto delle singole famiglie, corrisponde ai 5 mila euro medi che ogni statale, secondo i calcoli della Cgil, avrebbe perso dal 2010 ad oggi. Anni di blocco dei contratti — fermi per quanto riguarda la parte economica da cinque anni a questa parte — e di blocco del turn over. La tanto contestata misura che ha fatto lievitare il numero di precari nello Stato (300 mila) e che innalzato fino a 57 anni l’età media della categoria.
Ma la corsa al ribasso non è finita: se la riforma della pubblica amministrazione modello-Madia prevede un ammorbidimento del blocco del turn over, altrettanto non si può dire per la riapertura della parte economica dei contratti pubblici. I soldi, ha detto il ministro della Funzione Pubblica non ci sono, e con buona probabilità il rinnovo non scatterà nemmeno nel 2015, salva la possibilità di far invece ripartire gli scatti d’anzianità e le progressioni in carriera. Legge di Stabilità permettendo. Né per gli statali è previsto l’eventuale anticipo del Tfr in busta paga (misura sulla quale il governo sta discutendo), che non va confusa con un aumento o recupero di stipendio — visto che si tratta di soldi che sono già dei lavoratori — e che comunque riguarderebbe solo i dipendenti del settore privato (per la Uil di Antonio Foccillo «anche questa è una discriminazione»).
Secondo le tavole Istat, che il taglio alle buste paga ha colpito più gli enti locali (meno 6,7 per cento di reddito) che quelle centrali (meno 2,8 sempre nei tre anni presi in considerazione). Sia per via di un blocco del turn over più pesante, sia in virtù degli ulteriori tagli praticati dai comuni in dissesto sui fondi per la contrattazione.
Scivolate di reddito che, secondo il governo, sarebbero state mitigate dal bonus di 80 euro distribuito da maggio: un’idea di «scambio» che i sindacati non prendono in considerazione. Tanto che Cgil, Cisl e Uil — questa volta assieme — protesteranno l’8 novembre a Roma contro il blocco delle buste paga e contro la riforma della pubblica amministrazione, sulla quale per altro le tre sigle non sono mai state convocate. Né è partito il confronto sulla mobilità, previsto da un articolo dello stesso decreto che l’ha introdotta.
«Se il blocco dei contratti dovesse essere riconfermato anche al 2015 per il sesto anno consecutivo si aprirebbe un problema costituzionale — avverte Michele Gentile, responsabile del settore pubblico per la Cgil — tanto più che le ripercussioni di tale blocco si faranno sentire anche sull’entità delle future pensioni. I soldi per riaprire i contratti ci sono: nel Def il Tesoro ha messo in conto un miliardo. Cifra non sufficiente, perché calcolata solo tenendo conto delle esigenze delle amministrazioni centrali, ma anche di quel miliardo non si sa cosa il governo voglia fare». Secondo Giovanni Faverin, segretario generale della Cisl Funzione Pubblica, i dati dell’Istat «confermano il fallimento del governo come più grande datore di lavoro del Paese». «La riduzione del costo del personale — ha detto — non ha nemmeno liberato risorse per gli investimenti e la spesa pubblica è comunque in aumento ». Di fatto, sempre secondo dati Istat, fra il 2010 e il 2013, la spesa pubblica nel suo totale è passata da 811,5 a 827,1 miliardi. Gli investimenti pubblici periodo sono diminuiti, passando dai 66,6 ai 57,6 miliardi. La crisi e la perdita di posti di lavoro hanno assorbito le risorse recuperate dai sacrifici del settore pubblico: nei tre anni in questione la spesa per pensioni (comunque in calo dopo la riforma Fornero) e per ammortizzatori sociali è passata dai 298,6 miliardi del 2011 ai 319,6 del 2013.

Corriere 6.10.14
La protesta degli studenti per la riforma
In piedi sul banco come Robin Williams
Messaggio al governo: coinvolgeteci, è in gioco il nostro futuro. Venerdì cortei in tutta Italia
di Leonard Berberi


Il gesto «ribelle» del professore In piedi sul banco per guardare il mondo da una nuova prospettiva. Lo insegnò ai suoi allievi, in un collegio maschile negli Usa anni 50, il professor John Keating (Robin Williams). Il film, del 1989, era L’attimo fuggente di Peter Weir. Il gesto è stato replicato alla morte dell’attore, scomparso ad agosto, per omaggiarlo.

È, per ora, soprattutto una sfida a colpi di hashtag. E di proposte. Da una parte #labuonascuola. Dall’altra #entrainscena e #10o. In mezzo, gli studenti. Tutti in posa, preferibilmente in piedi. Da soli o in gruppo. Tutti con lo sguardo fisso in camera. Tutti sui banchi di scuola. Come nel film L’attimo fuggente .
Facebook e Twitter fanno il resto. In attesa del vero appuntamento, quello del 10 ottobre, quando da Nord a Sud migliaia di studenti italiani scenderanno nelle strade delle grandi città per chiedere al governo Renzi due cose: un maggiore coinvolgimento nella riforma della scuola e in quella del lavoro. Perché, è il ragionamento, «queste due piattaforme determineranno il nostro futuro».
La consultazione online sulla «Buona scuola» (e l’hashtag #labuonascuola) lanciata dal governo e dal ministero dell’Istruzione non è sufficiente secondo l’Unione degli studenti (Uds), la principale sigla che ha promosso l’appuntamento di venerdì prossimo. «Non ci accontentiamo di essere chiamati a rispondere per soli due mesi a temi calati dall’alto», accusano i rappresentanti. «Crediamo sia necessaria una rivoluzione “copernicana” che ridia dignità e centralità al mondo della formazione, là dove si gioca una partita fondamentale per il futuro non solo di migliaia di giovani ma anche per quello del Paese intero».
E allora via, con i tre slogan da rilanciare in questi giorni sui social network e da urlare venerdì. Il prim: «Istruzione libera e gratuita per tutti». Il secondo: «Diritti di cittadinanza e welfare universale». Il terzo: «Stop alla precarietà». Nel frattempo ci si fa fotografare sui banchi. Una sorta di nuova iconografia della contestazione dopo quella del novembre 2010, quando centinaia di studenti universitari occuparono gli atenei e salirono sui tetti degli edifici assieme a diversi politici dell’allora opposizione di centrosinistra per fermare l’approvazione del «ddl Gelmini».
Tra i punti del piano «alternativo» dell’Unione degli studenti compaiono, a dire il vero, anche altre proposte. Ad esempio: l’«abolizione della bocciatura», «l’apertura pomeridiana» degli istituti, un «reddito di formazione» per chi va a scuola e di «reinserimento per combattere il fenomeno dei Neet», quelli che non studiano né lavorano che in Italia, secondo Eurostat, sono circa 2,4 milioni.
La protesta degli studenti raccoglie il consenso di Flc-Cgil e dei Cobas. I primi saranno in piazza con i ragazzi «per ridare valore sociale all’istruzione pubblica». I secondi, oltre a proclamare lo sciopero il 10 ottobre, chiederanno che «le promesse fatte a una parte dei precari diventino realtà con l’inserimento nella Finanziaria delle somme occorrenti per l’assunzione stabile».
Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini continua a confidare nel dialogo. «Per la prima volta è possibile cambiare veramente», ha detto venerdì scorso a Roma di fronte a centinaia di studenti. «Ce la possiamo fare, noi e voi. E tutto sarà possibile con il vostro contributo, attraverso i commenti e le consultazioni web sulla “Buona scuola”». «Vi prego: riempite il questionario — ha scritto il premier Matteo Renzi nella sua ultima newsletter —. Visitate il sito labuonascuola.gov.it. Stiamo scrivendo il futuro dei nostri figli, facciamolo insieme».

Corriere 6.10.14
La sanità degli sprechi. Ecco gli ospedali che spendono di più
Il Cardarelli di Napoli paga per i servizi di pulizia oltre il doppio del Sant’Orsola di Bologna
E il Careggi di Firenze spende 10 volte più del Niguarda di Milano per l’elettricità
Le disparità in un comparto che vale 50 miliardi all’anno. I risparmi possibili uniformando i costi
di Simona Ravizza


Nelle classifiche internazionali, il sistema sanitario italiano è tra i primi al mondo per efficienza. Ma negli oltre 50 miliardi spesi ogni anno dagli ospedali si annidano enormi disparità: tenere puliti camere e corridoi del Cardarelli di Napoli costa 17.583 euro per letto, quasi il triplo rispetto ai 6.518 del Sant’Orsola di Bologna (e più del doppio della media, di 7.957 euro). E il Careggi di Firenze spende 10 volte più del Niguarda di Milano per l’elettricità.

Chissà se il Cardarelli di Napoli è davvero più pulito del Sant’Orsola di Bologna. Le camere dei pazienti, i bagni e i corridoi dovrebbero essere impeccabili. I costi per la pulizia dell’ospedale napoletano sono più del doppio rispetto a quelli emiliani e rappresentano il record a livello nazionale: 17.583 mila euro per posto letto contro i 6.518 del Sant’Orsola. La media è di 7.957 euro. Magari al De Lellis di Catanzaro salvano i malati per telefono, visto che la spesa per le utenze telefoniche è il triplo di altri ospedali italiani (2.782 euro contro 910 a posto letto). E com’è possibile che tra il Careggi di Firenze e il Niguarda di Milano — a parità di dimensioni — ci sia una differenza di dieci volte per l’elettricità (6.737 euro contro 604 a posto letto)?
Dall’elaborazione degli ultimi dati disponibili del ministero della Salute pubblicati online sull’attività economico-sanitaria (2011) emerge una fotografia su possibili sprechi e inefficienze. Di quanti soldi ha bisogno ogni anno un ospedale per sopravvivere? Basta dividere i costi messi a bilancio con i posti letto per avere risultati sorprendenti. Le cure mediche offerte ai malati sono le stesse, ma la spesa è enormemente differente tra un ospedale e l’altro. All’Umberto I di Roma sono necessari più di 500 mila euro per ogni letto utilizzato, mentre al San Matteo di Pavia ne bastano 380 mila. Per la spesa di medici e infermieri (tra dipendenti, universitari e precari) il Policlinico Giaccone di Palermo sopporta un costo di 182 mila euro per ciascun letto contro i 130 mila dell’ospedale universitario di Parma.
In gioco ci sono soldi pubblici. La spesa degli ospedali vale più di 50 miliardi l’anno (sui 112 complessivi). E sapere come vengono usati è fondamentale. Per il governo Renzi a caccia di 20 miliardi per la manovra 2015 i tagli alla Sanità sono l’obiettivo numero 1. Ma i governatori sono insorti dichiarando che si mette a rischio la tenuta del servizio sanitario nazionale e quindi la salute dei cittadini. Bloomberg sembra dargli ragione: per il network mondiale d’informazione finanziaria, l’Italia è il terzo sistema sanitario più efficiente al mondo (preceduta solo da Singapore e Hong Kong). Chi ha ragione? È possibile ridurre i costi senza intaccare la qualità delle cure?
Tutti i numeri sono da prendere con le molle. L’obiettivo non è stilare classifiche (sempre opinabili) tra spendaccioni e virtuosi. Le enormi disparità di spesa fanno capire, però, che troppo spesso ci sono costi non collegati strettamente alla cura dei malati. Qui dentro si nasconde un tesoretto. I risparmi possibili. E le cifre in ballo sono da capogiro. La differenza tra ospedali obbliga a una riflessione. Se fosse possibile all’Umberto I spendere per posto letto quanto il San Matteo di Pavia (entrambi storici policlinici universitari) l’ospedale romano ridurrebbe le uscite di 137 milioni di euro l’anno (un quarto del bilancio).
I dati sono stati analizzati con l’aiuto del Centro studi sanità pubblica dell’Università Bicocca di Milano, insieme al fondatore Giancarlo Cesana e al ricercatore Achille Lanzarini. Numeri, tabelle, statistiche. È un mare magnum.Anche i più consolidati luoghi comuni sull’efficienza del Nord vengono messi in dubbio. L’ospedale universitario di Udine (dov’è in corso un piano di tagli contro un buco da 10 milioni) costa 170 mila euro in più a posto letto rispetto al suo omologo di Messina. Nella stessa Sardegna il Brotzu di Cagliari spende per tecnici, amministrativi e, in generale, personale non sanitario il triplo a posto letto rispetto all’ospedale universitario di Sassari (34 mila euro contro 11 mila). Per medici e infermieri al San Giovanni/Addolorata di Roma la spesa per posto letto è di 172 mila euro contro i 140 mila di Padova, ma lo stipendio del personale pubblico è uguale in tutt’Italia. La differenza è spiegabile, dunque, solo con un diverso numero di lavoratori in corsia: ma ne ha troppi il San Giovanni/Addolorata o troppo pochi Padova? Un interrogativo simile nasce se si butta un occhio ai giorni di ricovero: nella Chirurgia generale del San Giovanni/Addolorata la degenza media è 11 giorni contro i 7 di Padova. Un caso?
Una cosa è certa: i costi della sanità sono un caos. E per cambiare, forse, non servono tagli lineari che penalizzano tutti allo stesso modo, ma manager capaci di individuare le spese improduttive e di riorganizzare l’attività. Premiando i medici e gli infermieri più bravi. E senza investimenti è dura. I costi bassi dell’energia di Niguarda? Sono iniziati con un investimento lungimirante di 22 milioni per un cogeneratore.

Corriere 6.10.14
Firenze
«Tariffe fuori mercato, sto ridiscutendo la fornitura elettrica»
di Marco Gasperetti


FIRENZE Il dato più sorprendente è quello del consumo dell’energia elettrica: l’ospedale di Careggi spende dieci volte in più del Niguarda di Milano, secondo i dati 2011 del ministero. «Stiamo ridiscutendo la convenzione con il gestore che evidentemente ha tariffe fuori mercato — conferma il direttore generale, Monica Calamai —. L’abbiamo fatto anche con altri appalti con risultati più che apprezzabili». Il «vento della parsimonia» ha iniziato a soffiare anche nel super-ospedale fiorentino. «Senza penalizzare la qualità del servizio — sottolinea Calamai —, ma aumentandola grazie alle razionalizzazioni». Calamai, medico e manager, è alla guida di Careggi dal giugno del 2013. «Siamo passati da 1.600 posti letto a 1.300. E stiamo migliorando l’appropriatezza dei ricoveri evitando le degenze prolungate, ma senza penalizzare il paziente». E sul costo del personale, anch’esso al top nella classifica? «È un aspetto complesso — spiega Calamai —. Ma anche qui stiamo facendo progressi. Un esempio: abbiamo aperto la terza sala di cardiochirurgia utilizzando in gran parte personale già assunto grazie alle riorganizzazioni interne».

Corriere 6.10.14
Telefonate e richieste di favori per i parenti
I rapporti della ‘ndrangheta con il mondo della sanità
di Cesare Giuzzi


MILANO Ci sono gli appalti. C’è il grande business delle cliniche private e dei rimborsi. Ci sono «gli amici» nelle Asl. Come l’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia Carlo Chiriaco (condannato a 12 anni), che parlava al telefono degli assetti della ‘ndrangheta, di cariche e «doti». O come Pietrogino Pezzano che guidava l’Asl Milano 1 ed è finito nelle fotografie dei carabinieri mentre chiacchera con uno dei boss brianzoli. Pezzano è stato solo sfiorato dalle indagini, poi davanti al clamore suscitato da quelle foto s’è fatto da parte e ha scelto la pensione. Di certo, dopo la rivelazione che l’Antimafia milanese sta indagando su due medici chirurghi (uno del Niguarda, l’altro del Policlinico di Monza), c’è ancora una volta la conferma che la ‘ndrangheta al Nord punta sulla sanità. Non solo per il business degli appalti e delle cliniche private. Ma anche per interessi ben più modesti. A cominciare dalla necessità di «fare pubbliche relazioni». Quelle che, ad esempio, permetteranno ad Antonino Lamarmore, capo del «locale» di Limbiate di arrivare a un medico brianzolo per tentare di «ottenere la scarcerazione» del fratello ergastolano rinchiuso nel carcere toscano di San Gimignano. Lo raccontano alcune pagine dell’inchiesta Infinito-Crimine del 2010. L’operazione non riesce, ma Lamarmore ottiene la disponibilità di un medico a visitare il fratello e a predisporne il ricovero in Brianza. Lo stesso medico avrebbe «seguito il ricovero e la degenza» della cognata di un boss milanese nella stessa struttura sanitaria. A fare da tramite un infermiere che lavora nel medesimo ospedale. Per «sdebitarsi del favore ricevuto e consolidare i rapporti con il medico», il capolocale (condannato a 10 anni per mafia) organizzerà poi una cena per medico, infermiere e rispettive mogli, in un ristorante della provincia di Milano. Alla serata, come annotano i poliziotti, partecipa il «gotha» della ‘ndrangheta milanese. In una intercettazione c’è invece un esponente di un clan calabrese che contatta il fratello di un potente boss di Milano (condannato a 14 anni) per chiedere il cellulare del medico «amico»: la figlia sta male, serve una visita urgente. La ‘ndrangheta lombarda, insomma, ha dimostrato di avere ottime entrature nel mondo della sanità. Nella relazione della squadra Mobile, inviata a Roma, che ha fotografato i nuovi assetti delle cosche (i clan puntano su affiliati da candidare alle elezioni perché i politici sono considerati poco affidabili) si parla di due medici attualmente sotto inchiesta. Il nome di uno dei due chirurghi era emerso per la prima volta due anni fa in un’indagine delle Fiamme gialle. Era sospettato «di essere coinvolto in un traffico di droga con uomini della ex Jugoslavia». Alcuni suoi parenti sono già stati condannati per mafia e sequestro di persona.

Bergoglio: «I giovani non si sposano. È la cultura di questo nostro tempo. Così molti giovani preferiscono convivere senza sposarsi»
A Milano, tanto per fare un esempio, nei primi sei mesi di quest’anno dei 1.329 matrimoni, solo uno su tre si è celebrato con cerimonia religiosa (374), mentre poco meno di un migliaio di coppie (955) si sono sposate con rito civile. E nel Comune ambrosiano i single sono ormai più del doppio delle coppie»
La Stampa 6.10.14
Quei giovani che non si sposano più
di Andrea Tornielli


Papa Francesco guarda ai giovani. Ai tanti, tantissimi giovani che preferiscono convivere invece che sposarsi. Lo ha detto, con riferimento al Sinodo, in un dialogo con Joaquín Morales Solá, pubblicato ieri dal quotidiano argentino «La Nación». «La famiglia è un elemento così prezioso, così importante per la società e per la Chiesa... C’è stata molta enfasi sulla questione dei divorziati. Un aspetto che senza dubbio sarà discusso. Ma, per me, un problema altrettanto importante sono le nuove abitudini dei giovani. I giovani non si sposano. È la cultura di questo nostro tempo. Così molti giovani preferiscono convivere senza sposarsi. Cosa dovrebbe fare la Chiesa? Espellerli dal suo seno? O, invece, avvicinarsi a loro, comprenderli e cercare di portare loro la parola di Dio? Io sto con quest’ultima posizione».
Ecco, quello che forse sembra sfuggire a un certo dibattito di queste ultime settimane sull’indissolubilità del matrimonio - che peraltro nessuno dei padri sinodali vuole mettere in discussione - è la realtà del crollo delle nozze in chiesa. A Milano, tanto per fare un esempio, nei primi sei mesi di quest’anno dei 1.329 matrimoni, solo uno su tre si è celebrato con cerimonia religiosa (374), mentre poco meno di un migliaio di coppie (955) si sono sposate con rito civile. In un caso su quattro uno dei coniugi ha già un primo matrimonio fallito alle spalle. L’età media degli sposi resta alta: 37 anni gli uomini e 33 le donne, contro i 32 e i 29 anni del 1991. E nel Comune ambrosiano i single sono ormai più del doppio delle coppie.
È evidente che di fronte a questo fenomeno fermarsi alla condanna, al rimpianto del tempo che fu o alle puntualizzazioni dottrinali non basta, rischia di essere persino controproducente. Anche perché la Chiesa non può chiamarsi fuori dai processi avvenuti negli ultimi trenta-quarant’anni, limitandosi ad accusare la cultura dei nostri giorni, senza domandarsi perché è divenuta così fragile la capacità di testimoniare la bellezza della famiglia.
Nell’omelia di ieri Bergoglio ha ricordato come «i cattivi pastori caricano sulle spalle della gente pesi insopportabili» che loro non devono portare. La sua prospettiva sul Sinodo è quella di uno sguardo attento e compassionevole sul vissuto reale delle famiglie, anche di quelle ferite, anche di quelle «irregolari». Evangelizzare significa essere capaci di accoglienza, di vicinanza e di comprensione. Un atteggiamento che viene prima dell’elenco delle regole e dei precetti. In questo senso Francesco non ha l’obiettivo di cambiare la dottrina dell’indissolubilità, ma chiede a tutta la Chiesa di cambiare lo sguardo, perché sia più attento al vissuto delle persone e più sereno nell’annuncio del Vangelo e della misericordia.
Nel colloquio con «La Nación», il Papa ha risposto anche a una domanda sul libro dei cinque cardinali contrari alla proposta di Kasper sui sacramenti ai divorziati risposati: «Non mi ha preoccupato. Tutti hanno un contributo da portare».

La Stampa 6.10.14
“No alla pillola del giorno dopo”
E l’infermiera di Pavia rimanda a casa due ventenni
di Fabio Poletti


Due ragazze impaurite e un’infermiera assai rigida. Muro contro muro all’ospedale di Voghera in provincia di Pavia dove per due volte in due sere differenti una infermiera si è rifiutata di somministrare la pillola del giorno dopo a due ventenni. Le ragazze si erano rivolte nella notte nel nosocomio per chiedere il farmaco in libera vendita in Italia dal 2000. Il loro timore era quello di una gravidanza non desiderata dopo un rapporto non protetto avuto quella stessa sera poche ore prima. Ma l’infermiera è stata inflessibile e si è rifiutata di fornire il medicinale.
La vicenda ha sollevato un caso nell’ospedale dopo che un medico di turno al pronto soccorso e la caposala si erano rivolte alla direzione sanitaria. E’ stata aperta un’inchiesta. L’infermiera è stata già sentita e si è difesa: «Non le ho assolutamente minacciate. Ho solo cercato di convincerle a rinunciare e a salvare così vite umane. L’ho fatto per motivi di coscienza ma non religiosi». La paramedica, conosciuta in reparto come fervente cattolica e praticante, davanti alla direzione sanitaria dell’ospedale ha cercato di sostenere argomentazioni etiche: «Anche noi infermieri abbiamo un codice e il dovere di dialogare con i pazienti se lo riteniamo opportuno».
A rendere incomprensibile e inutile alla fine il suo gesto rimane la tipologia del farmaco. La pillola del giorno dopo a base di Levonogestrel va assunta entro 72 ore dal rapporto ritenuto a rischio. E’ in vendita in qualsiasi farmacia senza nemmeno bisogno di prescrizione medica. E’ facile che le due ragazze in quelle due diverse occasioni si siano rivolte nella notte al pronto soccorso nella speranza di accorciare i tempi. Ma è del tutto evidente che possono avere aspettato il giorno dopo, oppure essersi rivolte al proprio medico curante. I sanitari da tempo consigliano chiunque non voglia incorrere in gravidanze indesiderate e per evitare il rischio di malattie sessualmente trasmettibili di avere sempre rapporti protetti. Alcuni medici consigliano addirittura le giovani e giovanissime ad avere sempre con sè in borsetta il farmaco che oggi costa poche decine di euro.
A rendere ulteriormente incomprensibile l’atteggiamento della paramedica che ora rischia una pesante sanzione disciplinare è la stessa tipologia del farmaco. La pillola del giorno dopo, lo si sa da sempre, non è un farmaco che provoca aborti ma semplicemente inibisce l’attività degli spermatozoi nell’utero della donna. Un concetto finalmente approvato dall’Agenzia Nazionale del Farmaco che dopo anni di discussioni spesso ideologiche ha aggiornato la scheda tecnica dl farmaco. Sostituendo la vecchia dicitura «il farmaco potrebbe anche impedire l’impianto» con la più corretta «inibisce o ritarda l’ovulazione». Cosa che l’infermiera del pronto soccorso di Voghera non sapeva o ancora peggio ha volutamente ignorato riuscendo solo ad aumentare la paura di rimanere incinta nelle due ventenni.

Corriere 6.10.14
Ma è lecito negare la pillola del giorno dopo?
di Mario Pappagallo


È lecito negare un contraccettivo (la cosiddetta pillola del giorno dopo) in vendita da 14 anni in tutte le farmacie italiane? È lecito negare una richiesta «preventiva» perché la si considera abortiva, in un Paese che prevede l’aborto per legge? Lo ha fatto per ben due volte l’infermiera di un Pronto soccorso pubblico. A Voghera. Un rapporto sessuale non protetto, il timore di una gravidanza per cui ancora non si è pronte, la corsa nell’unico posto dove, di notte, si è sicure di trovare un medico per la prescrizione. Ma al Pronto soccorso lo scoglio: l’infermiera allo sportello, che dovrebbe limitarsi a classificare le priorità attraverso codici colorati, fa appello al suo codice etico e di fatto nega l’accesso al reparto. Sempre lei per due volte nelle ultime settimane. La dirigenza sanitaria sta vagliando la situazione. Le ragazze parlano di minacce. La pillola del giorno dopo non è un abortivo, inibisce o ritarda l’ovulazione. Deve essere assunta entro 72 ore dal rapporto sessuale. Le due ragazze se ne sono andate. E se poi restano realmente incinte e non vogliono avere quei figli?

Corriere 6.10.14
L’italia in crisi e il peccato originale dell’alibi europeo
di Ernesto Galli della Loggia


Il problema non è la Germania e tanto meno l’Europa: guai a dirlo e perfino a pensarlo. È questo che da anni ci ripete quel mix di sussiegoso economicismo para-accademico ( para perché assai spesso è in realtà impegnato in una quantità di concretissimi e lucrosi incarichi più o meno pubblici) e di ufficialità politica ex Prima repubblica, che si è impadronito da tempo del discorso pubblico italiano. Il problema vero, esso ci ammonisce severamente, siamo invece noi. È l’Italia con il suo ritardo nel fare le famose «riforme».
Ebbene sì, è vero, la colpa è nostra, è dell’Italia. Il punto è che però chi fa questi discorsi dovrebbe, allora, cercare anche di spiegare perché in tutti questi anni le riforme di cui sopra non sono state fatte. Invece si accontenta in genere di ripetere come un mantra che la colpa è della «politica» e dei «politici»: come si sa colpevoli di tutto per definizione. Ai cani da guardia di Bruxelles non viene in mente, tuttavia, che la colpa principale della famigerata politica nostrana, quella che spiega molte delle sue incapacità, è forse consistita proprio nel suo europeismo. Paradossalmente, insomma, essa non è stata troppo poco «europeista», ma lo è stata troppo. E per le ragioni e nei modi sbagliati.
La costruzione europea, infatti, è stata il grande alibi e insieme il grande rifugio della decadenza italiana. Tra gli Anni 80 e 90 del secolo scorso, quando sono incominciati a venire al pettine i nodi economici della costruzione della nostra democrazia (pensioni e sanità, spesa e debito pubblici), quando si è capito che il nostro sistema politico-costituzionale non funzionava più, quando prima sono apparse palesemente esaurite le culture, e poi addirittura distrutti gli stessi partiti del nostro Novecento, fu allora che la classe politica italiana cominciò a cercare riparo a Bruxelles. E lo fece innanzi tutto la Sinistra (da questo punto di vista bisogna riconoscere a Giorgio Napolitano, attivissimo deputato al Parlamento di Strasburgo dal 1989 al ‘92 e poi dal 1999 al 2004, un’antiveggenza e un ruolo di precursore indubbi).
Quando insomma ci sarebbe stato bisogno di ripensare l’intera vicenda del Paese, di capire come aprirne una pagina nuova dopo quella a suo modo grandiosa della modernizzazione democratica; quando sarebbe stato necessario stabilire quale ruolo immaginare per l’economia italiana nel nuovo quadro della globalizzazione, su che cosa puntare, quali investimenti cercare, a quale quadro geopolitico fare riferimento, quale aspetto della nostra ricchissima, multiforme identità culturale e quale delle nostre notevoli risorse umane incentivare e mettere in campo; quando avremmo dovuto fare tutto questo, la politica e con lei l’opinione pubblica hanno invece preferito abbandonare la partita e correre a ripararsi dietro l’Europa. Si è trattato di una sorta di gigantesca dimissione di ruolo, di una vera e proprio abdicazione nazionale, alla quale la Corte costituzionale, grazie ad un’interpretazione capziosa dell’articolo 11 della Carta, ha apposto il suo sigillo sancendo una radicale abdicazione di sovranità che non ha paragone con quanto accaduto in nessun altro dei grandi Paesi dell’Unione. Sicché da anni, nell’ignoranza quasi generale, in Italia il Parlamento e la volontà popolare hanno perduto il loro carattere di unica fonte delle leggi. Sempre più obbediamo, infatti, a norme che provengono da Bruxelles dove sono decise da organi che non rispondono elettivamente a nessuno.
È per l’appunto tale perdita di sovranità — tra l’altro vissuta obbligatoriamente come una conquista, ma avvertita nel profondo per ciò che essa era: come una sconfitta storica — è per l’appunto la perdita di questo cuore duro della politica, che in Italia ha tolto alla politica stessa la consapevolezza della sua più intima responsabilità. E quindi le ha tolto anche la capacità di avere un progetto per il Paese e di scommettere su di esso parlando all’opinione pubblica, la capacità di pensare e di operare di conseguenza. Ecco la vera ragione per cui non si sono fatte le famose riforme. Ed ecco altresì spiegato l’apparente paradosso per cui proprio i Monti e i Letta, proprio coloro che più si sono sempre mostrati devoti alla causa europea, non riescono poi ad imprimere alcuna spinta particolare su questo terreno. In realtà è precisamente il loro supino europeismo, la loro inconsapevole accettazione del declassamento italiano, la premessa inevitabile della loro impotenza: dal momento che è impossibile fare politica davvero — e politica difficilissima, come in questo Paese è quella delle riforme — solo dietro un input dall’esterno.
Che colpa ha mai la Germania di tutto questo? Nessuna, certamente. E che senso ha parlare allora di una sua egemonia? Qui è necessario capirsi: l’egemonia di un Paese non dipende dalla volontà di nessuno, è qualcosa di iscritto nei rapporti di forza. Se dunque da un lato c’è un Paese come la Repubblica Federale, in cui la politica, protetta da una Corte costituzionale attentissima a difenderne la sovranità, conserva il suo pieno potere interno e internazionale, e dall’altro lato, invece, ce n’è un altro, l’Italia, in cui ciò non avviene, è ovvio che per questo solo fatto il primo si troverà nei loro reciproci rapporti in una situazione di decisa e permanente superiorità sul secondo. Non già per una questione di riforme fatte o non fatte, ma per qualcosa che viene prima: per una questione di sovranità, per una questione di politica. Ciò di cui l’economicismo para-accademico nulla sa e nulla intende — del tutto legittimamente, per carità — ma di cui quindi farebbe bene a tacere.
Nel dibattito, aperto da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 29 settembre, sono intervenuti Lorenzo Bini Smaghi (30 settembre), Salvatore Bragantini (1 ottobre), Franco Tatò (4 ottobre)

Repubblica 6.10.14
Socialisti senza socialismo
di Alessandra Longo


PARTITI socialisti «senza socialismo». Ne aveva parlato Donald Sassoon nel suo libro degli Anni Novanta «La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo» quando prefigurava la scomparsa del «progetto socialista» ma, nello stesso tempo, la «sopravvivenza» dei partiti che quel progetto coltivavano. Ne parla oggi Paolo Favilli nell’ultimo numero di «Alternative per il socialismo» diretto da Fausto Bertinotti. Fenomeno interessante, anche un po’ inquietante: «Si avvera l’auspicio di quel conservatore inglese che, in tempi pretatcheriani, aveva sostenuto la necessità di «lasciare ai laburisti un’unica possibilità per tornare al governo: quella di smettere di essere “socialisti”». Favilli la definisce «una mutazione genetica negativa» che ha avuto in Tony Blair e Schroeder i due pilastri. Secondo l’autore, nella «decadenza italiana» la tipologia blairiana ha trovato un terreno particolarmente adatto di proliferazione».

La Stampa 6.10.14
La Palestina esiste, ira di Israele contro la Svezia
Gli scandinavi sono il primo Paese Ue a schierarsi
Netanyahu: i passi unilaterali non promuovono la pace, la impediscono. E convoca l’ambasciatore a Gerusalemme

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La Stampa 6.10.14La rabbia di Netanyahu sulla Svezia
Perché Israele teme gli effetti del riconoscimento dello Stato palestinese?
di Maurizio Molinari


Inizia a Stoccolma il nuovo duello fra Israele e palestinesi. A preannunciarne il contenuto era stato il presidente palestinese, Abu Mazen, nell’intervento all’Onu di due settimane fa quando disse di voler far nascere la Palestina sovrana grazie ad una risoluzione Onu e non al negoziato bilaterale con Israele. La Svezia diventa adesso la prima nazione dell’Ue a sposare questo approccio grazie al premier Stefan Loven che, nel discorso di insediamento, afferma: «Per arrivare alla soluzione dei due Stati in Medio Oriente serve anche la Palestina e dunque la riconosceremo». Da Ramallah il plauso è immediato. Hanan Ashrawi, veterana di Al Fatah, loda Stoccolma per essersi unita «alle 138 nazioni che già ci riconoscono come Stato dentro i confini del 1967 senza bisogno di passare per una trattativa con Israele». Ma da Gerusalemme la reazione è opposta perché l’adesione della Svezia conta di più delle precedenti, trattandosi di un Paese dell’Ue ovvero il maggior partner commerciale dello Stato ebraico. «Loven non ha ancora avuto tempo per realizzare che gli ostacoli maggiori da 20 anni vengono dai palestinesi» ribatte il ministro degli Esteri Avgdor Lieberman, preannunciando per oggi la convocazione dell’ambasciatore svedese al fine di condannare «un intervento esterno che non aiuta i negoziati diretti né una soluzione inclusiva del conflitto fra Israele e Paesi arabi». Affinché il messaggio sia inequivocabile è il premier Netanyahu tuona alla volta della Svezia: «I passi unilaterali sono contrari agli accordi esistenti, non avvicinano la pace ma la allontanano». Il riferimento è agli accordi di Oslo del 1993, basati sul riconoscimento reciproco, siglati da Rabin, Arafat e Peres nella Casa Bianca di Bill Clinton. Anche il Dipartimento di Stato di Washington, con la portavoce Jen Psaki, striglia Stoccolma parlando di «decisione prematura perché prima bisogna risolvere le questioni pendenti fra le parti». E in serata il ministero degli Esteri svedese fa un mezzo passo indietro rettificando di non voler danneggiare i negoziati diretti e che lo Stato di Palestina «verrà riconosciuto», senza specificare però quando ciò avverrà. Che la tempesta svedese si ricomponga o meno contiene già un segnale: la svolta compiuta da Abu Mazen è destinata ad avere conseguenze.

Corriere 6.10.14
Siria, nei pressi di Kobane
Una combattente curda ha compiuto un attentato suicida contro una postazione dell'Isis provocando un numero ancora imprecisato di vittime

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Corriere 6.10.14
La kamikaze curda che si è immolata contro i terroristi
Arin, la prima «martire» nel campo anti-Isis
di Lorenzo Cremonesi


MURSITPINAR Donna, curda, kamikaze contro i fanatici jihadisti che vendono le donne come schiave sessuali e si sentono umiliati se devono combatterle. E’ già diventata una leggenda Arin Merkan. La prima miliziana curda «martire» volontaria nel conflitto che da oltre tre anni insanguina la Siria. Ieri pomeriggio verso le quattro e mezza si è staccata dalla sua unità alla periferia della cittadina di Kobane, si è battuta da sola per raggiungere uno dei fortini dei nemici, quindi, una volta circondata, si è fatta saltare in aria. «Merkan non aveva la cintura esplosiva dei fanatici islamici. Lei è una donna soldato. Ha usato le bombe a mano che aveva nel tascapane», ci dicono per telefono i compagni. «Sappiamo che alcuni jihadisti sono morti con lei, non è chiaro però quanti».
La notizia sta già facendo il giro del mondo. Dalla periferia di Kobane il collaboratore del Corriere spiega che la giovane ragazza inquadrata nelle Ypj (le «Unità di Protezione delle Donne») stava partecipando alla battaglia per fermare le colonne dei jihadisti attorno alla collina di Mishtanur. E’ una zona difficile: il terreno è accidentato tra gli edifici sparsi. Se lo Stato Islamico riuscisse a piazzarsi sulla sommità potrebbe puntare con facilità i suoi mortai verso il cuore di questa cittadina a ridosso del confine con la Turchia accerchiata ormai da tre settimane. «Gli scontri sono diventati vera e propria guerriglia urbana. In alcuni punti i nostri uomini sono a pochi metri dai nemici», dice la fonte. Si combatte strada per strada, casa per casa.
Pare che le Ypg (le «Unità di Protezione Popolare» che sono il corpo combattente dei curdi siriani legati al Pkk, il «Partito dei Lavoratori Curdi» in Turchia) contino a Kobane circa 3.000 effettivi, di questi quasi 1.000 sarebbero donne. In tutto i miliziani curdi in Siria sono circa 40.000 (con loro ci sono anche volontari yazidi e cristiani), circa un terzo donne: combattenti a tutti gli effetti. Negli ultimi giorni il ruolo di queste ultime è diventato sempre più visibile. Sembra che la loro presenza sia di grande fastidio per i jihadisti. Due settimane fa si sarebbero sentiti umiliati dal fatto che proprio un drappello di donne curde aveva avuto la meglio in uno scontro a fuoco centro le loro pattuglie avanzate. Da qui la scelta inusuale la settimana scorsa di decapitare tre delle loro prigioniere ed esporle pubblicamente sulla piazza di Jarablus, un paesino non lontano da Aleppo. Non era mai avvenuto sino ad allora. Le combattenti curde sanno ormai che, se catturate, non avranno scampo. Si spiega così la scelta del suicidio di Ceylan Ozalp, una 19enne che, rimasta isolata durante la battaglia pochi giorni fa, preferì spararsi un colpo alla testa piuttosto che essere fatta prigioniera. Tuttavia, Kobane rischia in ogni memento di cadere nelle mani dello Stato Islamico. Circa 180.000 abitanti sono fuggiti in territorio curdo. E i raid alleati paiono non riuscire a fermare l’avanzata jihadista. Potrebbero invece fare una notevole differenza i circa 300 volontari militanti nel Pkk che ieri pare abbiano ottenuto il permesso delle autorità turche di raggiungere armati Kobane. Sino ad ora infatti Ankara aveva impedito in tutti i modi la cooperazione tra Ypg e Pkk. Se confermata, la notizia potrebbe significare che la Turchia è ora pronta a combattere seriamente i jihadisti.
La situazione si fa intanto drammatica nelle regioni sunnite di Al Anbar, a ovest di Bagdad. Lo Stato Islamico ha conquistato l’intera zona della città di Ramadi e ieri sembra che gli elicotteri americani siano dovuti intervenire per difendere l’aeroporto della capitale.

Repubblica 6.10.14
Il potere dell’istruzione
Una lezione per l’Occidente
di Nicholas Kristof


ORA che combattiamo contro lo Stato Islamico e altri estremisti, c’è qualcosa che il presidente Obama e tutti quanti noi possiamo imparare da loro. Da un certo punto di vista, infatti, loro combattono in modo più scaltro di noi.
Questi estremisti per le loro battaglie sul breve periodo utilizzano le armi, ma per mantenere il terreno conquistato sul lungo periodo combattono anche l’istruzione occidentale e il conferimento di poteri alle donne. Sanno che analfabetismo, ignoranza e oppressione femminile creano la “capsula di Petri” nella quale può svilupparsi l’estremismo.
È per questo motivo che lo Stato Islamico ha rapito Samira Salih al-Nuaimi, una coraggiosa signora irachena, difensora dei diritti umani a Mosul, ed è per questo motivo che la scorsa settimana l’ha giustiziata dopo averla torturata. È per questo motivo che i taliban hanno sparato a Malala Yousafzai quando aveva quindici anni e incoraggiava l’istruzione femminile. Ed è per questo motivo che Boko Haram ha rapito centinaia di studentesse nella Nigeria settentrionale e ha annunciato di volerle ridurre in stato di schiavitù.
In ciascuno di questi casi gli estremisti hanno riconosciuto una verità di fondo: la minaccia strategica più grande per loro non è un drone, ma una ragazza con un libro in mano. Dobbiamo noi stessi riconoscere questa verità e agire di conseguenza.
Per ragioni simili, chi finanzia l’estremismo ha investito molto nell’indottrinamento dei fondamentalisti. Ha costruito madrase wahabite in paesi musulmani poveri come Pakistan, Niger e Mali, e ha distribuito pasti gratuiti e borse di studio affinché i migliori studenti frequentassero le scuole nel Golfo.
Perché noi non dovremmo cercare di competere con loro?
Perché non dovremmo sì utilizzare le armi a breve termine, ma cercare anche di acquisire un vantaggio strategico concentrandoci sul fattore istruzione e sul conferimento di poteri alle donne per dare vita a società stabili, meno vulnerabili nei confronti della manipolazione estremista?
I bombardamenti aerei cominciati dagli Stati Uniti hanno rallentato l’avanzata dello Stato Islamico e impedito un genocidio contro la popolazione yazida in Iraq, ma è molto difficile vincere una guerra dall’alto. Ciò spiega perché, di fatto, dopo tredici anni di attacchi aerei americani, i taliban prosperino ancora in Afghanistan.
Purtroppo, noi non stiamo impegnandoci sul lungo periodo come fanno gli estremisti. Noi facciamo affidamento in modo eccessivo sull’armamentario dell’esercito, utilizziamo in modo inadeguato gli strumenti dell’istruzione, del maggior conferimento di poteri alle donne, e anche le comunicazioni. Noi siamo tattici. Gli estremisti, ahimè, sono strateghi migliori.
Non è una questione di risorse, perché le bombe sono di gran lunga più costose dei libri. La campagna militare degli Stati Uniti contro lo Stato Islamico — noto anche con le sigle Isis e Isil — costerà almeno 2,4 miliardi di dollari l’anno e forse infinitamente di più, secondo una prima stima del Center for Strategic and Budgetary Assessment di Washington.
D’altra parte, sembra che Obama abbia lasciato cadere la promessa fatta nel 2008 durante la sua campagna elettorale di dare vita a un fondo globale di due miliardi di dollari da destinare all’istruzione. In un solo anno gli Stati Uniti versano alla Global Partnership for Education, un’importante iniziativa multilaterale, molto meno di quanto spendano ogni settimana in Siria e in Iraq.
Questo è un aspetto nei confronti del quale il Congresso pare più lungimirante del presidente, dato che stanzia regolarmente più soldi per l’istruzione di base oltreoceano di quanto richiede Obama. La legge bipartisan “Education for All” porterebbe a livelli più alti tutto ciò. Speriamo solo che Obama l’appoggi.
Nessuno è così ingenuo da pensare che l’istruzione sia una panacea. I leader di al-Qaeda, compreso Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiti, avevano ricevuto un’istruzione universitaria. Rispetto agli standard della regione, Iraq, Siria e Libano avevano tutti livelli ragionevolmente alti di istruzione nella popolazione ed erano favorevoli alla parità di genere, ma ciò nonostante sono stati lacerati dalle guerre civili.
Tuttavia, la storia dell’ultimo mezzo secolo conferma che l’istruzione tende a far crescere una classe media più cosmopolita e offre alla popolazione una posta in gioco nel sistema. Oggi a Hong Kong vediamo come si comporta spesso la gioventù istruita: pretende la democrazia, ma lo fa pacificamente.
L’istruzione femminile sembra avere un impatto superiore rispetto a quella maschile, in parte perché le donne istruite hanno un numero di figli chiaramente minore. Da ciò deriva un tasso di natalità inferiore e una minore percentuale di giovani tra la popolazione, che quando è alta molto spesso è correlabile alla conflittualità della società civile.
Sul breve periodo io sono favorevole a misurati bombardamenti aerei contro lo Stato Islamico, ma essi dovrebbero essere soltanto una componente di una serie di provvedimenti e iniziative politiche atte a combattere l’estremismo. Il punto di partenza dovrebbe essere quello di garantire che i tre milioni di profughi siriani sfollati in Turchia, in Giordania e in Libano — specialmente le ragazze — possano ricevere un’istruzione scolastica. Al momento, invece, molte di loro non la ricevono proprio, e da uno studio pubblicato il mese scorso veniamo a sapere che la Siria ha fatto registrare la più grave inversione di tendenza nel conseguimento di risultati scolastici degli ultimi tempi, tanto che le percentuali dei bambini siriani iscritti a scuola in Libano non raggiungono neppure la metà dei bambini dell’Africa sub-sahariana.
Malgrado ciò, la richiesta dell’Unicef di finanziare l’istruzione dei siriani alla metà di agosto è stata soddisfatta soltanto nella misura del 40 per cento. Se non riusciremo a cogliere questa occasione, quei bambini in futuro saranno l’esca infiammabile delle guerre e dell’estremismo, e noi saremo costretti a continuare a sganciare bombe dall’alto per anni e anni.
Cerchiamo dunque di imparare qualcosa dagli estremisti, e anche da quelle coraggiose ragazze disposte a mettere a repentaglio la propria vita pur di farsi una cultura. Tutte loro comprendono benissimo il potere dell’istruzione, e così pure dovremmo fare noi.
Traduzione di Anna Bissanti © 2-014, The New York Times

La Stampa 6.10.14
Scoperte in Messico sei fosse comuni. Ansia per gli studenti
Almeno 9 corpi sotterrati da poco nei pressi di Iguala
Il governatore alle famiglie: forse li hanno ammazzati
di Filippo Fiorini

qui

Corriere 6.10.14
Hong Kong alla resa dei conti Il passo indietro degli studenti
Il governo non cede, timori per un intervento di forza della polizia
di Guido Santevecchi


HONG KONG Il più lucido, tra gli studenti esuberanti, spericolati e divisi, tra i professori ansiosi e amareggiati, è il cardinale Joseph Zen, che a 82 anni ha cercato per tutto il giorno di annodare fili sottilissimi per un dialogo. Lo incontriamo nel tardo pomeriggio mentre entra in riunione prima della scadenza dell’ultimatum.
Il governo di Hong Kong ha offerto al fronte che da 8 giorni occupa le zone nevralgiche della città di aprire colloqui sulla riforma costituzionale. A condizione che tolgano l’assedio ai palazzi governativi e i blocchi sulle strade. Entro le otto di questa mattina (le due di notte in Italia) il Chief Executive CY Leung ha chiesto che la city torni alla normalità, i dipendenti pubblici possano entrare negli uffici, le scuole riaprano. Altrimenti «la polizia è pronta a ristabilire l’ordine». Gli studenti replicano che il governo mente, che i ministeriali possono già entrare nei palazzi assediati. Se il fronte studentesco e quello degli anziani riunito sotto la sigla Occupy Central non cedono sarà «la tragedia», avvertono i moderati.
Il cardinale Zen è pallido nel caldo afoso di quest’autunno tropicale: «C’è la minaccia del coprifuoco — dice al Corriere — io ripeto e ripeto ai ragazzi che la ritirata non è sconfitta, che nell’arte militare c’è l’avanzata e poi il momento in cui ci si ferma. E bisogna anche riposare prima di una battaglia. E così dobbiamo fare noi in questa sfida per la democrazia, perché il governo vuole che ci stanchiamo, ci dividiamo, si incoraggiano le triadi mafiose ad attaccarci. Noi siamo stanchi dopo questi otto giorni in strada e siamo in posizione di svantaggio, dobbiamo fermarci».
Passano altre ore, si fa buio e poi notte. A Harcourt Road, la superstrada di Admiralty che è diventata campo trincerato dei ragazzi in rivolta, arriva Alex Chow, il giovane leader della Federazione degli studenti, che annuncia: «Abbiamo cominciato i preparativi per colloqui preliminari con il governo». Una formula tortuosa e sofferta che mostra quanto sia stato difficile sintetizzare le posizioni conflittuali della grande massa di ribelli, dai più radicali ai più ragionevoli. Alex però non dà risposta alla condizione principale del Chief Executive: la fine dell’occupazione. «Vediamo prima se il governo rispetterà la promessa di evitare nuovi attacchi contro di noi da parte delle bande filo-cinesi». Venerdì notte e ieri nella zona di Mong Kok, dall’altra parte della baia, cittadini esasperati dall’occupazione e teppisti prezzolati delle triadi hanno picchiato duro. Nella zona di Admiralty ieri notte c’erano ancora tanti ragazzi accampati, pronti a resistere all’ultimatum. E altri stanno arrivando da Mong Kok: il fronte democratico si raggruppa nel cuore della city.
Basterà la disponibilità del fronte studentesco ad avviare pre-colloqui per evitare la repressione? I democratici contestano la legge elettorale che limita il numero dei candidati per il voto del 2017 sul Chief Executive e impone che siano accettati dal partito comunista cinese. Ora qualcuno propone che nel 2017 la gente di Hong Kong possa scegliersi i candidati e la Cina mantenga un diritto di veto sul risultato. Sarebbe comunque una concessione importante: nel resto della Cina il suffragio universale non esiste.
Lasciando Admiralty dopo la mezzanotte ci ferma un ragazzo. «Mi chiamo Laurence Pang, Laurence, in italiano Lorenzo, come de’ Medici», dice, orgoglioso della sua preparazione. «Ho 18 anni, non voglio fare i soldi, chiedo solo democrazia». Dietro di lui il padre, operaio. Non ha paura di questa notte? «Loro sanno tante cose più di me, studiano, e tra vent’anni, quando noi non ci saremo più, saranno il popolo di Hong Kong».

La Stampa 6.10.14
A Hong Kong la piazza si divide
Via alcune barricate, ma i duri resistono: libereremo le strade quando Pechino ci ascolterà
di Ilaria Maria Sala


Gli appelli allarmisti sono arrivati da varie parti fin dalle prime ore della mattina: i principali quotidiani, i rettori delle università di Hong Kong, la Diocesi e perfino rispettati ex-funzionari governativi di alto rango, come Andrew Li, l’ex Segretario del dipartimento di Giustizia, avevano chiesto in modo accorato agli studenti di tornare subito a casa per «evitare la tragedia» e «salvaguardare la vostra incolumità».
Il governo aveva lanciato un nuovo ultimatum per lo sgombero delle strade, ma gli studenti l’hanno interpretato come una «tattica intimidatoria», e sono rimasti ad Admiralty, il quartier generale del Movimento degli Ombrelli. Alex Chow, uno dei leader studenteschi, in una breve conferenza stampa ha riferito che «libereremo le strade soltanto quando il governo garantirà di metterci al riparo dagli attacchi a Mongkok (un secondo punto nevralgico dell’occupazione, dove anche ieri i dimostranti sono stati presi di mira da gruppi di teppisti armati, pare assoldati da Pechino), e accetti un dialogo pubblico senza precondizioni».
Ciononostante, ieri gli studenti hanno fatto anche significative concessioni, per esempio assicurando che apriranno un varco nelle strade occupate che consentirà ai funzionari governativi di recarsi al lavoro lunedì mattina senza incontrare barriere. La giornata comunque è proseguita nell’attesa spavalda e timorosa di quello che succederà oggi (a rallegrare la piazza, in serata, è stato l’arrivo di un’alta statua dell’artista locale Milk, un uomo di legno con un ombrello in mano, ribattezzato «Umbrella Man» e lasciato anche lui ad occupare Admiralty).
Ma i limiti di un movimento che si vuole privo di leader cominciano di nuovo a mostrarsi, in particolare per l’incertezza sulla decisione di lasciare o meno Mongkok (che ieri sera continuava ad essere occupata, malgrado le violenze dei teppisti e la tensione generalizzata nel distretto). In ogni caso un nuovo tentativo di dialogo viene portato avanti dietro le quinte, fra alcuni leader studenteschi e rappresentanti governativi, ma ieri anche quest’ultima trattativa si è conclusa in un nulla di fatto, apparentemente per il rifiuto degli intermediari di fare concessioni agli studenti. Insomma, il braccio di ferro a Hong Kong non è ancora concluso.

Repubblica 6.10.14
Gli studenti verso la resa Via dai luoghi simbolo della rivolta anti-Pechino
Solo gli “irriducibili” restano in strada: “Non ci muoviamo” Ancora pestaggi da parte delle gang della Triade:165 feriti
di Giampaolo Visetti


HONG KONGIl pupazzo di un lupo, icona del «governatorefantoccio » CY Leung, viene impiccato al sovrappasso di Central e oscilla tra i grattacieli. I sogni resistono, ma ora dopo ora il potere leale a Pechino guadagna terreno e gli studenti pro-democrazia lo perdono. La “rivoluzione degli ombrelli” sembra aver perso l’attimo. I manifestanti gridano «lotteremo fino alla fine», ma nei loro occhi si legge, se non la resa, il disarmo. Una settimana fa i teenager erano riusciti a paralizzare la metropoli. Gli insorti minacciavano l’assalto ai palazzi del potere, il blocco del governo, la chiusura dei quartieri amministrativi e del business. Sono stati a un passo dallo scontro finale con la polizia. Ora si spaccano invece sugli ordini dei loro portavoce, impartiti via Twitter: ritirarsi da Kowloon, circoscrivere i presìdi ad Admiralty, sgomberare pure una delle arterie del distretto politico. Viene autorizzato «un corridoio»: i colletti bianchi della finanza e i tremila funzionari del governo potranno andare in ufficio e le scuole riapriranno.
La settimana delle ferie cinesi è finita e anche nell’ex colonia britannica si torna a fare i conti con la realtà. La rivoluzione pacifica rischia di ridursi a una manifestazione permanente, attenta a disturbare il meno possibile. In cambio di cosa? Concretamente, di nulla. Il chief executive non si è dimesso, di garanzie democratiche non c’è ombra. Il governo si limita a prospettare «un dialogo sulla riforma costituzionale ». «Non siamo contro Hong Kong — dice il primo eroe della rivolta, Joshua Wong — vogliamo solo che sia democratica». Accusa il potere di non fermare le violenze dei filo-cinesi contro gli studenti anti-Pechino, né di arrestare la repressione della polizia con idranti e spray urticanti.
Non può però negare l’amara evidenza: la gente di Hong Kong non scende in massa per le strade nemmeno di domenica e lascia i propri figli soli. Nei quartieri commerciali, tra Mong Kok e Causeway, la rabbia per gli affari perduti sfocia in una violenta contro-rivolta. Anche oggi attacchi e pestaggi, 165 feriti. Spadroneggiano i criminali delle triadi, i mercenari e i provocatori assoldati dal partito, ma migliaia di antimanifestanti non vogliono semplicemente avere problemi. «Noi per vivere dobbiamo lavorare — gridano — per voi paga il papà». La ri-cinesizzazione di Hong Kong appare compiuta, «un Paese e un sistema », con il consumismo che per la prima volta respinge, invece di favorire, la democrazia. Il presagio della tregua forzata, nel pomeriggio. Un uomo sale sul sovrappasso del metrò a Tamar, proprio sopra il quartier generale dei manifestanti. Minaccia di buttarsi. T-shirt nera e coccarda gialla, grida di essere per la democrazia, ma pure padre di tre figli che devono andare a scuola. Intima la rimozione delle barricate, convoca i capi. Un pro-democratico solo contro migliaia di prodemocratici, l’immagine di una Tiananmen alla rovescia 25 anni dopo. Ore con il fiato sospeso, le dirette che fanno il giro del mondo, prima di scoprire sul web l’ennesima messinscena della propaganda: l’aspirante suicida è uno stuntman, non ha figli e fa da scorta ai dirigenti comunisti. La folla gli grida «dai salta!», viene portato via, ma la beffa ha permesso a polizia e pompieri di sgomberare il cuore dei presìdi. «Questo regime — dice Benny Tai — sa solo mentire».
Per questo il problema ora è vedere se gli ordini dei delegati degli studenti e di Occupy central, ormai ridotti a impedire a CY Leung di sedersi nel suo ufficio, vengono rispettati. I dissidenti interni che non vogliono smantellare barricate e accampamenti, nella notte restano migliaia. «Non ci muoviamo — assicurano — è una rivolta spontanea, ognuno fa ciò che crede giusto». Il timore è che la repressione, scaduto l’ultimatum, si scateni solo contro gli irriducibili, disorientati. La protesta continua, ma se oltre ad essere pacifica tiene conto di affari, traffico e orari d’ufficio, neanche gli inguaribili ottimisti adesso vedono come possa donare la democrazia ai ragazzi che la chiedono. E se resta un sogno a Hong Kong, nel resto della Cina non è nemmeno un miraggio.

La Stampa 6.10.14
“Non serve la repressione. Dateci solo più libertà”
Lo scrittore: gli inglesi usarono la forza in Ulster, ne uscirono 30 anni di violenze
di Chan Ho Kei


Quando Apple ha annunciato che tutti gli utenti di iTunes, in occasione del lancio dell’iPhone6 potevano scaricare gratuitamente una copia dell’ultimo album della band irlandese degli U2, l’ho subito fatto. Dopo aver ascoltato l’ultima traccia ho provato sensazioni molto complesse. Il titolo della canzone è infatti «The Troubles».
Per i britannici e gli irlandesi, «The Troubles» non significa letteralmente «guai», ma è un nome convenzionale per il conflitto etnico-nazionalista scoppiato nell’Irlanda del Nord tra gli Anni 60 e il 1998. Anni segnati - soprattutto gli Anni 60 – da violenze e scontri tra nazionalisti e unionisti irlandesi. Uno tra gli incidenti di maggior rilievo che portò alla ribellione avvenne il 30 gennaio 1972.
Quel giorno nel Bogside, decine di migliaia di cittadini marciavano e protestavano contro la legge che prevedeva l’incarcerazione senza processo. L’esercito britannico chiuse un paio di strade per impedire ai manifestanti di raggiungere il Guildhall (dove si riuniva il consiglio comunale), ma alcuni adolescenti non si fermarono e assaltarono le barricate. Lanciarono pietre contro la polizia. La polizia reagì usando gas lacrimogeni, idranti e proiettili di gomma.
Dopo che i soldati britannici ebbero ricevuto una segnalazione da parte dell’intelligence secondo la quale un cecchino dell’Ira operava nelle vicinanze, fu ordinato loro di usare vere munizioni contro la folla. Furono uccisi 14 civili e solo uno di loro, probabilmente, era in possesso di una bottiglia Molotov. Gli altri 13 erano disarmati, furono colpiti mentre tenevano le mani alzate sventolando un fazzoletto bianco o gridavano «non sparate». Questo massacro segnò il punto di svolta del conflitto - i nordirlandesi presero a odiare profondamente l’esercito britannico, ritenendo che il governo fosse completamente inaffidabile. L’Ira ottenne ancora maggior sostegno da parte della popolazione e i successivi 20 anni videro un infinito susseguirsi di attentati ed episodi di guerriglia.
Il 30 gennaio 1972 era una domenica. Quanto accadde è noto come la «Domenica di sangue», e ha ispirato un’altra celebre canzone degli U2, «Sunday, bloody Sunday».
Il 28 settembre 2014, di nuovo una domenica, nella regione amministrativa speciale di Hong Kong, decine di migliaia di manifestanti che protestavano contro una legge elettorale ingiusta erano asserragliati davanti alla sede del Governo centrale. Gli adolescenti hanno rotto le barricate e, infine, la strada è stata occupata da manifestanti. La polizia ha iniziato usando gas lacrimogeni e tenendo pronti cannoni ad acqua e proiettili di gomma. Di fronte ai gas lacrimogeni e agli spray al pepe i contestatori hanno alzato le mani, mostrando che erano disarmati. Due incidenti bizzarramente simili, salvo che a Hong Kong nessuno ha lanciato pietre e non sono stati sparati colpi di arma da fuoco. Potevamo essere molto vicino, appena a un passo, da un’altra «Domenica di sangue».
Ora, intendo dire che, se il governo di Hong Kong (agli ordini della Cina) continuerà a usare la repressione, le bugie e i giochetti politici per gestire la situazione in città, temo che imboccheremo la medesima strada presa dall’Irlanda del Nord in passato. Quando si trova di fronte all’ingiustizia, la gente cerca di negoziare. Quando i negoziati falliscono, la gente manifesta. Quando le manifestazioni non raggiungono lo scopo, la gente occupa. Quando l’occupazione fallisce e la gente ha perso la speranza, può agire in modo estremo, come nel caso degli attacchi dinamitardi o degli assassini politici dell’Ira. L’occupazione richiede decine di migliaia di persone, ma per un attacco servono appena pochi disperati. Sarebbe l’incubo peggiore per i cittadini e il governo di Hong Kong. Ma anche per il governo cinese. Questo tipo di incidenti non avverrà in una sola città; nel periodo dei «Troubles» anche Downing Street fu bersaglio dei mortai. L’allora primo ministro John Major non si fece un graffio per pura fortuna.
L’Accordo di Belfast è stato firmato il Venerdì Santo, infatti è noto anche con questo nome. Non credo che il governo di Hong Kong possa raggiungere un accordo con i manifestanti già venerdì prossimo, ma spero che ne avremo uno in qualche momento. Quello che garantisce la pace in Irlanda del Nord è che il governo centrale accetta di condividere il potere con la popolazione locale. Il governo britannico ha preso una sola decisione sbagliata nel 1972 e i suoi guai sono andati avanti per 30 anni. Supplico i leader di Hong Kong e della Cina di fare la cosa giusta, di non ripetere l’errore fatto dagli inglesi.

Corriere 6.10.14
Dilma vince ma non conquista il Brasile
La leader uscente in testa con il 40,9% va al ballottaggio con Neves, 34,4%
Fuori gioco Silva
di Rocco Cotroneo


SAN PAOLO Altre tre settimane di campagna elettorale attendono il Brasile. La presidente uscente Dilma Rousseff le affronterà con un buon vantaggio, ma il suo rivale è assai più prossimo di quanto indicavano i sondaggi della vigilia. Il risultato del primo turno assegna a Dilma circa il 40,9 per cento dei voti e il ballottaggio sarà con Aécio Neves, Psdb, lo storico partito rivale, che è salito a sorpresa fino al 34,4. Deludente il finale per l’ambientalista Marina Silva: appena il 21 per cento dei voti. In teoria gli elettori che vorrebbero metter fine al lungo potere del Partito dei Lavoratori sono la maggioranza nel Paese, ma politicamente la somma non è garantita. Anche perché il Paese è spaccato in due per geografia e livello di sviluppo. Gran parte del vantaggio della Rousseff arriva dal Nordest, dove più forte è l’effetto dei programmi sociali del governo. Mentre, per esempio, nella ricca San Paolo l’avversario Neves ha quasi il doppio dei suoi voti. Nelle prossime ore si saprà se Marina Silva suggerirà ai suoi elettori di riversare i consensi sul secondo arrivato o lascerà libertà di voto. Il secondo turno si svolgerà il 26 ottobre.
Sin dai primi giorni della campagna elettorale, i sondaggi indicavano che la partita sarebbe finita soltanto al secondo turno. Ma la sfida non ha risparmiato colpi di scena. La morte in un incidente aereo del candidato Eduardo Campos, il 13 agosto, ha lanciato sulla scena elettorale la sua vice, Marina Silva. Nel giro di pochi giorni, l’ex ministra (ribelle) di Lula ha scalato i sondaggi arrivando a insidiare la leadership della Rousseff.
Per settimane la possibile sfida tra le due donne ha monopolizzato l’attenzione dei brasiliani, con la Silva in vantaggio. A quel punto la macchina del partito di governo ha scatenato la controffensiva. Grazie soprattutto a spazi di propaganda tv cinque volte più lunghi della sua avversaria, la Rousseff ha demolito la fragile figura di Marina, in un mix di bugie e verità. Il sistema politico ha fatto il resto: in Brasile, oltre alla tv, contano le alleanze e i potentati locali, distribuiti su un territorio enorme. Senza appoggi e strutture, la candidatura di Marina ha iniziato a sciogliersi e i suoi consensi sono crollati velocemente. Gran parte dei voti destinati alla Silva sono confluiti sull’altro candidato di opposizione, Aécio Neves, che due settimane fa era prossimo a gettare la spugna.
La principale incognita delle prossime tre settimane di campagna è la tenuta di Dilma Rousseff, la quale potrebbe non guadagnare facilmente i consensi che le sono mancati al primo turno. L’opposizione punta sulle rivelazioni scottanti su uno scandalo che coinvolge il colosso petrolifero Petrobras, controllato dallo Stato. Mazzette di milioni di dollari sarebbero state deviate verso politici dell’area di governo, ed esiste il sospetto che denaro possa essere arrivato anche alla campagna della «presidenta».

Corriere 6.10.14
Un Paese spaccato su assistenza sociale e rilancio economico
di R.Co.


Oltre l’80% dei brasiliani chiede cambiamenti, lo scorso anno scesero in strada in milioni, e si pensava che la rabbia popolare avrebbe investito persino i Mondiali. Ma alle urne prevale la cautela. La geografia del voto conferma che il Nordest povero resta la roccaforte del lulismo, oggi rappresentato da Dilma Rousseff: milioni di famiglie ricevono sussidi del governo e non vogliono rischiare di perderli. Anche il vento liberale che soffia dal Sud più ricco, rappresentato dalla clamorosa rimonta di Aécio Neves, non è poi una gran novità. Il suo partito, il Psdb, è stato al governo per otto anni con Fernando Henrique Cardoso, le sue ricette economiche sono note, la classe dirigente che vorrebbe portare al governo anche. E Marina Silva, definita outsider, è stata senatrice e ministro per anni, a fianco di Lula. Comunque vada a finire, il Brasile avrà scelto di non rischiare troppo. Il malumore della nuova classe media su corruzione, servizi pubblici, inflazione ha mandato un forte messaggio ai candidati (parlano tutti di cambiamento), ma senza riuscire a stravolgere un sistema politico chiuso e poco permeabile alle novità .

Corriere 6.10.14
1914-18, Europa in fiamme
Quando i governi agirono come apprendisti stregoni
di Antonio Carioti


Le lezioni e le ferite profonde del primo conflitto mondiale Un fallimento per le classi dirigenti dell’intero continente F orse a nessuno come ai governanti europei del 1914 si adatta la metafora dell’apprendista stregone, che scatena forze oscure senza essere in grado di controllarle. A cento anni di distanza, si continua a discutere animatamente circa le responsabilità per l’esplosione del conflitto: molti le addebitano principalmente alla Germania imperiale, altri puntano il dito verso la Russia zarista, altri ancora ritengono che le colpe vadano distribuite fra tutte le principali potenze coinvolte. Non c’è dubbio però che nessuno si aspettava di mettere in moto un cataclisma così imponente, capace di sconvolgere l’Europa e il mondo intero, aprendo ferite che ancora non si sono del tutto rimarginate.
Nel ricostruire le vicende della Prima guerra mondiale, gli storici hanno spesso comprensibilmente privilegiato il fronte occidentale: le regioni contese della Francia, più un lembo di Belgio, in cui si combatterono le battaglie più sanguinose e venne alfine deciso l’esito dello scontro. Per esempio il conflitto tra Italia e Austria-Ungheria è stato in genere considerato secondario, così come gli avvenimenti dei Balcani e del Medio Oriente. Qualche attenzione in più è stata rivolta alla Russia, anche se poi la guerra persa dalle armate dello zar contro i tedeschi e gli austro-ungarici è stata in larga misura oscurata dall’interesse suscitato, anche per ragioni ideologiche, dalla conseguente rivoluzione bolscevica.
Eppure basta riflettere sulle origini lontane di alcuni dei conflitti internazionali più gravi attualmente in corso, in Ucraina, in Siria e in Iraq, per rendersi conto che essi discendono, sia pure alla lontana, dalla caduta degli imperi ottomano, zarista e asburgico, abbattuti dalla Prima guerra mondiale. Lo stesso può dirsi della tragedia che ha vissuto negli anni Novanta l’ex Jugoslavia.
Per questo merita un plauso, e particolare attenzione da parte dei lettori, un’opera come quella di David Stevenson La Grande guerra. Una storia globale : la prima uscita, in due volumi, della nuova iniziativa avviata dal «Corriere della Sera » e dalla «Gazzetta dello Sport». Stevenson infatti, nella sua ricostruzione ampia, ma non sterminata, riesce a rendere conto di vari aspetti del conflitto e delle sue molteplici conseguenze geopolitiche, anche nelle zone periferiche d’Europa e nei territori coloniali. Solo in una prospettiva del genere è possibile cogliere appieno i fili che legano il primo conflitto mondiale al secondo e soprattutto rendersi conto di quanto continuino a incidere i traumi prodotti nel periodo 1914-18 sul mondo contemporaneo.
Originale è l’approccio anche di altri libri compresi nella «Biblioteca della Grande guerra». Si pensi al lavoro di Antonio Gibelli La Grande guerra degli italiani , che non s’incentra sulle vicende militari, ma sulle profonde trasformazioni che s’innescarono allora nel tessuto sociale del nostro Paese. Oppure al saggio di Florian Illies sul 1913, anno di grande fioritura intellettuale, ma anche incubatore delle tensioni che poi sarebbero esplose con violenza inaudita. Molto interessante anche lo studio di Margaret MacMillan 1914 , che sarà offerto ai lettori in due volumi come il saggio di Stevenson, da cui emerge la scarsa consapevolezza iniziale delle classi dirigenti che trascinarono l’Europa nel baratro.
In effetti, esaminata un secolo dopo, sopite le passioni nazionaliste, la Prima guerra mondiale ci appare un grande fallimento collettivo nel compito, certamente arduo, di gestire la transizione del nostro continente verso la modernità. Nessuno si rese conto che un conflitto generalizzato non avrebbe prodotto veri vincitori, ma avrebbe lasciato tutti esausti e rabbiosi, dopo anni trascorsi conducendo una lotta feroce, in cui il valore della vita umana era stato quasi azzerato.
Se il periodo tra le due guerre vide l’ascesa dei movimenti e dei regimi totalitari, che poi produssero un’altra e più sanguinosa conflagrazione, ciò si deve anche alla miopia di chi non individuò altro rimedio che il ritorno alle armi per risolvere le tensioni che attraversavano il continente.
L’apocalisse della modernità è il titolo del libro di Emilio Gentile incluso nella collana. È una formula che esprime bene la profondità del trauma, da cui uscirono scosse le convinzioni ottimistiche sul progresso umano che si erano diffuse nel periodo precedente. Una vicenda dalla quale l’umanità ha disgraziatamente ancora molto, troppo, da imparare.

il Fatto 6.10.14
Quando il problema è la fame degli altri
di Furio Colombo


Sono tempi difficili e, a giudicare dal libro di cui sto per parlare, sono sempre stati tempi difficili. Il fatto è che anche i tempi difficili non sono uguali per tutti. Per esempio, nella storia (vera) che sto leggendo un conto è la caotica fine della guerra mondiale per braccianti e sbandati in una povera campagna italiana di un Sud che era già disperato. Un altro conto è il quieto silenzio - rotto all’improvviso da rivolta e morte - di un palazzo patrizio dove alcune signore - ricche e isolate nel loro privilegio, senza avvisaglie e senza notizie, dunque senza preoccupazioni per se o per gli altri - non sanno neppure di essere privilegiate. Guardati dalla mia fame (edito da Nottetempo) è il titolo della storia impossibile e vera di cui sto parlando, scritta in due modi radicalmente diversi e altrettanto importanti da Milena Agus e Luciana Castellina.
AGUS È SCRITTRICE NOTA DI FICTION. Ca-stellina è politica, giornalista, scrittrice anche più nota per la sua immagine pubblica. Direte che si sono divise il compito secondo vocazione personale e pubblica: Milena Agus racconta, anche con qualche “cadenza” dell’immaginazione, da narratrice. Luciana Castellina dà alla storia l’impianto storico, politico, ma anche sociologico e lo fa, da scrittrice vera, almeno altrettanto bene.In altre parole, il libro nasce dall’idea straordinaria di narrare due volte una storia, dai due punti di vista, soggettivo (la tempesta di sentimenti che mette in movimento il tumulto della rivolta, il tutto quasi all’oscuro della comprensione di chi fa e di chi patisce) e oggettivo (quali sono i fatti, quando e dove). Un accenno all’evento discusso per poter dire una cosa in più. Siamo in Puglia, in uno di quei centri grandi e piccoli del Sud italiano ai tempi del latifondo (Palazzi di proprietari in città, immensi terreni da coltivare, costringendo i braccianti a marce quotidiane e poche ore di sonno ogni giorno).
Siamo nel momento in cui sta nascendo la prima vera rivoluzione da secoli: il sindacato. Siamo nel momento in cui è appena finita la seconda disastrosa guerra mondiale ma l’Europa sopravvissuta è ancora accanto alle macerie e ancora alla fame. E qui avviene la scissione di un poderoso protagonista pubblico: i braccianti che ascoltano Di Vittorio stanno per diventare massa politica, ma sono ancora folla spaventata. Quando si sentono o si credono di sentire colpi di fucile, una parte di quella folla assale il palazzo più ricco, si abbandona a un linciaggio, fatto raro, terribile selvaggio, ma non inspiegabile, perchè manca qualunque forma di comunicazione e di contatto.
E questo è il lavoro straordinario che va riconosciuto ad Agus, Castellina e Nottetempo. Infatti il vero tema del libro è che la politica nasce dal sangue per far finire il sangue. E mostra che è tragico il momento in cui avviene il contrario, quando la politica finita trasforma la massa di militanti in folla di disperati.

il Fatto 6.10.14
Morire per la libertà. Ma uccidere?
Bruto e la domanda impossibile
di Tomaso Montanari


Michelangelo Buonarroti, Bruto, Firenze, Museo del Bargello

Michelangelo non voleva farli, i ritratti. Gli pareva che non fosse così importante ricordare per sempre la faccia di qualcuno: quando gli fecero notare che una sua statua non assomigliava al principe che avrebbe dovuto rappresentare, rispose: «A chi importerà tra mille anni?». Forse proprio per questo Michelangelo accettò invece di fare il ritratto di Bruto, un uomo vissuto quasi milleseicento anni prima. Bruto non è una figura facile, da amare: perché uccise il suo padre adottivo, Giulio Cesare, quando questi voleva uccidere la repubblica e farsi re. Per secoli ci si era chiesti: si può uccidere un tiranno? La libertà di tutti vale la vita del nemico di questa libertà? Il poeta che Michelangelo amava di più, Dante, aveva scritto che la libertà è così dolce che gli uomini sono disposti a morire pur di non perderla. A morire: ma anche ad uccidere?
Eppure Michelangelo volle scolpirlo, questo ritratto di Bruto. Perché ai suoi giorni il verso di Dante sulla libertà era scritto sulle bandiere verdi di chi combatteva per la libertà di Firenze, mortalmente minacciata da un nuovo Cesare: Cosimo I de' Medici, insieme magnifico signore e terribile tiranno. Nel 1538 si uccise in prigione Filippo Strozzi, il capo della resistenza che combatteva contro Cosimo. Egli lasciò una lettera bellissima e terribile, bagnata dal suo stesso sangue. E in quella lettera Filippo chiamava Cosimo con il nome del tiranno ucciso da Bruto: «E te, Cesare, prego con ogni reverenza t’informi meglio dei modi della povera città di Firenze, riguardando altrimenti al bene di quella, se già il fine tuo non è di rovinarla». Michelangelo, che pure era cresciuto in casa Medici, la pensava come Filippo Strozzi: amava la libertà e la Repubblica, e quando toccò a lui la difese sul serio, lavorando a rafforzare le mura di Firenze. E quando, infine, fu chiaro che la partita era persa per sempre, non volle rimetter più piede nella sua Firenze ridotta in schiavitù.
Non aveva un carattere facile, Michelangelo. E anche il suo Bruto è difficile: con il suo collo taurino, lo sguardo duro, i capelli irrisolti come il nostro giudizio su di lui e sul suo gesto terribile. Non ci guarda negli occhi, Bruto: e di questo gli siamo grati. Così come siamo grati di essere nati in una delle rare epoche della storia umana in cui la libertà dobbiamo difenderla non con la forza del pugnale, ma con quella delle parole e delle idee. Le idee di Bruto: che saranno vive in questo marmo anche tra mille anni.

La Stampa 6.10.14
Non si uccide così anche Riccardo III?
Undici ferite in testa e sul corpo: l’autopsia sui resti ritrovati due anni fa rivela la ferocia delle battaglie del ’400 E contribuisce a riabilitare la figura del sovrano inglese
di Vittorio Sabadin


«Un cavallo, un cavallo! Il mio regno per un cavallo!» è una delle frasi più famose scritte da William Shakespeare, che la fa pronunciare a Riccardo III, alla fine dell’omonima tragedia. Il re ha ormai perso la battaglia di Bosworth Field, i suoi amici lo invitano a fuggire, ma lui rifiuta. Vuole un cavallo, per trovare e uccidere Enrico Tudor conte di Richmond, sbarcato con un esercito di mercenari dalla Francia in Inghilterra per sottrargli il trono. Il duello ha luogo, ma è Riccardo a essere ucciso: finisce la trentennale «Guerra delle due rose» tra i Lancaster e gli York, finisce l’era dei sovrani plantageneti e comincia quella dei Tudor.
Ma Riccardo III non fu ucciso come Shakespeare ha scritto nel 1591, un secolo dopo i fatti. La sua fine non fu così cavalleresca: venne massacrato da colpi inferti al cranio e al corpo, e colpito ancora quando era a terra ormai morto. Il cadavere fu spogliato e caricato riverso su un cavallo perché tutti lo vedessero mentre veniva trasportato a Leicester, e i mercenari di Enrico lo trafissero altre volte, per disprezzo ed estrema umiliazione. Il corpo del re fu buttato in una fossa, vicino alla chiesa dei Francescani, senza la carità di una bara o anche solo di un lenzuolo a ricoprirlo. Lì è rimasto per 500 anni, mentre intorno tutto cambiava: si sono costruite nuove case, gettate di cemento hanno sfiorato le sue ossa mancandole di pochi centimetri, e alla fine l’asfalto di un parcheggio comunale ha ricoperto la tomba.
I resti di Riccardo III sono stati ritrovati nel 2012 e un anno dopo, attraverso il confronto con il Dna di una discendente di 16° grado rintracciata in Canada, la sua identità è stata confermata «oltre ogni ragionevole dubbio». Ma bastava osservare quello scheletro deforme, con la spina dorsale curvata da una grave forma di scoliosi, con una spalla più alta dell’altra, per riconoscere il sovrano «monco e deforme, plasmato da rozzi stampi» descritto da Shakespeare. Uno dei più completi esami autoptici mai condotti su resti umani ha ora permesso di scoprire come è morto Riccardo III e anche di farsi un’idea della ferocia delle battaglie medievali, molto lontane dall’epica cavalleresca di Ivanhoe descritta da sir Walter Scott. Mettendo a confronto i resoconti dello scontro di Bosworth Filed con l’esame dello scheletro di Riccardo, possiamo ricostruire meglio come sono andate le cose e forse riabilitare un poco uno dei sovrani più maltrattati dalla storia.
Il 22 agosto 1485 il re, al comando di 10.000 uomini, osservava dall’alto di una collina i 5.000 soldati di Enrico, che sembravano una facile preda. Su un’altra altura c’erano i 6.000 mercenari della famiglia Stanley, che gli aveva promesso appoggio; poco lontano erano pronte le truppe del conte di Northumberland, un altro alleato. Non c’erano ragioni di preoccuparsi. Riccardo lanciò al galoppo contro il nemico i suoi 1.500 cavalieri, nell’ultima grandiosa carica del Medioevo. Una terrificante massa di ferro e di carne piombò giù dalla collina, con il re in mezzo, la spada sguainata pronta per il sangue di Enrico. Ma, incredibilmente, l’esercito nemico non fu annientato dalla carica, e resistette. Poco male, se gli Stanley e Northumberland fossero intervenuti. Ma gli Stanley erano noti per stare sempre a guardare le battaglie, per vedere chi stava per vincere e andare in suo aiuto, una abitudine che non è nata in Italia come comunemente si crede. Riccardo non si fidava, e per garantirsi aveva preso in ostaggio il figlio di Lord Thomas Stanley. Gli mandò a dire che lo avrebbe fatto uccidere, se non fosse immediatamente venuto in soccorso con le sue truppe, e Stanley gelido rispose: «Dite a Riccardo che faccia pure, ho altri figli». Anche Northumberland non si mosse e quella che era sembrata una scontata vittoria si trasformò in una tragedia.
Appiedato nella foga della carica, Riccardo aveva perso l’elmo. L’esame del cranio ha individuato due profonde ferite mortali, una causata da una spada, l’altra probabilmente da un’alabarda, l’asta sormontata da una scure e da una picca in uso alla fanteria. La spada ha trapassato il cranio da parte a parte; l’alabarda ha aperto uno squarcio rotondo di alcuni centimetri. Sulle ossa ritrovate a Leicester ci sono i segni di 11 ferite, quasi tutte inflitte dopo la morte. Denudato, il cadavere è stato caricato su un cavallo e ripetutamente colpito: ne sono rimaste tracce sulla mascella, tagliata da un coltello, su una costola, su un braccio. Una spada ha penetrato la natica destra, rompendo le ossa del bacino. L’oltraggio è continuato fino alla sepoltura, con il cadavere gettato in una fossa profonda pochi centimetri, le mani legate forse per facilitarne il trasporto. Mancano i piedi, e non si sa perché.
Si è sempre pensato che, per quanto orribile sia stata la sua fine, Riccardo se la fosse meritata. Tanta cattiva fama è dovuta in gran parte a Shakespeare, che lo dipinge come un mostro deforme, gobbo e rachitico che uccide la moglie, il fratello e i due nipoti per arrivare al trono. Ma il ritrovamento dei suoi poveri, martoriati resti ha già aperto un dibattito revisionista, che presto lo riabiliterà e cancellerà le menzogne diffuse dai Tudor per legittimare la loro conquista del potere. E anche Shakespeare andrà riletto con più attenzione. Siamo inorriditi dalle azioni di Riccardo III, ma anche incantati dalle sue parole, dalla sua capacità di vendere la menzogna come verità, di fare sembrare altruistiche le più egoistiche iniziative, di trasformare in un vantaggio situazioni sfavorevoli e di servirsi di chiunque gli possa essere utile. Descrivendo un tragico re del Medioevo, Shakespeare ci parlava della politica dei nostri giorni.

Repubblica 6.10.14
Le vite degli altri (italiani) spiati dalla Stasi
Gli agenti della Ddr controllavano anche il nostro paese: ne parla lo studioso Gianluca Falanga che ha raccolto in un libro carte e documenti segreti
La sterminata documentazione venne distrutta in parte nel 1990
I confidenti erano ovunque: a Botteghe Oscure ma anche nel Psi e nella Dc
Ci sono relazioni dettagliate sulle correnti dei partiti, l’economia e sullo stesso Pci
di Simonetta Fiori


«DEVO ammetterlo, sono rimasto sorpreso: centinaia e centinaia di carte segrete sull’Italia. Il faldone che mi sono trovato davanti era impressionante: il più spregiudicato servizio segreto comunista ha spiato il nostro paese per decenni, specie tra i Sessanta e gli Ottanta. Ne ha seguito meticolosamente le crisi e gli scandali, le relazioni con gli altri Stati, il potenziale delle forze armate e la qualità della ricerca scientifica ». Da tempo Gianluca Falanga collabora a Berlino con il museo della Stasi, il “ministero della paranoia” a cui ha dedicato due anni fa un saggio molto documentato (Carocci) . Ora s’è preso la briga di andare a studiare le informative che ci riguardano tra le migliaia di tabulati estratti dal cervellone del Sira, ossia le banche dati dell’intelligence della Germania Orientale. Il risultato di queste ricerche è in un libro in uscita sempre da Carocci, Spie dall’Est, la prima indagine sugli agenti della Ddr nella penisola.
La documentazione ovviamente è parziale. «Alla caduta del Muro autentici “gruppi di macerazione” polverizzarono oltre il 90 per cento dell’archivio cartaceo, tutti i nastri magnetici e migliaia di file. Però nella confusione qualcosa è sfuggita di mano. E una copia di back-up con sezioni dell’archivio informatico è stata ritrovata a sud di Berlino. È su quei documenti che ho lavorato per oltre un anno».
Ma perché si sorprende dell’attenzione della Stasi all’Italia? Da noi esisteva il più grande partito comunista d’Occidente.
«Certo, ma all’interno del patto di Varsavia la vigilanza sull’Italia era di competenza di altri paesi. E invece ho trovato relazioni dettagliate sul sistema politico, sulla dialettica tra le correnti dei partiti, sull’economia pubblica e privata, e naturalmente sul Pci. Lo spionaggio era funzionale sia alle strategie nazionali di Berlino Est, specie sul versante commerciale, sia agli interessi degli “amici” ossia il Kgb sovietico. Non a caso la vigilanza della Stasi cresce eccezionalmente nel periodo tra il 1975 e il 1978, segnato dall’avanzata elettorale di Berlinguer ».
Non sembra che gli agenti della Ddr ne siano troppo contenti.
«Erich Honecker, leader del Partito socialista, e Berlinguer erano molto diversi. Il primo condannava ogni forma di comunismo lontana da quella so- vietica, mentre Berlinguer era “un sardo ascetico di origini aristocratiche” — così si legge in un appunto della Stasi — che suscita molta diffidenza a Mosca per la sua “volontà autonomistica”. In tal senso sono molto interessanti le carte conservate nell’archivio del Sed, il partito-Stato di Honecker, presso il Bundesarchiv di Coblenza. Lì ho trovato una serie di colloqui inediti in Italia tra Hermann Axen, responsabile delle relazioni internazionali del Sed, e il suo omologo sovietico Boris Ponomarev, insieme al vice Zagladin. Questi dialoghi, intercorsi tra il 1973 e il 1978, aprono uno squarcio su ciò che si muoveva a Mosca e a Berlino nei confronti del compromesso storico e dell’evoluzione eretica del Pci».
Che cosa emerge?
«Il blocco comunista si trovò spiazzato di fronte all’ascesa del Pci. La ferma volontà di Enrico Berlinguer di non forzare l’ordine democratico rendeva il Pci un pericolo per l’egemonia sovietica. Il malumore è evidente sin dal febbraio del 1973 quando Ponomarev si lamenta con Axen perché i compagni italiani non sono disposti alla lotta armata. “L’Italia è una polveriera pronta ad esplodere da un momento all’altro”, si legge nell’appunto, “e il partito deve preparare il popolo a una tale evenienza. Il compagno Pajetta ha chiesto al Pcus se il Pci deve acquistare le armi. La risposta del Pcus è stata che la classe operaia deve avere sempre chiare tutte le forme di lotta possibili”. I sovietici premono sul Pci agitando il fantasma golpista e neofascista. Ma lamentano che i compagni italiani non vedano alcun serio politico nell’immediato».
Nel settembre di quello stesso anno Berlinguer propone la strategia del compromesso storico.
«Una formula guardata da Mosca con grandissimo sospetto. In una conversazione del 20 ottobre del 1976 Ponomarev ribadisce la sua avversione: “I compagni italiani non vogliono capire che non si può restare sempre sulla difensiva. Anche se v’è l’opportunità di una via pacifica, ogni partito comunista deve essere sempre pronto alla lotta armata”. Concetto riaffermato con forza in un colloquio con Zagladin: “Un partito comunista deve essere sempre pronto a violare i limiti della democrazia borghese”. E nel giugno del 1977, in un nuovo incontro con Axen a Praga, Ponomarev ha modo di tornare sugli “errori” del Pci».
Una tensione destinata a crescere nell’autunno di quello stesso anno.
«Sì, proprio da una tribuna moscovita, per il sessantesimo anniversario della rivoluzione bolscevica, Berlinguer tesse l’elogio della democrazia. Ponomarev non si limita ad abbandonare la sala, ma medita qualcosa di più serio. In un appunto inedito del gennaio del 1978 confida ad Axen che il Pcus ha esaurito la pazienza e che era venuto il momento di richiamare agli ordini il Pci. La posta in gio- co era troppo alta per permettere a un partito tanto influente di assumere una politica ormai apertamente antisovietica. “Il compagno Ponomarev”, si legge nella nota, “ci ha informato che il comitato centrale del Pcus ha confermato la definizione di un piano speciale di misure contro l’eurocomunismo”. Non sappiamo quale fu il seguito. Eravamo alla vigilia del sequestro Moro, che avrebbe definitivamente seppellito il compromesso storico».
Sulle Brigate Rosse emergono novità?
«Esiste un’abbondante documentazione, soprattutto all’indomani del rapimento del leader democristiano. Ma in queste carte manca una prova o anche un solo indizio che dimostri una frequentazione tra i servizi e le Br. È molto interessante un appunto che risale al 1980. L’antiterrorismo della Stasi, una struttura ambigua che infiltrava le organizzazioni di lotta armata, mette all’ordine del giorno il proposito di entrare in contatto con le Br. Pochi mesi dopo avrebbe individuato nella moglie del brigatista milanese Piero Morlacchi, la tedesca Heidi Peusch, il potenziale informatore nell’organizzazione armata. Ma il partito vieta di reclutarla all’interno della Germania Est. Le carte si fermano qui».
Un altro capitolo controverso è quello relativo al terrorismo altoatesino.
«La Stasi era interessata a tenere vivo il focolaio di violenza che pesava sulle relazioni tra Roma e Bonn. Un fascicolo interessante è quello dedicato al neonazista Peter Weinmann, dal 1982 a libro paga della Stasi ma già agente dei servizi tedeschi dell’Ovest e dal 1976 confidente della Digos italiana in Alto Adige. I documenti sono gravemente menomati dagli omissis. Fatto sta che tra il 1986 e il 1988 il terrorismo altoatesino conobbe una sanguinosissima ripresa con attentati dinamitardi più simili a quelli che accadevano a Berlino Ovest — dietro i quali c’era la Stasi — che a quelli tradizionali dei gruppi altoatesini. Con la caduta del Muro il fenomeno si esaurì all’improvviso».
Chi erano le spie italiane al servizio della Stasi?
«Questo è più difficile da ricostruire. Il potente servizio segreto aveva confidenti ovunque, a Botteghe Oscure ma anche nel Psi e nella Dc, nelle amministrazioni delle banche e delle grandi imprese pubbliche. Confidenti non sempre consapevoli. La spia italiana più importante è “Optik”, che da Bologna offre un’enorme quantità di informative sulla sicurezza militare. Un ingegnere o comunque un esperto del settore ».
E gli 007 tedeschi attivi in Italia?
«Il caso più spettacolare è quello dell’agente Mungo, alias Ingolf Hähnel, un pluridecorato tenente colonnello dell’intelligence che nel 1977 riesce a infilarsi dappertutto, presso la segreteria di Stato vaticana dove incontra Angelo Sodano e dentro Botteghe Oscure, dove può contare su un dirigente che avrebbe accompagnato Berlinguer nel viaggio in Ungheria e in Jugoslavia. Ovviamente il grosso delle spie agiva presso l’ambasciata italiana a Berlino Est. La missione diplomatica italiana era tenuta sott’occhio da un esercito di segretarie, donne delle pulizie, dame di compagnia, autisti, giardinieri e interpreti. Specialmente negli anni Ottanta il regime di Honecker temeva che gli italiani aiutassero i tedeschi orientali a fuggire oppure che intrattenessero rapporti con i dissidenti».
Tra i “sorvegliati speciali” figura anche Lucio Lombardo Radice.
«Sì, la vigilanza sul matematico risale agli anni Sessanta, dopo la sua protesta pubblicata sull’ Unità per la cacciata dall’Università di Humboldt del fisico dissidente Robert Havemann. Fu bollato dalla Stasi come “un elemento borghese”, rimasto legato alla sua classe di appartenenza nonostante la militanza comunista. E quando nel 1982 morì Havemann, il regime vietò a Lombardo Radice l’ingresso nella Ddr».

IL LIBRO Spie dall’Est di Gianluca Falanga (Carocci, pagg. 288, euro 19) Esce il 9 ottobre

Repubblica 6.10.14
Modigliani
I volti, le donne, gli amici del genio per sempre giovane
A Palazzo Blu Pisa dedica una grande rassegna al maestro livornese ricostruendo il clima irripetibile della Parigi di inizio secolo
di Lea Mattarella


MODIGLIANI et ses amis, ovvero benvenuti nella leggenda. Quella del pittore livornese, una concentrazione di genio e sregolatezza portata all’estremo, ma anche quella della Parigi dell’inizio del XX secolo, dove gli artisti arrivano da ogni parte del mondo, finendo poi per conquistarsi il posto d’onore nella storia dell’arte. A Modigliani bastano pochi anni per far diventare le sue figure allungate icone della pittura del Novecento, quella che ha nell’uomo, nel suo incedere nel mondo, il punto di partenza. Diceva che per lavorare aveva bisogno «di un essere vivente, vedermelo davanti». E infatti è riuscito a raccontare Parigi attraverso i volti di chi gli stava intorno: pittori, collezionisti, poeti, donne amate e fanciulle di cui, a volte, non si sa nulla, solo un nome. Come Antonia, che emerge solenne da una griglia geometrica con una potenza di volume tutta italiana.
La si ammira, insieme a circa 110 opere (gran parte provenienti dal Centre Pompidou) di Modigliani e della cerchia di artisti con cui condivideva la grande avventura all’ombra della Tour Eiffel, nella bellissima mostra curata da Jean Michel Bouhours, aperta fino al 15 febbraio a Palazzo Blu a Pisa. Antonia si data intorno al 1915. Modigliani, che nasce a Livorno nel 1884 è in Francia dal 1906. È l’arte che lo traghetta lì con il suo bagaglio di passioni: declamava Dante, leggeva Lautrémont, Nietzsche, D’Annunzio. Ma aveva portato con sé anche le sue radici: un mucchietto di riproduzioni di opere di Botticelli, Carpaccio, Lotto e, molto probabilmente, di quel Parmigianino che prima di lui aveva forzato la forma del collo di una Madonna nella ricerca impeccabile di bellezza ideale. C’è una bella sezione di questa mostra dedicata ai rapporti con il Cubismo che ospita le nature morte di Gris e di Picasso, gli ingranaggi meccanici di Léger, le sculture di Lipchitz e di Zadkine, le scomposizioni di Survage. C’è un solo francese, Léger, nel gruppo appena citato composto da spagnoli, lituani, russi e bielorussi. E questo basta a far capire cosa fosse in quel momento Parigi. E Modì è italiano: anche per questo, probabilmente, il Cubismo lo interessa fino a un certo punto.

Cosa aveva dipinto prima di approdare qui Modigliani? Paesaggi nel gusto dei macchiaioli, figure che ammiccano al Simbolismo, misteriose e inquietanti come il Ritratto di donna che partecipa a una seduta spiritica esposto a Pisa. Quando arriva nella Ville-Lumière si infervora per Cézanne. Il maestro di Aix è la fonte di due ritratti in mostra: lo scultore Maurice Drouard e Jean Alexandre. Sono due quadri costruiti sugli sguardi del soggetto. Malinconico quello di Jean, stato d’animo sottolineato dalla posizione della testa sulla mano, rovente di azzurro quello dell’artista. Anche a loro toccherà in sorte una morte precoce. Druard viene ucciso durante la prima guerra mondiale, Alexandre se ne va quattro anni dopo l’esecuzione di questo ritratto. Aveva 26 anni e la stessa tubercolosi che minerà il fisico di Modigliani. Quando muore Modi-maudit ha 36 anni. Ma il suo passaggio è irripetibile.
Questa esposizione si apre con un ritratto a matita che gli fa Derain. Ed è impressionante come il francese di fronte al suo modello si sia quasi trasformato in lui, realizzando un’opera in chiaro stile Modigliani, cercando di afferrare quel tratto unico e ininterrotto che lo contraddistingue. Dove il segno di Modigliani si rivela in tutta la sua forza è nella sala dedicata al rapporto con la scultura: un’emozione in bianco e nero. È un altro artista arrivato dall’Est, il rumeno Costantin Brancusi, a fargli scoprire l’intaglio diretto della pietra, senza nulla concedere alla modellazione. Modigliani inizia il suo corpo a corpo con la materia per dar vita a volti ieratici come idoli. Qui ce ne sono due accompagnati da una serie di meravigliosi disegni, di due capolavori di Brancusi e delle foto di quest’ultimo che documentano i suoi lavori. In questi anni, fino al 1914 quando abbandona la scultura perché troppo faticosa, Modigliani sogna di realizzare un “tempio della voluttà”, sostenuto da figure femminili inginocchiate. Sono esposti i disegni di queste Cariatidi pronte a portare il peso del suo monumento al piacere: bellissime nelle loro torsioni solenni. Le donne sono un capitolo fondamentale del pianeta Modigliani: grande seduttore le ritrae cercandone una forma che sia essenza, interiorità, “vita che utilizza”. Quando espone i suoi nudi per la prima volta nel 1917, arriva la polizia a chiudere la galleria Berthe Weill. L’oltraggio al pudore era proprio in quella sensualità indolente che colpisce oggi nel bellissimo Nudo straiato ( con le mani giunte) che incontriamo in questa occasione. Intanto Modigliani continua la sua raffinata deformazione delle figure che si estendono verso l’alto. Hanno spesso gli occhi vuoti, senza pupille, come fossero composti di una sostanza liquida, il più delle volte chiara. Il loro è uno strano sguardo, concentrato verso l’interno e non rivolto all’esterno. Il fondo, le vesti dei personaggi sono spesso trattati con una pittura stesa in modo febbrile, mentre la figura è quasi sempre inquadrata frontalmente. C’è il pittore Soutine, il mercante Paul Guillaume dall’aria inafferrabile. E poi c’è il volto struggente di Jeanne Hébuterne, la giovane pittrice, il suo ultimo amore. Alla morte di Amedeo si butta dalla finestra incinta del loro secondo figlio. Alimentando un dramma tutto da romanzare.

Repubblica 6.10.14
La vita in bilico di un talento assoluto e dissoluto
Malato, povero, alcolizzato, l’artista ebbe la sua vera riscossa a Londra grazie anche a Virginia Woolf
di Franco Marcoaldi


POCHI artisti del Novecento sono rimasti ingabbiati nella propria leggenda come Amedeo Modigliani. Tutto ha concorso ad alimentarla, compresa l’omofonia tra il nomignolo francese Modi e la parola maudit: l’ennesima conferma che il pittore livornese era davvero “il maledetto” per eccellenza.
Abuso di alcol e droghe, donne a gogò, miseria nera e aristocratica dépense: Modigliani incarna alla perfezione l’idealtipo dell’artista bohémien, e difatti così ce lo hanno restituito libri e film, a partire dal Montparnasse 1-9 interpretato da Gérard Philipe. Anche se nuovi studi, come quello di Meryle Secrest ( Modigliani. L’uomo e il mito, Mondadori) hanno provato poi a correggere una verità storica convertita in cliché, collegando semmai l’esibita dissolutezza alla necessità di dissimulare in tutti modi (compresi uso di alcolici e stupefacenti) la tubercolosi – all’epoca più una peste sociale, che una malattia – che lo colpì già da ragazzino, conducendolo a una morte prematura. Senza contare che nella Parigi primo Novecento, dimora di Modigliani fino al 1920, anno della sua scomparsa, quei comportamenti libertini e sfrenati non rappresentavano certo un’anomalia, ma la norma.
La scena che si presenta allo spettatore tra Montmartre e Montparnasse è in effetti sorprendente: sta cambiando radicalmente l’abbigliamento delle donne, di pari passo a una nuova libertà sessuale; la droga scorre a fiumi; l’incrocio di pittori poeti scrittori e compositori non ha pari al mondo. Picasso, Max Jacob, Apollinaire, Chagall, Hemingway, Fitzgerald, Henry Miller, Brancusi, Satie, Anna Achmatova: si farebbe prima a dire chi non c’era. Come scriverà Kiki de Montparnasse, «non si viveva bene che qui. Liberamente! Ecco la parola chiave (…) l’amore libero, l’arte libera». Questa tensione spasmodica verso la libertà non è però garanzia di nessun paradiso terrestre. Per molti artisti, anzi, il prezzo da pagare nella vita quotidiana è molto alto. Ne sa qualcosa proprio Modigliani, che spesso e volentieri non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena e deve arrangiarsi scambiando, nel famoso ristorante di Rosalie, un piatto caldo con un disegno creato all’impronta. Se possibile, stanno addirittura peggio di lui gli amici Utrillo e Soutine. Mentre Modigliani maschera la tisi con eccessi quotidiani, Utrillo va e viene da case di cura e manicomi e Soutine distrugge buona parte delle opere. Per tutti e tre l’alcol finisce per rivelarsi un pessimo compagno di strada.
Sarà la ricerca della bellezza e della verità a fare da costante contraltare a questa tendenza autodistruttiva. Solo chi vive perennemente in bilico, come l’artista livornese, sa che «la felicità è un angelo dal volto severo». La malattia avanza, il tempo gli manca sotto i piedi e proprio per questo egli partecipa con ardore crescente a quella vera e propria rivoluzione etico-estetica in atto che farà dire a Virginia Woolf, in concomitanza con la prima mostra dei post-impressionisti organizzata a Londra dall’amico Roger Fry: «intorno al dicembre 1910 la natura umana cambiò».
Per Modigliani, quelli, sono ancora tempi durissimi. Caso vuole, però, che la sua straordinaria tenacia venga premiata proprio in terra inglese, giusto alla fine di quel decennio. Siamo nel 1919, ricorda Meryle Secrest, e alla Mansard Gallery, una nuova, grande mostra torna a fare il punto sull’arte di area francese. Ci sono quadri di Dufy, Kissling, Léger, Matisse, Picasso. Ma ora il protagonista indiscusso è lui, Modigliani, con 59 opere esposte che suscitano enorme ammirazione e finalmente, a pochi mesi dalla morte, anche un’impennata nelle vendite. Del resto, aggiunge maliziosamente la biografa, erano stati i critici d’arte inglesi, non quelli francesi, a riconoscere per primi e fino in fondo il suo immenso talento. A cominciare da Roger Fry, l’amico di Virginia Woolf.

Corriere 6.10.14
«La scelta di Catia» anche in tv
I salvataggi dei migranti stasera sulla terza rete
Stasera su Rai3 in prima serata va in onda «La scelta di Catia» docufiction di 100 minuti che racconta in diretta gli ultimi sessanta giorni di lavoro di Catia Pellegrino, prima donna comandante della Marina Militare, sul pattugliatore «Libra» per Mare Nostrum

di Paolo Conti

L’operazione è stata prodotta da H24 e Corriere della Sera (regia di Roberto Burchielli, l’idea è stata di Mauro Parissone) per Rai Fiction. Su corriere.it appare invece la web serie in dieci puntate. Una vera e propria operazione crossmediale.
Eleonora Andreatta, direttore di Rai Fiction: cosa significa, per la Rai, trasmettere questo prodotto?
«È la conferma della linea editoriale di Rai Fiction e di Rai3: l’attenzione verso l’attualità, anche drammatica, che ci circonda. Stasera narriamo l’operazione Mare Nostrum, con la Marina militare impegnata in un mare che per troppo tempo ha visto solo morte e tragedie sconvolgenti, come quella di un anno fa. Qui si salvano invece vite. C’è un altro valore. Il punto di vista principale è quello della prima comandante donna della Marina militare, Catia Pellegrino, che racconta gli ultimi sessanta giorni della sua missione».
Una figura femminile forte e impegnata in un comando. Rai3 propone questa donna comandante di una nave proprio mentre aumentano esponenzialmente i femminicidi…
«Abbiamo riflettuto a lungo, nel nostro lavoro, sulla tragedia dei femminicidi. È sicuramente bene non nascondere quelle vicende. Ma è probabilmente più efficace, sul grande pubblico, descrivere la storia di una donna che dimostri nei fatti, nella vita reale e non in una fiction, come sia ormai un dato incontrovertibile la parità uomo-donna anche nel comando di un pattugliatore. Catia ha la giusta autorevolezza, la serenità di un servitore dello Stato, generosa e disinteressata di sé, capace di una straordinaria disponibilità umana. Nel film, l’equipaggio ammette con molta lealtà di aver avuto inizialmente perplessità e riserve. Ma poi ha prevalso la forza dell’ufficiale. Che, come ha giustamente detto Catia a proposito dell’orgoglio, non ha un genere né maschile né femminile».
Una docufiction in prima serata: ce ne saranno altre?
«Sicuramente. Abbiamo sperimentato in passato ottimi prodotti come la storia della cattura di Provenzano. Poi c’è stata una pausa. Ma a maggior ragione dopo “La scelta di Catia” la Rai tornerà su questo terreno puntando sull’attualità: le periferie, per esempio, la legalità e la criminalità, la crisi economica. Questo passo narrativo permette di avvicinare il telespettatore alla materia viva del racconto, mettendo da parte la freddezza dei dati e delle cifre che talvolta si prova in inchieste giornalistiche anche ottime. La docufiction, con i suoi tempi, permette per esempio ai sentimenti e agli individui raccontati di emergere a tutto tondo».
Cosa significa per Rai la collaborazione con il «Corriere della Sera«?
«Non è il primo incontro. E anche stavolta, come nelle altre occasioni, si è trattato di prodotti eccellenti e innovativi. Poi c’è il valore della collaborazione con le istituzioni. E Corriere della Sera e Rai sono accomunati dall’autorevolezza e dalla credibilità. Voglio infine notare che la quantità di materiale girato dal regista Roberto Burchielli, che ha mantenuto sempre un occhio attento ma mai voyeuristico pur trattandosi di vicende strazianti, ha permesso di dare vita a due prodotti completamente diversi e autonomi: la docufiction per la Rai e la serie web per il corriere.it , ovvero un racconto televisivo e una grande inchiesta giornalistica. Un risultato editorialmente interessantissimo».