martedì 7 ottobre 2014

La Stampa 7.10,14
Altro naufragio al largo della Libia: si temono oltre cento vittime
L’incidente sarebbe avvenuto nel weekend. In salvo 70 persone, 30 i cadaveri. Fonti locali: «A bordo erano in 250»

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il Fatto 7.10.14
Pd, la minoranza ribelle mugugna ma si arrende
I bersaniani irritati dalla scelta di chiudere il dibattito, però cedono:
“Certo che votiamo, altrimenti arriva il soccorso di Forza Italia”
di Wanda Marra


“Ho detto partito, mi è caduto il microfono”. Matteo Renzi a Quinta Colonna la butta lì così la battuta che dice chiaramente come la pensa sul Pd. Un Pd che ancora una volta si appresta ad umiliare. “La fiducia? Certo che la votiamo”. Miguel Gotor, senatore bersaniano, non ha un attimo di esitazione. E spiega: “Al Senato abbiamo una maggioranza soltanto di 7-8 senatori”. Però, ci tiene ad aggiungere, “si tratta di una manifestazione di debolezza di Renzi. Se la mette è solo perché altrimenti sarebbe costretto a dimostrare all’opinione pubblica di aver bisogno del soccorso azzurro per governare”. Per non far cadere il governo, se è per i bersanian-dalemian-cuperliani diranno sì a una delega praticamente in bianco, che non contiene neanche l’estensione dell’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari (ovvero, la mediazione ottenuta in direzione). Se è per i dissidenti, civatiani e dintorni (una decina in tutto, capeggiati da Mi-neo, Tocci, Ricchiuti e Casson), usciranno dall’Aula.
DOPO SETTIMANE di dichiarazioni, interviste, annunci di guerra, minacce e alla fine pure appelli e preghiere (di non metterla, la fiducia, di recepire gli emendamenti, di permettere almeno una discussione) il Pd non renziano si prepara a piegarsi ancora una volta alla volontà del presidente del Consiglio. Il capogruppo a Montecitorio, Roberto Speranza, è lapidario: “Siamo un partito serio”. Per tutti, così parla Alfredo D’Attorre, uno dei deputati che in direzione ha detto no: “Sarebbe giusto consentire un confronto di merito al Senato ma prevarrà la responsabilità di non far cadere il governo”.
Nel nome della “responsabilità”, insomma, il Pd è pronto ad arrendersi. D’altra parte, non c’è da stupirsi: in direzione, pure se il segretario aveva dei numeri schiaccianti, si è guadagnato il via libera dall’85 per cento dei votanti. Ben di più dei renziani presenti. Evidentemente, funziona il metodo-Matteo, che si può tradurre più o meno così: “O si fa come dico io, o cade il governo e si va a votare. Le liste le facciamo noi e chi non è con noi è fuori”. E, poi, in fondo, se è per stare al merito, il Pd ha votato anche la riforma Fornero, quella che ha dato il primo colpo, quasi decisivo all’articolo 18. Sempre per senso di “responsabilità”, quello che aveva dato il via al governo Monti, dopo la caduta di Berlusconi.
“La situazione è sconsolante, da tutti i punti di vista. Sono giorni e giorni che ci raccontiamo che si sta lavorando a una mediazione: ma di quale mediazione parliamo? Qui si discute per finta”, commenta un Democratico a microfoni spenti. Una verità evidentemente troppo dura per poterla esprimere a viso aperto, mentre si decide di dare comunque il voto al governo.
Le dichiarazioni ufficiali, dunque, preferiscono richiamare i massimi sistemi o cercare di smuovere il segretario-premier con le buone. Ecco Gianni Cuperlo: “Faccio un appello al governo e al presidente del Consiglio perché si eviti il voto di fiducia su una materia delicata e complessa". Ma poi: “La parola scissione non la voglio neanche sentire”. Ecco Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro a Montecitorio: “Insisto nel chiedere al governo di non mettere la fiducia al Senato. Questa scelta sarebbe grave perché priverebbe il Parlamento della sua sede naturale di confronto. Lo stesso Governo che ha deciso di aprire un tavolo di confronto con le parti sociali, è quello che nega il confronto al Senato ed alla Camera? Sarebbe fortemente schizofrenico, a meno che il confronto nella Sala Verde sia soltanto una tantum dal sapore propagandistico”. Lascia un margine di dubbio Ugo Sposetti: “Leggiamo prima l’emendamento e poi mi pronuncerò”.
IL PIÙ BATTAGLIERO è il deputato Stefano Fassina: “Le conseguenze politiche della fiducia sul jobs act sono molto gravi innanzi tutto per il Parlamento. Il governo lo costringe a dargli una delega in bianco, è un problema istituzionale molto grave che merita l’attenzione del Presidente della Repubblica”.
Insomma, a Palazzo Madama tutto dovrebbe filare liscio, con qualche incognita di prassi. Due o tre “No”, tanto per non perdere del tutto la faccia, potrebbero arrivare. E poi, magari alla Camera, qualcuno alla fine si opporrà. Confidando nel fatto che il suo voto è determinante.

Repubblica 7.10.14
Le tre buone ragioni che hanno fatto del Pd un partito vuoto
I militanti non hanno potere neanche di decidere la leadership
La figura più importante è quella dell’elettore (delle primarie) non dell’iscritto
di Nadia Urbinati


IDUE maggiori partiti politici sono in rosso, di soldi e di iscritti. Del Pdl Berlusconi deve ripagare i debiti, del Pd Renzi non può far fronte al deficit di militanti. La situazione del Pd è in effetti la più paradossale perché in questo caso si tratta di un partito che è un vero asso pigliatutto. Come ha detto Renzi, esso ha portato a casa risultati elettorali strabilianti a partire dalle elezioni europee. E resta nei sondaggi intorno al 40%. E intanto gli iscritti crollano, crolla l’affluenza alle primarie di fine settembre in Emilia-Romagna. L’assenteismo dilaga sia nelle sezioni che sotto i gazebo. Il Pd “governa il vuoto”, per parafrasare il titolo di un bel libro sulla fine del partito-partecipazione di Peter Mair ( Ruling the Void ). Perché quel che ancora chiamiamo “partito” ha subito una così radicale metamorfosi da assomigliare a una casta di notabili.
Come spiegare questo “partito vuoto”? Forse cercando di mettersi nei panni di un po- tenziale militante. Perché un cittadino o una cittadina dovrebbe decidere di tesserarsi? Almeno tre sono le ragioni che lo scoraggiano. Prima di tutto per la pessima reputazione che ha il partito politico, anche secondo la leadership del Pd. E se il partito è un carrozzone e esserne parte equivale a meritarsi la rottamazione o la disistima, perché iscriversi?
La seconda ragione sta nell’irrilevanza del ruolo dei militanti. È vero quel che dice Renzi, che è meglio produrre buone idee che tessere fasulle. E se le tessere non fossero fasulle? Ovvero, perché presumere l’alternativa tra avere tessere fasulle e buone idee? È chiaro che per diventare una fucina di idee un partito deve essere aperto al dialogo, al dibattito, ad una partecipazione che conta: ma i settemila e duecento circoli esistenti in Italia e all’estero sono pressoché inattivi. Ancora più triste il destino delle sezioni. Sembra che si sia persa l’abitudine al discorso pubblico e che parli o abbia voce solo chi decide, cioè chi sta dentro le istituzioni.
La terza ragione completa questo quadro: i militanti non hanno potere neanche di decidere la leadership. E lo statuto lo conferma. Il primo articolo recita così: “Il Partito Democratico è un partito federale costituito da elettori ed iscritti”. Costituito non da chi ha una determinata idea politica, ma da chi ha diritto di voto, cioè potenzialmente da tutti gli italiani. Potrebbe sembrare che questa visione inclusiva sia in sintonia con la sua natura democratica: non chiudere le paratie con la società, rendere il partito permeabile e aperto. Ma l’apparenza inganna. Questo ecumenismo è un problema non un pregio, perché disegna un partito che non vuole avere militanti ma solo votanti. E infatti in questa sua forma post-partitica, la figura più importante è quella dell’elettore (delle primarie), non dell’iscritto, che dovrebbe essere invece il vero protagonista del partito perché ha rinunciato alla segretezza del voto dicendo a tutto il mondo da quale “parte” sta. È per questa ragione che sarebbe ovvio supporre che le cariche di partito fossero oggetto di decisione solo da parte degli iscritti. A questa condizione diventare un militante avrebbe un senso. Ma se basta essere elettore, allora perché iscriversi? Apertura a tutti implica togliere potere a chi è militante. È evidente che lo statuto del Partito democratico ha un’impronta plebiscitaria, per cui il collettivo degli iscritti ha meno importanza del numero dei votanti. Anche per questa ragione la sua vita politica interna è nulla e il numero dei suoi iscritti crolla.
La forma del partito è per tanto il problema più importante da affrontare. Ma per farlo occorrerebbe riuscire a trovare risposte convincenti almeno a queste tre ragioni che spiegano la fuga dei militanti. E quindi superare la forma plebiscitaria. Discutere delle politiche del partito, delle scelte da prendere o non prendere, in sostanza dei valori e dei principi che uniscono i militanti: questo significa dare a chi si schiera un senso di reale appartenenza e rilevanza. Significa anche concepire il partito come un luogo e un veicolo di educazione alla vita pubblica, alla deliberazione critica, alla leadership democratica. L’opposto, come si intuisce, di un partito plebiscitario e personalistico. Ma anche l’opposto di un partito vuoto.

La Stampa 7.10.14
E Verdini già studia il “paracadute” forzista se Matteo avesse bisogno
Molti potrebbero ammalarsi, o perdere l’aereo...
di Ugo Magri


Sul Jobs Act il premier potrà contare sempre e comunque sul «paracadute» berlusconiano. Nel caso (improbabile) che venissero a mancargli dei voti in Senato, Renzi si salverebbe dal baratro grazie a Forza Italia. Questo è sicuro, sebbene ufficialmente a destra tutti sostengano il contrario preannunciando anzi una netta opposizione. «Il modo per dare una mano lo troveremmo», garantiscono sottovoce personaggi molto influenti nel giro di Arcore. Al premier l’hanno fatto sapere. Per esempio, un tot variabile di senatori azzurri potrebbe scordarsi la sveglia, col risultato di perdere l’aereo proprio nel giorno delle votazioni; altri potrebbero restare vittima di qualche malanno: le solite scuse che si tirano fuori in circostanze del genere. Ancora ieri, parlando con alcuni suoi fedeli, Berlusconi era categorico: «Renzi non deve cadere. Bisogna che vada avanti almeno fino a quando avremo varato una legge elettorale conveniente tanto a lui quanto a noi, a quel punto se ne riparlerà». Oltre a questa motivazione, dettata da calcoli tattici, pare ce ne siano altre che rendono l’ex Cavaliere pronto a tutto, pur di tenere in piedi il governo, alcune di un certo spessore politico: «Dobbiamo augurarci di fare insieme al Pd le nostre riforme», è uno dei ragionamenti berlusconiani, «o desideriamo ritrovarci con la Trojka in casa tra meno di sei mesi?». Domanda retorica con risposta scontata: mille volte meglio tenere in sella Renzi che farci governare dalla «Spectre» finanziaria internazionale.
E dunque, quale che sarà l’esito del duello a sinistra sul Jobs Act, il premier verrà sorretto perfino nel caso in cui dovesse precipitare. Ciò premesso, nessuno (nemmeno Verdini) si augura questo «soccorso» azzurro. Renzi rifiuta di prenderlo anche solo in considerazione perché, primo, sarebbe un segnale di immensa debolezza e, secondo, verrebbe a ritrovarsi tra le braccia di Silvio. Per quanto gli si mostri amico, Matteo giustamente non se ne fida. Lo stesso Berlusconi preferisce di gran lunga che il governo se la cavi con le proprie forze, senza trucchi e senza inganni. La ragione è semplice: pure lui, se fosse costretto a sostenere Renzi, pagherebbe un prezzo politico salatissimo. Nel suo partito il Jobs Act non piace letteralmente a nessuno. Toti, il consigliere politico, lo bolla senza cerimonie come l’«ennesimo compromesso al ribasso tra le componenti del Pd». Gasparri, che bene interpreta gli umori dei «peones», spara a pallettoni contro le «deleghe confuse e ancora da conoscere nei loro esatti contenuti». Il Capo la pensa come loro. Una piccola folla di esperti gli ha detto peste e corna del Jobs Act. Gliene parla malissimo pure la Santanchè. L’imprenditore Berlusconi è convinto che all’Italia servirebbe ben altro, una riforma che nessuno (tantomeno lui) è riuscito a far passare.
Poi c’è Fitto, ci sono i «malpancisti» di Forza Italia, c’è la concorrenza da destra dei Fratelli d’Italia e della Lega, soprattutto c’è Grillo... Il Cav non ha voglia di prestare il fianco ai loro attacchi, e nemmeno di donare il sangue gratis a Renzi. Tra l’altro, negli ultimi giorni si è molto indispettito per come il governo sta trattando il tema della giustizia. Gli risulta che il guardasigilli Orlando presti orecchio a certi magistrati «comunisti», e rimprovera a Renzi di non vigilare abbastanza sul suo ministro.

il Fatto 7.10.14
Fiducia sull’articolo 18. Renzi distrugge la sinistra
Il pugno di Renzi sul Senato
di Salvatore Cannavò


La fiducia sul Jobs Act, il disegno di legge-delega che riforma il mercato del lavoro, ci sarà. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha autorizzato la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, a porre la questione di fiducia sul testo di legge che oggi sarà avviato, alla presenza del ministro Giuliano Poletti, alla discussione del Senato. Una scelta, quella dell’esecutivo, largamente attesa e giudicata molto negativamente dalla minoranza Pd che sarà costretta ad allinearsi a Matteo Renzi, pena la crisi di governo. Per scansare ogni equivoco, il bersaniano Alfredo D’Attorre ha assicurato che il voto sarà “sì”. Salvo poi annunciare che se ne riparlerà alla Camera dove la minoranza democratica ha numeri e postazioni - la presidenza della Commissione Lavoro è governata da Cesare Damiano - che le possono consentire di strappare qualche risultato.
RENZI AL MOMENTO, però, ottiene due risultati. Blocca il tira e molla sul testo che sarebbe dovuto uscire dalla discussione di Palazzo Madama e porta “lo scalpo” al vertice europeo di domani. La soddisfazione, del resto, era evidente ieri sera nel corso della sua presenza a Quinta Colonna di Paolo Del Debbio. Ospite di una Rete4 particolarmente accogliente - tra applausi e battute simpatiche con il conduttore sembravano i fasti del Cavaliere - Renzi ha ben spiegato perché l’articolo 18 va modificato e dato fondo alle tradizionali “spacconate”: “La legge di Stabilità? Sono in tanti a gufare ma noi li freghiamo”.
Il voto di fiducia al Senato, per il momento, gli consente di uscire dalla morsa tra la formulazione del testo di legge attuale, cara a Ncd, e le richieste della minoranza Pd. Il governo procederà alla scrittura di un maxi-emendamento, sostitutivo del testo, in cui come già spiegato dal ministro Poletti, “non farà stravolgimenti”.
Ci saranno alcune modifiche che vanno incontro alla minoranza Pd tra cui una limatura al comma che rende possibile il demansionamento e la conferma che il governo provvederà alla cancellazione delle tante forme del lavoro precario - ma senza specificare quali. Nulla, però, sul punto più controverso, l’articolo 18. Dovrebbe essere il ministro Poletti a dare rassicurazioni con il suo intervento conclusivo nell’aula di Palazzo Madama rinviando però ai decreti delegati. “Un “fidatevi” sulla parola che si aggiunge al voto di fiducia a sua volta posto su una legge di delega al governo.
“Il Parlamento viene costretto a dare una delega in bianco”, commenta l’oppositore Pd, Stefano Fassina, il quale annuncia “conseguenze politiche” dopo la fiducia. Parlando con il Fatto Fassina chiama in causa anche il Quirinale su “una votazione fatta in questo modo”.
IL VOTO DEL SENATO si terrà mercoledì, in piena concomitanza con l’incontro europeo di Milano dove Renzi potrà vantare il successo sull’articolo 18. Risultato che rappresenta l’obiettivo principale di tutta l’operazione (si veda articolo qui sotto). L’immagine di un’aula parlamentare chiamata in tutta fretta a dare il via libera al governo, che così incassa i complimenti dalla Ue, rappresenta quello “schiaffo al Parlamento” di cui parla Cesare Damiano che sottolinea anche la “schizofrenia” tra fiducia da un lato e convocazione delle parti sociali dall’altro.
La convocazione, tanto attesa, di Cgil, Cisl e Uil e, poi, della Confindustria, avviene però in forme che fanno sospirare il segretario della Cgil, Susanna Ca-musso. Ai sindacati è stata inviata, solo ieri, una lettera, firmata dal ministro Poletti, che annuncia l’incontro a Palazzo Chigi per questa mattina: alle 8. Durerà soltanto un’ora perché alle 9 entreranno gli imprenditori. “Un’ora sola ti vorrei”, commenta ironicamente Ca-musso mentre Renzi, sempre rispondendo a Del Debbio, sottolinea l’orario che così permetterà “di fare alla svelta”. “Quello che voglio evitare è l’immagine di quei vertici in cui si chiacchiera. Io voglio concludere”. La Cgil ieri, insieme a Cisl e Uil, ha riunito tutti i sindacati europei che fanno parte della Ces per firmare “la Dichiarazione di Roma”. Un documento che ribadisce il no alle politiche di austerità, la difesa dei diritti dei lavoratori, la richiesta di un’Europa più democratica.
LA CGIL TIENE il punto dello scontro con il premier, in particolare rilanciando contro Palazzo Chigi la similitudine con Margaret Thatcher. “Da presidente di turno dell’Unione europea – ha ricordato Camusso – è l’unica che non ha mai voluto incontrare i sindacati” esattamente come Renzi. Con i suoi, poi, commentando la convocazione di stamattina, il segretario della Cgil non si è lasciata andare a facili illusioni: “Vedremo se dice cose chiare e vere, altrimenti sarà una cosa alla Berlusconi”. La testa del primo sindacato, in ogni caso, è concentrata sulla manifestazione del 25 ottobre per la quale la macchina organizzativa è caricata “al massimo livello”.

il Fatto 7.10.14
Lo scalpo da offrire a Bruxelles
di Stefano Feltri


La strategia di Matteo Renzi è spericolata, ma i conti pubblici non offrono molte alternative: il premier vuole assolutamente che il Senato approvi con voto di fiducia la legge delega sul lavoro mercoledì, in modo da trasformare il vertice di Milano con i capi di governo di tutta Europa in uno spot continentale per l’abolizione dell’articolo 18. Solo così può sperare di ottenere qualche risultato nel difficilissimo mese che lo aspetta, quello in cui il governo italiano dovrà duellare con la Commissione europea sui numeri della legge di Stabilità. Il settimanale Economist, parlando della nuova coppia anti-rigore formata da Renzi e dal premier francese Manuel Valls, ha scritto: “La disciplina imposta dalla Commissione europea dovrebbe essere allentata soltanto se Vallenzi (Valls+Renzi) riescono ad attuare le riforme promesse”. Renzi sa che a Bruxelles, e a Francoforte, alla Bce di Mario Draghi, la pensano così.
SERVE UN VOTO PARLAMENTARE e serve sul lavoro. Non tanto perché qualcuno creda davvero che ritoccando l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento ingiusto succedano miracoli, ma perché all’estero considerano il lavoro il vero problema italiano. I numeri forniti dall’Ocse, il think tank dei Paesi ricchi, sono questi. Tra 2007 e 2012, la quantità di Pil prodotta per ogni ora lavorata in Italia è scesa dello 0,3 per cento, mentre il costo del lavoro per unità di prodotto è salito del 2,2 per cento e i salari dell’1,9. Le imprese pagano di più, i lavoratori incassano di più ma producono meno. Nello stesso periodo in Germania il Pil prodotto per ora è cresciuto dello 0,3, il costo del lavoro è cresciuto meno che in Italia (+2,1) e i salari invece ancora di più (+2,4). Se guardiamo agli Stati Uniti, poi, il confronto è deprimente: +1,5 per cento il Pil per ora lavorata, soltanto +0,7 il costo del lavoro e ben +2,3 i salari. Renzi ha quindi assoluto bisogno di dare il segnale che sta affrontando il problema della scarsa competitività dell’economia. E visto che a Bruxelles nessuno crede più alle promesse, gli serve avere almeno un voto parlamentare.
Il passo successivo è cercare di ottenere che alcune spese legate alla riforma – quella più rilevante è l’adeguamento degli ammortizzatori sociali – non concorrano al calcolo del deficit per i parametri europei: quello nel 2014 è già previsto al 3 per cento, ogni spesa extra farebbe scattare la procedura d’infrazione. A meno che non venga concessa una deroga.
RENZI HA QUINDI INSISTITO MOLTISSIMO per convocare il vertice di domani a Milano: una “conferenza” inutile, che non produrrà decisioni operative e neppure documenti, ma che costringerà i capi di governo d’Europa ad applaudire le riforme renziane, dando al governo italiano più forza negoziale a Bruxelles. La scommessa è che Renzi riuscirà a impostare qualcosa di concreto sulla flessibilità contabile, nel Consiglio europeo del 22 ottobre e poi in quello di dicembre dove il presidente della Commissione Jean Claude Juncker presenterà i dettagli del suo piano anti-recessione da 300 miliardi di euro.
Per certi aspetti il momento è favorevole: la Francia ha annunciato che non ha intenzione di ridurre drasticamente il deficit, ormai fuori controllo al 4,4 per cento del Pil. La Germania comincia a sentirsi insicura: ad agosto gli ordini del settore manifatturiero sono crollati del 5,7 per cento rispetto a luglio. Andrea Rees, analista di Unicredit, nota che la colpa è da attribuire a fattori tecnici come i pochi giorni lavorativi di agosto che hanno fatto anticipare molti ordini a luglio, ma si intravede anche, per la prima volta, “una vera debolezza dei fondamentali”. Le aziende sono pessimiste sull’avvenire e le ripercussioni delle crisi geopolitiche, soprattutto quella Russia, cominciano a farsi sentire. La Francia ribelle e la Germania indebolita sono funzionali ai piani di Renzi. Ma non è così semplice.
La cancelliera Angela Merkel non ama trovarsi in difficoltà. E da Berlino hanno fatto capire che a Milano eviterà in tutti i modi di trovarsi sullo stesso palco con il presidente francese François Hollande, che si rifiuta di obbedire a regole di matrice tedesca approvate pochi anni fa anche dalla stessa Francia. L’asse franco-tedesco che per decenni ha governato l’Europa si è rotto, Renzi spera di approfittarne ma non è detto che abbia la capacità diplomatica necessaria per riuscirci. Intanto vuole incassare il primo voto favorevole alla riforma del lavoro, poi deve incrociare le dita e pregare che il caos europeo si evolva nella direzione a lui più favorevole.

Corriere 7.10.14
La minoranza al bivio. «Ma no alla crisi»
Fassina si appella al Quirinale: delega in bianco invotabile, ci saranno conseguenze politiche
Ma D’Attorre: come dice Bersani, saremo responsabili
I renziani sicuri: alla fine tutti compatti
di Monica Guerzoni


ROMA «È una riflessione molto sofferta». Voterà la fiducia o no, senatrice? «È una prova di forza, con cui si mandano al massacro alcuni di noi. È un ricatto alla sinistra. Ma questo è il mio governo e Renzi il mio segretario... È un grosso problema, che ancora non ho risolto». Il maldipancia dell’ex diessina Erica D’Adda va molto oltre l’influenza, è lo stesso disagio di tanti che, nell’ala sinistra del Pd, soffrono per la «delega in bianco» sul lavoro e si preparano a turarsi il naso.
Al bivio tra il far cadere il governo e lo strappare il vessillo dell’articolo 18, tutti (o quasi) sceglieranno la via meno impervia. «Decideremo, ma abbiamo la pistola alla tempia — dice Federico Fornaro, cuperliano —. Sceglieremo l’interesse del Paese». Oggi la minoranza si riunirà e deciderà la linea. Per Pippo Civati la fiducia è un «segnale di debolezza» e, sul piano politico, «un segnale di profonda rottura». Alfredo D’Attorre parla di «scelta al limite dal punto di vista costituzionale», ma lui (come Bersani) pensa che prevarrà la responsabilità. La battaglia però non è finita: «La partita si chiuderà alla Camera».
A Palazzo Chigi sentono di avere la vittoria in tasca. «Alla fine la voteranno tutti» prevedono i renziani, che pure hanno ascoltato tuoni e fulmini dalla sinistra: la fiducia è «un bavaglio», «una scelta grave», una «ferita profonda». Stefano Fassina ammonisce Renzi: «Se la delega resta in bianco è invotabile e con la fiducia ci saranno conseguenze politiche». L’ex viceministro non ha in mente la scissione, ma denuncia il «vulnus profondo alle funzioni del Parlamento» e chiama in causa il Quirinale: «La fiducia su una delega in bianco è una scelta che meriterebbe l’attenzione del presidente della Repubblica». Gli appelli di Cuperlo e Damiano sono caduti nel vuoto, la tensione è massima. Chi ha sottoscritto i sette emendamenti al testo del governo la vive come «un ricatto», visto che la blindatura spazza via tutte le proposte di riforma.
Cecilia Guerra, l’ex viceministro che ha lavorato sodo sulle «modifiche migliorative», è delusa: «Far cadere il governo non mi sembra giusto, ma siamo arrabbiati perché è mancato lo spazio per il confronto. La fiducia è una scelta assurda». Che fine faranno le proposte di modifica su voucher, controlli a distanza e demansionamento? E a cosa è servita la direzione? L’angoscia a sinistra è forte. Soffrono, più o meno in silenzio, senatori come Walter Tocci e Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Maria Grazia Gatti. «Renzi ha provocato lo scontro per spianare Bersani, D’Alema e Camusso — si sfoga Corradino Mineo —. Ma io non gli spiano la strada offrendogli la mia testa da tagliare». E qui il sospetto è che Renzi abbia promesso di «spianare l’opposizione» perché teme il confronto sulla legge elettorale.
Gianni Cuperlo dice no alla logica del prendere o lasciare: «La riforma del lavoro non può essere spazzata via perché c’è un vertice europeo». Alla domanda se voteranno la fiducia, non tutti svelano le carte. «Aspettiamo — risponde Felice Casson —. Voglio vedere cosa c’è scritto nell’emendamento». Luigi Manconi ha ipotizzato lo strappo di una ventina di senatori, ma sono numeri che non trovano conferma. Eppure Lorenzo Guerini avverte: «Porre toni ultimativi come ha fatto Fassina non è utile a nessuno. In Aula tutti dovranno attenersi al principio di lealtà». Monito chiaro e severo, che Fassina prontamente ribalta giurando che si atterrà «alla lealtà verso gli elettori». E c’è un argomento, diffuso dai renziani, che fa imbufalire i malpancisti: l’idea che la fiducia li tolga dall’imbarazzo, visto che se votassero no dovrebbero poi uscire dal partito. Ragion per cui, prevedono i fedelissimi del premier, molti potrebbero essere «casualmente» assenti proprio al momento del voto.

Repubblica 7.10.14
Per la sinistra il solco si allarga: “Ormai siamo due mondi diversi”
di Goffredo De Marchis


ROMA La paura dei franchi tiratori, la necessità di un’approvazione in tempi rapidi. «Non possiamo sbrodolare», dice Matteo Renzi nel consiglio dei ministri chiedendo l’autorizzazione a usare la fiducia sul Jobs Act in Senato. «Ma soprattutto — spiega il premier — il mio obiettivo è dare un senso unitario alla riforma, senza troppi strappi. Con i voti segreti e la battaglia sugli emendamenti questo obiettivo non sarebbe possibile. È un messaggio fondamentale non solo per l’Europa. Gli italiani devono capire dove vogliamo andare».
È un rischio, certo. Non per la tenuta del governo visto che i senatori dissidenti (tranne 4 o 5 casi) rientreranno nei ranghi e non faranno cadere il governo. Ma perché rimane il solco con la sinistra su un tema sensibilissimo come l’articolo 18. Per questo motivo, al di là dell’atteggiamento di facciata che è sempre un po’ irridente, Renzi assicura che stamattina farà sul serio con i sindacati: «Non rinuncio al confronto. Anzi, lo allargherò ad altre materie molto delicate: la rappresentanza sindacale e la contrattazione decentrata. Vediamo se si può lavorare insieme». Subito dopo, oggi stesso, continuerà il dialogo con gli imprenditori «sviluppando la questione del Tfr». Dice il premier, sicuro: «Li convincerò. E so che la piccola impresa avrà delle difficoltà. Perciò il provvedimento sul Tfr sarà affiancato da uno strumento in più che dobbiamo creare immediatamente. Uno strumento dedicato alle Pmi in grado di coprire il vuoto economico della liquidazione che finisce in busta paga. Chiederemo un aiuto alla Cassa depositi e prestiti e alle banche». Un discorso lungo e appassionato, quello del premier ai ministri. Alla fine arriva il via libera all’eventuale fiducia, con la posizione ancora più determinata di Angelino Alfano e Dario Franceschini. «Dobbiamo mettere la fiducia non solo autorizzarla. Il provvedimento è trop- po importante», dicono quasi in coro i due ministri.
L’incontro con i sindacati nella sala Verde di Palazzo Chigi, il suo esito finale, condizionerà le scelte della minoranza del Pd. Così come il nuovo emendamento che sta scrivendo Giuliano Poletti per recepire le correzioni indicate dal Partito democratico nella sua direzione. Acqua fresca, ribattono alcuni oppositori prima ancora di conoscere il testo governativo. Quella che si vede oggi è dunque la continuazione di un dialogo tra sordi. Entrambi i fronti sembrano decisi ad aggravare la frattura. Spingere Renzi a destra nell’immaginario collettivo, insistere nei paragoni con Margaret Tatcher, accusarlo di cedere ai «ricatti di Sacconi» mettendo la fiducia sulla legge delega, come fa il senatore bersaniano Miguel Gotor, ha un significato politico che va oltre il Jobs Act. Significa liberare e marcare un territorio politico diverso, quello della sinistra, e se non è questa la premessa di una scissione poco ci manca. Qualcuno nei giorni scorsi ha sentito pronunciare allo storico tesoriere dei Ds Ugo Sposetti due paroline tedesche: “Die Linke». È il partito fondato in Germania da Oskar Lafontaine in contrapposizione con il socialismo “di centro” di Schroeder, del quale rimane nella storia la riforma del lavoro, appunto. Linke vuole dire sinistra e ancora oggi il movimento ha il 7 per cento dei voti (Europee 2014).
A Sposetti chiedono tutti giorni “ma allora ve ne andate?” perché il tesoriere è notoriamente seduto, come Paperone, su un patrimonio (immobiliare) di circa 2 miliardi di euro. I soldi della Quercia vengono visti come una precondizione della nascita di nuovo soggetto politico. Sposetti risponde a tutti: «Dove andiamo? Siamo quattro gatti». Pippo Civati però ha già imboccato una strada diversa. «Semmai è il Pd di Renzi ad aver cambiato la natura del Pd. Non c’è più niente di democratico nel partito. E mi chiedo: come si fa stare in un gruppo di cui non si condivide nemmeno l’atteggiamento, non solo le leggi?». È la domanda finale prima dell’uscita. L’ex sfidante delle primarie spiega che lui «nel Pd crede ciecamente», che ne ha fatto «una ragione di vita » da quando è in politica. Tuttavia il disagio è tanto, «la situazione deprimente» e il voto di fiducia avviene «sul nulla perchè dentro l’emendamento non ci saranno nemmeno le cose approvate in direzione». I suoi 6 senatori sono i principali “indiziati” dello strappo, domani in Senato. Usciranno dall’aula per non votare contro il governo. Ma non diranno “sì”. Stefano Fassina spinge anche gli altri dissidenti a ribellarsi, senza curarsi delle conseguenze del governo. «Questa riforma del lavoro parla a un altro mondo che non è il nostro». Due mondi diversi, quindi. Due pianeti lontani. «Abbiamo la pistola alla tempia, che dobbiamo fare? », osserva Federico Fornaro, uno dei firmatari degli emendamenti in difesa dell’articolo 18. Fassina e Civati la fanno troppo facile perché stanno alla Camera. Se pure votassero contro l’esecutivo non se ne accorgerebbe nessuno. A Palazzo Madama invece bastano 7 voti per mandare a casa Renzi. «Voterò la fiducia — dice rassegnato Gotor — ma è un segno di debolezza di Renzi. Non ascolta il suo partito e subisce il diktat di Sacconi». Questo è il Pd alla vigilia del voto sul lavoro, che è la radice della sinistra.

Corriere 7.10.14
Il leader non teme contraccolpi e studia un nuovo modello di Pd
di M. T. M.


ROMA «Sinceramente io non vedo problemi finora dentro il partito». Sembra convinto quando parla così, Matteo Renzi. Tant’è che in mattinata, sulla fiducia, non immagina ripercussioni o esiti disastrosi: «Non vedo questioni particolari. La fiducia passerà anche perché il voto è palese». E perché, come spiega Cesare Damiano, che si sente ancora un po’ abbacchiato per quella «porta che mi è stata sbattuta in faccia dal premier» nel momento della mediazione, la fiducia è multiuso: «Serve all’esterno per dimostrare all’Europa che il premier italiano è in grado di fare le riforme e serve all’interno per far capire chi è il segretario del Pd e, quindi, chi ha la maggioranza assoluta del partito». Anche perché, come fa osservare Paolo Gentiloni, quando è stato eletto leader «Matteo aveva una maggioranza di 70 contro 30, adesso con l’ultima direzione la sua posizione si è notevolmente rafforzata e la minoranza si è divisa».
Già. Ci sono i barricaderi alla Stefano Fassina, che minacciano «conseguenze politiche» di fronte alla fiducia. Conseguenze alle quali, però, ormai nessuno crede più. Persino Corradino Mineo non ritiene praticabile la scissione: «Chi non si ritrova nel nuovo corso renziano non andrà altrove, andrà a casa». Eppure giorni fa circolava la voce che le 56 fondazioni ex Ds potessero riunirsi e dare vita a un’unica fondazione. Di lì potrebbero venire i finanziamenti per la nascita di un nuovo soggetto politico. Ma questa indiscrezione è stata sempre smentita da tutti.
Eppure il malumore nel Partito democratico è tangibile, benché in realtà la minoranza dura e pura, quella dei Fassina e dei Cuperlo, per intendersi, abbia perso molti pezzi. Nel frattempo, in Calabria, il candidato di Renzi alla presidenza di quella Regione ha perso le primarie contro il candidato di Cuperlo, e un renziano della prima ora, come Matteo Richetti, scalpita e vorrebbe «più coraggio». Che cosa sta veramente succedendo nel Partito democratico? Un autorevole esponente del renzismo della prima ora la spiega così: «Quello che sta accadendo è più o meno questo: è in corso una normale battaglia interna alla minoranza, che mi sembra esplicita e una interna alla maggioranza che si gioca invece abbastanza sotto traccia».
È veramente così, per i renziani? L’uscita di Richetti lo farebbe pensare. E ieri un pensieroso Ermete Realacci, renziano, a guida della Commissione ambiente, ragionava così: «Diciamo la verità: alla gente non frega niente del Jobs act e del Tfr, ha bisogno di avere speranza. È quella che devi dare. Ma se invece vede solo le risse che speranza può avere? A quel punto può solo chiedersi: il premier “je la fa”?».
In effetti i renziani sono divisi tra chi vorrebbe mediare di più e chi invece vorrebbe correre con maggior forza. Ma, come sempre, l’ultima parola spetta al premier, che pure ascolta i suggerimenti di tutti. Il 20 ottobre ascolterà minoranza e maggioranza del Pd, in direzione, parlare della forma partito, dopo la polemica sulle tessere che c’è stata. E, alla fine, dirà la sua: «I partiti organizzati come una volta non servono più, non sono più rappresentativi». E lancerà una nuova proposta.

il Fatto 7.10.14
Non solo Stiglitz
Piketty, bandiera degli anti-Matteo

Messo in minoranza nel Pd, Stefano Fassina si è tolto per lo meno una soddisfazione “intellettuale”. Sarà lui a presentare in Italia il libro dell’economista dell’anno, Thomas Piketty, autore de Il capitale nel XXI secolo, molto dibattuto in Francia e negli Stati Uniti. Piketty sarà a Montecitorio e verrà salutato dalla presidente Laura Boldrini ma l’introduzione alla sua conferenza è affidata al deputato “ribelle” del partito di Renzi. Piketty si è fatto conoscere in tutto il mondo per il suo studio più che meticoloso sulle diseguaglianze accumulatesi nel corso della storia del capitalismo. L’eco di questo dibattito si è sentito anche all’ultima direzione del Pd quando Massimo D’Alema ha citato il nobel Joseph Stiglitz per contrastare Renzi. Il quale se l’è presa non solo con lo stesso Stiglitz ma anche con quegli “economisti molto letti negli Stati Uniti”. Parlava di Piketty. E Fassina se l’è intestato.

il Fatto on line ore 10 7.10.14
Jobs act, Renzi: “Con sindacati intese sorprendenti. Due miliardi per taglio cuneo fiscale”
Confronto a Palazzo Chigi con le parti sociali. Il 27 ottobre nuovo incontro. Il premier: "Articolo 18, reintegro anche per i licenziamenti disciplinari". Damiano: "Voteremo la fiducia, ma in modo critico"

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La Stampa on line ore 11 7.10.14
Lavoro, vertice Renzi-sindacati: “Sorprendenti punti d’intesa”. Camusso gelida: nessuna novità
Il reintegro previsto dall’articolo 18 “rimarrà per i licenziamenti discriminatori”
Sul tavolo anche ammortizzatori sociali ed emendamenti per rappresentanza sindacale e contrattazione decentrata
Cisl e Uil aprono: ma niente manifestazione con la Cgil

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il Fatto 7.10.14
Giuliano Ferrara “Renzi è grande perché non fa morali del cazzo a B.”

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Repubblica 7.10.14
La frontiera del trasformismo
di Gad Lerner


POLITICA e società tornano a incontrarsi e a scontrarsi oggi a Palazzo Chigi. Renzi si cimenta in un tentativo di rottamazione delle vigenti relazioni sindacali. Rimette tutto in gioco, dalle tutele legislative, ai contratti di lavoro, fino ai minimi salariali. E non a caso delinea in parallelo una metamorfosi politica del Pd. Da partito dei lavoratori a partito della nazione.

DA PARTITO degli iscritti a partito degli elettori. Forse addirittura da partito di sinistra a partito trasversale.

La premessa di Renzi, invisa alla Confindustria ma guardata con sospetto anche dai sindacati, è come sempre pop: rimettere in circolo dei soldi grazie al pagamento del Tfr in busta paga dal 2015. Vuole essere di nuovo una manovra ridistributiva in favore dei bassi redditi, come già gli 80 euro; anche se stavolta si tratta di un anticipo, non di un aumento. Rimedio parziale e difensivo, prova di buona volontà in una fase di generalizzato abbassamento delle retribuzioni.
La successiva proposta renziana di un minimo salariale stabilito per legge, in effetti non è altro che un tappeto di sicurezza sottostante alla deregulation dei contratti nazionali di lavoro. Precede cioè l’autorizzazione di deroghe al ribasso nelle trattative aziendali e territoriali. Dubito che lo faccia in streaming, ma oggi Renzi esporrà, di fronte ai sindacati un ragionamento amaro: meglio consentire alle imprese meno produttive di diminuire i salari anche sotto i minimi contrattuali, pur di scongiurare licenziamenti e cassa integrazione.
Gli economisti spiegheranno che le aziende non reggono più il disallineamento fra dinamiche retributive e produttività. I politici indoreranno la pillola spiegando che dove il mercato tira si potrà aumentare la paga. Ma sappiamo tutti benissimo che nella maggioranza dei luoghi di lavoro sarà da mettere in conto uno scivolamento verso il basso, con la motivazione vera o falsa di salvare il posto.
La stessa legge sulla rappresentanza sindacale proposta da Renzi, sembra destinata a fronteggiare — insieme allo strapotere delle burocrazie — anche l’eventualità di contratti aziendali rifiutati da una o più sigle, ma votati a maggioranza.
Non sono affatto convinto che un professionista della politica come Renzi intenda vincolarsi al “modello Marchionne”, cioè a una contrapposizione frontale con la Cgil che resta pur sempre il sindacato più rappresentativo nel Paese. Ma, certo, sancire per legge che i contratti nazionali non sono più vincolanti sgombrerebbe il campo dalle sentenze che l’anno scorso diedero ragione alla Fiom e torto alla Fiat.
Se queste sono le verità scomode di una fase recessiva ben lungi dall’essere conclusa — malvolentieri ammesse da un governo specializzatosi nel comunicare per iniezioni di ottimismo forzato — allora è chiaro perché Renzi considera il sindacato un ostacolo, piuttosto che uno strumento di coesione sociale. Approfittare dell’impopolarità del sindacato gli conviene, è un ottimo strumento di propaganda.
Qui diviene centrale il ruolo della politica, e del Pd. A dispetto della sua minoranza interna, Renzi assegna una funzione dirompente al partito di cui è segretario. Un partito che con lui ha già dimostrato la capacità di sconfinare a prescindere dai suoi riferimenti d’origine (sebbene Scalfari ricordi giustamente come il 40,8% conseguito alle europee resti, in cifre assolute, al di sotto dell’elettorato storico del centrosinistra italiano).
In sintesi, per gestire senza esserne travolto questa fase di impoverimento forse inevitabile del lavoro dipendente, Renzi necessita di un partito della nazione piuttosto che di un partito della sinistra. Ovvero di un partito del leader capace di riunire gli italiani contro un nemico comune, da individuarsi nella tecnocrazia europea fautrice dell’austerità. Il Pd degli iscritti e delle primarie non può bastargli in questa operazione — politica a tutto tondo — di deregulation interna ed esterna.
Senza voler dare a questo termine alcun significato morale negativo, Giovanni Orsina definisce tecnicamente «trasformistica » l’operazione completata da Renzi, con diretto riferimento alla conquista del Parlamento del Regno d’Italia riuscita un secolo prima a Giovanni Giolitti. Scrive Orsina che il premier «ha colmato parte del fossato che divide destra da sinistra, preparando il terreno per una grande confluenza al centro» ( La Stampa , 18/09/14). Così, profittando anche dell’evanescenza delle opposizioni, si è affermato come leader “inevitabile”.
Con la frettolosa convocazione mattutina di sindacati e imprenditori — un’ora per ciascuno — Renzi accelera la sua rivendicazione del primato della politica. La intende come extrema ratio di fronte alle storture di una società da correggere. Forse gli appare inerte il corpo sociale di fronte a cui si presenta quale unica soluzione possibile, oserei dire come una sorta di difensore dell’Italia ritornata “grande proletaria” (Giovanni Pascoli), bisognosa di riscossa, o quanto meno di consolazione, ma non certo di ulteriori conflitti interni. Se il trasformismo renziano possa rappresentare la chance di un nuovo inizio, sul terreno decisivo dei rapporti di lavoro, è un azzardo che si svelerà ben presto.

il Fatto 7.10.14
“Penso a tutto io” Matteo, il bulletto del twitterino
Lui prevede provvede spesso tracima
Spinge la battuta oltre l’ostacolo, la promessa oltre la realtà
di Antonello Caporale


“Li fregherò tutti, uno a uno, su questo non c'è dubbio”. Ogni promessa è debito, e Matteo, modestamente, non si tira indietro. È cambiato il mondo, l'Italia lo ama e lui lo sapeva già: “Dopo di me c'è solo il mago Otelma”, profetizzò all'inizio della traversata, quand'era ancora sul ciglio fiorentino.
Matteo prevede, a volte provvede, ma più spesso tracima. È una oscura forza che gli impone, nel cuore di un pensiero espresso a voce alta, di esorbitare e spingere la battuta da bullo oltre l'ostacolo o anche la promessa oltre la realtà. Per esempio: “Io sono per dire eliminiamo tutto il ceto politico delle provincie, facevo il presidente della provincia non mi sono ricandidato apposta perché ho detto che per me le provincie andavano abolite. Tacchino che chiede l'anticipo del Natale”. Così è stato. Infatti oggi le provincie sulla carta non ci sono più. È restato a galla solo il ceto politico. Non è meraviglioso?
“Marchionne? Se fa buone auto non ci offendiamo”
Tacchino furbissimo oppure battutista à la carte. Quando il nemico era Berlusconi: “Cambia idea ogni tre giorni, non lo seguiamo più. È una soap opera tra Beautiful e Sentieri... Invece di star dietro alle sue paturnie non potremmo parlare di Italia e degli italiani? ”. C'era da incornare Sergio Marchionne? Chi meglio di Renzi: “Se Marchionne ogni tanto fa una macchina buona non ci offendiamo”. È maledettamente vero: l'unico che può mettere al tappeto Renzi è sé medesimo. Perché la sua narrativa è così prolifica che produce un grandioso museo della parola. Il suo è verbo transgenico e multicolor, gode della qualità dell'ambivalenza. È reverse.
Matteo è l'uno e il suo opposto e avanza secondo i criteri della semina del grano. Se è luna crescente sostiene una cosa. Se è calante riesce ad affermare l'esatto contrario con la medesima esuberanza e spontaneità. Ma è questione che attiene alla psicopatologia della politica.
Vade retro ditta. Sì, ma quale ditta?
“Sono quelli che iniziano con la B che hanno paura di confrontarsi”. Con chi ce l'aveva? Penserete Berlusconi. Sbagliato, troppo semplice. È Pier Luigi Bersani, che ha imposto al Pd di cambiare lo statuto ad personam per far gareggiare e vincere Renzi, il nemico giurato. Con B. ci fa le riforme. Con Pier Luigi nemmeno una birra insieme. “Se avessimo pensato meno a smacchiare il giaguaro ma ad occuparci più dei giovani e del lavoro, ora al governo ci saremmo noi, senza Brunetta o Alfano”. Ecco, qui è l'unico momento in cui Matteo difetta di personalità e mostra poca considerazione di se stesso. Lui è al governo insieme ad Alfano e con un Brunetta di scorta. E diciamoci la verità: nessuno dei due sembra allarmato e men che mai il premier che aveva altre idee in testa ma poi se le è fatte passare. Era straconvinto che Berlusconi fosse un nemico. “Gli conviene restare al governo perché sa che se andiamo al voto asfalteremo il Pdl”. Miracolo! Silvio sta dimostrando di essere un gran bel riservista governativo, lo sostiene con dignità e quel tanto di riservatezza che non guasta. I suoivotisonolì, equandoservono lui li sgancia. Dà una mano a Renzi, visto che Renzi dà una mano all'Italia.
La scomparsa dell’inciucio e il carro del vincitore
Si chiamava inciucio, ma oggi non si dice più, non si porta più. “Se c'è qualcuno abituato a salire sul carro per convenienza sappia che noi siamo abituati a farli scendere”. Qui la narrativa renziana era dettata dalla luna crescente, e le parole e le promesse si espandevano come le nubi d'autunno. Poi però con la luna calante è giunto il patto del Nazareno. Molto meglio di quello della crostata, diciamoci la verità: “Se vinco io non è che finisce il centro sinistra, al massimo finisce la carriera parlamentare di D'Alema”. Obiettivo raggiunto.
Il premier non si trastulla con le vittorie che anzi gli fanno ritrovare quell'animo un po’ fanciullesco e bullesco che interrompe ogni rilassatezza di pensiero. Il bullo che è in lui (luna crescente) si mostra e tracima: “Sia chiara una cosa: io non tramo ma non tremo. E visto che di qualunque cosa parlo mi sparano addosso, allora chiedo: se vogliono farmi la guerra me lo dicano. Così mi regolo”.
Marini, i dispetti per l’Italia e Rosi Bindi
Lo diceva ieri, quando era in minoranza. Ma lo può dire anche oggi che è presidente-segretario. “Marini è un dispetto per l'Italia”. Oppure: “Nello zoo del Pd ci sono già troppi tacchini sui tetti e troppi giaguari da smacchiare per permettersi gli sciacalli del giorno dopo”. O anche: “Sono cascati male, ho presi questi voti per cambiare l'Italia davvero”. E infine: “Sto zitto e non faccio polemiche. Ma non mi si chieda di venire a Roma per fare riunioni con Rosi Bindi: non fa per me”. Ecco Matteo, tweetpensatore, guerrigliero della parola: “Il mio incubo è la logica dell'inciucio”. Tutto risolto. B. lo ama quasi, e Verdini si sta dimostrando un fior di consigliere e alleato. L'Italicum sarà la nuova legge elettorale e con rinnovati listini bloccati. Finalmente Gianni Cuperlo potrà legittimamente chiedere la parola. Di lui Matteo appena qualche mese fa disse: “Come fa a parlare chi è stato nominato nel listino bloccato? ”.

il Fatto 7.10.14
Quelle poltrone all’ombra della Boschi
Non solo Renzi, anche il ministro ha la sua corte:
Dall’avvocato Tombari al padre tra banche e Cda
di Emiliano Liuzzi


Smisero quasi subito, anche nel Pd, di chiamarla la giaguara della Leopolda. Lei, avvocato civilista, non gradiva. E nel clima prerenziano fare un torto a Matteo Renzi pareva non opportuno. Poi si vestì di blu elettrico e giurò al Quirinale da ministro. Segno che la videro giusta. Anche e soprattutto perché Maria Elena Boschi non è solo acqua e sapone, ha un suo sistema di potere, molto familistico e potente, soprattutto a Firenze. Uomo cardine della sfera Boschi è l'avvocato civilista Umberto Tombari, il professionista che ha battezzato avvocato la giovane Maria Elena. Nel suo studio la ragazza, appena laureata, svolse la pratica. E Tombari, che non è uno di quei nomi che fa inchinare il foro, nei giorni del massimo splendore renziano, lo scorso maggio, è diventato presidente dell'Ente Cassa di risparmio di Firenze. Un ruolo che, nel capoluogo toscano, vuol dire dirigere il potere come un vigile urbano fa col traffico. L'ultimo esempio: Tombari ha messo la firma due giorni fa su 26 milioni nei confronti del terzo settore e, al convegno, ha parlato col piglio del futuro ministro: "E' giunto il momento di una governance collettiva sul welfare”.
Classe 1966, rossiccio nei capelli, Tombari è legato anche a Renzi: fu l'attuale presidente del consiglio che gli chiese di guidare la partecipata del Comune Firenze mobilità, 39 mila euro all'anno di compenso più un gettone di presenza di 250 euro per ogni consiglio d'amministrazione. Una società chiave nella gestione delle casse fiorentine pari alla Firenze Parcheggi che aveva come amministratore delegato Marco Carrai, oggi anche lui nel cda dell'Ente cassa dove guida il comitato d'indirizzo.
Tombari può vantare anche l'amicizia con Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm, con il quale ha collaborato nel lontano 2001 alla Commissione ministeriale per la riforma del diritto societario voluta dal ministero della Giustizia. In seguito non ha smesso di frequentare Roma neanche in tempi di tecnici, quando ministro dell'Economia era un presunto salvatore della patria come Corrado Passera. Chiese proprio a Tombari di collaborare al decreto Sviluppo Italia che, sapremo poi, come andrà a finire. Tra gli altri incarichi mantiene la presidenza della Sici, acronimo di società imprese centro Italia e che vede tra i soci Fidi Toscana, Mps capital services, la stessa Cassa di risparmi di Firenze, quella di San Miniato e la Banca Etruria.
L'avvocato ha cresciuto un'altra stella del firmamento renziano, quell'Anna Genovese che è diventata commissario della Consob. Insomma, è uno che i talenti li riconosce da lontano. O, molto più semplicemente, sono i talenti che scelgono lui. Come fece, fresca di laurea, la giovane Boschi. In quel periodo la ragazza era già con la testa alla politica, non una frequentatrice assidua delle aule di tribunale. Il padre, che ha seguito passo dopo passo la carriera della ragazza fino al sogno di vederla crescere ministro, in Toscana ha un suo perché, è vicepresidente della Banca dell'Etruria, oltre a una decina di consigli di amministrazione e può vantare nel curriculum di aver guidato la Confcooperative di Arezzo per sei anni, fino al 2010. Pier Luigi, così si chiama il padre, è uomo riservato, ma mastica la politica da sempre con l'occhio più alla vecchia Democrazia cristiana che non al fu Partito comunista. Come ha sempre fatto la moglie, Stefania Agresti, che di Laterina, paese dell'Aretino in cui i Boschi hanno preso forma, è stata anche vicesindaco, sempre per la Democrazia cristiana e poi nel Partito popolare.
La ramificazione del potere si è manifestata poi con la nomina di Maria Elena al ministero per le Riforme, voluta ovviamente da Matteo Renzi. Il resto lo ha costruito lei, da sola. Senza lasciare niente al caso o all'improvvisazione.

il Fatto 7.10.14
Pd, motivazioni assoluzione ex segretaria Bersani: “Sospetti, ma nessuna prova”
Zoia Veronesi era accusata di truffa perché da dipendente della Regione passava molto tempo a Roma
Il giudice: "Non è emerso che si dedicasse ad altre diverse attività estranee ai suoi compiti istituzionali"
di David Marceddu

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il Fatto 7.10.14
La senatrice Pd vuole il “confino” per De Magistris

Angelica Saggese, senatrice salernitana, del Partito democratico, ha chiesto che Luigi De Magistris non risieda più a Napoli. Si tratta di una richiesta ufficiale, inviata per lettera al prefetto di Napoli, al procuratore capo e al ministro dell’Interno. La senatrice, candidata alle primarie per la presidenza della Regione, ha scritto: “Chiedo il vostro immediato intervento per valutare la possibilità che al provvedimento di sospensione venga associato il divieto di dimora nella città di Napoli”. L’ex sindaco, sospeso dopo la condanna per abuso d’ufficio, ha replicato: “Forse credono che viviamo in un regime. Queste parole le ha usate solamente il fascismo. Noi siamo persone libere, oneste, dalla schiena dritta. Penso che chiedere il confino per un uomo libero sia una vergogna".

il Fatto 7.10.14
Alla Questura di Latina
L’ex super-poliziotto: “Bloccato quando ho toccato livelli politico-istituzionali”
di Lorenzo Galeazzi e Luca Teolato

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il Fatto 7.10.14
Diritti Gay
Telefonare Pascale Il Campidoglio si affida a Francesca
Da oggi il dibattito sulle unioni civili
Imma Battaglia (Sel): “Ci aiuti lei”


“Che dici, la chiamo? ”. Il dubbio assale Imma Battaglia – storico volto del movimento Lgbt, oggi consigliere comunale a Roma per Sel – alle sette di sera. La telefonata che potrebbe cambiarle la giornata e – stavolta è il caso di dirlo, anche un po’ la vita – è a Francesca Pascale, compagna di Silvio Berlusconi, da qualche mese paladina dei diritti omosessuali. Oggi, in Campidoglio, si comincia a discutere delle unioni civili e Forza Italia ha pensato di presentarsi serenamente al dibattito con cinquemila ordini del giorno sul tavolo. “Ostruzionismo becero - lo bolla la Battaglia - Si può dissentire, anche in maniera forte, ma io chiedo una opposizione seria: qui la discussione si sa quando inizia e non si sa quando finisce”. Così, alla consigliera di Sel è tornata in mente quella chiacchierata di poche sere fa, quando Francesca in B., ospite del Gay Village, aveva raccontato a lei e a Vladimir Luxuria quanto piacere le avrebbe fatto dare una mano: “Mi ha detto: ‘Fammi sapere quando inizia il dibattito, se riesco vengo’. ” Ma ieri sera, la Battaglia, era “talmente felice” per la vigilia dell’Aula che di telefonare alla Pascale s’è proprio scordata. D’altronde, non è detto che servisse a qualcosa. I quattro consiglieri di Forza Italia giurano che la presenza della first lady all’assemblea capitolina non li smuoverebbe di un millimetro. “Abbiamo incontrato Berlusconi la settimana scorsa – racconta il pidiellino Giordano Tredicine – Non ci ha detto nulla: se tanto gli interessava l’argomento, ci avrebbe detto di avere un atteggiamento diverso.... ”. Non hanno nessuna intenzione di ritirare gli ordini del giorno. Se si trovassero Francesca davanti, aggiunge il capogruppo Fi Giovanni Quarzo, le spiegherebbero che “quella delibera non ha nessun valore giuridico, prendono in giro gli elettori. E noi propaganda non gliela facciamo! Che gli facciamo alzare bandiera per prendere voti? ”.
pa.za.

il Fatto 7.10.14
Reati finanziari
Autoriciclaggio, la legge necessaria per colpire i furbi
di Gianni Barbacetto


ALLA CAMERA SI TORNA A DISCUTERE DELLE NORME CHE DOVREBBERO IMPEDIRE A CHI HA COMMESSO UN ILLECITO DI IMPIEGARNE I FRUTTI, OCCULTANDONE L’ORIGINE

Oggi sarà la volta buona? È stato detto troppe volte. Così anche la riunione odierna della commissione Finanze della Camera potrebbe essere l’ennesima occasione perduta per introdurre il reato di autoriciclaggio, dopo mesi di rinvii e di continue modifiche (peggiorative) del testo di legge. Ecco tutto quello che avreste voluto sapere dell’autoriciclaggio, ma vi hanno impedito di capire.
Se godi non rubi
L’autoriciclaggio è compiuto da chi, dopo aver compiuto un reato (dal furto all’evasione fiscale), ne impiega i proventi, per occultarne la provenienza. Finora in Italia non è reato, ma da mesi sono in discussione testi di legge come quello messo a punto grazie al lavoro di tre pd, Pippo Civati, Lucrezia Ricchiuti e Marco Causi, anche sulla scorta di proposte avanzate dal magistrato Francesco Greco e del presidente del Senato Piero Grasso. Il governo (i ministri Andrea Orlando e Maria Elena Boschi) l’ha peggiorato fino ad azzerarlo. Come? Introducendo una soglia sotto la quale l’autoriciclaggio è di fatto depenalizzato (quando il reato che ha prodotto i soldi da riciclare è punibile con pene inferiori ai 5 anni: guarda caso, proprio i reati come l’appropriazione indebita e la dichiarazione fiscale infedele, quelli che sarebbe più utile perseguire). E poi introducendo il principio di non punire “l’utilizzazione o il godimento personale”: l’autoriciclaggio scatta solo quando i soldi sporchi sono dati in beneficenza a una onlus in Africa?
Il dibattito sul sesso degli angeli (riciclatori)
L’autoriciclaggio, insistono esperti come Francesco Greco e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, dev’essere introdotto contestualmente alle misure per favorire il rientro in Italia dei capitali nascosti all’estero, che così non sarebbero ridotte a uno dei soliti condoni. Questa “voluntary disclusure”, se fatta in fretta, potrebbe far affluire nelle casse dello Stato dai 2 ai 4 miliardi di euro. Una cifra enorme. Padoan ci tiene, ma non riesce a vincere le resistenze. Alcune sono tecniche, legate a sottili questioni giuridiche del tipo: ma si può punire due volte un unico comportamento? Per esempio: evasione fiscale e autoriciclaggio? Sì, ci rispondono in Europa, perché si tratta in realtà di due comportamenti diversi: uno produce una provvista di soldi, l’altro li utilizza occultandone la provenienza. Il primo è un reato contro il patrimonio, il secondo inquina l’economia di mercato. Ma dietro le raffinate dispute “teologiche ” sul sesso degli angeli riciclatori, si intravedono corposi interessi. Proviamo a svelarli con qualche esempio attinto dalla ricchissima casistica di un Paese leader nel settore della corruzione.
Prendi i soldi e scappa (ai Caraibi)
Metti un politico italiano con in Svizzera un bel conto cifrato in cui occulta le tangenti guadagnate in una vita di duro lavoro. Oggi i suoi soldi sono a rischio, perché le banche elvetiche (per le pressioni degli Stati Uniti che hanno deciso di fare davvero la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale) devono segnalare i soldi nascosti nei loro caveau. La Svizzera e perfino Singapore, per uscire dalla black list dei paradisi fiscali, hanno firmato il protocollo Ocse che li impegna a svelare ai Paesi d’origine (a regime entro il 2017) la situazione patrimoniale dei propri correntisti. Che cosa può fare allora, il nostro povero politico? Un Paese serio avrebbe varato per decreto, in una notte, autoriciclaggio e rientro dei capitali (invece di pensare alle ferie dei magistrati), così da costringere immediatamente a scegliere come “sbiancare” i soldi all’estero. Avrebbe recuperato circa 4 miliardi, forse più, e avrebbe reso davvero più difficile e rischiosa la corruzione. Invece il nostro buon politico, mentre i colleghi discutono al governo e in Parlamento gli aggettivi della legge, ha tutto il tempo per trasferire i suoi sudati risparmi in qualche paradiso ancora blindato dei Caraibi.
La “messa in prova” un buffetto e via
Metti il manager che ha accumulato fondi neri all’estero sottraendoli alla sua azienda. Ha compiuto il reato di appropriazione indebita (forse anche di falso in bilancio, ma è un reato ancora depenalizzato, la sua riforma si solidifica e poi torna liquida come il sangue di San Gennaro e quindi il nostro manager se ne fa un baffo). Se li reimpiega, i suoi fondi neri, l’autoriciclaggio non gli verrà contestato, oppure sì (a seconda di quale testo alla fine passerà), ma comunque “sotto la soglia”, quindi con pene risibili: niente carcere, bensì la “messa alla prova”, con conseguente estinzione del reato. Insomma, un buffetto e via. Vale la pena di continuare a rubare.
Diamanti, i migliori amici dell’uomo
Metti l’imprenditore che ha evaso il fisco e portato i soldi in Svizzera. Se li usa per comprare una Ferrari o pagare escort è “godimento personale”. Niente riciclaggio. Se li investe in un hotel a St. Moritz avvia un’impresa, dunque è riciclaggio. E se ci compra dei diamanti? Sono un bell’investimento. Ma l’imprenditore potrà sostenere che a lui i diamanti piacciono immensamente e lo fanno godere. Oggi fa la sua comparsa una proposta avanzata da Giovanni Paglia, parlamentare di Sel, che prova almeno a introdurre il concetto di “trasferibilità”: se il bene comprato è una cena a base di ostriche e caviale (così deperibili!) non è riciclaggio; lo è per un Rolex, per i diamanti e anche la Ferrari, perché sono tutti beni trasferibili. Le escort? Dipende. Oggi nuova gran discussione sul sesso degli angeli. Staremo a vedere i risultati.

il Fatto 7.10.14
La parola al comico
Il comico Daniele Luttazzi, indagato per evasione fiscale replica alle accuse
Io, le tasse e il tatuaggio porno (come il cardinale)
di Daniele Luttazzi


Nutro da sempre profonda stima per la Guardia di Finanza e la raccomando vivamente a chiunque: perciò considero quello delle Fiamme Gialle di Fiumicino un malaugurato abbaglio. Mi accusano infatti di aver compiuto un’elusione fiscale nel 2012 tramite la mia società. Ma sono arrivati alla denuncia penale conteggiando come “non pagate” tasse che la mia società aveva già pagato nel 2007! Alla vivace e comprensibile protesta del mio ottimo commercialista, il luogotenente che ha condotto l’indagine ha alzato le mani dicendo: “Ah, ma noi i conti del 2007 non li abbiamo controllati. ” Testuali parole. E così mi ritrovo coinvolto in un processo penale che non sarebbe dovuto neppure cominciare.
Perché ho fondato la mia società
Non ho fondato la mia società per creare “una scatola vuota con cui eludere le tasse”, come deducono le Fiamme Gialle di Fiumicino, ma perché obbligato dalla legge in materia di spettacolo. Infatti un monologhista può esibirsi in teatro solo se in possesso di un certificato di agibilità, che l’Enpals concede alle società, non al singolo monologhista. La mia società non era affatto “una scatola vuota”: aveva una sede, dove lavorava una professionista con una ventennale esperienza nel settore della distribuzione, dell’organizzazione e della promozione teatrale. Per sette anni, questa società ha curato l’organizzazione e la promozione dei miei tour teatrali e tutta la contrattualistica relativa ai miei impegni di lavoro. Non fossero bastate le disposizioni di legge in materia di spettacolo, a cui mi sono attenuto, e le rendicontazioni puntuali dell’attività, sarebbe stato facile accertare che la mia società non era “una scatola vuota”, ma una realtà viva, operante e per me indispensabile: era sufficiente chiedere a uno qualunque dei cento teatri in cui ho lavorato negli ultimi sette anni. Ma le Fiamme Gialle di Fiumicino non hanno verificato, dando per scontato che la mia società fosse una scatola vuota, come vuole un deprecabile luogo comune sulle società create da attori. Né la mia società ha eluso le tasse: sia perché, ripeto, le somme che mi vengono contestate furono pagate nel 2007 (cioè cinque anni prima di percepire i pagamenti: le società infatti vanno per competenza, non per cassa), sia perché la mia società non ha mai ripartito gli utili. Dov’è quindi l’elusione fiscale? Non c’è.
Cosa ho imparato da questa vicenda
Non appena un artista costituisce una società di servizi come la legge richiede, da quel momento può essere accusato automaticamente di elusione fiscale (“abuso del diritto”) in base all’assioma che la si è costituita per beneficiare di una tassazione agevolata. In questo modo, con superficialità, viene attuato un vero e proprio abuso dell’abuso di diritto che offende la tua dignità di cittadino rispettoso delle leggi. Mi difenderò nel processo, come ho sempre fatto, a differenza di un noto statista che poi è finito ai servizi sociali, ma continua a reggere le sorti di questo divertente Paese.
A certi professionisti del mondo dell’informazione e OSINT
Da un fatidico marzo 2001, in cui si scatenò il putiferio dopo una mia celebre intervista, vengo periodicamente molestato dai media con il pretesto di reati che non ho commesso. Il metodo è sempre lo stesso: si impasta una mezza verità con una buona dose di malizia al fine di ottenere il torrone morbido di un titolo che mi dia del disonesto, ben sapendo, dato che si tratta di professionisti, che una mezza verità fa molto più danno di una bugia intera (“Luttazzi plagiatore! ” “Luttazzi evasore! ”). So che continuerete finché campo, non ve ne voglio: i tipi come me irritano, e a ciascuno il suo mestiere; ma se usate l’argomento del “moralista che fa la morale agli altri e poi lui invece è un disonesto” mi spaventate. Io non sono né un disonesto, né un moralista. Il mio riferimento è Lenny Bruce, che diceva: “Sono corrotto come il cardinal Spellman, ma è lui che vuol fare il cardinale”. Non vedo l’ora di tornare in tv per mostrare il tatuaggio porno che ho sul petto.
Pax Domini sit semper vobiscum. Et in ore stultorum.

Corriere 7.10.14
«Paesaggio a rischio con lo sblocca Italia»
L’allarme del Fai Appello di Carandini. Il 12 maratona in 120 città
di Paolo Conti


«Il decreto “sblocca Italia”, in una parte dei provvedimenti, svela una tendenza pericolosa che, invece di inaugurare una stagione di modernità come è nelle intenzioni del governo, rischia di trascinare l’Italia, ancora una volta, nella spirale degli errori inveterati». L’archeologo Andrea Carandini parla da presidente del Fai, il Fondo Ambiente Italiano. L’occasione è la campagna «Ricordati di salvare l’Italia», la raccolta fondi che andrà avanti fino al 26 ottobre con la Faimarathon del 12 ottobre, domenica, in partnership con Il Gioco del Lotto-Lottomatica. Ma il presidente del Fai è allarmatissimo per la sorte del paesaggio italiano tutelato dall’articolo 9 della Costituzione: a suo avviso si sta attivando un meccanismo che «trasforma la deroga in regola» e «minaccia di equivalere a un condono perpetuo».
Carandini (che chiede al presidente Napolitano di vigilare «perché c’è materia di incostituzionalità») annuncia quattro no e un sì. Sì all’articolo 17 per l’incentivazione fiscale al recupero del patrimonio edilizio esistente. No all’articolo 25 che consente ai comuni di rilasciare l’autorizzazione edilizia anche in assenza del parere della soprintendenza (si prospettano ricorsi a catena), no alle concessioni edilizie in deroga al piano urbanistico comunale (con una «contrattazione privatistica» tra amministrazione e imprenditore), no all’esclusione del ministero per i Beni e le attività culturali dalle procedure di autorizzazione dei gasdotti, no alla «gestione privatistica» per la nuova destinazione degli immobili pubblici inutilizzati». La prima risposta del governo a Carandini arriva dallo stesso tavolo, cioè da Ilaria Borletti Buitoni, ex presidente del Fai e sottosegretario ai Beni culturali con delega al paesaggio: «Semplificare burocrazia e procedure non può tradursi in un rischio per il nostro patrimonio paesaggistico, assicuro il mio impegno».
La campagna «Ricordati di salvare l’Italia» è invece all’insegna della «felicità che provoca la bellezza del nostro Paese» e della speranza per il futuro. Da ieri e fino al 26 ottobre sarà possibile donare due euro al numero 45506 (inviando un sms con il telefono mobile o chiamando da rete fissa) . Per il 12 ottobre è fissata la Faimarathon in 120 città italiane: una passeggiata non competitiva, una maratona culturale adatta a persone di tutte le età. A Milano, per esempio, ci saranno appuntamenti a largo Augusto (dove si svolgeva il mercato ortofrutticolo nell’Ottocento) o a piazza Santo Stefano (che ospitava la darsena), al teatro Lirico e alla Casa dei Grifi. A Napoli si andrà alla scoperta di palazzo Serra di Cassano, villa Carafa della Spina, della chiesa della Nunziatella, della sezione militare dell’Archivio di Stato. A Roma visite guidate al complesso di San Michele a Ripa, alla chiesa di San Benedetto in Piscinula, ai dintorni di via Anicia. Orari e altri particolari su www.fondoambiente.it.

Corriere 7.10.14
In stato di agitazione i 14 Enti Lirici
«Franceschini risponda o si dimetta»


ROMA Manca solo l’ufficialità, ma la via sembra tracciata: sarà stato di agitazione in tutti i 14 Enti lirici italiani contro il licenziamento di coro e orchestra dell’Opera di Roma. Lo ha deciso il coordinamento dei quattro principali sindacati di categoria, che organizzeranno una manifestazione nazionale nella capitale e iniziative diversificate a livello locale. I sindacati sembrano intenzionati a chiedere anche le dimissioni del ministro della Cultura Dario Franceschini, al quale è stato chiesto un incontro, «se non sarà in grado di dare risposte». È la prima replica unitaria alla mossa clamorosa del consiglio di amministrazione dell’Opera che ha portato al licenziamento dei 182 musicisti e cantanti del teatro che intanto incassano la solidarietà delle orchestre indicate come virtuose da Franceschini, Santa Cecilia e Scala. Mentre è anche arrivata ai sindacati la lettera di procedura per i licenziamenti — che avvia un periodo di 75 giorni in cui molto può ancora accadere — ieri mattina davanti all’Opera è andato in scena un breve concerto improvvisato di giovani orchestrali e coristi precari, solidali con i colleghi più anziani del teatro sulle note del Va’, pensiero .

il Fatto 7.10.14
Isis, conquistati altri 3 quartieri a Kobane. Spari e colpi di mortaio nella notte

I miliziani dello Stato islamico continuano l'avanzata verso il confine turco, anche se il centro città è ancora in mano ai combattenti curdi. Fermato in Giappone uno studente musulmano di 26 anni che voleva partire per la Siria per unirsi alla lotta degli uomini del califfato
qui

il Fatto 7.10.14
La bandiera dell’Isis fa a pezzi l’alleanza Usa-Curdi-Turchi
di Cosimo Caridi


IL VESSILLO NERO DEL CALIFFATO SU KOBANE, LA CITTÀ SIRIANA DIVENUTA SIMBOLO DELL’INEFFICACIA DEI RAID DELLA COALIZIONE ARABO-OCCIDENTALE E INAZIONE DELLE TRUPPE DI ERDOGAN

Suruc (confine turco-siriano) Le colline turche che dominano il confine con la Siria sono diventate una terrazza per assistere ai cannoneggiamenti dell’Isis. Ci sono le parabole e i corrispondenti della stampa di mezzo mondo, ci sono gli inviati delle agenzie delle Nazioni Unite, ci sono politici e attivisti, ma soprattutto ci sono i militari turchi. Tutti guardano, nessuno fa nulla. Il più grande esercito del medioriente ha dislocato qui migliaia di uomini e mezzi militari. I carri armati, schierati sulle colline desertiche, osservano la battaglia e, anche se lunedì diversi colpi di mortaio sono caduti in territorio turco, ferendo qualche civile, non hanno ancora sparato un obolo.
A fare le spese di questo immobilismo sono i curdi. A centinaia sono arrivati a Suruc, ultima cittadina turca prima della Siria. In molti vogliono combattere. Kobane è diventata “il simbolo della resistenza curda – spiega Alì, trentenne che twitta compulsivamente informazioni sugli scontri - non solo contro il califfato, ma anche contro la Turchia”. Un cannone ad acqua, dello stesso tipo di quelli utilizzati un anno fa dalla polizia a Gezi Park, spruzza contro una colonna d’auto. “Si sono avvicinati al confine, volevano entrare per unirsi al Ypg (milizia curda). Di là la guerra e di qua la guerriglia”, commenta ironico Alì. Le campagne attorno a Kobane sono vuote da settimane, i villaggi sono disabitati, tutti hanno cercato riparo altrove. Da lì carri armati e mortai del califfato sparano verso il centro urbano.
I CURDI HANNO a disposizione armi leggere, principalmente kalashnikov e mitragliette duschka, efficaci negli scontri ravvicinati, ma inutili durante i bombardamenti. La forza dell’Isis è invece proprio nel suo arsenale e nell’addestramento dei propri uomini. I jihadisti una volta arruolati vengono allenati e indottrinati. “Qui hanno un palcoscenico perfetto” spiega Cawa, metà siriano, come suo padre, e metà turco, nazionalità della madre, “ma al 100% curdo” sottolinea. “Attaccano a distanza e il mondo sta a guardare – continua senza dissimulare la rabbia che prova - perché la comunità internazionale non interviene qui come in Iraq? Forse perché non abbiamo il petrolio? ”. Gli aerei della coalizione hanno colpito tre notti fa. Poca forza o forse poca convinzione, il giorno dopo le milizie del Califfato hanno cannoneggiato come se non avessero subito perdite. Durante gli ultimi anni, in cui la Siria si è frammentata in piccole aree controllate da una miriade di bande armate, il Ypg ha preso il potere nel nord-ovest del paese, su un territorio che è stato denominato Rojava (Ovest, in curdo). “Se cade Kobane – spiega Miran, attivista del Bdp, partito politico erede del Pkk – la mia vita cambierà.
IL DAESH (Isis, in arabo) avrà campo libero per prendere tutti i territori curdi in Siria. Non potrò più tornare a casa, preferisco unirmi alla resistenza e combattere”.
Le prossime ore saranno segnate da duri scontri. Ieri sera il Bdp ha incitato tutti i curdi ad “andare a Kobane e unirsi alla resistenza”. Già nel tardo pomeriggio una bandiera nera del califfato islamico sventolava sulla collina che sovrasta la zona est di Kobane. I peshmerga sono allo stremo. Domenica Arin Mirkain, curda 23enne, si è fatta esplodere a un posto di controllo dell’Isis nelle vicinanze di Kobane. Dopo aver terminato le munizioni, si è fatta saltare in aria uccidendo diversi miliziani. Arin, madre di due figli era una combattente di un’unità mista del Ypg. Anche se i curdi hanno già utilizzato in passato gli attentati suicidi è la prima volta che una combattente donna commette un attentato kamikaze.

il Fatto 7.10.14
Donne al fronte
Arin e le altre, vedove nere della guerriglia
di Roberta Zunini


Non era una vedova nera ma una giovane combattente curda. Quando si è accorta di non avere più munizioni, per non cadere nella rete dei tagliagole dell'Isis che si stavano avvicinando al cuore di Kobane, la città curdo-siriana al confine con la Turchia dove abitava, Arin Mirkin si è fatta saltare in aria uccidendo almeno una decina di jihadisti e distruggendo un blindato. L'azione suicida della ventenne Arin non è stata ispirata da motivazioni religiose. Ma, a ben guardare, le donne kamikaze quasi sempre hanno ucciso per questioni territoriali o per vendicare i mariti e i parenti morti in battaglia o gli stupri subiti. Le vedove nere che dodici anni fa tennero prigionieri per giorni gli studenti russi nel teatro della Duvrovka a Mosca e quelle che contribuirono al massacro di bambini e insegnanti nella scuola di Beslan, in Ossezia del Nord, due anni dopo, erano spinte dalla rabbia e dalla frustrazione per la guerra in Cecenia. La scelta di indossare il tradizionale abbigliamento femminile musulmano, di colore nero e il velo che lascia scoperti solo gli occhi, permetteva loro di portare il lutto per i congiunti caduti in battaglia e le aiutava a nascondere meglio l'esplosivo e a non essere riconoscibili. Anche nel caso delle donne kamikaze irachene bisogna fare dei distinguo. Nel 2008 la cinquantenne Sa-mira Jassim era stata arrestata con l'accusa di aver reclutato più di ottanta attentatrici suicide, che prima erano state stuprate dai suoi complici. Dopo lo stupro, Samira Jassim spiegava alle sue reclute che l'unico modo per evitare la vergogna e salvare l'onore era di scegliere la jihad. Le donne jihadiste della nuova generazione, cioè quelle di origine occidentale, sembrano più impegnate a reclutare kamikaze o a partecipare agli scontri imbracciando il fucile. Lo dimostrano le storie di Colleen La Rose, nota come Jihad Jane e la “vedova bianca”, la ventiseienne inglese Samantha Lewthwaite convertita all'Islam. La prima è finita dietro le sbarre con l'accusa di aver propagandato il terrorismo jihadista su internet e anche di essere stata direttamente impegnata nel reclutamento dei terroristi. Anche la “Vedova bianca” è accusata di aver organizzato attentati kamikaze e terroristici in Kenya, l'ultimo l'anno scorso, ma è riuscita a far perdere le sue tracce. Il primo caso registrato di una donna coinvolta nelle cosiddette “operazioni martirio” è quello di Sana Mekhaidali, che nel 1985, in Libano, si fece esplodere contro un convoglio dell'esercito israeliano, uccidendo cinque soldati. Anche in quel caso si trattava di una questione territoriale, di indipendenza, come per le kamikaze Tamil dello Sri Lanka. Dal 1985 a oggi sarebbero morte circa 250 donne kamikaze.

il Fatto 7.10.14
Messico, 28 corpi in fossa comune. “Sono studenti scomparsi dopo la protesta”

Un uomo confessa di aver partecipato all'uccisione di 17 dei 43 ragazzi scomparsi dopo una manifestazione contro la riforma dell'istruzione. Nel fossato, corpi bruciati su cui sono in corso test del Dna. Durante lo stesso corteo del 26 settembre, arrestati 22 agenti per aver sparato sulla folla, uccidendo sei ragazzi. Il procuratore: "Alcuni membri della polizia fanno parte del crimine organizzato"
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il Fatto 7.10.14
Messico
Strage di studenti I due killer: “Ci ha mandati la polizia”
Trovati 28 corpi, 17 sono dei ragazzi spariti giorni fa durante proteste anti-governative
di Mariateresa Totaro


“Li abbiamo uccisi noi”. Due criminali, con forti legami con le autorità statali, hanno confessato di aver ammazzato 17 dei 43 studenti messicani scomparsi qualche giorno fa. La vicenda, ancora poco chiara, ha inizio il 26 settembre con le proteste contro la riforma dell’istruzione. Nella città di Iguala (a sud di Città del Messico) oltre 150 studenti, per lo più indios, scendono in piazza. La manifestazione degenera e viene repressa nel sangue: sei morti, 25 feriti, 57 “desaparecidos” poi diventati 43 (perchè 14 vengono ritrovati il 30 settembre) e 22 agenti arrestati. Ma le autorità messicane minimizzano e le ricerche dei 57 scomparsi iniziano solo dopo due giorni.
Secondo il procuratore Iñaky Blanco Cabrera, i giovani durante gli scontri si sarebbero impadroniti di tre autobus del trasporto pubblico. In risposta, criminali armati e polizia locale avrebbero risposto col fuoco, sparando sui mezzi. Ieri due “pistoleros”, che hanno ammesso il legame con gli agenti, hanno confessato l’omicidio di 17 dei 43 studenti scomparsi. I loro corpi, ma non ci sono ancora conferme ufficiali, sono stati trovati insieme ad altri cadaveri. Il ritrovamento, avvenuto grazie alle confessioni degli assassini, è avvenuto in una fossa comune vicino alla città di Iguala, nel quartiere di Pueblo Viejo, a duecento chilometri a sud della cittadina. Alcuni dei corpi sono carbonizzati, per questo bisognerà attendere l’esito del test del Dna per una identificazione senza dubbi. I genitori delle vittime sono disperati. All’appello mancano altri 43 studenti e un appello delle famiglie promette una taglia a chi è disposto a parlare. Sul sito del governo si legge: “Un milione di pesos (circa 60mila euro) a chi abbia informazioni utili”. José Luis Abarca Velázquez, sindaco di Iguala, si dichiara estraneo, sia all’ordine di aprire il fuoco sia alle altre violenze accadute in città. Proprio il primo cittadino però è sotto inchiesta per la sua vicinanza a Guerreros Unidos, una formazione criminale di cui potrebbero far parte alcuni degli assassini degli studenti. Secondo i media locali, sono membri dei Guerreros Unidos, gli uomini che hanno sparato sui manifestanti al fianco della polizia locale.

il Fatto 7.10.14
Hong Kong, Occupy smobilita, vince il governo

Dopo otto giorni di proteste, Hong Kong è tornata alla quasi normalità. Gli studenti hanno in maggioranza lasciato la piazza; alcuni loro leader hanno raggiunto accordi per instaurare un dialogo, ma il governatore Leung Chun-ying resta al suo posto. LaPresse

Corriere 7.10.14
Solo antieuro? No, è la nuova destra
L’Alternativa che spaventa Merkel
Si impongono nei Länder, flirtano con gli estremisti. E possono rivoluzionare la politica tedesca
di Paolo Lepri


BERLINO Sono a destra della Cdu di Angela Merkel, con esattezza, perfino nella topografia dispersiva di una città senza centro. Almeno sulla carta, infatti, la distanza tra i due palazzi è di poche centinaia di metri. Dall’anonimo edificio biancastro dove si è insediato il quartier generale di Alternative für Deutschland, nella Schillstrasse, si può vedere, al di là del Landwehrkanal, quella specie di nave trasparente, proiettata all’esterno, dove la cancelliera, timone in mano, ha pronunciato tempo fa alcune parole disarmanti sulla minaccia rappresentata dal vittorioso partito antieuro. «La migliore risposta che possiamo dare loro è quella di governare bene», ha detto, cercando di tranquillizzare i fedelissimi. Niente paura, insomma, rimbocchiamoci le maniche e pensiamo a fare il nostro lavoro, i risultati ci daranno ragione. Sarà sufficiente? Non tutti lo pensano. Molti temono invece emorragie ancora più consistenti.
Intanto, però, in quell’appartamento del sesto piano che guarda in lontananza verso la poco amata multietnica Kreuzberg si studiano le mosse dell’avversario, lo si incalza sempre più sui temi di un’Europa che «non va bene così come è adesso» e su quelli della difesa degli interessi nazionali tedeschi, scivolando spesso nel populismo. Si vede sventolare sul tetto del Konrad-Adenauer-Haus quella bandiera arancione dei cristiano-democratici a cui gli uomini del professor Bernd Lucke vogliono strappare qualche lembo. In attesa, magari, di rappresentare l’unica scelta per una futura coalizione di governo. La mappa della politica è in movimento, più ancora di quella della capitale inquieta che la ospita.
Alternative für Deutschland, nata solo un anno e mezzo fa, è infatti reduce da alcuni successi clamorosi. Alle politiche del settembre scorso è rimasta appena al di sotto della soglia di sbarramento del cinque per cento. «Era solo una prova generale», dicono adesso. La conferma è arrivata ben presto con il voto europeo: sette deputati a Strasburgo, tra cui lo stesso Lucke e un vecchio alfiere dell’euroscetticismo come l’ex numero uno della Bdi, la «confindustria tedesca», Hans-Olaf Henkel. Un mese fa, in Sassonia prima (9,7%), in Turingia (10,6%) e Brandeburgo (12,2%) poi, sono arrivati trionfi superiori persino alle attese. E nelle battagliere campagne elettorali, in cui si è molto parlato anche di criminalità frontaliera o di referendum sui minareti, gli abiti di grisaglia antracite non sono stati indossati da tutti.
«La Germania deve fare i conti definitivamente con un nuovo, forte partito», ha detto Lucke dopo le ultime vittorie. A chi hanno portato via i voti? Un po’ dovunque, riuscendo a essere tanto un punto di riferimento per egoisti conservatori middle class quanto per un elettorato popolare brontolone. «Angela Merkel ha ragione: siamo un problema per tutti», spiega al Corriere una delle teste più fini di Afd, il portavoce Konrad Adam. Filologo classico, ex giornalista della Frankfurter Allgemeine Zeitung , Adam riconosce che, certamente, il maggior numero di elettori in libera uscita vengono dal partito della cancelliera. Ma nei nuovi Länder i consensi arrivano a sorpresa anche dall’estrema sinistra della Linke e da chi aveva smesso di recarsi alle urne. «Scelgono noi — aggiunge — perché offriamo quella alternativa di cui sono stati privati dagli altri partiti».
Il grande interrogativo, però, riguarda le affinità di Alterative für Deutschland con i movimenti dell’estrema destra tedesca (in Sassonia, per esempio, ha prosciugato il bacino elettorale dei neonazisti della Npd che sono rimasti fuori dal parlamento regionale) e le parentele con quelle forze antisistema e xenofobe che si stanno facendo largo in Europa. È un dato di fatto che tutti i dirigenti del nuovo partito hanno allargato il programma iniziale, schierandosi per limitare «il turismo del welfare», per un nuovo concetto selettivo di accoglienza degli immigrati, in difesa della famiglia tradizionale e a favore, più in generale, degli interessi economici tedeschi minacciati. I toni a volte, sono demagogici e non raramente ispirati da uno spirito reazionario. «Le donne vogliono portare i bambini all’asilo nido poco dopo il taglio del cordone ombelicale», è una frase famosa di Lucke.
In realtà il leader di Afd è sempre stato molto sollecito nel respingere accuse di derive estremiste. In qualche caso si è smentito da solo, come quando ha scelto una parola molto infelice per sostenere la necessità di combattere «la degenerazione della democrazia». Per la capolista in Sassonia, Frauke Petry, il modello da seguire è quello «di una politica democratica di destra». Se gli si chiede una formula per definire il suo partito, Adam sottolinea che i vecchi schemi non valgono più e rivendica i valori del «ragionevole buon senso». Rimane prioritaria, aggiunge, la battaglia per smantellare l’unione monetaria, perché la sua esistenza è il primo ostacolo per un futuro migliore dell’Europa. «Noi abbiamo la pretesa — dice — di essere migliori europei degli altri».
«Sono conservatori vecchio stile, non estremisti o radicali di destra», sottolinea il politologo Jürgen Falter, secondo cui Afd non è oltranzista come il Front National francese, non è nazionalista come l’Ukip in Gran Bretagna, non è xenofoba come la Fpö austriaca. «Li paragonerei piuttosto — aggiunge — al Partito popolare svizzero, una forza politica patriottica e isolazionista». Sarà anche vero, almeno in parte, ma le differenze tra patriottismo e nazionalismo sono abbastanza tenui, soprattutto in una Germania che deve fare molta attenzione al fascino indiscreto di questi due sentimenti. È una realtà, comunque, che a livello locale, Alternative für Deutschland ha civettato con ambienti di estrema destra e non ha voluto o potuto «filtrare» il personale politico che oggi la rappresenta. Ne è una dimostrazione chiara il recente caso del deputato regionale brandeburghese Jan-Ulrich Weiss, che ha pubblicato una vignetta antisemita sulla sua pagina di Facebook provocando la reazione indignata del presidente del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Dieter Graumann. «Lo abbiamo allontanato dal gruppo parlamentare», ci spiega adesso Adam.
In ogni caso, la preoccupazione aumenta. A paragonare pochi giorni fa il partito di Lucke al gruppo di estrema destra dei Republikaner non è stato l’ultimo arrivato, ma un uomo autorevole, fedele all’Europa, come il ministro delle Finanze Wolfgang Schaüble. «Dobbiamo combatterli con determinazione», ha detto. E all’ironia del vecchio leone cristiano-democratico, secondo cui è sconveniente che proprio un professore di economia dica sciocchezze sulla moneta unica, la risposta sono stati sgradevoli attacchi personali. Non è stato bello.

Corriere 7.10.14
L’occhio e l’anima
Da Seneca a Leonardo da Vinci la storia dell’oculistica si sposa a quella del pensiero
di Luigi Bazzoli


Il miope Nerone che guarda attraverso uno smeraldo i gladiatori che combattono nel circo. Gliel’aveva consigliato Seneca, che potrebbe essere chiamato il «padre» delle lenti da vista, anche se poi sarebbero passati molti secoli prima di arrivare agli occhiali. E Leonardo, il supergenio. Nel 1508, negli stessi anni in cui studiava il volo degli uccelli e progettava le «macchine volanti», eccolo con il viso immerso — ad occhi aperti — in una semisfera di vetro piena d’acqua. Con quattro secoli di anticipo aveva compreso il principio della lente a contatto: modificare la rifrazione della cornea, sostituendola con un’altra superficie ed eliminando così le imperfezioni nella visione.
La storia dell’oculistica è affascinante, divertente, ricca di sorprese più di ogni altra branca della medicina. E intercetta il pensiero umano sui grandi misteri, come l’origine della luce e quindi della visione. Incrocia le religioni dei tempi arcaici (la luce è principio della vita e quindi è Dio, il buio è assenza di vita e quindi è il nulla), ma è anche medicina primordiale. I Maya, gli Aztechi e gli Egizi ci hanno lasciato statuette che documentano ferite agli occhi e malattie come lo strabismo e l’esoftalmo, cioè l’occhio sporgente. Poi arrivò la filosofia dei Greci, che la coniugavano con la scienza: perché vediamo, come vediamo, attraverso quale meccanismo vediamo? Se ne occuparono vip della scienza come Pitagora, Euclide, Epicuro e il padre della medicina, Ippocrate, e quello arabo, Avicenna. Ma, pur essendo note agli antichi alcune parti dell’organo della vista (la congiuntiva, l’iride, il cristallino) si pensava che a permettere la visione fossero particelle che provenivano dall’esterno, e arrivavano agli occhi a una velocità incredibile. Come in una premonizione della fisica moderna, verrebbe da dire.
Dopo la grande svolta dell’invenzione degli occhiali (che risale alla fine del XIII secolo), bisogna aspettare molti secoli per un vero giro di boa nella storia dell’oculistica. Il grande appuntamento è quello con la chirurgia, ed è quello che ci interessa di più, perché implica un cambiamento radicale nell’approccio alle patologie oculari. Prendiamo la cataratta. Se torniamo indietro nella storia, vediamo che l’intervento veniva effettuato anche nell’antichità, ma si basava su presupposti errati, e il più delle volte falliva l’obiettivo di ripristinare la visione. Si credeva, infatti, e si è creduto fino all’età moderna, che sull’occhio scendesse una specie di velo, come l’acqua che precipita dal dislivello di un fiume. Ancora adesso si dice, popolarmente, «Mi è scesa la cataratta». Non è così. La cataratta è un’affezione tipica dell’invecchiamento (colpisce in genere due persone su tre dopo i 70 anni) ed è una malattia del cristallino, che perde la sua naturale trasparenza e diventa progressivamente opaco. Un’inchiesta realizzata dalla più diffusa rivista scientifica di oculistica, Ocular Surgery News, riporta la previsione dei 50 specialisti più rappresentativi nel mondo. Si va verso una pandemia di cataratta nei prossimi 20-30 anni. Solo in Italia ogni anno 500 mila persone devono «farsi togliere» la cataratta.
Fortunatamente, la chirurgia della cataratta ha fatto passi da gigante. Per misurare i progressi realizzati basta pensare che fino a trent’anni fa le tecniche per asportare il cristallino opacizzato si basavano su una strumentazione fatta di coltellini, bisturi affilati ma sempre lame, aghi, siringhe aspiratrici, gli stessi che usavano gli oculisti di un tempo e che erano ambulanti che prestavano la loro opera per strada. Fino al 1970-80, l’intervento di cataratta consisteva semplicemente nell’estrarre il cristallino, prescrivere lenti molto spesse che compensavano il difetto dovuto alla asportazione di una lente biologica quale è il cristallino. Una prima svolta arrivò grazie all’inserimento di un cristallino artificiale, cioè la lente intraoculare (Iol) che rende al paziente non solo la vista che stava perdendo, ma a cui vengono anche tolti difetti come la miopia. Il primo intervento di questo tipo, nel 1949 in Inghilterra, ma la tecnica è stata impiegata saltuariamente. Ed è stato solo tre anni fa che fu presentato il laser a femtosecondi. È una tecnica innovativa (siamo nel campo nelle nanotecnologie, e la strumentazione opera con impulsi laser della durata del miliardesimo di secondo), che con precisione assoluta esegue prima la piccola incisione per accedere alla cataratta, e poi la frammenta. È in pratica un bisturi di luce, che in Europa occidentale è stato introdotto per primo dal Centro ambrosiano oftalmico diretto dal dottor Lucio Buratto. Non è un punto d’arrivo: si migliorerà ancora per dare la luce, connessione indispensabile tra l’io psichico e l’ambiente esterno.

Corriere 7.10.14
«Quel laser rivoluzionario ci apre nuovi orizzonti»
Zoltan Nagy, pioniere della tipologia a femtosecondi:
servirà anche per la chirurgia del glaucoma
di Adriana Bazzi


Navigando in Internet ci si imbatte in uno Zoltan Nagy fotografo e fotoreporter ungherese, nato a Budapest nel 1943, che vive in Italia, fra Roma e Torino. Ma non è il nostro. Poi c’è un secondo Zoltan Nagy, baritono di una certa notorietà, che però è rumeno. E c’è anche un calciatore, che porta lo stesso nome, nelle file della squadra di Debrecen (Ungheria). Il quarto, Zoltan Tsolt Nagy, di nazionalità ungherese, fa un altro mestiere ed è quello che ci interessa: è un oculista di fama mondiale. Lui, che attualmente è capo del Dipartimento di Oftalmologia alla Semmelweis University di Budapest, è stato il primo a utilizzare il laser a femtosecondi nella chirurgia della cataratta.
Dottor Zoltan, quali sono le più importanti innovazioni in oftalmologia negli ultimi 30 anni?
«Direi le lenti a contatto, inventate dagli ungheresi fin dagli anni 40, per correggere la miopia. Poi il perfezionamento delle tecniche chirurgiche per la cataratta: prima si estraeva il cristallino in toto (la cataratta è una malattia che colpisce il cristallino, una lente che sta all’interno del bulbo oculare, lo rende opaco e impedisce la visione, ndr ) con un grande trauma per l’occhio. Poi l’oftalmologo americano Charles Kelman ha inventato la facoemulsificazione. Con questa tecnica, basata su ultrasuoni capaci di frantumare il cristallino, si è cominciato a ridurre la dimensione dell’incisione. Parallelamente sono state messe a punto lenti intraoculari, da inserire nell’occhio per ripristinare le funzioni del cristallino, grazie alle osservazioni di sir Harold Ridley. Questo ricercatore inglese aveva scoperto che i piloti della Seconda guerra mondiale, colpiti da schegge di vetro nell’occhio, non presentavano alcuna reazione negativa».
Quali sono stati i progressi della chirurgia refrattiva (è una chirurgia che interviene sulla cornea e sul cristallino e corregge i vizi dovuti a un difetto di focalizzazione delle immagini sulla retina, ndr)?
«Dagli anni Novanta questa chirurgia (che ha potuto contare su un particolare tipo di laser chiamato a eccimeri: il laser è un fascio di luce che funziona come un bisturi) ha guadagnato sempre più terreno e, grazie a questa tecnologia, la capacità visiva di milioni di persone è completamente cambiata. Oggi molte condizioni legate a disordini della rifrazione, come la miopia, l’ipermetropia e l’astigmatismo possono essere corretti».
E il laser a femtosecondi che lei per primo ha usato nella chirurgia della cataratta? Quali sono i suoi sviluppi futuri (Il laser si chiama così perché la durata dell’impulso del raggio è infinitesimamente piccolo: uguale a 10-15 femtosecondi che equivalgono a un milionesimo di miliardesimo di secondo, ndr)?
«Questo tipo di laser permette di eseguire l’intervento di cataratta con una estrema precisione (venti volte superiore a quella della mano dell’uomo) con traumi ridottissimi per i tessuti oculari. La tecnica è interessante, può essere usata anche per interventi sulla cornea e, in futuro, per la chirurgia del glaucoma. Ed è promettente anche nei bambini. Non può, comunque, prescindere da un bravo chirurgo! C’è, però, un problema: i costi. Ma si spera che potranno essere ridotti nel prossimo futuro in modo che sempre più pazienti possano accedere a questi trattamenti».
Secondo lei le nuove abitudini di vita legate alle tecnologie possono modificare le capacità visive?
«L’uso di computer, smartphone e tablet richiedono un’acuità visiva da vicino. Mi aspetto un aumento della miopia perché i ragazzi che cominciano a usare il computer in giovanissima età si abituano, appunto, a guardare a brevi distanze. E l’uso di questi dispositivi può provocare un’altra condizione: la sindrome dell’occhio secco. Che può portare a un abuso di colliri. Occorre allora insegnare alle persone come convivere con le nuove tecnologie».

Corriere 7.9.14
Tanti eroi senza fanfare alla prova delle trincee
Con la Grande guerra l’Italia dimostrò di essere una nazione


Il nonno della guerra non parlava mai. In casa non c’erano diplomi da cavaliere di Vittorio Veneto, medaglie, cimeli. È rimasta la foto in divisa da bersagliere, con le piume di struzzo sul cappello. I ragazzi sloveni che videro arrivare i primi bersaglieri sull’Isonzo, venuti a «liberarli», corsero a chiamare i padri dicendo: «Ci sono le ballerine!».
Il nonno era un ragazzo del ’99. Fu richiamato dopo Caporetto. Salì su uno dei treni di cui si cantava: «La tradotta che parte da Torino/ a Milano non si ferma più/ perché va diritta al Piave/ cimitero della gioventù». Qualcosa però era cambiato, rispetto alle stragi dei primi anni di guerra. Non si doveva più avanzare sotto il fuoco nemico in terra slava, per conquistare città in cui nessuno era mai stato e montagne che nessuno aveva mai sentito nominare. C’era da difendere terra italiana, palmo a palmo, per impedire che gli austriaci se la riprendessero tutta. Era un’operazione che ai contadini com’era il nonno, com’erano quasi tutti i soldati italiani, risultava familiare. Non a caso, fu la cosa che fecero meglio in tutta la guerra: difendere la loro, la nostra terra.
Oggi i fanti non ci sono più. La memoria diretta della Grande guerra si è spenta per sempre. Adesso è affidata a noi. Sta a noi figli, nipoti, pronipoti recuperare le loro storie, e raccontarle ai nostri ragazzi. Forse può essere utile a loro e a tutti noi italiani, ora che abbiamo sempre meno fiducia in noi stessi e nel nostro futuro, ricordare che un secolo fa l’Italia fu sottoposta alla prima grande prova della sua giovane storia. Poteva essere spazzata via; invece resistette. Dimostrò di non essere soltanto «un nome geografico», come credevano gli austriaci, ma una nazione. Questo non toglie nulla alle gravissime responsabilità di una classe politica, intellettuale e affaristica che trascinò in guerra un Paese che nella grande maggioranza voleva la pace. Ma aiuta a ricordarci chi siamo, su quali sofferenze si fondano la nostra indipendenza e la nostra libertà; e può essere utile ad alzare lo sguardo su un avvenire che non è segnato né nel bene né nel male, ma dipende soprattutto da noi.
Questo non vale solo per gli uomini. Vale anche, se non soprattutto, per le donne. Di solito la guerra è considerata una roba da maschi. Ma non la Grande guerra. E non soltanto perché sul fronte ci furono crocerossine, portatrici, prostitute, spie, giornaliste, persino soldatesse in incognito. Le donne rimaste a casa dimostrarono di saper fare i lavori «da uomo»: tenere il ritmo alla catena di montaggio, guidare i tram, saldare il metallo, caricare i camion, e anche frequentare l’università, scioperare, reclamare i propri diritti. Al di là della gelata del fascismo, la Prima guerra mondiale dimostrò in tutta Europa che la donna era pronta a uscire di casa per lavorare, rendersi indipendente, costruirsi il proprio destino e contribuire a decidere il destino della nazione. Forse si deve anche a questo imponente fenomeno storico, oltre che all’amore per l’Italia e per la propria famiglia, se la memoria della Grande guerra — come confermano i racconti che mi sono arrivati via Facebook e che pubblico in fondo al libro — è custodita soprattutto dalle donne. Per questo i capitoli alternano storie di uomini e di donne.
La Grande guerra non ha eroi. Non c’è un Annibale, un Cesare, un Alessandro Magno. Altre guerre, per esempio quelle napoleoniche, portano il protagonista nel nome. Il secondo conflitto mondiale è legato al ricordo dei vincitori – Roosevelt, Churchill, Stalin – e dei vinti: Mussolini e Hitler. Oggi nessuno, tranne gli storici, si ricorda di Cadorna o di Hindenburg. Gli eroi, o meglio i protagonisti della Grande guerra, sono i nostri nonni. È la grande massa dei corpi sacrificati alle atrocità della guerra industriale. Sono i feriti, i mutilati, gli esseri rimasti senza volto, talora non in senso metaforico: le gueules cassées , le facce deformate dalle schegge e dalle esplosioni.
Raccontare la guerra con gli occhi di chi l’ha vissuta è una discesa agli inferi. I diari, le lettere, le cartoline restituiscono una sofferenza che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Gli assalti inutili. Le decimazioni. I fanti divenuti folli. Rileggere le loro cartelle cliniche è terrificante. In manicomio c’era un soldato che passava le giornate a contare: contare i morti era l’incarico che aveva ricevuto in trincea. Altri chiamavano di continuo la mamma o il papà, vedevano austriaci dappertutto, piangevano nel timore di essere fucilati. Gli stupri: migliaia di donne nel Friuli e nel Veneto al di là del Piave furono violentate, nell’anno in cui un milione di italiani rimase in balia dell’esercito asburgico. Nove mesi dopo Caporetto cominciarono a nascere i primi bambini; e non si sapeva dove metterli. Gli orfanotrofi li rifiutavano, perché non erano orfani. Ma i maschi di casa non volevano tenere «il piccolo tedesco». Si dovette aprire un istituto, a Portogruaro, per i figli della guerra. Cinquantanove donne convinsero i mariti a riprendere il piccolo: «Lo alleveremo come se fosse nostro». Molti di più furono i neonati che morirono per mancanza di latte. Centinaia di madri andavano di nascosto dagli uomini all’istituto, per nutrire o rivedere i figli; fino a quando il direttore non scrisse una lettera straziante: «Non venite più, perché i bambini vogliono venire via con le mamme, e noi cosa gli diciamo?».
Poi ci sono le storie a lieto fine. Che, paradossalmente, sono la maggioranza. Perché i sopravvissuti hanno avuto qualcuno a cui tramandare la loro vicenda. I morti spesso erano ragazzi che non hanno avuto figli e nipoti cui affidare il loro ricordo. Il recupero della memoria della Grande guerra, cent’anni dopo, è un dovere nei confronti dei salvati e più ancora dei sommersi. Perché il mare grande dell’oblio talora restituisce un frammento del grande naufragio — uno scheletro, una fotografia, un racconto di famiglia, un diario di guerra — da cui si indovina la storia di un giovane che cent’anni fa era «alto, bello e ben fatto» come sono oggi i nostri ragazzi.

Repubblica 7.10.14
Per non dimenticare. E perché non accada mai più
Ungaretti&Rommel. I due sentieri
È il centenario del primo conflitto mondiale e il 24 ottobre la ricorrenza della sconfitta di Caporetto
Il Friuli Venezia Giulia offre visite nei luoghi dello scontro e itinerari sulle tracce dei personaggi che hanno combattuto, anche su fronti opposti
di Andrea Selva


Il tenente Erwin Rommel e il fante Giuseppe Ungaretti. Avevano 26 e 29 anni nel 1917, quando furono protagonisti senza mai incontrarsi - delle battaglie sul fronte italo-austriaco della Grande Guerra. Rommel cercava la gloria, Ungaretti la patria a cui - nato in Egitto - voleva dimostrare di appartenere. Quella di Rommel è una storia di azione: 150 chilometri in due settimane, combattendo dai confini italiani fino a Longarone, attraverso il Friuli. Quella di Ungaretti fu una lunga attesa nelle trincee del Carso.
Era l’autunno di Caporetto. In Germania lo chiamano “il miracolo” e lo studiano sui libri di scuola, in Italia si chiama “la disfatta” e per anni nessuno ne ha parlato volentieri. Ci ha pensato Alessandro Baricco a raccontare nel Memoriale di Caporetto questa storia che dice molto dell’Italia e degli italiani. È la storia di migliaia di soldati come Ungaretti che fronteggiarono il nemico per anni e quando lo videro arrivare alle spalle (Rommel) gettarono il fucile pensando che la guerra fosse finita. Può capitare - di gettare il fucile - quando combatti una guerra che non senti tua, perché sei nato in Sicilia (e l’Austria nemmeno sai dov’è) e sei agli ordini di superiori a cui non riconosci (più) autorità.
Una storia che si può leggere sul territorio, paesi, corsi d’acqua, strade e sentieri. Oppure partecipando alle iniziative del Friuli per i cent’anni e scoprire l’archeologia di guerra a Redipuglia, la galleria dei cannoni nel monte Brestovec, le trincee di Monfalcone e sul monte San Michele. In inverno partiranno le escursioni storiche notturne. Oppure si possono utilizzare le memorie di Rommel come guida. Si parte dalla Slovenia, dove Caporetto si chiama Kobarid. Si sale sul monte Mrzli Vrh, vicino al Matajur, dove il tenente tedesco ricorda: “Dal nemico ci separano ormai solo centocinquanta metri. I soldati (italiani) si precipitano verso di me sul pendio trascinando con loro gli ufficiali che vorrebbero opporsi. Gettano quasi tutti le armi. In un baleno sono circondato e issato sulle spalle italiane. “Viva la Germania”, gridano mille bocche. Un ufficiale italiano che esita ad arrendersi viene ucciso a fucilate dalla propria truppa. Per gli italiani la guerra è finita”.
Dai monti, il percorso di Rommel scende in pianura, lungo la valle del Natisone fino a Cividale, quindi attraverso i torrenti friulani che visti d’estate sembrano larghissime pietraie, ma in quell’autunno piovoso erano ribollenti d’acqua e difficili da attraversare. Il torrente Torre e il fiume Tagliamento. E poi Ragogna, il Ponte di Cornino, Travesio e Meduno. Di nuovo in montagna in quello che ora è il parco naturale delle Dolomiti friulane, lungo la strada costruita dagli alpini attraverso forcella Clautana, Erto e infine giù in discesa, correndo sulle biciclette pieghevoli abbandonate dai bersaglieri, fino a Longarone.
Nella gola del Vajont c’era il ponte più alto d’Italia: 134 metri d’altezza, il ponte di Colomber. Ora non c’è più, venne sommerso dall’acqua del grande bacino che il 9 ottobre del 1963 precipitò a valle seminando la morte. Ma questa è un’altra storia. Rommel passò su quel ponte con i suoi uomini per scendere a Longarone e fermare le truppe italiane che scendevano dal Cadore: “Pochi soldati”, si legge nel suo diario, “si sono visti offrire durante la Guerra mondiale quanto ora a noi si offre nella valle del Piave: migliaia di nemici che si ritirano in una valle non troppo larga, ignari del pericolo che li minaccia sul fianco. I nostri fucilieri non stanno nella pelle”. Ecco la guerra.
La stessa che Ungaretti, stanziale nelle trincee del Monte di San Michele, nel Carso, più a sud, descriveva così: “Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore / non sono mai stato / tanto /attaccato alla vita”.
Ecco cosa pensava il fante-poeta dell’esercito italiano: “Arrivato al mio 19° Fanteria m’accorsi che nell’esercito non c’era coesione: tra i diversi gradi della gerarchia e soprattutto fra truppa e ufficiali c’era un abisso”. Arriverà la riscossa del Piave a restituire l’onore agli italiani.
I luoghi. Udine, dove nel 1916 fu stampato Il porto sepolto: 80 copie di una raccolta dei versi di Ungaretti, oggi rarissima. Il Carso, questo altopiano roccioso spazzato dalla Bora d’inverno e arso dal sole in estate. Il poeta ci tornò una volta sola, nel 1966. Aveva 78 anni e scrisse: “Ho ripercorso qualche luogo del Carso, quella pietraia a quei tempi resa, dalle spalmature bavose di fanga colore del sangue già spento, infida a chi, tra l’incrocio fitto delle pallottole, l’attraversa smarrito nella notte. Oggi il rigoglio dei fogliami la riveste. È incredibile, oggi il Carso appare quasi ridente. Pensavo: il Carso non è più un inferno, è il verde della speranza”.
Erwin Rommel: “I soldati italiani si precipitano verso di me trascinando gli ufficiali che vorrebbero opporsi. Gettano quasi tutti le armi. ‘Viva la Germania!’, gridano” Giuseppe Ungaretti: “Arrivato al mio 19° Fanteria m’accorsi che non c’era coesione: tra i diversi gradi della gerarchia e soprattutto fra truppa e ufficiali c’era un abisso”

Corriere 7.10.143
Class enemy
Scontri tra allievi e docenti: una metafora del mondo
di Paolo Mereghetti


Con una sintesi piuttosto grezza ma efficace — «Ieri gli studenti avevano paura dei professori, oggi i professori hanno paura degli studenti. Benvenuto nel 21esimo secolo!» — la preside del liceo dove è ambientato Class Enemy (in originale Razredni sovražnik , Nemico di classe ) sintetizza il rapporto di forze con cui si fronteggiano allievi e docenti. E con cui si confronta anche il film dell’esordiente sloveno Rok Bicek, presentato l’anno scorso alla settimana della critica di Venezia, dove ha vinto il premio del pubblico Fedora, e presentato ufficialmente quest’anno dalla Slovenia all’Oscar per il miglior film straniero.
È un continuo e sfibrante braccio di ferro quello che si instaura in classe (una generica quarta di un generico liceo sloveno) tra chi sta nei banchi e chi in cattedra, che poi riverbera e trova nuova eco sul terreno culturale e su quello dei comportamenti, accompagnando lo spettatore dentro una specie di spirale dove risentimenti, frustrazioni, certezze e preconcetti si mescolano in una miscela micidiale.
A far da detonatore è l’arrivo, ad anno scolastico iniziato, di un nuovo professore di tedesco, Robert Zupan (Igor Samobor). L’affabile insegnante di ruolo va in concedo di maternità e viene sostituita da un collega che è tutto l’opposto: freddo, autoritario, chiuso al dialogo e soprattutto molto più severo. Così almeno appare alla classe che coagula intorno a lui i tanti problemi con cui hanno a che fare i ragazzi, da chi ha appena perso la madre e non sa darsene pace, a chi pensa solo alla musica e agli spinelli, a chi si preoccupa soltanto del voto. Tutti comunque sembrano avere una propensione per le insinuazioni: basta scoprire una volta Robert che ascolta la giovane Sabina (Daša Cupevski) suonare il pianoforte perché le ipotesi più fantasiose (e meno rispettose) comincino a prendere forma. Ma le calunnie diventano accuse aperte quando Sabina, senza apparente motivo, si suicida: tutti i suoi compagni di classe sono pronti a giurare sulle colpe del professor Zupan che il giorno prima aveva avuto con l’allieva un duro confronto.
Ma dopo aver messo lo spettatore di fronte alle «forze» in campo con il massimo di oggettività possibile, il film continua a registrare lo scontro sempre più acceso senza voler tifare per alcuno dei contendenti. Da una parte i compagni di Sabina che sicuri delle loro idee (per loro Zupan è «un nazi») cavalcano lo sgomento generale per il suicidio accusando l’insegnante in modi sempre più espliciti; dall’altro il professore è convinto che il suo unico dovere sia quello di insegnare e per questo filtra tutto — scontri, tensioni, elaborazioni — attraverso la sua materia, a cominciare dal Tonio Kröger di Mann e dal suo complicato rapporto col figlio suicida.
La scommessa (vinta) del 29enne regista è quella di non parteggiare per nessuno e di mostrare i due campi avversi come treni destinati a scontarsi inevitabilmente, mentre tutt’intorno genitori, preside e psicologa scolastica (a cui la sceneggiatura ha riservato con una certa cattiveria il ruolo più ingrato e frustrante) sembrano preoccupati solo di inseguire il proprio tornaconto e non scalfire l’accomodante immagine pubblica dell’istituto.
Il risultato è quello di un universo scolastico che diventa specchio del mondo che lo circonda, costruito con controllati piani sequenza e intensi primi piani dove si riflette un po’ lo sguardo sociale del regista («Sloveni, se non uccidete voi stessi, uccidete gli altri», dice l’unico alunno straniero della classe), ma dove emerge soprattutto la voglia di sottolineare il rischio che nasce dall’essere troppo sicuri delle proprie idee. Lo sono i ragazzi, costretti a fare i conti con la propria superficialità (quando non cattiveria e qualunquismo) e spinti a scoprire che Sabina aveva ben altre ragioni per il suo gesto, ma lo è anche il professore che alla fine del film appare meno tetragono e «disumano» ma che sembra comunque non voler capire che l’insegnamento non è solo trasmettere nozioni. Lasciando alla fine tutti sconfitti e però avendo offerto allo spettatore lo spunto per cercare dentro di sé il proprio «nemico di classe».

Repubblica 7.10.14
Nel libro di Fubini storie di vite difficili tra passato e presente
Le crisi economiche generano mostri
di Benedetta Tobagi


«ESTRANEO a niente»: così Federico Fubini definisce se stesso nelle prime pagine di La via di fuga ( Mondadori), per poi rivelare, dietro il volto noto al pubblico del giornalista economico, un passato di studi umanistici. E il noto adagio di Terenzio, Homo sum, humaninihil a me alienum puto ( «sono un uomo, nulla di ciò che è umano mi è estraneo») sarebbe un’epigrafe perfetta per questo libro originale e spaesante che col linguaggio del new journalism racconta come la crisi economica si manifesti nella concretezza del vissuto degli uomini e, in particolare, «lo stato mentale delle persone che si trovano davanti a una crisi».
Il sottotitolo recita Storia di Renzo Fubini , che è il prozio dell’autore. Nato nel 1904, economista, allievo di Luigi Einaudi, ebreo torinese morto nei campi di sterminio, ha vissuto il crollo del 1929 e la Grande Depressione, di cui fu testimone in presa diretta come giovane borsista della Rockefeller Foundation; un uomo schivo eppure costantemente attratto, volente o nolente, nel campo magnetico della grande storia. Ma nel libro c’è molto di più. La narrazione muove in costante montaggio alternato tra storie di famiglia, teorie economiche e smottamenti globali dei primi decenni del XX secolo e il tempo presente, dove assume il passo del reportage da due punti d’osservazione molto particolari: la Grecia del collasso economico e la Calabria, terra d’origine del nonno materno e cattiva coscienza d’Italia. La vita, il mondo interiore e i dilemmi di Renzo sono il punto di partenza per raccontare quelli di altri uomini oggi.
L’autore accosta la storia famigliare con grande pudore, tratto distintivo dei fubinorum (ossia “di quelli di Fubine”, nel Monferrato, il paesino dove alla fine del Cinquecento un avo cercò fortuna aprendo un banco di prestito a interesse). Con partecipazione e garbata ironia scopre gradualmente i vari volti del prozio economista, uomo taciturno, modesto all’eccesso, prudente nell’esprimere il proprio antifascismo, pieno di timori e al tempo stesso capace di contestare, giovanissimo, le teorie del maestro Einaudi in favore di Keynes e prendere in moglie una donna anticonvenzionale, lontana anni luce da rigidità e conformismi della famiglia d’origine.
L’attenzione meticolosa con cui il pronipote scruta i dettagli delle poche foto rimaste e persino i mutamenti della sua grafia è la stessa che dedica a ciascuno dei personaggi di quella che definisce un’umile «ricerca di laboratorio sulla vita di poche persone». Estraneo a niente, Fubini coinvolge il proprio io narrante nel racconto e ci conduce con sé a Nicea, dove lui, discendente di piccoli banchieri ebrei, ascolta le farneticazioni contro la plutocrazia giudaica del predicatore di Alba Dorata che, dettaglio agghiacciante, è un pittore fallito come Hitler e si assicura pubblico regalando un trancio di tonno ai capifamiglia alla fine del comizio domenicale. Oppure nella periferia desolata di viale Isonzo 222 a Catanzaro, per osservare da vicino il mercato del voto di scambio e il «fascismo della corruzione» che abusa del debito pubblico per sedare i cittadini. Il piccolo permette di accedere al grande: come il prozio, Fubini si preoccupa di come la situazione economica stia agendo sulle persone, descriva «i vari stadi mentali di una collettività colpita dallo choc». Negli appunti di Renzo trova analisi degli anni Trenta che sembrano scritte per la Grecia, la Germania e l’Italia di oggi, ma soprattutto scopre che «sono i contraccolpi sulla psiche umana che a distanza di decenni si somigliano più degli eventi che li producono». Accanto al riproporsi dell’intolleranza registra il mutare e raffinarsi dei meccanismi di controllo del potere.
Nelle storie che incontra, Fubini vede ricorrere alcune costanti, come il disinteresse per i problemi pubblici generali troppo grandi, la diffusione epidemica di teorie del complotto di cui i governi sono alternativamente protagonisti o vittime, il deflagrare delle angosce interiori nel collasso della vita pubblica, il circolo vizioso per cui l’assenza di fiducia determina la paralisi, il vittimismo e il sentimento d’impotenza (leggendo torna alla mente più volte L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti di Christopher Larsch).
A partire dai casi concreti, l’autore riflette su due temi fondamentali: come gli uomini percepiscono, o rifiutano, la realtà traumatica di una crisi e come vi reagiscono, o non riescono a farlo. «Quando hai capito che sarebbe finita così?» chiede a tutti i greci che incontra nei suoi ripetuti viaggi. Fubini mette in guardia dal rischio enorme insito nella tentazione di negare la realtà, e illumina i meccanismi psicologici alla base del rifiuto e dell’incapacità a prendere atto delle condizioni fattuali, complice la paura e la pigrizia: perché riconoscere l’esistenza di un problema implica un (fastidioso) richiamo a farci qualcosa. La tendenza a negare un’evidenza spaventosa o traumatica è così profonda da degenerare spesso in aggressività nei confronti di chi porta alla luce il vero: accade al direttore dell’Istituto di statistica greco che rinuncia a una florida carriera negli Usa per mettersi a servizio della patria al collasso, e vede i suoi sforzi di trasparenza ripagati con ostracismo, campagne denigratorie e accuse infondate, come se fosse lui l’autore dello sfacelo, e non chi per anni ha scavato il baratro del deficit, tenendolo nascosto. Quanto alla “via di fuga”, esplicito e frequente è il richiamo al saggio più noto di Albert. O. Hirschmann, illustre allievo del prozio Renzo, Exit, Voice and Loyalty , ancora attuale. Andarsene, restare leali al proprio ambiente, dare voce alla protesta? Mai moralista, l’autore ci rende partecipi degli angosciosi dilemmi di chi si dibatte tra queste opzioni, dal prozio Renzo, al geometra mezzosangue rom, al giovane talento che abbandona l’agone politico e torna all’estero dopo l’ennesima elezione amministrativa truccata. Anche quando racconta una success story come quella dell’impresa di informatica e nanotecnologie Connexa, fiore solitario nel deserto calabro, non indulge nell’ottimismo consolatorio, ma ne esplora limiti e contraddizioni. Sempre a occhi bene aperti, teso a comprendere prima di giudicare, Fubini cerca di riordinare la storia propria e altrui e parametrarla all’oggi, per renderla utile a questo tempo in cui è facile sentirsi smarriti. Nel cuore di una crisi economica e morale che accentua i meccanismi deumanizzanti della società, invita al ripiegamento, fomenta l’intolleranza e il diniego, La via di fuga è una lettura preziosa.
IL LIBRO La via di fuga di Federico Fubini (Mondadori pagg. 240, euro 17,50)

La Stampa 7.9.14
Gli studi sulle tecniche per contrastare la perdita della memoria
Neuroni arrugginiti, ecco come tenerli in forma
di Vittorio Sabadin


Raggiunta una certa età, si capisce in fretta che chiunque elogi la bellezza della vecchiaia non sa quello che dice. Le giunture del corpo scricchiolano sempre di più, la vista diminuisce e soprattutto si comincia a non ricordare dove si sono appena posati gli occhiali o le chiavi di casa. André Aleman, professore di neuropsichiatria cognitiva all’Università di Groningen, ha scritto un libro di grande successo («Our Ageing Brain», Il nostro stagionato cervello) per tranquillizzare tutti. La perdita di memoria non è irreversibile e si può combattere con facilità.
Aleman, alle persone che al supermercato non ricordano più che cosa dovevano comprare o che non riescono a ritrovare la strada dove abita il loro migliore amico, comincia col dire qualcosa di tranquillizzante: non siete soli. Miliardi di altre persone al mondo hanno lo stesso problema e se la situazione sembra solo peggiorare è perché nessuno vi ha spiegato come affrontarla. Tanto per cominciare, non è vero che i neuroni del cervello deperiscono unicamente nelle persone anziane. Il processo di invecchiamento comincia già a vent’anni.
Una volta si pensava che i neuroni morissero e non venissero sostituiti. Ora si è scoperto che invece si rimpiccioliscono, e che con il tempo hanno più difficoltà a comunicare e interagire. Questo processo comincia presto e va avanti per tutta la vita. Il volume del cervello, tra i 30 e i 90 anni, si riduce del 15 per cento, anche se ogni giorno, a qualunque età, vengono prodotti migliaia di nuovi neuroni. Questa capacità di rinnovamento diminuisce però progressivamente e non garantisce più alla memoria di funzionare. Non è che le cose che dovremmo ricordare non siano più nel cervello, è che si fa più fatica a trovarle.
Il professor Aleman cita esperimenti nei quali si è chiesto a un campione di persone giovani e anziane di ricordare qualcosa. I giovani hanno risposto subito, gli anziani no. Quando però agli anziani è stato lasciato un po’ più di tempo per pensarci, quasi tutti sono riusciti a ricordare. Il problema non è che la memoria scompare, ma che le connessioni fra i vari neuroni, la cosiddetta materia grigia, sono un po’ arrugginite e funzionano meno bene.
Uno dei problemi delle persone nella terza età è la difficoltà a concentrarsi su qualcosa. Si è continuamente distratti dai rumori e da quello che fanno gli altri intorno, e questo spiega perché sembri così difficile venire a capo delle istruzioni di un nuovo elettrodomestico. Sono facilmente comprensibili, ma la mancanza di concentrazione fa dimenticare la connessione tra il punto 1 e il punto 2 e bisogna rileggere tutto da capo.
Così, se sempre più spesso non si sa dove sono le chiavi dell’auto o si dimenticano regolarmente il Pin del bancomat e la password del computer, bisogna fare qualcosa per evitare che il prossimo stadio sia quello di lasciare aperto il gas o di scordare di chiudere il rubinetto della vasca. Il processo di invecchiamento del cervello non è né irreversibile né ineluttabile. Aleman spiega che è anzi facile combatterlo, con un po’ di fantasia e di allenamento.
Ci sono tanti modi per ricordare le cose e bisogna considerare il cervello come un muscolo, che ha bisogno di ossigeno, buona alimentazione e quotidiani esercizi che lo tengano in forma e concentrato. E in ogni caso, a una certa età, il cervello umano è molto ricco di quella che in psicologia viene definita «intelligenza cristallizzata», la capacità di giudicare le cose di oggi in base alle informazioni del passato. Si chiama saggezza, ed è forse una delle poche cose davvero belle della vecchiaia.

Corriere 7.10.14
Rinasce la tv svizzera: programmi in diretta sul web

C’era una volta la tv svizzera, ed era anche molto amata e seguita in Italia. Poi un lungo periodo di buio. Da qualche giorno è tornata, ma sul web. Collegandosi al sito www.tvsvizzera.it si possono seguire in diretta diversi programmi. Si parte con il telegiornale delle 12.30 per poi passare all’informazione della sera (una fascia dalle 19 alle 20.45) , compresi gli appuntamenti meteo. Lentamente si aggiungeranno altre trasmissioni che per il momento si possono vedere «on demand». Naturalmente rimane anche la parte testuale del sito con le numerose rubriche, articoli, commenti, editoriali. C’è anche la possibilità di condividere sui social (Facebook, Twitter, ecc) i video più amati.