mercoledì 8 ottobre 2014

il Fatto 8.10.14
Su Jobs Act e Tfr si incrina il gradimento di Matteo
Il consenso al rottamatore vacilla: meno 9% in 3 mesi
di Wanda Marra

Stasera il Senato dirà sì all’abolizione dell’articolo 18 e Matteo Renzi otterrà la cancellazione di uno dei “totem” (parole sue) della sinistra italiana. Ma se il rullo compressore va avanti, asfaltando più o meno tutto quel che trova sul suo cammino, senza distinzioni, il gradimento comincia a scendere. Un sondaggio della Lorien Consulting, realizzato tra il 4 e il 5 ottobre, fotografa un calo del 9% o negli ultimi tre mesi per il governo, che sarebbe ora al 53%. Tra rivolte della sinistra dem annunciate, ma non realizzate, scrittua in corsa dell’emendamento, tutte le questioni centrali (a partire da quella che riguarda l’applicazione dell’articolo 18 ai licenziamenti disciplinari) rimandate ai decreti attuativi, oggi Renzi avrà la fiducia del Senato sulla legge delega sul lavoro. Nel frattempo, corre a Milano per il vertice sull’occupazione con la Merkel e Hollande: obiettivo reale, sventolare il jobs act. E photo opportunity da non buttare via con i due in conferenza stampa. Intanto, lavora sulla manovra, tra nodi insolubili. Evidentemente, però, la caoticità del metodo e la poca chiarezza su come escano fuori effettivamente i provvedimenti, comincia a farsi sentire. Se 3 italiani su 4 indicano la riforma come una priorità, solo il 49% conosce il Job Act e, tra questi, solo il 50% ne da complessivamente un giudizio positivo. Insomma, la riforma raccoglie il consenso più o meno informato di solo un quarto degli italiani. Che, però, sono d’accordo sulla necessità di ridurre le forme contrattuali per una forma unica a tutele crescenti (condivisa da quasi il 90% dei cittadini), sulle riforme degli ammortizzatori sociali e dei servizi per l’impiego. Peccato che per capire davvero cosa c’è dentro il provvedimento, bisognerà aspettare i decreti attuativi. Accettata (74% di giudizio “abbastanza positivo”) anche la riforma dell’articolo 18.
ALTRO PUNTO CRITICO, secondo la Lorien, è proprio la proposta di destinare una parte del TFR direttamente in busta paga: il 52% ritiene che un provvedimento di questo tipo metterebbe in difficoltà le imprese, solo il 16% lo ritiene utile, mentre il 21% pensa che non cambierà nulla.
In realtà non è chiaro se questa riforma riuscirà a farsi. Dopo la giornata di oggi, Renzi ha bisogno di spostare i riflettori su un’altra questione. Dunque, si passa al Tfr. Il premier vorrebbe fermamente riformarlo, a partire dal 2015. E la cabina di regia economica è al lavoro per introdurla nella legge di stabilità. Nelle intenzioni dovrà essere volontario e la tassazione dovrà rimanere la stessa che avrebbe se fosse erogato a fine rapporto. Dunque forfettaria. Un altro punto fermo è che non dovrebbero esserne gravate le imprese. Che dovrebbero poter contare sulle banche. Un triangolo difficile da tenere insieme.
“SO CHE ARRIVERÀ un momento in cui il consenso inizierà a scendere. Ma tutte le volte che vedo i risultati dei sondaggi mi dico che continuiamo ad avere un consenso altissimo, tra i più alti d’Europa”, diceva Renzi a Ferrara, durante l’intervista condotta in piazza da tre giornalisti stranieri. Un’eventualità che evidentemente si aspetta. Davanti a lui, sul palco, un uovo rotto: gliene avevano tirate tre ed è stata la prima volta. Un segnale che qualcosa evidentemente sta cambiando. Spiega Nando Pagnoncelli (Ipsos): “C’è una lieve flessione, ma riguarda un punto e mezzo due. E poi, il paragone con giugno è fuorviante: era subito dopo le europee, al massimo del consenso”. Però, il 41% è un risultato che già fa parte del passato. “Renzi sale, sale costantemente”, dice invece Roberto Weber (Ixè). Che nota qualche difficoltà nel Pd, per quanto non quantificabile. Lo stesso Pd che secondo la Lorien Consulting avrebbe perso 400 mila elettori e un milione di simpatizzanti. In effetti, vista la figura fatta in questi giorni, non stupisce. Una delle più sofferte direzioni degli ultimi mesi era arrivata a una mediazione, per quanto minima, impegnando il governo a inserire nella riforma del lavoro i licenziamenti disciplinari. Ma come saranno delimitati? “C’è una norma molto chiara della direzione Pd”, spiegava Renzi ieri in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ma per “chiarire le fattispecie” del reintegro, bisogna “avere la pazienza di attendere i decreti legislativi”. E poi precisava che non ci sarà nulla di scritto, farà una dichiarazione in Aula Poletti. Mentre si diceva sicuro: “Non temo agguati sulla fiducia dal Pd”.
Le minoranze confermano, il dissenso anche quello minimo, non si esprimerà in un voto. E insomma, la mediazione ottenuta in direzione resterà un impegno a voce.
Intanto, ieri la Ragioneria dello Stato ha fatto qualche rilievo prevedibile sulla mancanza dei soldi per gli ammortizzatori sociali per la riforma. Trattandosi di una dichiarazione di intenti, nulla che il governo non possa correggere. Però, il testo per la fiducia (anche a causa della lunghezza della discussione), arriverà a Palazzo Madama oggi a ora di pranzo e il voto in serata. A vertice europeo finito. Ma in fondo, poco male.

Repubblica 8.10.14
Il destino dei partiti senza iscritti
Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso
di Piero Ignazi


SERVONO ancora gli iscritti ai partiti? O sono il residuato di un tempo mitico e lontano in cui masse (?) di militanti partecipavano intensamente e infaticabilmente ad ogni attività del partito, e con il loro piccolo, modesto obolo della tessera fornivano linfa vitale alla loro beneamata organizzazione? In tutti i paesi europei il calo verticale delle iscrizioni e il sempre più ridotto impegno dei membri indicano una tendenza al declino. In Italia, negli ultimi vent’anni, le fortune dei partiti hanno oscillato paurosamente ma, in complesso, le loro organizzazioni hanno tenuto abbastanza. Questo perché la mitologia dell’iscritto quale “ambasciatore tra società e leadership”, alla fine, ha pervaso anche la destra. Se Fi era nata in dispetto ai partiti tradizionali, e Berlusconi non faceva altro che parlare di movimento evitando di nominare invano quel nome terribile, poi i più accorti e navigati consiglieri lo convinsero che di una cosa che assomigliasse ad un partito c’era proprio bisogno. E così anche Fi si mise a reclutare ed inquadrare i propri sostenitori vantando cifre mirabolanti di adesioni, addirittura 401.004 a fine febbraio 2007, record storico dopo i 312.863 del 2000; e tutta quella massa di iscritti era suddivisa in ben 4.306 coordinamenti comunali. Altro che partito “leggero”. E an- cora oggi, persino chi incarna l’anti-partito per eccellenza, il M5s, dichiara orgogliosamente di avere più di mille meetup (termine esotico per indicare le sezioni) e più di 100 mila iscritti, secondo quanto affermato pubblicamente da Gianroberto Casaleggio nel maggio scorso.
Il punto è che l’alto numero di iscritti rafforza la legittimità del partito: dimostra che è in grado di raccogliere consensi non effimeri e convinti, che ha una capacità di convinzione nei confronti dei cittadini più forte del semplice rito sporadico del voto, che dispone di “truppe” mobilitabili all’occasione prima di altri e più intensamente di altri. In sostanza, che il rapporto con la società è profondo e ampio: non è limitato solo ai professionisti della politica, cioè agli eletti e ai dirigenti nazionali. Tutte ragioni, insomma, per fare dell’iscrizione un obiettivo centrale di ogni organizzazione partitica. Certo in un periodo di rampante antipolitica ha del miracoloso convincere qualcuno a fare o rinnovare un passo così deciso verso un partito. E magari a sostenerlo econo- micamente. Tutti i partiti — meno uno, il Pvv olandese del populista Geert Wilders che ha un solo aderente, lui stesso — cercano quindi di reclutare nuovi membri. Per smuovere l’indifferenza, scontando l’ostilità inattaccabile di quelli che hanno voltato le spalle alle politica e non ne vogliono più sapere, molte formazioni europee hanno fornito ulteriori incentivi agli iscritti: principalmente poter scegliere direttamente, senza intermediazioni, i dirigenti e i candidati alle elezioni di ogni livello, ed essere consultati con un referendum sulle grandi questioni (memorabile a questo proposito il referendum sull’adesione o meno al trattato costituzionale dell’Ue indetto dai socialisti francesi nel 2004 al quale partecipò l’83% degli iscritti!). Questi incentivi, in realtà, non hanno invertito la tendenza negativa. L’emorragia di iscritti continua più o meno intensamente ovunque in Europa. E il Pd, inevitabilmente, segue la tendenza. Però ha aggiunto qualcosa in più per scoraggiare le iscrizioni: l’avere incluso anche gli elettori nei processi decisionali interni. Coerentemente con quanto è scritto nell’articolo 1 dello statuto del Pd, approvato a suo tempo (2007) dai vecchi esponenti della ditta e promosso soprattutto dalla componente prodiana — “il partito (...) è costituito da elettori ed iscritti“ —, le scelte più importanti sono state demandate alla più ampia platea dei sostenitori. In realtà, costoro, a norma di statuto, dovrebbero essere inclusi in un apposito Albo, ma se ne sono perse le tracce… Ad ogni modo, nel momento in cui iscritti ed elettori sono sullo stesso piano, l’incentivo a prendere una tessera sfuma ulteriormente. L’evaporazione degli iscritti pone però un problema non irrilevante perché marginalizza gli spazi e le occasioni di discussione e di elaborazione politica. Tutte le leggi sui partiti che la maggior parte dei paesi europei ha introdotto specificano che, oltre al momento della scelta e della decisione, siano previsti anche momenti di discussione interna. Se questo aspetto viene invece considerato residuale perché tutto è rivolto a mobilitare la partecipazione dell’opinione pubblica nelle scelte dei candidati o dei leader, il partito perde linfa vitale. Così contano gli slogan e l’immagine. Il Pd, come altri partiti peraltro, rischia di configurarsi come un’arena fluida e destrutturata dove il meccanismo della incoronazione-legittimazione plebiscitaria vince sulla definizione collettiva di politiche. Il destino dei partiti senza iscritti e senza sedi di dialogo e riflessione è quello di ridursi ad uno spazio dove si mettono in scena scontri di personalità. E dove i leader si appellano direttamente all’opinione pubblica saltando a piè pari quel ferrovecchio di un partito dissanguato. Questa modalità di organizzazione è funzionale alle leadership con pulsioni plebiscitarie ma isterilisce la democrazia perché il dialogo ammutolisce.

il Fatto 8.10.14
Il Pd è sbarrato “Riapre domani”
di Mariagrazia Gerina

Altro che partito liquido. In crisi di iscritti. Senza più l’Unità. Al Nazareno, ieri, hanno deciso di mandare a casa anche i dipendenti e chiudere la porta. Linee staccate. Portone sbarrato. Nessun avviso ai passanti e meno che mai ai militanti. Inutile provare a citofonare: non risponde nessuno. Unico segno di vita, il blindato a guardia della sede nazionale: vuota. Più che liquido il Pd sembrava liquefatto, un partito fantasma. “È per i lavori alla rete elettrica della zona”, rassicura un signore dal marciapiede di fronte. “Domani riapre”. Un avviso affisso qualche civico più in là spiega: “Interruzione energia dalle 14 alle 18”. Ma nella via tutti i negozi sono aperti. Solo il leader più energico d’Europa ha deciso di “spegnere la ditta” per un giorno. Tanto non se ne accorge nessuno.

il Fatto 8.10.14
Sprofondo rosso
“Mi ribello ma mi adeguo”: minoranza Pd nel marasma e in fuga
Minoranza Pd in fuga
La resa bersaniana “Bisogna evitare la crisi di governo e soccorso azzurro”
Fassina isolato e Civati in trincea
Alfredo D’Attorre: “Quella di Pippo è una guerra di movimento che non porta da nessuna parte: sono per la guerra di posizione del Migliore”
di Fabrizio d’Esposito


Gramsci e Togliatti, Renzo Arbore e un po’ di Giorgio Gaber. Lo Spregiudicato punta la pistola della fiducia alla tempia della minoranza e questa si arrende in un bel mattino soleggiato di autunno. Una bella morte, in fondo. Ad appena dieci giorni dalla direzione del Pd, ottobre non è più il mese rivoluzionario promesso dal glorioso quintetto base di quel giorno: D’Alema, Bersani, Civati, Cuperlo e Fassina. La prima fase della resa mescola l’arborismo e il realismo del Migliore. Indietro tutta per citare il mitico Renzo degli anni Ottanta della Rai e prima ancora il compagno Ferrini di Quelli della notte che sentenzia: “Non capisco ma mi adeguo”. La cadenza è la stessa di Pier Luigi Bersani, il gran capo della Ditta trasfigurata in vecchia guardia che in nome della responsabilità oggi voterà la fiducia al Senato.
IL TRAVAGLIO dei bersaniani, dialoganti e non, è affidato al nuovo pupillo del mancato smacchiatore di giaguari, Alfredo D’Attorre, spilungone dal pensiero altissimo: “Ho appena comprato una ristampa dei discorsi di Togliatti, un volume sulla guerra di posizione in Italia. Non si può mica aprire una crisi di governo mandando per aria il Paese. Quella di Civati è una guerra di movimento, che non porta da nessuna parte. Noi, invece, abbiamo ottenuto che il jobs act migliorasse. Ora passa al Senato, alla Camera chiederemo altri miglioramenti perché le condizioni ci sono visto che Ncd non è determinante e che Sacconi qui non è presidente di Commissione. La guerra di posizione, appunto”. Aggiungono altri bersaniani del Senato: “Renzi avrebbe avuto il soccorso azzurro dell’amico Berlusconi e questo avrebbe accentuato il carattere della crisi”. Il quadro politico va di pari passo con la sostanza del provvedimento. Una sostanza che c’è ma non si vede. È una fiducia al buio su entrambi i fronti. Per chi l’ha imposta e per chi la subisce. Ed è per questo che renziani e vecchia guardia si scambiano reciproche accuse di debolezza. Per i primi deve interpretarsi così il cedimento dei bersaniani. Al contrario spiega il senatore Miguel Gotor, un tempo in auge come consigliere del principe Pier Luigi: “La richiesta della fiducia è un segno di debolezza di Renzi sia verso il suo partito sia verso la sua maggioranza”. Chi ha ragione? Chi è più debole? D’Attorre cita Civati sulla differenza tra la guerra di posizione e quella di movimento per rinfacciare alla sinistra interna dura e pura la volontà di rottura totale.
CON LA FIDUCIA, infatti, naufraga per sempre il sogno sussurrato e sempre smentito di trasformare la difesa dell’articolo nell’atto di rinascita del vecchio Pds, approdo di un’eventuale scissione. Non a caso, i toni di Civati sono solennemente assertivi: “Con questi qui, Renzi governerà per i prossimi cinquant’anni. È clamoroso che i bersaniani votino la fiducia, è un segnale di debolezza”. E dagli con la debolezza. Oggettivamente renziani e civatiani concordano sul mancato coraggio dei bersaniani. Non solo. Sempre oggettivamente, la linea di Civati è quella del presunto soccorso azzurro preparato da Denis Verdini, lo sherpa renzusconiano del patto segreto del Nazareno. Nel piano di Verdini, infatti, alla bisogna alcuni senatori forzisti potrebbero uscire dall’aula di Palazzo Madama, dove l’astensione è contata come voto contrario. Idem i cosiddetti senatori civatiani che sono almeno cinque (Ricchiuti, Guerra, Tocci, Casson, Mineo). Civati non si impressiona: “Il gesto potrebbe essere lo stesso ma il senso è diverso. Verdini sarebbe un amico in più, noi degli amici in meno”. Per il leader degli antirenziani non togliattiani “la fiducia è un atto religioso nonché una delega in bianco alla terza potenza, se ne fa un uso deprecabile per questo ho scritto a Napolitano”.
AI PICCOLI e medi fiumi che bagnano la minoranza interna del Pd affluiscono infine due rivoli in tempesta. Quello del laburista isolato Stefano Fassina e quello del dalemiano Gianni Cuperlo. Specifica quest’ultimo: “Sono un po’ meno responsabile di Bersani, vediamo il provvedimento quando arriverà alla Camera e come potrà essere migliorato. Solo allora deciderò”. Quanto a Fassina, la sua posizione registra una compressione al limite dell’esplosione. L’altro giorno ha minacciato “conseguenze politiche” sulla questione della fiducia, ma queste ancora non sono spuntate all’orizzonte. Perdipiù il povero Fassina viene sbeffeggiato così da avversari renziani e amici bersaniani: “Fassina è alla Camera e lì il suo voto conta ancora meno”.
Ma il punto centrale della resa è il sarcasmo di Civati sulle promesse della minoranza di battagliare in futuro, dal jobs act che arriva alla Camera alla frontiera della legge elettorale: “La volta dopo è sempre quella buona”. Nulla di nuovo sotto il sole. C’era una volta Gaber che cantava “la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente”. Titolo: Qualcuno era comunista.

«Anche Civati, che sabato era sul palco assieme a Nichi Vendola per dire «no» alla cancellazione dell'articolo 18 e prepararsi a dar vita a una nuova formazione di sinistra, ieri è stato costretto a fare marcia indietro annunciando, dai microfoni di Radio 24, non il voto contrario bensì la «probabile assenza di alcuni senatori». Il risultato è che si abbassa il quorum e quindi anche gli assenti contribuiranno al via libera sul lavoro. Senza contare che anche i civatiani (cinque in tutto) hanno una posizione non unitaria. Sergio Lo Giudice ha infatti già annunciato che voterà la fiducia, sia pure turandosi il naso («quando deciderò di votare no, sarà il momento in cui abbandonerò il Pd»). Restano ancora in dubbio Walter Tocci e Lucrezia Ricchiuti, particolarmente critici verso Renzi nei loro interventi in aula, mentre non si è pronunciato Felice Casson
Al momento l'unico «no» potrebbe essere quello dell'ex giornalista Rai e oggi senatore Pd Corradino Mineo»
Il Sole 8.10.14
Il voto al Senato. Bersani richiama all'unità: «A chi mi chiede consiglio raccomando responsabilità e lealtà anche davanti a questa forzatura»
Palazzo Madama dirà sì alla fiducia ma restano le divisioni dentro il Pd
di Barbara Fiammeri


ROMA Niente è scontato ma gli indizi delle ultime ore sono univoci: oggi pomeriggio il Jobs act otterrà la fiducia del Senato con i soli voti della maggioranza e nelle stesse ore in cui a Milano Matteo Renzi, assieme François Hollande e Angela Merkel, terrà la conferenza stampa al termine del vertice europeo sul lavoro. Un risultato garantito dalle divisioni all'interno della minoranza Pd con i civatiani (a loro volta divisi) rimasti spiazzati dopo che Pier Luigi Bersani ha dato indicazione di votare la fiducia.
Il governo quindi otterrà il sì di Palazzo Madama anche se non è ancora scontata la maggioranza assoluta dei componenti, vista l'assenza annunciata di alcuni senatori vicini a Pippo Civati e dei centristi Mario Mauro e Tito Di Maggio che minacciano di non votare a favore. Se anche non si raggiungeranno però i 161 voti, nessuno mette in discussione il via libera, anche perché non sono da escludere defezioni strategiche tra i forzisti.
A mettere fine alle ipotesi di possibili spallate sono state ieri le parole di Pier Luigi Bersani. All'ex segretario sono legati infatti almeno una trentina di senatori che avevano sottoscritto gli emendamenti per non toccare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. «A chi mi chiede consiglio raccomando responsabilità e lealtà anche davanti a una forzatura come questo voto di fiducia. La fiducia non può essere in discussione», ha confermato Bersani che non ha rinunciato a inviare una frecciata al premier: «La sera della direzione avremmo potuto tutti, maggioranza e minoranza, andare al cinema». Chiaro il riferimento alla scelta di mantenere invariato il testo della delega sull'articolo 18 senza quindi l'eccezione sul reintegro per i licenziamenti disciplinari, che il segretario-premier aveva garantito nella riunione al Nazareno.
Il dissenso in casa Pd però resta. Lo dimostrano le numerose assenze ieri tra i democratici, ma anche tra i centristi, che hanno determinato la mancanza del numero legale facendo slittare il voto a oggi. A chiedere la verifica sono stati i Cinque stelle e a quel punto Fi non ha partecipato al voto. «La maggioranza deve essere in grado di garantire autonomamente il numero legale, noi partecipiamo solo sui provvedimenti che condividiamo, come è avvenuto sulla riforma costituzionale, mentre sul Jobs act votiamo contro», ha spiegato la forzista Anna Maria Bernini.
Ma il malessere in casa democratica resta circoscritto e in ogni caso nessuno sembra disposto ad assumersi la responsabilità dell'eventuale fine del governo Renzi e della scissione del Pd. Al punto che anche Civati, che sabato era sul palco assieme a Nichi Vendola per dire «no» alla cancellazione dell'articolo 18 e prepararsi a dar vita a una nuova formazione di sinistra, ieri è stato costretto a fare marcia indietro annunciando, dai microfoni di Radio 24, non il voto contrario bensì la «probabile assenza di alcuni senatori». Il risultato è che si abbassa il quorum e quindi anche gli assenti contribuiranno al via libera sul lavoro. Senza contare che anche i civatiani (cinque in tutto) hanno una posizione non unitaria. Sergio Lo Giudice ha infatti già annunciato che voterà la fiducia, sia pure turandosi il naso («quando deciderò di votare no, sarà il momento in cui abbandonerò il Pd»). Restano ancora in dubbio Walter Tocci e Lucrezia Ricchiuti, particolarmente critici verso Renzi nei loro interventi in aula, mentre non si è pronunciato Felice Casson. Al momento l'unico «no» potrebbe essere quello dell'ex giornalista Rai e oggi senatore Pd Corradino Mineo.

Corriere 8.10.14
Corradino Mineo
“Scelte insopportabili pronto a non votare e a lasciare il Senato”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Se ci fosse nell’emendamento del governo il 10% di quello che Renzi ha promesso in Direzione lo voterei, certo che lo voterei». Corradino Mineo, senatore dem, ha ingaggiato con Renzi molti scontri. Oggi potrebbe non partecipare al voto di fiducia sul Jobs Act, così come gli altri civatiani Walter Tocci, Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti. Ma Mineo, e gli altri, si riservano ancora un margine: «Deciderò all’ultimo momento, considerando anche cosa faranno le correnti di Bersani e D’Alema».
Mineo, e se invece nel maxi emendamento non c’è nessuna modifica di sostanza?
«Se fosse così, allora deciderò di conseguenza. Potrei anche dimettermi dal Senato o andare al gruppo misto, non me l’ha mica ordinato il medico... almeno non sarò uno che ha fallito come tanti».
Quali sono quindi le sue critiche di merito?
«Credo che a questo punto bisognerebbe dire a Renzi: basta. Basta con le drammatizzazioni. Il premier ha assicurato: “Non temo gli agguati”, ma noi non siamo gente che fa agguati. È un modo di fare insopportabile ».
E dove porta?
«Renzi nasconde la difficoltà con queste continue sparate, per cui un giorno assalta Mineo, un altro Bersani, domani si vedrà... Bersani voleva dare battaglia sulla legge elettorale, la vera partita, e Renzi lo attacca in anticipo su un terreno a lui favorevole. Nell’immediato si rafforza, ma non vedo la prospettiva».
In definitiva lei cosa farà in aula?
«Pur avendo un segretario del Pd e un premier molto bravo nello scontro politico contingente, bisogna dirgli: “Non puoi passare di battaglia in battaglia e spianare gli avversari”. Bisogna che cominci a riformare un po’, che faccia qualcosa per questo paese. E poi ci vuole un segno di vita della sinistra».
Però non ha ancora deciso?
«Il problema non è mio personale. Ho cercato di far diventare le cose che penso patrimonio di un’area. Voglio confrontarmi con le altre correnti di minoranza. Come giustificano l’atto della fiducia. Se dicono “subiamo” perché non vogliamo la crisi oppure cosa».
La minoranza dem si è divisa e contano per lei le posizioni delle altre correnti?
«Certo. Si fa un percorso insieme. È quanto è accaduto sulla riforma del Senato, in cui a opporci tra le file dem eravamo in 14. Non è che c’è un incontro di boxe Renzi contro Mineo. Nell’ultima direzione dem ha fatto un intervento per fare imbestialire Bersani e D’Alema, poi ha promesso la luna. Magari ci fossero le tutele per i lavoratori non tutelati. Saremmo d’accordo tutti, ci mancherebbe».

il Fatto 8.10.14
Pd, Mineo: “Jobs Act? Renzi ci sta sfidando a votare no alla fiducia”

qui

La Stampa 8.10.14
Sposetti: “Chi mi parla di scissione lo strozzo”
intervista di Carlo Bertini


Quando si parla di scissione dell’ala sinistra del Pd, il nome di Ugo Sposetti, tesoriere degli ex Ds, corre sulla bocca di tutti. «A chi me lo chiede metterei le mani al collo, la mia storia non è questa: si sta nel partito, si discute e si decide a maggioranza. E quando si sta in minoranza, poi si vota come il partito».
Ma secondo lei quanto varrebbe in percentuale una nuova forza di sinistra con la vecchia guardia ex Ds?
«Intanto non vedo un Oscar Lafontaine in giro nel Pd e comunque lui fece una scissione perché aveva un’alleanza con gli ex comunisti della Germania est. Oggi se guardiamo bene da osservatori non astiosi, non c’è spazio per una nuova forza di sinistra. Punto. Dobbiamo piuttosto impedire che il Pd diventi un’altra cosa e fare in modo che ci sia una grossa componente che difenda i valori di sinistra».
Il patrimonio immobiliare degli ex Ds potrebbe ospitare le sedi di un nuovo partito della sinistra?
«Sono tutte stupidaggini, non esiste. In quel patrimonio oggi svolge la propria attività il Pd. Milleottocento circoli Pd sono ospitati in sedi che vengono dalla storia del Pci-Pds. Spesso non pagano l’affitto e le imposte ai proprietari o alle fondazioni territoriali e questo non va bene. Segnalo che lo scorso week end oltre trecentocinquanta iniziative, dibattiti e presentazioni di libri, sono state fatte nelle sedi delle fondazioni con il logo dell’Associazione nazionale Enrico Berlinguer. E sabato ne faremo una ad Alessandria di fundraising per la sede dell’Aquila e per la Fondazione Luigi Longo di Alessandria».
Ma lei è pure impegnato a cercare fondi per finanziare il Pd che è a corto di risorse?
«Io sono impegnato a trovare risorse per pagare stipendi e tfr per quattro impiegati dei Ds e vorrei trovare una ricollocazione per i venti compagni e compagne che sono stato costretto a mettere in cassa integrazione. Questi che parlano tanto, ogni tanto si ricordassero il detto cinese: “Quando bevi l’acqua del pozzo ricordati chi l’ha scavato”. E sono questi compagni che hanno scavato il pozzo per far bere il Pd».

Corriere 8.10.14
Il tormento dei dissidenti. E si apre il caso Casson
Nessuno vuole la crisi. In molti diranno sì e c’è chi pensa di assentarsi
di Monica Guerzoni


ROMA Finiti nel cul de sac della fiducia, i dissidenti non hanno via di uscita. Per «senso di responsabilità verso il Paese» i senatori «democrat» dell’ala sinistra salveranno il governo e manderanno in soffitta l’articolo 18. Ieri vigilia tormentata del voto di oggi al Senato, con una serie di riunioni sfociate nella stessa, rassegnata ammissione: votare no al segretario-premier del Pd sarebbe uno strappo senza possibile rammendo. E così il dissenso sembra destinato a restare scolpito su eventuali documenti di bersaniani dialoganti, dissidenti e civatiani, oltre che sui tabulati: se nessuno ha annunciato un «no» forte e chiaro, più di un senatore potrebbe svignarsela al momento della chiama.
Le parole di Corradino Mineo hanno il sapore della rottura, eppure il senatore civatiano sottolinea di aver usato il condizionale quando in tv ha detto «mi alzerei e voterei no alla fiducia, direi a Renzi che lo spettacolo è finito». Ma poi, via sms, Mineo prende tempo: «Vediamo che succede, deciderò... Ma la storia che noi usciremmo dall’aula se la sono inventata i renziani». Eppure è proprio questa la scelta che farebbe Stefano Fassina, deputato, se oggi il dilemma toccasse a lui: «È una ferita profonda per il Pd. Sono solidale con i senatori, ma io uscirei».
Bersani lancia appelli alla responsabilità, intanto però sulla nuova rivista Ideecontroluce.it avverte: «Se diventiamo solo un partito di elettori, chiunque può venire a casa nostra a fare la destra e la sinistra. Attenzione, significherebbe costruire un peronismo all’europea». Renzi come Perón? C’è anche questo fantasma nel cielo livido del Pd e c’è la lettera-appello di Civati al capo dello Stato contro la «prassi deprecabile» di porre la fiducia su materie «delicate» come il lavoro. Il deputato che non votò la fiducia a Renzi chiede a Napolitano il «richiamo a un maggiore rispetto dei ruoli e delle prerogative istituzionali», smentisce complotti ma conferma che «alcuni senatori non parteciperanno al voto».
Gli indiziati sono Felice Casson, Walter Tocci, Mineo e Lucrezia Ricchiuti, la quale ha detto che voterà sì soltanto «se l’emendamento conterrà passi avanti» rispetto alla delega: «Il mio non è un dissenso che può svanire in 24 ore». Altrettanto profondo il disagio di Erica D’Adda: «Se non si vota la fiducia si deve uscire dal Pd e questo non lo facciamo».
P er quanto riguarda Felice Casson si è aperto invece un caso su un altro argomento. Nella giunta per l’immunità del Senato tutto il gruppo pd ha votato no alla richiesta di utilizzo delle intercettazioni del senatore Antonio Azzollini (Ncd), bocciando così la proposta di Casson, che — da relatore — si era detto favorevole. L’esponente pd si è subito sospeso dal gruppo.
Tornando alla fiducia, ieri anche Vannino Chiti ha riunito 14 dissidenti a lui vicini, convincendoli che «la crisi di governo sarebbe un salto nel buio». Tocci invece non ha deciso, ma il giudizio che scandisce in Aula non suona come il preludio a un sì: «Non si è mai cominciato a cambiare verso. Il rottamatore ha attuato i programmi dei rottamati, di destra e sinistra». Massimo Mucchetti aspetta il testo, ma è «orientato» al via libera. Luigi Manconi, pur convinto che la fiducia sia «un gravissimo errore», si mostra rassegnato a votare con il gruppo. E così Sergio Lo Giudice: «Mi turo il naso...».
I bersaniani — da Cecilia Guerra a Miguel Gotor — si sono visti a Palazzo Cenci e Cesare Damiano è uscito convinto che «nessuno dei nostri metterà in discussione il governo». Farete un documento? «Non escludo nulla» .

Corriere 8.10.14
Renzi e la strategia che sfrutta la debolezza dell’altro Pd
La vera sfida è con chi a Bruxelles chiede all’Italia più rigore, ma non è detto che all’Europa basti la riforma del Jobs act
di Massimo Franco

qui

La Stampa 8.10.14
Il partito dei fuoriusciti
Dalle pieghe della crisi italiana spunta il partito dei fuorusciti

Non sarà determinante, oggi in Senato, per aprire o evitare la crisi di governo, che comunque non ci sarà. 
di Marcello Sorgi


Ma per macchiare il risultato - la delega sul Jobs Act e la contrastata abolizione dell’articolo 18 -, voluto da Renzi a qualsiasi costo, con una striatura di insufficienza: una maggioranza sufficiente ad approvare la riforma, anche se inferiore alla metà più uno dei senatori, per la defezione dei fuorusciti che usciranno dall’aula di Palazzo Madama. Una soluzione, si direbbe, all’italiana, che consentirà a Renzi di proclamare di aver vinto - e averlo fatto sul campo del lavoro, in cui fortissime sono le resistenze della sinistra tradizionale e dei sindacati -, ma anche ai suoi avversari di non aver perso.
La legislatura aperta dalla «non vittoria» del Pd, come Bersani definì il risultato monco del suo partito alle elezioni del 2013, si avvia così a uno sbocco paradossale, che sembra chiudere simbolicamente l’era del bipolarismo. delle «scelte di campo», del «di quà o di là», della sinistra contro la destra. Oggi le destre e le sinistre si moltiplicano e si dividono ai margini di un fenomeno, come Renzi, che attorno a sé ha il quaranta per cento dell’opinione pubblica, un fronte assai largo e comprendente elettori che stanno dalla parte del premier, e un pezzo di delusi dell’altra parte, giovani in attesa della spallata dell’ex sindaco, e meno giovani che lo guardano come un uomo della provvidenza: l’ultimo, forse, che può risollevare l’Italia dalla disperazione in cui è caduta.
È attorno a questo vulcano, che ogni giorno detta l’agenda del Paese, ne condiziona il ritmo cardiaco, la pressione, la digestione, come una specie di trainer, più che premier, che cerchi di raddrizzare con la ginnastica la schiena curva di un vecchio piegato dagli anni, è qui che il partito dei fuorusciti cerca di organizzare la sua linea del Piave. La novità è che appunto si oppongono, ma senza opporsi, si sommano pur restando divisi, si contano senza voler contare fino in fondo. Insieme, la pattuglia dei dissidenti Pd di Civati con quella dei malpancisti di Forza Italia guidata da Fitto possono costituire una forza d’urto capace di mettere in difficoltà contemporaneamente governo e opposizione.
Bastano una decina di assenti per fare del Jobs Act una riforma approvata, ma dimezzata, com’è già accaduto per quella elettorale, che per passare ha dovuto essere limitata solo alla Camera. E bastano un’altra decina di irriducibili e indisponibili senatori di Forza Italia per creare problemi anche a Berlusconi, da tempo ormai non più padrone del proprio campo.
Dove possa puntare un partito talmente eterogeneo si vedrà oggi, al momento della fiducia chiesta dal governo sul Jobs Act. Ma dove sia già arrivato s’è visto anche prima, quando l’intera Seconda Repubblica ha cominciato a franare sotto il peso del suo nuovo trasformismo. Così, all’epoca delle grida contrapposte, s’è sostituita quella del silenzio, delle manovre, dei logoramenti. Ed è su questo terreno, e non soltanto sulle singole riforme che approdano in Parlamento, che adesso Renzi è chiamato a una nuova sfida.

il Fatto 8.10.14
Jobs Act, il premier spacca i sindacati, convince Cisl e Uil e liquida la Camusso: “Padoan è più preoccupato per JuveRoma che per le vostre obiezioni”
E li riconvoca il 27 (due giorni dopo il corteo Cgil)
Oggi la fiducia. Dubbi dei tecnici del Senato sul maxiemendamento
di Salvatore Cannavò

Che ci fate qua?”. Sono le 8:10 e la responsabile del Cerimoniale di Palazzo Chigi si ac
corge che la delegazione sindacale convocata da Matteo Renzi è tutta pigiata sul ballatoio del primo piano. L’anticamera della “mitica” sala Verde, dove si sono sempre tenute le megariunioni tra i governi e le parti sociali, è in ristrutturazione e quindi inagibile. I segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl sono arrivati in orario ma l’incontro con il premier, che sancirà la distanza con la Cgil e la spaccatura del fronte sindacale, slitterà di dieci minuti. Niente di grave ma l’inconveniente sarà poi sottolineato, con sarcasmo, da Susanna Camusso in conferenza stampa e descrive la frettolosità che ha caratterizzato il primo incontro di Renzi con una delegazione di sindacalisti. Un atto dovuto più che ricercato. “Un prezzo da pagare alla minoranza Pd o al Quirinale” dicono a mezza voce i sindacalisti. E sarà costellato da battute, punture di spillo, scortesie e formalità che ben si attagliano allo stile del capo del governo.
“GUARDATE CHE al ministro Padoan interessa più JuveRoma che il giudizio del sindacato”, ironizza Renzi commentando le parole di Annamaria Furlan, al suo debutto come esponente Cisl. “Dimezzare i Comuni?” risponde a Luigi Angeletti, della Uil: “Io preferisco dimezzare i sindacalisti che i sindaci”. E poi lo scontro centellinato con Susanna Camusso: “È demenziale modificare l’articolo 18”. “È demenziale che non l’abbiate nel sindacato”. Oppure: “Chiederemo a Marino (sindaco di Roma, ndr) di accogliere bene i tre milioni del 25 ottobre”. E così via.
I due non si sono mai incontrati. Renzi parla per primo, “otto minuti a mitraglia” mentre Camusso parlerà per ultima, prima della replica del premier. Tra i due c’è un fossato. La leader della Cgil espone minuziosamente tutte le proposte della Cgil ed entrambi capiscono subito che non caveranno nulla da questo confronto.
“SULL’ARTICOLO 18 state facendo un disastro” scandisce la leader sindacale: “Altro che salto nel futuro mi sembra un salto nel passato”, continua. “Non ho mai sentito un sindacato europeo contestare l’austerità” provoca il premier. “Non l’ha mai sentito perché i sindacati non li ha mai ascoltati” replica Camusso, riprendendo l’accusa con la quale, il giorno prima, era tornata ad accostare Renzi a Margaret Thatcher. L’accostamento sarà respinto pubblicamente dal premier, poco dopo, in conferenza stampa quando dirà di preferire “la terza via di Clinton e Blair”.
Ce n’è anche per gli altri. Quando il premier si dilunga sugli enti locali, Angeletti ricorda che si potrebbe dimezzare il numero dei comuni italiani attirandosi la battuta sul dimezzamento dei sindacalisti. Al suo numero due, Carmelo Barbagallo, prossimo segretario della Uil, va peggio. Chiede la parola verso la fine della riunione e si sente domandare: “Lei chi è?”. “Barbagallo, della Uil”. “Ma ha già parlato Angeletti, la prossima volta parli al suo posto o si faccia rappresentare da lui”.
SUL FRONTE governativo la scena è tutta per il premier. I ministri presenti, Giuliano Poletti, Pier Carlo Padoan, Marianna Madia e Graziano Delrio, non pronunciano un fiato. “È incredibile come siano messi in riga” commentano nel sindacato. Nel merito ci sono poche novità rispetto a quanto emerso nei giorni scorsi. Renzi presenta ai sindacati, e subito dopo agli industriali, un pacchetto che propone di rendere strutturali gli 80 euro, “il miglior accordo sindacale mai fatto”, annuncia 1,5 miliardi sugli ammortizzatori sociali, assicura che l’articolo 18 sarà mantenuto per i licenziamenti disciplinari, “fatte salve le fattispecie”, promette di ridurre i contratti precari, di incentivare il contratto unico, di favorire gli accordi aziendali, di sostenere una legge sulla rappresentanza e di preoccuparsi molto delle crisi industriali, a partire dalle acciaierie di Terni. “Il solito show” commenta a margine qualche sindacalista. La replica sarà più concreta e sarà in quella occasione che andrà in onda il siparietto sulla giornata del 25 ottobre e i “tre milioni” che Renzi pronostica in piazza. Un modo, forse, per costringere il sindacato a contarsi veramente. Il nodo dello scontro, in fondo, resta sempre lo stesso: quanti siete, quanto contate, cosa rappresentate? Parole che Renzi non pronuncia direttamente, ma che tutti i partecipanti conservano al termine dell’incontro. Che si conclude con la riconvocazione del 27 ottobre, due giorni dopo piazza San Giovanni della quale, fa capire Renzi, “se ne farà una ragione”.
La delegazione sindacale, in ogni caso, non rimarrà compatta e questo consentirà al premier di parlare di “punti di intesa sorprendenti”. Annamaria Furlan, che da domani prenderà la guida della Cisl sostituendo Raffaele Bonanni, accoglie positivamente le proposte sulla contrattazione aziendale, sulla lotta all’evasione fiscale e anche la mezza marcia indietro fatta sulla rappresentanza sindacale: “Che si voglia discutere è positivo” dice ai suoi. Angeletti, più prudente, preferisce attendere il prossimo incontro, fissato per il 27 ottobre. Susanna Camusso assicura che la Cgil non “è messa all’angolo”, ma da oggi potrà contare solo sulle proprie forze.

La Stampa 8.10.14
Dalla Cgil “dissenso totale”
Ma Cisl e Uil si smarcano
I due sindacati non aderiranno alla manifestazione
di Roberto Giovannini

L’esperimento (con il contasecondi) di dialogo tra Matteo Renzi e i sindacati si conclude con pochi risultati concreti. Ragionevolmente, non c’era da attendersi moltissimo da un appuntamento a cui i protagonisti si sono presentati ognuno con il suo copione da rispettare. Il presidente del Consiglio (con naturalezza) ha recitato la parte di chi già sta compiendo una gran gentilezza ad ascoltare opinioni che lo annoiano, e di cui non intende tener conto. Renzi andrà avanti comunque. La futura leader della Cisl Annamaria Furlan ha messo occhiali con lenti molto rosa, esaltando l’incontro come il possibile inizio di una nuova stagione di dialogo. Più cauto, molto più cauto, il numero uno Uil Luigi Angeletti. Se poi il sindacato otterrà qualche risultato, diranno che è stato merito di Cisl e Uil. Susanna Camusso, come ovvio, voleva guastare la festa al premier, e ha sparato a zero parlando di «dissenso totale» con il governo. E poi è andata a preparare la manifestazione di Piazza San Giovanni del 25 ottobre.
E così l’incontro della mattinata - un’ora e mezzo anziché un’ora - questo è stato. Schermaglie, battute puntute (molte), provocazioni. L’unica apparente novità, il fatto che a quanto pare il presidente del Consiglio abbia pensato di rinviare a un secondo momento l’esame delle proposte su salario minimo, rappresentanza e contrattazione decentrata, assolutamente indigeribili anche a Cisl e Uil se fatte per via legislativa. Nel suo discorso conclusivo Renzi ha affermato di aver registrato «sorprendenti punti di intesa» con i sindacati. Nella conferenza stampa successiva ha comunque chiarito che il governo non si farà fermare da chi «esprime opinioni negative» (ovvero, chi è in disaccordo con lui) o «cerca di bloccare tutto con i soliti veti» (ovvero, chi è in disaccordo e cerca di fare qualcosa di concreto).
Nel corso dell’incontro il premier Renzi non ha esitato a fare alcune battute che (diciamo così) non esprimevano certamente grande stima nei confronti degli interlocutori. A Susanna Camusso, che si accinge a manifestare il 25, ha detto «Ci vediamo il 27, dopo i 3 milioni in piazza; dirò al sindaco Marino di accoglierli bene». Ad Annamaria Furlan, che aveva espresso critiche sull’impianto della Legge di Stabilità, ha ribattuto che «Padoan è molto più preoccupato di Juve-Roma che delle osservazioni del sindacato». Terribile la battuta rivolta da Renzi al numero due della Uil, Carmelo Barbagallo, che voleva prendere la parola: «Lei chi è, scusi?».
Dato evidente: di fronte all’attacco di Renzi i sindacati si sono spaccati in cinque minuti. A dire il vero, però, questa non è una notizia tanto fresca o sconvolgente. Sono dodici anni circa che Cgil-Cisl-Uil sono divise su quasi tutto; mai d’accordo su come affrontare il governo di turno; assolutamente non in grado di fare manifestazioni «grosse» insieme. La Cisl farà non meglio precisate «iniziative nei territori» il 18 ottobre; e comunque non sull’articolo 18, ma su fisco e pensioni, sperando poi che nella legge di Stabilità ci sia qualche buona notizia su sgravi fiscali e investimenti. La Uil vorrebbe organizzare qualcosa di «utile», ma non è facile. La Cgil di Susanna Camusso e di Maurizio Landini (uniti) incassa con rabbia gli sfottò del premier: per lui la manifestazione di Roma del 25 è soltanto una gita, e nulla cambierà. Ma Camusso chiarisce che punta a riempire Piazza San Giovanni di tanta gente che non vuole propriamente bene a Renzi. E soprattutto ricorda che «la faccenda non finisce il 25». La guerra a sinistra sarà cruenta.

La Stampa 8.10.14
Gelo con Camusso, il premier infastidito dal fattore-piazza
Sarcastico: “Ci rivediamo il 25? Ah già, voi il 25 portate tre milioni in strada...”
di Fabio Martini

È durato novanta minuti, si è rivelato un confronto più spiacevole che duro e alla fine in Sala Verde i protagonisti possono alzarsi e rilassarsi. Sembra giunto il momento dei convenevoli e infatti Susanna Camusso, leader della Cgil, si congeda da Matteo Renzi con queste parole: «Ma il 25 non finisce tutto...». Come dire: quel giorno parlerà la nostra piazza, ma la storia continua, non è detto si debba litigare per sempre. Il presidente del Consiglio quasi non ascolta, si defila, se ne va. E se fosse proprio quella manifestazione della Cgil in piazza San Giovanni a Roma ad infastidirlo? Avere una grande piazza ostile è qualcosa che può scuotere un leader tosto ma sensibile alla benevolenza popolare come Matteo Renzi? Questa è stata la sensazione di alcuni dei partecipanti al vertice tra premier e sindacati, ma se comunque è difficile scandagliare nell’animo del presidente del Consiglio, il confronto a porte chiuse ha fatto affiorare asperità politiche ma anche personali tra Renzi e la Camusso, che hanno chiamato in causa più volte il fattore-piazza.
Per il ritorno a palazzo Chigi delle parti sociali, a palazzo Chigi la regia era stata studiata per sdrammatizzare, per far capire che non si trattava di una replica dei vecchi riti concertativi. E dunque, incontri rigidamente prefissati e scalettati, un’ora per i sindacati, un’ora per gli imprenditori, un’ora per le forze dell’ordine, il «tempo per andare dal barbiere», per dirla con l’ironia di Giuliano Cazzola, che ai tempi della Cgil di incontri di questo tipo ne ha fatti tanti. E Renzi va di conserva: accoglie i sindacati «sul ballatoio», come racconterà la Camusso e si presenta ai suoi interlocutori senza cravatta e con la camicia con tre bottoni aperti. Parla per primo Renzi e poi, anziché dare la parola ai ministri competenti sulle materie in discussione, cede il microfono ai sindacalisti. Quando parla la Camusso, Renzi non la guarda negli occhi (e viceversa), anche i due se sono seduti uno davanti all’altro. Non si sopportano, da due anni. Da quando la Camusso, a urne aperte delle Primarie 2012, disse in tv: «Ho votato Bersani e se vincesse Renzi, sarebbe un problema».
E proprio dal premier partono le battute più pungenti. Si sta parlando della Legge di Stabilità e Renzi, tra il serio e il faceto, dice: «Al ministro Padoan la giornata gliela cambia più Juve-Roma che il vostro giudizio...». Si sta parlando di sindaci e Renzi scandisce: «I sindacalisti voglio dimezzare, non i sindaci...». Ma la provocazione più insidiosa, Renzi la produce alla fine, quando vorrebbe spiazzare i suoi interlocutori, annunciando che è sua intenzione incontrarsi di nuovo: «Potremmo vederci il 25, ah no! Il 25 voi della Cgil avete la manifestazione: lo so che porterete in piazza tre milioni di persone...». Battuta che, a differenza delle precedenti, viene fatta filtrare dallo staff di palazzo Chigi, forse contando di imporre alla Cgil il confronto con la oceanica manifestazione contro l’articolo 18 e contro Berlusconi, quella del 23 marzo 2002, passata alla storia come il corteo dei tre milioni. E a quella gente in piazza, Renzi sembra pensare anche quando rimprovera ai sindacati di aver sottovalutato finora il suo impegno per cambiare l’agenda in Europa, si lamenta per la loro «ostilità», sottolineando che alcune modifiche sono state apportate perché «me le ha chieste» la minoranza del Pd. A fine incontro Annamaria Furlan, leader in pectore della Cisl, valorizza gli spiragli, ma confermandosi di “scuola Cisl”, misura la distanza a partire dalle questioni concrete. Anche perché in casa Cisl e Uil si sono convinti che mai e poi mai Renzi replicherà il metodo Berlusconi-Sacconi dei tavoli separati, quando i due sindacati più moderati provarono a ritagliarsi un ruolo negoziale e politico autonomo.

Repubblica 8.10.14
Cgil da sola in trincea Camusso: “Noi in piazza e non finirà certo lì”
di Goffredo De Marchis e Roberto Mania

ROMA La Cgil resta da sola all’opposizione del governo. Cisl e Uil si staccano e decidono di “andare a vedere” le carte di Renzi. I sindacati si dividono al primo incontro con il governo nella Sala Verde del terzo piano di Palazzo Chigi. Susanna Camusso conferma la manifestazione contro le politiche del governo per il 25 ottobre a piazza San Giovanni. Preannuncia al premier «che non finirà lì» e riceve come replica l’ormai classico renziano: «Ce ne faremo una ragione ».
Quella di ieri non è certo stata la giornata della ripresa della concertazione. Nulla di questo era ed è nella strategia del premier. Però qualcosa è successo. Ha detto Renzi ai sindacati: «Se evitate di ripetere le solite cantilene qui potrete aver voce in capitolo. Per troppi anni non avete compreso il cambiamento che si stava producendo nella società. Ora vi do l’opportunità di cambiare insieme a noi».
E dunque dopo le polemiche sferzanti dei mesi scorsi, Renzi ha scelto di imboccare una strada diversa. Ha scelto la via del dialogo sul modello europeo con le parti sociali. O almeno qualcosa che a quell’idea di ispira. Ha illustrato a tutti (associazioni delle imprese e organizzazioni sindacali) gli interventi sul lavoro, le ipotesi per anticipare il Tfr ai lavoratori che lo vorranno con l’obiettivo di provare a stimolare la domanda interna, ha aperto al confronto (lo sosterrà il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti) sui decreti attuativi del Jobs Act, ha fissato per il 27 ottobre un nuovo appuntamento sulla legge di Stabilità (ci sarà il titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan), anche se per quella data sarà già stata varata dal governo. Più avanti toccherà anche alla pubblica amministrazione con il ministro Marianna Madia. In tutto questo la Cisl, che oggi eleggerà Annamaria Furlan («Sono Furlan Annamaria della Cisl», si è presentata ai giornalisti nella sala stampa di Palazzo Chigi) segretario generale al posto di Raffaele Bonanni, ha visto gli elementi di «una svolta» nei rapporti tra il governo e le organizzazioni sindacali. E anche la Uil, per quanto più cauta, non ha escluso «l’inizio di un nuovo corso». «Perché l’idea che si possa cambiare l’Italia dall’alto a colpi di voti di fiducia e di leggi delega comincia a mostrare la corda», ha detto Luigi Angeletti con accanto il suo successore designato Carmelo Barbagallo il quale quando intorno al tavolo della Sala Verde ha provato a prendere la parola è stato più o meno zittito da Renzi con l’invito: «Lei chi è? La prossima volta dia la delega e si faccia rappresentare dal suo segretario generale Angeletti».
Inflessibile è rimasta invece la Cgil, ormai proiettata verso la manifestazione del 25 ottobre a Roma («Sono sicuro che porterete tre milioni in piazza — ha detto Renzi alla Camusso — diremo al sindaco Marino di accoglierli con il dovuto riguardo... »). Di fronte al premier, Susanna Camusso, ha sostenuto che bisognerebbe «discutere di investimenti anziché impelagarsi in questa discussione demenziale sull’articolo 18 che avete aperto». Renzi ha replicato sulla stessa linea di dialogo difficile: «Io vi dico: svegliatevi. Vi offro una serie di temi sui potete dare un contributo con proposte concrete. Si possono fare dei passi avanti insieme». Poi, in sala stampa, il segretario della Cgil ha in tutti i modi marcato le differenze con la Cisl e la Uil: «Oggi nessuno può dire che si è aperta una stagione di contrattazione. Non c’è stato nessun passo avanti. E la scelta fatta dal governo di porre al fiducia radicalizza ancor di più il fatto che non c’è un confronto con le parti sociali».
Ma forse a Renzi serve proprio una Cgil così, alleata nei fatti con la minoranza del Pd e con l’opposizione di Sel, sulla stessa linea dei duri della Fiom di Maurizio Landini, per dimostrare agli organismi europei (oggi a Milano ci sarà il vertice Ue proprio sul lavoro) e a quelli internazionali (ieri l’Fmi ha espresso apprezzamento sullo «spirito» del Jobs Act) l’efficacia della riforma del lavoro e la discontinuità, in particolare con l’intervento sull’articolo 18 e l’introduzione del contratto a tutele crescenti, rispetto alle misure del passato.
Nemmeno le imprese hanno alzato le barricate sull’operazione anticipo del Tfr. Confindustria, Rete Imprese, Cooperative non muovono obiezioni se l’intervento sarà fatto a costo zero per le aziende. Renzi ha ribadito che non si farà nulla se le piccole imprese (che utilizzano il Tfr dei lavoratori per autofinanziarsi a costi bassi) dovessero essere contrarie. D’altra parte il governo sta lavorando proprio su un’ipotesi che non avrebbe alcun impatto sulle imprese. Piuttosto i “piccoli” temono che la riforma degli ammortizzatori sociali comporti per loro maggiori oneri mentre oggi la cassa integrazione in deroga che utilizzano è finanziata dalla fiscalità generale. E temono pure la legge sulla rappresentanza sindacale perché loro i sindacati in azienda continuano a non volerli. Ma d’altra parte la legge sulla rappresentanza non la vogliono nemmeno Cisl e Uil. Su questo gli alleati di Renzi si chiamano Camusso e Landini. Alleanza senza prospettiva.

Corriere 8.10.14
non si usi la costituzione per difendere l’articolo 18
di Andrea Del Re
Avvocato giuslavorista

Il sondaggio di Nando Pagnoncelli (Corriere , 28 settembre) evidenzia che il 53% degli italiani non sa cosa preveda l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Quella norma rimane dunque più un tema della politica che non del sentire quotidiano. Il che conforterebbe l’assunto di quanti sostengono che si tratti di una mera battaglia ideologica. L’articolo 18 si applica a circa un terzo dei lavoratori — chi si trova in imprese sopra i 15 dipendenti (tranne sindacati, partiti, associazioni culturali). Il datore di lavoro sotto quella soglia, in caso di licenziamento illegittimo, se la «cava» con un risarcimento massimo di 6 mensilità, salvo che non venga dichiarato discriminatorio. «Precari» sono dunque, di fatto, tutti i dipendenti, anche a tempo indeterminato, sotto il fatidico numero di 15 assunti.
Vista l’imbarazzante applicazione di certa magistratura, nel 1985 e nel 1987 il «padre» dello Statuto, il giurista socialista Gino Giugni, tentò invano di modificarlo spostando la soglia a 80 dipendenti e 5 miliardi di lire di fatturato. Nel ‘90, Dc e Pci approvarono la possibilità per il lavoratore, vinta la causa, di rinunciare al reintegro in cambio di 15 mensilità. Sono rari i casi in cui il lavoratore abbia poi preferito la reintegrazione al risarcimento: il che dimostra l’inapplicabilità dell’art. 18 nella pratica quotidiana.
La Consulta, nel ‘92, ritenne legittima tale scelta. Nel 2000, la stessa Corte dichiarò l’ammissibilità del referendum per l’abrogazione dell’articolo 18, definendolo una norma dal contenuto non «costituzionalmente vincolato». Il reintegro è solo «uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro»; senza di esso «resterebbe comunque operante la tutela risarcitoria» di cui si sottolineò la «tendenziale generalità».
Dai ripetuti pronunciamenti della Consulta, in modo inequivocabile, si ricava che l’articolo 18 non ha valore di intangibilità costituzionale e può essere sostituito dalla sola tutela risarcitoria — questa sì indefettibile.

il Fatto 8.10.14
Jobs Act, uno scalpo che l’Europa non chiede
di Giampiero Gramaglia
qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/07/jobsactunoscalpocheleuropanonchiede/1146556/

il Fatto 8.10.14
La truffa del Jobs Act E chi lavora resta in fila
Usare l’art.18 per umiliare un sindacato che pur ne ha fatte di tutti i colori
non aiuta i lavoratori, ma li raggira
di Oliviero Beha

IERI, in una delle strade nevralgiche di Roma, via Nomentana, c’era un traffico superiore a quello abituale, assolutamente già invivibile di suo. Tre km scarsi, e tra semafori impazziti, vigili come l’arbitro Rocchi, corsie preferenziali intasate da chiunque, vialetti laterali impercorribili, si rimaneva imbottigliati per più di un’ora: spiegazione, i lavori stradali. Giacché era interrotto il percorso viario, mi sono immesso in quello mentale. Perché a Roma i lavori di manutenzione si fanno di giorno, meglio se nelle ore di punta, con costi sociali enormi non facilmente misurabili ed effetti collaterali determinanti sulla psiche collettiva, e non invece di notte come nelle metropoli civili o decenti all’estero? Dice: perché di notte dovrebbero fare gli straordinari e il Comune non ha i soldi per pagarli, né direttamente né indirettamente. E comunque magari c’è chi si rifiuterebbe di farlo. Mi domando se tutto ciò abbia qualcosa a che fare con l’art. 18, con la discussione sul Job’s act (o semplificato Jobs act senza genitivo sassone e in ogni caso stolidamente esterofilo: mercato del lavoro andava così male?), con il dato del Fmi che indica nell’Italia l’unico Paese in recessione tra le grandi economie, con i numeri degli italiani che espatriano alla ricerca di lavoro che doppiano quelli degli immigrati (94 mila nel 2013 in crescita esponenziale). C’entra l’art. 18 per esempio con la possibilità di rotazione negli orari notturni senza straordinari per i lavoratori stradali? Negli altri Paesi in cui lavorano per le strade di notte come sono messi da questo punto di vista? Si metterebbero a rischio diritti acquisiti o sarebbe giusto ridiscuterne alla luce della “più grave crisi del dopoguerra”? E nel concreto la discussione sul Job’s act (oddio...) tocca anche questo genere di problemi?
E che distanza c’è realmente tra via Nomentana e Palazzo Chigi? Rubo all’effervescente sociologo De Masi alcuni dati. Il numero complessivo degli occupati da noi è 22 milioni e 380 mila. I casi da art. 18 sono 40 mila. Ma – obietta De Masi – l’80% di essi arriva a un accordo extragiudiziale. Dunque ne restano 8 mila. In 4.500 casi il lavoratore perde e in 3.500 vince. Ma non sempre se vince ottiene il reintegro, calcolabile invece solo sui due terzi, quindi poco più che in 2.500 casi. Ovviamente come già stradetto, scritto e ripetuto, il valore simbolico e rappresentativo di un modo di intendere il diritto al lavoro non si misura contrapponendo i dati esigui all’universo dei lavoratori.
 MA È SICURO che nel maneggiare la polemica politica strumentale sull’art. 18 non si possono tralasciare considerazioni di fondo: se davvero interessa far ripartire il Paese, è impensabile farlo escludendo da questa ripartenza l’unità sindacale, i datori di lavoro e l’esecutivo politico. Basta voler indebolire uno di questi tre fattori ed è come estrarre maldestramente dal castello di bastoncini dello shanghai quello sbagliato.
Usare l’art.18 per costringere nel ridotto un sindacato che pur ne ha fatte di tutti i colori negli ultimi vent’anni non significa aiutare i lavoratori, ma soltanto raggirarli nell’imbuto tra teoria e pratica. Così come imbastire polemiche lessicali sul termine “padroni/imprenditori” fa ridere per non piangere in tempi in cui è un sistemaPaese che va in rovina. Che poi tutto ciò serva a un regolamento di conti interno al Pd, è la ciliegina su una torta andata a male e fanno sorridere i proclami di “lealtà” in aula dopo le esperienze dell’ultima elezione per il Quirinale... Se vogliamo continuare sulla falsariga di un derby che si trasferisce da JuveRoma all’art.18, prego, accomodatevi. Ma intanto noi siamo in fila da una vita sulla Nomentana...

Il Sole 8.10.14
Confindustria. «Tfr in busta paga se a costo zero per le imprese ed esteso anche alle aziende pubbliche»
Squinzi: «Renzi è un buon politico Oggi chiuda la riforma del lavoro»
di Nicoletta Picchio

ROMA La prima domanda è sull'incontro di ieri mattina a Palazzo Chigi, nella Sala verde: «Non è stata la mia prima esperienza, ci sono andato anche con altri presidenti del Consiglio». Poi si è passati ai contenuti: «Il presidente del Consiglio ci ha presentato i principi ispiratori della legge di stabilità, abbiamo realizzato che purtroppo di fondi ce ne sono pochi». Giorgio Squinzi risponde alle domande di Giovanni Floris, intervistato nel programma "Di Martedì". Dopo le prime battute si passa subito ai temi caldi del momento, Tfr e mercato del lavoro, a partire dall'articolo 18.
Sul Tfr il presidente di Confindustria ha tenuto fermo il punto, ribadendo le sue condizioni: «Le aziende sono in una situazione drammatica, non sono in grado di sostenere nuovi oneri e aggravi di costo». Una preoccupazione che ieri mattina Squinzi ha sottolineato nell'incontro con il presidente del Consiglio. «Renzi è stato rassicurante, ci ha garantito costo zero», ha riferito Squinzi. E quindi «se ci sarà una libera scelta dei lavoratori, se riguarderà anche le aziende pubbliche noi non ci opponiamo». L'impatto zero potrebbe essere garantito dalla Cassa Depositi e Prestiti: «È la soluzione che ci è stata prospettata, una garanzia dello Stato che subentrerà in caso di insolvenza delle aziende».
Confindustria è entrata nella Sala verde dopo i sindacati, insieme alle altre organizzazioni imprenditoriali: un incontro cordiale, dove il presidente del Consiglio ha apprezzato più volte il ruolo importante svolto dalla confederazione.
Certo, la situazione è complessa, ci sono circa 20-25 miliardi da trovare. «Noi avevamo idea della mancanza di fondi, 10 miliardi occorrono solo per stabilizzare gli 80 euro in busta paga. Ci auguriamo che siano messi a disposizione 1,5-2 miliardi per la la riduzione dell'Irap, poi chiediamo incentivi di carattere fiscale sulla ricerca in maniera stabile», ha detto Squinzi, sottolineando che il sistema imprenditoriale non può sopportare nuove tasse e che è «inaccettabile» il peso di alcune sul sistema produttivo, come l'Imu sui capannoni, estesa anche ai macchinari imbullonati a terra.
Comunque «sono ottimista, penso che ci sia sempre un futuro davanti a noi», ha detto il presidente di Confindustria. Che ha giudicato Matteo Renzi «un buon politico per la voglia che ha di incidere sui nodi e trovare soluzioni». Le analisi del premier, ha aggiunto, «mi sembrano molto corrette». E di fronte alla domanda sull'ipotesi che il presidente del Consiglio possa andare avanti di rilancio in rilancio, Squinzi ha risposto: «Si può rilanciare, ma c'è un limite temporale. Ci aspettiamo che le riforme vengano realizzate. Il governo si deve concentrare sulle cose che portano alla crescita, Renzi ha confermato che non vuole sforare il deficit». Ma il lasso di tempo dei mille giorni che si è dato Renzi? «Mille giorni è un numero simbolico, ma le riforme si possono fare in un tempo più breve. Ci vuole tempo, certo, per riparare ai danni che vengono da molto lontano nel paese, ma credo che si possa fare più brevemente. Accetto l'ipotesi dei 700 giorni: alla fine del mio mandato in Confindustria mancano 5-600 giorni, mi piacerebbe vedere che qualcosa sia stato fatto».
Sul lavoro, Squinzi ha sottolineato l'importanza del dialogo: «Mi sono sempre confrontato, ho firmato contratti senza un'ora di sciopero». Sull'articolo 18, «è un fattore di non competitività del paese, ritarda gli investimenti esteri e quelli degli imprenditori italiani». E sul Jobs act: «Il mercato del lavoro deve essere riformato, si chiuda la riforma», aggiugnendo che il contrattoi unico non lo troverebbe d'accordo e che è meglio avere contratti di categoria, «magari semplificati o accorpati, che permettano alle aziende di assumere lavoratori a tempo indeterminato».
Alla domanda sulle posizioni dell'imprenditore Diego Della Valle e la sua intenzione di entrare in politica, Squinzi ha risposto: «In Italia c'è libertà di pensiero, quello che esprime Della Valle è degno del massimo rispetto». E ha sottolineato l'atteggiamento della confederazione di cui è presidente: «Confindustra non è un partito e non scenderà mai in politica, in particolare sotto la mia presidenza».

il Fatto 8.10.14
Zagrebelsky e le strane scuse della Boschi
Il giurista racconta le telefonata della ministra: “L’ho chiamata ‘professorone’ per finire sui giornali
di Andrea Giambartolomei

Mi scusi per averla chiamata ‘professorone’, ma è una maniera per finire sui giornali”. Questo è – in sintesi – quello che, durante una telefonata, il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi ha detto a Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale e critico delle riforme volute da Matteo Renzi.
IL MESSAGGIO è stato rivelato dal giurista durante il dibattito organizzato dal Fatto Quotidiano al Teatro Nuovo di Torino lunedì sera, in un confronto con Gian Carlo Caselli, Maurizio Landini e Peter Gomez intervistati da Silvia Truzzi. La conversazione è avvenuta nel periodo in cui si discuteva della riforma del Senato. “Ho avuto alcuni contatti telefonici con la ministra delle Riforme”, ha detto Zagrebelsky alla platea. “Mi dice: ‘Professore, non si sarà mica offeso della parola ‘professoroni’ o ‘rosiconi’. No, non è questione di offendersi”. Però c’è altro. Con quella telefonata la ministra gli ha rivelato la ragione che c’è dietro epiteti come “professoroni”, “rosiconi” e “gufi”: “Sapete, noi abbiamo a che fare con la stampa, abbiamo a che fare la comunicazione, quindi le parole che usiamo più sono pesanti, più passano”.
In sostanza una strategia per poter aumentare il conflitto e guadagnare qualche titolo di giornale in più. “Cosa le importava? ha spiegato il giurista lunedì sera Le importava di dire che, per questa sua riforma, aveva ascoltato tutti i costituzionalisti, anche quelli che non erano d’accordo”.
Nulla contro le contestazioni generazionali: “Considero del tutto fisiologico che voi giovani contestiate quelli della generazione precedente ha premesso per poi lanciare un messaggio Però ci dovrete sopportare, a meno che a nome della rottamazione non decidiate di fare quello che si faceva in certi villaggi dell’America precolombiana, quando gli anziani venivano presi, denudati, spalmati di miele e messi in una capanna con al centro un termitaio. La mattina dopo passavano quelli della generazione più nuova e ritiravano lo scheletro perfettamente pulito. Fino a quando non si pensa ancora di fare ciò ci dovrete sopportare”.
AD APRILE la Boschi, riferendosi alle critiche arrivate da Zagrebelsky e da Rodotà, aveva detto: “In questi ultimi trent’anni le continue prese di posizione dei Professori abbiano bloccato un processo di riforma oggi non più rinviabile per il Paese”. Poi a maggio ha fatto una leggera marcia indietro invitandoli a un convegno di costituzionalisti a Palazzo Marini, nella Sala della Colonne, per discutere di riforme insieme ad altri giuristi. Il professore torinese non poté andare e le inviò una serie di proposte sui possibili cambiamenti da fare alla Carta. Proposte mai prese in considerazione.

Corriere 8.10.14
L’accusa dell’ex fedelissimo Richetti
«Renzi governa pensando ai consensi»
«Prevalgono ambiguità e velocità. Invece servono misure impopolari»
di Andrea Garibaldi

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il Fatto 6.10.14
Comunicazione politica: Renzi e B., i maghi del linguaggio assertivo
di Amalia Signorelli

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il Fatto 8.10.14
Il Pd salva compatto l'ex forzista accusato di truffa
Il relatore Casson si dimette per protesta
E’ accaduto a Palazzo Madama dove, dopo nove mesi di rinvii e intoppi

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il Fatto 8.10.14
Trattativa, pm : “Sì a presenza dei boss e di Mancino” a deposizione Napolitano
Per la Procura di Palermo, alla luce dei principi generali che consentono all’imputato di partecipare al processo, un’eventuale esclusione, a fronte di una precisa istanza, potrebbe determinare una nullità processuale
La posizione della Procura di Palermo però è sgradita al Pd: "Grave caduta di stile"

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il Fatto 8.10.14
Boss al Quirinale, sì dei Pm
E Mancino”Vengo anch’io”
Napolitano potrebbe rinunciare. Pd e Ncd preparano il terreno
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo Eora arriva anche la richiesta di Nicola Mancino a imbarazzare ulteriormente il presidente Giorgio Napolitano, che con lui ha chiacchierato nelle quattro telefonate poi distrutte in seguito alla sentenza della Consulta. E se da un lato il parere positivo della Procura di Palermo sulla richiesta dei tre imputati (Mancino, Riina e Bagarella) per partecipare all'udienza del Quirinale era ampiamente prevedibile, dall’altro le parole dell’avvocato Luca Cianferoni, difensore del capo dei capi, riscaldano ulteriormente il clima attorno alla deposizione dell’inquilino del Colle prevista per il 28 ottobre: “È un diritto dell’imputato – dice Cianferoni – andare al processo”.
DOPO I BOSS Salvatore Riina e Leoluca Bagarella, insomma, anche l’ex presidente del Senato Mancino vuole presenziare a quello che si annuncia come il giorno più lungo di Napolitano. L’unica differenza tra i boss e Mancino (che ieri ha depositato una memoria in cancelleria) sarebbe determinata dal fatto che Riina e Bagarella apparirebbero soltanto in videocollegamento, mentre Mancino sarebbe presente fisicamente all’udienza allestita nei saloni quirinalizi. Domani il presidente della Corte in aula renderà nota la sua decisione che per ora appare imprigionata in una strettoia logica senza vie d’uscita. Se accoglierà la richiesta di Riina e Bagarella, Montalto si esporrà infatti alle ire di Napolitano che potrebbe persino (come scrivono alcuni quotidiani) ritirare la sua disponibilità a testimoniare. Se deciderà invece di accontentare il capo dello Stato, escludendo la partecipazione di tutti gli imputati, compreso Mancino, esporrà il processo al pericolo di un annullamento.
È un rischio che non preoccupa Anna Finocchiaro, ex magistrato, presidente Pd del la commissione Affari costituzionali del Senato: “Stupisce e non mi spiego, sia ai fini processuali sia per motivi istituzionali, il parere favorevole che la stessa Procura ha dato alla partecipazione di boss mafiosi”. Sulla stessa posizione Gaetano Quagliariello, coordinatore nazionale Ncd: “Auspichiamo che all’Italia e alle sue istituzioni sia risparmiato lo sfregio di due capi dell’antiStato presenti seppur virtualmente alla deposizione del capo dello Stato”. Sono dichiarazioni che sembrano preparano il terreno a un eventuale rifiuto del capo dello Stato.
NUOVA BENZINA sul fuoco arriva dalla memoria depositata ieri dall’avvocato Cianferoni che, a differenza del collega Giovanni Anania, difensore di Bagarella, ha deciso di motivare con una nota la richiesta del suo assistito di essere presente al Quirinale. Facendo cenno al processo per l’attentato dei Georgofili del ’93 a Firenze, Cianferoni nella sua memoria ricorda di aver chiesto già nel ’96 di sentire l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, Bettino Craxi (che era già fuggito dall'Italia) e Napolitano, che era ministro dell’Interno, per approfondire il tema della gestione del pentito Balduccio Di Maggio. In quell’occasione, le richieste di testimonianza furono respinte. “E quando feci il nome di Napolitano – rievoca il legale – arrivò la polizia giudiziaria a prendere le mie generalità”. Oggi, dice Cianferoni, “è giusto sentire Napolitano per interrogarlo su D'Ambrosio che nella sua lettera gli si rivolge conqueltono:puòdarsiche l’accusa o le difese ci ricavino qualcosa, ma l’udienza deve essere pubblica, perché il popolo deve sapere ed è un diritto dell'imputato andare al suo processo”. Nella memoria, infine, Cianferoni fa cenno a precedenti giurisprudenziali, “contenuti – dice – persino nel commentario LattanziLupo: quest’ultimo Ernesto Lupo, è attualmente consigliere giuridico di Napolitano”.
Ieri sera si sono aperte le trattative anche per la presenza dei giornalisti al Quirinale: l’Ordine di Sicilia ha chiesto alla Corte di accreditare i cronisti giudiziari, per consentire loro di seguire la testimonianza, “senza filtri e versioni riferite dai presenti, che – anche involontariamente – potrebbero risultare parziali e condizionanti”. A Roma, intanto, il presidente dell’Unci Guido Columba ha avviato contatti discreti con l’ufficio stampa del Quirinale. Si attendono risposte.

Repubblica 8.10.14
Le regole e il clamore
di Gianluigi Pellegrino


GARANTIRE e distinguere è la forza di uno Stato di diritto. C’è la legge, ci sono le garanzie fondamentali per ogni imputato. E ci sono le istituzioni, la loro necessaria austerità e inviolabilità.
Suscita clamore il parere positivo dei procuratori di Palermo alla richiesta dei boss Riina e Bagarella di partecipare (ovviamente in video) all’udienza in cui nel palazzo del Quirinale verrà raccolta la testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo intitolato alla “trattativa Stato-mafia”.
È CLAMORE ingiustificato, ma al tempo stesso, non sembri paradossale, anche comprensibile. Ingiustificato perché la Costituzione e il codice di procedura penale parlano chiaro. Gli imputati hanno pieno diritto di assistere alle testimonianze che il processo raccoglie. Pena la sua insanabile nullità. Guai se non fosse così. E guai se non valesse per tutti. Da questo punto di vista alcune delle reazioni di ieri che si rifanno alla malvagità di quei particolari imputati, appaiono invero singolari e naive; sicuramente dimentiche che la forza di uno Stato di diritto sta nell’assicurare le garanzie del giusto processo anche al peggiore e più efferato dei criminali.
Norme alla mano era ben difficile attendersi che la procura palermitana potesse esprimere parere diverso. Dopo aver chiesto e ottenuto l’ammissione di quella testimonianza, e intervenute le richieste degli imputati, non si vede come ci si potesse attendere un avviso diverso, fermo restando che la decisione definitiva spetta domani alla Corte d’Assise che probabilmente, sia pur con i dovuti accorgimenti tecnici, concluderà allo stesso modo.
Certo è anche comprensibile che il cittadino democratico avverta come una ferita l’irruzione (sia pure virtuale e catodica) nei luoghi delle istituzioni più rappresentative di criminali incalliti e capi conclamati dell’antistato. E però qui se, da un lato, si rappresenta la coda avvelenata di anni controversi della storia nazionale, dall’altro stanno mancando alcuni elementi di analisi nel dibattito sulla vicenda. In primo luogo infatti va recuperata l’importanza e la nobiltà della “testimonianza” che è, come noto, diritto-dovere civico di ogni cittadino, in nessun modo contaminato dalla gravità delle imputazioni dalle quali il testimone è per definizione estraneo.
Certo la oggettiva fibrillazione che la vicenda scatena tra diritti intangibili del giusto processo e guarentigie delle istituzioni, insieme alla probabile inutilità nel merito della testimonianza (avendo ribadito il presidente Napolitano di non avere altro da aggiungere) inducevano molti a sperare che potessimo evitarci quest’ennesimo scontro. Inutile negare almeno l’ipotesi che dopo la guerra sulle intercettazioni, risolta peraltro correttamente dalla Corte costituzionale in favore delle prerogative del presidente, vi sia stata una qualche insistenza degli inquirenti nell’innescare la testimonianza. E però è altrettanto vero che il tenore della lettera di D’ambrosio, l’allora consigliere giuridico del Colle, che lo stesso Napolitano ha diffuso pubblicamente, ha reso plausibile la loro richiesta, che come tale è stata accolta dalla Corte giudicante.
Così come il presidente Napolitano aveva diritto all’inviolabilità delle proprie comunicazioni riservate, al cittadino Napolitano si intesta il diritto-dovere della testimonianza nella difficile ricerca della verità. Stare al merito delle cose, quindi, è la bussola per orientarsi. Sapendo che istituzioni forti non dovrebbero temere mai l’applicazione delle regole. Nei confronti di tutti.

Repubblica 8.10.14
Vittorio Teresi, magistrato
“Nessuna offesa al Quirinale lo prevede la legge”
intervista di Salvo Palazzolo


PALERMO «Abbiamo il massimo e assoluto rispetto per il presidente della Repubblica», dice il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che coordina il pool trattativa. «Ma c’è il concreto rischio che la mancata partecipazione degli imputati all’udienza del Quirinale possa costituire una nullità insanabile del processo ». I pm di Palermo tengono a ribadire che non hanno «fatto alcuna valutazione sulla qualità degli imputati, ci siamo limitati ad interpretare le norme», spiega Teresi: «E alla fine abbiamo espresso un parere sul diritto alla presenza di tutti gli imputati, quelli liberi e quelli detenuti».
Secondo quali norme dovrebbero partecipare all’audizione del capo dello Stato?
«Nella nostra memoria alla Corte citiamo anche l’articolo 6 della convenzione per i diritti dell’uomo, che prevede il diritto di un imputato a partecipare alle udienze del suo processo».
Però, il presidente della Corte d’assise aveva già stabilito con un’ordinanza che all’udienza del Quirinale dovessero esserci solo gli avvocati e non gli imputati.
«L’ordinanza è corretta, richiama l’articolo 502 del codice di procedura penale, che prevede l’esame del testimone a domicilio. Nell’ultimo comma, si dice che il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato all’esame. E all’epoca, nessuno degli imputati aveva fatto richiesta. Dunque, il giudizio della Corte era sospeso. Poi, si sono fatti avanti non solo Riina e Bagarella, ma anche Mancino. E abbiamo dovuto affrontare una questione di diritto che riguarda tutti gli imputati, non importa il loro cognome».
Non crede che possa crearsi una situazione di imbarazzo istituzionale per la presenza dei capimafia collegati in videoconferenza col Quirinale?
«Intanto, noto una carenza normativa nell’articolo 205 del codice di procedura penale, che prevede la testimonianza del presidente della Repubblica, ma non regola le modalità precise con cui debba avvenire. Ecco perché poi la Corte ha deciso di colmare la lacuna con l’articolo che riguarda l’esame del testimone a domicilio. Ora, bisogna contemperare due interessi contrapposti: i diritti del capo dello Stato, verso cui abbiamo il massimo e assoluto rispetto, e i diritti degli imputati che le norme impongono di tutelare».
Forse, si dovrebbe regolamentare l’articolo 205?
«Non spetta a me dirlo. I magistrati si occupano delle norme che ci sono. Il resto è nei poteri esclusivi del legislatore».

il diritto è chiaro, ma il Pd renziano è obbligato a schierarsi con il proprio padrino
Repubblica 8.10.14
Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza
“Così si è andati oltre ogni limite un danno al Paese”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA . «Sinceramente, stavolta si è passato il segno. Riina e Bagarella sono due pluriergastolani, accusati di violenze e omicidi indicibili. Cosa penseranno all’estero quando sentiranno i loro nomi associati a quelli del Presidente della Repubblica, senza conoscere a fondo la vicenda? Si tratta di una situazione inconcepibile ». Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza non ha dubbi, la sola ipotesi di una deposizione del Capo dello Stato in cui fanno capolino al Colle i capimafia — sia pure in videoconferenza — rappresenta «una danno per il Paese, per la politica e per le istituzioni».
Presidente Speranza, il pm però ha dato parere favorevole alla richiesta degli imputati.
«Guardi, sono saltato sulla sedia.
Parliamo di due colpevoli di omicidi che neanche si possono raccontare. Non è possibile accostare questa roba a Napolitano, che ha sempre rappresentato il punto di raccordo tra la politica e i cittadini, anche nei momenti più difficili».
Ma l’indicazione della Procura non è motivata dalla necessità di evitare di rendere nullo il processo?
«In questo caso non vedo questo rischio. E comunque associare Napolitano ai nomi di questi personaggi provocherebbe delle conseguenze non sostenibili, che supererebbero il rischio a cui lei faceva cenno».
Quindi sbagliano i pm?
«Guardi, io milito nel partito di Pio La Torre. Il Pd ha sempre condotto grandi battaglie per il rispetto dell’autonomia della magistratura, anche quando alcune vicende hanno coinvolto esponenti democratici. Ma stavolta, davvero, si è andati oltre».
Resta il nodo sollevato dagli imputati. Qualche idea alternativa?
«Senta, Napolitano ha già dato gli opportuni chiarimenti. Pensavo fosse sufficiente. In ogni caso, con generosità non si è sottratto a un’ulteriore richiesta. Ora però si sta superando ogni limite».
Lei sta ipotizzando un intento “politico” della Procura?
«Non voglio credere a dietrologie, ho fiducia assoluta nella magistratura, ma — con tutto il rispetto — voglio far notare il danno inimmaginabile che si produrrebbe a tutto il Paese. Mi chiedo come tutto questo possa aiutare l’accertamento della verità».

il Fatto 8.10.14
Lo Sblocca Italia rottama il Paese
Tra le tante “riforme” presentate dal governo Renzi-Berlusconi
questa è la più feroce, immediatamente distruttiva e più regressiva
Rottama Italia, AA. VV., scaricabile gratuitamente su www.altreconomia.it
di Tomaso Montanari


No, non si può sempre stare a guardare”, dice il tenente Innocenzi (Alberto Sordi) di Tutti a casa di Comencini: e lo dice reagendo all’8 settembre 1943, data fatale del “disfacimento dello Stato” (Emilio Gentile). Ogni generazione è chiamata a reagire a un suo 8 settembre: il nostro si chiama Sblocca Italia. Tra le tante “riforme” presentate dal governo RenziBerlusconi questa appare la più feroce, la più immediatamente distruttiva, la più regressiva. Pur di costruire, favorire la speculazione, oliare il binario degli interessi privati, il decreto di Maurizio Lupi che sta per arrivare in discussione alla Camera si propone di scardinare un intero sistema di tutele non dell'inerzia, ma della salute dei cittadini e di quella del territorio e del paesaggio. La parola d’ordine è deregulation: bomba libera tutti per il cemento. E per la corruzione: sottoprodotto inevitabile (ma forse non imprevisto) di questa norma, come ha notato la Banca d’Italia. Il sistema Expo esteso all'Italia intera, insomma. Così, una sera di settembre in cui chi scrive e Domenico Finiguerra (già sindaco del primo Comune italiano a decidere il consumo di suolo zero) parlavamo di tutto questo con i cittadini di Scandicci riuniti da Slow Food, Sergio Staino ha lanciato un’idea: perché non proviamo a raccontare agli italiani cosa c’è di male nello Sblocca Italia? L’abbiamo fatto: e da oggi tutti possono scaricare gratuitamente Rottama Italia. Perché il decreto Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro dal sito della rivista Altreconomia (www.altreconomia.it/rottamaitalia).
L’abbiamo scritto in 16: giuristi (Paolo Maddalena, Giovanni Losavio), urbanisti (Vezio De Lucia, Edoardo Salzano), giornalisti (Antonello Caporale, Luca Martinelli) e molti altri. Massimo Bray si chiede se “è davvero necessario per ‘sbloccare’ l’Italia travolgere e stravolgere l’ordinamento con un provvedimento legislativo urgente di cui non si è valutato l’impatto”. Salvatore Settis spiega perché il decreto trasforma il silenzio assenso delle soprintendenze “da tutela del cittadino contro l’inerzia della Pubblica amministrazione in un trucco che cestina un principio fondamentale della Costituzione”. E il fondatore di Slow Food, Carlo Petrini, interpreta con pacata desolazione il sentimento che si fa largo nel Paese: “A sgombrare qualsiasi dubbio, a svelare la distanza abissale tra gli auspicati buoni propositi (veri o presunti che fossero) e la realtà, ci ha pensato lo Sblocca Italia, in modo particolare per quanto concerne le misure dedicate all’edilizia e alla gestione di beni comuni (alcuni sanciti da un referendum, com’è avvenuto per l’acqua). Oggi persino il governo Monti, grazie all’iniziativa dell’allora ministro dell’Agricoltura, Mario Catania, può apparire più progressista e innovatore dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi”.
QUESTE riflessioni, e i pensieri figurati di otto autori satirici (tra i quali Altan, Ellekappa, Staino, Vauro, Vincino, Bucchi, Giannelli), sono concepiti come un salvagente di informazione e conoscenza: per non annegare nel mare della propaganda renziana. Come un atto di “resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione” (Dossetti): perché la prima, e più importante, resistenza allo Sblocca Italia passa attraverso la possibilità di farsi un’opinione e di farla valere. Discutendone nelle piazze e nei teatri, nelle televisioni e alla radio. Richiamando al progetto della Costituzione i nostri rappresentanti in Parlamento. E anche ricorrendo al referendum: se – alla fine e nonostante tutto – questo sciagurato decreto diventerà legge dello Stato.
Abbiamo deciso di scrivere questo libro perché lo Sblocca Italia è un doppio salto mortale all’indietro: un terribile ritorno a un passato che speravamo di aver lasciato per sempre. Un passato in cui “sviluppo” era uguale a “cemento”. L’abbiamo scritto perché vogliamo che l’Italia cambi verso: ma davvero. Perché vogliamo un Paese moderno. E cioè un Paese che guardi avanti. Un Paese che sappia distinguere tra cemento e futuro. E scelga il futuro. Perché vogliamo un Paese in cui chiamiamo sviluppo ciò che coincide con il bene di tutti, e non con l'interesse di pochi. Un Paese in cui lo sviluppo sia ciò che innalza – e non ciò che distrugge – la qualità della nostra vita. Un Paese che cresca, e non un Paese che divori se stesso. Perché non è vero che non c'è alternativa: ma è vero che questa alternativa dipende da noi.

il Fatto 8.10.14
Opera di Roma, “il cda non vuole lasciare a casa nessuno”. Cgil: “Protesta nazionale”

Dopo aver votato l'esternalizzazione di coro e orchestra, ora il consiglio di amministrazione opta per "contratti quadriennali e replicabili". Ma per arrivare agli stessi guadagni di oggi, gli orchestrali dovranno lavorare il 20% in più. I sindacati: "Presto una grande manifestazione nella Capitale"
qui

Corriere 8.10.14
Fuortes, i licenziamenti e il caos dell’Opera: l’«Aida» sarà annullata
«A Roma i musicisti lavoreranno il 20 per cento in più»
di Valerio Cappelli


ROMA L’ Aida , che il 27 novembre avrebbe dovuto aprire la stagione dell’Opera di Roma, non si farà. Impensabile spendere un milione di euro, e in più con il problema di trovare il sostituto di Muti. Non si sa, insomma, a chi passare il cerino acceso, e infatti non si sta cercando nemmeno un altro direttore. I privilegi di quel teatro? La diaria, ad esempio: per una trasferta nella stessa città, Salisburgo, i musicisti di Santa Cecilia hanno avuto gli 80 euro previsti in Italia per i pasti, all’Opera ne pretendevano 160. Ieri sono state mandate le lettere di avviso sulla procedura del licenziamento collettivo di 182 persone, tra orchestra e coro.
«È l’estremo tentativo di modificare un sistema che ha privilegiato scarsa produttività, clientelismo, sprechi e deficit in continuazione, fino ai quasi 30 milioni di buco», afferma il sovrintendente Carlo Fuortes. È la sua prima intervista dopo la clamorosa decisione assunta dal cda. «L’85,5 per cento del bilancio del teatro, nel 2013, è stato a carico dei contribuenti, pari a 55 milioni».
A pagare saranno però anche i lavoratori del teatro che erano favorevoli all’accordo sul risanamento.
«Mi spiace molto, ma non è una questione di buoni e cattivi. Era l’unica scelta (l’alternativa era la chiusura) che un cda responsabile potesse fare. Cambiare in modo strutturale è un’opportunità».
Ma è giusto che paghi solo la base e non chi in passato ha portato il teatro al disastro?
«È una cosa di cui si parlerà nel prossimo cda, così come dell’ Aida . Ci sarà una seria riflessione se è il caso di fare un investimento così grosso, col debito che abbiamo ereditato, senza la presenza di Muti».
Le 14 Fondazioni lirico-sinfoniche hanno proclamato lo stato di agitazione: «Se non siamo uniti moriremo tutti».
«L’indebitamento delle Fondazioni è di 392 milioni. Così non si può andare avanti. Siamo alle porte di un cambiamento storico. Il ministro Franceschini è stato chiaro: si va verso i contratti a termine, con le masse artistiche dentro i teatri. Un nuovo modello organizzativo. Roma però fa caso a sé, perché la terapia d’urto ora prevede l’esternalizzazione, orchestra e coro si riuniranno in una forma giuridica che potrà essere una cooperativa. A Roma la cura è estrema per il male estremo del teatro. Un professore d’orchestra lavora in media 125 giorni l’anno. Le spese del personale, di 34 milioni, sono pari al 61 per cento del totale dei costi di produzione: è il livello più elevato fra tutti i teatri lirici italiani. Il costo per famiglia ai romani, sia che vengano sia che non vengano, è pari a 30 euro».
Come garantire la qualità?
«Il Rigoletto del 21 ottobre prevede 72 orchestrali. Sulla base delle regole in materia di alternanza, per malattie e aspettative, ho firmato 34 contratti aggiuntivi: metà dell’orchestra sarà composta da esterni. Le sembra garanzia di qualità? Ho anche firmato 21 autorizzazioni per permessi artistici esterni al teatro. Nell’ultimo anno sono stati 912. Non sono impiegati ma musicisti. Questa flessibilità arreca al teatro solo costi».
Aumenterà la produttività?
«È un dovere: i contributi statali dal 2015 si basano sulla produttività. Se produci meno, diminuiscono i fondi. Per avere lo stesso stipendio dovranno lavorare il 20 per cento in più».
Gli altri sovrintendenti, a parte Bianchi a Firenze, solidarizzano con i lavoratori.
«Non mi ha sorpreso. Qualsiasi altro cda avrebbe scaricato sulla collettività le perdite. Noi abbiamo fatto una scelta coraggiosa e di responsabilità. C’è un’enorme ipocrisia nella valutazione di questa vicenda. Quando vai in perdita ti lanciano addosso gli strali. Se all’interno della legge cerchi di trovare una soluzione, diventi un distruttore della cultura».
Quando le hanno gridato «vergogna»...
«È una cosa faticosa da sopportare. Non mi era mai capitato. Muti? Ha dimostrato, durante la Manon Lescaut , una forza e una determinazione mai viste in un artista. Io, fossi stato in lui, non avrei retto alle minacce di sciopero selvaggio. Ero convinto che avrebbe lasciato. È il secondo grande direttore, dopo Sinopoli, che ha dovuto abbandonare l’idea di far crescere questo teatro. Ora stiamo tentando la rinascita».

Repubblica 8.10.14
La versione di un corista
risponde Corrado Augias


Gentile Corrado Augias, lei ha scritto, cito a memoria: ”L’Italia non può permettersi quattordici Fondazioni musicali”. Lei, che si occupa da tempo di musica, s’è mai chiesto a che cosa serva? Perché città, per esempio Palermo o Verona, non dovrebbero avere un Teatro Musicale Stabile? Non ci sono quattrini? Ma non comprende che qui si tratta di operare una precisa scelta di campo? Difendere sempre la cultura, perché è solo con la cultura che il nostro Paese può uscire da questo tunnel, da rapporti sociali sempre più brutali, dal ristagno di idee che ci ha lasciato l’Italia di Berlusconi. Sono un cantante del coro del Teatro Comunale di Bologna, non un intellettuale. Sono entrato in teatro per concorso. Percepisco, mi perdoni la volgarità, uno stipendio medio-basso. Perché, prima di esprimere opinioni o emettere giudizi, non ci si informa? Lei ha idea di cosa può costare mantenere uno strumento musicale? Le chiedo gentilmente di riflettere su cosa sta succedendo in Italia, e non solo nella musica.
Cristiano Tavassi

Apprezzo il tono pacato della lettera, mi colpisce il garbo con cui gli argomenti sono presentati. Però il quadro non è completo. Il maestro non dice che la produttività dei teatri d’opera italiani è tra le più basse al mondo; che orchestrali e coristi hanno accettato (subìto?) di farsi rappresentare da un sindacalismo vociferante. Intendo capace più di strappare la piccola indennità immediata che non d’alzare lo sguardo sull’avvenire del teatro, dunque di chi ci lavora. Il vero scandalo romano, più ancora della fuga di Riccardo Muti, è che si è sabotato un piano di rilancio che avrebbe consentito di rimettere a galla il teatro. Un sindacalismo vecchio, rissoso e inconcludente non ha permesso che il progetto andasse in porto. Cartelli, grida ritmate, minacce di occupazione come negli anni Settanta, preoccupati dalla rendita di posizione, pronti a dare fuoco alle polveri: allora stasera non si suona, non si canta, non si va in scena, se mettono un pianoforte al posto dell’orchestra li denunciamo per atteggiamento anti-sindacale. Nessuno, tanto meno chi scrive, sostiene che le colpe siano tutte di questo modo inadeguato d’affrontare i problemi. I teatri d’opera, come la nettezza urbana e la centrale del latte, sono stati troppo a lungo merce di scambio a livello comunale. Politici di piccolo calibro si sono disputati le spoglie senza un’idea in testa, attenti solo a far assumere questo o quello a saldo di altri favori. Ha ragione Cristiano Tavassi a sottolineare l’importanza della cultura. Questo tipo di gestione però significa buttare i soldi pubblici dalla finestra, togliendoli magari alla scuola o ai musei. Ora che i soldi non ci sono più i nodi sono venuti al pettine. Chissà che non sia un bene.

La Stampa 8.10.14
Il boom delle prostitute minorenni: “Casi quadruplicati in un anno”
L’allarme della procura di Roma: indaghiamo su incontri online e discoteche
di Grazia Longo

qui

il Fatto 6.10.14
Guerra all’Isis: a Kobané i kurdi difendono la civiltà, non lasciamoli soli
di Fabio Marcelli

qui

Corriere 8.10.14
Dentro la città assediata: mille donne contro l’Isis
Nella tempesta di fuoco di Kobane Colonne di jihadisti e blindati in fumo
I curdi sfidano l’Isis in strada, i jet Usa bombardano. Erdogan: «La città è perduta»
di Lorenzo Cremonesi

qui

Repubblica 8.10.14
La promessa di Diman “Noi donne peshmerga pronte a farci esplodere per fermare i barbari Is”
di Pietro Del Re


«MA PERCHÉ la chiamate kamikaze? Il comandante Arin Mirkan ha solo cercato di sfuggire al martirio che le avrebbero inflitto gli islamisti, stuprandola prima di ucciderla. Ha agito nel migliore dei modi: facendone saltare in aria il più gran numero possibile». Anche la ventiduenne Diman Rhada è una comandante peshmerga, ma lei combatte in Iraq, a nord di Mosul, e non in Siria come faceva la Mirkan, sia pure contro lo stesso nemico, le brigate nere dello Stato Islamico. «È diventata per noi tutti un’eroina, e il suo sacrificio ci spinge a lottare, se possibile, con più ardore di prima», dice Diman che raggiungiamo sul suo cellulare al fronte, dove con la sua unità guerreggia da più di un mese.
Lei avrebbe fatto la stessa cosa? Si sarebbe fatta saltare in mezzo ai jihadisti?
«Credo di sì, perché tutti sanno quello che ci fanno quando ci catturano: prima ci violentano in gruppo, fino all’ultimo dei loro miliziani, e poi ci decapitano. Tuttavia, nonostante l’orrore di una tale eventualità, non so se riuscirei a trovare il coraggio di uccidermi. Bravissima è stata Arin Mirkan, che dopo aver terminato le munizioni ne ha spedito in inferno decine di loro. Il suo gesto fa onore a tutto il popolo curdo, e per averlo compiuto è già entrata nell’olimpo dei nostri martiri più amati. Del suo coraggio, ne sono sicura, parleranno le generazioni future ».
Che cosa faceva, prima di combattere?
«Insegnavo in una scuola di Sulaymaniyah, nel nord del Kurdistan. Ho anch’io due bambini, come Mirkan. Ed è per loro che mi sono arruolata e che combatto. Proprio come fece mio padre, che era anche lui insegnante e che durante la guerra contro Saddam Hussein imbracciò il fucile per difendere la sua famiglia».
Ma non le fanno paura gli islamisti del “Califfato”?
«Certo che mi fanno paura, ma mi spaventa ancora di più l’idea che possano entrare in Kurdistan, conquistare altri nostri villaggi e sottomettere la nostra gente. Sono soldataglie assetate di sesso e di potere. Si dicono soldati fedeli di Maometto, ma sono solo uomini senza religione e senza morale. Sono perciò terrorizzata da loro, ma so anche che non posso esimermi dal mio dovere che è quello di essere qui, a difendere la mia patria. Da noi si dice che in ogni curdo si nasconde un peshmerga. È vero solo a metà, perché lo stesso discorso vale per le donne curde. Ma in Kurdistan non tutte le donne hanno la possibilità di battersi contro il nemico».
Ha seguito un addestramento militare?
«Sì, ma è stato solo per la forma. A combattere, e quindi a sparare, mi ha insegnato mio padre, nelle montagne di Sulaymaniyah, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Lo stesso ha fatto con i miei fratelli. Ci sono soldati-donne in molti Paesi del mondo, dagli Stati Uniti a Israele, dalla Francia alla Germania. Ma credo che solo da noi l’addestramento alle armi sia una que- stione di famiglia. Tra i peshmerga si contano circa 16mila donne. Rappresentiamo, con grande fierezza, più del 30 per cento degli effettivi».
A proposito, vi sono arrivate le armi promesse nelle scorse settimane da diverse potenze occidentali?
«No, alla mia unità femminile non è arrivato nulla. Al fronte attacchiamo e ci difendiamo ancora con i soliti arrugginiti kalashnikov e con i vecchi mortai di sempre. Ma le posso assicurare che a saperli adoperare possono fare molto male anche loro. Il problema è che gli islamisti dispongono di carri armati e di artiglieria pesante moderna e sofisticata. Per questo, appena arrivate a Erbil, le armi americane sono state subito distribuite alle nostre unità d’assalto».
La bandiera islamista è appena stata vista sventolare sulle alture nei sobborghi di Kobane, dove si combatte strada per strada. Crede che ce la faranno i peshmerga a difendere la loro città? «Non dipende più da loro, che ce la stanno mettendo tutta, con atti di straordinario eroismo, come quello del comandante Mirkan. Adesso, il futuro di Kobane dipende soltanto dalla coalizione anti-Is, perché gli islamisti hanno concentrato le molte delle loro forze attorno a quella città, e dispongono di armi molto efficaci. In primo luogo dovrebbe intervenire la Turchia, ma non lo fa perché non vuole aiutare i suoi nemici storici del Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan. Ma è suicida non farlo, perché Ankara si ritroverà molto verosimilmente con una città ai suoi confini governata dagli sgherri del califfo».
Ormai, con la vostra controffensiva siete arrivati a pochi chilometri da Mosul, che era caduta nelle mani dei miliziani lo scorso giugno. Quanto ci vorrà per riconquistarla?
«Credo che potremmo riconquistarla anche domattina. Ma a quale scopo? Che cosa faremmo di tutti i sunniti, e sono tanti, che in questo momento stanno collaborando con gli islamisti? Oggi, la nostra strategia è un’altra. Consiste nel respingere il nemico più in là possibile, per creare una sorta di zona cuscinetto, che ci serve a proteggere il nostro territorio. Un domani, quando dal cielo i caccia della coalizione avranno sufficientemente fiaccato l’esercito del Califfato, potremo forse pensare di prendere Mosul. Purtroppo, però, quel giorno è ancora lontano».

Il Sole 8.10.14
La guerra all'Isis. Il presidente Erdogan lancia l'allarme: serve un intervento di terra contro i jihadisti
«Kobane sta per cadere»
Ma i carri armati turchi, a meno di un km di distanza, restano immobili
di Alberto Negri


ISTANBUL Le macerie di Kobane sono pietre che rotolano da una collina verso i palazzi di un potere internazionale rimasto silenzioso e inerte davanti alla tragedia. «Kobane è la vittima sacrificale della politica del "divide et impera" attuata dalla Turchia nei confronti dei curdi». È il secco commento di un giornalista che da Suruc osservava sventolare la bandiera nera del Califfato, a meno di un chilometro di distanza dal secondo più potente esercito della Nato che qui schiera carri Patton e 10mila uomini. Ieri erano ancora immobili come soldatini di piombo.
Kobane è sul punto di cadere nelle mani dei jihadisti, ha constatato il presidente turco Erdogan: «I raid non bastano, serve un intervento di terra ma la comunità internazionale deve cambiare strategia». I curdi sull'aiuto di Erdogan non si fanno illusioni: «L'unico amico dei curdi sono le montagne», ripetono con insistenza. La Turchia avrebbe potuto già intervenire dopo la mozione votata dal Parlamento ma lo farà soltanto alle sue condizioni.
Nella morsa dei jihadisti, tra colonne di fumo nero e battaglie combattute strada per strada, Kobane è ostaggio della geopolitica mediorientale nel mezzo di una pianura vasta, intervallata da modeste colline e disseminata dai ricordi amari di guerre decennali, antagonismi e pregiudizi. Anche i raid della coalizione, improvvisamente intensificati, appaiono tardivi e non salvano la città.
Nel preambolo della mozione votata la scorsa settimana dal Parlamento per l'intervento militare in Siria e Iraq - che concede anche il passaggio a truppe straniere - si afferma che la minaccia per la Turchia è costituita dal Pkk e da «altri gruppi terroristici»: lo Stato Islamico non viene neppure menzionato esplicitamente.
Perché la coalizione internazionale non funziona? È semplice: non esiste nessuna «ampia coalizione internazionale», come ha tentato di vendere il presidente americano Obama. Gli interessi sono divergenti. Questa è la lezione che viene da Kobane: le reponsabilità non sono soltanto turche ma anche americane e occidentali.
Due sono gli obiettivi della Turchia resi espliciti da Erdogan e dal premier Ahmet Davutoglu. Il primo è la rimozione dal potere di Bashar Assad, un target sul quale il governo islamico dell'Akp ha investito risorse e prestigio: lo scopo è estendere l'influenza e la "profondità strategica" di Ankara al mondo sunnita del Levante. Per questo Davutoglu ha chiesto una "no fly zone" agli Usa e la creazione di una zona cuscinetto: di questo i turchi discuteranno domani con l'inviato di Obama, l'ex generale Joe Allen e l'ambasciatore Brett McGurk del dipartimento di Stato.
I turchi vogliono mettere gli stivali sul terreno in Siria con la garanzia di potere fare ciò che vogliono non quello che dicono gli americani e la coalizione. Il Califfato è un problema minore agli occhi di Ankara. «La Turchia non deve essere vista come un invasore dagli arabi - scrive Ibrahim Karagul direttore di Yeni Safak, quotidiano vicino all'Akp - e neppure presentarsi come chi vuole dissolvere i movimenti islamici, da Hamas alla Fratellanza Musulmana, dagli islamisti della Libia ai talebani». Questa è l'aria che tira tra i pensatori islamisti.
A questo punto la Turchia sarebbe in grado di ricostruire il Free Syrian Army, severamente sconfitto dai gruppi jihadisti, per muovere contro il regime di Damasco con una formazione, assai nebulosa, già accreditata con sin troppa generosità dai governi europei. In questa fase Ankara ha due nemici: Assad e i curdi. L'Isis ricade nel vecchio detto mediorientale: il nemico del mio nemico è mio amico.
L'altro obiettivo è indebolire i curdi siriani del Pyd, l'Unione democratica, alleati del Pkk di Abdullah Ocalan, per creare nel Nord della Siria una zona cuscinetto controllata dai militari turchi. Nella "buffer zone" siriana verrebbero rispediti migliaia di profughi oltre confine (la Turchia ne ospita un milione e mezzo) che sono per la maggior parte arabi, diminuendo quindi in percentuale la presenza dei curdi alla frontiera.
Qui gli spostamenti di popolazione oltre che drammi umanitari sono terremoti politici. Erdogan ha riconosciuto sia la leadership di Massud Barzani che la sovranità del Kurdistan iracheno, con cui intrattiene proficui scambi commerciali e acquista petrolio senza il permesso del governo di Baghdad. Lo stesso riconoscimento non è avvenuto per il Pyd né per la regione di Rojava, così è chiamato il Kurdistan siriano, e per due ragioni: per il patto di non belligeranza dei curdi con Assad e per la sua affiliazione con il Pkk.
La strategia di Ankara a Kobane è questa: attendere che i curdi siano così stremati da far apparire ineluttabile l'"aiuto" militare turco e fargli accettare le pressioni per entrare nella coalizione anti-Assad. Tutto questo non piace ai curdi. Il Pkk di Abdullah Ocalan, recluso a Imrali, ha già fatto sapere di essere pronto a disotterrare l'ascia di guerra. A Istanbul Istiklal Caddesi è invasa, nelle periferie si moltiplicano gli scontri con le molotov mentre nel Sud-Est del Paese, in ebollizione per le proteste, è stato proclamato il coprifuoco al confine con la Siria. La prima vittima è stata un giovane di 25 anni, Hakan Bakusr, fulminato dalla polizia nel distretto di Van. A fine giornata il bilancio era di almeno 12 morti negli scontri in tutta la Turchia.
Kobane dunque cade stritolata dallo Stato Islamico ma anche da una coalizione internazionale dove gli interessi sono quasi opposti. È una situazione sostenibile a lungo? La bandiera nera del Califfato che sventola a Kobane, e ora anche in Libia, è l'ultimo avviso all'Occidente.

il Fatto 8.10.14
Lacrime di coccodrillo turche per la morte di Kobane
Il presidente Erdogan ora parla di intervento di terra contro l’Isis, ormai padrone della città, ma reprime le proteste curde
di Cosimo Caridi


Suruc (confine turcosiriano) Non bastano i raid aerei della coalizione internazionale. Almeno tre quartieri periferici di Kobane sono passati in mano all'Isis. In diverse zone della città le milizie curde del Ypg combattono in strada contro i jihadisti. Su internet circolano video, tutti filmati da combattenti, in cui si vedono i palazzi crivellati dai colpi di kalashnikov e le torture inflitte ai prigionieri fatti in battaglia. Nella giornata di ieri sono stati due i bombardamenti della coalizione contro i soldati del califfato, il primo nella tarda mattinata e il secondo nel pomeriggio, entrambi nella zona ovest. E il presidente turco Erdogan ha sostenuto che la “città è persa”, e sarebbe dunque necessario l’“intervento di terra”. La bandiera nera, sventola da due giorni sulla collina che domina la zona orientale di Kobane.
DEI 300 MILA abitanti del centro urbano, sono pochi quelli rimasti a casa. Circa 180 mila si sono rifugiati in Turchia e molti altri sono fuggiti nelle aree più a ovest del Rojava, zona nord della Siria sotto il controllo dei curdi. “Non c’è più nessuno a Kobane, solo chi deve combattere” Ilyas, studente di legge a Istanbul, sta tentando di entrare a Kobane, vuole arruolarsi volontario nelle truppe del Ypg. “Negli ultimi giorni l’esercito turco – continua, senza tradire alcuna emozione ha evacuato i villaggi più vicini alla frontiera, dove ci sono i passaggi che usavamo per andare in Siria. Ora che sono in mano loro fanno entrare e uscire da lì i miliziani dell’Isis”.
La richiesta del Bdp, movimento politico curdo erede del Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, è che la Turchia faccia arrivare alle milizie del Ypg armi pesanti per poter rispondere agli attacchi del califfato. Secondo l’Osservatorio dei diritti umani in Siria, organizzazione con base a Londra, dall’inizio dell’assedio dell’Isis sono morte negli scontri oltre 400 persone.
Tutta l’area attorno a Kobane è da settimane controllata dal califfato. Nel villaggio di Knayeh sono stati sequestrati, dagli uomini dell’Isis, un parroco e 20 fedeli cattolici. Tra esse sembrava esserci anche una suora italiana Patrizia Guarino, 80enne originaria di Avellino. La religiosa è in salvo, ospite di una famiglia proprio nel villaggio di Knayeh. Al momento sono 5 i religiosi sequestrati in Siria di cui non si hanno più notizie, tra loro anche il gesuita Paolo Dall’Olio. Intanto le maggiori città turche sono attraversate dalle proteste. Ieri sera decine di migliaia di manifestanti si sono scontrati con la polizia: almeno un morto a Varto, nella provincia orientale di Mus.
QUESTA MATTINA il Chp, Partito Democratico Repubblicano, seconda forza del parlamento turco, sfilerà per le vie di Istanbul, nella zona di Galatasaray, che comprende Taksim, la piazza simbolo delle proteste turche. La paura di Ankara è che le manifestazioni di solidarietà al popolo curdo si trasformino in guerriglia urbana. Nei giorni scorsi lo storico leader del Pkk, Abhullah Ocalan, dal suo confinamento, ha minacciato il governo turco ventilando un possibile ritiro del Pkk dai negoziati di pace se Kobane dovesse cadere.

il Fatto 6.10.14
Lydia Cacho: complicità criminali
“Il Messico stritolato tra polizia e narcos”
intervista di Alessio Schiesari


L’80 per cento dei poliziotti messicani lavora al soldo dei cartelli di narcotrafficanti. Non lo dico io, ma i magistrati inquirenti”. Lydia Cacho è una scrittrice e attivista messicana. Come ha raccontato lo scorso weekend a Internazionale a Ferrara, da un decennio si dedica a inchieste sulle narcomafie. Anche per questo, non si stupisce della fossa comune trovata domenica nello Stato di Guerrero dove narcotrafficanti e poliziotti insieme avrebbero gettato e arso i cadaveri di 28 studenti che protestavano per una scuola migliore. Ed è di ieri la notizia che l'esercito ha disarmato la polizia locale e preso controllo dell'area.
Le sembra credibile che narcos e polizia abbiano agito insieme a Iguala?
Non solo è credibile, ma c’è un precedente. Rubén Figueroa, l’ex governatore di Guerrero ha lasciato l’incarico per una strage simile: il massacro di Aguas Blancas. Allora, era il ’95, il governo locale fece uccidere 17 agricoltori che andavano a una manifestazione sindacale. Figueroa si fece da parte, ma scelse il suo successore: Ángel Aguirre, l’attuale governatore.
Perché prendersela con studenti e braccianti?
La zona di Guerrero è fondamentale per le mafie, che lì hanno le piantagioni. Più in generale, è la strategia del terrore: vogliono dimostrare che sono loro a governare il Messico.
Ci sono altri casi conclamati di complicità con i cartelli?
C’è Mario Villanueva, ex governatore di Quintana Roo (lo Stato dove si trova Cancún, ndr) oggi detenuto negli Usa per narcotraffico. Nello Stato di Michoacán il figlio del governatore è stato ripreso mentre discuteva con El Tuta, boss del cartello La Familia, di questioni politiche. E varie inchieste giornalistiche sostengono che i narcos gli abbiano pagato la campagna elettorale. Sono molti i governatori hanno fatto fortuna grazie all’alleanza con i narcos.
Il governo centrale come ha reagito?
Otto anni fa, il presidente Felipe Calderón ha iniziato, d’accordo con gli Usa, la guerra al narcotraffico. Il problema è che, secondo le denunce degli stessi procuratori, in Stati come Guerrero i trafficanti controllano fino all’80% degli agenti. E, paradossalmente, la guerra ha rafforzato le organizzazioni criminali.
Perché?
Con il Plan Merida Washington si è impegnata a vendere armi al governo messicano per contrastare i narcos. Calderón era convinto che la strategia giusta fosse sostituire l’esercito alla polizia. Oggi però il 30% delle armi importate legalmente dagli Usa finisce nelle mani dei cartelli. Inoltre, da quando è in prima linea l’esercito, ben 160 mila omicidi non sono stati giudicati, perché i tribunali civili non possono occuparsi di ciò che fanno i militari. Più in generale, il 93% degli omicidi resta impunito. E il numero di cartelli è passato dai 4 di vent’anni fa agli attuali 17. Esiste una soluzione?
Sì, faccio un esempio: a febbraio, la polizia ha arrestato il boss del cartello di Sinaloa, Joaquín “Chapo” Guzmán. L’organizzazione però continua a funzionare come prima, perché le sue ricchezze non sono state congelate. Questa è la chiave: fermare il denaro, sequestrare i capitali. Sta prendendo piede l’idea che legalizzare potrebbe essere una soluzione.
Due ex presidenti messicani (Ernesto Zedillo e Vicente Fox, ndr) la pensano così, ma io la vedo diversamente. La legalizzazione probabilmente eradicherebbe la violenza, ma trasformerebbe gli attuali signori della droga in imprenditori a tutti gli effetti. Manterrebbero il controllo del mercato e potrebbero impiegare i loro enormi capitali anche in altra attività, come hanno fatto gli Yakuza in Giappone. Per questo un boss come El Tuta ha postato un video su Youtube in cui si schiera per la legalizzazione.

Corriere 8.10.14
I cinesi comprano l’olio toscano Sagra e Berio al fondo di Pechino
Salov passa alla controllata del gruppo Yimin (14 mila supermercati)
L’allarme Coldiretti: marchi storici per 10 miliardi sono in mani straniere
di D. Pol.


Da Shanghai a Lucca per assicurarsi l’olio made in Italy. C’è riuscito il governo di Pechino che attraverso la controllata Bright Food ha rilevato la maggioranza del gruppo Salov. Come dire uno dei maggiori produttori nazionali di olio d’oliva e semi con i marchi Sagra e Filippo Berio per un giro d’affari stimato a quota 330 milioni. A cedere la maggioranza sono i tre rami familiari, quarta generazione del produttore toscano, le storiche famiglie di Dino Fontana e Filippo Berio.
Da tempo la Salov cercava una sponda cui attraccare l’attività per darle nuovo impulso e facilitare il passaggio generazionale. Numerosi sono stati i candidati acquirenti dell’azienda che produce 330mila litri di olio al giorno ed è proprietaria di 270mila metri quadrati di terreni. Ma l’alchimia giusta il presidente Alberto Fontana l’ha trovata con Wu Tonghong, presidente della Yimin, la controllata nella distribuzione del colosso che macina 17 miliardi di dollari. Vero e proprio braccio armato del Governo di Pechino nell’alimentare. Complice l’intermediazione dell’advisor di Salov, Mediobanca ma soprattutto il prezzo che ha battuto le offerte dei concorrenti. Ma anche i numeri di Bright Food: 14mila supermercati e che faranno arrivare sugli scaffali cinesi i marchi Sagra e Berio.
L’intenzione degli acquirenti è mantenere le produzioni in Italia e canalizzare i prodotti su tutta la Greater China . Con l’obiettivo di migliorare l’alimentazione della popolazione ma anche per afferrare la nascente passione dei consumatori cinesi per i marchi made in Italy. Per Salov è l’opportunità di sbarcare su un mercato che cresce del 5-6% l’anno, con picchi del 50% nell’olio di oliva. In allarme la Coldiretti che spiega come superi i 10 miliardi «il valore dei marchi storici dell’agroalimentare italiano passati in mani straniere dall’inizio della crisi —. Il mercato dell’olio Made in Italy è sempre più straniero dopo l’acquisizione di Bertolli, Carapelli e Sasso da parte del fondo Cvc». Dura la reazione della Confederazione agricoltori che ha parlato di «scippo da parte straniera». Salov sarà un polo per nuove acquisizioni — spiegano fonti vicine a Bright Food — anche in altri settori dell’alimentare. La campagna acquisti non è finita.

Corriere 8.10.14
La dialettica grande assente del nostro tempo
Il panorama culturale è sconfortante, a tutti i livelli non esiste più il confronto
di Giuseppe De Rita


I n un periodo in cui il termine «eclisse» va di moda (eclisse della storia, eclisse della borghesia, eclisse della ragione, eclisse dei valori, ecc.) nessuno ha per ora avuto l’ardire di parlare di una eclisse della dialettica, cioè di un concetto e di una prassi che hanno occupato e ispirato tutto il secolo passato. Per decenni abbiamo fatto costante riferimento alla dialettica delle idee e delle ideologie, alla dialettica delle classi, alla dialettica generazionale, al materialismo dialettico, gestendo una invasiva eredità della primigenia dialettica hegeliana.
Ma di tutto ciò oggi non c’è traccia, quasi non avessimo più bisogno di strumenti di confronto fra idee, posizioni culturali, interessi economici, poteri politici.
Il panorama culturale, e non solo italiano, è in proposito sconfortante: non esiste una dialettica fra idee, vista la dominanza crescente di una comunicazione di massa che non ha bisogno di profondità psichica e di confronti contenutistici; non c’è dialettica culturale, visto che sempre meno esistono soggetti e strumenti organizzativi che siano portati a discutere con posizioni altre (vince il tweet , strumento più di diverbio che di dialogo); non esiste dialettica fra interessi economici, visto che non sono più i tempi in cui il sistema ruotava sulla competizione spesso conflittuale fra settori tradizionali e nuovi, fra produzione e servizi, fra industria e finanza; e non esiste dialettica fra poteri politici, visto che la fine dei grandi scontri ideologici ha lasciato spazio infinito a una «politica politicante» dove tutto è fluido, tattico, improvvisato, senza alcuna sede che faccia da crogiuolo alle diverse posizioni in campo (quel crogiuolo che nei secoli ha fatto crescere l’arte politica e gli assetti istituzionali).
Una tale complessiva rimozione della dialettica ha effetti facilmente riscontrabili nella nostra concreta situazione sociopolitica: siamo pieni di partiti in cui non c’è alcuna dialettica interna; siamo pieni di sindacati in cui è difficilissimo sapere se ci sono anche rudimentali posizioni dialettiche; siamo prigionieri di un mondo associativo molto differenziato e composto da soggetti che mal sopportano verifiche sul proprio modo di stare in vita; viviamo in una ormai lunga congiuntura di governance (dalle «larghe intese» al patto del Nazareno) che evita ogni reale differenziazione e si orienta verso un regime di «partito unico»; viviamo un impoverimento del tessuto istituzionale (di vertice, periferico ed intermedio) che sta portando quasi a una scomparsa della dialettica istituzionale.
Ed è verosimile che le stesse tentazioni di leadership semiautoritarie che molti denunciano siano essenzialmente l’effetto del vuoto creato dalla crescente mancanza di confronto culturale e politico. Non è esagerato quindi parlare di eclisse, quasi di atarassia della dialettica. È forse finito il ciclo secolare dalla hegeliana primazia della dialettica? L’opinione collettiva sembra indulgere verso tale ipotesi, e «ce ne faremo una ragione», nella cinica constatazione che molto dell’armamentario del Novecento sta finendo nei polverosi armadi della tradizione più che nelle memorie digitali.
Non venga però considerata passatista la considerazione, anzi la personale convinzione, che una certa dose di dialettica è necessaria anche in una società liquida e indifferenziata come è la nostra. Rischiamo infatti che, una volta saltata la dialettica, si resti prigionieri di conflitti duri e ingovernabili, come è già avvenuto e avviene nella sponda sud del Mediterraneo; ma più ancora rischiamo che, senza cultura e prassi della dialettica, non maturino classi dirigenti capaci di idee nuove e di comportamenti più realistici e responsabili.
Se si pone mente alla ispirazione povera e inconcludente di chi ci governa da un paio di decenni, l’eclissi della dialettica potrebbe risultare una vera tragedia domestica.

Repubblica 8.10.14
Sottovalutata per secoli, l’arte meccanica diventa vera scienza solo grazie al genio pisano Ecco perché inizia da qui la nostra rivoluzione tecnologica
Galileo Galilei e la seconda era delle macchine
di Remo Bodei


PER cogliere il senso della moderna civiltà delle macchine bisogna partire dal carattere innovativo delle proposte di Galileo nel campo della meccanica, misurandone dapprima la distanza rispetto a una lunga tradizione che parte dalla Grecia antica. In origine, infatti, il termine mechane significa soltanto “astuzia”, “inganno”, “artificio” e in questa accezione compare già nell’Iliade. Soltanto più tardi (accanto alle connotazioni “uso appropriato di uno strumento” e “macchina teatrale”, da cui l’espressione theos epi mechanes, deus ex machina) viene a designare la macchina in genere, e, in particolare la macchina semplice — leva, carrucola, cuneo, piano inclinato, vite — la macchina da guerra e l’automa. La meccanica, sapere attorno alle macchine, è dunque preposta alla costruzione di entità artificiali, di trappole tese alla natura per catturarne l’energia e volgerla in direzione dei vantaggi e dei capricci degli uomini.
Perché la macchina eredita i significati dell’astuzia e dell’inganno? Perché per lungo tempo non si riesce a spiegare il suo funzionamento. Non si capisce, ad esempio, come una leva possa innalzare con minimo sforzo dei pesi enormi o come un cuneo riesca a spaccare pietre o giganteschi tronchi d’albero. Di questo stupore offre testimonianza la Mechanica , attribuita per lungo tempo (e da alcuni studiosi anche oggi) ad Aristotele, ma forse opera di uno dei suoi successori alla direzione della Scuola come Stratone il Fisico. In tale testo (su cui Galileo fece lezione a Padova nel 1597/98) è chiaramente affermato che «molte cose meravigliose, la cui causa è sconosciuta, avvengono secondo natura, mentre altre avvengono contro natura prodotte dalla techne a beneficio degli uomini ». Quando la natura è contraria alla nostra utilità, noi riusciamo a padroneggiarla mediante l’artificio (mechane). Le arti meccaniche, proprio in quanto appartengono al regno dell’astuzia e di ciò che è «contro natura», non fanno parte della fisica, che si occupa di ciò che avviene secondo natura. Le arti meccaniche si presentano come operazioni contro natura o come giocattoli stupendi. Archimede pare si vergognasse di aver costruito macchine e avesse invece fatto scolpire sulla sua tomba il famoso cilindro che contiene una sfera. Ancora nel Cinquecento la meccanica non è scienza a pieno titolo, ma scienza «mista » o «media». Ancora più tardi, specie tra i dotti gesuiti del Colbeffata legio Romano, essa è soprattutto mechanica practica ad uso degli “ingegnierii”.
Pur non pienamente apprezzata, la meccanica guadagna terreno e prestigio nel corso del Cinquecento finché continua a restare legata alla funzione di provocare meraviglia. Nel 1508 Leonardo progetta — per la villa di Carlo d’Amboise a Milano — un mulino idraulico quale motore d’automi che emettevano suoni. A partire dal 1569, poi, Bernardo Buontalenti crea, nella villa medicea di Pratolino, una serie di meravigliose macchine idrauliche e pneumatiche (oggi perdute) che mettono in moto statue, porte e getti d’acqua. Con Galileo ci si comincia a rendere conto che alla natura si comanda ubbidendole, che essa non può essere semplicemente e che il compito principale della meccanica non è quello di provocare stupore. Per padroneggiare la natura bisogna servirla, piegarsi alle sue leggi e alle sue ingiunzioni, traendo profitto dalla loro conoscenza. Il concetto di astuzia, nel senso del più debole che prevale sul più forte, dell’uomo che — simile a Odisseo — inganna l’ottuso Polifemo della natura, viene a tramontare. Allo stesso modo, la meraviglia suscitata da una presunta alterazione della legalità naturale si trasferisce su un altro piano, quello del potere effettivo dell’uomo di servirsi legittimamente delle energie naturali. In Galileo l’astuzia cambia di significato (consiste ora nell’utilizzare le energie naturali a fini economici, così da godere di energia a basso costo) e la violenza in quanto tale scompare, perché la meccanica cessa di essere contro natura.
Queste idee vengono esposte dal giovane Galileo ne Le mecaniche . L’ultima stesura comincia con una polemica contro la tradizione secondo cui le macchine ingannano la natura. Non si deve più cedere alla fantasticheria di cogliere la natura in fallo, di indurla a piegarsi alla nostra volontà. Le critiche non si rivolgono tuttavia soltanto ai teorici della meccanica ma anche ai cattivi pratici, agli ingegneri incapaci. Nel tentativo di spiegare razionalmente «le cause degli effetti miracolosi» che si riscontrano nella «meccanica dell’istrumento » o della macchina, Galileo riconduce tutte le macchine semplici alla bilancia (per la quale riprende temi già affrontati nel suo trattato La bilancetta del 1586) e decreta che l’astuzia delle macchine consiste ora nell’utilità che la meccanica consente. Ne Le mecaniche vengono elencati tre tipi di utilità. La prima sta nel comprendere che l’astuzia che si crede rivolta verso la natura si ritorce contro il presuntuoso meccanico, il quale (avendo scarsità di forza, ma non di tempo) si ostina nel cercare macchine potentissime e insieme rapidissime nell’esecuzione dei loro compiti. Così chi credesse da un pozzo, «con machine di qualsivoglia sorte cavare, con istessa forza, nel medesimo tempo, maggior quantità di acqua […] è in grandissimo errore; e tanto più spesso e maggiormente si troverà ingannato ». La seconda astuzia consiste nel trovare strumenti che si conformino alla funzione da svolgere, poiché «non in tutti i luoghi, con uguale commodità, si adattano tutti gli strumenti». Così, per tenere asciutta la sentina di una nave, non si utilizzeranno delle secchie, ma delle «trombe», che pescano meglio nel fondo. La terza e più impor- tante «utilità» viene appunto individuata nel trovare fonti di energia a buon mercato e nell’inventare delle «prese» che si adattino ad esse (mentre gli strumenti devono adattarsi agli organi dell’uomo o dell’animale, ad esempio alle mani e al collo, le macchine devono conformarsi al genere di energia che le muove, ad esempio al vento attraverso le pale dei mulini o, molto più tardi, alla caduta dell’acqua attraverso le turbine).
In prospettiva, sono proprio le macchine (ora costruibili con criteri e calcoli pienamente razionali) a non rendere più conveniente la schiavitù e a permetterne la virtuale abolizione. La forza lavoro umana nella forma di mera erogazione di energia non è più indispensabile, mentre — ed è questa un’altra grande intuizione di Galileo — le macchine sostituiscono la mancanza di intelligenza delle forze o degli animali che erogano energia. Mediante «artificii ed invenzioni» egli è ora in grado di far risparmiare fatica e denaro agli uomini, scaricando sulla natura inanimata e animata l’onere di erogare energia previamente indirizzata all’ottenimento dell’effetto desiderato. È così che, da Galileo in poi, la meccanica prende l’aggettivo “razionale”, proprio per contrastare la sua precedente immagine di sapere pratico, di arte non liberale o di artigianato. Con la qualifica di “razionale” essa riceve la sua patente di nobiltà, il riconoscimento del suo carattere interamente conforme alle leggi della natura. Solo ora viene equiparata alle altre scienze esatte, con la conseguenza che le macchine cessano gradualmente di apparire oggetti miracolosi che incomprensibilmente profanano l’ordine perfetto del mondo. Ma non per questo perdono il loro fascino e il loro ruolo. Anzi la loro astuzia si avvia a diventare la moderna intelligenza tecnica, il dominio dispiegato sulla realtà, l’insieme dei vantaggi a cui è ormai impossibile rinunciare.
© Remo Bodei 2014