giovedì 9 ottobre 2014



Ansa 8.10.14
Il più antico disegno rupestre è in Indonesia
Ha 40.000 anni e rappresenta un cinghiale primitivo
qui segnalazione di Francesco Maiorano e di Antonino Reggio d’Aci

BBC News 8.10.14
Cave paintings change ideas about the origin of art
By Pallab Ghosh

qui segnalazione di Luigi De Michele

La Stampa 9.10.14
Allarme immigrati
L’Europa “scheda” tutti i clandestini
Iniziativa coordinata dall’Italia: fenomeno fuori controllo
di Guido Ruotolo


L’hanno battezzata “Mos Maiorum”, letteralmente “costume degli antenati”, con riferimento a un principio cardine della morale tradizionale degli antichi romani. Partirà lunedí prossimo e durerà fino al 26 ottobre. Il tempo necessario per avere un quadro reale del fenomeno. È una grande operazione di polizia sugli immigrati irregolari, clandestini, in attesa di asilo politico. Una schedatura di massa per trasformare i clandestini in cittadini in attesa di lavoro, di assistenza umanitaria del paese che accetta di accoglierli.
Per la prima volta, le polizie degli Stati membri della Comunità Europea, coordinate dall’Italia, lanceranno una offensiva comune contro i trafficanti di immigrati. Al termine di «Mos Maiorum», si dovrebbe avere «un quadro chiaro e aggiornato della situazione riguardante l’area operativa, il modus operandi, le tendenze principali e i possibili cambiamenti rapidi del fenomeno».
Sempre di più la gestione dei flussi migratori irregolari sta diventando un problema che coinvolge anche i paesi del Nord Europa, non solo quelli rivieraschi, come l’Italia, che fronteggiare in prima linea i flussi migratori che arrivano dall’Africa o dal Medio ed Estremo Oriente.
Proprio nelle settimane scorse il governo tedesco ha fatto sapere di aver raggiunto il tetto massimo dell’accoglienza per i rifugiati politici, chiedendo agli altri Paesi europei di farsi carico del problema. Mentre paesi come l’Italia chiedono alla Comunità Europea di affrontare insieme il problema dell’accoglienza dei clandestini. Che stanno quasi per raggiungere la soglia dei 150.000 (sono 145.381) giunti in Italia dal primo gennaio di quest’anno a ieri.
La decisione di dar vita a «Mos Maiorum», attività di «prevenzione, repressione, e analisi», nasce dalla necessità di riempire un vuoto di conoscenza. Con l’apertura delle frontiere dentro i confini dell’Europa di Schengen, la dimensione della mobilità interna di uomini e donne è un dato empirico, mancando punti di riferimento reali per determinare la dimensione quantitativa del fenomeno.
Le operazioni di polizia che partiranno da lunedí serviranno appunto a riempire questi vuoti. E dunque, assisteremo ad «operazioni di controllo lungo le principali rotte di immigrazione illegale (all’interno dello spazio Schengen e alle frontiere».
Nei documenti di «Mos Maiorum» vengono elencate le informazioni che dovranno essere raccolte: «Dove e a che ora sono stati intercettati i clandestini. Eventualmente su quali mezzi di trasporto si trovavano. Quali nazionalità dichiarano. L’età, il sesso e quando è attraverso quale frontiera sono entrati in Europa». E ancora: «Bisogna specificare se i clandestini hanno esibito documenti falsi-falsificati di viaggio poi sequestrati. O se hanno chiesto asilo». E sul viaggio di trasferimento, occorre raccogliere il maggior numero di informazioni sulle organizzazioni di trafficanti di clandestini, sul prezzo del biglietto di viaggio pagato per raggiungere l’Europa».
Un database utile per la comprensione del fenomeno, ovvero per le politiche da adottare per fronteggiare l’emergenza dei flussi migratori che continuano a premere sull’Europa. I teatri di guerra e di conflitti che si avvicinano sempre di più all’Europa, come la Siria, l’Iraq e la Turchia che producono centinaia di migliaia di profughi che cominciano a premere per trasferirsi in Europa.
Il Corno d’Africa e la fascia subsahariana del continente nero stanno trovano nella Libia che rischia di diventare territorio dell’islamismo terroristico e integralista, rappresentano la tenaglia che rischia di stringersi sull’Europa.

Repubblica 9.10.14
Serve la riforma, non uno scalpo
Forzando i tempi e il dibattito il premier ha messo la minoranza del suo stesso partito con le spalle al muro in nome di un simbolo
di Federico Fubini


INCASSATA la fiducia sul Jobs Act in Senato, archiviato il vertice di Milano, Matteo Renzi può fermarsi un attimo a misurare lo spread che forse oggi conta di più. Non è finanziario, è politico e psicologico. E aiuta a capire chi alla fine riuscirà, e chi no, a districarsi in questa interminabile crisi dell’euro. Ciò che rivela quello spread è che non ce la stanno facendo tanto i Paesi che, per dirla nel gergo di Bruxelles, “hanno fatto le riforme”.
NESTANNOu scendo meglio quelli che, piuttosto, si sono detti dall’inizio: questa crisi è frutto in primo luogo dei nostri limiti, ce la siamo creata con le nostre mani, dobbiamo innovare su noi stessi per liberarcene. A restare indietro sono gli altri, quelli che per anni si sono esercitati a dare sempre e solo la colpa agli altri — a chiunque altro — e ora affrontano trasformazioni importanti senza sapere perché, o verso dove.
Dev’essere questa la sfumatura che mette oggi l’Irlanda e la Spagna in traiettoria di ripresa, ma la Francia e l’Italia ancora in mezzo alla palude. Ovunque in questi quattro Paesi si sentono argomenti anche molto validi su ciò che la Germania e la Banca centrale europea dovrebbero fare e non fanno. Ma c’è una qualità della reazione mentale allo shock che fa la differenza, ancor più se declinata sulla scena che abbiamo sotto gli occhi: i voti di fiducia in Senato su una riforma ancora imprecisata dei contratti di lavoro permanenti; le pressioni e le attese a Berlino, i giudizi di Bruxelles, le tensioni nella Bce sul futuro di un potenziale ordigno finanziario chiamato Italia; e nel Paese, la fine dell’illusione che il tempo sia comunque dalla nostra parte.
A Roma c’è un premier sempre più costretto a muoversi fra questi campi di forza, ciascuno intento a catturarlo nella propria gravitazione. Nel governo tedesco si è ormai convinti («sulla base dell’esperienza », nota il ministro Wolfgang Schaeuble) che i Paesi fragili affrontano il cambiamento solo se vincolati a farlo. Può essere un modo più o meno elegante per dire che solo la troika funziona su gente come noi, o per alzare l’intensità della sorveglianza e delle relative condizioni, o magari solo il segnale che la Germania non ha fretta: può lasciare l’Italia nella sua agonia economica, finché non capirà che deve cambiare strada.
Poi c’è il cantiere aperto della riforma del lavoro, con il passaggio drammatico di ieri.
È senz’altro legato alle pressioni europee, perché Renzi di colpo ha affrontato l’articolo 18 e la disciplina dei licenziamenti dopo aver spiegato a lungo che queste cose contavano poco. Ha cambiato rotta solo dopo i suoi contatti estivi con i leader europei. Il risultato è che ieri, con François Hollande e Angela Merkel a Milano, a Roma è andato in scena il più strano dei voti di fiducia: il Senato ha delegato il governo a riformare i contratti sulla base di un testo che non ha una sola parola sul punto più delicato, il regime dei licenziamenti economici e disciplinari.
In realtà Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, ha delineato in aula un percorso: nei nuovi contratti (non negli esistenti) i licenziamenti economici non prevedono il reintegro per decisione giudiziaria, mentre nei casi disciplinari la possibilità di reintegro sarà delimitata. E sarebbe ingeneroso sostenere che la delega votata ieri è in bianco, perché il testo contiene un disegno equilibrato: dal welfare alle politiche attive di formazione e collocamento, fino alla pulizia nella giungla delle forme di precariato, i passi avanti si vedono e dovevano arrivare già anni fa, decisi magari da chi oggi protesta.
Resta però l’impressione di un colossale corto circuito fra ciò che si fa e le ragioni per le quali si cerca di farlo. Forzando i tempi e il dibattito, facendo leva sul timore di molti senatori di andare a casa se cade il governo e si va al voto, il premier ha preferito mettere parti del suo stesso partito spalle al muro in nome di un simbolo: l’articolo 18. Anche la transizione ai negoziati sui salari in azienda è sul tavolo, è anche più importante dell’articolo 18, ma semplicemente non se ne parla perché come totem funziona piuttosto male. Non riescono a brandirlo né i riformatori, né i loro nemici.
Pier Carlo Padoan ripete spesso che le riforme approvate fanno bene all’economia solo se su di esse «c’è consenso»: non sono uno scalpo da offrire, ma un’innovazione da spiegare e da condividere. Quella del lavoro, così com’è, ha molti aspetti positivi. È ora di parlarne, e mettere scalpi, simboli e totem nel posto che li attende da tempo: il solaio.

Il Sole 9.10.14
Parlamento come la fortezza Bastiani? Inerte in attesa della legge elettorale
Un porto delle nebbie segnato dai tentativi di delegittimare il Capo dello Stato
di Stefano Folli


Non tutto è chiaro in questa fase della vita repubblicana. Il problema, s'intende, non sono i tafferugli al Senato a margine del voto di fiducia sulla riforma del lavoro: era ovvio che i Cinque Stelle non si sarebbero fatti sfuggire l'occasione di creare scompiglio, anche se il loro comportamento non fa che confermare l'assenza di una strategia politica. In definitiva le risse in aula fanno parte di certi passaggi-chiave della vita nazionale e si può pensare, pur con qualche dubbio, che la riforma di Renzi lo sia.
In ogni caso la fiducia era scontata e ha chiuso il cerchio. La minoranza del Pd non poteva fare altro che adeguarsi, salvo un paio di casi personali. Cerchio doppiamente chiuso per il premier. Eppure le ombre restano sullo sfondo e sono poco rassicuranti. Non riguardano l'attività di governo in senso stretto, bensì la vita del Parlamento e la salute delle istituzioni. Gli indizi non mancano. Da un lato vediamo un presidente della Repubblica che osserva amareggiato – sono sue parole – le due Camere che non riescono o non vogliono eleggere due giudici della Corte costituzionale. In tal modo il Parlamento «si auto-priva della facoltà attribuitagli dalla Costituzione di concorrere alla formazione della più alta istituzione di garanzia».
Dall'altro lato si osserva con sbigottimento l'incessante tentativo di delegittimare la presidenza della Repubblica e di squalificare lo Stato sul punto sensibile del rapporto con la mafia. In realtà tutti sono stati colti di sorpresa dalla procura di Palermo che ritiene perfettamente normale chiamare Riina e Bagarella ad assistere alla testimonianza di Napolitano. Ma i commenti dei politici non riescono a trasmettere il senso di indignazione e tanto meno di rivolta contro un'iniziativa il cui effetto oggettivo è la destabilizzazione a tutto vantaggio dei mafiosi imputati. «Incomprensibile» e «inspiegabile» sono gli aggettivi ricorrenti, riferiti al passo dei pubblici ministeri palermitani, e sembrano abbastanza blandi, forse nel timore di pronunciare una parola troppo forte verso il potere giudiziario.
Il risultato complessivo è un senso di impotenza. Napolitano non riesce a ottenere che il Parlamento eserciti le sue prerogative costituzionali sulla Consulta. E lo stesso Napolitano deve subire un'umiliazione da parte della procura di Palermo senza che il mondo politico sappia o voglia difenderlo con l'energia che un tempo sarebbe stata doverosa. Tutto diventa nebbioso e la "vulgata" corrente vuole che questo accade perché il capo dello Stato è al termine del suo mandato, avendo egli manifestato l'intenzione di ritirarsi entro pochi mesi.
Ma intanto la legge elettorale è ferma da qualche parte, forse anch'essa inghiottita dalla nebbia. E la stessa controversa riforma del Senato rischia di affondare nelle sabbie mobili, dal momento che risente dei ritardi del Parlamento. È un altro grave elemento di incertezza. In altri tempi, se le Camere si dimostravano incapaci di svolgere le loro funzioni, venivano sciolte. E l'impossibilità di eleggere due giudici della Corte sarebbe un ottimo motivo per sciogliere. O almeno per minacciare di farlo. Ma l'Italia aspetta la riforma elettorale che ancora non c'è. Così come aspetta la riforma del Senato, il cui tragitto è lunghissimo. Così il Parlamento si trasforma in una fortezza Bastiani e il Quirinale è sempre più esposto e sempre più inquieto.

Corriere 9.10.14
il mal di teste dei partiti
di Michele Ainis


I partiti agonizzano, i sindacati rantolano e neanche gli italiani stanno troppo bene. Ci attende un futuro orfano di queste grandi organizzazioni? A leggere i numeri, il futuro è già iniziato. Il Pd in un anno ha perso l’80% dei suoi iscritti: ora sono 100 mila, quando il partito di Alfano ne dichiara 120 mila. Ammesso che sia vero, dato che alle Europee l’Ncd in Campania ha ottenuto meno voti che iscritti. Ma pure la metà basterebbe a rendere felice Forza Italia, che fin qui ha racimolato la miseria di 8 mila iscrizioni.
Sulla carta, va meglio ai sindacati: 12 milioni e 300 mila tessere. Non senza dubbi, anche in questo caso: nel 2012 la Confsal ha denunziato almeno 3 milioni d’iscritti fantasma. E in ogni caso con un’emorragia nel settore privato (un milione d’associati in meno fra il 1986 e il 2008) e una flessione anche fra i dipendenti pubblici (dal 10% al 16% nella sanità, nelle Regioni, nei ministeri). A turare la falla, soccorrono immigrati e pensionati. Non i giovani, che se ne tengono a distanza. Sicché pure in Italia sta per risuonare l’annuncio della Thatcher: nel 1987 disse che il numero degli azionisti aveva superato quello degli iscritti al sindacato. Del resto è un’onda che viene da lontano. Nel 1990 la Dc sommava 2.109.670 iscritti; otto anni dopo il Ppi ne aveva 197 mila. E l’onda bagna tutto il globo. Dagli anni Ottanta la militanza nei partiti è calata del 64% in Francia, del 50% negli Usa, del 47% in Norvegia. Insomma il problema non è Renzi, non è lui che ha ucciso il Novecento. Il problema è che in Italia mancano soluzioni di ricambio, rispetto alla crisi dei Parlamenti che s’accompagna alla crisi dei partiti. Obama non ha dietro di sé un partito strutturato; però gli americani hanno a disposizione i referendum (174 durante le ultime presidenziali), le esperienze di democrazia deliberativa, il recall (che consente la revoca degli eletti). E noi, come ci attrezziamo per questa nuova democrazia senza sindacati né partiti?
Quanto ai sindacati, difettano di strumenti alternativi. Lo Statuto dei lavoratori sarà vecchio, ma si discute dell’articolo 18, non di coinvolgere i lavoratori nella gestione delle imprese. Quanto alle segreterie politiche, fanno un po’ come gli pare, dato che manca una legge sui partiti. Come manca sulle consultazioni pubbliche, di cui gli ultimi governi abusano fingendo d’ascoltare i cittadini. In compenso la riforma costituzionale menziona il referendum propositivo, accanto a quello abrogativo. Quest’ultimo fu attuato con 22 anni di ritardo; speriamo di non rinnovare l’esperienza. Perché una cosa è certa, nel nostro incerto quotidiano: la crisi dei partiti ha aperto un vuoto. Per non farci risucchiare, dobbiamo restituire lo scettro ai cittadini.

il Fatto 9.10.14
L’ultima mossa dell’illusionista
Il decreto abracadabra del mago Matteo
di Antonello Caporale


È l’ultima delle leggi abracadabra. Un grande pentolone dove galleggiano linee guida, forse buoni propositi ma anche tanti cattivi pensieri.
Galleggiano fino a perdersi, nel continuo moto ondoso renziano che restituisce a riva pezzi di provincie abrogate ma vive, di leggi elettorali definite ma forse anche sconfessate, riforme annunciate ma mai approvate, tagli decisi ma poi revocati. La debolezza di Matteo Renzi sta nella sua forza, il punto di crisi coincide con la smisurata abilità illusionistica che correda ogni suo atto. Dà sistematicamente per certo l’incerto, trasforma il fumo in arrosto, confonde volutamente il dire con il fare.
QUANDO l’immaginazione al potere si spinge oltre il lecito, la tecnica illusionistica diviene totalizzante e i provvedimenti si trasformano in sacchi vuoti, misure parziali e contraddittorie, testi incompleti. Un perenne sbriciolamento di commi, di previsioni e di coperture che fa affondare nel dubbio anche il cuore più fedele, il militante più generoso.
Nel Jobs act non si capisce quale sia la misura delle nuove tutele offerte ai giovani lavoratori e quante quelle tolte ai vecchi. E quale sia il limite al licenziamento. La riforma dell’articolo 18 è dentro una bolla sospesa: sarà cambiato ma nessuno sa come. Esattamente come sono inghiottite dall’oscurità le promesse di realizzare una riforma elettorale che superi l’indecente Porcellum. Restano vivi i listini bloccati, rimane intatto il potere delle segreterie dei partiti, integro il blocco dei nominati. Però si sta lavorando all’opposto: forse le preferenze, forse un
mix. Renzi è per la salvaguardia del territorio, la tutela del paesaggio, la mitigazione del cemento. Poi sforna il decreto che chiama Sblocca Italia e che invece sembra frutto di un trust di betoniere. I controlli di legalità saltati, i controllori semplicemente eliminati dalla scena. Tutto il potere al concessionario, alle ditte appaltatrici.
La potenza di Matteo Renzi si è ancora una volta esplicata in quella che appare la sua più grande qualità: la prestidigitazione. In politica è utile, e in un certo senso decisivo per dare passione alle proprie idee e gambe al proprio popolo, far apparire un buon proposito come un fatto acquisito. E ieri sia Angela Merkel che Françoise Hollande hanno salutato con favore l’approvazione del Jobs act, la legge che darà lavoro a chi ne è sprovvisto. Lui, sorridendo, ha raccolto l’apprezzamento: “Gli impegni presi si mantengono. Noi cambieremo l’Italia”. Come si sa ha già approvato la riforma costituzionale, abrogato il Senato o quasi, realizzata la spending review. Vero? Falso?
Siamo nella condizione, grazie a questa procedura illusionistica, di avere le idee confuse al punto che due mattine fa i senatori sono stati convocati per votare il Jobs act ma nel mezzo della discussione si sono accorti che il testo sul quale dibattevano era superato da uno nuovo che però non si conosceva. Sulla Stampa Mattia Feltri ha documentato nei dettagli lo stralunato confronto. “Ma di cosa stiamo parlando, presidente? ”, chiedeva un senatore. E il presidente di turno, inflessibile: “Questo è il testo e andiamo avanti”.
ERA UN TESTO pro tempore, un foglio di passaggio, una scrittura cangiante. Più di un testo sembrava un pretesto per spingere i senatori a scornarsi sul nulla e dimostrare ancora una volta che palazzo Madama è meglio chiuderlo. Poi è giunta Maria Elena Boschi in un bell’azzurro elettrico e tutte le caselle sono andate in porto. Renzi è un innovatore nato e ha così definito la cornice della richiesta di fiducia orale: un voto sull’articolo 18 e tutto il resto. Anzi, scorgendo i vuoti nell’emendamento sottoposto all’approvazione, ha spinto sull’acceleratore imponendo la fiducia alla fiducia. E' nata così la “fiduciona”. Un atto insieme patriottico e sentimentale: vuoi bene all’Italia? Allora vota sì.
Cosicchè a Milano il premier ha potuto dimostrare ai colleghi europei che – abracadabra - tra il dire e il fare non c'è più di mezzo il mare.

il manifesto 9.10.14
Renzismo terminale
di Marco Revelli

qui

Corriere 9.10.14
L’atlante mondiale delle economie: Italia esce dalla «top 10»


È difficile per chi ha superato i 30 anni. Dobbiamo però ridisegnare nelle nostre menti l’atlante del mondo economico.
Ieri, il Fondo monetario internazionale ha pubblicato una mappa interattiva (google.com/publicdata) dalla quale si ricava che l’ordine mondiale misurato in termini di Prodotto interno lordo (Pil) a parità di potere d’acquisto sarà, alla fine del 2014, questo: prima economia, la Cina con 17.632 miliardi di dollari; seconda, quella degli Stati Uniti, 17.416 miliardi; terza l’indiana, 7.277 miliardi. Seguono Giappone, Germania, Russia, Brasile, Francia, Indonesia, Regno Unito. All’undicesimo posto il Messico, con 2.143 miliardi e al dodicesimo l’Italia, 2.066 miliardi di dollari.
Questa classifica è una novità, non paragonabile agli anni passati.
Pil a parità di potere d’acquisto significa che si stabilisce un basket di prodotti e servizi e si guarda quante unità di una certa valuta servono per comprarlo, in ogni Paese; poi si registra quanti dollari servono per comprare il basket e sulla base del rapporto tra i due si corregge il Pil nominale. È una misura discutibile come tutte ma realistica: racconta a quanti beni e servizi corrisponde un singolo Pil.
L’Italia è insomma fuori dalle prime dieci economie. Qualcuno (per esempio il Financial Times ) ha anche immaginato un G7 di Paesi emergenti: ha scoperto che un gruppo formato da Cina, India, Russia, Brasile, Indonesia, Messico, Turchia avrebbe un Pil più alto di quello del G7 tradizionale formato da Usa, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada: 37.800 miliardi contro 34.500.

il Fatto 9.10.14
Renzi chiama Merkel e Ue per un selfie sul lavoro
Vertice con i leader europei senza risultati
Per distrarre dal caos di Roma
di Stefano Feltri


Milano A cosa serve un vertice europeo che non produce documenti, decisioni, e che alcuni capi di governo (David Cameron) preferiscono disertare? Ovviamente a nulla. Se non a garantire all'organizzatore, Matteo Renzi, applausi internazionali alla sua riforma del lavoro nel giorno più delicato. La conferenza “ad alto livello” (la traduzione di high level sarebbe in realtà “di alto livello”) è così poco operativa che alla riunione di apertura dei ministri del Lavoro, quello italiano ospitante, cioè Giuliano Poletti, non si presenta neppure, impegnato in Senato a duellare con il Movimento Cinque Stelle. “Le conferenze non risolvono problemi, servono solo a creare un clima”, riconosce Herman van Rompuy, presidente del Consiglio europeo in scadenza di mandato.
L'umore di Renzi, incupito dal caos al Senato sulla riforma del Lavoro, è stato comunque rasserenato dal pomeriggio milanese: nei locali della vecchia fiera, uno dopo l'altro, sono arrivati ministri, capi di governo, istituzioni europee. E quelli importanti si sono prestati a diventare testimonial del renzismo per un giorno. Il socialista Martin Schulz, appena rieletto al Parlamento europeo anche coi voti del Pd italiano, parla di governo “fantastico”. Il premier è abile a spremere ogni stilla comunicativa da una chiacchierata pomeridiana di meno di tre ore. Renzi fa anche trasmettere in streaming l'inizio della discussione, cosa abbastanza inusuale, giusto il tempo di far capire che ha confidenza con tutti i capi di governo e che è lui a gestire la riunione: “Possiamo cominciare? Benvenuti a Milano”.
IN CONFERENZA stampa il premier ha l'aria accigliata, furioso per il caos in Senato. Ma si gode il momento: con lui ci sono Van Rompuy, Schulz, il presidente uscente della Commissione José Bar-roso, Angela Merkel e François Hollande. L'esclusione degli altri si può giustificare perché le due precedenti conferenze sull'occupazione (altrettanto produttive di quella di ieri) si erano tenute a Berlino e Parigi. La cancelliera tedesca è alle prese con la frenata dell'economia, la produzione industriale è crollata del 5,7 per cento ad agosto, e con la Bundesbank, la sua banca centrale, che ormai attacca pubblicamente la Bce di Mario Draghi. Hollande ha una popolarità al 13 per cento e sta lavorando a una legge finanziaria per il 2015 che probabilmente sarà bocciata da Bruxelles perché non riduce il deficit, arrivato al 4,4 per cento del Pil. “Non abbiamo parlato di budget”, premette Hollande per chiarire che non si è trattato di un processo a Parigi, ma “la Francia vuole usare tutte le flessibilità previste dal patto di stabilità, faremo 21 miliardi di risparmi e li useremo anche per ridurre il costo del lavoro”. La Merkel non cede di un millimetro: “Renzi e Hollande hanno annunciato riforme importanti, come Consiglio europeo abbiamo deciso di rispettare il Patto di Stabilità e crescita, ci sono flessibilità previste, la Francia ha detto di rispettare i propri impegni, sono fiduciosa che tutti rispetteranno le promesse”. Ma la pressione sulla Germania sta salendo, anche il capo del dipartimento fiscale del Fondo monetario, Kenneth Kang, ha suggerito che i “fondi europei vengano usati per investimenti pubblici a livello nazionale” (a Kang il Jobs Act piace). Su questo arriva un'apertura quasi sorprendente della Merkel: “Siamo pronti ad affrontare il problema dei soldi per il co-finanziamento che finiscono nel deficit”. In pratica: i Paesi devono poter spendere la loro quota in progetti finanziati dall'Europa senza veder peggiorare i propri conti pubblici. Con i tempi europei ci vorranno mesi prima di vedere dichiarazioni più specifiche, come minimo fino al Consiglio europeo di dicembre quando la nuova Commissione di Jean Claude Juncker presenterà i dettagli del suo piano da 300 miliardi. Nel frattempo i 28 Paesi devono mandare a Bruxelles le leggi finanziarie per il 2015. Renzi sa di essere guardato con un po' di diffidenza, soprattutto per la scelta di rinviare il pareggio di bilancio al 2017, e quindi ripete per l'ennesima volta: “Abbiamo un problema di reputazione e quindi ritengo giusto per l'Italia rispettare il vincolo del 3 per cento, non mi intrometto nelle scelte di altri Paesi, come la Spagna e la Francia”. Sì, perché se qualcuno deve essere bocciato, sarà Hollande.

Corriere 9.10.14
Un’Europa plaudente forse anche troppo
Dietro le lodi l’inquietudine
di Massimo Franco


Da tempo Matteo Renzi non collezionava tanti complimenti dall’Europa. Il sospetto è che quelli ricevuti ieri siano troppi per apparire tutti sinceri.
A caldo, verrebbe da dire che la corsa per approvare la riforma del lavoro almeno al Senato ha raggiunto il traguardo sperato: è stata il suo biglietto da visita alla conferenza sull’occupazione a Milano. Lo sfondo di un Parlamento nel quale il Movimento 5 Stelle sbraitava e la sinistra del Partito democratico mugugnava ma chinava la testa votando la fiducia al governo, ha permesso al premier perfino l’ennesima bacchettata al «partito del rigore» dell’Unione Europea. Ma uno sguardo più freddo consente di cogliere, nel coro quasi unanime di lodi e auguri a Renzi, l’incoraggiamento e insieme l’inquietudine degli alleati.
A un premier che contesta una Commissione Ue incline a «fare le pulci ai governi nazionali, uccidendo la speranza della politica», nessuno risponde con durezza. Anzi, la cancelliera tedesca Angela Merkel gli dà atto di avere compiuto passi importanti. Aggiunge solo che confida nella volontà di Francia e Italia di rispettare i patti sottoscritti. E Renzi annuisce, seppure ribadendo il proprio scetticismo. L’Italia lo farà, dice, perché si rende conto di avere un problema di credibilità più acuto di altre nazioni. E apertamente nessuno mostra di essere abbarbicato alla frontiera tra rigore e flessibilità: si pongono tutti il problema della crescita e della disoccupazione, soprattutto giovanile.
Ma Palazzo Chigi sa quali sono gli umori e gli scenari della crisi. Proprio ieri è arrivata una nuova gelata dal Fondo monetario internazionale. È una sorta di bocciatura preventiva per i prossimi anni: un crudo richiamo alla realtà. «Con le condizioni attuali, l’Italia non è un Paese al quale si possa assicurare un futuro radioso o quantomeno sereno». Questo dice il direttore esecutivo del Fmi, Andrea Montanino. «La crescita potenziale crolla per gli anni futuri: siamo inchiodati allo 0,5%». L’analisi fotografa il presente e dunque non tiene conto degli sforzi che Palazzo Chigi sta facendo. Le resistenze che Renzi incontra, i metodi ruvidi e l’ambiguità di alcuni provvedimenti non sono tuttavia il migliore viatico per un successo duraturo.
Come si prevedeva, il Jobs act è stato approvato nella tarda serata di ieri, nonostante i malumori per la richiesta di fiducia da parte del governo; e a dispetto di quelle che Renzi ha bollato come «sceneggiate dell’opposizione». «Dobbiamo correre» ha intimato il ministro delle Riforme istituzionali, Maria Elena Boschi. E Renzi le ha dato man forte nella conferenza stampa a chiusura del vertice di Milano. «Dobbiamo chiudere entro le prossime ore». Ma il livido nei rapporti a sinistra rimane, confermando una coabitazione forzata tra maggioranza e minoranza del Pd; e un conflitto crescente con la Cgil. Questo non significa scissione, però, perché gli avversari di Renzi sanno che ne uscirebbero schiacciati.
La resa dei conti quotidiana col proprio partito vede un segretario-premier comunque vincente. Una lettera critica di ventisette senatori del Pd e i tentativi di fare slittare a oggi la votazione a Palazzo Madama non hanno fermato il provvedimento. E l’Europa, almeno a Milano, è apparsa meno ostile davanti alle richieste di Renzi, intenzionato a rispettare il tetto del 3 per cento nonostante le molte «contraddizioni» che sostiene di vedere. Dunque, si sta aprendo una nuova fase? Può darsi. Il problema è che l’Italia continua ad andare male. I progetti del presidente del Consiglio scompigliano il Paese, cercano di scuoterlo e di iniettargli fiducia; eppure non riescono a cambiare previsioni economiche da brivido.
Segno che qualcosa non va, in Europa ma soprattutto qui. Renzi si sta rendendo conto che non basta piegare gli avversari in Parlamento per invertire la rotta. Dovrà convincerli che, senza riforme condivise in Italia e riconosciute all’estero, il rischio è di declinare perfino correndo.

La Stampa 9.10.14
Caos Pd, la minoranza spaccata alla fine restano solo in 4 contro
E il premier s’inalbera per il documento critico dei bersaniani
di Carlo Bertini


Per ore sul filo rosso tra Palazzo Chigi e i renziani in Senato va in onda una sola preoccupazione: quella di superare la fatidica asticella della maggioranza assoluta, quei 161 voti che rappresentano la soglia politicamente sensibile per un governo che deve dimostrare di avere i numeri per andare avanti. Politicamente ma non formalmente, perché basta un voto in più dei presenti per superare la prova. E dunque il pressing sui dissidenti è forte, anzi fortissimo.
Lo psicodramma del drappello di «civatiani», ridotto a quattro unità, si consuma in una saletta dietro l’aula del Senato. «Il Pd fa la cosa più di destra della sua storia», aizza da lontano gli animi dei suoi Pippo Civati. Alla fine di un lungo tormento, sotto minaccia di espulsione dal Pd fattagli pervenire dagli emissari del premier, lo strappo è inevitabile. Walter Tocci va da Luigi Zanda per dirgli che voterà la fiducia e subito dopo si dimetterà da senatore. Una decisione sofferta che parte da lontano, dal totale disaccordo sulla riforma del Senato. Gli altri tre, Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti e Felice Casson, sono in ambascia fino all’ultimo, indecisi se seguire Tocci, più propensi però per uscire dall’aula senza votare no: consci di finire lo stesso sotto processo. Perché a chi in mattinata via sms aveva chiesto al premier se a suo avviso anche le uscite dall’aula dovessero comportare massime sanzioni disciplinari, Renzi aveva risposto di sì. 
Casson è già autosospeso dal gruppo dopo il voto della giunta sull’uso delle intercettazioni a carico del senatore Ncd Azzolini: lui da relatore aveva dato parere favorevole, il Pd invece ha votato contro. «La casta tutela uno della Casta e io sono incompatibile con questi signori, vorrei sapere chi ha dato l’ordine di votare così», attaccava ieri i vertici del partito. 
Con Civati sulle barricate, Bersani da una parte, Cuperlo dall’altra con la sua microcorrente Sinistradem, il caos regna nella minoranza Pd. Ma quando rimbalzano le immagini di una trentina di parlamentari di Bersani circondati dalle telecamere al Senato che scodellano due paginette di critiche sul jobs act Renzi si inalbera. «Il giorno in cui ho il confronto con la Merkel questi danno l’immagine di un Pd diviso...», commenta con i suoi da Milano. Ma la faccia soddisfatta del bersaniano Miguel Gotor è emblematica: sorrisone, «in un contesto in cui il premier-segretario esercita una doppia pressione su ognuno di noi è difficile tenere su una posizione così 27 persone», dice mentre stringe tra le mani il documento con in calce 35 firme, compresi gli otto deputati della corrente Area Riformista: che «si è ricompattata», sostiene Alfredo D’Attorre. Il quale insieme a Davide Zoggia e Stefano Fassina, arriva dalla Camera per dare un segnale di unità di una corrente che si arrende a votare la fiducia al governo ma spera di poter ingaggiare un braccio di ferro a Montecitorio. 
Ma se Renzi ha fatto ingoiare ai bersanian-dalemiani un testo che non riporta la mediazione sull’articolo 18 della Direzione Pd è pure merito della minoranza. Costretta a ricordare le conquiste su precari e poco altro nelle due paginette sbandierate ieri. «E’ vero l’ho detto a Bersani che quell’annuncio anzitempo sulla lealtà alla ditta è stato un errore e questo testo sul jobs act è un’operazione di cosmesi», si indigna il duro Fassina. 

Il Sole 9.10.14
Ventisette senatori Pd «dissentono» ma votano
di Barbara Fiammeri


ROMA La decisione era già stata presa martedì. Ieri però è arrivata l'ufficialità: anche la minoranza del Pd ha deciso di votare la fiducia al Governo sul Jobs act, rinviando la battaglia alla Camera. Anche chi, come il civatiano Walter Tocci, ha preannunciato che dopo il sì alla delega sul lavoro rassegnerà le dimissioni da senatore. Nessun colpo a sorpresa e neppure assenze pericolose, tanto che perfino Emma Fattorini, la senatrice democratica rimasta vittima della rissa scoppiata tra gli scranni dell'aula di Palazzo Madama, ha votato sia pure con il polso fasciato dopo il passaggio in infermeria. Il Pd si è presentato compatto così come Fi, che ieri è tornata a fare un'opposizione senza sconti, assieme alla Lega e ai grillini, smentendo così le voci del chiacchierato soccorso azzurro in favore di Renzi.
Una voce che probabilmente ha contribuito però anche a mantenere l'unità del Pd. La minoranza infatti ha deciso di non portare alle estreme conseguenze il suo dissenso. Un po' per senso di «responsabilità» verso il Paese, che «ha bisogno di un governo autorevole» e un po' perché ritiene che almeno una parte delle richieste di modifica sia stata accolta. Così almeno si legge nel documento sottoscritto dai 27 senatori bersaniani (più nove deputati della direzione Pd). «Voteremo la fiducia al governo – anticipava la senatrice Maria Cecilia Guerra presentando il documento – perché non abbiamo mai voluto far cadere il governo». Guerra e gli altri componenti della minoranza dialogante sono convinti che «miglioramenti» potranno arrivare nel passaggio del provvedimento alla Camera. Dove però il numero dei cosiddetti dissenzienti è sì più numeroso ma anche meno decisivo visto l'ampio margine di voti a disposizione della maggioranza.
Nessuno quindi si illude che Renzi possa concedere a Montecitorio quello che ha negato al Senato: il testo della delega sull'articolo 18 non verrà toccato. Ed è questo il motivo principale che ha portato sia nei giorni scorsi che ieri a una divisione della stessa minoranza, con i civatiani sempre più con un piede fuori dal partito, come confermano anche le dimissioni di Tocci e le assenze di Lucrezia Ricchiuti e Felice Casson: quest'ultimo peraltro aveva già rotto il giorno prima sul caso Azzollini, il senatore Ncd per il quale la procura di Trani aveva chiesto l'uso delle intercettazioni che invece la Giunta del Senato ha negato con il voto anche del Pd nonostante proprio Casson in qualità di relatore avesse dato parere favorevole.
Il grosso della minoranza però resterà dentro il Pd. «La battaglia continua», conferma Giovanni Cuperlo, il quale avverte che la vaghezza della delega sulle norme sui licenziamenti non potrà essere colmato dai decreti attuativi: «Se accadesse saremmo davanti a un evidente eccesso di delega», sostiene il leader della sinistra dem. È la stessa posizione della Cgil che però è sempre più lontana dalle altre due confederazioni. In particolare dalla Cisl. Il nuovo segretario generale Annamaria Furlan ha detto che «il Jobs act, se ben funziona, può essere uno strumento straordinario per superare la precarietà» ricordando però che «sono gli investimenti, l'innovazione e la ricerca a creare posti di lavoro».

Corriere 9.10.14
I ribelli nell’angolo Ma Tocci si dimette
di Monica Guerzoni


ROMA «È l’ultima volta che finisce così, la prossima o si ottiene qualcosa di concreto o si va fino in fondo». Dove il fondo, nei ragionamenti ultimativi di Stefano Fassina, è la crisi di governo. Il premier-segretario ce l’ha fatta, ma la minoranza del Pd è allo stremo, stanca di procedere «con la pistola alla tempia» e provata, come si lasciano scappare i più inquieti, dalle «pressioni che piovono dall’alto». È vero che ai dissidenti in odore di voto contrario è stata indicata la porta del Pd? E che i vertici del gruppo avrebbero minacciato di espulsione anche quelli tentati di uscire dall’Aula al momento del voto? Il capogruppo Luigi Zanda non nega di aver parlato chiaro ai suoi: «Beh, sì... Ho detto loro che il voto di fiducia è un voto di appartenenza».
Bivio drammatico per i dissidenti, che al verdetto sul Jobs act sono arrivati in ordine sparso. La minoranza ha cercato l’unità, ma l’ha trovata solo nella necessità di salvare il governo Renzi per salvare l’Italia. I bersaniani si sono ricompattati con un documento molto critico, firmato da 27 senatori e nove deputati. I cuperliani, per marcare una posizione ancor più dura, si sono rifiutati di sottoscriverlo. E i civatiani, dopo ore di confronto, non hanno trovato la quadra. Sergio Lo Giudice vota sì. Felice Casson, Corradino Mineo e Letizia Ricchiuti lasciano l’Aula. La stessa idea era stata accarezzata dai bersaniani, che però su questa linea non hanno raggiunto un accordo.
Il gesto più forte lo compie Walter Tocci, votando al governo una fiducia obbligata dallo stato in cui versa l’Italia e però, subito dopo, dimettendosi da senatore: «I progetti raccontati ai cittadini non corrispondono ai testi che votiamo in Parlamento. Nella legge delega non c’è scritto che cancelliamo l’articolo 18...». Perché si dimette? «Perché è l’unica via di uscita al dilemma di conciliare due principi opposti, la coerenza con le mie idee e la responsabilità verso il Pd e il governo».
Riunioni a raffica, crisi di coscienza e conferenze stampa improvvisate. Quella dei «27» avviene in piedi, parlamentari schierati davanti alle telecamere e Cecilia Guerra che spiega «luci e ombre» del provvedimento: «La fiducia crea un grave cortocircuito istituzionale che alla Camera non si potrà riproporre. Però alcune correzioni introdotte erano contenute nei nostri sette emendamenti». Per Miguel Gotor «i passi avanti sono insufficienti, l’ambiguità sull’articolo 18 è gigantesca». Il bersaniano assicura che «la battaglia continuerà alla Camera» e difende il documento: «Viste le doppie pressioni esercitate da un premier che è anche segretario, non è facile tenere 27 persone su una posizione così». Maria Grazia Gatti prevede scontro duro a Montecitorio: «In commissione Lavoro c’è Damiano, lì i democratici azzannano». Ecco infatti, pochi metri più in là, spuntare gli onorevoli Zoggia, Fassina e D’Attorre, venuti a raccogliere il testimone. «Basta ricatti, alla Camera cambieremo il testo», chiama alle armi D’Attorre. C’è sofferenza, rabbia, ci sono i dubbi di Erica D’Adda («I nostri figli andranno a lavorare con la telecamerina in testa?») e i tamburi di guerra di Fassina: «Dobbiamo raccogliere più forze possibili...». Perché allora anche Epifani, Stumpo, Amendola e la Campana hanno firmato e Bersani no? Nessun mistero, assicura Gotor con una battuta calcistica: «O c’è Platini, o c’è Furino».

il Fatto 9.10.14
Jobs act, il senatore dissidente Tocci non ce la fa più: “Voto la fiducia e mi dimetto”
La telefonata tra un parlamentare Pd e l'esponente della sinistra democratica: "Walter, non fare cazzate". Civati: "E' la cosa più di destra nella storia del Pd"
di Giuseppe Alberto Falci

qui

il Fatto 9.10.14
Democratici contro
Tocci l’unico ribelle: “Voto sì, poi lascio”
di Gianluca Roselli


Si era già autosospeso a luglio, insieme ai parlamentari dissidenti guidati da Vannino Chi-ti. Ieri invece Walter Tocci si è dimesso da senatore. Subito dopo aver votato la fiducia al Jobs Act. “Voterò la fiducia, ma subito dopo mi dimetto”, ha annunciato verso le sette di sera al suo capogruppo, Luigi Zanda. Diventando così il primo esponente del Partito democratico a lasciare il suo posto in polemica con le politiche messe in campo da Matteo Renzi. Al quale, Tocci, in questi mesi, non ha mai risparmiato invettive. Ma sempre portate con la grazia dell’intellettuale, usando il fioretto e non la spada. Senza dimenticare l’uso dell’ironia.
UOMO DI SINISTRA da sempre, laureato in Fisica e Filosofia, ricercatore, Tocci è stato vicesindaco e assessore alla mobilità nella giunta capitolina di Francesco Rutelli, da molti considerata una delle migliori amministrazioni di sempre. Negli ultimi anni, Tocci è stato vicino alle posizioni di Pier Luigi Bersani. Ma sempre con un passo di lato, da battitore libero. Per questo motivo ha sempre rifiutato l’etichetta di civatiano che alcuni gli avevano cucito addosso di recente per il suo atteggiamento critico verso il governo. Libero anche di esprimere complimenti all’attuale premier. “Io ho molta fiducia in Matteo, nella sua volontà di cambiamento e nella voglia di dare una sterzata a questo Paese, ma faccia la sua parte come capo del governo lasciando al Parlamento il compito di decidere sulle riforme”, aveva detto in un intervento all’assemblea nazionale del Pd nel giugno scorso. La fiducia di Tocci, Renzi l’ha persa strada facendo. Prima con la riforma del Senato, che ha visto il senatore votare contro, e poi con il Jobs Act. Contro cui Tocci è intervenuto con parole durissime in aula proprio due giorni fa. “La richiesta del voto di fiducia sembra una prova di forza, ma è un segno di debolezza. Il governo chiede al Parlamento una delega a legiferare mentre impedisce al Parlamento di precisare i contenuti di quella stessa delega.
Il potere esecutivo si impadronisce del potere legislativo per disporne a suo piacimento, senza alcun contrappeso istituzionale”, ha detto in aula. Per poi concludere: “Non si è mai cominciato a cambiare verso. Finora si sono visti i passi indietro. Non siamo stati eletti per indebolire i diritti”.
NONOSTANTE avesse votato per Bersani alle primarie, il Renzi un po’ guascone a Tocci non dispiaceva. Anzi, in qualche passaggio gli ricorda certi fotogrammi del primo Rutelli. In quella giunta dove Tocci fu uno dei principali protagonisti. Ma, da quando l’ex rottamatore è arrivato a Palazzo Chigi, il suo fastidio per il modo dispotico e spiccio di gestire il potere è andato aumentando. Incrociandosi con il dissenso politico. “Invita Chiti e Mineo a prendere un caffè. Parla con loro”, questo l’invito di Tocci a Renzi nei giorni più caldi della riforma del Senato. “Caro Matteo, noi non siamo Calamandrei, ma tu non se De Gasperi”. Critiche molto dure, sì, ma sempre espresse col sorriso e l’eleganza dell’intelligenza.
“Questa scelta mi addolora molto”, osserva Stefano Fassina alla notizia delle dimissioni. E aggiunge: “Capisco la sua delusione di fronte alla deriva del Pd verso posizioni conservatrici su un tema decisivo come il lavoro. Gli chiedo di rifletterci e di ripensarci. Abbiamo bisogno di lui, della sua intelligenza, della sua cultura, della sua passione politica, della sua sensibilità sociale per correggere la rotta del Pd. Vorrei dire a Walter che non è solo”.

La Stampa 9.10.14
Landini: “Sull’articolo 18 non molliamo”
di Fabio Poletti


A Milano pioviggina ma l’autunno è già caldo. Maurizio Landini, il segretario della Fiom, promette che sarà caldissimo: «Vogliamo veramente cambiare il Paese. Siamo pronti ad occupare anche le fabbriche. Le proposte che sta facendo il Governo Renzi sono sbagliate, non cambiano il Paese, peggiorano la situazione, tolgono i diritti». Quella annunciata dal numero uno dei sindacalisti dei metalmeccanici della Cgil è una lunga marcia che parte da Milano. Il corteo di ieri ai margini del vertice dei ministri del Lavoro e dei capi di Governo dell’Unione Europea è solo l’inizio. Le scadenze le fornisce lo stesso Maurizio Landini: «Questo è il primo sciopero dei metalmeccanici. Ne sono già in programma altri per i prossimi giorni e per le prossime settimane. Sino ad arrivare il 25 ottobre a Roma e poi proseguire perchè vogliamo cambiare il Paese».
Venerdì di settimana prossima si ferma già il Piemonte. Sciopero regionale di otto ore indetto dalla Fiom con corteo da Porta Susa con in testa Maurizio Landini. Ma quello che agita il mondo politico e soprattutto sindacale è la minaccia del segretario della Fiom di non uscire più dalle fabbriche: «Noi non escludiamo nulla. Nella storia del nostro Paese tante volte i lavoratori hanno fatto queste scelte per difendere il loro lavoro». Il leader della Uilm Rocco Palombella è il primo a dire no: «Solo una sparata inaccettabile. Per fare sindacato ci vuole responsabilità e ccoerenza». Il neosegretario generale della Cisl Annamaria Furlan si accoda: «Occupare le fabbriche oggi, con tre milioni di disoccupati e la produzione industriale in caduta libera, è l’ultima cosa che un sindacalista deve immaginare di fare».
E però tra i tanti in corteo che girano al largo del vertice Ue piace la svolta assai radicale del segretario della Fiom. In testa ci sono i 115 lavoratori della Nokia licenziati tre giorni fa con una mail. Un gruppo di stuidenti occupa la sede milanese del ministero del Lavoro. Esplodono quattro petardi c’è qualche spintone con la polizia ma finisce lì. Di fuoco rimangono le parole del segretario della Fiom che ce l’ha con quasi tutti. Prima di tutto con i ministri europei in conclave nella sede di FieraMilanocity: «Ai ministri della Ue dico cambiate le politiche del lavoro perchè ci sono 25 milioni di disoccupati».
Ma le parole più pesanti sono per Matteo Renzi e il governo. Lo attacca frontalmente Maurizio Landini: «Renzi non può chiamare i sindacati per discutere e poi porre la fiducia sul job act. Noi non ci facciamo prendere per il culo... Se Renzi vuole fare davvero i conti con l’Europa non si limiti all’articolo 18 e ad avere lo 0,1% in più da Bruxelles». Quello che vorrebbe il leader della Fiom è un radicale cambio di linea: «Noi non ci fermiamo. Renzi sbaglia. Invece di ascoltare Marchionne e la Confindustria senta i lavoratori».

Corriere 9.10.14
La rabbia di Casson: sulle intercettazioni non sto con il Pd Protegge la casta
di Monica Guerzoni


ROMA «Non esco dal Pd, perché mai dovrei? Per la verità, non ci ho mai pensato».
Senatore Felice Casson, l’hanno vista tutti parlare a lungo con Dario Stefàno di Sinistra ecologia e libertà...
«E allora? Stefàno è il presidente della Giunta per le immunità di Palazzo Madama, l’organismo che ha votato contro la richiesta dei magistrati di Trani di usare intercettazioni e tabulati telefonici del presidente della commissione Bilancio».
L’altra notte lei si è smarcato in dissenso dai suoi colleghi.
«Cos’altro potevo fare? È arrivato l’ordine dall’alto...».
Quanto in alto? Dal capogruppo Zanda, dal Nazareno o da Palazzo Chigi ?
«Non lo so quanto in alto. So che non avevo altra scelta. Hanno salvato Antonio Azzollini, indagato per una presunta maxifrode da 150 milioni di euro».
Presunta, senatore.
«Sì, ma... è la casta che protegge uno della casta... Ho pensato “o questi sono incompatibili con il Parlamento, o io sono incompatibile con loro”. Così mi sono sospeso dal gruppo».
Ma scusi, non si era già sospeso?
«Sì, per la riforma del Senato. E non ero rientrato, ma nessuno se ne è accorto. Altro che giallo!».
E questa volta? Rientrerà la sua autosospensione?
«Mi sono sospeso per dare un segnale politico dopo una decisione sbagliata a tutela della famigerata casta. Zanda vuole parlarmi, ma io non ne voglio sapere».
Allora è vero: sta pensando di traslocare in Sel, magari assieme ai civatiani Tocci e Mineo...
«No, davvero. Non è il momento di fare scissioni. Però la fiducia sulla delega è una forzatura assoluta, regolamentare e costituzionale. È il rifiuto del dialogo. Trovo assurda questa impostazione».
In direzione Renzi ha aperto.
«Poi però ha chiuso di nuovo e questo metodo politico non va bene».
Davvero hanno minacciato di espellere dal Pd chi avesse votato contro o fosse uscito dall’Aula?
«Non mi risulta».
Renzi ha tirato fuori l’articolo 18 per costringervi a lasciare il Pd?
«No, non credo sia questo. Io comunque non ho alcun timore, non sono nato col Pd e non morirò col Pd».
Per questo parla con Sel?
«Parlo con tutti, anche con Calderoli».

il Fatto 9.10.14
Casson: "Il Pd protegge la casta"
Fonti parlamentari raccontano che dietro il salvataggio dell'esponente Ncd ci sia stata una telefonata da Palazzo Chigi, per evitare contraccolpi in maggioranza

qui

il Fatto 9.10.14
Dissenso Il senatore Casson
“Così proteggiamo la casta. Zanda? Con lui non parlo”
intervista di Sandra Amurri


“Sono indignato per la sostanza e per la modalità: mai adottata prima”. Il senatore Felice Casson del Pd, auto-sospesosi da relatore dopo che i suoi compagni di partito hanno votato contro la richiesta dell’utilizzo delle intercettazioni telefoniche del senatore di Ncd Azzollini indagato dalla Procura di Trani nell’inchiesta sulla presunta maxi-frode da 150 milioni di euro per la costruzione del nuovo porto di Molfetta, sbotta: “Basta! Io con questa gente non voglio più avere niente a che fare! È incompatibile con me. ”
Grazie al voto contrario del Pd, i magistrati – se l'aula non ribalterà il risultato – non potranno utilizzare le intercettazioni indirette del senatore di Ncd. Ci racconti la modalità.
Il capogruppo Pd, Giuseppe Cucca, non ha fatto la dichiarazione di voto e quando il presidente Stefàno ha indetto il voto, ha chiesto la sospensione. I sette componenti del Pd sono usciti e dopo circa 20 minuti sono rientrati e hanno votato “no” alla mia relazione.
Un Do ut des, un chiaro scambio di favori: il Pd non autorizza l’uso delle intercettazioni e Ncd non fa cadere il governo, visto che Azzollini presiede la commissione bilancio, determinante per il voto di fiducia sul jobs act. Sarebbe accaduto questo?
Io non faccio ipotesi. Mi baso sui fatti, ripeto mai accaduti prima. È stata chiaramente presa una decisa politica. Io non c’ero e non so cosa sia accaduto fuori, questo bisogna chiederlo al senatore Cucca.
Il senatore Cucca dice che affermare che i senatori siano stati coartati offende la sua intelligenza ancora prima della loro: ognuno ha scelto liberamente concordando sul fatto che fosse stato negato il requisito della casualità, necessario affinché le intercettazioni siano ammissibili, visto che già da tempo venivano ascoltate persone che parlavano con il senatore Azzollini.
Excusatio non petita, chi l’ha detto che sono stati coartati? Resta che una riunione un attimo prima di votare è incredibile. Inoltre non vi è persecuzione. E poi lui come fa a sapere che Azzollini veniva indirettamente ascoltato da tempo? Nei verbali ci sono solo quattro intercettazioni risalenti al maggio 2009 quando Azzollini era indagato per abuso innominato, al termine dell’inchiesta durata 3 anni, è stato indagato anche per associazione a delinquere. Ripeto: non è mai accaduto che venga chiesta la sospensione prima del voto. Sono fatti, non opinioni.
Dopo la sua decisione di auto-sospendersi Renzi l’ha chiamata?
Assolutamente no. Mi ha chiamato Zanda per dirmi che mi voleva parlare, gli ho risposto che non volevo neanche vederlo. Cosa c’è da dire? I fatti dicono molto più di qualsiasi spiegazione.
Parole durissime che suonano come anticamera del suo addio al Pd.
Io resto nel Pd, ma dico che è un partito che vive alla giornata e protegge la casta come dimostra quello che è accaduto ieri quando di fatto è stato negato alla magistratura uno strumento per l’accertamento della verità. All’interno del Pd ci sono varie anime. Quando si entra in politica si sa che si discute, si dialoga, ci si scontra e chi ha più voti vince, queste sono le regole della democrazia. Io continuo a battermi dentro il partito. Ho vinto le primarie contro le segreterie, a tutela dei lavoratori, della giustizia... principi che difenderò fino alla fine del mandato, poi si vedrà.
Ora toccherà all’aula l’ultima parola.
Prima verrà nominato un nuovo relatore. Se la casta smetterà di autoproteggersi verrà autorizzato l’utilizzo di quelle intercettazioni, altrimenti no.
È vero che si candiderà a sindaco di Venezia?
Me lo chiedono. Sto bene a svolgere attività politica a Roma. Vediamo cosa accadrà quando verranno fissate le regole per le primarie.

Repubblica 9.10.14
Casson
“Io non voto, questa fiducia è contro i lavoratori”
intervista di Liana Milella


ROMA. Casson, come definirebbe il suo stato? «Sono ... felice». Che fa, scherza pure? «Il buon umore, come un bicchiere di buon vino rosso, fa bene alla salute ». Votare la fiducia sul jobs act invece fa male? «Fa male ai lavoratori ».
Casson che succede? Sta rompendo col Pd?
«Non mi pare che sia il caso di fare una tragedia...».
Tanto per essere precisi, lei è uscito dal gruppo, si è solo sospeso, o se n’è andato proprio dal Pd?
«Ma chi è che vuol fare questa confusione? Agli atti della giunta per le autorizzazioni risulta la mia dichiarazione di auto sospensione dal gruppo alla presenza del capogruppo Pd».
Farlo così su due piedi è più di una tragedia.
«È semplicemente un marcare la differenza rispetto a una decisione, perché sia chiaro che stiamo parlando del caso Azzollini e del no del Pd all’uso delle intercettazioni chiesto dai magistrati, tecnicamente sbagliata e politicamente scorretta».
Non la butti sul tecnico.
Avrebbe fatto lo stesso senza il jobs act?
«Sicuramente sì, perché per troppe volte il Parlamento ha tutelato qualcuno della casta. Anche quando abbiamo discusso la riforma costituzionale ero favorevole all’abolizione di ogni privilegio per i parlamentari».
Non risponde alla domanda.
Se non ci fosse stato da votare la fiducia per il lavoro avrebbe fatto lo stesso?
«Esattamente. Questa riforma è una diminuzione della tutela dei lavoratori. La direzione nazionale aveva allargato alla possibilità di garantire maggiormente dai licenziamenti illeciti, oltre che sul tema degli ammortizzatori sociali e sulle aperture alle richieste dei sindacati. Invece assistiamo a una nuova chiusura del governo al dialogo interno ed esterno al Pd».
Visto? Lei ce l’ha con Renzi...
«Quando ho partecipato alle primarie, ampiamente vinte, mi sono presentato ai cittadini parlando di rispetto della legalità, di tutela dei lavoratori, di etica della politica, di riforma della giustizia e della normativa ambientale. Per rispondere a loro devo seguire i criteri e i principi che mi sono dato. Con i renziani veneziani e veneti ho un ottimo rapporto ».
E la fiducia al governo?
«È una decisione complicata e per certi versi drammatica...».
Addirittura?
«C’è un impegno a sostenere il
governo, ma la tutela dei lavoratori è il mio impegno di una vita».
E quindi?
«Non posso votare a favore di una riforma che danneggi i lavoratori ».
E poi che farà, resta nel Pd?
«Sarà una battaglia sempre più dura, ma quelli che mi hanno mandato in Senato me lo chiedono ».
Pensa che a fare questa battaglia sarete in molti?
«C’è molto malessere nel partito che troverà modi diversi di esprimersi».
Dopo vede un solo Pd o una scissione?
«Questa soluzione non è proprio all’ordine del giorno».
Ha mai pensato di lasciare il Senato?
«Da Venezia ricevo solo solidarietà e richieste di continuare così».

Repubblica 9.10.14
Sinistra divisa, ma ora punta alla piazza Cgil
Documento di 36 parlamentari che annunciano richieste di modifica alla Camera. Bersani, Cuperlo e Civati non firmano Fiducia “per senso di responsabilità”, anche se c’è chi si dissocia. L’asse con la Camusso in attesa della manifestazione del 25
di Giovanna Casadio


ROMA Votano la fiducia al Jobs Act turandosi il naso. Ore di psicodramma nelle file della minoranza del Pd. Ma con l’idea della rivincita nella piazza della Cgil il 25 ottobre. La sinistra dem punta sull’alleanza con Susanna Camusso e Maurizio Landini per battere un colpo. Per ritrovare il “suo” popolo e dare un altolà a Renzi sull’articolo 18 alla Camera. Là o si cambia o si cambia e non sarà accettata una “fiducia bis”. Un documento firmato da 27 senatori e 9 deputati, che sono nella Direzione del Pd, tra i quali Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro, Guglielmo Epifani, Stefano Fassina, annuncia battaglia dura. Ma dopo. Non c’è Bersani tra i firmatari perché, spiegano, ha preferito tenersi defilato. Però in piazza con la Cgil l’ex leader promette di andarci. L’ha detto del resto più volte: «Se si va allo scontro io so da che parte stare». In piazza «ci saremo », prevede Alfredo D’Attorre. In tanti sotto lo striscione “Lavoro, dignità, uguaglianza per cambiare l’Italia”. E un altro bersaniano Miguel Gotor dice che il senso di responsabilità non si poteva non avere al Senato, perché avrebbe significato mandare in crisi il governo alla vigilia della legge di stabilità e che un passo avanti è stato fatto sul lavoro, però non basta.
Ma è una giornata lunga e travagliata che manda in tilt il partito, rasentando il caos tra riunioni, incontri, colloqui per evitare il peggio, che si saldi cioè un fronte pronto a non partecipare alla fiducia. “Disciplina di partito” è il leit motiv con cui si cominciano o si concludono le discussioni. Il compagno Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds, dalemiano e anti renziano, strofina i piccoli corni che porta nel taschino della giacca. Portafortuna a disposizione di qualche amico, in cambio di 10 o cinque centesimi simbolici che lui poi versa in un Karl Marx-salvadanaio. I civatiani, con Walter Tocci in testa, tengono tre assemblee. Decidere di non partecipare alla fiducia è una scelta difficile. Casson, Ricchiuti e Mineo si lasciano le mani libere fino alla fine. Non possono non esserci conseguenze: tuttavia scelgono questa strada. Ma lo strappo è quello di Tocci. Che va dal capogruppo dem Luigi Zanda e lo avverte: «Sono un uomo di partito, quindi voto la fiducia ma il mio disagio politico è troppo forte e mi dimetto da senatore. Quello che stiamo votando sull’articolo 18 rischia di essere contrario persino alla civiltà giuridica. Non voglio fare cadere il governo ma è impossibile seguire le mie idee». Zanda racconterà poi che ha cercato di dissuaderlo. Ci tentano anche altri. Fassina twitta: «Walter, abbiamo bisogno di te per correggere la rotta del partito: ripensaci ». Ugualmente fa Gianni Cuperlo. Cuperlo non firma il documento di Gotor-Chiti. «È una posizione troppo morbida», fa sapere. In piazza ci sarà e in prima linea. «Quella di Tocci è una posizione degna», commenta. Però la minoranza è frantumata. Mario Tronti, il filosofo dell’operaismo e senatore dem, aderisce al documento dei 36 in cui si distinguono le luci e le ombre della riforma del mercato del lavoro. L’abolizione del reintegro per chi è licenziato in modo illegittimo per motivi economici è la linea Maginot dello scontro.
Gotor rincara: «La cosa più grave politicamente è che il Pd si piega ai diktat di Sacconi, che un partito che ha avuto il 40,8% si fa dettare le politiche da uno del 4%. E poi è come se facessimo scrivere il diritto di famiglia a Giovanardi...». Civati, che neppure lui aderisce al documento dei 36, attacca: «Il Pd sta facendo la cosa più di destra della sua storia. E Sacconi ormai è sotto la curva a festeggiare perché vede il coronamento del suo lavoro degli ultimi vent’anni».

il Fatto 9.10.14
Politica & Palazzo
Csm: "Decreto legge su giustizia civile? Inefficiente e a rischio incostituzionalità"
La VI commissione all'unanimità: "Delicati profili di compatibilità con la Carta, disallineamento tra premesse e contenuti"
E gli interventi sono "inidonei a sveltire il sistema". Domani seduta del Plenum

qui

Repubblica 9.10.14
Le toghe bocciano il decreto giustizia e sull’autoriciclaggio lite Padoan-Orlando
Dal Csm critiche ariforma e taglio-ferie ma Legnini frena: deciderà il plenum L’Anm pubblica le slide sulla produttività
di Liana Milella


ROMA Il taglio delle ferie? «Scelta sbagliata, e pure controproducente ». Parola di Csm. Il decreto sulla giustizia civile? «Incostituzionale». Lo dice sempre il nuovo Csm. Anche se il vice presidente Legnini frena, parla di «un testo della commissione» che oggi dovrà essere approvato dal plenum. Accade per caso, ma pure l’Anm, nello stesso giorno, bacchetta Renzi e il Guardasigilli Orlando. Perfino a colpi di slides, in cui ricorre sempre la stessa frase: «Una vera riforma: quando?». E giù gli esempi della prescrizione, della corruzione, del falso in bilancio, dell’autoriciclaggio, tutte riforme inutilmente in attesa di novità e cambiamenti. È sempre una coincidenza, ma pure sull’autoriciclaggio Orlando arriva allo scontro con Padoan per la seconda volta in una settimana. Da via Arenula depositano la loro proposta, ma un emendamento del relatore Sanga la vanifica. Non basta: monta la polemica dei magistrati esperti di reati economici e finanziari contro la regola che non c’è il reato «quando il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate all’utilizzazione o al godimento personale ». Una proposta alternativa, quella del civatiano Luca Pastorino — «Non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione e al godimento personale» — che piace alle toghe, ma non piace a Orlando, è destinata oggi alla bocciatura. Un caos.
Il giorno “nero” di Orlando e Renzi sulla giustizia attraversa più fronti, ma ha un comune denominatore: le toghe avversano le proposte del governo, nell’ordine bocciano le ferie, il decreto sul civile, l’autoriciclaggio. Su quest’ultimo la linea è decisa, «meglio non farlo proprio questo reato, se deve creare un danno anche ai delitti del codice che già ci sono». Il relatore Pd Causi cerca una mediazione, ma il sottosegretario alla Giustizia Costa (Ncd) esce furibondo dalla commissione Finanze: «Abbiamo lavorato per una norma efficace, effettiva ed equilibrata che garantisse il bilanciamento di tutti gli interessi, e mi fermo qui». Orlando s’imbufalisce contro Padoan per via dell’emendamento sulla non punibilità, anche per autoriciclaggio, per chi fa rientrare i capitali sporchi. Per Orlando, fatta così, è una bestemmia giuridica e politica, un boomerang. Il Pd Sanga, che l’ha proposto, si difende, ma oggi in commissione Finanze alla Camera sarà scontro. Forza Italia si scatena con Capezzone e Gelmini, non vuole il reato, contro cui il Giornale tempesta da 3 giorni. Va ancora peggio sulle ferie e sul civile, due argomenti che l’Anm ha contestato sin dalla metà di agosto. Ora il presidente del sindacato dei giudici Sabelli utilizza ironicamente lo stesso strumento di Renzi, la giustizia a colpi di slides. In modo così esplicito, non era mai accaduto. Numeri e raffronti con l’Europa per dimostrare che i magistrati non sono dei fannulloni. Quindi il premioer sbaglia. Soprattutto sul taglio delle ferie, che la sesta commissione del Csm — per la penna di Morosini, Md, il gup del processo Stato-mafia — sanziona duramente parlando di norma dannosa e controproducente perché durante le ferie i magistrati lavorano ugualmente e mandano avanti i processi.

Il Sole 9.10.14
Dl giustizia, Csm verso il «no»
«Arbitrati e negoziazione assistita non ridurranno l'arretrato»
di Giovanni Negri


È un parere dai toni fortemente critici quello che il Csm potrebbe votare oggi nel corso di un plenum straordinario. Il decreto legge sulla giustizia civile non ha convinto il Consiglio superiore della magistratura sul piano del metodo e neppure sotto il profilo del merito.
E il parere non usa mezzi termini, visto che mette nero su bianco come gli interventi proposti con il decreto non sembrino «particolarmente idonei ad assicurare un reale incremento dell'efficienza del sistema giustizia».
Di più, e anche in questo caso senza esercizio di diplomazia, quanto ad arbitrati e negoziazione assistita, si è lontani dall'ipotizzare che possano «determinare una effettiva riduzione dell'arretrato e accelerazione dei processi». Anzi, presentano in parte il rischio di sovrapposizione, in parte di duplicazione rispetto a istituti già esistenti. Certo, meglio sarebbe stato evitare un nuovo pacchetto di misure procedurali e puntare invece a colmare i vuoti nelle piante organiche di magistratura e personale amministrativo.
Più nel dettaglio, l'arbitrato rischia di essere un buco nell'acqua, tenuto conto della necessità che siano le parti a chiederlo dopo avere sostenuto già le spese di giudizio e avere atteso una pronuncia del giudice. Ancora più irrealistico pensare a una devoluzione agli arbitri per le cause pendenti in appello, con una parte che ha vinto già il primo grado. Proprio per questo servirebbe – afferma il Csm – introdurre forti meccanismi incentivanti.
Intanto ieri in commissione Giustizia al Senato è stato approvato un emendamento che prevede l'arbitro unico per le cause fino a 100mila euro.
La negoziazione poi – secondo quanto è scritto nel parere oggi al voto – presenta forti profili di criticità sul versante dell'estensione alle cause di lavoro, dove le parti in lite di norma non sono certo su un piano di parità. Da verificare sono poi i nodi del coordinamento con la mediazione obbligatoria e l'impatto sui divorzi e le separazioni, in assenza dell'intervento del pm.
Quanto alle ferie, il documento sottoposto al plenum mette in evidenza come il taglio di 15 giorni sia ben lontano dal fare recuperare efficienza al sistema giustizia, posto che i termini per la redazione degli atti giudiziari restano inalterati.
Ieri anche l'Anm (Associazione nazionale magistrati), utilizzando non a caso un classico strumento renziano come sono le slide, ha messo nel mirino l'inerzia del Governo sui temi "veri" della riforma della giustizia : dalla corruzione alla prescrizione, passando per il falso in bilancio. Tanto più che, come nota l'Anm, i dati europei segnalano invece l'elevato grado di produttività dei magistrati italiani.
Infine, oggi si apre a Venezia il Congresso nazionale forense, che avrà al centro della discussione anche i temi della giustizia civile. Per Nicola Marino, presidente dell'Oua (Organismo unitario dell'avvocatura), la strada delle riforme a costo zero va abbandonata come una miope illusione. Secondo Marino, al decreto legge servono sgravi fiscali e il coraggio di tenere il punto sul ruolo degli avvocati nelle cause di lavoro e nelle separazioni e divorzi, estendendo anzi, per questi ultimi, l'area di applicabilità del procedimento senza intervento del giudice anche ai casi con figli minori e portatori di handicap.
Per Marino, inoltre, va respinta qualsiasi ipotesi di intervento per abbreviare d'imperio i termini processuali. Si tratta, per il presidente Oua, di «pannicelli caldi» assolutamente non risolutivi. Quello che ancora manca, ma non è responsabilità esclusiva del ministero della Giustizia, è un serio piano di investimenti. Almeno in questo, la sintonia con la magistratura è evidente.

Il Sole 9.10.14
Giustizia e istituzioni
Boss in udienza al Colle, parola ai giudici
Stato-mafia: oggi la decisione sull'intervento di Riina e Bagarella alla deposizione di Napolitano
di Nino Amadore


PALERMO L'appuntamento è per stamattina. Il luogo è il solito: l'aula bunker del carcere dell'Ucciardone a Palermo. Il calendario del processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia prevede la deposizione di Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina oggi pentito. Una deposizione che, però, rischia di essere messa completamente in ombra perché per oggi si attende la decisione dei giudici della seconda sezione della Corte d'assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, sulla richiesta avanzata dai boss stragisti Totò Riina e il cognato Leoluca Bagarella, e dall'ex presidente del Senato ed ex ministro dell'Interno Nicola Mancino di assistere alla deposizione del capo dello Stato Giorgio Napolitano che è stata fissata per il 28 ottobre al Quirinale. Non è escluso che, in caso la Corte d'assise dia il via libera alla partecipazione dei tre all'udienza del 28, altri imputati chiedano di partecipare.
Nell'ordinanza del 2 ottobre con cui ammettevano la testimonianza di Napolitano i giudici della Corte d'assise avevano chiaramente escluso la partecipazione degli imputati all'udienza ammettendo solo i rappresentanti dell'accusa (i pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e il procuratore aggiunto Vittorio Teresi) e della difesa ma nel frattempo sono intervenuti fatti nuovi: il primo è la richiesta degli imputati; il secondo è il parere favorevole, consegnato l'altroieri ai giudici, della Procura di Palermo alla richiesta di partecipazione all'udienza del Quirinale avanzata dai tre. Secondo la procura i due padrini potrebbero, qualora la corte accogliesse le loro istanze, essere presenti solo in videoconferenza, mentre a Mancino sarebbe consentito andare al Quirinale. I pm palermitani temono che un'eventuale esclusione potrebbe determinare la nullità dell'assunzione della prova – in questo caso la deposizione del capo dello Stato – o, secondo, una parte della giurisprudenza, dell'intero processo.
Al capo dello Stato, la cui testimonianza è stata chiesta con insistenza dalla Procura e ammessa entro limiti definiti, potranno essere fatte domande sui timori espressi dal suo ex consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, poi morto, su episodi accaduti tra il 1989 e il 1993, epoca in cui D'Ambrosio è stato in servizio all'Alto commissariato per la lotta contro la mafia e poi al ministero della Giustizia. Per i magistrati palermitani quei timori sarebbero da ricondurre alla trattativa Stato-mafia. Dal canto suo Napolitano, che pure ha ribadito di essere disponibile a testimoniare, il 31 ottobre dell'anno scorso aveva inviato una lettera al presidente della Corte nella quale scriveva di non aver avuto «ragguagli» o «specificazioni» da D'Ambrosio su quei timori e, pertanto, di non avere «da riferire alcuna conoscenza utile al processo». Valutazione che la Corte d'assise non ha ritenuto sufficiente a evitarne la deposizione. Nei corridoi del Palazzo di giustizia palermitano ci si chiede quale possa essere l'escamotage per la seconda sezione della Corte d'assise per evitare la partecipazione dei due boss all'udienza. Qualcuno ha ipotizzato che i giudici potrebbero sostenere che gli imputati che hanno fatto istanza di partecipare non abbiano interesse alla testimonianza di Napolitano. E visto che la norma impone al giudice di autorizzare la presenza solo di chi è interessato all'esame, è il ragionamento, i giudici potrebbero non autorizzare. Ma a questo ragionamento se ne contrappone un altro: sarebbe difficile sostenere, dicono alcuni magistrati, che Riina e Bagarella, imputati proprio di aver preso parte a presunti accordi tra mafia e Stato, non sono interessati alla deposizione.
Intanto ieri anche il Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti (dopo quello siciliano) ha chiesto alla Corte d'Assise di «valutare l'ammissione» all'udienza del 28 ottobre «almeno di un pool di giornalisti».

Il Sole 9.10.14
L’analisi
Bisogna tutelare lo stato di diritto dai suoi abusi
di Francesco Clementi


Il 28 ottobre prossimo, come noto, il Presidente della Repubblica sarà ascoltato dalla Corte d'Assise di Palermo in veste di testimone su una presunta trattativa che sarebbe stata intavolata con i capi di Cosa Nostra da rappresentanti delle istituzioni per evitare, dopo l'attentato contro il giudice Falcone del 1992, ulteriori attacchi violenti contro le istituzioni e i suoi rappresentanti.
Si tratta pressoché di un unicum nella nostra storia costituzionale. E di una testimonianza che sarà acquisita innanzitutto – è bene sottolinearlo, con tutta chiarezza – grazie alla disponibilità del Presidente della Repubblica Napolitano, pronto a "sorvolare" sulle riserve espresse negli ultimi decenni, tanto dai Presidenti Cossiga e Scalfaro, quanto da molti giuristi, sulla costituzionalità dell'art. 205, c. 1, c.p.p., relativo, appunto, all'assunzione della testimonianza del Presidente della Repubblica. Una volontà di testimoniare confermata non soltanto in una lettera molto circostanziata inviata alla Corte d'Assise di Palermo un anno fa (il 31 ottobre 2013), nella quale il Presidente sottolineava di non avere nulla da riferire sui temi del processo, ma anche successivamente confermata quando il Presidente, dopo l'ordinanza della Corte d'Assise di Palermo del 25 settembre 2014, ha dichiarato di accettare, appunto, «senza alcuna difficoltà» di «rendere al più presto testimonianza», superando i rilievi contrari mossi pure dai legali di alcuni imputati.
Se la vicenda si fosse fermata qui, al di là dell'eccezionalità del gesto del Presidente, saremmo stati di fronte ad un classico caso di scuola, dal Presidente volutamente prodotto in risposta alle azioni e alle scelte della Procura e della Corte d'Assise di Palermo. La questione si sarebbe presto conclusa e non resterebbe altro che far studiare il precedente nei nostri corsi universitari.
Invece, essa si sta ulteriormente avviluppando, in modi e toni che sanno del feuilleton da cabaret se non si trattasse delle massime istituzioni della Repubblica, in ragione della subitanea richiesta di alcuni boss mafiosi imputati nel processo – da Totò Riina a Leoluca Bagarella – di assistere all'assunzione della testimonianza nella sala del Quirinale – se non di persona, almeno attraverso il metodo della videoconferenza – lamentando il fatto che altrimenti sarebbero lesi i loro diritti processuali.
Siamo – come è evidente – al ribaltamento della realtà, approfittando biecamente della disponibilità politico-istituzionale altrui, oltre che degli strumenti di garanzia offerti dal nostro codice di procedura penale.
Eppure, lo smaccato tentativo dei boss di accostare, nella sede che rappresenta unitariamente la Repubblica, lo Stato e l'anti-Stato, è sostenuto dal parere favorevole, offerto peraltro in modo del tutto spontaneo, della Procura della Repubblica di Palermo, titolare delle indagini.
Se non fosse quel che si ha di fronte agli occhi, certamente potrebbe essere la trama di uno sceneggiatore creativo.
E allora, in questa vicenda e in questo disegno i cui contorni rischiano di farsi sempre più volutamente confusi e grigi, è il caso di rimarcare come alle esigenze di accertamento dei fatti oggetto dell'azione penale, di tutela del diritto di difesa, di rispetto del giusto processo, che trovano sempre validissimi paladini, non si sia ancora contrapposta con tutta la forza necessaria, invece, l'esigenza primaria di tutelare la dignità delle istituzioni.
Non soltanto perché, come ebbe a chiarire allora il Presidente della Repubblica, l'accettazione del conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo non era stato fatto per difendere se stesso ma, appunto, per lasciare intatta l'istituzione nelle sue prerogative ai suoi successori, ma anche perché se quella disponibilità viene intesa come il modo per delegittimare, in una diretta televisiva internazionale, la Presidenza della Repubblica, occorre riaffermare che ogni abuso contro il Capo dello Stato – chiunque esso sia – colpisce l'istituzione che rappresenta prima che la persona, confermando giustamente le ragioni che, dalla nascita del costituzionalismo in poi, preservano i rappresentanti delle istituzioni durante l'esercizio delle funzioni.
D'altronde, a nessuno è consentito abusare dello "Stato di diritto" in nome dello Stato di diritto.

il Fatto 9.10.14
Sciopero della scuola: docenti e studenti contro ‘l’invalsizzazione’ dell’istruzione
di Marina Boscaino

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il Fatto 9.10.14
“Scuole Belle”, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro agli Lsu
I fondi del governo distribuiti in base alla platea di Lavoratori socialmente utili sul territorio e senza tenere conto delle esigenze degli istituti
Così la Campania prende più di un terzo dei 450 milioni complessivi
Ma i presidi possono scegliere solo tra pochi interventi "di cacciavite". E a volte spendono di più che a prezzi di mercato
di Lorenzo Vendemiale

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La Stampa 9.10.14
Ci vuole una nuova legge non il ribellismo dei sindaci
I primi cittadini sono obbligati a osservare le regole. Il loro rifiuto è sintomo del disfacimento delle istituzioni
di Vladimiro Zagrebelsky

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Repubblica 9.10.14
Dal Wwf a Slow Food la rivolta verde contro il cemento “Così asfaltate l’Italia”
Le associazioni storiche dell’ambientalismo accusano il governo. “Inceneritori e trivelle: via libera a un mare di scempi”
di Corrado Zunino


ROMA L’esecutivo Renzi si è già guadagnato l’etichetta di governo meno ambientalista mai espresso dal centrosinistra in Italia. I Verdi, polverizzati in tante sigle, inesistenti da sei anni in Parlamento e quindi politicamente fragili, sono pronti ad azioni comuni. Su molti fronti. Non c’è decreto, raccontano, dove in nome dello sviluppo rapido, della ricchezza da estrarre oggi e produrre domani, non si autorizzino nuovi buchi, cemento fresco, una deregulation su tutta la materia ambientale. «Renzi non ha asfaltato solo Berlusconi, sta asfaltando l’Italia», dice Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi rimasti. Lui sostiene diverse iniziative politiche del premier, «ma sull’ambiente è un disastro».
Catalizzatore delle cento proteste ecologiste è diventata un’iniziativa intellettual-satirica edita (gratis) da L’Altra Economia . Sedici personalità della politica e della cultura hanno pubblicato Rottama Italia , libro corredato da tredici vignette (Staino, Altan, Ellekappa, Vauro, Giannelli, Vincino, Bucchi) che analizza i 45 articoli del decreto Sblocca Italia disvelato a fine agosto, tutt’altro che finanziato e operativo. L’archeologo Salvatore Settis, l’inventore dello slow food Carlo Petrini, l’ex ministro dalemiano dei Beni culturali Massimo Bray, celebri urbanisti come Vezio De Lucia e Paolo Berdini — l’idea è di Sergio Staino, la cura dello storico dell’arte Tomaso Montanari — chiedono di fermare il decreto che, nel tentativo di rilanciare l’economia italiana, «rischia di diventare un pesante contributo alla devastazione del paesaggio e un regalo alle lobby».
Il decreto, per esempio, rilancia il trasporto su strada: la Gronda di Genova e l’autostrada Romea da Mestre a Orte (tira le fila dell’opera Vito Bonsignore sopravvissuto di Tangentopoli, amministratore della società promotrice è il piduista ottantaduenne Gioacchino Albanese). Il viceministro Riccardo Nencini vuole trasformare l’ultima consolare intonsa, l’Aurelia, nella nuova autostrada Tirrenica da Civitavecchia a Livorno. Ecco, contro il decreto di sviluppo il gruppo Rottama Italia è pronto a raccogliere le firme per un referendum abrogativo: «Il territorio non è un bene liberamente disponibile da parte del governo, ma è nella superproprietà del popolo», dice Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte costituzionale. «Questo atto del governo Renzi è la clonazione del primo Tremonti e della proliferazione di capannoni industriali oggi abbandonati», dice invece Petrini.
Se un fresco sondaggio Swg dice che l’ambiente è in cima alle priorità degli italiani, il mondo dell’ambientalismo italiano, che ha associazioni storiche floride, altre piccole e diffuse, si sta ricompattando di fronte alla velocità di produzione di atti di governo invasivi, filo-industriali, semplificatori. Il premier, di suo, liquida questi oppositori ecologisti come «quattro comitatini». Il suo ministro dell’Ambiente, l’ex sottosegretario all’Istruzione Gian Luca Galletti, appare sempre più marginale.
L’allarme inceneritori lo hanno fatto scattare tutte le agenzie regionali per l’ambiente: «Puntando sul riciclo si guadagnerebbero 195 miliardi », hanno scritto. Il governo, invece, ha prorogato al 2020 l’obiettivo del 65 per cento per la raccolta differenziata nazionale: oggi siamo al quaranta, sei anni di crescita lenta. È forte l’impegno del ministro Maurizio Lupi per trivellare il mare italiano alla ricerca di petrolio («da raddoppiare») e gas. Wwf, Legambiente e Greenpeace hanno chiesto alla Commissione ambiente della Camera di fermarlo. In questi giorni all’isola di Favignana, luogo protetto e di richiamo turistico, tecnici dell’Eni stanno organizzando le trivellazioni di domani.
Con una pubblica denuncia Angelo Bonelli ha ricordato come all’articolo 45 dello Sblocca Italia la gestione del demanio pubblico venga affidata a fondi immobiliari e alla Cassa depositi e prestiti. Gli impianti industriali che non hanno rispettato i limiti precedenti per gli scarichi a mare avranno deroghe proporzionali alle loro capacità produttive, Ilva compresa. E per la prima volta nella storia dell’ambiente questo ampliamento — che è già in Gazzetta ufficiale con il decreto 91, crescita e competitività — è stato affidato al ministero dello Sviluppo. Ancora, sono diventati meno restrittivi i valori di contaminazione del suolo per i siti militari: «Il pentaclorobenzene sarà tollerato in quantità 500 volte più alte».
Facendo leva sui Beni culturali di Dario Franceschini, «si stanno limitando i poteri di opposizione ai progetti delle soprintendenze » (lo sottoscrivono anche gli Amici della Terra). Il disegno di legge ambientale proposto dal governo e in discussione al Parlamento azzera, poi, le strutture direttive dell’autorità di Bacino nominando un commissario ad acta per le future autorità di distretto: anche qui un uomo solo, un burocrate, al comando. E nella riforma della pubblica amministrazione il ministro Marianna Madia prevede la soppressione del Corpo forestale e il suo riassorbimento nelle polizie provinciali o nella polizia di Stato. Il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, fin qui non ha protestato.

il Fatto 9.10.14
Sentinelle di un mondo vuoto
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, stanno facendo la loro apparizione le “sentinelle in piedi”. Sono meravigliato che gruppi di persone bigotte e reazionarie abbiano avuto un’idea di comunicazione così efficace.
Ludovico

L’IDEA È RIUSCITA, nel senso che in tanti, per forza, hanno prestato attenzione. La prima caduta delle “sentinelle” però è nell'autodefinizione: “Vegliano per la libertà di espressione e per la tutela della famiglia naturale”. È evidente che la seconda parte della frase (“vegliano sulla tutela della famiglia naturale”) nega la prima (“per la libertà di espressione”) nel senso che il proposito di “vegliare” su un tipo di famiglia, contro tutte le altre, nega in modo perentorio ogni libertà. Ma l'intero movimento (che viene benevolmente definito “cattolico integralista”) è fondato su una distorsione logica (la famiglia di tipo B, per il solo fatto di esistere e di generare amore al suo interno, sarebbe una minaccia alla famiglia di tipo A) che a sua volta si manifesta in forma pacifica solo in apparenza. Preannuncia una sentenza. È una sentenza che non perdona, tanto è vero che arrivano i prefetti che, su ordine del ministro dell'Interno italiano Angelino Alfano, intimano ai sindaci di strappare le carte dei matrimoni gay. Le “sentinelle”, in altri Paesi e in altre culture da cui qualcuno le ha copiate, sono state un vecchio arnese aggressivo e minaccioso, che ha portato anche morte, come a Waco e Oklahoma City. Il compito, evidente, è di far sapere a
qualcuno, che non la passerà liscia se violerà certe regole. È accaduto a Monaco e a Berlino davanti alle case di personaggi che non si stavano piegando al nazismo e molto prima delle aggressioni fisiche e poi degli arresti (vedi “Destinatario sconosciuto” di Kressman Taylor, ambientato nella Berlino 1932, l'anno del primo debutto nazista). In altre parole, le “sentinelle” sono la rappresentazione fisica di un pericolo che corri, perché qualcuno non reputa sufficienti le parole né rispettabili i destinatari del messaggio. Fin da quando la pronunciavano i cardinali di precedenti e diversi periodi della Chiesa e la ripeteva Giovanardi, l'affermazione secondo cui l'unirsi in matrimonio di una coppia (gay) è una minaccia per l'unirsi in matrimonio degli altri, appariva priva di senso. Le “sentinelle” però la trasformano in corpi umani che intendono offendere, con la loro presenza e il loro ingombro, a nome di una loro credenza cattiva e discriminatoria. Ma questa è solo la metà del compito che si sono assegnati. L'altra è farci sapere che ci sono credenti (chiamiamoli così) che sono contro Papa Francesco e ne disprezzano l'insegnamento fondato sul rispetto e l'amicizia per gli altri esseri umani. Quando vedete le “sentinelle” girate a largo. Sono incapaci di dialogo, è vero. Ma può darsi che la solitudine, se li lasciate alla loro tetra testimonianza, prima o poi porti consiglio.

La Stampa 9.10.14
Perry Mason non trova più lavoro
E la crisi svuota Giurisprudenza
Troppi avvocati in Italia, iscrizioni in picchiata a Legge: -22%
di Flavia Amabile


Maria Elena Boschi lo ammette: «Siamo troppi anche se questa non è una novità ma un dato di fatto». È toccato a lei, ministro delle Riforme Costituzionali, dare il via ad una giornata di studio sulla professione degli avvocati e sul loro futuro, una lunga maratona su una professione per anni considerata il rifugio di chiunque non aveva un obiettivo più chiaro di vita fino a trasformarsi in un parcheggio per disoccupati. Ad organizzarla è stata la Aiga, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati e l’ Associazione Italiana Giovani Notai.
La ministra Boschi dopo l’esperienza di governo tornerà a fare l’avvocato, e lo annuncia con orgoglio. Ma sono sempre meno numerosi quelli che possono dire lo stesso e con la stessa fierezza anche perché nel frattempo il mondo è cambiato e negli studi legali si fa fatica a tenere il passo con le novità.
La crisi è nelle cifre: il tasso di disoccupazione è del 13,2% a cinque anni dalla laurea, in media si impiegano 21 mesi per trovare il primo lavoro dopo la fine degli studi, uno studente su tre usa poco o per nulla le conoscenze acquisite all’università nella professione quotidiana. Di conseguenza le immatricolazioni a Giurisprudenza sono in calo del 22%, chi esercita la professione ha subito un calo del 3,1% delle entrate nel 2013 e oltre 80mila avvocati giovani non riescono a guadagnare più di 10mila euro l’anno.
«Meno diritto romano, più diritto della Rete – è la soluzione proposta da Nicoletta Giorgi, presidente Aiga – Serve un avvocato 2.0, e in generale maggiore specializzazione per le professioni giuridiche nei nuovi campi del diritto: dal commerciale, che copre uno spettro non più nazionale, ma globale, alle problematiche relative al Web o al diritto ambientale». La conseguenza è che le Università «devono ripensare la loro offerta formativa sulla base delle nuove esigenze di una professione che si evolve, cambia».
Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando si deve puntare tutto su una nuova formazione. «Bisogna costruire delle forme che aiutino la giustizia ordinaria – ha detto il ministro riferendosi all’alto numero di cause in Italia – serve un professionista diverso dall’avvocato, che arrivi prima del processo. Stiamo anche lavorando per una specializzazione della giustizia civile sul fronte dell’aiuto alle imprese e alle famiglie».
«Penso sia utile – ha proseguito Orlando – che una parte del percorso di avvocati e magistrati sia un affiancamento del giudice ordinario. Mentre per i magistrati è essenziale la formazione comune europea per superare le diffidenze fra Stati. Non si tratta di un percorso facile, come si è capito dalla resistenza a smontare alcuni strumenti di formazione che non hanno dato buona prova, ad esempio la Scuola Superiore della Magistratura che può essere sostituita da periodi di esperienza in tribunale».
Formazione da cambiare anche secondo Maria Elena Boschi: «L’Università dovrebbe incentivare maggiormente l’esperienza diretta, di cui c’è grande bisogno, diminuendo lo studio frontale, nozionistico. Questo vale anche per i master e le scuole di specializzazione, troppo spesso copie di quanto già si studia nei banchi d’Ateneo». E secondo Ludovico Maria Capuano, presidente dei giovani notai: «Bisogna ripensare la formazione in chiave più pratica: un notaio che supera il concorso in pratica ha accumulato un gap decennale sulle reali esigenze del mercato del lavoro». Roberto Garofoli, co-direttore della Treccani Giuridica e capo di Gabinetto del Ministero dell’Economia suggerisce di prendere come modello Germania e Francia, dove, oltre all’inserimento di stage e prove pratiche già dai primi anni, c’è «maggiore attenzione a tecniche alternative per la risoluzione di controversie, preventive alla via giudiziale, e all’internazionalizzazione dell’avvocato»

Repubblica 9.10.14
Il fantasma della peste
di Adriano Prosperi


EXCALIBUR , il cane di Teresa Romero, è stato soppresso ieri sera nonostante le proteste degli animalisti. Teresa, l’infermiera spagnola che è stata contagiata da ebola in occasione del ricovero del missionario García Viejo (morto il 26 settembre), è già diventata un nome minaccioso.
CHI ha avuto contatti con lei è già in isolamento o è tenuto sotto osservazione. Cinque persone, da suo marito in giù, sono ricoverate in isolamento e quelle in osservazione sono già una cinquantina. All’improvviso Ebola è tra noi. E ci fa capire che l’Africa non è lontana.
In Africa occidentale si moriva da tempo a causa di Ebola. Ma si voltavano le spalle, si diceva che tutto era sotto controllo. Non era vero. Finché l’8 agosto scorso l’Organizzazione mondiale della santità per bocca del suo direttore ha dichiarato che siamo in piena emergenza internazionale. E oggi, nei nostri Paesi, basta un nome di un sospetto contagiato per scatenare un’ansia spaventosa. Nessun uomo, nessuna donna è un’isola: questo è certo e indiscutibile, soprattutto ai nostri tempi. Ma questo si traduce nel fatto che quando si tratta di Ebola basta un nome a fare l’effetto di un sasso nello stagno. Le onde che se ne dipartono sono le isoipse di un altro contagio, diverso da quello del virus e a diffusione assai più rapida: quello della paura. Che effetti può fare la paura? Il più evidente lo vediamo nella deformazione del modo di percepire gli spazi del mondo. All’improvviso l’idea di un mondo più piccolo, senza confini, senza frontiere, ha perduto l’alone di ottimismo che circondò pochi anni fa l’idea della mondializzazione: si è rovesciato nel suo opposto, appare come una minaccia, ci fa regredire col desiderio al tempo dei viaggi lenti per mare e per terra, delle lunghe soste in quarantena nei porti di mare.
Oggi sono i porti dell’aria, gli aeroporti, a trovarsi nella tempesta. Si guarda a loro come alla falla irrimediabile della nostra sicurezza: guardiamo al nostro vicino d’aereo col dubbio: chissà da quale remoto contatto col mondo africano è arrivato proprio lì, accanto a noi. E l’idea della quarantena si affaccia, suggerita dall’esperienza storica e dalle norme sanitarie elaborate nei secoli.
Quarantena significa sospensione della vita, attesa, paura. Tutte cose in conflitto col ritmo turbinoso della vita nel mondo attuale. Isolamento, osservazione: tempi lunghi da trascorrere in un mondo alieno, abitato da presenze che non hanno niente di umano. Le fotografie mostrano esseri con tute da astronauta, maschere, attrezzature per trattare a distanza corpi pericolosi. Tutto questo non è nuovo. Abbiamo immagini della grande peste del 1630 a Venezia che mostrano esseri mostruosi: volti nascosti dietro una maschera con occhialoni e una specie di lungo becco adunco al posto del naso, corpi coperti da vesti lunghe fino a terra, stivaloni, guanti enormi. Era la tenuta di sicurezza dei medici: dentro il becco tenevano foglie di rosmarino, bacche di ginepro, spicchi d’aglio, per non sentire il fetore dei corpi dei malati. In mano, avevano un lungo bastone per sollevare lenzuoli e scoprire corpi. Intanto gli appestati erano isolati sull’isola del Lazzaretto Vecchio; e chi aveva avuto contatti con loro era confinato su quella del Lazzaretto Nuovo. Per chi trasgrediva le regole igieniche e alimentari, c’era una forca eretta su di una nave. Intanto i morti si ammassavano nelle case e chi poteva ne gettava i corpi dentro le apposite barche che passavano nei canali.
Quell’epidemia devastò città e campagne dell’Italia centro-settentrionale. Rimase celebre quella di Milano. La grande letteratura che riesce a far rivivere il presente nascosto sotto i panni del passato ce ne ha offerto un’idea coi Promessi sposi del Manzoni: anche, se non di più, con la sua Storia della colonna infame . Senza il terrore che dominava le menti, senza il sospetto e l’odio che avvelenavano i rapporti umani, non ci sarebbe stato nel 1630 il mostruoso processo contro il barbiere Gian Giacomo Mora e il commissario di sanità Guglielmo Piazza. Dietro il vicino, il passante qualsiasi, si vedeva l’untore, l’avvelenatore che dissemina deliberatamente il contagio. E ben prima dei due sfortunati milanesi tanti altri avevano pagato con la vita il sospetto di essere i colpevoli delle epidemie di peste. Gli eretici, i bestemmiatori, le prostitute attiravano l’ira di Dio, alla fine toccò anche ai malati di Aids. Nella serie dei capri espiatori non potevano mancare gli ebrei: furono loro a finire sui roghi quando la Peste Nera del 1348 devastò l’Europa.
Fu quello il momento capitale dell’esperienza della fragilità della specie, l’attacco che mise a rischio la sopravvivenza stessa degli esseri umani in una vasta e progredita area continentale. A quel momento storico ci si deve rivolgere sempre come al laboratorio degli effetti devastanti di un’epidemia: non solo per la dimensione apocalittica del fenomeno, che apparve allora misterioso e incomprensibile se non rifacendosi all’idea dell’ira di un Dio da placare con penitenze e purgazione della società dai membri sospetti. Ma anche e soprattutto per capire quali siano gli effetti della paura del contagio. I cronisti della Peste Nera ce lo hanno detto: Matteo Villani scrisse che «le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti». E più d’ogni altra fonte storica è un scrittore della grandezza di Giovanni Boccaccio che vale la pena di rileggere a questo proposito: «L’un fratello l’altro abbandonava, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano».
Ecco il punto: l’esperienza del terrore può dissolvere i vincoli più sacri fra gli esseri umani. L’aggressione di un nemico invisibile, di una minaccia mortale senza riparo, può davvero trasformare l’essere umano in lupo per il suo simile. E oggi Ebola minaccia di rinnovare questa esperienza: all’abisso già esistente tra l’Africa e il resto del mondo che ci ha reso insensibili davanti alle stragi del Mediterraneo, oggi si aggiunge la minaccia di abissi anche più profondi all’interno delle nostre società e dei nostri rapporti umani abituali. Excalibur può essere la prima vittima di un esperimento assai più vasto.

La Stampa 9.10.14
In Oregon, dove è consentito il suicidio assistito
«Farò gli auguri a mio marito, poi morirò»
«Io non voglio morire, ma sto morendo, e voglio farlo alle mie condizioni, con dignità»
Brittany Maynard commuove gli Usa: ha un tumore, il primo novembre l’eutanasia

qui

La Stampa 9.10.14
Esplode la rabbia curda
“La Turchia ci ha traditi è complice dell’Isis”
Scontri con polizia e islamisti da Istanbul a Diyarbakir: 21 morti
Kerry: Kobane non è la priorità. Il Pentagono: i raid non bastano
di Marta Ottaviani


Kobane, per la coalizione anti-Isis, «non è una priorità». Le parole tombali sulle speranze dei curdi di veder arrivare rinforzi nella città assediata dagli islamisti, le ha pronunciate ieri sera il segretario di Stato americano John Kerry. Che per tutto il giorno aveva spinto Recep Tayyip Erdogan a intervenire. Troppo alte le richieste del presidente turco: una no fly zone rivolta contro il raiss siriano Bashar al Assad, un zona cuscinetto dove far confluire parte del milione e mezzo di profughi siriani ospitati in Turchia. Per gli Usa «l’obiettivo strategico è diverso»: prima di tutto colpire i centri di comando e fiaccare le capacità militari dei jihadisti «in tutta la Siria e l’Iraq». Raid, insomma, che però, ammette il Pentagono «da soli non bastano a salvare Kobani».
La divergenza fra Washington e Ankara rischia di condannare non solo Kobane. Ieri i raid alleati hanno allentato per qualche ora la morsa islamista, ma in serata l’Isis ha ricominciato ad avanzare verso il centro. La Turchia, in compenso, rischia la guerra fra bande. La Mezzaluna nelle ultime 48 ore è stata messa a ferro e fuoco da gruppi di manifestanti curdi, inferociti per la decisione di Ankara di non aiutare la cittadina curda subito la frontiera. Migliaia di persone si sono riversate nelle strade di 22 città, devastando tutto quello che trovavano sul loro cammino. Il bilancio è drammatico: 21 morti, centinaia di feriti. Il dato più inquietante, è che la maggior parte delle vittime non è morta in scontri con la polizia, ma con gruppi di ultra nazionalisti o islamici, contrari alle rivendicazioni del popolo curdo.
Un clima pensante, che rischia di ricacciare la Turchia negli anni Settanta, quando gruppi di estrema sinistra ed estrema destra si ammazzavano per le strade. A Diyarbakir, nel sud-est del Paese e la città con la percentuale più alta di curdi, dopo 34 anni è entrato in vigore il coprifuoco. Stesso provvedimento per altre 5 località. Ma non è servito a nulla. Alle 18 di ieri migliaia di persone si sono riversate in piazza, con nuovi scontri con la polizia. Se il sud-est del Paese brucia, a Istanbul non sono più tranquilli: quartieri come Beyoglu, Bagcilar e Sultan Gazi sono blindati dalla polizia per evitare che si ripetano le scene di guerriglia urbana delle ultime due notti. Il rischio adesso è che il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, alimenti le violenze, che il premier, Ahmet Davutoglu ha definito «strumentali ad aumentare la tensione».
A Suruç e sul confine non si respira un clima migliore. La cittadina a 8 chilometri dalla frontiera da due sere è teatro di rivolte da parte del rifugiati curdo-siriani, stremati dalle condizioni in cui vivono, indignati con il governo di Ankara, e che accusano senza troppi giri di parole il presidente Recep Tayyip Erdogan e Davutoglu, di essere in combutta con Isis. In centinaia ieri hanno guardato Kobane da lontano. L’esercito turco ha sbarrato la strada verso il confine e quindi l’unica soluzione per avvicinarsi alla frontiera è utilizzare la campagna. «Staremo qui fino a tarda notte - spiega Mustafa - e poi proviamo a passare. Vogliamo andare a combattere. La Turchia ci ha traditi, Erdogan è un assassino sta lasciando che ci sterminino senza pietà». A Suruç la gente attende di sapere che ne sia stato dei loro cari che sono rimasti a combattere a Kobani. La giornata di ieri è stato un continuo alternarsi di colpi di mortaio e sparatorie. I raid alleati hanno creato un clima di grande euforia fra la folla, almeno per tutta la mattinata.
Ma per i curdi siriani le buone notizie sembrano essere finite qui. In serata sono arrivate le parole di Kerry. Il segretario di Stato ha anche specificato che la creazione di una no fly zone, che piacerebbe tanto ad Ankara, sarà valutata con attenzione, ma non è ancora nelle opzioni. E poco più tardi la Casa Bianca ha ribadito che la zona cuscinetto «non è in agenda». Ma proprio su quest’ultima, il presidente turco Erdogan ha incassato l’appoggio dell’omologo francese François Hollande. Kobane per il momento resiste, ma potrebbe una gioia momentanea. La Turchia si prepara a vivere giorni difficili, che forse non aveva messo in conto.

il Fatto 9.10.14
Usa e Turchia litigano, l’Isis si prende Kobane
Il Pentagono ammette il fallimento dei raid aerei e accusa: “Erdogan è a pochi metri da un massacro ma non fa nulla”
di Cosimo Caridi


Suruc (Turchia) Dopo oltre tre settimane di assedio a Kobane anche gli Usa iniziano a borbottare. “Stiamo facendo tutto ciò possiamo” per fermare l’Isis, ha detto il portavoce del Pentagono, l’ammiraglio John Kirby, “ma i raid aerei degli Stati Uniti e degli alleati da soli non riusciranno a salvare” la città curda. Le prime avvisaglie di scontri tra Washington e Ankara si potevano leggere ieri sul New York Times; un alto funzionario della Casa Bianca diceva: “Nonostante (Ankara) abbia organizzato raid aerei contro i militanti dell’Isis martedì, l’amministrazione Obama è costernata da quelle che definisce le scuse della Turchia per non agire con maggiore intensità dal punto di vista militare”.
IL PRESIDENTE turco Recep Tayyp Erdogan aveva scoperto le carte, dicendosi pronto a un intervento, anche via terra, contro l’Isis, ma a condizione che gli Stati Uniti si impegnassero a fornire maggiore supporto ai ribelli, per far cadere il regime di Bashar al-Assad. “Cresce la preoccupazione per una Turchia che trascina i piedi – continua il rappresentante dell’amministrazione Obama - e tarda a prevenire un massacro a meno di un chilometro e mezzo dalla sua frontiera”. Dello stesso tenore è la nota di Staffan de Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria: “Gli abitanti di Kobane si stanno difendendo con grande coraggio. Sono sul punto di non poterlo più fare. Il mondo si pentirà se la città dovesse cadere in mano all’Isis. Dobbiamo agire adesso”.
All’ombra di un albero, a poco più di un chilometro dal confine, Muslim cerca di riprendere fiato. “È da una settimana che cercavo di scappare da Kobane – spiega mostrando tutti i suoi averi raccolti in due buste di plastica - in città non c’è più nulla. Da giorni mangio solo pane raffermo”. Dopo aver accolto quasi 200mila profughi la Turchia ha chiuso le porte a chi scappa da Kobane, per chi è rimasto non c’è via di scampo se non la fuga tra un bombardamento e l’altro.
Nelle ultime 48 ore le aree intorno alla città siriana sono state colpite da 18 raid aerei della coalizione internazionale. Arrivano così a 100 i bombardamenti alleati in tutta la Siria. In Iraq gli interventi aerei sono stati quasi 300. Per il governo turco Kobane non è che un tassello nelle ostilità con il presidente siriano Assad.
DA OLTRE DUE ANNI Erdogan sta finanziando, armando e sostenendo milizie che tentano di rovesciare il regime siriano. Inoltre la caduta di Kobane sarebbe il primo passo per lo sgretolamento del primo stato curdo: il Rojava, nell’area nord-ovest della Siria. “La comunità internazionale non sta aiutando i curdi di Kobane perché questi, negli anni passati, non hanno preso posizione contro Assad”. A parlare è Erol Dora deputato turco eletto nelle file del Bdp (Partito della Pace e della Democrazia) movimento politico che segue le orme del Pkk, da anni fuori legge. “Rojava – continua Dora- è un posto dove vivono curdi, cristiani e musulmani”. Ed è anche per questo modello di convivenza che dal Califfato Islamico è arrivata una fatwa, giudizio espresso da un esperto di diritto islamico, che condanna a morte i curdi.

La Stampa 9.10.14
In guerra il dominio dei cieli non basta a sconfiggere il nemico
I nazisti a Berlino e i vietcong riuscirono a resistere con cunicoli e battaglie strada per strada
di Gianni Riotta


Rattenkrieg, guerra da topi, chiamavano la battaglia di Stalingrado, i fanti tedeschi, combattendo casa per casa, nelle fogne, contro i soldati del generale russo Chuikov, alla fine del 1942. «Gli animali scappano da questo inferno ardente, le pietre si sciolgono, solo gli uomini resistono» scriveva un veterano di allora. Oggi la guerra da topi si combatte a Kobani, al confine tra Siria e Turchia, assediata su tre lati dai fondamentalisti dell’Isis e difesa da disperati miliziani e civili curdi. I raid dell’aviazione Usa non fermano l’offensiva Isis e l’opinione pubblica mondiale si chiede perché una coalizione che comprende l’esercito più formidabile e tecnologico della storia e vari Paesi arabi, non abbatta le nere bandiere Isis.
Per comprenderlo - scrive la rivista Foreign Policy - il 13 e 14 ottobre il Capo di Stato Maggiore americano generale Martin Dempsey incontrerà a Washington una ventina di Paesi della coalizione anti-Isis tra cui Regno Unito, Francia, Belgio, Danimarca, Arabia Saudita, Emirati. Non confermata, ma possibile, la presenza dell’Italia: se uno dei nostri militari intervenisse all’incontro farebbe bene a portar con sé una copia originale del saggio «Il dominio dell’aria», pubblicato nel 1921 dal generale italiano Giulio Douhet. Nome troppo dimenticato da noi, ma considerato nelle accademie «il Clausewitz dell’aria», Douhet ebbe vita da film (previde la rotta di Caporetto e dunque, come capita in Italia, il generale Cadorna gli fece affibbiare un anno di carcere militare…), organizzò in Libia i primi bombardamenti da alta quota e lavorò allo sviluppo dell’arma aerea, fino a sognare guerre vinte solo da aerei.
La storia, finora, non ha confermato le teorie futuribili del geniale Douhet, «il dominio dell’aria» non basta. Tra 1944 e 1945, umiliata la Luftwaffe del borioso Göring, gli alleati ebbero il controllo dei cieli sulla Germania. «Bomber» Harris, comandante inglese che coordinava i bombardamenti strategici, si illuse di spezzare la produzione bellica nemica, ma, pur in città rase al suolo l’architetto Albert Speer, cocco di Hitler e responsabile dell’industria militare, riuscì a mantenere ritmi frenetici sfornando armi e munizioni. Dopo la guerra, una commissione alleata, tra i membri il futuro economista kennediano Galbraith, non poté che prender atto, malinconicamente, dello scacco.
Solo 9 anni più tardi, nel 1954, i francesi a Dien Bien Phu, Vietnam, pur controllando lo spazio aereo anche grazie a piloti americani in grado di lanciare paracadutisti in soccorso alla piazzaforte assediata del generale De Castries fino all’ultimo, non riuscirono a impedire né il trasporto dei cannoni del generale Giap (via biciclette…), né l’assalto finale alla piazzaforte, come racconta nel magnifico «Hell in a very small place» il testimone Bernard Fall. 11 anni dopo, nel 1965, tocca agli americani verificare i limiti della teoria di Douhet, in una battaglia poco nota ma decisiva nella valle di Ia Drang. Il colonnello Moore arriva con i suoi elicotteri, che fin lì hanno terrorizzato i contadini-soldato di Ho Chi Minh, spesso poco avvezzi perfino alle automobili. Invece a Ia Drang - la ricostruzione nel film di Hollywood «Eravamo soldati» con Mel Gibson nella parte di Moore - i vietnamiti accerchiano i soldati e colpiscono gli elicotteri, spesso usando la tecnica del «cacciatore di anatre», sparando parecchi metri avanti il rotore, finendo magari falciati dai mitraglieri, ma con il pilota che l’abbrivio trascina tra le pallottole. B52, napalm, deforestazione, bombardamenti su Hanoi e Haiphong non bastano. I vietnamiti creano la loro «rattenkrieg» nei tunnel di Cu Chi, spostandosi, vivendo, armandosi, curando i feriti in un’immensa città sotterranea.
Unica eccezione, che il generale Dempsey e i suoi alleati esamineranno a Washington, è la campagna nei Balcani del generale Nato Wesley Clark, che alla fine degli Anni 90, con una serie coordinata di bombardamenti - l’Italia tra i belligeranti - piega il regime serbo di Slobodan Milosevic. Chiesi a Clark «Prima guerra vinta da Douhet?», sorrise «Per ora sì».
Kobani non sarà Belgrado, Milosevic cadde per la politica, non solo per la guerra. I carri armati, l’artiglieria, i sistemi di puntamento Isis sono bersaglio per i raid fino a un certo punto, poi diventa difficile localizzarli, specialmente tra le case. I curdi implorano armi anticarro, visori notturni, munizioni e bombardamenti massicci. I profughi vedono oltre una siepe di filo spinato la fanteria turca Nato in attesa, fermata dal leader Erdogan che intende seminare dissensi tra le fazioni curde e pressare il presidente Obama contro Assad.
Conclude l’analista curdo Mutlu Çivirolu «Kobani è un’isola circondata dall’Isis. A Ovest c’è Jarabulus, a Sud-Ovest Manbij, a Sud Raqqa, a Est Tal Abyad» se Kobani cade il regno Isis si connetterà. La Guerra dei topi arriva nel XXI secolo, gli aerei di Douhet non la vinceranno. Servirà la fanteria.

Repubblica 9.10.14
L’amaca
di Michele Serra


U NO sparuto ma chiassoso gruppo di dimostranti curdi (“Erdogan assassino!”) ricorda ai milanesi nell’ora dello shopping, in un angolo di piazza del Duomo, che la terza guerra mondiale è in corso. La città curda di Kobane, in territorio siriano e a un passo dalla Turchia, per molti dei passanti è solo un nome udito nei telegiornali. La sigla Is comincia a essere familiare, il termine peshmerga anche, ma è probabile che la maggioranza delle persone che passano di fretta non sappia dire con precisione perché si manifesta.
Resta una guerra “esotica” e distante, nonostante la morbosa pervasività dei video sulle decapitazioni, al tempo stesso mostruosi e banali, una turpe autocaricatura del “musulmano cattivo” che ci impedisce di sapere quanti musulmani, a milioni, insieme ai cristiani di Siria e Iraq, siano vittime del jihadismo genocida, città intere scempiate, donne vendute come bestie, uomini sterminati o deportati. I curdi sono una “nazione” interreligiosa, il trenta per cento del loro esercito è fatto di donne, una di loro, Arin Mirkan, si è fatta esplodere in mezzo ai funebri militi neri dell’Is perché, se catturate, le peshmerga vengono violentate dal gruppo e poi decapitate. La Turchia fa parte della Nato e vorrebbe (avrebbe voluto?) entrare nella comunità europea, ma non sembra abbastanza turbata da muovere un dito per aiutare i curdi che combattono a ridosso dei suoi confini.

Corriere 9.10.14
Quei 50 studenti rapiti e uccisi perché si opponevano ai narcos
Messico, polizia sotto accusa: ha agito con le gang. Si scava nelle fosse comuni
di Guido Olimpio


WASHINGTON Un corpo in strada. Il volto scuoiato. E’ il cadavere di Julio Mondragón, 19 anni. Un giovane studente che aveva cercato di scappare dagli aguzzini, ma lo hanno ripreso e ucciso usando il cadavere come ammonimento. Julio è una delle vittime della strage di Iguala, Stato messicano di Guerrero. Decine di studenti fatti sparire da una banda composta da poliziotti locali e narcos.
Questa non è una faida tra cosche. A Iguala il massacro è stato perpetrato dal patto di affari che mette insieme autorità e trafficanti. Compatti nel togliere le vite a chiunque osi protestare. E’ quello che volevano fare il 26 settembre gli studenti di un istituto dove si formano gli insegnanti. Sono molto politicizzati, eredi di quel movimento di protesta popolare degli anni Settanta, e partecipano ad una manifestazione fuori città. Poi tornano verso Iguala a bordo di tre bus che — secondo la polizia — sarebbero stati «dirottati» . Gli agenti decidono di bloccarli. Sparando.
Sotto il fuoco cadono almeno sei persone, compresi dei passanti, mentre gli studenti tentano la fuga. I poliziotti li catturano con l’aiuto di civili armati. Segue un duro pestaggio. I giovani, tutti tra i 19 e i 23 anni, cedono subito, pensano di essere in arresto. Non è così. Quarantasei di loro spariscono. E quando i familiari protestano non ricevono risposte. L’angoscia aumenta quando uno scampato all’attacco parla. Le autorità municipali prendono tempo. E’ una soffiata ad aprire la breccia.
Qualche giorno dopo, una colonna di soldati raggiunge un sobborgo di Iguala dove scopre sei fosse comuni. Sepolti sotto uno strato di terra i resti di molte persone. Sono irriconoscibili, bruciate con il kerosene. Prima si parla di 28 morti, poi di 34. Con imbarazzo il governo aspetta i test del Dna. Ma sembrano esserci pochi dubbi sull’identità delle vittime. Così come sulle responsabilità. Ventidue agenti sono tratti in arresto, parte un mandato di cattura per il sindaco José Velázquez e il capo della polizia municipale. In città arrivano reparti della Gendarmeria e dell’esercito.
L’inchiesta — sollecitata persino da Onu e Stati Uniti — ci mette poco a ricostruire il quadro. Ad agire sono stati sbirri corrotti e membri della gang Guerreros Unidos, fazione staccatasi dal cartello dei Beltran Leyva e alleata dei Los Pelones. Il primo cittadino — e non da ieri — ha sempre avuto rapporti con l’organizzazione, così come sua moglie Maria Vela. Anzi, non si esclude che gli studenti siano stati fatti sparire perché si temeva potessero disturbare un comizio della signora. Qualche dettaglio è venuto dalla suocera del primo cittadino. Forse rapita, la donna è apparsa bendata in un video ed ha «confessato» che il genero protegge i Guerreros contro i rivali Los Rojos.
Ad aumentare la rabbia, in una regione poverissima, i precedenti del sindaco, sospettato di essere coinvolto in attacchi contro gli attivisti della zona. Ma il lassismo del potere centrale, sempre più preoccupato di nascondere i fatti, ha permesso che il regno del terrore proseguisse. Le fosse comuni fanno parte della geografia della zona: 23 corpi in febbraio, 4 in marzo, 6 in aprile, 19 a maggio, oltre a quelle che non conosciamo. Vittime della battaglia tra boss. E non è finita.
Con l’insolenza tipica delle bande messicane, i Guerreros Unidos hanno affisso dei poster a Iguala chiedendo il rilascio degli agenti arrestati. Se non saranno liberati, è la minaccia, diffonderanno i nomi dei politici legati al crimine. Forse non ce n’è bisogno.

Corriere 9.10.14
«Venite a Berlino». Uno scontrino fa litigare Israele
Postato su Facebook, è simbolo del carovita
Si può lasciare la terra promessa per budini economici?
di Davide Frattini


GERUSALEMME Quelli che negli anni Settanta Yitzhak Rabin, al primo giro da premier, denigrava come «omuncoli da disprezzare», vengono adesso bollati «i viziati del budino al cioccolato». Perché una nazione che è stata fondata sull’immigrazione non può permettersi di vedere i giovani andarsene. La scelta di venire a vivere in Israele è chiamata in ebraico «ascesa», gli espatriati sono quindi definiti «yordim» (quelli che discendono). Se lo fanno per ragioni economiche, l’atterraggio in Europa viene considerato una caduta.
Da Berlino un anonimo neo-abitante ha voluto aprire gli occhi e le tasche agli ebrei israeliani rimasti dall’altra parte del Mediterraneo pubblicando su Facebook la foto di uno scontrino: la lista comprende 12 prodotti, il totale in euro è evidenziato e sarebbe stato il doppio — stimano i giornali — se la spesa fosse stata effettuata in un supermercato locale. L’emigrato invita alla rivolta o almeno a seguirlo: «Rimanere significa negare ai vostri figli cibo, educazione, appartamenti accettabili. Ormai è un Paese per ricchi». L’agitatore digitale offre anche un simbolo per la rivolta: il budino al cioccolato di cui gli israeliani sono ghiotti e che in Germania costa un quarto.
Le proteste sociali dell’estate di tre anni fa erano state suscitate dal rincaro nel formaggio fresco a fiocchi (popolarissimo nei frigoriferi), la classe media che fatica a pagare l’affitto si era accampata per settimane sotto le jacarande di viale Rotschild a Tel Aviv e il politico che aveva inglobato quel malcontento nel suo programma ha vinto 19 seggi alle elezioni. Adesso è al governo e da ministro delle Finanze attacca «chi è disposto a gettare la patria nella spazzatura per pochi soldi risparmiati»: «E’ estenuante calcolare fino al centesimo ogni acquisto, lo capisco. Ma dobbiamo discuterne e trovare le soluzioni qui». La scelta della destinazione è inaccettabile per Ben Caspit, firma più importante del quotidiano Maariv : «Il costo della vita è scandaloso. E allora? E’ una ragione sufficiente per scappare e piantare le radici nella terra che si è imbevuta del sangue degli ebrei? Avete deciso di rinunciare a un sogno diventato realtà per riempire il carrello della spesa. Un popolo che ritorna dove è stato macellato ha perso l’autorispetto».
Eppure il 30% tra gli israeliani (sondaggio di Canale 2) è tentato dall’idea di emigrare e il 54% si dice favorevole o indifferente verso chi se ne va. Scrive Haaretz : «Il governo invece di affrontare i problemi (pochi grandi gruppi controllano un’economia non competitiva) critica gli emigranti. Gli insulti non li faranno tornare».

Repubblica 9.10.14
È il Paese più giovane del mondo: il 50% sotto i 15 anni Ma la mortalità infantile è alta
Nella clinica del primo respiro “Così salviamo i bimbi ugandesi”
di Rosalba Castelletti


L’SMS SOLIDALE Save the Children lotta contro la mortalità infantile con la campagna Every One. Si può contribuire donando 2 euro con un sms o una telefonata da rete fissa al numero 45508. Da oggi al 19 ottobre, tutti possono visitare il Villaggio Every One in Piazza del Popolo a Roma

FORT PORTAL (UGANDA) C’È un “minuto d’oro” nella vita. Nel primo minuto dopo la nascita, un bambino deve respirare. Sessanta secondi possono significare la differenza tra la morte e la vita per un bimbo appena nato che non lo fa: è il limite di tempo che si ha per rianimarlo prima che muoia o subisca danni permanenti per la mancanza prolungata di ossigeno. Romina Masika sa bene quanto un minuto possa scorrere velocemente. Una delle sole tre ostetriche del centro sanitario di Karugutu che serve gli oltre 4mila abitanti del distretto di Ntoroko, Uganda occidentale, lo scorso luglio è accorsa da Zahara. Ventisei anni e cinque figlie, la prima avuta a 18 anni, Zahara era in travaglio. Romina l’ha aiutata a partorire, ma il neonato dato alla luce non piangeva. Ha iniziato perciò a rianimarlo come le avevano insegnato a fare grazie al programma “Help Babies Breathe”, “Aiutare i bambini a respirare”.
Poche semplici mosse. «L’ho asciugato, avvolto in una coperta per tenerlo al caldo. Ho liberato le vie aeree da liquidi, l’ho massaggiato e infine l’ho ventilato con una sacca d’aria e mascherina. Dopo cinque minuti il bambino ha iniziato a respirare da solo», spiega orgogliosa Romina. «Aiuto i bambini a fare il loro primo respiro. Non servono bombole d’ossigeno o macchinari costosi. Né energia elettrica». L’armamentario, in effetti, è basilare e costa pochi euro: un “pinguino aspiratore” per ripulire le vie aree e un “pallone Ambu” che, premuto, spinge aria nei polmoni. «Pensavo che sarebbe morto e invece eccolo qua», sorride Zahara cullando Aramanthan, il sesto figlio e unico maschio.
Con il 78% della popolazione sotto i 30 anni e il 52% sotto i 15, l’Uganda si contende con il Niger il titolo di Paese più giovane al mondo (L’Italia di contro è il secondo Paese più vecchio dopo il Giappone). Qui si diventa mamme intorno ai 18 anni e in media si fanno più di sei figli. Con rischi per la sopravvivenza delle madri e dei nascituri. Circa 450 donne su 100mila muoiono dando alla luce. E su mille neonati, oltre 30 non sopravvivono. In un terzo dei casi per inadeguata ventilazione o asfissia: il bimbo appena nato non piange, dunque non respira e muore.
Non a caso il Paese si trova al 132esimo posto dell’Indice del rischio di mortalità mamma- bambino diffuso oggi per il rilancio della campagna “Every One” da Save the Children, la stessa ong che insegna agli operatori sanitari ugandesi le semplici ed economiche pratiche di rianimazione da effettuare nel primo minuto dopo la nascita. Grazie a esse, da gennaio a settembre, oltre l’80% dei bambini nati senza respirare nei distretti occidentali di Kasese e Ntoroko sono stati rianimati. «Senza, non sarei riuscita a salvare Aramanthan», dice Romina.
Per ogni levatrice qualificata come lei, oggi decine di bambini vengono aiutati a esalare il primo respiro e so-pravvivono. Come Nadia, nata il 14 settembre: «Avevo avuto una forte emorragia e lei non respirava. Ci hanno salvate entrambe», racconta la madre Mariam Mwesige, 19 anni e un’altra bimba di quasi due. O Muhindo, nata settimina il 15 gennaio, una madre 17enne alla terza gravidanza. O come Sungwa, il cui nome vuol dire “Dopo i gemelli”, nato anche lui prematuro un mese fa, un batuffolo di carne e ossa di poco più di un chilo e mezzo nelle braccia di Eva Biira, 33 anni e dieci gravidanze.
Certo, la formazione non sempre basta. Savane dorate, fitte foreste pluviali tropicali rosicchiate da nuove piantagioni di tè verde, colline terrazzate incorniciate dai Monti della Luna. Gli splendidi scenari della Regione occidentale ugandese a circa 350 chilometri da Kampala nascondono molte insidie per una donna entrata in travaglio: strade dissestate, zone montuose difficili da raggiungere, vallate isolate dalle frequenti alluvioni. E così molte donne continuano a partorire su una stuoia di rafia o sulla nuda terra, con l’assistenza di una levatrice tradizionale.
«Mi ero sottoposta a tutte le quattro visite consigliate durante la gravidanza, ma ho dovuto partorire nel villaggio », racconta Molly Kabarokoie, a 19 anni madre di due bambini, il più piccolo di tre mesi. Vive a Rwebisongo, a 10 chilometri dal più vicino centro sanitario, 25 quando piove. «Non ho mezzi di trasporto. Noleggiarli costa 20mila scellini ugandesi (sei euro, ndr) a tratta. Troppo per una madre adolescente come me». È questa la nuova sfida: portare servizi e personale qualificato anche negli angoli più remoti. Perché, con l’adeguata preparazione e attrezzatura, in un minuto si può evitare una morte. «È tutta una questione di tempo», assicura Romina. «Se fai le mosse giuste in sessanta secondi, puoi salvare una vita».

Corriere 9.10.14
Il miraggio dell’anima in bit la sfida sbagliata del digitale
Federico Faggin: «La consapevolezza non è riproducibile artificialmente»
di Gian Antonio Stella


«C’è un santone “softwarista”, Ray Kurzweil, inventore d’una cosa chiamata “trans-umanesimo”, che teorizza come nel 2045 o giù di lì riusciremo a fare il download in un computer della nostra consapevolezza e vivremo per sempre». Una specie di «aldilà» digitale? «Così sostiene. Tutti noi potremo scaricare in un computer i nostri ricordi, la nostra storia, le nostre emozioni, la nostra consapevolezza e vivremo per sempre». E il corpo? «Il nostro corpo morirà ma la nostra anima continuerà a vivere in questo computer. Un delirio». La nostra anima in bit... «Esatto. In bit.»
Federico Faggin posa la tazza di cioccolato sul tavolino del caffè affacciato sulla magnifica Piazza dei Signori di Vicenza, e ride. Dopo aver costruito per Olivetti il primo computer «piccolo» come un armadio («prima erano grandi come stanze: lo chiamavamo “la macchinetta”»), dopo essere stato tra i pionieri della Silicon Valley e aver ideato la «silicon gate» che gli permise di costruire il primo microchip («è ancora usato, quasi quarant’anni dopo, dall’80% dei circuiti integrati: oltre 200 miliardi di fatturato l’anno»), dopo aver fondato la Synaptics e aver depositato i brevetti del touchpad e del touchscreen, dopo esser stato messo da «Forbes» accanto a Enrico Fermi e aver ricevuto da Obama National Medal of Technology and Innovation e aver fatto bottino di lauree ad honorem, lo scienziato vicentino ha buoni motivi per guardare con divertito distacco queste «stramberie» digital-filosofiche.
Non nasconde però d’essere preoccupato: il techno-guru ha sempre più seguaci: «Gli vanno dietro a migliaia. Migliaia! Ha creato una “Università della Singolarità” e fa proseliti. Dappertutto. Alla gente piace la promessa di vivere in eterno in un computer. Folle. Sapessimo esattamente almeno dove sono nel cervello questa e quella cosa! Dov’è la memoria? E le emozioni? Boh... E poi la consapevolezza va al di là dei dati».
La consapevolezza: ecco la nuova frontiera del padre del «chip». Che dopo aver cercato per una vita di costruire un computer in grado di imparare da solo, ha chiuso: «Era una sfida interessante. Ma dopo vent’anni ho capito che no, non è possibile. La consapevolezza va al di là del meccanismo. È un fenomeno primario. È una proprietà irriducibile della realtà».
Spiega che no, non la vive come una sconfitta: «Anzi... Per me è una cosa molto positiva». È sollevato dall’idea che non possano esserci macchine consapevoli? «Più che rassicurarmi questa certezza mi ha aiutato a capire fino in fondo quanta più profondità ci sia in un uomo. O perfino in un animale. Un bambino che sbatte su un albero da quel momento sa che si farà un bernoccolo sbattendo contro ogni albero, alto, basso, giovane, vecchio, verde o spoglio che sia pino, abete o baobab: il computer no. Devo fargli immagazzinare tutte le variabili perché da solo non ci arriva».
Lo dice con un entusiasmo liberatorio. «Be’, sì: una società “scientista” ci ha fatto il lavaggio del cervello spingendoci a pensare che tutto è macchina. L’universo è una macchina, noi siamo macchine... Assurdo. L’uomo si sta sottovalutando. E lo diciamo non sulla base di un dogma ma di quanto abbiamo potuto accertare». Un neo umanesimo post digitale... «Sì. Necessario in quanto se non stiamo attenti la macchina ci imprigiona invece che liberarci. Io ho sempre visto la macchina come una cosa liberatoria. Che mi deve aiutare ad avere una vita più facile. Più tempo libero. Più spazio per me. Una macchina che “deve stare al suo posto” senza invadere la mia vita».
Alza gli occhi verso la Basilica palladiana: «Guardi che incanto! Che emozione. Ecco: la macchina può fotografarla: ma non la vede. Non la sente. Non ha feeling . La registra attraverso dei bit con precisione straordinaria. Ma è buia, dentro. Non solo non “vede” la bellezza, ma perfino il colore. Il bianco del marmo, il blu del cielo... Sono costruzioni nostre. Solo nostre».
Non mette più mano ai computer da tempo: «Ho lasciato tutto. Son rimasto solo presidente onorario di Synaptics. Oggi mi assorbe tutto la Federico & Elvia Faggin Foundation. Finanzio ricercatori di varie università che cercano di trovare una teoria matematica della consapevolezza. Generalmente gli scienziati pensano (non tutti, si capisce) che questa sia un epifenomeno del funzionamento del cervello. Per me no. È primaria».
Il 29 ottobre parlerà all’Accademia Galileiana di Padova proprio su questo: «La natura della realtà vista attraverso le lenti della fisica classica, della meccanica quantistica e infine di chi consideri la consapevolezza un fenomeno primario». A cavallo fra l’elettronica, la fisica e la filosofia: quanto pesa il rapporto col padre, Giuseppe Faggin, che insegnava filosofia? «Diciamo che il mio è stato un processo di “complessificazione”». Cosa pensava, lui, dell’hi-tech? «Era diffidente. Le chiamava diavolerie meccaniche».
Ma questa consapevolezza, alla fine, ha a che fare con l’anima? «È certamente un aspetto di ciò che chiamiamo anima ma preferisco non darle una connotazione religiosa. Meglio mantenere la cosa a livello scientifico». Ci crede, in Dio? «Per me Dio è una cosa così enorme che non mi ci voglio cimentare. Non voglio metterlo in una scatola. Classificarlo. Dio è la totalità dell’esistenza. È tutto. Everything . Lo banalizzerei cercando di ridurlo in concetti». Ci crede o no? «Credo che ci sia una entità superiore che ha creato il tutto. Che ha creato l’esistenza. Ma a me interessa vedere questa cosa, la consapevolezza, sul piano scientifico. Da scienziato. Il mio rapporto con Dio è una dimensione privata. Riguarda solo me».

La Stampa 9.10.14
Aiuto, il mio cervello decide al posto mio
Il neurofisiologo Piergiorgio Strata presenta le ultime conoscenze sui meccanismi cerebrali e conclude che il libero arbitrio è un’illusione
di Claudio Gallo


L’aspetto non pare certo minaccioso, il libretto sta nella tasca posteriore dei jeans. Il titolo, giudiziosamente tecnico, è per nulla allarmante: La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze (Carocci, pp 161, €12). L’autore, Piergiorgio Strata, neurofisiologo di fama internazionale, è una garanzia di serietà. Eppure bisogna valutare bene se decidere di leggerlo oppure no. Qualcosa dal profondo suggerisce: «Non aprite quella porta». Perché se per caso lo farete e prenderete sul serio le sue documentate tesi, il mondo non sarà più come prima. Vi sveglierete in un inquietante Day After.
Apprenderete, ad esempio, come la decisione di leggerlo non l’avete presa voi, ma la vostra macchina cerebrale, qualche secondo prima che la coscienza intervenisse nel processo. Libero arbitrio addio, l’io cosciente sarebbe più un notaio che certifica i fatti quando sono già accaduti (anche se poi si attribuisce ingiustamente la scelta) che non uno stratega. La valanga è appena partita: se non c’è possibilità di scegliere sarebbe logico dire addio anche un pilastro della nostra società come il sistema giudiziario, che considera gli individui responsabili e li giudica nei tribunali.
Prendiamo Jeffrey Lionel Dahmer, il Cannibale di Milwaukee, che uccise almeno 17 persone. Portava a casa le sue vittime, tutti maschi, le drogava, le violentava, le uccideva e le violentava ancora. Poi faceva a pezzi i corpi che in parte avrebbe mangiato. Uno s’immagina che i mostri abbiano un’emotività distorta ma comunque intensa. Invece Dahmer al processo non mostrò emozioni. Prima della sentenza disse di non aver mai odiato nessuno e di non chiedere attenuanti. Sembrava sinceramente dispiaciuto. Fu ritenuto sano di mente e condannata a quasi un ergastolo per ogni vittima, quindici carceri a vita. Nel 1994 fu ucciso con una sbarra di ferro da un altro detenuto, diagnosticato schizofrenico.
Dahmer ricorda per alcuni aspetti un paziente che fece la storia della neurofisiologia: Phineas Gage. Nel 1848 Gage stava costruendo una ferrovia nel New England, quando l’esplosione anticipata di una carica per sgretolare le rocce gli sparò in faccia una sbarra di metallo. La sbarra entrò nell’orbita dell’occhio sinistro attraverso la guancia e forò la base del cranio per uscire dalla parte superiore. Non soltanto Gage non svenne ma riuscì subito a parlare e a camminare. Un paio di mesi dopo, nonostante avesse perso l’occhio sinistro, era già guarito e conteso dai medici che volevano studiarne il caso. Dopo l’incidente Gage, una persona estremamente a modo, era diventato iroso, asociale, scortese, senza freni inibitori. Attenzione, memoria, capacità di ragionamento erano rimasti inalterati. Il suo cranio, oggi esposto al museo della scuola medica di Harvard, continuò a essere tormentato fino al secolo scorso. Si scoprì che la sbarra aveva lesionato i lobi frontali, l’area in cui oggi la medicina pone i processi che controllano il comportamento. Tipico dei pazienti che presentano lesioni in quell’area, come il celebre «Elliot», studiato nel 1995, è una pronunciata asocialità e la mancanza di emozioni. Le grandi tragedie li lasciano indifferenti, parlano di se stessi come se fossero un’altra persona, un’esperienza quest’ultima curiosamente comune agli asceti e ai mistici.
Se si fosse potuto stabilire che Dahmer soffriva di un problema al lobo frontale, come Gage, che non avrebbe potuto agire diversamente, la sua sentenza sarebbe stata diversa?
Probabilmente no, anche se nel 2009 Brian Thomas, gallese che uccise la moglie in stato di sonnambulismo, fu assolto. Anche Strata, benché in sede teorica e sperimentale ne smonti le premesse, riconosce il valore sociale dei tribunali e della deterrenza della pena. Dopotutto la nostra società funzionerebbe lo stesso anche se davanti a tutto mettessimo un «come se». Io sarò giudicato «come se» fossi libero di scegliere. Ammettere il contrario sarebbe la madre di tutti gli incubi. In ogni caso, saranno questi i temi su cui i giuristi dovranno confrontarsi nel prossimo futuro.
Sul rapporto mente-cervello la scienza ci offre oggi una teoria scomoda, contro-deduttiva, che contraddice la nostra percezione. Chi è pronto ad ammettere di essere una macchina determinata dai processi fisici del cervello e dall’interazione con l’ambiente, in un mix di eventi probabilistici? L’antica concezione, riformulata da Cartesio, che noi siamo «il fantasma dentro la macchina» (copyright del filosofo britannico Gilbert Ryle) è intuitivamente ardua da scalzare. Le ricerche della neurobiologia ci dicono però che non c’è coscienza senza cervello, che la coscienza è una proprietà del cervello.
Certo, forse non bisogna neppure prendere la scienza come l’ultima delle religioni. Lo yoga, che ha cercato di andare alla radice della coscienza ponendo il cervello in uno stato neutro di quiete, racconta un’altra storia. Sotto la coscienza ci sarebbe ancora un non-stato, «né cosciente, né incosciente» che tutto contiene. Ma nel mondo misurabile, l’unico di cui siamo apparentemente capaci di parlare con un fondamento scientifico, è un’affermazione che vale quanto una favola.

Corriere 9.10.14
I cattolici e la politica una diserzione che tradisce l’Italia
di Dario Antiseri


Ai nostri giorni, quella del partito «ideologico» — custode dell’unica vera visione del mondo e dell’unica giusta società — è un’idea che, almeno in Occidente, troviamo sepolta sotto le macerie del muro di Berlino. Nel passaggio dal partito «ideologico», fonte di Verità, al partito «post-ideologico», fonte di proposte, si dissolve la portata presunta esplicativa e insieme fortemente prescrittiva della tradizionale contrapposizione tra «destra» e «sinistra».
«Fantasmi» vedeva Luigi Sturzo nei concetti di «destra» e «sinistra». E il 6 marzo 1992 Karl Popper dichiarava che «dovremmo tentare di occuparci di politica al di fuori della polarizzazione sinistra-destra», concetti ormai non solo inutili ma dannosi, sogni manichei unicamente capaci di proibire soluzioni adeguate e controllabili di problemi reali, occultati da fantasie olistiche di un avvento imminente di paradisi in terra.
Ebbene, nell’attuale fiera di soggetti politici che da ogni parte seguitano a sbucare, con a capo piccoli consunti «gerarchi», quel che colpisce è la totale assenza di una proposta cattolica. Già scomparsi dalle ultime competizioni elettorali, con il cappello in mano per elemosinare qualche posizione in Parlamento o attorno a qualche greppia di sottogoverno, i cattolici in politica li si trova accampati sotto le tende delle più diverse formazioni. È stato Giuseppe De Rita, tempo addietro, a mettere il dito sulla piaga: in politica «l’appartenenza cattolica è diventata un elemento del curriculum individuale, non il riferimento a un’anima collettiva di proposta politica».
Il primo convegno di Todi aveva suscitato la grande attesa di un nuovo partito di cattolici. Calpestando idee e progetti elaborati alla luce della Dottrina sociale della Chiesa da associazioni presenti nel convento di Montesanto, maneggioni di Palazzo — con la benedizione di qualche eminente ecclesiastico — a Todi 2 avevano affossato ogni speranza e proibito al laicato cattolico più consapevole e preparato di dare il proprio contributo alla vita politica italiana. Dalla diaspora all’assenza: questa la strada battuta da un’irresponsabile intellighenzia culturale e politica cattolica.
Incapaci, proprio perché insignificanti sul piano politico, di qualsiasi efficace intervento contro nefandezze come le leggi ad personam o la legge elettorale, contro palesi ingiustizie, privilegi vergognosi e osannati e corruzione, i cattolici sono rimasti e restano silenti di fronte allo stillicidio liberticida che ha visto morire una scuola libera ogni tre giorni, mentre hanno sostanzialmente affittato ad altri la difesa dei diritti inalienabili della persona. Una difesa per procura delle proprie idealità più alte! Qui viene in soccorso Schopenhauer: «Ogni tragedia ha il suo lato comico». Ma poi: aveva davvero torto Machiavelli a pensare che è meglio perdere con truppe fedeli piuttosto che vincere con bande di mercenari?
Sia chiaro: non si tratta di erigere un tribunale per processare le intenzioni dei cattolici impegnati in politica. Queste potranno essere — e in non pochi casi lo sono — anche le più degne. Solo che buone intenzioni e testimonianze morali, sempre necessarie, in politica non bastano: contano i numeri. E dietro ai numeri ci deve essere un’organizzazione guidata da uomini moralmente credibili e tecnicamente attrezzati — giacché, come diceva John Stuart Mill, «non si possono fare grandi cose con piccoli uomini». Don Luigi Sturzo, anche per liberare la Chiesa dall’immergere le mani nella melma della politica, un partito laico di ispirazione cristiana lo fece; e cosa sarebbe stata l’Italia del dopoguerra senza la Dc di De Gasperi o la Germania senza la Cdu di Adenauer e le proposte di pensatori cristiani come, per esempio, Röpke?
Certo, i cittadini cattolici possono legittimamente scegliere di militare nelle più diverse formazioni politiche — ci mancherebbe altro! — ma perché non dovrebbe essere legittimo e auspicabile un partito di cattolici pronti a denunciare le violazioni dei diritti della persona — ovunque vengano calpestati o negati — e a elaborare proposte e a impegnarsi per ristabilirli? Ma tutto ciò non in sterili, anche se magari interessanti, discussioni che non escono dal recinto di nicchie protette, ma entrando con coraggio con una formazione partitica nell’agone politico.
Il mondo cattolico è un mondo ricchissimo di risorse umane, di competenze, di giovani generosi e ben preparati — un mondo vasto di gente onesta, laboriosa e solidale — basti pensare alle associazioni di volontariato, alla Caritas, a scuole ed istituti di formazione, ai centri di ascolto e a quelli antiusura. Ebbene, da chi è rappresentato politicamente questo continente? La truppa c’è, sana, motivata; chi ha disertato è lo Stato maggiore, popolato da personaggi che scambiano la propria fallimentare (e spesso ben remunerata) autobiografia per la storia del mondo. Dunque: restare inchiodati alla prospettiva funesta e senza futuro di una esangue intellighenzia che, rassegnata al peggio, si è arresa ai fatti oppure rimettersi con coraggio, progetti chiari e concreti e senso di responsabilità sulla strada dei «liberi e forti»? Chi sta tradendo il più vasto e sano mondo cattolico e, con esso, l’Italia?

Repubblica 9.10.14
A dieci anni dalla sua morte si è abbattuto il silenzio sul filosofo francese L’“oscurità” dei suoi scritti è stato l’alibi per difendere i nostri stereotipi culturali
Perché abbiamo scelto di dimenticare Derrida
di Pier Aldo Rovatti


IL 9 ottobre 2004 moriva a Parigi, a 74 anni, uno dei maestri del pensiero contemporaneo, Jacques Derrida. Una scomparsa prematura se si considera che Derrida era allora nel pieno della sua fecondità filosofica: lucido, creativo, anzi vulcanico, richiesto ovunque, sempre generoso di sé, non indossava maschere da in tellettuale scontroso, era simpatico e alla mano nonostante il grande prestigio internazionale.
È impressionante e quasi incredibile che siano bastati dieci anni per dissolverne la memoria e che ci voglia una ricorrenza per farne risuonare il nome, eppure è così. Tutto quello che ha detto e scritto dalla stagione della filosofia della differenza ( La scrittura e la differenza , 1967) a quella del pensiero della decostruzione, al quale soprattutto è legata la sua firma, si è praticamente disciolto malgrado gli omaggi di rito e i saggi accademici a lui dedicati. Derrida aveva lavorato infaticabilmente perché le sue idee, e specialmente il gesto etico che le sorreggeva, diventassero un esempio di politica culturale e di pensiero critico non destinato ai cenacoli intellettuali ma capace di farsi strada nella coscienza dei suoi contemporanei, intaccando la crosta dei pregiudizi correnti.
Basterebbe leggere ciò che ha scritto sul dono, sull’ospitalità, sull’università o sulla pena di morte. E ricordare che i suoi sforzi battevano costantemente sull’importanza dell’esperienza dell’altro, di “colui che arriva” senza identità né diritti: un’esperienza che ci trova sempre impreparati perché è enigmatica e paradossale, mentre noi vorremmo archiviarla e impacchettarla dentro le nostre logiche prêt-à-porter e autoritarie.
Quella del filosofo che gioca con le parole e difficile da leggere ha l’aria di una balla colossale, diffusa per evitarci la fatica di un pensiero critico che mette in discussione la nostra amata e presunta identità (o superiorità) di individui ormai pienamente razionali e illuminati. In ogni pagina Derrida insinua un dubbio insopportabile in questa presunzione: abbiamo già troppi problemi materiali che assillano il nostro quotidiano, perché mai dovremmo portarci in casa un rompiscatole che taglia il capello in quattro allo scopo di colpevolizzare il pacifico automatismo dei nostri comportamenti? Perciò non gli apriamo neppure la porta. Altro che scrittura astrusa, altro che filosofia da buttare nel calderone della postmodernità, nuovo nome dell’antico e demodé irrazionalismo. Dovremmo piuttosto chiederci che cosa è accaduto in questi anni alla cultura dominante e populisticamente diffusa, ormai omologata e globalizzata in una forma talmente subdola di potere che la stessa parola, “potere”, viene riversata nel suddetto calderone. È successo che il pensiero critico è stato penalizzato come inutile e perfino dannoso. Così si è prodotta l’incredibile cancellazione di Derrida, trascinato nella risibile corrente anti-francese con Gilles Deleuze, ma anche con Jacnuava ques Lacan e Michel Foucault.
Questi due ultimi sono stati relegati nelle loro isolette, ancora tollerate per via di un residuo mercato librario, e forse parzialmente salvati per il fatto di non essere dei filosofi dichiarati e di fornire così, nella loro diversità, linguaggi fruibili anche all’esterno. Invece Derrida, filosofo professo, non solo è stato d’amblé dimenticato, ma attraverso un pesante silenzio si esorta a dimenticarlo definitivamente: appunto “dimenticare Derrida”.
Coloro che, come me, hanno frequentato assiduamente i suoi testi e hanno avuto la fortuna di conoscerlo da vicino, e quindi di apprezzarlo anche di più, devono tentare di spiegarsi le ragioni di questa censura. La mia spiegazione è che Derrida, l’“amicizia” con il pensiero di Derrida, oggi scombinerebbe i nostri giochi culturali. Ricordo quel che disse in un’intervista del 1997: in filosofia (cioè nelle nostre teste) «ci deve essere un momento di disarmo assoluto». Comprendetemi bene — conti- — , sto parlando non di una rassegnazione ma dell’esatto contrario, perché sono gli “eventi” proprio come tali che ci rendono “inermi” e perché da questa condizione può scaturire precisamente la nostra “forza”.
È un’affermazione da cui può emergere con chiarezza proprio quel gesto etico che è il fondo della filosofia di Derrida e assumendo il quale si può diventare “amici” del suo pensiero: di solito esercitiamo il nostro potere credendoci forti e capaci di controllare gli eventi reali, Derrida invece ci avverte che dovremmo accorgerci che ciò che accade esige che noi deponiamo tutte le armi che crediamo di possedere e che solo così troviamo quella sintonia (con gli eventi stessi e con gli altri soggetti che sono eventi a loro volta) attraverso la quale i gesti che facciamo diventano ospitali, efficaci e non violenti. Da questa incursione possiamo capire lo stile del gesto di Derrida, dai ben noti libri degli anni Sessanta fino agli ultimi in cui ci parla degli “spettri di Marx”, delle “politiche dell’amicizia”, della “democrazia a venire”, e di un’infinità di altri temi che restano per noi essenziali.
Il Labont ( Laboratorio di ontologia) dell’Università di Torino e la Compagnia di San Paolo hanno istituito la “ Cattedra internazionale di filosofia Jacques Derrida, legge e cultura”. Il primo assegnatario della cattedra è Michel Wieviorka, della Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. La cerimonia di assegnazione e la sua lectio magistralis si svolgeranno all’Università di Torino oggi a partire dalle 9.

Repubblica 9.10.14
Mi ricordo l’ultimo saluto “Sorridete io vi sorrido”
di Maurizio Ferraris


INMODOd el tutto coerente con la sua filosofia, ho conosciuto la scrittura di Derrida molto prima che la sua voce o il suo volto. Avevo scritto un articolo su di lui, e con mia totale sorpresa mi giunse un biglietto in cui mi ringraziava, lodando il mio “plain écrire”, ossia il fatto che non scrivessi in modo fumoso come molti si sentivano in dovere di fare quando parlavano di Derrida. Avevo ventiquattro anni, e quel biglietto mi sembrò il messaggio dell’imperatore.
Iniziai a frequentarlo a Parigi, all’epoca in cui era stressato per le fatiche e le discussioni legate alla costituzione del Collège International de Philosophie. Mi confessava di essere depresso, e per consolarlo gli ricordai che la depressione, secondo Freud, è necessaria per la scrittura; e lui: «Sì, ma parlava di una lieve depressione». Malgrado questo, era l’uomo più innamorato della vita (e più ossessionato dalla morte) che abbia mai conosciuto, ed è a questa circostanza che vanno ricondotti sia l’irradiazione enciclopedica delle sue ricerche sia la passione con cui infaticabilmente girava il mondo, interessato a ogni forma di tecnologia. L’ultima volta che l’ho sentito era nel settembre del 2004. Non aveva smesso di lavorare, di progettare, di disputare (pochi grandi filosofi sono stati così ingiustamente malintesi e maltrattati, ma il tempo gli ha dato ragione) e pensavamo di organizzare un incontro a Parigi per parlare del significato filosofico del telefonino in vista di un convegno. Inguaribili ottimisti.
Ai primi di ottobre lo chiamai, ma non rispose. Mi preoccupai.
La mattina del 9 ottobre Valerio Adami mi telefonò: Jacques era morto nella notte.
Come l’incontro, anche il commiato avvenne per lettera, quella che al cimitero suo figlio Pierre si tolse di tasca (un po’ come Fedro che estrae il discorso di Lisia) e lesse le ultime parole scritte dal padre: «Amici miei, vi ringrazio di essere venuti. Vi ringrazio per la possibilità della vostra amicizia. Non piangete: sorridete come vi avrei sorriso.
Vi benedico. Vi amo. Vi sorrido, ovunque io sia».

Avvenire 7.10.14
Derrida, la sfida dell’«impossibile»
di Silvano Petrosino

qui

Avvenire 9.10.14
Il tema: Una dittatura contemporanea
Come contrastare il “totalitar
ismo culturale”?
Antidoti al pensiero unico
A denunciare il “totalitarismo del pensiero unico” è stato, in varie occasioni, papa Francesco, che ricordato come abbia generato «disgrazie nella storia dell’umanità». E il cardinale Bagnasco ha precisato che tale pensiero pretende di decidere «che cosa esiste e che cosa no, di che cosa si può parlare e di che cosa è proibito, pena la pubblica gogna». Ieri su queste colonne l’economista Stefano Zamagni ha individuato uno dei filoni principali del pensiero unico, quello che dagli anni ’90 in poi ha imposto la finanza neoliberista: fino alla crisi del 2007 non c’era alcuno spazio per idee economiche alternative. Allo stesso modo, ha spiegato, «questa dittatura del pensiero vale anche per le scienze sociali, il diritto, la bioetica. L’individualismo libertario tende a far credere che le preferenze degli individui abbiano lo stesso statuto dei loro diritti».

Avvenire 8.10.14
Zamagni: Alle radici del pensiero unico
di Edoardo Castagna

qui

Avvenire 9.10.14
Sergio Givone: «Alziamo lo sguardo verso la libertà»
Il filosofo: «È in corso la riduzione del diritto a una costruzione puramente umana. Invece metafisica ed ermeneutica ci insegnano a fare un passo avanti»
intervista di Edoardo Castagna


«Il pensiero unico non soltanto pretende di dirci come stanno “veramente” le cose, ma pretende anche di decidere quali comportamenti si possono seguire e quali no». Insomma, per il filosofo Sergio Givone «il pensiero vorrebbe metterci con le spalle al muro. Non accetta alternative, e già solo per questo dovrebbe farci sospettare che sia un falso pensiero. Al contrario, un pensiero di verità è quello che ci invita a guardare le cose da punti di vista diversi, a metterci nei panni dell’altro».
Come funziona invece il pensiero unico?
«Lo vediamo bene nel campo dell’economia: crea un idolo – il mercato – che ha sempre l’ultima parola. Quello che il mercato vuole è legge e tutti, se vogliono produrre ricchezza, si devono uniformare. Eppure ci sono tanti altri fattori che il mercato non considera e che pure generano valori, anche economici: la solidarietà, la fiducia, la speranza. Ma il pensiero unico, che non può quantificarli, li ignora».
È un problema specifico dell’economia?
«Per nulla: si diffonde in tutti gli ambiti dell’esperienza. Per esempio quando si prende la scienza come modello di pensiero: ma come si fa a non ricordare Pascal, quando dice che «ci sono delle ragioni che la ragione non conosce»? O Amleto: «Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, che non sogni la tua filosofia»? Ci sono molti più sguardi, molte più prospettive, molte più domande di quelle che può permettere il pensiero unico. Che perciò è un pensiero falso».
Perché?
«Perché non vede ciò che invece occorre vedere. A farlo è la metafisica, che è l’antidoto al pensiero unico perché ci dice che, sì, la realtà è quella che è: ma la realtà, l’essere, su che cosa è fondata? Il fondamento dell’essere è l’essere stesso, e la realtà allora è sospesa su un abisso. Detto altrimenti: il cuore dell’essere è la libertà, non la necessità; l’essere è quella fioritura infinita che nessuna prigione può contenere, nessun pensiero unico può esaurire. Un altro antidoto è l’ermeneutica, il lavoro interpretativo che ci porta a chiederci non tanto “cos’è questo?” – è la scienza a dircelo – , quanto “che senso ha questo?”. Qui la scienza non può rispondere, ma noi la domanda dobbiamo porcela lo stesso».
Lo schema del pensiero unico travasa nell’etica e nel diritto, definendo “diritti” una categoria sempre più ampia di ambizioni e di scelte individuali. È l’esasperazione dell’individualismo?
«Io credo che il problema sia la pretesa, che il diritto ha, di porsi come costruzione puramente umana. Il pensiero unico nega ogni possibilità alla metafisica di andare al di là di questo orizzonte chiuso, costruito dall’uomo. Invece la metafisica ci invita ad alzare lo sguardo, a interrogarci sulla provenienza, sul destino, sul senso ultimo. Se ci richiamassimo a questo, forse riusciremmo anche nel diritto a vedere qualche cosa di più che una semplice costruzione umana».
Il dibattito culturale – accademico, culturale, mediatico – è irrimediabilmente viziato dal pensiero unico, oppure ci sono ancora aree di confronto?
«Chi non cede alla deriva del pensiero unico c’è ancora, in economia e soprattutto in filosofia, un campo abitato da contraddizioni e da punti di vista molto diversi».
Però questi dibattiti spesso faticano a raggiungere il grande pubblico...
«I mezzi di comunicazione tendono guardare più al passato che al futuro; ci dicono quel che è stato, non quello che sta per essere. Se andiamo in emeroteca e sfogliamo le pagine culturali dei giornali degli anni ’70, le troveremo piene di dibattiti, anche affascinanti, sul marxismo o sullo strutturalismo… Ma chi se ne occupa più, ormai? Eppure all’epoca sembrava che il mondo avesse trovato la strada definitiva».
È successo lo stesso con il pensiero unico, individualista e neoliberista, che si è affermato negli anni ’90?
«Esattamente: a un certo punto è sembrato che fosse il solo possibile. Tra qualche anno ciò che oggi ci appare senza alternative sarà morto. Incluso il pensiero unico bioetico. Oggi la Rete – che ci rende grandi servizi, tanto che non possiamo più farne a meno – fa esattamente come i giornali cui accennavo prima: fotografa l’esistente. Quello che chiamiamo “motore di ricerca” in realtà ricerca ben poco... E il vero motore di ricerca, quello che cambia gli orizzonti, che rinnova lo sguardo, non sappiamo esattamente dove sia. Forse, nonostante tutto, nelle università, nei luoghi dove si pensa, o dove si fa arte, dove si fa poesia. Bisogna avere fiducia: l’importante è pensare bene, prima o poi i buoni pensieri troveranno la loro strada».

Avvenire 9.10.14
Ugo Volli: «Ragione espulsa dal dibattito etico»
Il semiologo: Oggi domina l’individualismo post-sessantottino per il quale non conta la verità di una cosa ma soltanto la “scelta” personale»
intervista di Edoardo Castagna


Per il semiologo Ugo Volli il pensiero unico è prima di tutto un paradosso. «Perché nasce come critica da sinistra alle posizioni neoliberiste»
E perché è un paradosso?
«Perché la sinistra, dopo aver posseduto l’egemonia culturale dagli anni ’50 in poi, nel momento in cui è nato un pensiero antagonista l’ha subito demonizzato».
Però è un fatto che il paradigma neoliberista si sia imposto senza lasciar spazio ad alternative...
«Certo, e non solo: questo atteggiamento si è largamente diffuso anche in altri ambiti, dall’etica alla politica internazionale».
Ed è un atteggiamento culturalmente di sinistra?
«Della sinistra nelle sue diverse articolazioni – da un lato quella radicale e libertaria, dall’altro quella socialisteggiante –, che ha scarsa tolleranza verso le posizioni alternative. Il paradosso, per l’appunto, è che sono proprio queste posizioni alternative a essere definite per svalutarle intolleranti, sopraffattrici o dogmatiche, quando in realtà spesso la situazione è del tutto opposta. Pensiamo per esempio al marxismo: fino alla caduta del Muro di Berlino, nella tradizione italiana – dall’università all’editoria – si dava per scontato che una persona per bene, che un intellettuale decente fosse marxista. Poi la realtà ha mostrato che quella posizione era insostenibile e che occorreva andare altrove, ma senza che ci fosse un processo di revisione storica approfondito: pochissimi sono stati quelli che hanno ammesso di aver sbagliato».
Oggi la demonizzazione delle posizioni alternative al pensiero unico è particolarmente visibile in campo etico?
«Sì, a imporsi sono le posizioni nate sul tronco radicale dell’individualismo etico, che si è fuso con il marxismo nel pensiero sessantottino e che fatica ad accettare che qualcuno possa pensare in termini diversi. Sui mezzi di comunicazione impera il politicamente corretto, che presuppone che si possa iniziare a ragionare solo a partire da una serie di premesse».
Come sono definiti i suoi contenuti?
«È politicamente corretto tutto ciò che parte dall’individualismo etico, dal sessantottino “il corpo è mio e lo gestisco io”, tanto per intenderci. Chi nega questo presupposto viene squalificato a priori e sui media non trova più spazio per discutere. Questo discende dall’unico assoluto oggi rimasto: il relativismo, secondo il quale ciascuno decide da sé ciò che è bene e ciò che è male, senza riferimento agli altri. L’idea che esista una razionalità capace di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato è considerata autoritaria, e quindi sbagliata. È questo il grande paradigma sessantottino: a contare non è il tentativo di raggiungere una verità, ma solo la certezza personale. Paradossalmente, per esempio, se qualcuno contestasse l’eterologa dicendo “a me non piace” troverebbe più ascolto di chi dice “non è giusta in base al tal argomento”. È la forma generale del ragionamento razionale che su questi temi viene rifiutata. Viviamo in una società basata sull’individualismo metodologico: non solo è bello quel che piace, ma è giusto quel che pare».
Eppure viviamo in una società in cui si dà un enorme credito al paradigma matematico delle scienze...
«Ma questo atteggiamento si rivolge anche contro la scienza. Abbiamo perfino tribunali della Repubblica che impongono una determinata “cura” – per esempio Stamina – perché il malato o i suoi cari avvertono l’esigenza di sperimentarla, a dispetto del fatto che le agenzie istituzionali deputate a definire ciò che è scientifico e ciò che non lo è la rifiutino recisamente. La nostra cultura accetta la dimensione scientifica nella misura in cui è una tecnologia che può essere usata: ma quando la scienza argomenta anche delle impossibilità, allora viene rigettata. E si tirano in ballo le multinazionali, le industrie farmaceutiche,... ».
È questo che alimenta il filone complottista?
«Lo giustifica. Prendiamo cose inverosimili come le “scie chimiche”: non appena qualcuno cerca di spiegare a chi ci crede, con argomenti razionali, che invece si tratta dei vapori di condensazione degli aerei, ecco che subito viene considerato al soldo di chissà quale interesse occulto. In termini filosofici si tratta della differenza tra certezza e verità, caratteristica – diceva Heidegger – dell’età moderna da Cartesio in poi. E che è arrivata al suo momento più forte, distruttivo e disgregativo con il postmoderno nel quale viviamo. Internet ha ulteriormente abbassato la barriera d’ingresso rispetto all’espressione del pensiero. È bello che tutti possano dire la propria, ma è sorto il problema dell’autorevolezza. Una volta c’erano i filtri degli editori e dei giornali, che sceglievano testi magari discutibili, ma che comunque avevano subito un minimo di controllo. Oggi chiunque può raccontare su internet le cose più folli e trovare lo stesso ascolto di un premio Nobel. Anzi, magari di più perché scrive cose più facili. Uno dei grandi problemi del nostro tempo è fornire un’educazione critica che permetta alla gente di discernere».

Corriere 9.10.14
Un’infanzia senza padre e senza zio: storia dei Rosselli
Il libro del figlio di Nello sulle vicende della famiglia, tra cui l’omicidio dei due fratelli antifascisti nel 1937
di Arturo Colombo


È stata un’ottima iniziativa ripubblicare il bel volume di Aldo Rosselli La famiglia Rosselli (Castelvecchi, pagine 191, e 18,50) con il breve, illuminante sottotitolo Una tragedia italiana . Aldo Rosselli, morto l’anno scorso, era il figlio di Nello; e dunque le sue pagine ripropongono le vicende culminate nell’assassinio dei due fratelli Carlo e Nello, uccisi da sicari di estrema destra in Francia, a Bagnoles-de-l’Orne, nel giugno 1937.
Ma non si tratta di una ricostruzione che segua cronologicamente (e minuziosamente) quanto avvenne a ciascun componente della famiglia, lungo un arco di tempo che prende l’avvio dalla fine del XIX secolo. Diviso in tre capitoli principali, il libro mette a fuoco soprattutto alcuni momenti fondamentali. Così, comincia dal dicembre del 1890, al tempo in cui Joe Rosselli e Amelia Pincherle, sua futura sposa, si scrivevano addirittura 5 lettere al giorno, da cui emergono i «particolari», anche psicologici, dei due nonni di Aldo.
Il libro prosegue con il capitolo forse di maggiore interesse, che riguarda Nello Rosselli e si concentra sul biennio 1936-37, illustrando non solo il suo intenso lavoro di storico, allievo di Salvemini, ma altresì la convergenza etico-politica con il fratello Carlo, leader del movimento Giustizia e Libertà, e la comune opposizione al fascismo, che finirà per condurli a morte entrambi. Infine l’autore affronta il periodo che accompagna l’esilio dello stesso Aldo e dei familiari superstiti, arricchito da documenti originali, comprese alcune memorabili lettere di Salvemini del 1943.
L’ultimo capitolo riguarda l’immediato dopoguerra e mette soprattutto in luce i comportamenti familiari, comprese certe precisioni di linguaggio: «La nonna non diceva mai: “Hanno ammazzato il babbo e lo zio”. Recitava sempre: “Quando scomparvero il babbo e lo zio”. O anche: “Quando li misero in grado di non nuocere”». Solo uno della famiglia — come, appunto, Aldo — poteva ricordare simili particolari, che danno al libro un sapore di autenticità.

La Stampa 9.10.14
Calvino folgorato sulla strada di Manhattan
Esce per la prima volta come libro singolo Un ottimista in America, diario del viaggio nel ’59
di Ernesto Ferrero


Ai primi di novembre del 1959 il trentaseienne Italo Calvino parte per l’America con una borsa della Ford Foundation per giovani scrittori europei. Si pente subito d’aver preso la nave, pretenziosamente nuova, ma popolata di gente «antiquata, vecchia e brutta». Si ricompensa con l’emozione dell’arrivo a New York, «la più spettacolare visione che sia data di vedere su questa terra». Ci rimane due mesi. Lì realizza quella che è la vera vocazione del Barone Rampante: osservare il mondo da una posizione defilata, studiare le differenze senza essere visto, meravigliosamente incognito. Si sbottona: «E’ l’unico posto in cui posso far finta di risiedere», una città «geometrica, cristallina, senza passato, senza profondità, che posso illudermi di padroneggiare con la mente, di pensarla tutta intera nello stesso istante». Il viaggio prosegue verso Chicago, Detroit, la California, il Texas, il Sud. Forse il vero paesaggio dell’America è la piatta e squallida Los Angeles, «città fatta di mille periferie», o la dura Chicago materiale e produttiva.
Com’è sua abitudine, Calvino cerca di capire dal di dentro, da antropologo e cibernetico, come funziona il sistema America, ma compie anche missioni di scout per Einaudi (porterà in Italia, tra gli altri, autori come Salinger, Bellow e Malamud). Scrive a Torino (e alla madre) lunghe lettere che stanno tra il diario e la relazione, e alimenteranno anche una serie di articoli poi apparsi su settimanali. Tutti materiali che, rielaborati, confluiranno in Un ottimista in America, previsto per i «Saggi» Einaudi. Nella primavera del 1961 il libro è pronto, ma Calvino lo ferma in seconde bozze. Applicando a se stesso il rigore luterano che riserva alle letture editoriali, lo sente «troppo modesto come opera letteraria e non abbastanza originale come reportage giornalistico». Così confesserà nel 1985, senza essere convinto nemmeno con il senno di poi della giustezza della decisione: in fondo «sarebbe stato comunque un documento dell’epoca». Vero, ma è molto di più.
Dopo cinquant’anni d’invecchiamento, il libro che ora esce da Mondadori conserva le sue bollicine, e si fa degustare con delizia, anche perché il tono è quello vivace e informale di una conversazione tra amici. In queste pagine l’uomo che detestava dire «io» e aborriva l’autobiografia parla finalmente di sé. Di abitudini taciturne e appartate, si rivela conversatore amabile, frequenta parties, socializza ovunque con una disinvoltura quasi mondana.
Con lui, scopriamo che l’America è molto meno americana di come se la immaginava il nostro immaginario un po’ provinciale. Loro non giocano al flipper, non vestono jeans, vanno poco al cinema, di Coca-Cola in giro se ne vede poca… Forse, dice, dovremmo insegnare agli americani che cos’è l’America.
L’esperienza è elettrizzante. Appena tornato, confesserà a Carlo Bo: «Negli Stati Uniti sono stato preso da un desiderio di conoscenza e di possesso totale di una realtà multiforme e complessa e “altra da me”, come non mi era mai capitato». Il Calvino ipercinetico che si autoproclama «newyorchese» come già Stendhal si voleva «milanese», è un uomo felice. Le lettere agli amici italiani sprizzano allegria. A Elsa Morante: «New York mi ha assorbito come una pianta carnivora assorbe una mosca… È il paese che ti dà il senso di svolgere un’enorme attività anche se in realtà combini poco». A Pasolini: «L’America non ha grandi problemi tranne quello di come faranno a tradurre Pasolini (It is dialect? It is slang?) e quello: Pasolini è un beatnik? No, insorgo io, è tutto il contrario e spiego per mezz’ora». A Carlo Levi: «La notizia del tuo arrivo, che comincia a diffondersi, suscita una sensazione che ha precedenti solo in quella dell’arrivo di Krusciov».
È ovunque. Intervista gli abitanti del Village (gli unici titolari di un qualche brandello di storia), frequenta l’ascetico Actor’s Studio di Lee Strasberg, una fabbrica di calcolatori e supermarkets in cui si vendono anche motoscafi; loda la politica fiscale che consente alle fondazioni di godere di ricche donazioni private; studia la forma della fanaleria delle auto; parla con i potenti leader sindacali degli scaricatori di San Francisco; assiste a malinconici spettacoli di burlesques, va a cavallo in Central Park, si accorge che i beatniks sono dei bravi borghesi che si travestono da bohémiens per andare nelle case dei ricchi a recitare la parte dei provocatori; ma scopre anche il degrado urbano, i vagabondi, gli alcolizzati, e la loro «oscura religione di autoannientamento». Visita i pueblos delle riserve indiane (pare di essere ad Alberobello). Sperimenta la noia mortale di highways e cittadine tutte eguali. Arriva in Alabama in tempo per vivere in diretta una manifestazione non-violenta di Martin Luther King («tipo molto solido e abile») e un razzismo tanto più repellente quanto più paternalista e bonario.
Le sue intuizioni arrivano al cuore dei problemi, prefigurano lo scoppio della bolla immobiliare di tanti decenni dopo: il sistema si regge sull’indebitamento ottimistico, sul credito troppo facile concesso a tutti. Le case non le paga chi le compera, ma la banca: «È questa la società della fiducia o dell’ansia?». E sembra che parli dell’oggi quando spiega che la vera debolezza americana sta nell’incapacità di capire ogni altro mondo che non sia il suo. Non hanno il senso della storia perché hanno scelto la geografia, l’occupazione degli spazi.
La full immersion negli States nutrirà a lungo l’immaginario di Calvino. È probabile che il germe delle immaginarie Città invisibili stia proprio nelle marcate differenze che segnano tante città visibili, ognuna portatrice di un’idea, di un modello, di una potenzialità da sviluppare o da contrastare, ma tutte colte nelle loro linee essenziali con grazia illuministica.

La Stampa 9.10.14
A cavallo per le vie di New York
Ho capito come dominare New York: andare a cavallo
di Italo Calvino


Nei primi giorni non sapevo. Volevo affittare o comprare usata una di queste auto dalla coda lunghissima, solo per avere il senso dell’inserimento nella vita americana; ma tutti mi sconsigliano, quella è la via sbagliata, avere una macchina a New York è un disturbo: se per miracolo trovi da parcheggiare la notte davanti a casa, di mattina presto devi scendere a spostare l’auto sul marciapiede opposto perché è scaduto il tempo consentito: i newyorkesi veri vanno tutti in taxi. Giusto: ma non si risolveva il mio problema.
Adesso, finalmente ho capito qual è la prima cosa che deve fare uno straniero a New York: affittare un cavallo. È, oltre tutto, la giusta via d’approccio all’America, la via storica, perché partendo dal cavallo potrò seguire l’evoluzione dei mezzi di trasporto che hanno caratterizzato la storia americana, e, se è il caso, arrivare alla Cadillac.
Il guaio è che questa è la prima volta che monto a cavallo in vita mia. Per arrivare a Central Park, siccome la scuderia è piuttosto lontana, nel West Side (una delle poche superstiti tra le molte scuderie che erano qui intorno), devo cavalcare per una via piena di traffico e attraversare due avenues.
Dall’alto della sella, domino i tetti delle auto, obbligate a rallentare dietro il passo del cavallo, prudente sull’asfalto. Sprovvisti di senso epico, i monelli portoricani che giocano sui marciapiedi mi danno la baia.
A Central Park, buon fondo un po’ fangoso; per i prati corrono i soliti scoiattoli; intorno, nell’aria meravigliosamente serena s’alzano i grattacieli; rimbalzo in arcioni cercando invano di prendere il ritmo del trotto; l’amazzone che mi accompagna, leggera in sella, mi grida istruzioni tecniche che non capisco; il mio cavallo s’invischia in pantani o si caccia sotto fronde basse in cui m’impiglio; la bianca scia d’un reattore si perde sopra i grigi grattacieli che sfumano downtown; e questa città, che è sempre stata degli ultimi venuti, da oggi è mia.

Il Sole 9.10.14
Presentato il Rapporto Aie alla Fiera di Francoforte: negli 8 mesi del 2014 business sceso del 4,7%
Per i libri quarto anno in rosso
Franceschini: «Lavoriamo per equiparare l'Iva di e-book e cartacei»
di Andrea Biondi


MILANO Mercato calante, lettori in flessione, librerie (soprattutto quelle storiche) da tutelare e da difendere contro la speculazione. E come se non bastasse, un'Iva al 22% che rende gli e-book assimilabili ai servizi e non ai libri cartacei (tassati invece al 4%) ma che soprattutto, in una fase come questa, rischia di bloccare la crescita dei libri digitali.
L'inaugurazione della 66esima Fiera internazionale del libro di Francoforte si è giocoforza trasformata nell'apertura di un gigantesco cahier de doléances da parte di un mondo, quello degli editori di libri, che da tempo sta combattendo con la crisi, ma anche con problematiche specifiche che colpiscono anche la parte più dinamica del mercato: il digitale. «Nelle prossime settimane – ha detto il presidente dell'Associazione Italiana Editori (Aie), Marco Polillo – lanceremo la campagna #unlibroèunlibro, coinvolgendo l'opinione pubblica. Attraverso il sito www.unlibroeunlibro.org inviteremo gli autori, i bibliotecari, gli altri professionisti del settore, ma soprattutto i lettori a condividere questa battaglia. Sappiamo che l'impegno dei ministri della cultura europei non basta, serve quella dei Governi. Ci auguriamo che questa battaglia culturale sia fatta propria in modo esplicito dall'intero Governo italiano, così da diventare capofila di fatto in Ue nella battaglia sull'Iva parificata tra libri ed ebook».
Un appello, questo, subito sposato dal ministro della Cultura, Dario Franceschini, ieri alla Buchmesse, alla presentazione del Punto Italia: «Un libro è un libro. Solo qualche mente burocratica può pensare che un e-book sia un gioco o un servizio tecnologico». È per questo, ha precisato Franceschini che «stiamo lavorando ai documenti conclusivi del Consiglio dei ministri della Cultura europei del 25 novembre, per arrivare a una posizione unanime o quantomeno la più condivisa possibile per equiparare l'Iva sugli e-book a quella dei libri cartacei».
L'impegno del Ministero e del Governo dovrebbe però anche andare oltre. «C'è una grande battaglia da fare – ha detto Franceschini – rappresentata dalla necessità di riavvicinare i giovani alla lettura. Faremo una grande manifestazione nelle scuole alla fine di ottobre chiamando autori editori testimonial». Una battaglia da unire a quella per la difesa delle librerie, soprattutto quelle storiche da «tutelare innanzitutto con un vincolo di destinazione d'uso».
Certo è che la situazione descritta dai numeri presentati ieri è da allarme rosso. In Finlandia, ospite speciale della Fiera internazionale del Libro di Francoforte, a comprare almeno un libro all'anno sono 3 su 4 dei 5,5 milioni di abitanti. «Quest'anno – ha precisato Polillo – il 57% degli italiani non ha comprato neppure un libro. Siamo penultimi in Europa, avanti solo alla Grecia». La conclusione, amara è nei numeri: «Nel 2013 abbiamo registrato una flessione del 6,8% e in tre anni il settore ha perso circa il 20% del suo valore, arrivando al livello davvero critico di 2,7miliardi euro. Nei primi otto mesi del 2014, i dati Nielsen rilevano un -4,7% rispetto all'anno scorso, che è circa -10% rispetto al 2012». In pratica, considerando i dati Nielsen nei primo otto mesi del 2014 sono venuti a mancare 36 milioni di euro in valore e 4,6 milioni di libri venduti (-7,3%).
Insomma, si prepara il quarto anno fi fila con il segno meno. Certo, il Rapporto sullo stato dell'editoria presenta anche qualche aspetto positivo che arriva proprio dal digitale: +43% per il 2013 nei titoli ebook (mentre quelli di carta sono scesi del 4,1%) il cui mercato è arrivato a coprire il 3% dei canali trade con una crescita del 55,9% fra 2013 e 2012. Tanti e-book scaricati e letti, ma non si arriva ancora a 40 milioni di euro. Ma, e qui si ritorna alle dolenti note, ci sono quasi 200 milioni in meno fra un anno e l'altro nella filiera editoriale. Nel 2013 sono poi diminuiti gli editori (4.534 quelli che hanno pubblicato almeno un libro; -1% sul 2012). E, ultimo ma non ultimo, si sono ridotti i lettori: -6,1 per cento.

Il Sole 9.10.14
Stampa. Audizione di Fieg e Fnsi alla commissione Cultura della Camera: «Il settore conserva una funzione insostituibile»
«No all'abolizione dei contributi pubblici»
di Marco Mele


ROMA Abolire il finanziamento pubblico all'editoria sarebbe un grave errore. Lo hanno detto, pur con sfumature diverse, sia la Fieg, la federazione dei maggiori editori sia la Fnsi, il sindacato dei giornalisti, ascoltati ieri, dalla commissione Cultura della Camera, nell'ambito della discussione della proposta di legge del Movimento 5 Stelle, tendente ad abolire tale finanziamento.
La crisi è profonda, certo, ha sottolineato la Fieg nel suo intervento, ma il settore «non è in via d'estinzione» e mantiene «una funzione insostituibile». Negli ultimi cinque anni, i quotidiani hanno visto il fatturato calare del 25% e i periodici del 31%, mentre hanno chiuso 14 edicole su cento: il loro numero totale è sceso da 35mila a 30mila. Continuano a leggere un quotidiano, però, venti milioni di italiani, con il 93% dei ricavi assicurati dall'edizione cartacea. A luglio i quotidiani hanno superato la soglia del mezzo milione di copie digitali vendute (+55% sul 2013). È falsa, in particolare, «la rappresentazione di un settore "assistito" dallo Stato». I contributi diretti riguardano meno dell'8% della stampa quotidiana e, oltretutto, calano nel tempo: dal 2009 al 2013 sono diminuiti del 54,7%, da circa 185 a 83,7 milioni di euro, di cui 65,8 liquidati finora a 215 testate.
La Fieg ha chiesto che le attività editoriali di taluni soggetti vengano finanziati dalle rispettive leggi di riferimento: i giornali di partito dal finanziamento pubblico agli stessi partiti e così per i quotidiani delle minoranze linguistiche, per quelli diffusi all'estero e per quelli editi da cooperative. Gli editori hanno chiesto, inoltre, di incrementare le risorse del Fondo straordinario per gli interventi di sostegno al settore, dotato di 50 milioni, ridotti a 45, per il 2014, di 40 milioni per il 2015 e di 30 milioni per il 2016. La Fieg propone anche di favorire l'informatizzazione della filiera distributiva, consentendo, tra l'altro, la vendita tramite esercizi pubblici o commerciali, incaricati dai titolari dei punti vendita esclusivi. Va rafforzata, secondo gli editori, anche la tutela del diritto d'autore su Internet.
Il segretario della Fnsi, Franco Siddi, ha proposto di finanziare un Fondo indipendente sull'editoria «con una quota degli accantonamenti della banche per le attività culturali, con il prelievo dell'1% sulla pubblicità televisive e dei grandi aggregatori del Web e rilanciando la Web tax».

La Stampa 9.10.14
A Francoforte il lamento degli editori italiani
di Mario Baudino


Dal 2011 ad oggi l’editoria italiana ha perso il 20 per cento del suo fatturato, dice il presidente dell’Aie Marco Polillo. E davanti a questi numeri i risultati del 2013, presentati come di consueto ieri a Francoforte, passano in secondo piano. Non sono affatto buoni, com’è ovvio, la flessione è del 6,8 per cento e continua in proporzione per i primi otto mesi del 2014. È sceso anche oltre al fatturato il numero dei titoli stampati, è cresciuta fino al 55 per cento la percentuale degli italiani che dichiarano di non aver comprato o letto nemmeno un libro.
Davanti a uno scenario come questo, l’impegno per ridurre dal 22 al 4 per cento l’iva sugli e-book, ribadito dal ministro Franceschini (che ha visitato ieri gli stand italiani), rischia di essere inteso come una pura battaglia di bandiera, visto che il libro elettronico in Italia potrebbe arrivare quest’anno, secondo le stime più ottimistiche, a sfiorare il cinque per cento del mercato. Briciole? In questo momento, date le condizioni della tavola, vanno bene anche quelle.
Gli editori hanno lanciato la campagna «un libro è un libro», qualunque sia il supporto su cui è scritto, il ministero della cultura annuncia d’intesa con quello dell’istruzione «Libriamoci» per il 29, 30 e 31 ottobre, una tre giorni di letture ad alta voce nelle scuole; e per quanto riguarda il semestre di presidenza europea promette una battaglia sul copyright, minacciato dalla rete. Intanto non si cheta la polemica su Amazon. Sta davvero strozzando il mercato, imponendo condizioni capestro e divorandosi tutto l’ecosistema? In Italia, per pubblica ammissione dello stesso Polillo, non succede. La battaglia campale si consuma fra America, Inghilterra e Germania.
Il responsabile della multinazionale per il nostro Paese, David Angioni, presente alla conferenza, ripete sornione che loro sono al servizio del cliente, sono i primi in Germania dove pure la legge impone un prezzo fisso, mentre da noi, dove c’è un limite legale allo sconto (facilmente aggirabile, va detto) il loro sito ha avuto in agosto 8,1 milione di visitatori unici - più di chiunque altro nel mondo del libro. In altre prole, sono i primi dovunque. E dal quartier generale ricordano che all’incontro dei giganti internet con il presidente del consiglio, a luglio, la rappresentante di Amazon, Monique Meche disse proprio così al nostro premier: «Un libro è un libro a prescindere da come lo si legga». Guerra di posizione.

Corriere 9.10.14
La proposta da Francoforte: per l’ebook tassazione ridotta come per i libri di carta
di Ranieri Polese


FRANCOFORTE «Purtroppo, per il quarto anno consecutivo, dobbiamo registrare ancora un calo del mercato librario in Italia» ha detto il presidente dell’Associazione Italiana Editori (AIE) Marco Polillo nella conferenza stampa che si tiene nel giorno di apertura della Fiera di Francoforte. «Nei primi otto mesi del 2014, i dati Nielsen rilevano un 4,7 per cento in meno rispetto al 2013 (e circa il 10 per cento in meno rispetto al 2012). In tre anni il settore ha perso il 20 per cento del suo valore, arrivando al livello critico di un fatturato di appena 2,7 miliardi di euro». Siamo di fronte, ha detto, a una crisi strutturale di vastissime proporzioni: l’Italia oggi è penultima in Europa nei livelli di lettura. La percentuale di persone che non leggono nemmeno un libro all’anno è pari al 57 per cento.
Come tamponare gli effetti di questa crisi? Per prima cosa, ha detto Polillo, aiutando il segmento che, unico, ha dato segni di crescita. Ovvero il mercato del libro digitale, gli ebook: oggi rappresentano il 3 per cento del fatturato, ma secondo le stime alla fine di quest’anno potrebbero arrivare al 4,5 - 5 per cento. Ma per far questo occorre, ha detto rivolgendosi al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini che partecipava alla riunione, riuscire il prima possibile a riparare la stortura per cui l’Iva sul libro di carta è del 4 per cento mentre quella sull’ebook è del 22 per cento.
Un libro è un libro – Polillo ha lanciato ieri una campagna destinata a favorire la diffusione del libro. La frase che le dà il titolo, «Un libro è un libro», sembra una verità lapalissiana: non lo è finche vige l’«assurda diversità» di tassazione fra i differenti formati. Coinvolge, la campagna, tutto intero il panorama editoriale italiano. Ha un sito (www.unlibroeunlibro.org) e profili facebook e twitter. Per Laura Donnini, Amministratore delegato e Direttore generale libri Rcs, particolarmente impegnata nella campagna, «bisogna valorizzare la lettura facendo sistema tra editori, librai, scuole, biblioteche, territorio, istituzioni, in un modello virtuoso e contagioso che rimetta al centro la lettura e i libri. Senza dimenticare la salvaguardia delle librerie, che restano alla base della nostra industria». Ma intanto, mentre sono in fase di preparazione i tipi e i modi di intervento, gli editori chiedono l’equiparazione dell’Iva, sfruttando il semestre di presidenza europea dell’Italia. Un impegno che il ministro Franceschini fa suo, e che sarà oggetto del prossimo incontro fra i ministri della cultura dei paesi Ue.
Che fare — La revisione tributaria è di competenza dell’Ecofin, alla cui riunione nel prossimo dicembre dovrebbe essere portata la proposta dei ministri della cultura. Se l’Ecofin boccia la richiesta, che fare? Per gli editori, il governo italiano dovrebbe seguire l’esempio di Francia e Lussemburgo, che, infrangendo le regole comunitarie, hanno abbassato la tassa sugli ebook. Franceschini si mostra più prudente. Un accordo pieno tra ministri della cultura, dice, ha già un peso politico di cui l’Ecofin non può non tener conto. È già successo di recente quando i ministri della cultura hanno chiesto e ottenuto di tener fuori il settore culturale dal trattato commerciale Europa-Usa in discussione in questi mesi.
Ma cos’è questa crisi – Le cause della crisi di oggi vanno cercate nella storia del nostro paese, ha detto il ministro. A differenza di altre nazioni, l’Italia è passata dall’epoca dell’analfabetismo diffuso all’epoca della televisione. Ci è mancata la fase della diffusione della lettura. «Non incolpo la televisione in generale» ha detto «So che si fanno trasmissioni in cui si presentano libri, ma sono rivolte a quei pochi che leggono. Ma chi produce sceneggiati e programmi d’intrattenimento, quelli che creano modelli per gli spettatori, perché non fanno mai vedere un libro, qualcuno che legge, o un personaggio che racconta un libro che ha letto?».

il Fatto 9.10.14
Accumulo quindi sono (per paura del vuoto)
di Patrizia Simonetti


Riescono a malapena a muoversi nelle loro case simili a discariche scavalcando cumuli di scatole e buste, pentole e tappeti, abiti e scarpe, le stanze bloccate e colme, i mobili scomparsi sotto gli ammassi di roba, i bagni sporchi e inagibili, la vita su una sedia con i gomiti poggiati sulle loro cose. Eppure “che io sappia qui non c'è nulla da buttare” dice Deborah, 44 anni, da 5 senza lavoro per problemi di salute. “Ho paura del vuoto – spiega – il vuoto è assenza” e l’ansia da separazione da ogni singolo oggetto si tocca con mano quando per evitare lo sgombero forzato è costretta a mettere più sacchi possibili sul camion diretto al box che ha affittato, perché tanto di buttare via qualcosa non se ne parla proprio, piange, si agita, “non ce la faccio più” sussurra. “Sa che sta peggiorando, il suo crollo è una richiesta d’aiuto” spiega lo psichiatra Giovanni Grieco.
PER DEBORAH tutto è cominciato con un po’ di vestiti lasciati in giro e lei troppo stanca per rimetterli a posto. Si chiamano accumulatori seriali, malati veri affetti da accumulo compulsivo, 350 casi accertati solo a Milano, al momento nessuna cura ufficiale, di loro “ti accorgi solo se qualche vicino segnala cattivi odori, infestazioni di insetti o perdite d’acqua come è accaduto per Deborah” dice Giovanni Costa, tecnico della Prevenzione alla Asl di Milano in collaborazione con la quale Discovery Italia ha realizzato Vite sommerse, un docureality speciale sulla situazione italiana prodotto da Zodiak Active in onda su Real Time alle 22.10 di domani in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale. “Succede un po’ alla volta, lasci la roba giù perché è più pratico, poi per pigrizia e disordine mentale...” racconta Maria, 50 anni, un ex marito violento “che mi ha fatto uscire questa casa dal cuore” dice, poi indicando una montagna di stoffa spiega: “Qui sotto ci sarebbe un divano, ma è troppo basso per sedersi, così ci tengo i vestiti”. Però lo sa di stare male, così va da uno psicologo e frequenta pure un gruppo di sostegno per donne vittime di violenze. Lei ci ha già provato a uscirne, ma ci ricasca sempre e anche il figlio l’ha lasciata. Così tenta ancora, compra dei mobili e si prepara a ripulire. “Dobbiamo gettare tutto” l’ammonisce l’amica Samantha, “col cavolo tutto” risponde Maria. Però riesce a buttare il divano, quello troppo basso per sedersi: “Ho tolto di mezzo la tentazione di riempirlo di nuovo” dice. È già qualcosa.

Repubblica 9.10.14
La rivoluzione di Piketty: "Salario minimo e supertasse sugli stipendi dei manager"
L'autore del best seller "Il Capitale del XXI secolo" ha denunciato la crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri. "Stiamo tornando in una situazione ottocentesca", è il suo grido di allarme e suggerisce alcune soluzioni per evitare che la divaricazione tra capitale e reddito si accentui ancora di più. "Sanzioni commerciali contro gli Stati che aiutano gli evasori"
di Giuliano Balestreri e Raffaele Ricciardi

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Repubblica 9.10.14
Piketty: “L’austerity è stata un disastro ci vuole una politica fiscale comune”


MILANO «L’Italia ha più debito pubblico che proprietà pubblica per cui anche se il governo vendesse tutte le proprietà non sarebbe in grado di rimborsare tutto il debito pubblico». È l’opinione dell’economista francese Thomas Piketty, intervenuto ieri all’Università Bocconi di Milano per presentare insieme a Tito Boeri il suo libro “Capitalism in the 21st Century”. Quando poi gli è stato chiesto un giudizio sulla politica di austerity portata avanti in Europa negli ultimi anni le sue parole sono diventate più pesanti. «L’austerity è stata un disastro - ha detto l’economista francese -. Oggi in Europa siamo un pò tutti depressi per il debito pubblico e si prova anche vergogna, in queste condizioni non si può ridurre il debito. L’Unione europea dovrebbe avere una politica più compatta con una politica fiscale comune».

Repubblica 9.10.14
Scienziati europei contro i tagli alla ricerca di base “Scelta l’ignoranza”
Lettera aperta agli Stati della Ue “Privilegiati sempre gli stessi gruppi”
di Rosaria Amato


ROMA Una striscia di scotch strappata con forza da un pezzo di grafite: le grandi scoperte scientifiche, come quella, molto celebrata, del grafene, nascono spesso per caso. O meglio, come sostengono i nove scienziati autori di una lettera che lancia un grido d’allarme sulla fortissima decurtazione dei fondi per la ricerca, sono «la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso». Concentrare i fondi nella ricerca applicata, dirigerli verso pochi progetti “top” destinati all’industria e ritenuti fonte di grandi guadagni, taglia le gambe alla produzione di conoscenza, quella vera, non meramente funzionale all’economia, ma destinata a migliorare la società , a vantaggio di tutti, anche di chi «non ha le risorse per pa- gare». «Non c’è più la ricerca di base. - denuncia Francesco Sylos Labini, fisico, ricercatore al Centro Fermi e al Cnr - Con i pochi finanziamenti che ci sono si tende a premiare sempre gli stessi progetti e a concentrare le risorse su pochi gruppi. L’ideologia dominante è che chi è eccellente vince e chi non è perde, è il darwinismo sociale applicato alla ricerca. Ma nella lotta per l’esistenza vince veramente solo chi sa diversificare, non chi è più grosso, infatti i dinosauri si sono estinti!».
La lettera che Sylos Labini ha scritto con altri otto colleghi di vari centri di ricerca europei, dalla Spagna e il Portogallo alla Gran Bretagna e alla Francia, e che oggi viene pubblicata in versione ridotta da Nature e per estratto su molte testate, tra le quali Le Monde, The Guardian, El Pais, s’intitola “Hanno scelto l’ignoranza”, e si riferisce naturalmente ai «responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue». Inizialmente si pensava di limitare la protesta ai Paesi più periferici e più penalizzati della Ue, e cioè Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Senonché, parlandone con altri ricercatori, i promotori dell’iniziativa si sono accorti che anche nella ricca Germania gli scienziati sono precari, e che nell’altrettanto ricca Gran Bretagna i fondi sono prevalentemente indirizzati verso la ricerca applicata. Certo, in Italia la situazione è anche peggiore: i pochi fondi destinati a uni- versità e grandi centri di ricerca ormai non bastano neanche per pagare le bollette e gli stipendi, tanto che persino per le spese ordinarie si deve attingere ai fondi per i progetti internazionali. I finanziamenti europei o sono prevalentemente diretti verso la ricerca applicata, oppure sono limitatissimi, per cui solo una piccola percentuale di ricercatori riesce a conquistarli. Chi vuole aderire all’iniziativa può firmare all’indirizzo openletter.euroscience.org. La lettera è pubblicata anche sulla rivista EuroScientist.com e su Repubblica.it.

il Fatto 9.10.14
Compagnie di giro
Ospiti à la carte per talk fotocopia
di Daniela Ranieri


Chi possiamo invitare per un dibattito sereno e pacato sull’Islam? Mah, direi la Santanchè. Questo è lo schema-base, la matrice su cui l’Autore di talk show costruisce le sue puntate. Perché se per ogni tema c’è qualcuno che non dovrebbe mai parlare per mancanza di titoli e di sensibilità, ecco, quello è il primo a cui telefonare.
Edmondo Berselli illuminò il momento aurorale in cui in un giornale si devono affrontare temi alti, tipo “la mamma, la famiglia o il mondo frocio”, e si decide di interpellare un’autorità morale, di solito Claudio Magris. Se Magris non risponde, si può dedicare una pagina alla scomparsa delle autorità morali.
OGGI CHE i temi sono tutti bassi, specie gli alti, l’autorità morale è da ricercare tra i professionisti dell’ospitata. La crisi dei talk fa mordere il freno e produce schiuma. È lì che bisogna lavorare. Tirare fuori da ogni bacile di pseudo-argomenti un personaggio mercuriale, un so-tutto-io, un bru-bru che ci spiega come va il mondo e le cui tesi siano incondivisibili secondo i più normali parametri della ragionevolezza, talmente assurde da fare del loro sostenitore un guru e un iniziatore di genere. In realtà una vittima da offrire al ludibrio catodico.
Così il catalogo degli ospiti prêt-à-porter si è col tempo raffinato nella direzione di una specializzazione à la carte.
Il menu feriale prevede i Tormentoni Umani, da battere finché caldi: ieri erano Becchi, il teologo non autorizzato del grillismo, e Farinetti, impresario dell’ottimismo eataliano e ministro della Furbizia in pectore; oggi è l’imprenditore Martinetti, marchiato Grom, preferito da Matteo come gelatoforo a Palazzo Chigi per la sit-com anti Economist, giovane, bello e ricco abbastanza da proporre da Floris la ricetta per il rilancio: un tesserino sanitario oro, argento e platino come l’American Express.
Per quell’ora della sera in cui lo spettatore masochista è stanco per lo zapping e tocca dopare lo share moscetto, si chiama l’Agitatore di specialità shakerate: i comizi da autogestione di Luca Casarini, la furia da Teatro della crudeltà di Sgarbi, le raffinatezze da Dams di Freccero, dietro la cui poltrona, come in un film di Woody Allen, fa capolino McLuhan.
Fa caso a parte il collegato perenne professor Cacciari. Cacciari è l’Ospite Totale, wagneriano, da chiamare per discorsi su Venezia, la crisi del Pd, la vittoria del Pd, la fine del Pd, la guerra. Nitroglicerina a mezzobusto, parte flemmatico, va in rodaggio, scalpita sulla sedia, s’avvelena, sbrocca, si stacca i fili e se ne va.
L’Autore sadico gli contrappone l’Ospite Factotum, vuoterello, idealista per cinismo e calcolo. Da caparsi tra gli epifenomeni renziani, accessori di cose più grandi di loro: la pedagogica Moretti, la catechesimale Serracchiani, la sconcertante Picierno, impegnata a rafforzare il tulle evanescente del renzismo con stecche di atroce luogocomunismo: “C’è bisogno di simboli”, “pensare alle donne incinte”, “dare risposte concrete”. La proporzionata Boschi va invitata da sola, perché possa mostrare la sua competenza: il sorriso. Tutte utili a produrre rumore di fondo mentre si lavano i piatti, oltre che a far incazzare Cacciari.
NELLA SAGRA dell’Arieccolo, le stelle quasi fisse Bonafé, Richetti, Taddei, fanno da contraltare del cambio verso a Ravetto, Comi, Lupi: presenze nevrotizzanti per veicolare i messaggi del padrone. Per lavacri collettivi di reputazione, imbottigliare insieme Polverini, Formigoni, De Girolamo, Fitto.
Per la vox populi, chiamare il picchiatello che “sapeva” ma nessuno gli ha dato retta; l’imprenditore-forcone incazzato, il co.co.co, il tartassato. Per la categoria “vuoto qualificato”, Luigi Abete. Per opacità d’antan, Giuliano Amato. Per cose di sinistra dette con grinta di destra, Giorgia Meloni. Per la giustizia Sallusti, per il lavoro Toti, per i diritti civili Gasparri, per l’immigrazione Salvini. Per Kafka Storace.
Solo 3 o 4 persone in Italia possono fregiarsi del titolo di Ospite Autoinvitantesi. Uno è Della Valle: sciarpone annodato ad ascot, particolare emotivo tipo l’orologio dell’Avvocato, è l’arma di fine-mondo, quello che rimette le chiacchiere a zero. Un altro è Renzi, ospite naturale e nativo televisivo, talmente esclusivo che spesso è in contemporanea su più canali.
Gli altri, ospiti normali da impiattare, si sentono onnipotenti; in realtà, l’apparire in tv o meno (che è come dire esistere o no) è in mano all’Autore. Il quale prima crea mostri e poi, per la legge delle profezie che si autoverificano, ne resta affascinato: se gli altri chiamano sempre Tizio, vuol dire che Tizio è da chiamare.
Tanto, l’ospite à la carte trascende la sua identità, e per uno che è in onda ce n’è sempre un altro che ne sa di meno e che già aspetta, dietro le quinte. Fino a quando Floris inviterà Floris e Giannini Giannini, e il talk dell’ospitata delirante imploderà, risucchiato in un buco nero.

La Stampa 9.10.14
La Maratona della Bellezza in 120 città
È domenica, organizzata dal Fai. Il traguardo: scoprire i tesori del nostro vivere
di Renato Rizzo


Diventare turisti per un giorno, a casa nostra, e ritrovare quell’attenzione che è la chiave per scoprire la Bellezza: è questo lo spirito della «maratona» più rilassata del mondo che si disputa domenica in 120 città italiane, riservata alle persone curiose di esplorare i tesori, spesso sorprendenti, nascosti nei luoghi del nostro vivere quotidiano.
A organizzare la passeggiata, rigorosamente non competitiva (basta partecipare per vincere), è il Fai, Fondo per l’ambiente italiano, nell'ambito della campagna nazionale di raccolta fondi «Ricordati di salvare l’Italia».
Tremila volontari appartenenti alle 116 delegazioni regionali guideranno i maratoneti lungo itinerari di stupore con oltre mille tappe: palazzi e giardini, teatri e cortili, chiese e piazze, scuole e vicoli da ammirare e, in certi casi, da visitare. Ma anche edifici normalmente chiusi al pubblico che, per una manciata di ore, sveleranno i loro segreti sfaceli denunciando, così, le promesse mancate o i misfatti delle istituzioni.
Tra i percorsi a tema - 10 euro l’iscrizione, 29 con l’adesione annuale al Fai - spicca quello di Milano, «Piazze visibili e invisibili», con l’eccezionale apertura del Teatro Lirico, chiuso dal 1999. Napoli nel suo viaggio «Verso le origini», dalla città settecentesca alla mitica Partenope, offre la possibilità di salire sino alle splendide terrazze di Villa Carafa della Spina con vista a 360° sulla città. «Amori e delitti» è il soggetto proposto da Verona: partendo dalla casa di Giulietta ci si addentra nei luoghi che rievocano la storia di Alboino e Rosmunda e le vicende drammatiche delle prostitute giustiziate nell’Arena.
Torino si specchia nel suo passato di città-culla del cinema: «A spasso tra portici e cinema» condurrà i maratoneti alla balconata della Galleria Sabauda dove sono state girate scene della «Donna della domenica», in piazza Cln («Profondo Rosso»), in Galleria San Federico («Italian Job») e in Piazzetta Reale («Il divo»). E il viaggio continua attraverso cento altre meraviglie (elenco degli itinerari, orari e punti di ritrovo su faimarathon.it o sul sito del gioco del Lotto, sponsor dell’iniziativa) a disposizione di chi, come osserva il vicepresidente esecutivo del Fai, Marco Magnifico, «vorrà “correre” il più lentamente possibile circondato da bellezza, musica, degustazioni. Non è necessario essere allenati, basta avere voglia di lasciarsi sorprendere».
Diventare turisti per un giorno, a casa nostra, e ritrovare quell’attenzione che è la chiave per scoprire la Bellezza: è questo lo spirito della «maratona» più rilassata del mondo che si disputa domenica in 120 città italiane, riservata alle persone curiose di esplorare i tesori, spesso sorprendenti, nascosti nei luoghi del nostro vivere quotidiano.
A organizzare la passeggiata, rigorosamente non competitiva (basta partecipare per vincere), è il Fai, Fondo per l’ambiente italiano, nell'ambito della campagna nazionale di raccolta fondi «Ricordati di salvare l’Italia».
Tremila volontari appartenenti alle 116 delegazioni regionali guideranno i maratoneti lungo itinerari di stupore con oltre mille tappe: palazzi e giardini, teatri e cortili, chiese e piazze, scuole e vicoli da ammirare e, in certi casi, da visitare. Ma anche edifici normalmente chiusi al pubblico che, per una manciata di ore, sveleranno i loro segreti sfaceli denunciando, così, le promesse mancate o i misfatti delle istituzioni.
Tra i percorsi a tema - 10 euro l’iscrizione, 29 con l’adesione annuale al Fai - spicca quello di Milano, «Piazze visibili e invisibili», con l’eccezionale apertura del Teatro Lirico, chiuso dal 1999. Napoli nel suo viaggio «Verso le origini», dalla città settecentesca alla mitica Partenope, offre la possibilità di salire sino alle splendide terrazze di Villa Carafa della Spina con vista a 360° sulla città. «Amori e delitti» è il soggetto proposto da Verona: partendo dalla casa di Giulietta ci si addentra nei luoghi che rievocano la storia di Alboino e Rosmunda e le vicende drammatiche delle prostitute giustiziate nell’Arena.
Torino si specchia nel suo passato di città-culla del cinema: «A spasso tra portici e cinema» condurrà i maratoneti alla balconata della Galleria Sabauda dove sono state girate scene della «Donna della domenica», in piazza Cln («Profondo Rosso»), in Galleria San Federico («Italian Job») e in Piazzetta Reale («Il divo»). E il viaggio continua attraverso cento altre meraviglie (elenco degli itinerari, orari e punti di ritrovo su faimarathon.it o sul sito del gioco del Lotto, sponsor dell’iniziativa) a disposizione di chi, come osserva il vicepresidente esecutivo del Fai, Marco Magnifico, «vorrà “correre” il più lentamente possibile circondato da bellezza, musica, degustazioni. Non è necessario essere allenati, basta avere voglia di lasciarsi sorprendere».

il Fatto 9.10.14
Ribellioni
Il nemico di classe è in cattedra
Il dramma d’esordio dello sloveno Bicek: un professore nazista e una giovane suicida
di Federico Pontiggia


La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra”. Per i Marx ed Engels del Manifesto del Partito comunista, le due classi erano borghesia e proletariato, ma oggi? Lasciamo perdere pure Sorel, Brecht e il letterale – e teatrale – Nemico di classe di Nigel Williams, e andiamo al cinema, con un film che non capita ogni weekend: Class Enemy, folgorante (sul serio) esordio dello sloveno Rok Bi›ek, classe 1985. L’anno scorso in anteprima mondiale alla Settimana della Critica di Venezia, dove ha vinto il premio dei critici Fedeora, ha poi rastrellato riconoscimenti in mezza Europa, finendo tra i papabili per il Lux Prize 2014 del Parlamento UE. Sullo schermo, un rapporto di causa-effetto apparentemente semplicissimo: un nuovo professore di tedesco, una classe che esplode. Eppure, la tavolozza umana di Bi›ek non ha bianco e nero, ma tutte le sfumature del caso, i chiaroscuri psicologici, le ambiguità etiche, le relazioni politiche tra bene e male: chi è il colpevole, soprattutto, c’è un colpevole? Apparentemente, anche qui, non ci sono dubbi: Robert (Igor Samobor, superstar in Slovenia, le signore gradiranno assai…), il professore tutto d’un pezzo, marziale si direbbe, “nazista! ” replicano gli studenti.
LA CLASSE dove sostituisce una cara – e un tot svanita – collega in gravidanza è neutra, comune: ragazzi e ragazze diversi tra loro, eppure, come tutti. Il ribelle, il secchione, la punkettona, gli stereotipi, meglio, i tratti distintivi sono ordinari, forse, a dare nell’occhio è solo Sabina (Dasa Cupevski), che suona Mozart al pianoforte. Robert la interroga, nel senso di interrogazione e nel senso di interrogatorio: che cosa vuole fare Sabina della propria vita, che cosa ha deciso per sé? Mmh, mmh non è una risposta, Robert pretende di più: la sferza, la castiga, e scende una lacrima sul viso di Sabina. “Mozart a cinque anni sapeva già che voleva diventare”, le intima il prof, ma non chiama in causa solo lei, quanto i genitori: la reprimenda non risparmia nessuno, ma rude e ferrea che sia vuole salvare Sabina e il suo futuro. Così non è: la ragazza si suicida, i compagni di classe (non) elaborano il lutto additando il gran colpevole, Robert ovvio, e ribellandosi al fatidico sistema…
La sinossi, ovvero la guerra con la cattedra a far da barricata, non è inedita, ma il titolo non è solo un evocativo, elegante e furbo gioco di parole: un nemico di classe qui c’è davvero. Già, ma chi è? Se Sabine è il capro espiatorio, la preside – direbbe Lenin – l’utile idiota, sicuri che Robert sia la nemesi? No, troppo cattivo, troppo “nazista” per essere davvero tale, ma la forza del film qui risiede: Robert non ha inquadrature in soggettiva, Robert è oggetto degli studenti, correlativo oggettivo della loro ribellione, eppure nonostante non abbia voce drammaturgica – a parte la straordinaria presa scenica – stiamo con lui, meglio, gli concediamo il beneficio del dubbio. Bi›ek, che sfancula i giovanilismi e gira già adulto, cita Haneke, Mungiu e Zvyagintsev tra i propri maestri e non paiono nomi a caso, soprattutto il primo: “Amo la sua spietata dissezione dell’animo umano, e cerco di rappresentarla anche nei miei film”. Ci è quasi vicino e il suo prossimo progetto – una non fiction su una famiglia disfunzionale – potrebbe ulteriormente accorciare la distanza, ma anche libero da illustri assonanze Bi›ek va bene, benissimo: non ha solo la dialettica, ma la didattica della lotta di classe. E al posto di strillare Occupy qualcosa, lui ha deciso di sgombrarci il cervello: non è da tutti, eh?