venerdì 10 ottobre 2014

Le Scienze in edicola dal 2.10.14
Arte rupestre: in Indonesia è antica come in Europa

qui

il Fatto 10.10.14
Oggi gli studenti in piazza contro la riforma del lavoro

Gli studenti di tutta Italia scendono in piazza contro il Jobs Act voluto dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Protestano contro la riforma della scuola e del lavoro. “Istruzione gratuita, reddito e stop precarietà. No al piano scuola”, questo lo slogan della manifestazione, organizzata dall'Unione degli studenti. “Domani riempiremo cento piazze del paese perché non vogliamo più restare spettatori di fronte a un governo che vuole distruggere i diritti all’interno delle scuole come dei luoghi di lavoro, instaurare la precarietà come sistema strutturale, instillare la competizione e la valutazione come strumenti di divisione e controllo” – spiega Danilo Lampis, coordinatore nazionale dell’Uds. La giornata è stata organizzata attraverso i social network con foto nomination sui banchi, pubblicate con l'hashtag #entrainscena. "Animeremo il Paese non solo per contestare ma anche per creare una radicale proposta dal basso – continua Lampis – Le alte percentuali di dispersione scolastica sono il segnale di un Paese che non crede più nell'istruzione e nella conoscenza come strumenti di emancipazione”.

Arci Report 9.10.14
Cresciute del 63% in 10 anni le tasse universitarie in Italia

qui

Arci Report 9.10.14
Contro “La Buona Scuola” di Matteo Renzi
Il 10 ottobre manifestazioni in tutta Italia
di Martina Carpani

responsabile organizzazione Unione degli Studenti
qui

Arci Report 9.10.14
I morti di Lampedusa e la questione mediterranea
di Luciana Castellina

qui

La Stampa 10.10.14
Il partito unico di Matteo
In Italia un solo partito e non di sinistra. Si chiama Pd,
ma è la versione moderna della Democrazia Cristiana
di Massimo Gramellini


In Italia è rimasto un solo partito e non è di sinistra. Si chiama ancora Pd, ma è già la versione moderna, senza tessere né sacrestie, della Democrazia Cristiana, la balena interclassista che tutti criticavano e però votavano. Il processo ha raggiunto il suo culmine questa settimana con la sconfitta degli ultimi eredi del Pci sull’articolo 18. Renzi ha celebrato il proprio trionfo con una scelta mediatica significativa: andando a pontificare negli unici talk show che parlano all’ex popolo berlusconiano, quelli capitanati da Porro e da Del Debbio. 
Con la spregiudicatezza tipica delle persone cresciute in un ambiente familiare sereno e quindi molto sicure di sé, l’annunciatore fiorentino sta disintegrando i tabù che hanno paralizzato per decenni i suoi predecessori comunisti e pidiessini. Il timore di avere nemici a sinistra e di mettersi contro la Cgil, ma soprattutto l’imbarazzo nel chiedere voti alla base sociale dell’incantatore di Arcore: liberi professionisti, commercianti, piccoli imprenditori e disoccupati, che secondo l’analisi pubblicata nei giorni scorsi dal Sole 24 Ore hanno «cambiato verso» alle elezioni europee, dirottando per la prima volta i loro consensi sul partito che finora gli aveva procurato solo attacchi di orticaria. 
La realtà è che oggi chiunque, da Passera a Della Valle, pensi di entrare in politica per rifondare il centrodestra deve prendere atto che al momento non esiste un bacino di voti disponibile. Renzi ha fatto il pieno, lasciando scoperta solo la zona riservata ai piccoli borghesi impoveriti, cioè ai lepenisti italiani magistralmente interpretati dall’altro Matteo, il becero ma efficacissimo Salvini. Il resto è un mondo finito e svuotato di consensi che sopravvive sui giornali per vecchi automatismi che inducono i cronisti a interessarsi alle ultime convulsioni dei tirapiedi e dei traditori di Berlusconi. I voti di Alfano e di Monti sono già tutti in pancia al Pd. E quei pochi che restano a Silvio finiranno in parti uguali a Matteo uno e Matteo due.
L’unica terra di conquista elettorale è dunque quella che un tempo avremmo chiamato Sinistra. Sono i giovani e i precari attratti da Grillo (fino a quando?), i pensionati, i nostalgici dello Stato sociale e in genere gli oppositori di un sistema capitalistico che per un processo apparentemente ingovernabile sta privilegiando le rendite, disintegrando il ceto medio e creando sacche sempre più ampie di povertà. 
Il pigliatutto di Palazzo Chigi, naturalmente, si considera di sinistra anche lui. Anticomunista, ma di sinistra. Solo che la sua non è la sinistra europea e statalista dei Palme e dei Mitterrand, ma quella anglosassone e meritocratica dei Clinton e dei Blair. Per chi non vi si riconosce rimarrebbe uno spazio persino più ampio di quello occupato dagli emuli dilettanteschi del greco Tsipras. Manca però appunto uno Tsipras. Cioè un leader in grado di indicare un modello sociale alternativo ma praticabile e di perseguirlo con coerenza. Difficile possa esserlo Civati e meno che mai Bersani e D’Alema, con il sostegno delle truppe brizzolate della Camusso. Se i grandi vecchi non se ne vanno dal Pd, non è per fedeltà a un partito che tanto non sarà mai più il loro, ma perché sanno che fuori di lì si condannerebbero all’insignificanza di un Gianfranco Fini. 
Nella settimana in cui comincia ufficialmente l’era del partito unico, bisogna riconoscere che l’Antirenzi potrà nascere solo dentro il nuovo Pd, così come i rivali dei leader democristiani venivano prodotti in serie dalla stessa Democrazia Cristiana. Renzi lo sa talmente bene che sta provvedendo a ucciderli tutti nella culla. Ma con la consapevolezza che, come accade sempre in politica, prima o poi qualcuno riuscirà a sopravvivergli e a fargli la pelle.

Da molti punti di vista, quello di Renzi è un governo extra-parlamentare
Corriere 10.10.14
Le Camere messe da parte
di Antonio Polito


Da molti punti di vista, quello di Renzi è un governo extra-parlamentare; forse il primo di una nuova era. Non solo perché il premier non siede in nessuna delle due Camere: c’era già il precedente di Ciampi, anche se gestito con altro stile. Ma per motivi più di merito.
Si moltiplicano infatti i luoghi di decisione politica esterna che il Parlamento non può rimettere in discussione: il Patto del Nazareno, un discorso nella Direzione del Pd, un incontro estivo con Draghi. La stessa ratifica parlamentare si fa al contempo obbligata (con la fiducia) e vaga (con la delega), trasferendo sempre più il potere legislativo all’esecutivo: come è avvenuto sulla riforma dell’articolo 18, di cui nei testi votati non c’è niente, e tutto resta affidato alla tradizione orale e agli impegni verbali.
Il parlamentare è ormai un’anima morta, legata al leader da un ferreo vincolo di mandato; il che, come in ogni servitù, lo induce alla rancorosa vendetta ogni volta che può agire in segreto, ad esempio col triste spettacolo della mancata elezione dei giudici della Consulta. In alternativa, se non è d’accordo, può solo disertare dal suo mandato (assentandosi o dimettendosi).
La stessa definizione di presidente del Consiglio non si addice più a Renzi, il quale pur essendo primus non è certamente più inter pares tra i suoi ministri, come testimoniato dalla performance di Giuliano Poletti sulla riforma del mercato del lavoro.
Pur senza nostalgie per il regime parlamentare uscente, davvero impossibili, bisogna riconoscere che qui siamo oltre. È come se avessimo sostituito a vent’anni di mancate riforme istituzionali la biografia e la personalità di un leader di quarant’anni: una riforma costituzionale incarnata, in personam invece che ad personam .
Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non può sopravvivere a periodi troppo lunghi di paralisi. A Bersani e D’Alema che protestano per l’andazzo odierno andrebbe risposto che ne sono in buona parte responsabili. Però non è detto che la nuova costituzione materiale che si sta delineando sia l’unica forma di post-democrazia possibile.
Non è vero che funziona così ovunque. Perfino in un regime presidenziale come quello statunitense i parlamentari hanno un incomparabile potere di condizionare le scelte dell’esecutivo. Perfino a Westminster le ribellioni in Aula sono all’ordine del giorno. Perfino in Germania la Merkel ha dovuto spesso ricorrere ai voti dell’opposizione per resistere alle defezioni interne della sua maggioranza. Istituti come la sfiducia costruttiva, sistemi elettorali basati sul collegio uninominale, o anche un presidenzialismo dotato di check and balances , consentono di avere insieme governi autorevoli e Parlamenti liberi.
Sarebbe il caso di pensarci per tempo. Perché democrazia è certamente decisione, ma è anche e soprattutto potere di controllare il potere. Ogni giorno, e non solo una volta ogni cinque anni.

La Stampa 10.10.14
L’opposizione e l’effetto boomerang
di Federico Geremicca


Con i suoi modi poco convenzionali, forse Renzi la metterebbe giù così: due a zero e palla al centro. Infatti, le due aspre battaglie parlamentari ingaggiate in questi primi 200 giorni di governo (abolizione del Senato elettivo e Jobs Act) si sono concluse nello stesso, identico modo: una secca sconfitta degli oppositori.
E quel che più impressiona - stando a raffiche di sondaggi - una sconfitta non solo nelle aule parlamentari ma anche nel giudizio nell’opinione pubblica. Il passaggio dal cacciavite alla ruspa, insomma, continua a rivelarsi vincente: e soprattutto a piacere ai cittadini-elettori.
Così, dopo le secche e mortificanti sconfitte subite, per gli oppositori (i «nemici») del premier è forse venuto il tempo di interrogarsi se gli argomenti, le contestazioni e i toni messi in campo contro Renzi siano quelli giusti per avversare obiettivi e stili di direzione (del partito e del governo) ritenuti sbagliati e perfino dannosi. Ed è evidente che il problema - per gli effetti paradossali che sta determinando - riguarda prima di tutto la minoranza Pd e la Cgil di Susanna Camusso.
Cosa c’è di sbagliato - o di non efficace - nella linea di opposizione fin qui seguita? Essa sconta, intanto, una sorta di vizio d’origine: la sottovalutazione del carattere e dello stile del premier, e l’idea - conseguente - che Renzi sia condizionabile con argomenti e modi tradizionali di fare opposizione. La guerriglia interna, la minaccia del non-voto in Parlamento o le accuse di «tradire la causa» non hanno funzionato e non funzioneranno: innanzitutto se avanzate da un ceto politico che Renzi può liquidare con un semplice (anche se superficiale finché si vuole) «dov’eravate voi mentre il Paese affondava»?
Un rinnovamento, insomma, appare indispensabile anche tra le file degli oppositori del premier: rinnovamento di uomini e di argomenti, che non possono più essere (perché inefficaci) quelli del passato. Che senso ha, per fare un esempio, l’accusa mossa a Renzi da Susanna Camusso che ha evocato contro di lui perfino il fantasma della Thatcher, una signora che ha smesso di governare quando l’ex sindaco di Firenze aveva 15 anni e - come annota Della Valle - «cantava canzoni vicino ai fuocherelli dei boy scout»?
Avrebbe avuto e avrebbe più senso - pur aprendo ai critici del premier complessi problemi di coerenza - paragonarlo al Gerhard Schroeder di «Agenda 2010», massiccio piano di riforme proposto dal leader socialdemocratico che ebbe l’opposizione dei sindacati e di una parte del suo stesso partito, che poi diede vita ad una scissione lasciando l’Spd. Sembra, in fotocopia, quanto sta accadendo oggi in Italia: ma la vecchia idea di certa sinistra che basti paragonare un compagno di partito ad un esponente della destra per liquidarlo, è purtroppo dura a morire...
E’ la stessa distorsione, per fare un altro esempio, che ha portato un leader «innovatore» come D’Alema a cadere in evidenti contraddizioni: lui che da presidente della Commissione bicamerale fu il primo a volere (tra feroci polemiche) un dialogo con Berlusconi e che da premier non esitò a contestare arretratezza culturale e conservatorismo alla Cgil di Cofferati, si ritrova oggi ad accusare Renzi di cose più o meno simili a quelle fatte da lui (e ad andare a braccetto con chi dell’antiberlusconismo e del massimalismo ha fatto da sempre porto comodo e sicuro...).
Di fronte allo stato in cui versa il Paese e all’esasperazione di un’opinione pubblica che non ha dimenticato volti e protagonisti del declino italiano, opporsi in questo modo a Renzi equivale a fargli un regalo. «Ogni volta che parla D’Alema - ripete infatti il premier - guadagno un punto in percentuale...». Andrebbe aggiunto: non solo perché parla D’Alema, ma per gli argomenti - spesso pretestuosi, poco credibili e perfino antipopolari - che vengono messi in campo.
A Renzi andrebbe forse invece chiesto dov’è finita la «bella politica» promessa, quando poi tenta di imporre alla maniera solita (cioè senza confronti e con patti oscuri) candidature al Csm e alla Corte Costituzionale in alcuni casi inaccettabili. O che fine abbia fatto l’annunciata guerra agli «sprechi di Stato», se poi in vista della manovra si accantonano Cottarelli e il suo piano (per altro senza spiegazioni) per affidarsi a tagli generici di antica e fallimentare memoria. O cosa sia rimasto, infine, del tono di sfida col quale avrebbe dovuto condurre, secondo le promesse, il suo semestre di guida europea.
Contro Renzi, insomma - lo dimostrano le sconfitte subite - ogni ideologismo si rivela inefficace, ogni richiamo al timing promesso si risolve in un boomerang (che avete fatto voi in vent’anni?) e a nulla servono richiami al bon ton politico, quando questo bon ton ha prodotto i disastri che oggi osserviamo. Occorrerebbe uno sforzo di modernità nella critica (negli uomini e negli argomenti) ed un rinnovamento della proposta riformista. Cose più difficili, certo, che urlare «Renzi è di destra»: ma cose che, pure, dovrebbero essere pane quotidiano per una sinistra al passo coi cambiamenti e riformatrice davvero.

Corriere 10.10.14
La voglia di resa dei conti nel Pd
Le accuse del segretario sui dissidenti Renzi: rispetto per la scelta di Tocci e per i bersaniani, ma da altri atteggiamenti inammissibili
L’ex leader: nessuno si aspetti da me la coltellata
In tanti chiedono sanzioni. Guerini: non li cacceremo
di Monica Guerzoni


ROMA Sanzione, espulsione o perdono? Il destino dei tre dissidenti è un tassello prezioso per costruire il profilo del «nuovo» Pd, dove la maggioranza prende tutto e la minoranza non esiste (quasi) più. I renziani duri spingono per cacciare dal partito Ricchiuti, Casson e Mineo, che per Giachetti è un «individualista anarchico». Ma la linea drastica non convince Palazzo Chigi, dove sanno bene che la parola espulsione fa rima con epurazione. E dove non è sfuggito il monito di Civati sulla contraddizione fra il «partito degli elettori» e una «disciplina da Soviet».
In segreteria Renzi ha avuto parole molto aspre e rivelato il suo fastidio per il comportamento «inammissibile» di Civati e compagni. Il leader rispetta la battaglia alla luce del sole di Tocci e dei bersaniani ma trova inaccettabile le scelte di altri. Il vice Lorenzo Guerini demanda la decisione al gruppo presieduto da Luigi Zanda e poi alla direzione, come a dire che il premier cerca un chiarimento, più che un processo. «Noi non cacciamo nessuno» assicura Guerini, ma ribadisce come non votare la fiducia al proprio leader «mette in discussione i vincoli di relazione con il partito». I renziani hanno voglia di resa dei conti. E che abbia vinto il leader lo ammette persino Mineo: «Renzi ha costretto i suoi oppositori a capitolare».
Walter Tocci ha votato la fiducia, dimettendosi «per coerenza» da senatore. Renzi ha apprezzato. Ha detto che lo stima molto e farà di tutto perché continui a mettere «intelligenza, competenza e passione» al servizio del Pd e del Paese: «Tocci ha espresso le sue posizioni, ma poi ha accettato la linea. Le dimissioni sarebbero un errore, proverò a convincerlo». Parole che hanno fatto molto piacere a Tocci, il quale potrebbe tornare sul suo scranno: «Le dimissioni non sono un gioco, ma rifletterò».
Le lodi di Renzi spaccano il fronte dei dissidenti: il confine tra vincitori e vinti è la lealtà alla ditta. La sinistra è lacerata e scossa. Civati continua ad agitare lo spettro della scissione: «Io no, ma magari la farà qualcun altro». Fassina non esclude «altri casi Tocci» e forse parla per sé. Bersani chiede «spazio per delle modifiche», ma Renzi non vuole toccare l’impianto del Jobs act, concedendo solo «piccoli aggiustamenti».
In segreteria Renzi ha cominciato a ragionare della natura del Pd, confermando come la scelta del «partito degli italiani» sia ormai tracciata. Guerini lo chiama «moderno bipolarismo post ideologico» e la sua costruzione passerà attraverso la modifica dello Statuto. E le tessere? Sono in calo, è vero, ma dalle 239.322 registrate al 30 settembre Guerini punta a quota 350 mila. Ma adesso, a sinistra, il tema è andare o no in piazza con la Cgil. I più radicali come Fassina e D’Attorre ci saranno, mentre Bersani si mostra dubbioso. Un siparietto lo rivela. Nel pomeriggio l’ex segretario incontra a Montecitorio la Camusso, che le chiede se andrà alla manifestazione il 25 ottobre. E lui: «Ti farò ciao ciao...». Che vuol dire, che la guarderà in tv? Bersani ride e smentisce, però tralascia di dire che sarà in piazza. E la Camusso: «Se vieni ci salutiamo, ma se non vieni non ci sentiremo soli». Scherzavano, certo. Ma lo scambio di battute conferma la tensione, le divisioni interne alla minoranza e lo stato d’animo di Bersani. A sera in tv, quando Santoro gli chiede di Renzi, l’ex segretario allarga le braccia: «Non si aspetti da me la coltellata, preferisco prenderla».

Corriere 10.10.14
L’anomalia renziana svela i limiti del partito
di Massimo Franco


Può darsi davvero che si dimettano dal Pd alcuni parlamentari per protesta contro Matteo Renzi e il «suo» Jobs act . In realtà, il provvedimento è di tutto il partito: almeno, di quello che sta prendendo forma sotto la leadership del segretario-premier. Nei giorni scorsi non si è consumato soltanto uno strappo inedito col sindacato di riferimento, la Cgil. La sensazione è che sia stato forgiato un modello di Pd totalmente slegato dalla tradizione passata. Si tratta della conseguenza inevitabile delle dinamiche aperte poco meno di un anno fa dall’elezione di Renzi; e successivamente del suo passaggio a Palazzo Chigi.
Il fatto che l’altra notte in Senato i dissidenti alla fine siano stati pochissimi, almeno nel voto di fiducia, conferma l’incapacità di offrire una linea alternativa a quella del presidente del Consiglio. E le voci di scissione e gli annunci di abbandonare il Pd sono facce diverse della presa d’atto che la principale forza della sinistra ha subìto una metamorfosi. In qualche misura la stanno vivendo anche i dirigenti, che sono inclini o costretti a rivedere le vecchie appartenenze interne perché l’identità non può riflettere più le coordinate tradizionali.
È significativa la diatriba seguita alla scoperta che il tesseramento è crollato. Rivendicando un modello che preferisce più voti a più tessere, Renzi manda in soffitta il Pd organizzato e militante caro ai predecessori. E indica un’organizzazione chiamata soprattutto a rastrellare consensi. Si delinea una forma di partito plasmata sul leader e sul suo potere verticale: anche per questa ragione insofferente nei confronti delle critiche e delle dissociazioni più o meno aperte. Quando i fedelissimi di Renzi lasciano balenare misure disciplinari contro chi non ha votato la fiducia in Senato, dicono esattamente questo.
Disegnano una strategia fatta di fedeltà e di insofferenza verso i distinguo, le mediazioni, il dissenso, bollati come perdita di tempo e potenziale tradimento. È un approccio che gran parte del Pd sembra avere interiorizzato. Lo confermano le timidezze ed i silenzi che si avvertono tra gli esponenti storici, quando si chiede loro se parteciperanno o no allo sciopero della Cgil di fine ottobre contro il governo. Il vicesegretario Lorenzo Guerini si è sentito rispondere dall’ex viceministro Stefano Fassina che non si può piegare il dissenso in modo autoritario. Fassina gli ha ricordato che quando c’era da eleggere il capo dello Stato, un anno e mezzo fa, «lui e tanti altri che ora intendono dare lezioni votarono in modo diverso dall’indicazione del gruppi parlamentari». Riferimento interessante: sembra quasi un avvertimento cifrato in vista della successione a Giorgio Napolitano, possibile da qui a pochi mesi.
Non si può escludere che la minoranza del Pd ottenga qualche concessione quando il Jobs act passerà alla Camera. L’ex segretario Pier Luigi Bersani lo chiede esplicitamente, e altri mostrano quasi di pretenderlo. Ma è difficile non vedere che la battaglia appare di retroguardia, perché in realtà, almeno finora, Renzi è riuscito a imporre la sua agenda e a dividere gli avversari interni. Si parla di un Pd «in sofferenza». E quanti sono indiziati di coltivare progetti di scissione si limitano a negarli per aggiungere subito che comunque, se non loro, qualcun altro romperà col premier. Ma non si capisce bene per fare che cosa.
Quando uno degli oppositori, Gianni Cuperlo, spiega che quella renziana è stata «una sorta di scalata dall’esterno», rivela candidamente la verità di un partito espugnato grazie alle primarie; e frastornato da quanto è accaduto. La scalata «è del tutto legittima, intendiamoci, però è qualcosa di incredibilmente nuovo, originale e anche anomalo», conclude Cuperlo. Senza rendersi conto che la vera anomalia non è tanto Renzi quanto un Pd «scalabile»: un guscio di fatto vuoto, che chiunque dotato di spregiudicatezza e coraggio poteva occupare e riempire con valori estranei a quelli, ormai percepiti come desueti, della vecchia sinistra.

La Stampa 10.10.14
“Confermo le mie dimissioni
Nel partito non c’è più la libertà di esprimere posizioni diverse”
intervista di Francesca Schianchi


«Mi sono dimesso per un conflitto tra la coerenza delle mie idee e la responsabilità di fronte al partito», spiega conteso da taccuini e telecamere il solitamente schivo senatore Pd Walter Tocci («una delle ragioni per cui esitavo nel fare questa scelta era l’esposizione mediatica», sospira).
Senatore, Renzi le chiede di non dimettersi: ci ripensa?
«Le dimissioni sono un atto nobile, una volta date rimangono. Le ho già date, sarà l’Aula a decidere se accettarle o respingerle».
Le sue dimissioni sono legate solo al Jobs Act o a un più complessivo malessere dentro al Pd renziano?
«Le mie dimissioni sono legate alla legge delega sul lavoro, che si muove nel solco degli ultimi vent’anni, durante i quali l’asticella dei diritti è stata abbassata. Ma certo si sta aprendo una discussione sul partito: mi hanno fatto molto piacere le parole di Renzi, ha detto che in un grande partito c’è posto per posizioni diverse. Vedremo se sarà così, io ieri (mercoledì, ndr.) non ho sentito questa libertà».
Ma questo cosa significa? Ognuno può votare come vuole?
«Non dico questo, ma prendo come esempio il partito democratico americano, dove i parlamentari votano sempre secondo le proprie convinzioni, e ogni volta devono venire convinti a votare in un modo anziché in un altro».
Come sta cambiando il Pd a trazione renziana? La preoccupa il calo dei tesserati?
«Quello che mi colpisce non è tanto il numero delle tessere, che speriamo aumenterà, ma il fatto che tre milioni di persone che sono venute a votare alle primarie non sono più state consultate. Renzi ha fatto lo stesso errore dei suoi predecessori: ha messo quell’elenco di nomi in un cassetto. Perché non li abbiamo consultati ad esempio su questo tema?».
Lei ha intenzione di uscire dal Pd?
«No, io mi sono dimesso da senatore. Non ho posto il problema della tessera del Pd. E oggi ho molto apprezzato le parole di Renzi anche sul piano personale».

Repubblica 10.10.14
Walter Tocci senatore dem
“Dico grazie a Matteo ma un partito di governo deve accettare il dissenso”
“Mi sono dimesso da senatore, ma mi sento un membro del Pd, soprattutto dopo le parole del segretario”
intervista di Sebastiano Messina


ROMA Tocci, lei ha presentato le sue dimissioni da parlamentare ma Renzi ha appena detto che cercherà di convincerla a ripensarci, perché «la sua intelligenza, la sua passione e la sua competenza sono necessarie a un partito che ha il 41 per cento dei consensi». Ci ripenserà?
«Le sue parole sono state un gesto molto importante, per me. Questo è il Renzi che ci piace. Le devo confessare però che avevo già pensato in un’altra occasione di dimettermi dal Senato».
E quando è successo?
«Questa estate, durante la discussione sulla riforma del bicameralismo. Mi ferirono le parole di Renzi, che diceva: stanno difendendo la loro poltrona».
Perché non lo fece?
«Perché ho una grande ritrosia a stare sotto i riflettori e per me non è facile neanche fare questa intervista: sono tanti anni che non ne rilascio una».
E perché stavolta, invece, ha deciso di firmare la lettera di addio al Senato?
«Intanto perché le cose si accumulano. E poi perché credo che il diritto del lavoro sia oggi la questione più importante, in Italia. Questa legge delega guarda indietro, abbassa l’asticella dei diritti dei lavoratori anziché alzarla. Di fronte alla richiesta della fiducia, mi sono trovato in un conflitto tra responsabilità e coerenza. E ho preso la mia decisione: voto sì, ma mi dimetto».
A qualcuno però la sua è sembrata una mossa furba: con il voto ha evitato di rompere con il partito, con le dimissioni salverà la coscienza ma anche il seggio perché il Parlamento non ha mai accettato dimissioni di un suo membro motivate da dissenso politico… «La mia lettera di dimissioni sarà sottoposta all’aula con una votazione segreta. Mi sembra una scelta molto netta, quella di mettere a rischio il mio mandato parlamentare senza preoccupazioni. Comunque vada, io accetterò qualsiasi verdetto».
Ma se l’aula respingerà le sue dimissioni, lei resterà comunque nel gruppo del Partito democratico?
«Io non mi sono dimesso dal Pd. E comunque da qui a quel giorno faremo tutti le nostre valutazioni. Avremo tempo per pensarci. Ma io oggi mi sento membro del Partito Democratico. Soprattutto dopo quello che ha detto Renzi».
I suoi colleghi Casson, Mineo e Ricchiuti invece non hanno votato la fiducia. Ma se ogni senatore, di fronte al voto di fiducia, decidesse come gli pare, i gruppi parlamentari potrebbero anche scioglierli. O no?
«So che Renzi segue con passione la serie “House of Cards”, e dunque saprà che il presidente degli Stati Uniti va spesso a convincere i parlamentari che hanno opinioni diverse da quelle del partito. Se andiamo verso quel sistema, poi dobbiamo anche accettare un rapporto diverso tra chi governa e chi rappresenta gli elettori».
C’è un piccolo particolare: lì c’è il presidenzialismo, non un regime parlamentare nel quale il governo si regge sul voto delle Camere. Nessun voto del Campidoglio potrà mai destituire Obama. In Italia non è così.
«Ma nell’attuale quadro istituzionale è possibile anche una presa di posizione diversa. Succedeva anche nei vecchi partiti».
I quali poi però prendevano sanzioni severissime, verso chi rompeva la disciplina di partito sul voto di fiducia.
«Mi sembrerebbe assai strano che nel Pd, dove ormai ha vinto l’idea che la vecchia cultura dei partiti italiani sia da archiviare, e io sono d’accordo, poi qualcuno pensasse di salvare, del vecchio modello, proprio la disciplina. Vede, il governo ha chiesto una legge delega che su alcuni punti fondamentali è una delega in bianco, e impedisce al Parlamento di precisare i contenuti della delega. Questo è il contesto e non si può prescinderne».

il Fatto 10.10.14
Guai a chi sgarra
Vietato disobbedire a Renzi: il Pd sarà una caserma
Ricchiut, Casson e Mineo non hanno votato e “sono un problema”
Il vice segretario Guerini: “Non si sta così in una comunità politica
Renzi, la vittoria e la vendetta sulla fronda Pd
di Wanda Marra


“Sono un problema”. Così Matteo Renzi ieri mattina, dopo la segreteria, commentava le gesta dei tre dissidenti (civatiani o giù di lì), che mercoledì notte sono usciti dall’Aula del Senato e non hanno votato la fiducia. Ovvero Corradino Mi-neo, Felice Casson e Lucrezia Ricchiuti. Parole d’elogio, invece, per Walter Tocci, che ha detto sì, annunciando però l’intenzione di dimettersi da Palazzo Madama. Ecco Renzi: “Farò di tutto perché continui a fare il senatore. Ha espresso le sue posizioni ma poi ha accettato la linea del partito. La sua intelligenza, la sua competenza e la sua passione sono necessarie al Pd. Proverò a convincerlo e dirò che le dimissioni sarebbero un errore”.
GIÀ COSÌ la dichiarazione d’intenti del segretario-premier è chiara: ci sono i dissidenti duri e puri che vanno elogiati. Ma soprattutto messi a confronto con quegli altri, quelli che in fondo se se ne vanno è meglio. E se no? Il partito prende provvedimenti? E quali? Una dichiarazione del vice segretario, Lorenzo Guerini scatena il panico e le pronte ribellioni: “Sono fuori dal Pd? No ma non partecipare a un voto di fiducia che politicamente è molto significativo mette in discussione i vincoli di relazione con la comunità politica di appartenenza. Ne discuteremo pacatamente e serenamente”. E allora, che fanno, li cacciano? Nessuna intenzione. Perché cacciarli vorrebbe dire fare dei martiri, dei miti. Non solo. In arrivo c’è un calendario tutt’altro che facile: il Jobs act, che il premier vuole approvare alla Camera entro metà novembre. E poi, lo Sblocca Italia atteso la prossima settimana nell’aula di Montecitorio. Con Pippo Civati sul piede di guerra: “Ci sono dentro delle cose terribili”. Poi c’è l’Italicum è impantanato, senza nessuna calendarizzazione in Senato. Senza contare che adesso si apre tutta la questione manovra. Ma allora, si può tollerare in un partito che ognuno faccia come gli pare? Ovvero, che si possa non votare la fiducia a un governo del Pd? Ovviamente no. “Dobbiamo stabilire delle regole e farle rispettare. In maniera che ognuno sappia cosa si può fare e cosa no”, spiega il Presidente dem, Matteo Orfini. Niente sgarri, insomma. Ed ecco che allora i dissidenti diventano un’occasione per il premier per blindarsi ulteriormente. E per stabilire per regolamento che nessuno può disobbedirgli. Se per caso ce ne fosse bisogno, visto che a uno a uno piega tutti quelli che si mettono sulla sua strada. Il 20 ci sarà una direzione sulla forma partito. Lì l’argomento dissidenza sarà affrontato. Ma le regole saranno decise anche dai gruppi.
PER ORA nessuna espulsione, dunque, ma molta insofferenza. Se Tocci viene considerato “uno che sa come si sta in un partito” (parola di David Ermini, renzianissimo responsabile Giustizia), nei confronti di Mineo i commenti sono malevoli: “Non ha votato la riforma costituzionale, non ha votato il jobs act. Dice di non voler votare la legge elettorale. Forse dovrebbe riflettere lui perché sta nel Pd”. Lui, poi, ammette: “Ha vinto Renzi, il Parlamento non conta più”. E Casson? Vuole fare il sindaco di Venezia, chissà se il premier lo ostacolerà. Poi c’è l’altra minoranza, quella di ascendenza bersaniana e dalemiana, che di fronte alla fiducia aveva annunciato un sì inevitabile in anticipo. Se loro votano e gli altri no, che figura ci fanno? Adesso, Fassina in testa, hanno cominciato a prefigurare un no alla Camera sul jobs act, fiducia o meno. “Se non cambia, dico no”. Il premier ha già fatto sapere che non ha intenzione di rimetterci mano. Peraltro, trattandosi di una delega talmente ampia da essere in bianco, più che a Montecitorio sarà a Palazzo Chigi che si faranno le modifiche sostanziali. E allora, per la minoranza il fronte diventa anche la manifestazione di San Giovanni. In molti andranno in piazza il 25 ottobre. Ospiti graditi? Il segretario della Fiom Emilia-Romagna avverte: “Chi ha votato la fiducia sul Jobs Act non è il benvenuto”. Ora che ha vinto il premier vuole stravincere: nel week end si lavora alla Leopolda, la kermesse che dovrà serrare i ranghi e cercare di recuperare anche i renziani delusi. E poi, soprattutto, c’è l’Europa: con quel 3% apparentemente non sfondabile. Apparentemente. Perché le critiche nei confronti di questo vincolo sono sempre più pressanti. Perché poi se politicamente schiaccia gli avversari, ora è atteso alla prova dei fatti. Economici prima di tutto.

il Fatto 10.10.14
L’ex radicale Roberto Giachetti
“Quei tre dissidenti sono già fuori dal partito”
di Luca De Carolis


“Io al posto di Lorenzo Guerini sarei stato meno vago e molto più netto: chi non ha votato la fiducia si è già messo fuori del Pd”. Il deputato Roberto Giachetti, renziano della prima ora, è perfino più severo del suo vicesegretario con i dissidenti dem del Senato.
Guerini non è stato tenero: “Non partecipare al voto di fiducia mette in discussione i vincoli di partecipazione alla propria comunità politica”.
Io vado oltre. Chi è rimasto fuori dell’aula poteva far cadere il governo, andando contro una linea votata dalla direzione e dal gruppo parlamentare. In una comunità il rispetto delle regole è un discrimine: se le violi ti metti fuori, automaticamente. Serve una decisione formale che ne prenda atto.
Altrimenti?
Altrimenti altro che partito liquido, rischiamo di diventare un partito sciolto.
Walter Tocci ha votato la fiducia e poi si è dimesso.
Un comportamento esemplare, coerente e rispettoso della comunità politica di cui fa parte. E infatti ora il paradosso è che rischiamo di avere lui fuori del partito e gli altri tre dentro. Mi auguro che le dimissioni di Tocci rientrino, e lavorerò perché questo avvenga.
Obiezione: il parlamentare non è sottoposto a vincolo di mandato, quindi può votare secondo coscienza.
Ma io non gli voglio mica vietare di restare in Senato, liberissimi di mantenere la propria carica. Semplicemente, a mio parere, non ci sono più le condizioni perché questi colleghi rimangano nel Pd. E poi ogni gruppo ha le sue regole su chi vota in dissenso.
Insomma, lei invoca espulsioni. Civati poche ore fa ha evocato i Soviet: “Non possiamo volere un partito all’americana e poi immaginare una disciplina sovietica”.
Non è questione di espulsioni o sanzioni di varia natura. E i Soviet non c’entrano proprio nulla, come il centralismo democratico messo in mezzo da altri. A mio avviso, lo ripeto, questi colleghi si sono già chiamati fuori da soli, e devono assumersene la responsabilità politica.
Lei prima accennava ai rischi per il governo. Non è che siete davvero troppo fragili come maggioranza e tutto ricasca su qualche dissidente?
Figuriamoci se io posso avere paura delle urne. Sono sempre stato dell’idea che dovevamo andare a votare, l’ho detto e scritto in ogni modo. No, qui il tema in gioco è un altro: è il rispetto delle regole.

Repubblica 10.10.14
La segreteria contro i ribelli “Si sono messi fuori dal Pd” Renzi: “Nuova fiducia? Forse”
Civati: è il soviet. Il premier: Tocci resti. Bersani: non do coltellate
La Fiom avverte: chi vota la fiducia stia fuori dai nostri cortei
di G. C.


ROMA I dissidenti dem non possono pensare di farla franca. Renzi non è entrato nel merito di espulsioni o altre sanzioni, né lo hanno fatto i vice Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani. Ma all’indomani della tempestosa fiducia sul Jobs Act nel Pd è l’ora della resa dei conti. Un cartellino giallo ci vuole: batte un colpo il segretario-premier.
Dovrebbe abbattersi su Mineo, Casson e Ricchiuti, i tre civatiani che sono usciti dall’aula al momento della fiducia, mentre a Walter Tocci, il senatore che ha detto sì per disciplina di partito ma poi ha dato le dimissioni da Palazzo Madama, chiede di restare: «Ci ripensi, è un errore».
Guerini avverte: «Non votare la fiducia è essere fuori dalla comunità del Pd». Ma la patata bollente è scaricata sull’assemblea dei senatori.
Il premier ha comunque incassato un buon risultato e fa notare che è la seconda migliore fiducia in termini numerici al suo governo: 165 i sì. Non molla la strada intrapresa: «Io sono convinto che questo è il Tourmalet, è una salita difficile, impegnativa. Ma con me c’è la stragrande maggioranza di persone perbene. Questo è un paese fermo da 30 anni». Aggiunge che se Landini, il leader Fiom, vuole occupare le fabbriche per protesta, «io voglio aprirle». E che andrà nelle fabbriche a una a una.
Non esclude la fiducia anche alla Camera: «È un’ipotesi». In tv assicura che non ci sarà aumento dell’Iva e della tassa di successione. Tuttavia la minoranza è in fibrillazione. Non solo Pippo Civati che dice: «No alla disciplina di stampo sovietico» e annuncia: «Non voterò la fiducia se verrà posta alla Camera». Molti dem saranno in piazza con la Cgil a Roma il 25 ottobre. Di certo ci sarà Fassina. Forse Bersani.
L’ex segretario spiega: «La vicenda lavoro non è chiusa ma non si può aprire un vuoto di governo. Non si aspetti da me una coltellata a Renzi. Preferisco prenderla». Quindi una stoccata: «Matteo sputa sul 25% preso alle elezioni ma è con quello che governa». E poi: «La prima riforma è la lotta all’evasione non il Jobs Act». Via Facebook il segretario Fiom emiliano, Bruno Papignani avverte: «Non sfili chi ha votato la fiducia, non è il benvenuto». Comunque da qui alla manifestazione la mappa del dissenso potrebbe cambiare ancora. Il 20 è stata convocata una direzione del Pd proprio sul partito.

Repubblica 10.10.14
Il premier vuole processare i tre dissidenti: “Non voglio precedenti”
Giachetti ha invocato l’espulsione dei senatori ribelli “No all’anarchia”
Il processo si terrà la settimana prossima a palazzo Madama “Il regolamento è chiaro”
di Goffredo De Marchis


ROMA Colpirne tre per educarne 400. «Mercoledì abbiamo avuto la certificazione che la legislatura va avanti e non possiamo permettere a nessuno di frenare il cambiamento». Matteo Renzi ha deciso che un “processo” contro i senatori Pd Corradino Mineo, Felice Casson e Lucrezia Ricchiuti, va fatto. Perchè il messaggio arrivi a tutti i 400 parlamentari democratici. Ovvero, c’è spazio per il dissenso ma non per l’anarchia che frena l’azione dell’esecutivo. Il premier fa capire di voler correre sulla riforma elettorale, sul Jobs Act che arriva ora a Montecitorio, sull’abolizione del Senato e sulle altre riforme che il governo metterà in campo. «Dobbiamo fare qualcosa, decidiamo cosa», dice Renzi ai membri della segreteria riuniti ieri mattina alle 8 a Largo del Nazareno ricordando i passaggi del voto di fiducia sul lavoro. Ma non si limita all’annuncio. Come un vero pm, esamina le fattispecie del dissenso a Palazzo Madama. Assolvendo alcuni e puntando il dito contro altri. L’impressione è che in qualche modo il Partito democratico stia indicando la porta agli oppositori, almeno a quelli che arrivano a mettere in pericolo la vita dell’esecutivo guidato dal premier-segretario.
Nel Pd si allarga dunque un fronte che chiede sanzioni esemplari contro i dissidenti. Non è detto che si arrivi fino al limite massimo, alla pena dell’espulsione, ma sicuramente in queste ore si prepara il terreno per affrontare il problema. Affrontarlo di petto. Contro i dissidenti dell’altro ieri e quelli potenziali di domani. La vittoria sul Jobs Act consente di forzare soprattutto in vista di alcune scadenze decisive: la manifestazione della Cgil il 25 ottobre a Piazza San Giovanni e l’esame della legge di stabilità.
Roberto Giachetti, che chiede l’espulsione dei tre senatori, è solo il più esplicito nella pattuglia renziana. Anche la maggioranza dei componenti della segreteria ha invocato, ieri mattina, punizioni esemplari. Renzi ha svolto così la sua requisitoria: «Il dissenso si è manifestato in tre modi molto diversi tra loro. Il documento critico dei bersaniani legato al voto di fiducia, è un atto politico che rispetto. Walter Tocci si è dimesso da senatore ma ha votato sì alla legge ed è un gesto che gli fa onore. Anzi, proveremo a farlo tornare indietro. Poi ci sono i tre che non hanno votato la fiducia. Una scelta inaccettabile, gravissima, su di loro il mio giudizio è pessimo». Non ha parlato di sanzioni né di espulsioni, il premier. Altri però lo hanno fatto sentendosi “autorizzati” dalle parole durissime del segretario.
Renzi non si esporrà troppo sull’argomento espulsioni. Il pericolo di un paragone con i metodi di Beppe Grillo va assolutamente scansato. Però l’iter “processuale” è già partito. La prossima settimana si riunirà l’assemblea dei senatori Pd e chiederà conto a Mineo, Casson, Ricchiuti. Il regolamento del gruppo parla chiaro: «In caso di assenze ingiustificate» si possono applicare una serie di sanzioni che vanno dal richiamo alla sospensione alla cacciata. La materia finisce nelle mani del capogruppo Luigi Zanda: «Il voto di fiducia caratterizza l’appartenenza a un gruppo, a un partito. Sottolinea una condivisione. Per il momento, mettiamola così: mi aspetto una spiegazione articolata. Lo statuto del gruppo viene dopo».
La piega disciplinare dello scontro interno al Pd è rischio- sa per tutti gli sfidanti. Pippo Civati, capofila della corrente cui appartengono i tre senatori, non arretra: «Alla Camera potremmo votare contro la fiducia sia io sia Cuperlo. Cioè i due avversari di Renzi alle primarie. E ci cacciano dal Pd? Sarebbe incredibile. Non siamo provocatori. Io per esempio ho sempre votato la fiducia a Renzi. Dico che il livello della discussione si sta facendo pericoloso. E i provocatori sono i renziani». L’ex segretario Guglielmo Epifani ricorda che quando Civati non votò la fiducia a Letta non successe nulla. «Così com’è avvenuto in Francia dove 31 deputati socialisti si sono astenuti sul governo Valls», dice riferendosi al governo francese. La rivolta contro le sanzioni potrebbe assumere dimensioni più grandi della minoranza. «Noi non siamo i 5 stelle. Non mandiamo via nessuno — avverte Francesco Boccia —. Il 41 per cento è di tutti. Magari è più di qualcuno che di altri e mi riferisco a Renzi naturalmente. Però non c’è solo lui. Se invece prevalgono l’arroganza e la presunzione, sparisce il Pd». Affiora così il fantasma della scissione, ancora una volta. Stefano Fassina pronostica altri casi Tocci. E un gruppo nutrito di parlamentari Pd si prepara a scendere in piazza con la Cgil. Quindi contro il governo.

il Fatto 10.10.14
Lo spottone
La carica dei 108 alla corte del premier


La società civile, non i poteri forti, ha deciso di mostrare al premier Matteo Renzi, il suo sostegno. E lo ha fatto acquistando un’intera pagina del Corriere della sera. Il quotidiano diretto da quel Ferruccio de Bortoli, che qualche settimana fa, con un editoriale espresse perplessità sull’operato di Renzi e sul patto del Nazareno, con il suo “stantio odore di massoneria”. Ma oggi il Corriere volta pagina, anzi ne vende una a più di cento comuni cittadini: “Noi stiamo con Renzi”, è il titolo. Ma chi sono questi 108 sostenitori di Matteo? Basta cercare qualche nome su Google per scoprire sono cittadini ma non esattamente comuni: c’è ad esempio Alberto Milla, fondatore e vicepresidente della banca Euromobiliare, Anna Cristina du Chene de Vere, presidente della finanziaria Ida e vicepresidente di Publitransport, Gerolamo Caccia Dominioni, ex amministratore delegato Benetton, Claudio Biscaretti di Ruffa, docente universitario di Economia, Vannozza Guicciardini membro del Fai, molti avvocati e chi più ne ha più ne metta. Questa è la società civile renziana. Ma non chiamateli poteri forti.

Corriere 10.10.14
Manager e imprenditori per Matteo. «Non siamo una lobby»
Ghetti, promotore dell’appello: macché partito. L’ex ad di Benetton: ho scoperto il premier grazie a mio figlio
di Francesco Alberti


Sono 108 firme in fondo a una pagina a pagamento comparsa nell’edizione di ieri di questo giornale. In realtà sarebbero 110, «ma due amici, pur contribuendo alla colletta, hanno preferito non pubblicare i loro nomi». Il titolo dice tutto: «Noi sosteniamo Matteo Renzi». È un appello ad appoggiare l’azione del premier e «la sua volontà di non mollare». Una professione di fede in un governo — scrivono, rischiando un eccesso di enfasi — «creato con la decisione e il cipiglio di una volontà giovanile che non cerca sconti né per sé, né per le scelte da affrontare». Si definiscono «semplici italiani» e forse pensavano di passare inosservati. Invece nell’arco di poche ore su quelle 108 firme si sono concentrate curiosità e qualche dietrologia. C’è chi li ha ribattezzati «vip fan» scoprendo tra loro manager di livello, notai, consulenti finanziari, immobiliaristi. Ci sono gli ex ad di Benetton e Autogrill. E gente con il doppio cognome, indizio di nobiltà. Abbastanza per scomodare l’immancabile binomio «poteri forti e salotti buoni».
Marco Ghetti, milanese, consulente aziendale con esperienze negli Usa e all’Olivetti, è il promotore della pagina: «Qui non ci sono lobby o amici degli amici, per non parlare poi, come ho sentito qualcuno dire, di un partito in embrione. C’è solo un gruppo di persone che, senza alcun fine personale, se non quello di far sentire la propria voce, ha voluto manifestare pubblicamente il proprio sostegno all’azione del premier». Crociata davvero disinteressata? Perentorio: «Non mi risulta che nessuno della lista sia amico di Renzi…». Gerolamo Caccia Dominioni, ex ad di Benetton, conferma: «Il premier? L’ho scoperto grazie a mio figlio diciottenne e al suo entusiasmo. In un’Italia sempre pronta a criticare, dovrebbero essere più frequenti atti di generosità come questo appello». Altri nomi di livello: Alberto de Vecchi, ex direttore di Autogrill; Antonio Perricone, ad di Amber Capital; Alberto Milla, fondatore di Euromobiliare; Clarice Pecori Giraldi, gran regista della casa d’aste Christie’s. «Invece tra le adesioni che ho raccolto io — afferma l’ingegnere Paolo D’Anselmi — ci sono docenti in pensione, dentisti, un segretario comunale: semplici cittadini…». Da non confondere, puntualizza Ghetti, con «cittadini semplici».

Arci Report 9.10.14
di Piergiovanni Alleva

giurista, esperto di Diritto del Lavoro
qui

il Fatto 10.10.14
Matteo Renzi dixit: risolverò tre casi (Terni con Taranto e Termini). Mediazione bocciata
La prima “T” è andata: a Terni licenziati 537 operai
di Salvatore Cannavò


Il Jobs Act non è ancora legge dello Stato eppure un’azienda straniera, come la tedesca ThyssenKrupp, può permettersi di inviare 537 lettere di licenziamento nello stabilimento siderurgico di Terni. Segno evidente che in Italia la facoltà di licenziare è viva e vegeta. E mentre gli operai hanno iniziato a bloccare la stazione e a presidiare la fabbrica, la prima delle tre “T” indicate da Matteo Renzi come le principali emergenze industriali – Terni, Taranto e Termini – è saltata. La vertenza delle Acciaierie Speciali di Terni, storico stabilimento siderurgico, polmone produttivo della città che dà lavoro a circa 2800 persone, si trascinava da tempo. I tedeschi che hanno acquisito gli impianti puntano a ridurre drasticamente i costi di produzione in Italia con l’obiettivo iniziale di risparmiare 100 milioni di euro.
ALL’ULTIMO MIGLIO, però, il tavolo di confronto istituito presso il ministero dello Sviluppo economico alla presenza della ministra Federica Guidi e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, è saltato in aria. La mediazione avanzata dall’esecutivo e su cui Delrio ha “messo la faccia” del governo, è stata capace di trovare contrari sia l’azienda che i sindacati. E così l’Ast ha fatto partire le lettere di mobilità e la disdetta degli accordi integrativi dal 1 ottobre. “Sono molto preoccupato – ha detto Matteo Renzi – ci sono tre mesi davanti di discussione, cercheremo la ragionevolezza”.
Al Fatto il braccio destro di Renzi, Graziano Delrio spiega che il governo “era riuscito a portare maggiori investimenti per 110 milioni e a ridurre l’impatto della mobilità”. Invece dei 550 esuberi calcolati dalla Thyssen, il governo ha proposto 290 eccedenze da gestire con procedure di mobilità volontaria e incentivata. “Abbiamo trovato un’azienda molto rigida ma anche i sindacati Delrio – non hanno capito che la nostra proposta era il ‘male minore’ e avrebbe consentito di affrontare meglio il futuro”.
SUL FRONTE SINDACALE, però, i ministri all’opera sono apparsi come “apprendisti stregoni”. A Delrio, in particolare, si rimprovera di essere arrivato solo alla fine. Il sindacato, che su questa vertenza appare unito, chiede invece l’utilizzo dei contratti di solidarietà, come avvenuto nella trattativa, esaltata spesso da Matteo Renzi, dell’Electrolux. “Con i contratti di solidarietà – spiega Rosario Rappa della Fiom, “si sarebbero avuti risparmi analoghi a quelli richiesti senza toccare l’occupazione. Il governo non è riuscito ad avanzare una proposta di politica industriale in grado di spostare l’azienda”. Anche Delrio ammette le rigidità della Thyssen e alla domanda se Renzi non avesse dovuto interloquire su questo punto con Angela Merkel, come chiede Antonio Tajani di Forza Italia, confessa che di tentativi ne sono stati fatti molti ma che la “rigidità” non è stata superata. La “durezza” Thyssen, del resto, si è vista nella rapidità con cui sono state inviate le lettere e con cui si è chiesta la riduzione del 20 per cento dei costi prodotti dall’indotto.
CHI RIMPROVERA l’incapacità dell’esecutivo è Susanna Ca-musso secondo la quale “il governo è stato a guardare”. Anche Annamaria Furlan, al primo giorno da segretario Cisl, definisce quella mediazione “inadeguata e insoddisfacente”.
Gli operai di Terni, a caldo, si sono riuniti in assemblea e all’unanimità hanno deciso di bocciare il piano del governo. Allo stesso tempo sono cominciati i presìdi davanti ai cancelli con l’obiettivo, implicito, di bloccare l’entrata e l’uscita delle merci. I primi cortei, nel pomeriggio, si sono diretti al Comune e, significativamente, sotto la sede del Pd per poi spostarsi alla stazione dove i lavoratori hanno occupato i binari. Martedì o mercoledì Cgil, Cisl e Uil proclameranno lo sciopero cittadino. Lo stesso che un anno fa aveva visto scendere in piazza circa ventimila persone e che era finito con cariche della polizia in cui era stato colpito anche il sindaco. Fiom, Fim e Uilm, invece, hanno già promosso una manifestazione della siderurgia a Roma che si terrà nei prossimi giorni.
La “viva preoccupazione” per il fallimento della trattativa è stata espressa dai vescovi umbri che in una nota hanno rivolto “un accorato appello alle parti in causa, ThyssenKrupp, governo, sindacati, istituzioni affinché riprendano immediatamente il dialogo e le trattative con toni sereni e aperti alla comprensione reciproca per trovare una soluzione equa e dignitosa per tutti, specie per i più deboli della vertenza in atto”.

Corriere 10.10.14
Battaglia sulle norme antipaesaggio
Carandini: dare il via ai cantieri con il silenzio assenso è un rischio per l’ambiente
di Paolo Conti


«Se questo governo vuole direttamente abolire la tutela del nostro paesaggio e del nostro patrimonio, che lo dica apertamente… Non c’è più spazio per una semplice preoccupazione, è ormai allarme rosso per il paesaggio e per il nostro patrimonio urbanistico e monumentale». Andrea Carandini, presidente del Fondo Ambiente Italia ed ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, ha appena analizzato il disegno di legge Madia sulla riforma della Pubblica amministrazione in discussione al Senato.
L’allarme rosso di cui parla Carandini (che non esclude un appello al presidente Napolitano, suo e di altri intellettuali impegnati nell’universo della tutela, se le cose non cambieranno) riguarda l’articolo 3 comma 2 e 3 sotto il titolo «Silenzio assenso tra amministrazioni». Ovvero quel meccanismo per cui se un’amministrazione locale chiede un parere a un’altra amministrazione per un progetto edilizio o urbanistico, dopo 60 giorni può considerare un eventuale silenzio come un assenso, quindi un via libera (ed ecco il passaggio che intimorisce Carandini e molti altri) «anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni statali o di altre amministrazioni pubbliche». La prima parte riguarda direttamente gli uffici delle soprintendenze e i loro compiti istituzionali di tutela.
Carandini ritiene «gravissima e senza precedenti» questa formulazione: «So che sarà possibile presentare emendamenti fino al 17 ottobre e mi auguro che si intervenga senza indugio. Voglio essere chiaro. Il governo fa bene a voler snellire le procedure, a “sbloccare” questo Paese. Ma se un iter prevede un parere sul paesaggio, su un bene urbanistico o architettonico, la macchina del ministero dei Beni culturali deve essere in grado di esprimerlo per evitare devastazioni». E allora, Carandini? Non è uno sprone a darsi da fare? «Le soprintendenze sono state svuotate di personale e mezzi. Sono state volutamente prosciugate e azzoppate. Negli uffici delle soprintendenze milanesi, sempre più impoverite, è stato calcolato che ogni funzionario avrebbe 3-4 minuti per esaminare le pratiche contenenti un parere, se si dovesse osservare il termine di legge. Ma se si azzoppa un’amministrazione non le si può poi chiedere di correre. Vedo, insomma, l’intenzione di togliere di mezzo ciò che viene visto come un intralcio, appunto la tutela e il sistema delle soprintendenze, mentre parliamo invece di un sistema che assicura l’applicazione dell’articolo 9 della Costituzione, cioè la tutela del paesaggio e del nostro immenso patrimonio storico-artistico». Proprio citando l’articolo 9, c’è chi sta progettando un appello al Quirinale per evitare che il silenzio assenso metta i Comuni nelle condizioni di costruire anche in aree vincolate, per non parlare dei centri storici.
Positivo, invece, il parere di Carandini sull’articolo 17 dello sblocca Italia che introduce misure fiscali che favoriscono il recupero del patrimonio edilizio esistente, disincentivando il consumo di suolo: «Il provvedimento appare positivo, ma andrebbe inserito in un intervento più generale, che vincoli lo sviluppo alla pianificazione dell’uso del territorio che manca da due generazioni».

La Stampa 10.10.14
Un nuovo sottomarino per blindare il Mediterraneo
La Marina italiana vara il “Venuti” a La Spezia. Si unirà alle missioni antipirateria e di soccorso
di Teodoro Chiarelli

qui

unioni gay
La Stampa 10.10.14
“Zagrebelsky ha ragione: serve una legge. Ma i sindaci hanno fatto bene a forzare”
Il presidente Pd Orfini: decida il Parlamento, aperti a ogni alleanza
di Francesca Schianchi


Se fosse un sindaco, si comporterebbe come i «ribelli» che non obbediscono alla circolare del ministro Alfano. Ma il presidente del Pd, Matteo Orfini, dà ragione a Vladimiro Zagrebelsky quando - ieri dalle pagine de La Stampa - ricorda al Parlamento la necessità di una legge che ancora non è arrivata: «Ha ragione, c’è l’esigenza di farla al più presto».
Lei con chi sta tra Alfano e i sindaci «ribelli»?
«Io credo che i sindaci abbiano fatto bene a reagire a quella che è apparsa come una scelta ideologica più che un atto dovuto. Una questione così seria non si affronta con una circolare ai prefetti: farlo significa strumentalizzarla, cosa che un ministro dell’Interno non dovrebbe mai fare».
Secondo Zagrebelsky invece il ribellismo dei sindaci è frutto, sintomo e causa del disfacimento delle istituzioni…
«Mi sembra un’interpretazione burocratica dell’atto burocratico di Alfano. A volte chi fa il sindaco ha il dovere di rappresentare cittadini che si vedono negare un diritto. Quando una questione politica viene affrontata come ha fatto Alfano, anche un gesto politico forte come quello dei sindaci penso sia utile».
La soluzione non sarebbe arrivare a una legge?
«C’è l’esigenza di farla al più presto. Anche noi del Pd possiamo e dobbiamo fare di più: abbiamo il dovere di aprire una discussione su questi temi e di essere protagonisti di un’iniziativa parlamentare con la nostra posizione».
Ma qual è la vostra posizione?
«Non abbiamo mai fatto finora una discussione sull’argomento, e adesso è bene farla. C’erano le proposte dei vari candidati alle primarie, ma la discussione per arrivare a un punto di caduta comune non l’abbiamo ancora fatta».
Un punto di caduta potrebbero essere le civil partnership alla tedesca di cui ha spesso parlato Renzi?
«Sull’esigenza di una legge sulle unioni civili tutto il Pd è unito. Io spero si possa assumere anche una posizione più avanzata. È il momento di avere il coraggio che Renzi ha dimostrato su questioni aperte da anni, come l’adesione al Pse».
Quanto più avanzata?
«Io personalmente sono favorevole ai matrimoni egualitari. Tra dieci anni immagino un mondo in cui sarà la norma il matrimonio per tutti, e mi piacerebbe che il mio partito aiutasse ad accelerare questo processo. Dopodiché, almeno una legge sulle unioni civili penso sia il dato minimo di partenza».
Renzi a giugno aveva parlato di una legge da discutere dopo l’estate. Siamo a ottobre e ancora non se ne sente parlare…
«Ma io credo sarebbe giusta un’iniziativa parlamentare, non c’è bisogno di un intervento legislativo governativo. Semmai il tema è come assumere l’urgenza di quell’annuncio nel calendario parlamentare».
Su questo tema sarà possibile la libertà di coscienza?
«Io credo che la questione dei diritti civili delle persone non possa essere considerata una questione di coscienza. Anche se, certo, stiamo quotidianamente dimostrando capacità persino eccessive di garantire tutte le forme di dissenso…».
E con il resto della vostra maggioranza, con l’Ncd di Alfano, è possibile una posizione comune?
«Ho sentito dire ad Alfano in una trasmissione tv che esiste l’esigenza di una legge sulle unioni civili, mi pare che anche lui sia d’accordo su questo».
Altrimenti potete fare maggioranza su questo tema con Forza Italia: la Carfagna propone un patto del Nazareno sui diritti civili…
«Il luogo migliore per fare patti su questi temi è il Parlamento. E in una discussione parlamentare le maggioranze si trovano in Aula, senza vincoli preesistenti».

Repubblica 10.10.14
Walter Brandmüller
Parla il cardinale che ha confutato in un libro la tesi di Kasper sull’ammissione al sacramento
“Divorziati contro Gesù a loro niente comunione sì agli omosessuali ma solo se sono casti”
di Paolo Rodari


“Sono l’1 per cento dei coniugi cattolici: qualsiasi tentativo di aiutarli deve reggersi sulla verità della fede Sui gay vale sempre la classica formula: no al peccato, braccia aperte alla persona”

CITTÀ DEL VATICANO Mentre il Sinodo sulla famiglia affronta in pieno la questione dei divorziati risposati, è un cardinale della curia romana a ribadire il suo «no» alla comunione per gli stessi divorziati perché, dice, «non saprei come armonizzare quel “si” della comunione con il “no” della vita». Così il cardinale Walter Brandmüller, 85 anni, già presidente del Pontificio comitato di Scienze storiche, prelato dalla lunga esperienza in curia romana.
Eminenza, il cardinale Walter Kasper ha detto che la prassi della non concessione ai divorziati risposati della comunione può essere in alcuni casi cambiata. Lo ritiene possibile anche lei?
«Sappiamo da tempo che le ferite della famiglia nella società di oggi sono molteplici e gravi. Proprio per questo non conviene concentrarsi soltanto sul problema dei divorziati civilmente risposati. In fine dei conti la loro cifra è proporzionalmente molto esigua. Si parla di circa l’1 per cento dei coniugi cattolici praticanti. Ciononostante, proprio quelle persone sono bisognose dell’aiuto pastorale. Questo, però, non può consistere nell’ammissione al sacramento dell’eucarestia, perché la loro scelta di vita sta in continuo contrasto con la parola di Gesù, quel Gesù con cui la comunione è il più intimo incontro possibile. Non saprei come armonizzare quel “si” della comunione con il “no” della vita. Inoltre ritengo che qualsiasi tentativo di aiutare persone in quella dolorosa situazione deve reggersi sulla verità della fede. Ogni autentica azione pastorale dev’essere dottrina, verità vissuta ».
Lei insieme ad altri cardinali ha firmato un libro in cui confuta le tesi di Kasper. Perché avete voluto darlo alle stampe proprio pochi giorni prima l’apertura del Sinodo?
«Il nostro libro non è altro che un contributo al dibattito iniziato da Kasper con la pubblicazione del suo intervento nel concistoro, che evidentemente era pensata da tempo. Rispondere a ciò, mi pare, non è illecito».
Nel primo giorno del Sinodo una famiglia ha parlato di come una coppia di loro amici abbia dovuto confrontarsi con il figlio omosessuale che chiedeva di poter andare in vacanza col suo compagno.
Deve cambiare lo sguardo della Chiesa sulle persone omosessuali?
«Le famiglie nel mondo odierno devono affrontare delle sfide finora non vissute. Nei venticinque anni in cui, parallelamente alla mia attività universitari, ho fatto il parroco in campagna, con tanta gente ho condiviso gioie e dolori, anche sciagure, naufragi e conflitti familiari. So bene, quindi, di che cosa stiamo parlando. Ho vissuto pure il caso in parola: come affrontare l’omosessualità del figlio? Permettergli le vacanze insieme al suo compagno? Ma lo stesso problema si presenta se si tratta di una ragazza. In questi casi dipende molto dall’età dei giovani e dai loro rapporti con i genitori e dalla loro sensibilità. Quanto alle persone omosessuali ritengo sia sempre valido ciò che leggiamo nel catechismo della Chiesa Cattolica: “Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza… Le persone omosessuali sono chiamate alla castità come noi tutti…”. Del resto vale sempre la classica formula: no al peccato, braccia aperte alla persona».
Molte delle spinte nella Chiesa al cambiamento vengono da esponenti della Chiesa di lingua tedesca forse anche perché quotidianamente chiamati al confronto con la cultura protestante. Non ritiene che la tradizione protestante abbia molto da dire al cattolicesimo?
«Noi tedeschi siamo in un certo modo condizionati dalla scissione dei nostri popoli seguita alla riforma protestante. È vero che ci fu ed è sempre presente la tentazione della perdita del profilo cattolico per non offendere o andare incontro ai fratelli separati. L’ecumenismo però può assumere pure forme sbagliate, come abbiamo visto. Quanto alle aperture dei protestanti va detto che esse non hanno per niente potuto fermare, ma piuttosto hanno accelerato, l’uscita in massa dalle loro stesse Chiese. Seguire, dunque, le loro orme? Inoltre: le verità di fede non sono negoziabili».

La Stampa 10.10.14
Italicum fermo al Senato. Pd e Fi divisi dal ballottaggio
Il premier vorrebbe che fosse tra i primi due partiti, non tra le coalizioni
di Ugo Magri


Delle riforme rimaste a metà, l’«Italicum» è il caso più misterioso. Quasi nessuno sa spiegare come mai la riforma elettorale resti chiusa in un cassetto. Renzi aveva fatto fuoco e fiamme per approvarla alla Camera entro marzo. Sembrava che non ci fosse un minuto da perdere. Invece poi, messo il timbro di Montecitorio, da sei mesi l’«Italicum» giace «spiaggiato» a Palazzo Madama: immagine cruda del «Mattinale», bollettino web ispirato da Brunetta.
L’esame in seconda lettura non è nemmeno incominciato. Tantomeno è stata fissata una data. Però sarebbe ingiusto prendersela con Anna Finocchiaro, che presiede la Commissione incaricata: mille volte è stata sul punto di iscrivere la riforma all’ordine dei lavori, ma l’hanno sempre pregata di attendere. Ci sono problemi lassù, nelle altissime sfere dove solo in pochi hanno diritto di accesso: Renzi, la Boschi, Berlusconi, Lotti, Verdini, Gianni Letta... Tutti gli altri possono solo intuire che cosa sta accadendo. E pare che causa dei ritardi siano certe modifiche da apportare all’«Italicum». Anzitutto sul famoso premio di maggioranza: nel testo attuale scatta per chi supera il 37 per cento, altrimenti si va al ballottaggio. Renzi vuole portare la soglia al 40 per cento, rendendo il ballottaggio molto probabile. E poi insiste perché il duello finale abbia luogo non tra due coalizioni ma tra i due partiti meglio piazzati.
La cosa cambia parecchio sebbene Silvio, il quale su questi temi poco si applica, sulle prime non abbia colto la differenza. Tanto che nel loro ultimo incontro aveva dato via libera a Renzi. «Mi sta bene un ballottaggio tra i due maggiori partiti», aveva detto distratto. «Un momento», l’aveva stoppato Verdini, «questa cosa non ci conviene, perché Forza Italia rischia di arrivare terza dietro Grillo, dunque di essere esclusa dai ballottaggi». Non solo: se ogni partito corresse per conto suo, quei furboni di Ncd sarebbero tentati di scegliere da che parte stare solo all’ultimo momento, idem Lega e Fratelli d’Italia, un po’ come fanno i piccoli partiti in Francia dove vige un sistema analogo. Meglio obbligarli a schierarsi fin dall’inizio, tramite un ballottaggio di coalizione.
Insomma, c’è questo primo nodo da sciogliere. L’altro riguarda il relatore della legge in Senato. La Boschi vedrebbe bene Doris Lo Moro, di cui molto si fida, il resto del Pd un po’ meno. I forzisti pretendono un relatore loro, altrimenti che accordo sarebbe? Ma pure Ncd rivendica quel ruolo. Cosicché Renzi deve scegliere, come segnala Quagliariello, tra patto del Nazareno e patto di maggioranza. Il premier fa sapere che deciderà quanto prima.

Corriere 10.10.14
Se si toglie la dignità ai dipendenti pubblici
La pubblica amministrazione è un insieme di servizi per i cittadini, specie i più deboli: dipingerla come un covo di ladri è sbagliato. e pericoloso
di Oberdan Forlenza

Consigliere di Stato, Segretario generale della Giustizia Amministrativa

Caro direttore, la pubblica amministrazione sta morendo.
E ne pagheranno le conseguenze i deboli, i privi di tutela, in una parola coloro che non hanno santi in Paradiso.
Perché l’amministrazione non è una dispensatrice di stipendi ai suoi inutili dipendenti, ma un insieme di funzioni e servizi per i cittadini, e soprattutto per coloro che non possono permettersi di rivolgersi o di comprare i servizi altrove.
Basta, quindi, con una rappresentazione della realtà negata dai numeri, e dunque sostanzialmente falsa.
A parità di popolazione, la Gran Bretagna ha oltre 5 milioni di dipendenti pubblici, l’Italia poco sopra i tre. I nostri dipendenti risultano i più anziani in Europa (oltre il 50% ha più di 50 anni), e la media è alta perché non vi sono nuovi assunti ai quali i già occupati possano trasmettere competenze e buone prassi — in una parola insegnare il mestiere.
L’amministrazione centrale dello Stato è al collasso e sempre più spesso si fonda sul senso di responsabilità di singoli. Nei ministeri vi è stato un progressivo prosciugamento: i ministeriali sono circa 160 mila (erano 274 mila nel 2000), e oggi scarseggiano il personale e le competenze tecniche indispensabili, i mezzi e le risorse finanziarie.
Al contempo, è crollata la spesa per investimenti, che nel 2013 era pari, per l’intero settore pubblico, al 2,7% del Prodotto interno lordo.
Stiamo distruggendo l’amministrazione pubblica. Forse non è un disegno consapevole, certo non è un bene. Non per i cittadini e per le imprese, che non ricevono più servizi adeguati o almeno decenti (meno sanità, meno sicurezza, meno gestione infrastrutturale).
Non è un bene per i giovani, perché non si assume, mentre la disoccupazione giovanile — con laurea e senza — aumenta.
I cittadini reclamano più sicurezza, e mancano almeno 20 mila carabinieri e poliziotti. È indispensabile la lotta all’evasione, e mancano i finanzieri. Siamo il Paese con il più grande patrimonio artistico — una grande risorsa anche economica — e sono venti anni che non si assumono storici dell’arte.
Negli uffici pubblici mancano ingegneri, chimici, biologi, medici, infermieri; mancano insegnanti che diano con serenità ad altri la formazione necessaria.
Al tempo stesso i giovani sono disoccupati, e quella minoranza che nonostante tutto trova lavoro, spesso non adeguato al titolo di studio, ha dovuto sottostare a pressioni e ricatti. Vi è il rischio tangibile di diseducare all’etica del concorso, al principio che negli uffici pubblici si accede per merito e non per raccomandazione.
Occorre cambiare mentalità e tendenza, rivitalizzare l’amministrazione senza negare l’esigenza di razionalizzare, di qualificare, di eliminare inutili complessità burocratiche, senza nascondere le negatività esistenti.
Occorre dire basta al messaggio che tutto ciò che è pubblico è inutile e negativo.
Occorre restituire la dignità.
Basta con i dipendenti pubblici rappresentati, nel migliore dei casi come scansafatiche, nel peggiore come ladri. Perché non è così, e la mortificazione continua non aiuta.
Alla politica delle assunzioni dettata solo dal puro contenimento della spesa deve sostituirsi una seria programmazione delle esigenze di una amministrazione moderna e tecnicamente qualificata. Concorsi, non assunzioni per raccomandazione. Impiego stabile e qualificato, non precariato intellettuale. Selezione della dirigenza con criteri concorsuali oggettivi e di merito, non come premio di fedeltà servili.
Serve anche un’amministrazione professionale e rispettata perché il Paese possa uscire dalla sua crisi.

il Fatto 10.10.14
La Corte: Riina, Bagarella e Mancino siete fuori
Napolitano accontentato. Il 28 ottobre al Colle non ci saranno gli imputati e le parti civili. Ammessi solo gli avvocati
Il docente Paolo Ferrua: “Così il processo può essere annullato”
intervista di Sandra Amurri


La Corte d’assise di Palermo ha deciso che gli imputati Totò Riina, Leoluca Bagarella – in videoconferenza – e Nicola Mancino non potranno presenziare all’audizione del capo dello Stato. Nessun rischio di nullità del processo, assicura il presidente Montalto in quanto sono state tutelate le prerogative del capo dello Stato come prevede la Costituzione e la Corte dei diritti dell’uomo. È proprio così? Lo chiediamo a Paolo Ferrua, docente di Diritto procedura penale nell’Università di Torino, uno dei massimi esperti del “giusto processo”, autore del libro omonimo: “Regola generale è che le norme del Codice di procedura penale vadano interpretate sin dove è possibile in modo conforme alla Costituzione e alla Convenzione europea. Tuttavia ove vi fosse un conflitto non sanabile fra il codice e la Costituzione o la Convenzione, in via interpretativa il giudice non può disapplicare le disposizioni del codice, ma deve sollevare questioni di legittimità costituzionale”.
Quali sono queste norme?
Sul piano costituzionale fondamentale è il diritto di difesa tutelato dagli articoli 24 e 111 e protetto dall’art. 6 della Convenzione. Non sono previste eccezioni per processi di criminalità organizzata, né in rapporto a prerogative del presidente della Repubblica. La Costituzione sul punto tace, non prende in considerazione l’ipotesi che un capo di Stato possa testimoniare.
Saranno presenti i loro avvocati. Basta per salvare il diritto di difesa?
Alla testimonianza del presidente, prevista dall’art. 205, è ragionevole applicare in via analogica l’art. 502 relativo all’esame a domicilio dei testimoni. Questo articolo stabilisce che l’esame si svolge nelle forme previste per il dibattimento, esclusa la presenza del pubblico. Quanto all’imputato l’art. 502 afferma che è rappresentato dal difensore. Ciò significa che non è prevista la sua partecipazione essendo il suo interesse tutelato dal difensore. Tuttavia il secondo comma dello stesso art. aggiunge che “il giudice quando ne è fatta richiesta ammette l’intervento dell’imputato”. Se si intende “ammettere” come “deve ammettere” l’imputato quando lo chieda, deve essere ammesso a presenziare alla testimonianza, fermo restando che non può rivolgere domande lui stesso al teste. Quanto alle modalità di partecipazione degli imputati detenuti ritengo sia applicabile se non direttamente, perlomeno in via analogica, l’art. 146 bis che prevede la partecipazione telematica.
Di fatto Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra – seppure su
uno schermo –, sarebbe entrato al Quirinale.
Capisco, ma Riina sarà pure il criminale peggiore di questo mondo, però nel processo è imputato e per la Costituzione deve esercitare i suoi diritti. La mafiosità non è un virus che si trasmette per via telematica, non c’è pericolo di contagio. Come può, la sua presenza a distanza, mettere in pericolo le sacrosante garanzie del presidente? Ciò che mi fa paura è che così si crei una eccezione al diritto di difesa.
Però l’imputato può partecipare in via telematica solo ai dibattimenti in aula.
È vero che l’art. 146 bis fa riferimento diretto ad attività svolte in aula di udienza, ma questo non impedisce che si applichi in via analogica. L’art. 146 bis rappresenta già una attenuazione del diritto di difesa che idealmente esigerebbe la partecipazione reale dell’imputato che lo chieda. L’art. 146 bis costituisce un livello minimo di tutela sotto il quale non si dovrebbe scendere per non minare il diritto di difesa.
La decisione del Tribunale può inficiare il proseguimento del processo?
Potrebbe certamente sollevare problemi di lesione del diritto di difesa che non può cedere di fronte e prerogative presidenziali che non siano espressamente previste dalla Costituzione o dalla Convenzione europea. Se Riina o Mancino venissero condannati anche sulla base della testimonianza del presidente il processo sarebbe a rischio.
I legali di Mancino hanno fatto opposizione. La decisione è appellabile?
No. Il processo va avanti e la Corte risponderà all’eccezione in sede di emanazione della sentenza.

Repubblica 10.10.14
Il giurista Renzo Orlandi
“Un rischio escludere gli imputati ma i loro avvocati faranno domande”
Potranno porre interrogativi non solo sulla lettera di D’Ambrosio ma anche su questioni connesse
intervista di Vladimiro Polchi


ROMA «È un caso inconsueto, a rischio nullità ». Renzo Orlandi, docente di diritto processuale penale a Bologna, prova a districarsi nel complicato caso dell’udienza al Quirinale.
Cosa prevede il codice di procedura penale?
«Prevede che avvenga nella sede istituzionale. Diversamente però dalle altre cariche dello Stato, che possono anche essere obbligate a comparire in udienza, il presidente della Repubblica deve necessariamente essere esaminato nella sua sede. Questo lascia intendere che le modalità dell’esame vanno concordate con lui».
Per i pm c’è il rischio nullità del processo, perché gli imputati non potranno intervenire.
«Il problema si pone. L’atto che si sta per compiere è parte del dibattimento e l’imputato ha diritto di partecipare all’intera attività dibattimentale. È vero che qui la procedura seguita è quella dell’udienza in camera di consiglio, vale a dire in presenza dei difensori e in assenza di pubblico. In tali casi, la presenza dell’imputato è prevista su sua esplicita richiesta».
L’assenza degli imputati si giustifica allora con le speciali guarentigie previste per il Quirinale?
«Sì, siamo di fronte a una compressione del diritto di difesa per ragioni legate alla tutela della funzione presidenziale e del prestigio della carica. Ad attenuarne la gravità, va detto che nel nostro ordinamento l’imputato non può esaminare direttamente il testimone. La sua presenza è insomma taciturna».
Gli avvocati degli imputati potranno porre domande a Napolitano?
«Certo, anzi saranno loro, oltre al pm, a condurre l’esame».
Napolitano potrà essere sentito solo relativamente alla lettera inviata dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio?
«Il tema della prova testimoniale è delimitato in anticipo rispetto al dibattimento, quando le parti depositano le liste delle persone da esaminare, indicando “le circostanze su cui deve vertere l’esame”. Si giustificano domande dirette a chiarire quelle circostanze, ma anche altre che abbiano una stretta connessione logica. Sulla congruenza delle domande veglia il presidente della Corte di Assise: a lui è affidato il compito di assicurare che l’acquisizione della prova avvenga col rispetto della funzione del teste esaminato».

Corriere 10.10.14
I paradossi dell’ex ministro escluso assieme ai capimafia
di Giovanni Bianconi


È pieno di paradossi il processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi del 1992-93, come forse è inevitabile che accada quando alla sbarra figurano uno accanto all’altro boss pluriergastolani, politici ed ex ministri, alti ufficiali dell’Arma di carabinieri. L’ultimo s’è palesato ieri, subito dopo la lettura dell’ordinanza con cui la Corte d’assise ha escluso la presenza degli imputati al Quirinale per la deposizione del presidente della Repubblica. Una immediata eccezione di nullità è stata sollevata non dai difensori di Riina e Bagarella (che prevedibilmente lo faranno in seguito), ma dall’avvocato di Nicola Mancino. Anche l’ex ministro, accusato di falsa testimonianza, voleva assistere all’udienza in cui verrà ascoltato Giorgio Napolitano, ma i giudici hanno escluso lui come i boss; e del resto non potevano fare distinzioni tra l’uno e gli altri: ammettere l’ex ministro avrebbe necessariamente aperto le porte del Quirinale, sia pure in videoconferenza, anche ai capimafia detenuti.
Ogni imputato ha diritto di difendersi come crede, compreso Mancino che considera inesistente il reato contestatogli e perciò si sente «ospite incomprensibile» di questo processo. Il paradosso è che certamente non era sua intenzione mettere in difficoltà il presidente della Repubblica, ma prima con l’istanza di partecipazione e adesso con la protesta seguita alla decisione della Corte ha rischiato di farlo, e di continuare a farlo. Del resto è stato lui ad aprire il «capitolo Quirinale» dell’indagine e del dibattimento con le sue insistenti telefonate al consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, sfociate nella richiesta d’intervento del presidente della Repubblica alla Procura generale della Cassazione a inchiesta in corso, già scandagliata dai giudici nelle precedenti udienze; poi con le intercettazioni casuali e «indirette» dei suoi colloqui con il capo dello Stato, foriere del conflitto tra poteri davanti alla Corte costituzionale che ha ordinato la distruzione di quelle registrazioni; fino alla lettera di D’Ambrosio al presidente della Repubblica scritta nel pieno delle roventi polemiche seguite alla pubblicazione dei colloqui tra lui e Mancino, per annunciare le dimissioni prontamente respinte da Napolitano che dopo la morte del consigliere rese pubblica la missiva, divenuta oggetto della deposizione che dovrà rendere. Alla quale Mancino non potrà assistere, motivo per cui eccepirà la nullità della testimonianza. E magari, su quella base, di una eventuale sentenza a lui sfavorevole.

Repubblica 10.10.14
L’Ncd insorge contro l’autoriciclaggio
La commissione Finanze della Camera restringe i casi in cui il nuovo reato non verrà punito. Esultano Padoan, Orlando e i magistrati ma gli alfaniani battono i pugni: “Accordi non rispettati”. E il loro no può far saltare la legge
di Liana Milella


ROMA Non c’è pace per l’autoriciclaggio. Prima erano contro i magistrati. Poi hanno litigato, a più riprese, Padoan e Orlando. Adesso è la volta degli alfaniani. Giusto nel giorno in cui, dopo mesi di estenuanti trattative, la commissione Finanze della Camera licenzia il testo della voluntary disclosure, il rientro dei capitali con pena cancellata (autoriciclaggio compreso) ma tasse pagate, esplode la protesta di Ncd. Alla vigilia dell’approdo in aula — oggi la discussione generale, voto in calendario per la prossima settimana — il partito di Alfano protesta per gli accordi violati. Presi a palazzo Chigi, garante il ministro Boschi, ma a quanto pare saltati in commissione.
L’oggetto della lite, che rischia di spaccare la maggioranza e di spingere Ncd nelle braccia di Forza Italia, è la punibilità per chi usa il denaro sporco per fini personali. Su questo hanno messo barriere i pm di Milano. Vincendo al momento la partita grazie a un emendamento proposto dal civatiano Luca Pastorino. Proprio su questo ora Ncd punta i piedi. Parla di intese non rispettate. Vuole ridiscutere tutto in aula. Le dichiarazioni entusiaste di Padoan («Passo molto importante, ci aspettiamo risorse»), di Orlando («Passo fondamentale contro il crimine economico»), quelle del primo proponente, il Pd Marco Causi («Più capitali per la crescita, meno evasione, più risorse per l’erario»), quella di Donatella Ferranti («Testo equilibrato e puntuale, misura strategica e coerente in linea con l’Ocse») sono destinate a fare i conti con il dissenso di Ncd che può far saltare, o quantomeno ritardare, l’intera legge. Sia gli articoli sul rientro di capitali — «l’ennesimo condono» attacca M5S — che quello sull’autoriciclaggio.
Parliamo di 3 righe, quelle sul «godimento personale» cui però, a Milano, attribuiscono un’importanza fondamentale. Dice il testo passato ieri coi voti del Pd, l’emendamento Pastorino: «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti (che puniscono l’autoriciclaggio, ndr.), non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale». Ncd batte i pugni. Perché gli accordi erano altri, quelli che facevano dire ai pm «se passa un autoriciclaggio così abbiamo chiuso, saltano pure gli altri reati collegati, riciclaggio compreso». Diceva il testo di palazzo Chigi: «Le condotte di cui ai commi precedenti non sono punibili quando il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate all’utilizzazione o al godimento personale».
Parrebbe la stessa storia, ma non è così, tant’è che la formula Pastorino soddisfa in pieno le toghe, mentre contraria nettamente è Ncd. Che addirittura accusa il Pd di aver trasferito nell’emendamento le richieste dei magistrati. Tutto si giocherebbe sul primo inciso del comma Pastorino, quel «fuori dei casi di cui ai commi precedenti» che finirebbe per far applicare il reato di autoriciclaggio a tutti. Beni o non beni personali. Ovviamente Fi esulta. Dicendo che sta dalla parte degli imprenditori. La guerra continua.

Il Sole 10.10.14
Processi lenti, Italia maglia nera
Il rapporto del Consiglio d'Europa: a fine 2012 procedimenti pendenti a quota 4,6 milioni e aperti a 3,3 milioni
Ci vogliono 590 giorni, 100 in più rispetto al 2010. Peggio di noi solo Bosnia e Malta. La media dei Paesi considerati è di 246 giorni
Diminuiscono le nuove cause e aumentano quelle chiuse ma lo stock resta alto
di Marco Moussanet


PARIGI. Certo, il numero di nuove cause civili diminuisce. E quelle chiuse registrano livelli record. Ma lo stock rimane impressionante e la durata dei processi continua a rimanere tra le più alte in Europa. È questa, in estrema sintesi, la situazione della giustizia italiana che emerge dal quinto rapporto biennale (i dati sono relativi al 2012) che la Cepej, la Commissione ad hoc del Consiglio d'Europa, ha presentato ieri. Frutto dei dati raccolti in 46 Paesi (solo Lichtenstein a San Marino mancano all'appello), cui si aggiunge per la prima volta Israele.
Nel corso del 2012 ci sono state in Italia circa 4 milioni di cause in entrata (e sono stati istruiti 1,56 milioni di nuovi processi), rispetto a una media dei 47 Paesi rispettivamente di 1,6 milioni e 535mila (2,18 e 1,7 milioni in Francia e 3,9 e 1,57 milioni in Germania, tanto per avere un confronto con sistemi giudiziari simili al nostro). Nello stesso periodo, i magistrati italiani hanno chiuso 4,35 milioni di cause e 2 milioni di processi. Con un "clearance rate", cioè un rapporto tra procedimenti nuovi e chiusi, rispettivamente del 108,4% e del 131,3% (tra i migliori in Europa, dove la media è del 100,4% e del 104,2%). Un dato che fotografa il buon livello di produttività dei magistrati, sia pure molto aiutati dall'introduzione - nel 2009 - della tassa sull'avvio dell'azione giudiziaria ormai generalizzata in Europa (con la sola eccezione di Francia e Lussemburgo).
Ma alla fine dell'anno le cause pendenti erano ancora 4,65 milioni (un primato negativo, secondo alla sola Germania con 4,97 milioni, pur con una flessione di 336mila rispetto all'inizio del 2012) e soprattutto i processi aperti erano 3,3 milioni. Un dato che ci vede svettare in una poco invidiabile solitudine: la media è di 311mila, la Germania è a 792mila e la Francia (seconda) a 1,4 milioni.
L'altro buco nero è la durata dei processi: 590 giorni, 100 in più rispetto al 2010. Fanno peggio di noi solo la Bosnia Erzegovina (656) e Malta (685). La media è di 246 giorni, la Francia è a 311 e la Germania a 183.
«La giustizia civile italiana - commenta il curatore del rapporto Jean-Paul Jean - è in una posizione di ritardo strutturale, con uno stock tale che non potrà mai essere risolto senza una radicale riforma che affronti i temi delle prerogative dei giudici e dei poteri degli avvocati, ovviamente aumentando le prime e riducendo i secondi. Con l'obbligo di fissare durate certe per i processi, al di là delle quali scattano le penalità». E i riflettori si spostano inevitabilmente sul numero di avvocati, fonte naturale - quasi automatica, questione di sopravvivenza - della moltiplicazione delle cause e della durata dei procedimenti. In Italia sono 226mila (anzi, erano, nel 2012), rispetto ai 56mila della Francia e i 160mila della Germania: 379 ogni 100mila abitanti (86 in Francia e 200 in Germania, ci battono solo Lussemburgo e Grecia); 36 per ogni giudice (8 sia in Francia che in Germania). Un esercito. I cui ranghi si sono infoltiti del 31% tra il 2006 e il 2012. Più in generale, l'Italia ha aumentato nel 2012 (del 3,3%) il budget destinato al sistema giudiziario, le donne continuano a sbattere contro il soffitto di cristallo (la loro presenza si rarefa man mano che si sale la gerarchia) e i magistrati hanno retribuzioni nella media europea (pari a 1,9 del salario medio nazionale sia per giudici che per procuratori).

Il Sole 10.10.14
Il problema non è la produttività dei giudici ma l'assenza di risorse
di Donatella Stasio


Italiani meno litigiosi, magistrati iperproduttivi, ma giustizia sempre più lenta e tribunali zavorrati dall'arretrato, seppure non quanto in Germania che su questo fronte batte tutti i paesi del Consiglio d'Europa. Se questa è, brutalmente, la fotografia dell'Italia scattata dalla Cepej, non c'è da rallegrarsi per la performance registrata a fine 2012, salvo per il calo considerevole delle cause civili in entrata, che ci fa scendere dal 4° al 17° posto nella black list della litigiosità. Una buona notizia. Non rinfranca, purtroppo, constatare che i magistrati italiani continuano a smaltire più cause di quante ne entrano e che, in valori assoluti, sono i più produttivi, dopo Russia e Polonia, con oltre quattro milioni di processi chiusi in un anno. Un simile sforzo, benché lusinghiero, non basta infatti a contenere né le pendenze - più di 4 milioni e mezzo - né la durata del contenzioso, che nel 2012 è anzi aumentata di 100 giorni rispetto al 2010.
Tuttavia, il 131,3% di capacità di smaltimento delle toghe è più che una medaglia: è un dato "politico" destinato a pesare nello scontro in atto con il governo, poiché smentisce alcuni stereotipi branditi dal premier Matteo Renzi per giustificare misure come il taglio delle ferie "per velocizzare la giustizia", considerate dall'Anm populiste e punitive. Da questo punto di vista il Rapporto Cepej è un formidabile assist alla magistratura per sostenere - come ha cominciato a fare ieri - che le riforme sull'efficienza non si fanno a costo zero (per esempio senza nuove assunzioni del personale amministrativo) e neppure caricando sui cittadini oneri economici eccessivi per accedere a forme extragiudiziarie di risoluzione delle controversie, come l'arbitrato. Aumentare la produttività dei giudici è persino inutile se la macchina è inceppata per mancanza di risorse. Le cancellerie non sono in grado di reggere l'urto di una maggiore produttività - se anche fosse possibile - perché la carenza di personale amministrativo ha toccato livelli patologici. Ben venga, ovviamente, l'annunciata iniezione di 1000 nuove unità, purché si sappia che è una goccia nell'oceano. E che l'annuncio non coincide con l'effettivo ingresso di forze nuove, che richiederà del tempo per essere realizzato.
Resta il dato positivo sulla diminuzione della litigiosità, dovuto probabilmente all'introduzione, con la Finanziaria 2010, del contributo unificato anche per le opposizioni alle sanzioni amministrative - che infatti hanno registrato una caduta vertiginosa, di oltre un milione - nonché alle primissime applicazioni della mediazione. Una strada che il governo sembra voler proseguire, anche se il problema di non rendere eccessivamente oneroso l'accesso alla giustizia è reale, tanto più se il ricorso ad arbitrati e negoziazioni assistite non è incentivante e non tiene completamente fuori il giudiziario.
Infine, il Consiglio d'Europa segnala anche l'alto numero di procedimenti penali aperti in Italia rispetto alla media europea. Ma questo è un terreno scivolosissimo perché è evidente che sul dato pesa l'obbligatorietà dell'azione penale prevista nel nostro ordinamento, a differenza di molti altri stranieri. Certo, la miriade di reati andrebbe sfoltita mentre la tendenza, a quanto pare, è di aggiungerne, complice la caduta di legalità e di etica verificatasi nel nostro paese. L'idea che la sanzione penale sia la medicina inevitabile per qualunque violazione, indipendentemente dal suo disvalore sociale e, soprattutto, dalla sua efficacia rispetto ad altre sanzioni è però un'illusione.

Repubblica 10.10.14
Rettifiche lampo e maxi multe rischio bavaglio per le testate web
Nella riforma della diffamazione sanzioni da 50 mila euro e interdizione per i direttori
di L. M.


ROMA Quando di mezzo ci sono i giornalisti la voglia di bavaglio è sempre dietro l’angolo. Adesso l’obiettivo è soprattutto il web, le testate online, considerate troppo libere e incontrollabili. Non solo dovranno rettificare subito, ma soprattutto dovranno cancellare tutto. Per legge. Ci hanno provato con le intercettazioni a mettere il bavaglio, adesso passano per la diffamazione. Quel singolare ddl «Loch Ness» (come lo chiama Gasparri) che compare e scompare come lo storico mostro. Ora che rispunta al Senato, dopo un anno di misterioso sonno, rivela subito di che pasta è fatto. Pasta punitiva, tutta giocata su rettifiche capestro ad horas, su multe per migliaia di euro (fino a 50mila per un falso cosciente), sull’interdizione per sei mesi, sulla responsabilità dei direttori per qualsiasi notizia diffamatoria anonima. Come dice il Dem Felice Casson «di positivo, nel ddl, c’è che finalmente viene cancellata la previsione del carcere per i giornalisti...». Ma il prezzo da pagare per la cella (assai rara) che non c’è più è uno stillicidio pesante giornaliero che colpirà pesantemente anche le testate online. Ieri il testo, già votato alla Camera ma assai rimaneggiato in commissione Giustizia al Senato, è giunto in aula. Discussione generale. Se ne riparla tra un paio di settimane, ma bisogna dire subito che la legge, così com’è, proprio non va. Emendamenti compresi.
Il carcere non c’è più. E sia. Ma ci sono le multe. Normalmente fino a 10mila euro. Ma fino a 50mila «se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità». Rispondono anche, «a titolo di colpa», il direttore o il vice direttore responsabile. «La pena è in ogni caso ridotta di un terzo». Ma i due rispondono pure «nei casi di scritti o di diffusioni non firmati». E veniamo alle rettifiche, il comma dolente. È scritto che «il direttore è tenuto a pubblicare gratuitamente e senza commento, senza risposta e senza titolo, con la seguente indicazione ”rettifica dell’articolo (titolo) del (data) a firma (l’autore)” nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa, o nella testata giornalistica online (solo registrate, quindi niente blog, ndr.) le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità». Salvo che queste rettifiche non abbiano un risvolto penale, vanno pubblicate. Per le testate online va fatto «non oltre due giorni», «con la stessa metodologia, visibilità e rilevanza». Se non si rettifica entra in scena il giudice che «irroga la sanzione amministrativa», avverte il prefetto e pure l’ordine professionale. Il quale sospende fino a sei mesi.
Ma non è finita qui. Siamo alla distruzione definitiva. Oltre alla rettifica e alla richiesta di aggiornare le informazioni, l’interessato «può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali». Non basta nemmeno. «L’interessato può chiedere al giudice di ordinare la rimozione delle immagini e dei dati ovvero di inibirne l’ulteriore diffusione». Dulcis in fundo: «In caso di morte dell’interessato le facoltà e i diritti possono essere esercitati dagli eredi o dal convivente».

il Fatto 10.10.14
Alla Camera
I rottamati e le parole proibite di Piketty
L’economista francese ormai è più popolare di Tsipras, suscita brividi nella minoranza del Pd parlando di tasse e patrimoniali
di Stefano Feltri


Vi ricordate Alexis Tsipras? Il greco è storia vecchia, per la stagione autunno-inverno la sinistra italiana ha scelto un altro campione, anche questo importato: Thomas Piketty. Ora che la Bompiani ha finalmente tradotto il suo “Il capitale nel XXI secolo”, uscito in Francia nel 2013, l’economista della parigina EHESS può diventare ufficialmente un personaggio della politica italiana (e dunque un ospite dei talk, ieri sera da Michele Santoro). Ha le stesse caratteristiche che hanno reso popolare Tsipras: sulla quarantina, capello corvino, spalle larghe, camicie aperte e niente cravatta, inglese ruspante e – a tratti – incomprensibile.
Alla Camera, ieri, Piketty sembrava l’ultimo argine contro l’avanzata del renzismo culturale (quello del TINA, There is no alternative, non c’è alternativa). Il deputato Pd Stefano Fassina, assai poco renziano, ha portato Piketty a Montecitorio: in sala oltre 400 persone, presenza obbligata per chi voleva marcare la distanza dal premier nei giorni dell’articolo 18. Massimo D’Alema è in prima fila, Gianni Cuperlo in piedi, Corradino Mineo nelle retrovie a commentare il libro (che lui, sottolinea, ha anche letto). C’è pure Renato Brunetta, compiaciuto di interloquire con il “collega Piketty”.
STEFANO FASSINA spiega che il lavoro di Piketty è importante perché smonta l’idea della trickle down economics, lo sgocciolamento del benessere dai ricchi che si arricchiscono ai poveri che diventano un po’ meno poveri. Nelle analisi dell’economista francese, invece, la disuguaglianza è destinata a crescere sempre: la ricchezza finanziaria cresce sempre più rapidamente dell’economia reale (e quindi dei salari), alla faccia dei rendimenti decrescenti predicati da Karl Marx, predecessore che in vita ha avuto assai meno successo di Piketty.
L’oratoria non è la dote migliore dell’economista francese, che è uomo di numeri e serie storiche (contestate dal Financial Times, che ha trovato alcuni errori). Ma il messaggio arriva chiaro: la ricchezza dei privati era poco più di due volte e mezzo il reddito nazionale negli anni Settanta ed è arrivata a oltre sette volte all’inizio della crisi finanziaria. Solo nel breve intervallo tra la Seconda guerra mondiale e gli anni Ottanta del liberismo reaganiano (e thatcheriano e craxiano) la disuguaglianza è diminuita. Ma gli ideali socialdemocratici e le politiche di welfare state non avevano domato la spinta del capitalismo a polarizzare la ricchezza, semplicemente si erano create condizioni irripetibili: spesa pubblica post-bellica, fortune spazzate via dalle bombe e dagli stravolgimenti politici, grandi opportunità di lavoro nella ricostruzione. Ora siamo tornati a una struttura ottocentesca, dove conta più un buon matrimonio che una buona università.
NUMERI E SLIDE non bastano a spiegare la presa di Piketty sulla sinistra del Pd. A guardare i leader che lo ascoltano si capisce che è più una questione di linguaggio: il professore può pronunciare parole come “patrimoniale” e “redistribuzione” che a Roberto Speranza o Pier Luigi Bersani ormai sono proibite. Si avverte un brivido in platea ogni volta che Piketty dice “imposte progressive”. Gli ex comunisti triturati dal renzismo escono con un sorriso di beatitudine. Unica polemica: l’economista Veronica de Romanis: “Professor Piketty, trova normale che in un convegno sulla disuguaglianza tutte le prime file siano riservate ai politici, lasciando gli spettatori normali in piedi? ”. E lui: “Sono desolato”.

Corriere 10.10.14
Boldrini, l’equità e la preferenza per Piketty
di Francesca Basso


Era luglio e la presidente della Camera, Laura Boldrini, sottolineava che «l’1% della popolazione mondiale possiede ben la metà delle risorse disponibili, mentre la metà più povera ha accesso ad appena l’1% della ricchezza». Citava, anche se non espressamente, il tema delle diseguaglianze connaturate al capitalismo, che sono il cuore del saggio dell’economista francese Thomas Piketty (foto sopra), esposte nel suo libro «Il Capitale del XXI secolo» (Bompiani). Nei mesi scorsi l’opera ha ottenuto un grande successo internazionale e ha diviso gli economisti. Il Financial Times lo ha criticato duramente e ha contestato i dati citati nel saggio. Ieri l’incontro alla Camera di Boldrini con l’ex consigliere economico di Ségolène Royal, alla presentazione del libro. Boldrini ha riconfermato la sua stima: «Ci tengo a sottolineare la ferma convinzione del professor Piketty, che personalmente condivido, sulla capacità della politica di cambiare l’andamento delle cose, di incidere sulla realtà, di modificare le dinamiche economiche e sociali per correggere disfunzioni e criticità. La corposa documentazione e i riscontri con i quali il professor Piketty ha sostenuto le sue tesi, rendono chiaro che, negli ultimi decenni l’analisi economica e gli orientamenti delle istituzioni sono stati segnati dall’obiettivo di ampliare gli spazi di mercato e di ridimensionare l’incidenza della politica».

Corriere 10.10.14
Bertinotti «sfrattato» dal Palazzo. Per colpa di Fini

Complice dello «sfratto» è stato il suo vicino. Fausto Bertinotti il 30 settembre ha fatto gli scatoloni e ha lasciato l’ufficio, che gli spettava da ex presidente della Camera, accanto a Montecitorio, nel palazzo Theodoli Bianchelli. Era un diritto a vita che il Parlamento mettesse a disposizione, per le ex terze cariche dello Stato, ufficio e staff. Poi è stato Gianfranco Fini, nel 2012, da presidente, a porre un limite a questo beneficio: casa e staff per 10 anni, ridotti a 5 nell’era Boldrini. Ora che Bertinotti è andato via, con una proroga di un anno sui termini, è proprio Fini, con gli uffici al piano di sotto, l’unico ex presidente ancora inquilino a Palazzo (fino al 2018). Con la storica segretaria Rita Marino e due dello staff. Mentre le quattro persone, pagate dalla Camera, della squadra di Bertinotti hanno lasciato e hanno chiesto di essere inserite nell’elenco degli ex lavoratori della Camera, da cui si può pescare per le assunzioni.

La Stampa 10.10.14
Se il peso diventa un peccato
di Elena Loewenthal


Desta un orrore smisurato l’atto di violenza che si è consumata ieri dentro un autolavaggio di Napoli. Altro che «gioco da ragazzi».
Così ha sbraitato la madre di uno dei responsabili in nome di una genitorialità che si esercita pericolosamente nella giustificazione a priori dell’operato dei propri figli. Che razza di gioco è quando tre ultraventenni prendono di mira un ragazzino che ha dieci anni meno di loro? Quanto meno è un gioco da vigliacchi.

Un «gioco» che è passato in un attimo dalla derisione verbale alla violenza raccapricciante. E ci è voluta una determinazione complice per prendere e azionare la pistola ad aria compressa, umiliarlo, seviziarlo brutalmente. Non è stato un gesto di violenza cieca, uno sfogo inconsulto, ma un accanimento consapevole. Se infatti il bullismo è spesso autoreferenziale, se guarda più a chi lo fa che a chi lo subisce perché è una forma di narcisismo aggressivo, in questo caso no. Il povero ragazzino è stato seviziato non certo «per gioco», come sostiene sbraitando quella madre, ma perché è grasso. Obeso. Cioè sovrappeso. Questa sarebbe, si fa per dire, la motivazione della violenza, che è la forma estrema del dileggio. Del disprezzo.
E se non di rado la frase «dobbiamo interrogarci tutti» ha un nauseante sapore di vacuo luogo comune, in questo caso vale per quello che è. Già, siamo diventati un mondo che ha reso la grassezza un’onta, un marchio di infamia che può persino diventare il pretesto di una violenza orrenda come quella che ha avuto luogo ieri a spese di un ragazzino di quattordici anni.
Mentre la moda continua per parte sua a celebrare una magrezza quasi irreale che sfila sulle passerelle, mentre la cucina contemporanea è sempre più destrutturata, scondita e proiettata verso un astratto «benessere» e un piacere fatto più di sottrazione che di abbondanza, il fatto di avere dei chili di troppo - molti o pochi non importa - è avvertito sempre più come una colpa. Verso se stessi ma anche e prima di tutto verso il mondo che ti guarda e a cui non piaci.
E’ sacrosanto, certo, ascoltare le raccomandazioni dei medici. E’ appurato che la forma fisica e il peso adeguato sono la strada maestra per una buona salute e una buona vita. E’ vero che non di rado il sovrappeso indica cattivi comportamenti che vanno modificati. Ma tutto questo non giustifica il vicolo cieco in cui siamo arrivati, in fondo al quale c’è un ragazzino seviziato perché ormai la grassezza è il nostro peccato originale. Perché essere obesi è una colpa, mentre essere belli e magri è una virtù. Un dovere morale prima ancora che un’evidenza estetica. Il presupposto per essere accettati, non solo sulle passerelle della moda (il che ha ovviamente senso) ma anche in un sobborgo qualunque di una grande città, a quattordici anni.
Allora, se a quei tre disgraziati e codardi ventenni che si sono accaniti su un bambino tocca riconoscere la gravità di quello che hanno fatto e scontarla, se la madre di uno di loro si meriterebbe una rieducazione radicale - come genitore e come persona -, è anche vero che abbiamo tutti bisogno di ripensare il nostro sistema di valori, imparando daccapo a distinguere l’etica dall’estetica, la colpa dal difetto, la fragilità dalla vergogna.

Corriere 10.10.14
Il codice della violenza contro l’obesità
Napoli, ragazzino violentato con un compressore. Tre sotto accusa: «Era troppo grasso»
di Mauro Covacich


Nella dittatura dei corpi l’unico, violento precetto dice: «Tu devi essere magro»

Seviziato perché obeso: un ragazzo di 14 anni è stato gravemente ferito con il tubo di un compressore da un gruppo di ventenni: «Sei grasso, ti gonfiamo di più». Fermati tre giovani, con pesanti accuse, che si difendono: «Era un gioco». La feroce violenza esplosa in un autolavaggio napoletano è espressione di un’allergia profonda da cui è affetto l’intero corpo sociale, la lipofobia.
La tua obesità è un’offesa personale, un oltraggio al mio sguardo. La mostruosa violenza esplosa in quell’autolavaggio napoletano è la manifestazione cutanea di un’allergia ben più profonda di cui è affetto l’intero corpo sociale, la lipofobia. Il grasso è nocivo se ingerito, è nocivo se incarnato nella persona che ci si siede accanto, è nocivo anche solo se visto passare. È nocivo e in fondo pericoloso perché costituisce una provocazione cocente alla mia regola di vita, il cui un unico precetto ordina: sii magro. Non: sii giusto. Non: sii buono. Non: sii capace. Non: sii saggio. Ma: sii magro. Quando andavo a trovare mia nonna, più o meno all’età di quel ragazzino seviziato e ridotto in fin di vita, lei mi diceva: come sei diventato bello grasso! Ci restavo male, ma per lei era un complimento. Ero florido, in salute, quindi bello. Erano gli anni Settanta, la fame era una guerra vinta, ma popolava ancora gli incubi dei vecchi. Inoltre, la bellezza era una condizione più complessa che riguardava anche ciò che le persone dicevano e facevano, i loro modi, quei particolari segni di distinzione che li individuavano come esseri unici — qualcuno si sarebbe accorto di me anche se ero bello grasso. Oggi la frenesia imposta dall’epoca spinge la bellezza in superficie: per esprimerla ci è rimasto solo il corpo. Lo dico pensando alla videoinstallazione di Francesco Vezzoli in mostra qualche mese fa al Maxxi di Roma, il cui titolo, Comizi di non-amore, omaggia il documentario di Pasolini. Nel video l’artista mette in scena un talk show ricreato sulla formula di un famoso programma di intrattenimento, invertendo i ruoli rispetto all’originale televisivo — tre giovani uomini devono misurarsi nel corteggiamento di una donna tronista — e facendo indossare i panni della pollastrella a icone «storiche» del fascino femminile, stelle del cinema non prive di ironia come Jeanne Moreau e Catherine Deneuve. Ebbene, cosa si inventano i tre ragazzi per conquistare queste inarrivabili femme fatale? Cantano? Ballano? Recitano poesie? No, si spogliano, esibiscono gli addominali, ricalcando perfettamente lo stereotipo della donna oggetto. Quando il tempo stringe, gli addominali valgono più di mille discorsi, e ormai, lo si voglia o no, ogni nostro incontro assume la forma di uno speed date. Difficile negare lo stress che genera questo assetto performante. La magrezza è segno di superiorità, l’indifferenza (simulata) ai bisogni primari. Lattuga, tapis roulant, centrifuga di maracuja e guarana, ecco il passaporto per entrare nel regno dei belli. È un accesso festeggiato talvolta come una nuova vita, il processo metamorfico dei grandi obesi ingaggiati da Extreme makeover, scavati dalla chirurgia, escissi da loro stessi per indossare la divisa taglia small del nostro esercito. Le macchine desideranti auspicate da Deleuze e Guattari sono diventate in un baleno automi del godimento e del benessere. Doveva essere una liberazione dal potere borghese, autoritario e repressivo, invece è diventata la proliferazione del potere incarnato negli individui, milioni di padroni al cui dispotismo siamo tutti asserviti. Devo piacere a tutti, sempre, subito. E come me, ognuno di voi. Magri, sani, pronti all’uso. Il nuovo dogma ha comportato una medicalizzazione della vita — «mangiare bene», «bere bene» — un’ecologia sociale solo apparente, che non ci spinge mai al «pensare bene». Chi elude questa disciplina piena di pungolanti privazioni non può che apparire un sovversivo, la sua semplice presenza è un affronto alla nostra rettitudine arianoide. Ti faccio esplodere, un gesto che tradisce un vero e proprio desiderio di annientamento. Ma l’odio per le persone in sovrappeso si estende bel al di là di quell’autolavaggio.
 
il Fatto 10.10.14
Il fantasma dell’Opera: “Come hanno buttato i soldi?”
Un orchestrale: “Fuorte palò di bilanci a posto, dopo tre mesi aveva cambiato idea
Troppo facile scaricare la colpa su di noi”
di Emiliano Liuzzi Valerio Lo Monaco


L’epilogo è stato quello di licenziare gli orchestrali e il corpo di ballo. Ma in mezzo c'è un capitolo che nessuno è riuscito ancora a scrivere e riguarda i 30 milioni di euro che l’Opera di Roma deve pagare, un debito che nessuno sostiene di aver fatto. Il gioco – non lo inventano a teatro, ne è stracolma la storia – è quello di dare la colpa ai predecessori. Gli unici che fino a oggi quel debito l’hanno saldato sono gli artisti, colpevoli di essere tali. La fantasia, col passare dei giorni, si è evoluta, ha preso forme strane sotto la forma di casta, indennità riconosciuta per l’umidità, abiti pagati. La realtà è che un musicista con vent’anni di anzianità, un merito artistico riconosciuto, può guadagnare fino a 2.100 euro. Domeniche e indennità comprese. Né un euro più né meno.
“Hanno scaricato la colpa su di noi”, spiega Antonio Pellegrino, violoncellista licenziato dell’Opera. “Questo era l'obiettivo e fino a oggi ci sono riusciti. Le cose sono andate in maniera diversa. Iniziamo da otto mesi fa, quando il soprintendente Carlo Fuortes si presenta. E lui, le sue parole, ma anche i documenti scritti, ci dicono quello che noi sapevamo: bilanci in pareggio, una star universalmente riconosciuta come il maestro Riccardo Muti, un avvenire davanti agli occhi”.
I MUSICISTI prendono atto. Ma con enorme diffidenza: “Il nostro male sono i politici, ogni volta che ci sono stati ribaltoni noi siamo stati sommersi, fino al licenziamento. Ma andiamo avanti. Tre mesi dopo, Fuortes ha già cambiato idea: all'improvviso siamo diventati lavativi, privilegiati, poco inclini al sacrificio. E soprattutto ci presenta un vecchio debito, 12 milioni di euro, che diventeranno 20, poi 50 e poi stabilizzato sui 30. Che ci dicessero come e perché sono stati spesi questi soldi. Non sono finiti nella mia busta paga, questa è l’unica affermazione certa”.
Trenta milioni. Un buco che non si matura in un giorno. Ma soprattutto che non si nasconde così, con estrema facilità. Eppure è accaduto. Come è accaduto che tutti siano stati licenziati con una promessa farlocca di essere riassunti con un contratto di collaborazione, nell’eventualità formassero una cooperativa. “Sono parole, promesse. Non c’è niente che sia credibile”, dice ancora Pellegrino. “Credo che una cosa emerga e sia evidente a tutti: sono stati licenziati orchestrali e coristi. Sono rimasti dipendenti quindici ballerini e 242 impiegati. Saranno loro a mettere in scena un qualsiasi spettacolo? Oppure l’azienda è semplicemente nella direzione di una bancarotta? Io credo molto di più a questa seconda ipotesi. Nessun teatro si priverebbe degli artisti e manterrebbe gli impiegati. Come viene risanato il buco, con i direttori a libro paga, gli addetti stampa, i capi del personale senza un personale? Andiamo avanti, oggi è toccato a noi, domani toccherà al resto. Potranno dire che l'Opera non esiste più. La prossima bugia sarà quella di convincere il pubblico che prima o poi riapriranno”. Premessa: le persone di cui parliamo sono professionisti. Hanno iniziato a rimettersi in auto, girare l’Italia, accettare incarichi di minor prestigio. Ma ovviamente riescono a lavorare. C’è chi ha studiato quarant’anni, quello riesce a fare nella vita e non altro: “Siamo stati licenziati perché scioperavamo, siamo stati il laboratorio dell’articolo 18”, chiude Pellegrino. “Il resto è fare il conto col nostro futuro. La fabbrica nella quale lavoravamo non esiste più. Guardiamo avanti. Mi piacerebbe che un giorno il maestro Muti spiegasse perché ha lasciato. Credo che la versione che danno il sindaco Ignazio Marino, il ministro Dario Franceschini, che ancora non abbiamo visto né sentito, e il sovrintendente
Fuortes, offerta sul piatto alla stampa compiacente, non corrisponda al vero. Muti se n'è andato senza nessuna polemica con l’orchestra che lui aveva cresciuto, scelto, aveva partecipato in prima persona alle audizioni per i nuovi assunti, ci aveva portato in giro per il mondo in tour, non credo sia andato via in polemica con quelli che eseguivano le sue opere. Forse ha lasciato per altri motivi. Che Marino e Fuortes conoscono, noi ancora no”.
INTANTO il sindacato dei musicisti “Unione artisti – Unams” ha depositato ieri, al Tribunale di Roma, un ricorso contro il Teatro dell’Opera chiedendo l’immediata revoca della delibera adottata il 2 ottobre, giudicata senza se o ma, illegale.
A giudizio di Dora Liguori, segretario generale dell’Unams, “la vicenda dell’Opera di Roma s’inserisce in un contesto di smantellamento delle istituzioni musicali nel nostro Paese che calpesta i diritti dei lavoratori e le prerogative sindacali e mostra l’intento di perseguire modelli gestionali che, di fatto, ledono il nome e la dignità dei musicisti italiani nel mondo”.

Repubblica 10.10.14
Nuovo cinema America gli squatter perbene che sognano di salvare il mondo con i film
Per la sala sgomberata a Roma si sono mobilitati i migliori registi italiani
Viaggio dentro alla protesta tra rivendicazioni e polemiche. E demagogia
di Francesco Merlo


ROMA È L’OSSIMORO dell’eversione benedetta, il cinema America. È un caso di scuola all’italiana di occupazione per bene, la rivolta di Stato sgombrata dalla polizia ma celebrata da Giorgio Napolitano in quirinalese: «Non può che considerarsi altamente positivo sotto il profilo della storia e della cultura cinematografica...». Ma l’occupazione, che cominciò il 13 novembre del 2012 e per il ministro Franceschini è «preservazione del territorio», è stata anche una lunga violazione del diritto di proprietà del signor Simone Paganini e dell’ingegnere Victor Raccah che infatti dice: «Ci danno addosso. Qui sono innocenti tutti, anche quelli che calpestano i diritti fondamentali. Solo noi siamo i banditi perché siamo proprietari». E però lo Stato che protegge e, attraverso il presidente della Regione Zingaretti promette «staremo al vostro fianco, non vi abbandoneremo», è anche lo Stato che reprime. E infatti la Procura ha cacciato con la forza i civilissimi incivili guidati da Valerio Curcio e Valerio Carocci, 22 anni, più Nouvelle Vague che Racailles de banlieue, più Truffaut che Lars Von Trier, al punto che persino i post-it di protesta che ieri hanno invaso Trastevere sono 400, come i colpi: «Sono arrivati alle 6 del mattino, 60 poliziotti in tenuta antisommossa, 7 camionette. C’ero solo io che dormivo».
Adesso sono asserragliati in un locale adiacente al cinema, un ex panificio che un ragazzo di Trastevere ha dato loro in comodato d’uso. Sullo sfondo c’è un murales pretenzioso che non abbellisce, con una grande A che non è Anarchia ma America. I due Valerio e i loro cinefili non appendono foto del Chiapas e di Che Guevara ma locandine del Marchese del Grillo e dei Soliti Ignoti. E dove i ragazzi dei centri sociali sporcano, loro puliscono. Attraverso questi locali abusivi non sono passati i brividi e le vertigini dell’Impero di Toni Negri ma le partite della Roma e della nazionale, qualche libro d’esibizione, da Gramsci a Geymonat, niente alla cool, una sala computer, film recuperati, magliette che somigliano a quelle confindustriali: «Hic sunt leones». Solo il linguaggio di Valerio è social-epico e allegramente astruso: «Vogliamo diventare protagonisti e non fruitori; difendiamo la proprietà privata ma anche il progetto di spazio polivalente; offriamo ai giovani un percorso alternativo alla movida violenta. Noi non vogliamo tutto, ma vogliamo essere tutto». E però il Codice non riconosce lo squatter virtuoso, il rammendo fuorilegge nel degrado di Trastevere che forse piacerebbe a Renzo Piano: «Abbiamo fatto una colletta e siamo riusciti a mettere a posto il pavimento e il tetto. E adesso abbiamo pure un cordata di aspiranti compratori guidata dal produttore Carlo Degli Esposti», quello di Montalbano.
E, come sempre, quest’America è anche un caso di evidente demagogia: il cinema italiano, che fa davvero pochi bei film, si è mobilitato compatto perché vuole nel cuore di Roma una Ramallah di celluloide, il campo profughi degli sfrattati da Cinecittà, degli esuberi del Centro sperimentale, dei fantasmi delle 50 sale chiuse a Roma per mancanza di spettatori. E non solo quelle trasformate o in trasformazione, dal Metropolitan (Benetton) al Roge et Noir (un bingo) all’Etoile di San Lorenzo in Lucina, piano terra dello storico palazzo Ruspoli di proprietà della contessa Daniela Memmo. Nel 2012 i francesi di Vuitton riuscirono, con un accordo con il Campidoglio di Alemanno e un aiuto economico proprio al Centro sperimentale di cinematografia, a farne il loro più sontuoso negozio d’Europa, scandalizzando persino Dagospia, ma non i registi, gli attori e i cineasti che oggi protestano per l’America.
Sono una quarantina i cinema chiusi, in qualche caso da decenni, con il catenaccio: il Rivoli di via Veneto, il Maestoso sull’Appia, il Volturno, l’Espero, sino all’incredibile Airone nel quartiere Caffarella, progettato da Libera e dipinto da Capogrossi, di proprietà del Comune e non di Paganini e Raccah.
Ogni tanto, nell’ombra e nel silenzio della notte romana, in questi cinema arrivano gli squatter: i pirati della danza, i cinefili erranti, le maestre senza asilo o i semplici homeless, il cui sgombero, quando «l’aria odora / de matina abbonora» non fa mai notizia, anche se sono i soli che prendono botte. Massimo Arcangeli, segretario dell’Anica, mi dice disperato che le sale «hanno bisogno di aiuto e di almeno un poco di quella solidarietà delle istituzioni che si riversa sugli occupanti dell’America, che sono pure bravi e hanno fatto tante cose lodevoli, mostre, dibattiti, proiezioni, ma senza rispettare le regole». Inaspettatamente anche il proprietario dell’immobile tesse le lodi e non solo «alla qualità del lavoro» ma anche allo «stile moderato» degli squatter: «Ho 58 anni, se ne avessi trenta di meno sarei sicuramente con loro e tra loro. Anche io sognavo da ragazzo. Ma, guardi, pure se quel cinema non fosse nostro, ora mi batterei come un leone per difendere il diritto dei privati. Quello non è uno spazio pubblico. È facile fare i rivoluzionari in casa d’altri e con i soldi degli altri». L’ingegnere Raccah vuole farne appartamenti, «almeno un garage se gli scavi non ci porteranno a scoprire preziose antichità», e prevede che «tutto il piano terra, vale a dire più della metà dell’intera superficie, che è di 1650 metri quadri, venga adibito a spazi culturali come richiede il Piano Regolatore». Ma il ministro Franceschini «ha messo i vincoli sugli arredi». Secondo lui «per compiacere gli occupanti». La battaglia legale dei ricorsi è cominciata, l’America è la palude di ogni genere di diritto italiano, anche quello storto.
Il solo a non esporsi è il sindaco Ignazio Marino che dialoga con i proprietari ma non risponde alle ‘lettere aperte’ portate al Campidoglio in bicicletta: «Spero che dia un cenno di vita» ha detto Ettore Scola. Come al solito Marino sbaglia la misura: stracanta e stecca all’Opera e fa cinema muto all’America, dove tutto è fuori misura, spettacolo da grande schermo. Paolo Sorrentino minaccia di restituire la cittadinanza onoraria. E Salvatores, per non essere da meno, di restituire l’Oscar, che ovviamente non c’entra nulla, ma al cinema è un effetto speciale. E si sentono offesi Rosi, Verdone, Montaldo, Virzì. E poi Bertolucci, Servillo, Garrone, Alessandro Gassman, Gregoretti e, scendendo e allargando, si arriva agli eterni precari e alle comparse, agli occupanti di professione, ai sodali dell’orchestra dell’Opera e degli sgombrati del Valle, i facili bersagli del renzismo di risulta, i parenti dell’orso in rottamazione, i tagli della pellicola. E ci sono pure quelli che fanno la smorfia a Gian Maria Volonté e Carla Gravina, come Elio Germano, il Leopardi con il pugno chiuso, o Sabina Guzzanti, che ieri ha twittato così: «Solidarietà a Riina e Bagarella privati di un loro diritto. I traditori delle istituzioni ci fanno più schifo dei mafiosi». Insomma ci sono i lavoratori dello spettacolo che in sindacalese da bacheca vogliono (copio testualmente) «rilanciare la battaglia per conquistare un’acquisizione pubblica e partecipata e ripristinare e rendere permanente la fruizione, la condivisione e la diffusione della cultura libera e accessibile a tutti». Chiedo ad alcuni antagonisti, di quelli che preferiscono i centro sociali Acrobax e Forte Prenestina e sfilano con lo slogan «Renzi schiavista / sei il primo della lista». Mi dicono che «quelli dell’America hanno ragione anche se sono ragazzi ben nati, figli di gente di cinema». Lo racconto a Valerio che si mette a ridere e giura che «nessuno tra noi ha parenti che lavorano nel cinema, e semo tutti poveracci». Cos’è, indivia? «Si, invidia di estrema sinistra».

il Fatto 10.10.14
Cinesi, rumeni, russo-georgiani: a Roma la mafia è multietnica
di Silvia D’Onghia


C’è una linea, neanche troppo sottile, che collega la Grande Muraglia a Napoli, e Napoli al quartiere Prenestino di Roma: è un nuovo sodalizio criminale, che mette insieme gli imprenditori cinesi ai camorristi dei clan Giuliano e Anastasio e questi ultimi ai laziali Terenzio. Una sinergia che serve a far arrivare direttamente dalla Cina nei porti di Napoli, Civitavecchia e Gioia Tauro la merce contraffatta, e da lì a farla finire nei magazzini del Prenestino e del Casilino.
ROMA È una città multietnica, e anche le mafie si sono dovute adeguare. Così, dopo l’invasione di ’Ndrangheta e Camorra, le forze dell’ordine devono adesso fare i conti con la criminalità “endogena”. I delinquenti africani hanno il controllo dell’immigrazione clandestina e della droga. La mafia di origine slava, albanese e rumena, considerata di “elevata pericolosità sociale per l’indole violenta e per l’assenza di scrupoli” – scrive la polizia –, è invece responsabile di delitti predatori, di traffico di stupefacenti e di sfruttamento della prostituzione. Rumeni e bulgari, poi, hanno una predilezione per i reati “informatici”: la clonazione di carte di credito e l’alterazione dei bancomat.
Le bande di matrice sudamericana e filippina sono dedite principalmente ai reati contro il patrimonio e contro la persona, nella maggior parte dei casi ai danni di connazionali. I cinesi, grazie al sodalizio con la Camorra, sono anche in grado di creare società fittizie di intermediazione finanziaria per il trasferimento, in madre patria, di ingenti somme di denaro. Un esponente di spicco del clan Moccia, al quale sono stati sequestrati beni per un valore di 150 milioni di euro, gestirebbe gli affari commerciali all’Esquilino, dopo aver acquistato una villa nei Castelli Romani appartenuta ad Alcide De Gasperi, e sarebbe il dominus di una società che porta i clienti al Casinò di Sanremo e presta loro i soldi. Un modo per fare impresa.
Ma c’è una nuova mafia che spaventa le polizie: è quella di origine russo-georgiana. Secondo gli ultimi rapporti dell’antimafia, sono loro a compiere i principali furti nelle case dei romani, ma soprattutto ad avere la capacità di riciclare i soldi sporchi in tutta Italia e negli altri Stati europei. La collaborazione con l’Europol ha consentito di individuare a Roma personaggi di spicco dell’organizzazione mafiosa vor v zakone (ladro nella legge in russo), responsabili di reati di sangue e in costante contatto con l’organizacija. Tra gli altri, sono stati arrestati gli autori di un duplice tentato omicidio avvenuto il 4 agosto 2011 a Mechelen, una città della provincia di Anversa. Tutto questo naturalmente si inserisce in un contesto non certo vergine. A scorrere i nomi delle famiglie mafiose presenti ormai da anni a Roma (come in tutto il Lazio), vengono i brividi: gli Alvaro, i Bellocco-Piromalli, i Pelle, i Gallace, i Bonavota e i Fiarè per la ’Ndrangheta; i Senese per la Camorra; i Triassi-Cuntrera per Cosa Nostra; senza dimenticare gli autoctoni, i Casamonica e i Fasciani. Le novità investigative degli ultimi mesi riguardano, per esempio, la tanto citata movida notturna: secondo gli inquirenti, per esempio, il clan camorristico degli Esposito (Luigi, detto “Nacchella”, è membro dell’alleanza di Secondigliano) potrebbe aver messo gli occhi sui locali della movida, rimpiegando così i capitali di provenienza illecita.
DEL RESTO, che la ’ndrina Bonavota abbia “investito” nelle attività di Monteverde e di Prati è ormai cosa nota. “C’è un altro fenomeno che sta emergendo – afferma Gianni Ciotti, segretario del sindacato di polizia Sed – ma che la politica non è ancora in grado di decifrare: le mafie dell’est gestiscono interamente il traffico della prostituzione, riciclandone i proventi in attività commerciali e in ville”.

il Fatto 10.10.14
Un film già visto
Non solo Berlusconi, Putin “supereroe” corteggiato da Renzi
ALltro che Ucraina: lo zar russo sarà ricevuto giovedì con tutti gli onori a Milano
di Roberta Zunini


Dopo la Merkel, Matteo Renzi approfitterà del vertice asiatico-europeo Asem di Milano per schioccare i due baci all'italiana di benvenuto sulle guance di Putin? Se il nostro “affettuoso” premier lo incontrerà – fatto molto probabile essendo Renzi anche presidente di turno della Ue – quasi certamente gli schiocchi non mancheranno dato che il presidente russo sarà l'ospite più importante del vertice euro-asiatico del 16 e 17 ottobre, nonché colui che ha messo in crisi alcuni settori cruciali dell'economia italiana e potrebbe farci battere i denti in inverno limitando o bloccando il trasferimento di gas, a causa dell'accordo di associazione economica europeo-ucraino.
Ma, ancora più importante, è la salvaguardia e la blindatura degli accordi tra Eni e Gazprom, il colosso energetico russo. Tra le ragioni renziane per cercare di accogliere nel modo più caloroso possibile Vladimir Putin e metterlo a proprio agio, c'è anche il debutto imminente di Federica Mogherini nelle vesti di Lady Pesc. Per essere eletta rappresentante della politica estera europea, dopo una prima bocciatura, il ministro degli Esteri ha dovuto abbandonare la sua iniziale posizione filorussa, sempre in merito alla questione ucraina. E Vladimir Vladimirovic non l'ha presa bene. L’Asia-Europe Meeting (Asem) che si tiene ogni due anni, è un processo informale di dialogo e cooperazione tra i 27 Stati membri dell'Unione europea, 20 paesi asiatici e il Segretariato dell'Asean. “Gli incontri riguardano questioni politiche, economiche e culturali, con l'obiettivo di rafforzare le relazioni tra le due aree geopolitiche, in uno spirito di rispetto reciproco e pari partecipazione”, si legge sul sito ufficiale.
Dall'ultimo Asem, nel 2012, lo scacchiere internazionale è mutato ed è sottoposto a uno spostamento sempre più macroscopico degli equilibri. Putin è l'unico leader che ha saputo gestire al meglio il processo, sia sul dossier Siria, sia su quello ucraino, ancora aperto: a Milano ci sarà anche il presidente Poroshenko, pur non facendo parte l'Ucraina dell'Asem. I due “nemici” si incontreranno forse al termine del vertice. Occasione che potrebbe dare a Renzi ancora più visibilità, ma non sostituirà Berlusconi nel cuore dello zar. È certo che i due si sentono ancora: l'ultima volta il 7 ottobre, B. ha chiamato il Cremlino per fare gli auguri di compleanno all'amico. Il 62enne Putin sembra avergli promesso che si vedranno proprio a Milano. Sarà la volta buona che anche il mondo si accorgerà dell'esistenza di Renzusconi?

Corriere 10.10.14
I nuovi «servi della gleba» dell’economia di Putin
di Gian Arturo Ferrari


Da un bel pezzo avevamo abbandonato la confortante certezza — un’illusione — che la storia camminasse speditamente sulla via del progresso. Con ostacoli, certo, con arresti, ma comunque senza invertire mai il senso di marcia, senza regredire. In avanti, sempre.
Alcuni segni ci avevano messo sull’avviso. Ad esempio il vigoroso ritorno del principio dinastico, cioè della successione al potere all’interno del medesimo gruppo familiare. Nelle democrazie — negli Stati Uniti d’America, in India —, ma anche nei regimi comunisti — in Corea del Nord, nello Stato indiano del Kerala — formalmente dittature del proletariato. Ma pur così disillusi, fino al ritorno della servitù della gleba non ci saremmo mai spinti.
E invece il Financial Times ieri riportava un’intervista a Sergei Pugachev, oligarca russo in esilio a Londra, il quale testualmente dichiarava: «Oggi in Russia non c’è proprietà privata. Ci sono solo servi che appartengono a Putin». Dove «servi» significa in russo «servi della gleba», non domestici, ma oggetti, come nei romanzi di Tolstoj, dove più propriamente si misuravano in «anime».
Pugachev, di suo, non dev’essere un fiorellino di campo. È un cinquantunenne barbuto che a 29 anni fonda una banca e a 45 ha una fortuna stimata di due miliardi di dollari. Il presidente russo Vladimir Putin lo accusa di aver portato in Svizzera 700 milioni della banca. Lui dice che sono suoi e che gli servivano per certi commerci. Sta di fatto che Putin l’ha fatto fuori, come poi lo scorso settembre ha spossessato di Bashneft, gigante del petrolio, e messo in galera Vladimir Yevtushenkov, altro potentato. Procedure e metodi ben noti alla storia europea, praticati con successo da Luigi XIV e Pietro il Grande fino a Stalin, ossia ad ogni instaurazione del potere assoluto e dell’assolutismo come ideologia. Quel che stupisce in questa stagione di regresso è la subitaneità del crollo. L’edificio illuminista fondato sull’universalità dei valori e dei diritti, sugli sforzi di miglioramento, rovina intorno a noi. Ma, forse, preferiamo non vedere.
ebola

Repubblica 10.10.14
Ora Big Pharma fiuta l’affare e studia i vaccini
L’Oms: è una malattia dei Paesi poveri, ma ora sta arrivando in Occidente
Il titolo della società più avanti nella ricerca è schizzato: +50%
di Ettore Livini


MILANO “Follow the money”. Segui i soldi, diceva la gola profonda dello scandalo Watergate. Vale pure per capire come mai nel 2014 — malgrado i 130 miliardi investiti ogni anno da Big Pharma per andare a caccia di nuove medicine — nessuno abbia ancora messo a punto un vaccino contro l’Ebola. Questione di soldi, appunto: «L’Ebola è una malattia tipica della gente povera nei paesi poveri — è il mantra rassegnato di Marie Paule Kieney, assistente alla direzione generale dell’Organizzazione mondiale della sanità — per questo nessuno ha davvero interesse a studiare come combatterla». E solo ora che il virus è sbarcato in Occidente (e qualcuno inizia a fiutare la possibilità di fare affari) è scattato l’allarme rosso, con tanto di ok all’utilizzo di protocolli sperimentali per trattare i malati e con una prima pioggia di fondi pubblici per sostenere le case farmaceutiche più avanti nella strada per arrivare al vaccino.
Il copione è un deja vu. Andato in onda con la Sars e l’influenza A. «Il business dei vaccini è in mano a 4-5 colossi — è la spiegazione di Adrian Hill, professore a Oxford e responsabile del team inglese incaricato da David Cameron di dare la risposta d’emergenza all’epidemia — avremmo potuto stroncare l’ebola da anni. Ma è impossibile perché è un “ no business case ” ». Tradotto in soldoni: inutile sprecare miliardi in ricerca e sviluppo per mettere sul mercato un medicinale che serve a poche migliaia di persone. «Molte delle quali — ironizza Hill — non avrebbero i soldi per pagarlo».
Se serviva una conferma a questa teoria, basta guardare a Wall Street. Ora che il pericolo Ebola è diventato un incubo globale, i titoli della Tekmira — titolare di uno dei farmaci più promettenti — hanno messo le ali, guadagnando quasi il 50% in poche sedute. Il codice postale, per Big Pharma e per la Borsa, conta più di quello genetico. Il rischio contagio è uscito dall’Africa per diventare planetario. La comunità internazionale — memore della Sars (800 morti, ma danni tra i 40 e gli 80 miliardi al commercio mondiale) — è scesa in trincea togliendo il tetto ai 15 anni sulla sperimentazione e varando aiuti per i prodotti più promettenti. E i giganti del farmaco, follow the money , hanno iniziato a scendere in campo.
È l’amaro destino delle malattie povere. Se non ci sono soldi da guadagnare, nessuno si occupa di curarle. I numeri parlano da soli: secondo uno studio pubblicato da “The Lancet”, su 336 medicine sviluppate tra 2000 e 2011 per affrontare pa- tologie irrisolte, solo quattro erano per quelle “trascurate”. Tre per la malaria, una per le diarree tropicali. Dei 150mila test di laboratorio approvati nello stesso periodo, solo l’1% si occupava dei virus che non colpiscono i paesi più ricchi. Nel 2012 — ultimo dato disponibile — sono stati spesi 3,2 miliardi di dollari (su 130 totali) per fare ricerca sulle malattie dei poveri. E di questi solo 527 milioni arrivano dall’industria, mentre il resto esce dalle tasche di enti pubblici o fondazioni private. Quella di Bill e Melinda Gates, per dire, ha investito decine di miliardi per affrontare il problema e ha appesa messo 50 milioni per affrontare il caso Ebola. L’Oms sta cercando da anni di dare risposta a questo problema. Concertandola, come inevitabile, con Big Pharma. Il primo risultato è la Dichiarazione di Londra del 2012: mette nel mirino 17 patologie dei paesi del terzo mondo (malaria, tubercolosi, lebbra, vermi intestinali, non ebola) e vincola i firmatari — tra cui i maggiori colossi del settore e i mecenati come l’ex numero uno di Microsoft — a debellarne entro il 2020 almeno dieci. E qualche risultato è già arrivato: Nigeria e Costa d’Avorio hanno sconfitto definitivamente il verme della Guinea, il Marocco si è liberato del tracoma mentre in Colombia ed Ecuador è sparita l’oncocercosi, la cecità dei fiumi.
L’impegno dei privati, comunque, arriva con il contagocce: l’86% dei prodotti sviluppati ad hoc nasce da accademie e dallo stato. Glaxo-Smithkline, uno dei big più avanti anche sul fronte ebola, ha in avanzata fase di sviluppo una medicina contro la malaria che venderà a prezzo politico, il 5% in più del costo di produzione. Sanofi ha messo a punto un prodotto antidengue. Ma vista la rapidità con cui la patologia si sta sviluppando in Occidente non farà sconti a nessuno. Incasso previsto con la vendita: un miliardo l’anno. Il doppio di quanto l’intera industria di Big Pharma investe in dodici mesi contro le malattie povere.

il Fatto 10.10.14
Missouri, agente uccide 18enne in sparatoria Nuovi scontri con la comunità afroamericana
La polizia: il ragazzo aveva sparato tre colpi
L’episodio è destinato a fare salire di nuovo la tensione
Due mesi fa l’uccisione del giovane disarmato Michel Brown

qui

Corriere 10.10.14
I 17 colpi che infiammano il Missouri
Un altro ragazzo nero ucciso dalla polizia vicino a Ferguson. Proteste in piazza

di Guido Olimpio

WASHINGTON Il giovane afro-americano ucciso. Il poliziotto bianco che spara. La protesta del quartiere. Il timore di un’altra rivolta a St. Louis, in Missouri, lo stato già «caldo» per i fatti di Ferguson, che dista una trentina di chilometri dal luogo del nuovo incidente.
Le due versioni. Un agente è di pattuglia come guardia privata, un secondo lavoro perfettamente legale negli Usa. Si avvicina a tre persone di colore, ritiene che abbiano un atteggiamento sospetto. Non fa a tempo a fermarli, scappano. Il poliziotto insegue un giovane che, ad un certo punto, si volta e lo affronta «con fare minaccioso». C’è un inizio di lotta, il ragazzo estrae una pistola e apre il fuoco almeno tre volte. L’agente risponde con 17 proiettili, il fuggitivo rimane senza vita.
Non è chiaro da quanti colpi sia stato centrato. Poco distante — sostengono le autorità — trovano una Ruger calibro 9, usata probabilmente dalla vittima, Vonderrit Myers, 18 anni. I familiari del ragazzo contestano la ricostruzione e sostengono che era disarmato. «Aveva in mano un panino e non una pistola», afferma il cugino.
La notizia della sparatoria si diffonde rapida. Molti escono dalle abitazioni, gridano, accerchiano le pattuglie arrivate nel frattempo nella zona. La polizia però ripiega mentre si accende qualche tafferuglio.
Il comandante evita di alzare la tensione, però difende il comportamento del suo uomo che avrebbe agito secondo le procedure. Quindi fornisce qualche dato su Myers, un giovane con precedenti. Infatti portava un bracciale elettronico alla caviglia, quelli usati per tracciare i criminali in libertà provvisoria.
Ora c’è il timore che la tensione si trasformi in rabbia. L’episodio segue quello di Ferguson, la cittadina dove quest’estate un agente — sempre bianco — ha ucciso un ragazzo di colore, Michael Brown. Era disarmato.
Quella storia ha acceso una rivolta durata per settimane e con polemiche sul comportamento delle forze dell’ordine. Una vicenda resa ancora più delicata dalla contrapposizione razziale che ovviamente ha coinvolto molte comunità afro-americane.
L’inchiesta dovrà dare delle risposte. E non sarà facile viste le forti pressioni, anche esterne. Parte dell’opinione pubblica ritiene che la magistratura sia sempre troppo morbida nel giudicare i poliziotti coinvolti in casi controversi.

Corriere 10.10.14
Perdere Kobane o aiutare i curdi? Erdogan al bivio
di Antonio Ferrari


La città siriana di Kobane, adagiata al confine con la Turchia, rischia di cadere totalmente tra le grinfie assassine dell’Isis. È una città abitata da una maggioranza curda, e a difenderla sono rimasti rocciosi guerriglieri che hanno un assoluto bisogno di armi e di aiuti per non soccombere. Aspettavano il soccorso dai loro fratelli curdo-turchi del Pkk. Troppo fratelli, legati e solidali per piacere alla Turchia, che da una parte ha approvato — con molti mal di pancia parlamentari — la decisione di «entrare in guerra» contro i tagliagole assieme agli alleati della Nato e dei Paesi arabi moderati, ma dall’altra non ha nessuna voglia di lasciarsi risucchiare nel conflitto. La ragione è semplice: il sultano-presidente Recep Tayyip Erdogan sta vivendo un tormento molto personale: gli alleati della Nato, a cominciare dagli Stati Uniti, considerano l’Isis, e non il presidente siriano Assad, il pericolo numero uno, mentre per Erdogan il nemico vero è Assad e non l’Isis. Il problema è serio per Ankara ed è decisamente imbarazzante per il neo-presidente della Repubblica, che proprio a ridosso della sua elezione aveva rivolto carezze e sorrisi alla minoranza curdo-turca. Ora però si trova davanti a un dilemma: se aiuta i curdi di Siria contro l’Isis, finisce per aiutare anche l’odiato Pkk, da sempre ritenuto un movimento terrorista; se non aiuta i curdi di Siria sarà ritenuto responsabile della caduta di Kobane nelle mani degli islamici più fanatici. La verità è che l’arrogante e climaterico Erdogan, che durante l’effimera stagione delle primavere arabe aveva abbandonato gli amici del passato per inseguire il sogno di diventare il pilastro democratico di tutto l’Islam, ha fatto di tutto per favorire gli estremisti, compresi i famigerati seguaci di Al Baghdadi. Ora la Nato, di cui la Turchia è (era?) il bastione orientale, chiede spiegazioni e impegni, l’Unione europea è sempre più scettica sulla candidatura della Repubblica di Erdogan, e il prestigio di Ankara si sta decisamente appannando. Mentre Kobane rischia di morire.

il Fatto 10.10.14
Kobane è circondata, Obama pure: “L’Isis dilaga, è colpa sua”
Attacco frontale dell’ex capo della Cia, Panetta
“La strategia del presidente ci sta trascinando in una guerra dei trent’anni, integralisti sempre più forti”
di Giampiero Gramaglia


Sul retro della scacchiera della dama c’è un gioco che, se allinei tre pedine di fila, fai filotto e vinci. Barack Obama, il comandante in capo, anzi il professore in capo, come ormai lo chiamano negli Usa – e non è un complimento –, c’è riuscito. Solo che lui non ha vinto: ha perso.
Dopo Hillary Clinton e Leon Panetta, un terzo democratico influente ha detto che il presidente sbaglia per come conduce la guerra allo Stato Islamico. L'ex presidente Jimmy Carter, un Nobel per la Pace anch’egli – solo che lui se lo guadagnò una volta lasciata a Casa Bianca, non lo ottenne sulla fiducia appena entratoci - dice: “Abbiamo aspettato troppo tempo, lasciando che l’Is … si rafforzasse, ottenendo armi e denaro quando era ancora solo in Siria”.
GLI ALLEATI dell’America cruciali in questo conflitto non sono più teneri con Obama. Agli europei, può pure stare bene che gli Stati Uniti non vogliano inviare truppe di terra, così nessuno lo chiede loro. Ma il governo di Ankara giudica “non realistico” un intervento di terra in Siria solo turco e l’esercito della Mezza Luna assiste alla presa di Kobane, su cui l’aviazione alleata compie attacchi non risolutivi, senza passare il confine, nonostante le proteste dei curdi in Turchia facciano decine di vittime. John Allen, l’inviato speciale della Casa Bianca per il conflitto anti-Is, è ad Ankara, per colloqui con le autorità turche, dopo essere stato in Egitto.
In un'intervista al Fort Worth Star-Telegram, Carter critica il fatto che l’Amministrazione Obama abbia cambiato più volte linea politica sul Medio Oriente e abbia lasciato deteriorare la situazione in Siria e in Iraq. Per Carter, una scelta giusta sarebbe di avere truppe sul terreno almeno per dare efficacia alla campagna aerea: “Bisogna avere uomini in campo per dirigere i missili e puntare sugli obiettivi giusti”. Pochi giorni or sono, l’opposizione moderata al presidente al-Assad, quella che sulla carta l’Amministrazione statunitense vorrebbe aiutare, aveva denunciato che i raid aerei avevano preso di mira istallazioni sue e non del Califfato.
CARTER AGGIUNGE un carico da quaranta sulle critiche a Obama di Leon Panetta, clintoniano ‘doc’, che, nel giro di pochi giorni, c’è andato giù pesante due volte. Panetta, capo dello staff di Bill e poi capo della Cia e ministro della Difesa di Obama, ha buoni moventi: vuole lanciare il suo libro di memorie Worthy Fights (Battaglie che valgono la pena) e tirare la volata presidenziale 2016 a Hillary, che, dal canto suo, non se ne sta zitta. Dopo aver imputato alla Casa Bianca, e in particolare al vice di Obama, Joe Biden, il fallimento del tentativo di lasciare truppe Usa in Iraq oltre il 2011, favorendo così la nascita del Califfato, Panetta, in un’intervista a USAToday, contesta la strategia del presidente contro gli jihadisti, che sta innescando “una sorta di ‘Guerra dei trent'anni’ (il conflitto che dilaniò l'Europa tra il 1618 e il 1648, ndr) ” e che ha allargato la minaccia integralista a Libia e Yemen, a Nigeria e Somalia. In sintonia con Hillary Clinton, Panetta boccia la scelta di Obama di non accogliere il consiglio dell’ex segretario di Stato di armare l'opposizione siriana moderata al regime: lo avessero fatto, gli Usa “ora sarebbero in una posizione migliore, quanto meno saprebbero se ci siano o meno tra i ribelli fazioni moderate” in grado di rovesciare al-Assad.
Un’altra accusa ad Obama è d’avere fatto perdere credibilità agli Usa quando, l’anno scorso, s’infilò in un vicolo cieco, intimando prima ad al-Assad di non usare i gas pena un intervento e facendosi poi trarre d’impaccio – perché d’intervenire non aveva nessuna voglia - dalla Russia. Ora, il presidente, per Panetta, ha l'opportunità di “rimediare ai danni da lui causati” e mostrare leadership, dopo essersi “smarrito” contro gli integralisti che hanno conquistato ampie porzioni d’Iraq e Siria. Purchè Obama abbandoni l’atteggiamento tentennante da “professore di diritto”.

La Stampa 10.10.14
Giorgio Buccellati, professore all’ Università di California
“Il Califfo distrugge anche la storia. Noi archeologi finiti in prima linea”
Lo scopritore di Urkesh, in Siria: le maestranze difendono un patrimonio unico
intervista di Domenico Quirico


Nella terra tra i due fiumi dove la Storia umana e le città sono nate, avanzano fanatismi che impugnano il kalashnikov e il piccone, uccidono uomini e azzerano la storia a una data simbolo. Urkesh, in Siria, è uno di questi luoghi, dal mistero di millenni da cui sono state staccati e cavati alla luce, questi ruderi traggono, come un figlio dal grembo materno, l’indole la grana la forza il colore. Vedi coloro che li hanno tagliati, trasportati, eretti, accostati, i colpi e i solchi dello scalpello, le tacche per pareggiarli, il segreto e la vita di chi vi ha camminato sopra, vi ha trovato rifugio, si è appoggiato, seduto, genuflesso per secoli fino a lisciarli, scavarli, arrotondarli. Da trenta anni Giorgio Buccellati, uno dei grandi archeologi del nostro tempo, professore all’ Università di California, scava in quel mistero millenario oggi in pericolo.
Professore, Urkesh è minacciata dall’avanzata del califfato in Siria? 
«È a circa 60 chilometri dalla zona contestata, ci sono state delle battaglie non con l’Isis ma con Al Qaeda, Jabat al Nusra ma non nel sito, in zone vicine. Urkesh è ancora immune dalla guerra in sé per sé».
Ma per la guerra civile gli scavi sono diventati impossibili…. 
«L’abbiamo visitato l’ultima volta nel dicembre 2011, solo io e mia moglie, ma non per scavare, per organizzare le nostre maestranze locali. Ci sono attività che stiamo portando avanti tuttora, e siamo l’unico progetto archeologico straniero attivo in Siria; non come scavi, evidentemente, ma come attività collaterali, la conservazione dei muri, uno studio della ceramica… Abbiamo lanciato l’idea di un parco archeologico grazie a cui la popolazione avrebbe potuto sviluppare le sue attività, che avrebbero garantito una certa sostenibilità. Le donne hanno preso questo progetto in mano e una trentina producono vestiti, bambole… in numero limitato certo, ma riusciamo ancora a farle venire in Italia. Quando abbiamo visitato il sito nel 2011 abbiamo messo in piedi le procedure per continuare a dialogare con loro. Lo facciamo regolarmente, riceviamo una grande quantità di foto che ci mandano via Internet quasi settimanalmente e rapporti molto dettagliati. Uno dei problemi che nascono dalla guerra è l’abbandono dei siti, non essendo stata prevista la possibilità di un’assenza lunga, sono abbandonati alle intemperie e questo provoca altrettanti danni della guerra».
E poi ci sono i saccheggi. Ho assistito in un’altra area della Siria alla depredazione di un luogo di scavo abbandonato …. 
«È vero. Quello che è importante è l’educazione come prevenzione: spiegare alla gente il perché quelle cose sono importanti non solo da un punto di vista commerciale certo, ma anche per la loro identità storica. E questo è difficile con civiltà che risalgono a 5000 anni fa, soprattutto dove, come a Urkesh, la maggioranza locale che è curda voleva identificarsi con questa città che non è curda, ma non è neppure armena, araba, assira, è pre tutto quanto… quindi dobbiamo spiegare: dovete identificarvi ma non per i motivi che pensate ma perché siete i guardiani del territorio. E ci siamo riusciti perché hanno un grande senso di orgoglio nel passato».
Non ha l’impressione che il mio mestiere che è di raccontare la storia quotidiana e il suo, che è raccontare la storia di quattromila anni fa, stiano diventando in alcuni luoghi del mondo impraticabili, vietati ? 
«È vero. A parte i problemi di sicurezza c’è anche un problema ermeneutico, capire qual è la rilevanza del passato… È rilevante perché noi crediamo nei valori, e credendo nei valori ho trovato il valore di raccontare la storia del passato anche a chi non ha nessun interesse…».
L’archeologia in fondo è un prodotto della nostra cultura come la democrazia o il liberalismo, è una invenzione della civiltà occidentale, e ciò in alcuni luoghi del mondo oggi è una colpa… 
«Sì, soprattutto se viene impostata in una chiave colonialista… l’archeologia è una cosa occidentale ma ha un livello più profondo in cui ci riconosciamo tutti come esseri umani. La parola che mi piace usare a questo riguardo è la parola maieutica: c’è una volontà di riconoscersi nel passato in tutti e indicare come questo possa venire se crediamo noi nei valori che vanno al di là degli interessi specifici che so, la pubblicazione anche soltanto per uno studioso. Sì se riusciamo a identificarci con i valori lo trasmettiamo, questo è universale».
Oggi in alcune zone del mondo la memoria viene selezionata, il passato si arresta a una certa data, e ciò che è avvenuto prima e le sue testimonianze è nemico, da distruggere… e penso al califfato, a Timbuctu, ai taleban di ogni latitudine, all’Arabia Saudita. 
«I taleban li inseriamo nella categoria del vandalismo, l’Arabia Saudita lo consideriamo uno Stato normale e invece non lo è. Se c’è qualcuno che ferma la storia al 600 dopo Cristo è proprio l’Arabia Saudita… E la Turchia dove ho scavato per un paio d’anni in parte è così. A un certo punto è anche responsabilità nostra, di intellettuali, siamo venuti meno alla responsabilità di educare: nel senso più profondo del termine, non colonialista o di orgoglio accademico, ma nel senso di riconoscere i valori profondi dell’umanità e che si trovano già nel paleolitico».
Avanza un fanatismo liquidatorio, spariscono nel Vicino Oriente interi capitoli di storia come quello cristiano che ha preceduto l’invasione araba, diventa necessaria una archeologia del presente… 
«È importante di nuovo, una lezione che ho imparato in America, la responsabilità sociale dell’intellettuale, non nel senso di tirar acqua al proprio mulino ma nel senso di condividere valori. In un momento tremendo come questo in Siria siamo soddisfatti di essere un po’ la prova del rispettare la dignità estrema di tutti. Quando scavavamo organizzavamo ogni settimana una conferenza con tutti gli operai, mezz’ora circa, per spiegare loro perché scavavamo. Avevano 200, 300 operai di sfondo sociale e di istruzione diversa, ed è sempre stata una grande soddisfazione vedere l’interesse che questo generava e come tornassero con le loro famiglie il venerdì per mostrare lo scavo».
Il califfato di Mosul vende i reperti iracheni per finanziare la guerra santa… 
«Nel momento in cui riescono a vendere il petrolio che non è certo una cosa molto nascosta come è possibile prevenire la vendita di cose piccole come le antichità? Manca la volontà vera da parte dei governi di imporre un controllo: tra Israele e Turchia sono fiumi di antichità che possono passare…».
La professione dell’archeologo sta cambiando di fronte a un presente così violento e difficile? 
«Sì, ci sono cambiamenti anche se non ancora epocali. In sostanza il mondo accademico trova facile chiudersi in se stesso, possiamo vivere di illusioni e immaginazioni. Ma da un lato emerge un maggiore senso di responsabilizzazione rispetto a quello che si fa, e la necessità di comunicarlo. E poi un altro aspetto non legato di per sé alla guerra ma alla cambio della struttura sociale in genere, ed è quello dei finanziamenti. La maggior parte in Europa per gli scavi vengono dai ministeri degli Esteri, servono a mostrare una buona immagine del proprio Paese e questo è legato, in un modo o nell’altro, a una certa visione politica. È importante allora sul modello americano coinvolgere altri finanziatori. Noi siamo riusciti. Una azienda petrolifera inglese attiva nella nostra zona ci dava fondi per gli scavi da quattro anni. Ora non estraggono e quindi non hanno alcun interesse commerciale o di pubblicità, ma continuano perché hanno condiviso quella che noi chiamiamo importanza di una presenza morale. E poi c’è un armeno che aveva un’attività importante in Siria di supporto logistico alle aziende petrolifere; ci aveva erogato fondi, è venuto a visitare il sito. Non aveva alcun interesse archeologico, passava lì vicino e qualcuno gli ha suggerito di venire a dare una occhiata. È rimasto così colpito che si è appassionato. Mi ha detto: quanti anni ci vogliono per scavare tutto il sito? Urkesh è grande, 50 ettari, abbiamo bisogno di materiali e di gente che sappia scavare, avendo soldi forse in 200 anni riusciremo a scavare tutto… Allora facciamo una cosa, mi ha risposto, io mi preoccupo di trovare altri fondi e lei si preoccupi di trovare chi può lavorare di più al sito… ecco: il senso di responsabilità anche verso chi ci dà soldi, che non sono solo delle tasche da cui tirar via denaro ma delle persone che si possono coinvolgere a livello della sostanza: anche questo sta cambiando».

il Fatto 10.10.14
Colazione curda, contando i morti
La giornata del reporter sul fronte, fra ceck-point, bombardamenti e lacrimogeni
di Cosimo Caridi


Suruc (confine turco-siriano) Le notizie della notte sono quelle più difficili da decifrare. I combattimenti a Kobane, assieme ai morti e feriti delle manifestazioni in tutta la Turchia, sono la portata principale della ricca colazione curda. Il primo ostacolo è la lingua o le lingue. Per capire cosa succede bisogna utilizzarne almeno tre: turco, curdo e arabo. Perché la propaganda in inglese la fanno tutti, ma per sapere cosa è veramente accaduto bisogna chiamare i tre diversi fronti.
La prima telefonata la faccio al comandante in capo delle milizie del Ypg, le Unità di Protezione Popolare che da tre settimane resistono all’assedio dei jidahisti. Si è spostata la linea dei combattimenti? Sono avanzati gli uomini del Califfato? Il telefono squilla e continua a squillare fino a quando cade la linea. “Forse non può rispondere in questo momento” suggerisce Kawa, il traduttore, “o forse non potrà mai più rispondere” ribatte ironicamente una collega con cui condivido l’auto. La strada che porta al confine è l’unica asfaltata in tutta l’area. Appena usciti da Suruc, l’ultima città turca prima della frontiera, si aprono le campagne brulle. Il primo posto di blocco dell'esercito, mezzi blindati e tanti fucili d’assalto statunitensi, segno di una cooperazione militare oltre oceanica. La stampa turca si ferma subito dopo questo check-point. “Se andiamo oltre –mi spiega uno dei cameraman intento ad aprire la parabola per le connessioni in diretta - gli attivisti curdi ci attaccano”.
Al confine mancano ancora tre chilometri e ai due lati della striscia asfaltata iniziano le colline desertiche. L’ombra dei pochi arbusti diventa il punto di ritrovo per i curdi arrivati da tutta la Turchia. “Siamo passati dai villaggi per evitare la polizia – racconta Pesend, mentre con un binocolo cerca di mettere a fuoco Kobane – i turchi non vogliono che ci avviciniamo al confine, ci impediscono di entrare in Siria a combattere. Ma ci sono ancora 10mila persone in città soprattutto vecchi e ammalati. Dobbiamo difenderli, Kobane non può cadere”.
SENTO L’ODORE acre dei lacrimogeni, poco più avanti sulla strada la polizia sta disperdendo un gruppo di curdi che aveva improvvisato un blocco stradale. Controllano le automobili che vanno al confine, cercano armi e jihadisti. L’auto svolta su una strada sterrata per guadagnare la vista dall’alto di una collina. Gli aerei della coalizione internazionale hanno appena colpito la zona est della città. Due colonne di fumo nero rigano il cielo sgombro di nuvole. In terra ci sono centinaia di bottiglie di plastica, l’orma delle ore spese a osservare Kobane sotto il sole mediorientale. Dalla collina accanto, le torrette di venti carri armati turchi guardano, anche loro, la Siria. Kobane la si osserva, non si può andare a vederla. Pochi giorni fa, scortati dalle milizie del Pkk, un paio di cronisti sono riusciti a fare un rapido giro in città. Poi Ankara ha deciso di far evacuare i villaggi a ridosso del confine cancellando ogni possibilità di infiltrarsi in Siria. Certo vorrei vedere Kobane, ma sarà difficile se diventerà parte del Califfato Islamico. Rientrando a Suruc noto che i campi profughi sono cresciuti ancora. “Quella tenda l’hanno appena tirata su” conferma Newzor, siriana scappata da Kobane 10 giorni fa e che ora gestisce un accampamento di 2000 persone. La preghiera del muezzin scandisce le ore e arriva il calare del sole, devo rientrare in albergo. Sento gli slogan lanciati dai manifestanti, le strade sono nuovamente piene, la polizia in assetto antisommossa è già schierata. Domattina a colazione rifarò la conta di morti e feriti.

Repubblica 10.10.14
Il reportage
Al confine tra Turchia e Siria si intravede il fumo della sanguinosa battaglia “Non ci arrendiamo ma siamo soli” Ieri i funerali di 22 combattenti. Fra le vittime anche una giovane donna
Tra i profughi curdi scappati da Kobane “Qui non siamo ricchi e nessuno ci aiuta”
di Alberto Stabile


SURUC. ARRAMPICATI sul tetto di una moschea, in bilico sui muri a secco, o accovacciati su una pietra all’ombra di un ulivo in quel modo tutto loro di riposare, i curdi fuggiti da Kobane prestano l’orecchio agli schianti che risuonano nell’aria e aspettano che le colonne di fumo si alzino dal caseggiato, non più lontano di un chilometro o due, per decifrare l’andamento della battaglia. Dopo una giornata in cui sembrava che i bombardamenti della coalizione avessero danneggiato i jihadisti, l’armata del califfato è stata capace di contrattaccare e di prendere il controllo di un terzo della città. Notizie pessime, che però non piegano l’ardore di Ibrahim, il traduttore curdo che mi accompagna in questo viaggio: «Kobane — dice sicuro — sarà la nostra Stalingrado».
Ma non tutti la pensano così. Anzi, a dire il vero, un certo scoramento serpeggia fra gli spettatori di questa battaglia in diretta. Un sorta di fatalismo misto alla sfiducia nei confronti della comunità internazionale e ad un’aperta acrimonia verso la Turchia. Il finto protettore accusato di doppiezza, che osserva il dramma di Kobane dipanarsi senza muovere un dito. Al punto, persino, da smarcarsi dagli Stati Uniti e dalla coalizione, dichiarando apertamente, come ha fatto ieri il ministro egli Esteri Mevlut Cavusoglu, che «non è realistico aspettarsi che la Turchia conduca un’operazione di terra da sola». Il che agli occhi dei curdi è la riprova, come abbiamo sentito ripetere mille volte in questa giornata, che «la Turchia aiuta quelli dell’Is».
In segno di lutto, di protesta e di solidarietà con Kobane i negozi di Suruc sono quasi tutti chiusi. Posti di blocco dell’esercito di Ankara scandagliano passaporti e carte d’identità decidendo a insindacabile giudizio dei militari chi può raggiungere il confine e chi no. Siamo sul primo gradino che porta all’altopiano del Kurdistan turco, quella che per i governanti di Ankara è e deve restare l’Anatolia sud-orientale. Terra contesa, teatro di un lunga e sanguinosa guerriglia mossa dal Pkk (Il partito dei lavoratori del Kurdiatan considerato da Ankara e da Washington un’organizzazione terroristica) guidato da Ocalan. E qui si capisce come la nascita di un’entità autonoma o semi-autonoma come quella di Kobane, agli inizi della guerra civile siriana, abbia fatto temere ai governanti turchi la possibilità di una saldatura tra le due comunità.
Tuttavia, nonostante i controlli, la strada che porta verso il confine con la Siria é un continuo via vai di persone, poche in macchina, molte a piedi, di ogni genere e di tutte le età. Si direbbe che stessero andando a una qualche manifestazione contadina, se non fosse che nell’aria echeggiano i suoni della battaglia. Un pentagramma che i curdi hanno imparato a decrittare. Questo tonfo secco è un mortaio. Questo boato, invece, è una bomba degli alleati. I pennacchi di fumo piegati dal vento non sono tutti uguali: «Se il fumo è nero vuol dire che sono stati quelli dell’Is a provocarlo, incendiando taniche di nafta o copertoni, per nascondersi agli aerei della coalizione. Se è bianco, invece, significa che sono stati colpiti», dice Maja, ex studentessa di Architettura all’Università di Aleppo, da tre settimane rifugiata in Turchia.
Un coro insistente, come di slogan gridati con rabbia, copre la colonna sonora della battaglia. In un fazzoletto di terra a ridosso di Ziarad, una borgata di Suruc, sono state scavate 22 fosse, ciascuna con il suo perimetro di pietre levigate. Sono le tombe che accoglieranno 22 combattenti curdi di Kobane morti nelle ultime 24 ore negli ospedali della zona. Ad accompagnarli è una folla in cui spiccano alcuni giovani con il volto coperto da sciarpe colorate e le bandiere dei vari partiti curdi. Fra i morti c’è anche una donna, la cui cassa di legno grezzo, viene portata a spalla da altre donne.
Tutto avviene molto in fretta. Le bare ondeggiano sopra i cortei. Vengono poggiate a terra e scoperte. I corpi avvolti nei sudari sono adagiati nelle buche, in direzione della Mecca. Poi un gruppo di uomini fa mulinare le pale per smuovere quanta più terra possibile.
Farman Sheikh aveva soltanto 25 anni. «L’ho portato ieri da Kobane», dice il padre, Ahmad Shiek, un uomo sui 50 anni, la faccia tesa e immobile come un maschera di legno, gli occhi gonfi e arrossati. «Far- man era stato ferito alla testa durante gli scontri vicino alla stazione di polizia — continua, voltandosi verso le colonne di fumo che si levano all’orizzonte — Sono andato io ad andare a prenderlo per portarlo in ospedale. Ma al posto di frontiera di Mursit Pinar i soldati turchi ci hanno fatto aspettare quattro ore». Gli chiedo quanti figli abbia: «Dieci — risponde guardando Sauli, la moglie, impietrita — e tre sono a Kobane».
Daushan, Misanter, Atmanak. I villaggi che incoronano Kobane sono pieni di rifugiati in ansia per la sorte della città, in breve, per il loro destino. Da una fattoria di Atmanak si vede il sole brillare sui parabrezza delle macchine che la gente di Kobane ha dovuto abbandonare vicino al posto di frontiera per passare a piedi. Ora, non si possono più avvicinare. I blindati dell’esercito turco fanno barriera e, al tramonto, cominciano a tirare fuori i cannoni ad acqua e i lacrimogeni. Mahmud sfoga la sua frustrazione litigando con altri profughi: «Tutti quelli che sono fuggiti da Kobane sono dei traditori», grida senza considerare che lui non è diverso dagli altri.
Sulla via del ritorno incontro Abdul Rahaman Muslim, uno dei maggiorenti della comunità, operatore umanitario e fratello di Salah Muslim, il presidente del Partito dell’Unione Democratica del Kurdistan (PYD) le cui unità di autodifesa (YPD) hanno finora impedito la caduta di Kobane. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto — dice senza mezzi termini alludendo all’Europa, all’Occidente — Se avessimo due raffinerie tutto il mondo occidentale sarebbe qui ad aiutarci. Ma non le abbiamo e, sfortunatamente, il mondo occidentale che ha pianificato il nostro destino pensa soltanto al denaro».

Arci Report 9.10.14
Nessuna associazione con l’occupazione!
Appello per la sospensione dell’Accordo di Associazione UE-Israele

qui

La Stampa 10.10.14
Hong Kong no del governo all’incontro con gli studenti


Il governo di Hong Kong ha cancellato i colloqui con i manifestanti in programma per oggi, sostenendo che l’intensificarsi della disobbedienza civile rende impossibile qualsiasi accordo o tentativo di dialogo.
La decisione nega uno dei punti principali richiesti dagli studenti i quali, ieri, avevano minacciato di indire una nuova manifestazione e ulteriori scioperi nelle scuole e nelle università, se il dialogo con il numero due del governo di Hong Kong non avesse portato a nulla.
Fra le richieste dei rappresentanti degli studenti anche l’impeachment per il capo dell’esecutivo, CY Leung, sul quale aleggia anche uno scandalo di corruzione.
Su questo sfondo, il governo ha deciso di cancellare i colloqui. Ciò ha provocato la risposta immediata del leader studentesco 17enne Joshua Wong, che ha a sua volta lanciato un appello a tornare nelle piazze oggi stesso. E le strade hanno cominciato da subito a riempirsi da subito.
Poco prima dell’«accordo» con il governo, i manifestanti avevano portato avanti le proteste per più di due settimane contro la decisione della Cina di non permettere elezioni democratiche nel 2017.

Repubblica 10.10.14
Spose bambine
L’appello di Melinda “Salviamo il futuro di Selam e le sue sorelle”
La moglie di Bill Gates si scaglia contro la piaga dei matrimoni infantili
“Violenze, morti premature, niente più scuola: dobbiamo agire subito”
di Melinda Gates


SELAM pensava che la cena in programma quella sera nella sua casa, in Etiopia, fosse una festa come un’altra. Aveva passato tutta la giornata ad aiutare i suoi genitori nei preparativi. C’era da cucinare, andare a prendere l’acqua, pulire tutto. Non le venne in mente di chiedere cosa si festeggiasse. Di certo non le venne in mente che quella notte sarebbe diventata la moglie di uno sconosciuto. Dopo tutto aveva solo 11 anni.
Fu solo quando gli ospiti furono arrivati che il padre di Selam le spiegò che quella era la sua notte di matrimonio. Lei fu presa dal panico e cercò di scappare, ma i suoi genitori la riportarono a forza dentro la casa. Alla fine della serata, Selam lasciò la sua casa per trasferirsi nell’abitazione dei suoceri, in un villaggio in cui non era mai stata e di cui non aveva nemmeno mai sentito parlare, lontana dai suoi amici, dalla sua famiglia e dalla sua scuola.
Questa storia devastante si ripete in continuazione. Ogni anno, in tutto il mondo, quasi 14 milioni di ragazze vanno spose prima di aver compiuto 18 anni. Complessivamente, all’età di 18 anni una ragazza su 3 è già sposata.
Spesso pensiamo al matrimonio minorile come a un problema sociale, o una questione di diritti umani. Le Nazioni Unite lo classificano addirittura come una violazione dei diritti. Ma il mondo sta cominciando a vederlo sempre di più anche come un problema economico. Le famiglie e le nazioni devono conoscere il prezzo reale del matrimonio minorile.
Selam (non è il suo vero nome) vive nella Regione degli Amara, in Etiopia, un posto dove le percentuali di matrimonio minorile sono fra le più alte del mondo: 56 diciottenni su cento sono già sposate, e di queste la metà sono andate in sposa prima dei 15 anni. Quando i genitori di bambine come Selam scelgono di maritare le loro figlie, sono convinti di farlo con buone ragioni: garantire la sicurezza della figlia o assicurarsi una dote (che conta tantissimo per una famiglia che vive in estrema povertà). Ma quello che è più difficile vedere sono le ramificazioni sociali ed economiche a lungo termine.
L’inverno scorso, mentre mi trovavo nella Regione dell’Amara, ho incontrato Selam e altre ragazze nella sua stessa situazione. La cosa che più mi ha colpito è stato il loro desiderio disperato di poter continuare a frequentare la scuola. Una sposa bambina, così piccola che sembrava avere non più di 8 anni, mi ha detto che sapeva che l’istruzione era l’unica strada per andare via dal suo villaggio e dalla miseria, ma aveva paura che ora che si era sposata quella strada fosse preclusa per lei. E in effetti è quello che dicono le statistiche. Quando una ragazza lascia la scuola per anquesta dare in sposa, di solito perde l’opportunità di guadagnare un salario decoroso e contribuire all’economia della sua comunità. Quando una ragazza rimane incinta in età adolescenziale, di solito fa più figli di quelli che la sua famiglia può permettersi di nutrire e istruire. La loro salute ne risente, e anche la salute dei loro figli. Queste spose bambine sono prigioniere non solo del matrimonio, ma anche di un circolo vizioso di povertà che blocca loro, le loro famiglie, le loro comunità e le loro nazioni.
Eppure, anche di fronte a una sfida di simili proporzioni e complessità, ci sono buone ragioni per essere ottimisti. Gli attivisti che si battono contro questo problema mi hanno detto che la loro sensazione è che a livello globale il fenomeno presto toccherà l’apice e comincerà a ridimensionarsi. E gli esempi positivi cominciano a emergere. Per esempio il Governo etiope sta prendendo misure per educare le comunità sui costi di pratica tradizionale nociva, fornendo incentivi alle famiglie perché facciano studiare le bambine e applicando una serie di misure legislative per mettere fine al matrimonio minorile.
Ma non bastano le leggi per debellare una pratica culturale profondamente radicata: perché questi provvedimenti possano produrre effetto serve tempo, e bambine come Selam questo tempo non ce l’hanno. Una strada per agire nell’immediato è fare in modo che queste ragazze abbiano accesso alle informazioni e ai metodi contraccettivi necessari per ritardare il momento di fare figli.
Per molte spose bambine, avere la possibilità di rinviare la prima gravidanza è letteralmente una questione di vita o di morte. I decessi collegati alla gravidanza sono la prima causa di morte fra le ragazze tra i 15 e i 19 anni di età nei Paesi a basso e medio reddito. Non avendo ancora un corpo pronto per fare figli, le bambine di questa fascia d’età hanno il doppio delle possibilità di morire durante il parto, rispetto alle ragazze fra i 20 e i 24 anni.
La notte del suo matrimonio, Selam si sentiva molto sola. Oggi possiamo stare al suo fianco fornendo alle spose bambine il supporto di cui hanno bisogno, e lavorando insieme per chiedere che la loro sia l’ultima generazione di bambine costrette a diventare spose.
© 2-014 Bill & Melinda Gates Foundation - Distributed by The New York Times Syndicate( Traduzione di Fabio Galimberti)

Ieri su La Stampa: “Aiuto, il mio cervello decide al posto mio!
La Stampa 10.10.14
La filosofia non ci sta
“La libertà umana è un dato di fatto”
Giovanni Reale e Giacomo Marramao replicano al neurofisiologo Strata che nega il libero arbitrio
Reale: “I risultati raggiunti dalle scienze non sono verità incontrovertibili”
Marramao: “Non sempre obbediamo al richiamo dei circuiti neuronali”
interviste di Mirella Serri


«Tempo fa ho letto su un giornale tedesco la notizia di un processo in cui l’avvocato difensore sosteneva la tesi che l’imputato, nato in Sardegna, non era responsabile dei suoi atti dal momento che un certo tipo di aggressività era una componente naturale del suo cervello, rintracciabile nel dna di un sardo»: il prof Giovanni Reale, tra i maggiori filosofi contemporanei, non ha dubbi. Quelle inquietanti righe che vengono dalla Germania sono per lui il segnale che è urgente mettere un punto fermo nella discussione che oggi coinvolge l’intellighentia europea e d’oltreoceano - sul rapporto tra le ultime frontiere della neurofisiologia, filosofia e sistema giuridico.
Ieri, un articolo su La Stampa, presentando le tesi del neurofisiologo, Piergiorgio Strata, esposte ne La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze (Carocci), metteva in guardia: «Non aprite quella porta». I recenti approdi di Strata mettono in opposizione frontale le teorie scientifiche sulla mente, che deriverebbe interamente dall’attività biochimica del cervello, con una secolare riflessione filosofica in favore del libero arbitrio. Una riflessione che ha tra i suoi più accreditati interpreti proprio Reale per suoi studi, da Aristotele a Platone alla Storia del pensiero occidentale dalle origini a oggi (con Dario Antiseri, Bompiani).
Professor Reale, è possibile? Le acquisizioni dei neuroscienziati mettono in crisi le cattedrali della filosofia e del sistema giudiziario? «Ma per carità! Chi ha detto che i risultati raggiunti dalle scienze sono verità incontrovertibili. Un esempio? Mi ricordo che ero allievo di liceo e arrivò un prof di scienze con tre libri sottobraccio. Ognuno di questi dava una definizione diversa di cosa è il calore. Dunque la verità scientifica non è un dogma o una conquista assoluta. Come per la geometria euclidea, è un altro esempio, la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi. E’ un asserto valido per tutti i tipi di geometrie? Assolutamente no. Ricordiamoci che per Karl Popper la scienza non procede verificando in positivo idee precedenti ma falsificandole. Avanza cioè per paradigmi mutando i quali cambia tutto quello che si è detto».
Volontà e libertà sono reperti del passato? «Dostoevskij, che è anche un grande filosofo, diceva che il bene e il male - lo dimostra ne I fratelli Karamazov - derivano solo dalla libertà. Durante una conferenza in una sala piena di 600 persone un docente di matematica intervenne e disse che la verità si raggiungeva solo con la matematica e le sue formule. ‘Ma lei quando litiga o parla con sua moglie usa formule matematiche?’, gli chiesi. Il prof se ne andò indignato e il moderatore, il giornalista Armando Torno, mi spiegò che era appena uscito da una separazione familiare molto dolorosa. L’uomo non deve essere vittima di quello che costruisce e alla scienza non deve chiedere né poco né troppo».
Anche il filosofo Giacomo Marramao sta lavorando da tempo sul difficile equilibrio tra speculazione filosofica e nuovi orizzonti. Tanto per rimanere nella metafora: quella porta, quel passaggio aperto da Strata e da altri se lo imbocchiamo ci conduce nel determinismo scientifico? «Per me è un punto di riferimento il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio che, fin dalla fine del secolo scorso, ha sostenuto l’interconnessione tra il mondo emotivo e la razionalità, contrastando la concezione cartesiana del dualismo mente-corpo», osserva Marramao che ha affrontato queste tematiche in Contro il potere. Filosofia e scrittura (Bompiani). «Damasio ha dimostrato come proprio le emozioni, svalutate da tutta una tradizione perché turberebbero l’equilibrio della ragione, sono alla base del buon funzionamento della mente. Nel momento in cui tu stai per prendere una decisione e temi che questa ti danneggi, compare il marcatore somatico che può essere rilevato sperimentalmente. Ma non è detto che si obbedisca necessariamente al richiamo del circuito neuronale. Spesso, a volte addirittura compiendo una scelta autolesionista, si agisce in maniera contraria all’avvertimento ricevuto. I nostri processi non hanno nulla di meccanico».
Torniamo alla liberà di azione: esiste? «C’è un’azione reciproca tra mente e corpo, in un organismo unico e indissociabile e in un processo conflittuale. Come diceva Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani’: «C’è in me il desiderio del bene ma non la capacità di attuarlo. Io infatti non compio il bene che voglio ma il male che non voglio». Non avremmo avuto le guerre mondiali né vivremmo la passione d’amore se esistesse un condizionamento totale. Al Pacino, nell’«Avvocato del diavolo», sosteneva: «Il libero arbitrio è una fregatura. Purtroppo siamo costretti alla libertà».

Corriere 10.10.14
Francis Fukuyama: «La storia è ripartita (anche in Italia)
È la democrazia che ha perso velocità»
di Massimo Gaggi


WASHINGTON Contrordine: la storia non è finita con la caduta del «muro di Berlino» e il conseguente, inevitabile trionfo della democrazia liberale, come aveva annunciato Francis Fukuyama nel suo saggio più celebre, pubblicato 25 anni fa. Ce ne eravamo accorti, direte voi. Ma ora ad ammetterlo è lo stesso politologo della Stanford University: «Lo so, a molti l’ipotesi della fine della storia è sembrata sbagliata o, quantomeno, bisognosa di una revisione. Io continuo a credere che l’idea di fondo sia corretta: in tutti questi anni un sistema politico alternativo alla democrazia liberale, capace di essere accettato e di diffondersi nelle principali aree del mondo, non è emerso. Ma è anche vero che il sistema liberaldemocratico non solo non ha trionfato ovunque, ma dà segni di decadenza in molte parti dell’Occidente e in modo particolare negli Stati Uniti: oggi registro limiti e involuzioni dei processi politici che non avevo visto nella festosa eccitazione del 1989».
Incontro Fukuyama a Washington dove è ospite di vari «think tank» nei quali si discute della revisione delle sue posizioni, così come le ha esposte in «Political Order and Political Decay» (Ordine politico e decadenza), il suo ultimo saggio.
Dal mondo arabo a Vladimir Putin, dalla Cina all’Iran, sono in molti a sfidare il modello basato sulla democrazia liberale, anche quando sembrano abbracciare le regole dell’economia di mercato.
«La mia analisi dell’89, poi tradotta in slogan, era una reazione alla profezia di Marx: la storia finirà nel socialismo. Niente affatto, dissi allora, finirà in un sistema fatto di economia liberale e istituzioni politiche democratiche. L’affermazione definitiva di questo sistema obiettivamente non c’è stata. Ma non sono emersi nemmeno modelli alternativi credibili: quelle che vengono dall’Islam radicale sono resistenze e reazioni alla modernizzazione. Quella di Putin è una battaglia antistorica che il presidente russo può combattere — oggi e non so per quanto tempo ancora — grazie alla posizione di preminenza che Mosca occupa nel mercato energetico europeo. Quanto può durare? Quello governato dal Cremlino è un sistema fragile, che non attira nessuno che non parli russo. Solo la Cina, con la sua autocrazia efficiente, potrebbe proporsi come modello alternativo. Ma anche lì ci sono grosse nubi: con l’automazione e il rallentamento dell’economia, la disoccupazione di massa non risparmia più nemmeno il gigante asiatico. Nel quale, intanto, si rafforza un ceto medio sempre più vasto: si accontenterà di vivere in una dittatura altamente produttiva o chiederà libertà e democrazia? Vedremo. Per me i problemi principali sono all’interno delle democrazie occidentali. Soprattutto quella Usa, profondamente malata».
Eppure abbiamo sempre considerato quello americano — presidenzialismo più «checks and balances» — un sistema capace di decidere ma anche di evitare gravi abusi dell’esecutivo.
«Quell’equilibrio è andato in fumo con la polarizzazione della politica americana. La democrazia si è trasformata in “vetocrazia”. Non solo per il “muro contro muro” tra repubblicani e democratici: le lobby hanno acquisito una capacità crescente di usare i meccanismi di controllo che bilanciano il presidenzialismo per tenere in ostaggio le istituzioni. A questo punto funzionano meglio i sistemi parlamentari europei».
Nel suo libro, però, lei è severo anche con l’Europa. E dedica un capitolo molto amaro all’Italia.
«Le difficoltà dell’Europa le vedono tutti: un progetto incompiuto, economia asfittica, un sistema di tutele sociali che nell’immediato può attutire la crisi occupazionale, ma è sempre più insostenibile. Poi c’è l’Italia che è un caso a sé. Ricorda gli Stati Uniti del XIX secolo, soprattutto per via del sistema clientelare creato alla fine della Seconda Guerra mondiale dalla Democrazia Cristiana: allora un modo di mantenere un controllo elettorale, soprattutto al Sud, ed arginare l’avanzata del comunismo. Con tutte le degenerazioni successive che non devo certo raccontare a lei. Anche gli Stati Uniti nell’Ottocento e altri Paesi europei hanno vissuto vicende simili: un degrado del sistema politico che Max Weber ha chiamato “patrimonialismo”. Solo che gli Usa, dopo la Guerra civile, l’hanno corretto. Anche altri Paesi sono corsi ai ripari. L’Italia no: ha avuto un’occasione storica dopo la fine della Guerra fredda, vent’anni fa, ma Berlusconi l’ha gettata via. Non è servito nemmeno Bossi che con la Lega avrebbe dovuto rappresentare in modo ancor più forte le istanze di modernizzazione dei ceti medi, del mondo produttivo. Invece si è smarrito nel suo sterile populismo. Ora ci prova Renzi in condizioni ben più difficili: vedremo».
C’è chi critica il premier italiano perché, stretto tra le emergenze del debito pubblico e della disoccupazione, è partito dalle questioni istituzionali: Senato e sistema elettorale.
«Non mi sembra sbagliato, per quello che vedo da lontano. Per non finire nella spirale della decadenza, i sistemi politici liberali hanno bisogno di tre cose: uno Stato solido, governabile; istituzioni democratiche; il rispetto della legalità. Affrontando la questione del Senato (che negli Usa è all’origine della paralisi del Congresso, ma sono sistemi diversi) e la riforma della giustizia civile, Renzi guarda lontano a differenza di altri leader che investono il loro capitale politico cercando risultati immediati. Comunque vedo che si sta occupando anche di riformare il lavoro: un’agenda coraggiosa. Ma anche un’agenda obbligata dai vincoli europei, credo».
Per diffondere il liberalismo, dice lei, servono Stati forti, democrazia e legalità. Ma nel suo libro sembra che a volte il rafforzamento dello Stato venga per primo: secondo lei ha sbagliato Washington a puntare sulla democratizzazione anche dove, dalla Libia allo stesso Egitto, le condizioni ambientali erano molto difficili?
«Il caso libico ci dice che portare la democrazia dove non c’è uno Stato serve a poco. Ma bisogna tenere conto in modo pragmatico di tutti i fattori. Si può sostenere, ad esempio, che l’Iraq sia stato portato alle urne troppo presto. Ma era necessario dare legittimità agli attori politici. L’ayatollah Sistani, guida spirituale in Iraq, ebbe la saggezza di capirlo. Oggi a Bagdad paghiamo non la costituzione prematura di un governo autonomo, ma la sciagurata decisione del plenipotenziario Usa in Iraq, Paul Bremer, che 11 anni fa smantellò l’esercito iracheno».

il Fatto 10.10.14
Uscire dalla crisi
Il modello Usa ha rovinato l’impresa: torniamo a Olivetti
di Marco Vitale


L’ecatombe di imprese italiane o il loro passaggio a gruppi internazionali, sia di maggiori che di minori dimensioni, è stato, negli ultimi trent’anni, impressionante.
Il fenomeno è talmente ingente e significativo da non poter essere spiegato solo con la cattiva politica economica o con l’inesistente politica industriale o con il sindacato culturalmente e politicamente più arretrato del mondo conosciuto, o con la crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2008. Esso è anche testimonianza di una concezione dell’impresa e del suo ruolo nella società, del tutto inadeguata e di una classe imprenditoriale-manageriale estremamente mediocre.
È vero che esiste e resiste un gruppo di imprese medie eccellenti e ben guidate (chiamate il IV Capitalismo), ma si tratta di un nucleo esiguo e insufficiente. Lasciato solo finirà per soccombere. Bisogna allargarlo, rinforzarlo e, quindi, ricominciare. È un’operazione di lungo respiro, di natura innanzitutto culturale, quella di cui abbiamo bisogno, che ci porta a ripensare e rifondare il concetto stesso di impresa e del suo ruolo e collocazione nella società e nel modello di sviluppo. Nel suo primo viaggio di studio in America, a 25 anni, Adriano Olivetti, pur nell’ambito di una grande ammirazione per la vitalità, creatività e capacità organizzativa del sistema produttivo statunitense, identificò due grossi difetti: un dominio della visione e prospettiva finanziaria e una super specializzazione esasperata dei tecnici e dei manager che rendeva difficile avere una visione integrata e globale dell’impresa nella società. Questi difetti si sono andati esasperando nel tempo e negli ultimi trent’anni, soprattutto il primo, sono diventati un vero e proprio cancro.
MA NOI, nelle nostre imprese e nelle nostre università non ce ne siamo accorti e siamo rimasti appiattiti sul modello americano e anzi sulla degenerazione dello stesso. Invano Giorgio Fuà, più di vent’anni fa, si chiedeva se fosse obbligatorio che l’Italia seguisse supinamente l’America, e invano Sylos Labini, nel 2003, preannunciava, con forza e chiarezza, il prossimo collasso del sistema americano. Abbiamo così rinunciato a dare un nostro contributo che si basasse sulle nostre caratteristiche e si ricollegasse alle nostre radici, ai mirabili imprenditori toscani e lombardi, che dal 1200 al 1500 hanno creato, con le loro imprese, vero e autentico sviluppo e hanno, al contempo, costruito meravigliose e civilissime città come Firenze, Siena, Venezia; al grande pensiero dell’illuminismo lombardo (da Verri a Cattaneo) e napoletano; ai nostri grandi imprenditori (da Giuseppe Colombo a Giovanni Pirelli, a Adriano Olivetti a Enrico Mattei) ai nostri grandi economisti contemporanei (da Giorgio Fua a Sylos La-bini a Stefano Zamagni) e aziendalisti (da Coda a Dioguardi).
Chiudendo il suo libro più importante (del 1954), Peter Drucker ammoniva che il manager del futuro non sarebbe stato caratterizzato soprattutto dal suo livello di competenza, ma piuttosto dal suo carattere, indipendenza e dirittura morale. Sotto questo profilo, pur con tante luminose eccezioni, il management italiano, nel suo insieme come gruppo professionale, è fallito. Messosi al supino servizio della deleteria concezione della finanziarizzazione dell’economia, e dalla copiatura acritica dei modelli americani, ha favorito la crescita di tante “imprese irresponsabili”, secondo l’efficace definizione di Luciano Gallino. E molte di queste sono state spazzate via dalla crisi.
Per ricominciare non è più sufficiente un appello alla moralità personale dei manager, come fece Drucker nel 1954. È necessario ricostruire la visione di una economia civile, anche rivalutando le migliori tradizioni italiane, nell’ambito delle quali l’impresa si collochi come soggetto responsabile e creatore di sviluppo collettivo, e questo sia riconosciuto come il compito principale dei manager, piuttosto che quello di incrementare in qualche modo e in ogni modo, lo shareholder value degli azionisti. Come ha sostenuto negli ultimi trent’anni, una sciagurata e dominante teoria proveniente dagli Usa e da noi supinamente accettata e divulgata anche da cattedre importanti.
Si tratta di un compito esaltante che indichiamo alle nuove generazioni.

Repubblica 10.10.14Aggiungi un posto a tavola c’è Dante al pranzo realeL’invito di Roberto D’Angiò, la reazione in apparenza folle del poeta
Una storia vera e imprevedibile, che svela il legame tra cibo e potere
di Massimo Montanari


MOLTE storie si raccontavano su Dante Alighieri, il gran poeta fiorentino — celebre per l’indole focosa e lo spirito sarcastico non meno che per la sua arte sopraffina — costretto a un lungo peregrinare tra le corti d’Italia dopo essere stato esiliato dalla sua città. Tra i molti aneddoti fioriti attorno alla sua persona, particolare fortuna ebbe quello di un invito a pranzo fattogli da Roberto d’Angiò, figlio di Carlo II re di Napoli, divenuto egli stesso re nel 1309.
Il lucchese Giovanni Sercambi, agli inizi del XV secolo, ne fa argomento di una sua novella. Ci racconta che, «essendo già la nomea sparta del senno del ditto Dante», il nuovo re desiderò subito conoscerlo e ospitarlo presso di sé «per vedere e sentire del suo senno e vertù». Scrisse quindi una lettera a Castruccio Castracani, signore di Lucca, presso il quale Dante allora si trovava assieme ad altri esuli fiorentini; un’altra lettera inviò allo stesso Dante, che decise di accogliere l’invito, «si mosse di Lucca e caminò tanto che giunse in Napoli».
L’itinerario di viaggio procede in modo non lineare perché, dati i rapporti burrascosi tra Dante e la parte guelfa, preferisce evitare «terra dove la Chiesa potesse»: pertanto non scende dritto a sud, ma attraversa l’Appennino e raggiunge le Marche, poi lo riattraversa in direzione Napoli. Arriva in città giusto all’ora di pranzo e si affretta a raggiungere il Palazzo reale. Subito lo introducono nella sala del banchetto, dove, data «l’acqua alle mani», gli ospiti stanno già accomodandosi a tavola. Dante è vestito in modo dozzinale, «come soleano li poeti fare» (evidentemente, l’immagine dell’intellettuale bohémien non è un’invenzione ottocentesca). Forse non aveva avuto il tempo di cambiarsi d’abito e sistemarsi — anche se l’osservazione di Sercambi sembra piuttosto suggerire un’abitudine, un modo di abbigliarsi consueto.
Il sovrano sta prendendo posto «alla sua mensa», così come i baroni del regno. Chiede di Dante, gli dicono che finalmente è arrivato. Nella fretta dell’ultimo momento, il personale di sala lo mette a sedere «in coda di taula», in fondo a una delle ultime tavole, in un posto di poca visibilità e di scarso prestigio. Un posto dove anche il cibo poteva essere più modesto, poiché non su tutte le tavole si servivano i medesimi piatti: anche la qualità del cibo rappresentava visivamente le differenze di rango. Lo dice bene un poemetto in versi di Cosimo Anisio, non eccelso poeta del XVI secolo: «A quella mensa arrivarono piccoli pesci e altre quisquilie, mentre alla prima mensa se ne servivano di magnifici».
Il poeta — notoriamente un personaggio irascibile — la prende male, pensa che re Roberto abbia mancato ai suoi doveri organizzando un’ospitalità così distratta. Tuttavia ha fame e decide di rimanere: «Avendo Dante voluntà di mangiare, mangiò». Ma appena finito il pranzo si alza e se ne va, ripartendo subito in direzione di Ancona per poi ritornare in Toscana. Roberto, intanto, ha indugiato a tavola, chiacchierando con i commensali. All’improvviso gli viene in mente di avere un ospite importante, e chiede dove sia Dante. Gli rispondono che è già partito in direzione di Ancona. Il re si rammarica di non avergli fatto onore e pensa — giustamente — che Dante se ne sia andato in collera. Subito ordina a un mes- saggero di rincorrerlo prima che arrivi ad Ancona, per consegnargli una lettera di scuse. Dante, raggiunto, legge la lettera e torna sui suoi passi.
Eccolo di nuovo a Napoli. Questa volta si veste «d’una bellissima robba» e si presenta dinnanzi al re con gran cerimonia. Giunge l’ora di andare a pranzo e il re lo fa mettere «in capo della prima mensa, che al lato alla sua era». Una collocazione di primissimo piano, nella geografia simbolica del banchetto. La tavola a fianco di quella reale è la più vicina al centro del potere, chi la presiede occupa un posto d’onore che si concede a pochi. Dante, attorniato da alti personaggi, se la gode nel bel mezzo della tavola.
Ora comincia il teatro. Arrivano le vivande e i vini, e «Dante, prendendo la carne, et al petto e su per li panni se la fregava; così il vino si fregava sopra i panni ». I vicini di tavola cominciano a rumoreggiare: va bene che gli intellettuali sono strani, ma fino a questo punto! Strofinarsi la carne addosso, versarsi «il vino e la broda sopra i panni» è comportamento davvero singolare. Un umanista cinquecentesco, il lughese Bartolomeo Ricci, nel raccontare questa storia arricchisce l’episodio di particolari succosi: «Invece di portare i cibi alla bocca, Dante li gettava sulle vesti, versandoli ora da una parte, ora dall’altra; la carne bollita se la mise sul braccio; sulle spalle si appese degli uccelli interi».
Torniamo a Sercambi. «Costui dé esser un poltrone», commentano gli illustri vicini. Dan- te li sente, ma tace. Il suo piano sta funzionando. È lo stesso sovrano a rivolgersi a lui: «Dante, che è quello che io v’ho veduto fare? Tenendovi tanto savio, come avete usato tanta bruttura? ». Dante non aspettava altro. «Santa corona», risponde, «io cognosco che questo grande onore ch’è ora fatto, avete fatto a’ panni; e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande apparecchiate». E per chi ancora non avesse capito, spiega: io sono lo stesso dell’altro giorno, con tutto il mio senno, qualunque esso sia. Ma l’altro giorno mi avete messo in fondo alla tavola perché ero malvestito; oggi, ben vestito, mi avete messo a capotavola.
Il re Roberto non si offende per il rimprovero, poiché lo ritiene fatto con spirito e «onestamente », e per di più corrispondente al vero. Comanda di portare una veste pulita e prega Dante di rivestirsi, dopo di che il poeta «mangiò avendo allegrezza ché avea dimostrato a’ re la sua follia». Terminato il pranzo e alzatisi da tavola, il re prese da parte Dante e si intrattenne amabilmente con lui, «praticando della sua scienza» e trovandolo persona ancora più brillante e sapiente di quanto non avesse sentito dire. Lo pregò di fermarsi a corte per qualche giorno, per il piacere di conversare con lui.

Questo testo è tratto da I racconti della tavola di Massimo Montanari (Laterza, pagg. 224 euro 18)
RTV-LAEFFE Oggi alle 13,45 su RNews (canale 50 del dtt e 139 di Sky) il servizio su Dante