domenica 12 ottobre 2014

il Fatto 12.10.14
Obbedienza
Renzi, il nuovo potere in camicia bianca
di Furio Colombo


C’è chi sa come stanno le cose. Non c’è ritorno. Gli uomini con la camicia bianca sono molto vicini al potere, e il potere è cambiato. Non vi starò a dire chi sposta i pezzi perché non lo so, ma i pezzi sono stati spostati. In pochissimo tempo siamo passati da una lotta politica interna a un partito, per il temporaneo controllo della segreteria, alla guida, ben ferma e non discutibile, di un partito-nazione che non ha e non accetta confini, non ha e non accetta dissenso, non ha e non accetta alternative. Questo nascente partito-nazione non è interessato ai confini istituzionali (se questo compito tocchi all’esecutivo oppure al Parlamento), non accetta e anzi ridicolizza confini ideologici (se questa sia o non sia sinistra). Quei limiti – e tutti i limiti – sono disprezzati con l’espediente di rovesciare la scena e trascinare la folla. Non sono io che travalico linee sacre. Ma sono io che, da solo, ho il coraggio di salvarvi e questo è il percorso.
Il dovere dell’obbedienza è implicito in questa formula di governo che tende a sbarazzarsi di inciampi e ribelli. Sembra chiaro che, in questa improvvisa e drammatica riorganizzazione di ciò che dobbiamo intendere per politica, non ci sono improvvisazioni. Ciascun designato sa qual è il compito e qual è il percorso e perché la scrupolosa osservanza, e non la competenza, è il requisito essenziale. Salvo che in strettissimi ambiti tecnici, la competenza è anzi considerata una distrazione o una ambizione che limita la fedeltà. Il patto è fra pochissimi, qualcosa come “la prima ora”. Altri, in numero destinato a essere crescente, seguono e seguiranno, ma destinati a restare sostenitori e seguito, più o meno ignoti, persino in Parlamento.
CI SONO ANCORA aree di disordine e zone di ribellione (stiamo parlando dell’interno dell’ex Pd). Quanto siano rare è un indizio che persino i presunti leader di alternative sanno, pur essendo stati tenuti fuori dal progetto, che non ci sono varchi possibili. Appaiono deboli (non tutti) perché si sono resi conto in ritardo che esclusione e inclusione non erano più materie trattabili.
Sappiamo poco del progetto, ma il progetto c’è. Per questo, assembramenti e manifestazioni di contrasto avvengono sempre in un vuoto che non ha conseguenze politiche. E questo è anche il rischio della “occupazione delle fabbriche” imprudentemente annunciato da Landini, sulla base di un altro tempo e un altro luogo. Direttori di giornali e capi azienda sono stati informati o cambiati, o arbitrariamente esclusi, suscitando furiose reazioni di alcuni nel vuoto che intanto si è creato intorno a loro. All'improvviso compaiono appelli su grandi giornali (“Noi sosteniamo Matteo Renzi”) firmati da nomi che sono o si considerano grandi. Meritano interesse per tre ragioni. La prima è che Matteo Renzi non era in pericolo e neppure in bilico, e dunque l’appello è un tributo, non un aiuto. La seconda ragione è l’uso di frasi come “andare avanti insieme a chi crede”, dove “credere” è la parola chiave, una parola di fede e sottomissione, non di politica; oppure: “sosteniamo la volontà (del premier, ndr) di non mollare”, invocazione che fa perno su “volontà” cioè la qualità superiore di chi si è messo alla guida. E dove “non mollare” annuncia rigetto (approvato dai firmatari) di ogni critica.
L’appello è importante perché ci dice con chiarezza che siamo nella fase in cui si aderisce, non più in quella in cui si partecipa alla fondazione. Potrai essere e sentirti dalla parte giusta. Ma sei tra quelli che seguono e si adeguano. Ci devono essere delle buone ragioni per farlo, anche se la maggior parte di noi non le conosce. Il renzismo infatti fa proseliti con molto successo in modo insolito, certo estraneo alla vita democratica. Non devi sapere, devi credere .
Intanto il sistema mediatico, soprattutto visivo, tempestivamente coinvolto e debole di natura, ha messo a disposizione una immensa quantità di notizie, di diretta e in replica, su una sola persona, che provvede a coprire tutte le funzioni di governo in Italia e all’estero, malamente compreso nella lingua, ma perfettamente chiaro nel gesto esclusivo di contare e di comandare senza alcuna forma di opposizione. Anzi, una efficace trovata del leader è di essersi impossessato del linguaggio della ex opposizione. Lui è “contro”, ed è in questa titanica impresa che bisogna credere, e da cui viene la “volontà di non mollare”. Tutto ciò non è tipico di chi gestisce il potere, ma di chi sta radunando masse fedeli per dare l’assalto finale alla fortezza.
PERÒ il fervore apparentemente improvvisato dei discorsi copre ordine e ridistribuzione dei pezzi del gioco fatta per tempo, non sappiamo da chi e di cui non sappiamo il fine ultimo, che non è il potere personale. Renzi non è Attila, è un professionista in missione. Pare bravo, ma ha il grande vantaggio di giocare su un tavolo in cui gli altri si muovono alla cieca, perché tutto è già stato deciso prima. La storia è più semplice e più complicata di quel che sembra. Il fatto è che le prossime puntate sono già state filmate e certo non ti raccontano in anticipo come dovrebbe finire. Si, si può ancora fare qualcosa. Interrompere “la sceneggiata” (così il leader chiama l’opposizione in Parlamento) e fare lo sforzo che certe volte devi fare dormendo: svegliarti lottando contro lo stato di sonno. Fare ritorno alla normalità, fuori da un Truman Show già tutto serializzato.
Nei tristi filmati delle Camere vedi ancora facce vere, di vere persone (alcune stanno per essere cacciate dal Pd). Se si accostano (metti Casson e Di Maio) una vera resistenza è possibile. A volte, nella storia, ha portato liberazione.

Repubblica 12.10.14
Il sondaggio
Si ferma il forte calo registrato a settembre e Renzi riconquista due punti, attestandosi al 62 per cento
Il consenso in ripresa il premier sale al centro. Il Pd oltre il 41%
in affanno Forza Italia
di Ilvo Diamanti


L’AUTUNNO di Renzi si annuncia caldo. Ma il forte calo di fiducia nei confronti del premier – e leader del PD – registrato un mese fa, oggi sembra essersi fermato. È quanto emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico di Demos (condotto nei giorni scorsi). Che suggerisce, anzi, alcuni – limitati – accenni di ripresa. Il credito verso il governo, infatti, è risalito di un paio di punti – dal 54% al 56%. La stessa crescita che fa osservare la fiducia personale verso il premier: dal 60% al 62%. Non era scontato. Era possibile, infatti, che le indicazioni fornite dall’Atlante Politico di un mese fa annunciassero la fine del legame di confidenza fra Renzi e gli elettori. Questo sondaggio, invece, suggerisce come il ridimensionamento osservato in settembre riflettesse il ritorno alla normalità. Dopo l’euforia prodotta, nel clima d’opinione, dal successo conseguito alle Europee dal PD guidato da Renzi. Il PDR. Una “normalità”, peraltro, “eccezionale”, rispetto alla storia elettorale del Centrosinistra, rimasto una “minoranza” anche dopo l’avvento di Berlusconi. Oggi non è più così. Il PD, secondo le stime elettorali dell’Atlante Politico, conferma e, anzi, rafforza, seppur di poco, il risultato delle europee. Supera, cioè, il 41%. Di gran lunga, il partito più forte, sul piano elettorale. Gli “sfidanti”, invece, restano lontani. Il primo, e più importante, il M5s, si mantiene intorno al 20%. Il partito maggiormente in crescita è, però, la Lega che, ormai, sfiora il 9%. Crescono anche i Fratelli d’Italia, che, tuttavia, pesano poco. Meno del 4%. Ma superano, comunque, il NCD. Che, insieme all’UDC, è sceso al 2,6 %. Insomma, il Centro (destra) è scomparso, oppure è in grave difficoltà. Come dimostra il ripiegamento di Forza Italia, attestata intorno al 15,6%. Cioè, 3 punti meno di un mese fa. A conferma di come il PDR, dopo aver largamente assorbito i partiti di Centro, stia erodendo il voto degli elettori di Forza Italia. Ciò spiega le dinamiche e le ragioni del consolidamento di Renzi. Il brusco ridimensionamento del consenso verso il governo e verso il Premier rilevato a settembre, infatti, si era concentrato fra gli elettori di Centrodestra. E fra i piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi del Nord. Le componenti dove, oggi, il sostegno risulta cresciuto maggiormente. I giudizi nei confronti del governo, infatti, nell’ultimo mese, sono risaliti proprio “a destra”. Fra gli elettori di FI, in particolare: dal 34% al 46%. Ma anche della Lega e dei Fd’I. Sotto il profilo delle categorie professionali, la risalita più evidente, rispetto a settembre, riguarda, non per caso, i piccoli imprenditori, i lavoratori autonomi (dal 46% al 67%) e i liberi professionisti (dal 47% al 60%).
Solo nella base del M5s la valutazione del governo resta molto negativa e non accenna a crescere.
Questi mutamenti d’opinione appaiono conseguenti al dibattito intorno alla riforma del lavoro, il Jobs Act, approdato in Parlamento fra polemiche accese. Alimentate, soprattutto, dalla “revisione” dell’art. 18. Che Renzi ha sollevato, consapevolmente, per non vedersi spinto a Sinistra. Mentre il suo PDR guarda al Centro(sinistra). E mira a intercettare il voto di (centro) Destra.
D’altronde, rispetto al marzo 2013, all’indomani delle elezioni politiche, il profilo politico di Renzi, fra gli elettori è cambiato profondamente. La fiducia nei suoi confronti, fra coloro che si definiscono di Sinistra: dall’84% è scesa al 62%. Venti punti in meno. Ma ne ha recuperati, in parallelo, dieci fra quelli di Destra. Mentre fra quelli di Centrosinistra si conferma all’80%. E nella base elettorale del Centro e del Centrodestra oscilla fra il 60 % e il 70%; in sensibile ri-crescita, comunque, rispetto a un mese fa. Anche per questo, il premier si è dimostrato cauto, e quasi elusivo, sul riconoscimento dei matrimoni gay celebrati all’estero. Cui si è opposto il ministro Alfano, leader del NCD. Perché è un tema sensibile, che, come mostra il sondaggio di Demos, ottiene un consenso crescente, fra gli italiani. Ma rischia di dividere il PDR, al suo interno. E, soprattutto, di “dividerlo” dagli alleati e dal Centrodestra.
L’opposizione, così, non sembra più rispondere alla tradizionale alternativa politica, fra Sinistra e Destra, ma segue altre linee di demarcazione. Per prima, la frattura anti-europea, che, non a caso, accomuna il M5s e gli attori politici lepenisti: la Lega, ma anche i Fratelli d’Italia. Beppe Grillo, non a caso, nel corso della manifestazione del M5s al Circo Massimo, ha annunciato un referendum per uscire dall’euro.
L’opposizione si presenta, in questo modo, come un’alternativa “di sistema”. In nome di un diverso modello di democrazia: “diretta” invece che “rappresentativa”. E per questo anti-parlamentare – pur agendo dentro al Parlamento. In nome di un diverso progetto geopolitico. Fuori dall’Europa. Anzitutto: dall’euro e dalla UE.
Per questo, però, oggi Renzi appare senza alternativa. E può dedicarsi alla costruzione di un post-partito, dove l’identità personale si sostituisce alla tradizione e all’organizzazione del partito. Il PdR, per questo, appare un “partito di elettori”, in grado di superare i confini territoriali e ideologici del passato. Così, guadagnato voti perdendo iscritti, in modo quasi speculare. Ma, allo stesso modo e per la stessa ragione, gli è difficile esercitare un controllo sui propri elettori. O, almeno, costruire un legame stabile con essi. Privi di fede, patria e comunità. Rischiano di diventare un popolo di apolidi. Scettici. Senza fissa dimora.

Repubblica 12.10.14
“Maggioranza assoluta” Renzi rispolvera il sogno di Veltroni
Un partito sul modello Usa: sarà al centro della direzione del 20 Jobs act, Damiano chiede modifiche. L’Ncd: non se ne parla
di Francesco Bei


ROMA Un partito che aspiri al 50 per cento. In cui l’anima riformista non soffochi la componente più a sinistra, come tra i democratici americani o nel labour inglese. Un partito in grado di rappresentare sia l’operaio che il lavoratore autonomo. Un partito, insomma, «a vocazione maggioritaria». Mancano pochi giorni alla direzione del Pd del 20 ottobre, quella dedicata alla forma partito, e Matteo Renzi è arrivato dove tutto in fondo era cominciato: la vocazione maggioritaria, appunto. Sarà questo il tema della riunione, su questa idea il segretario sta iniziando a raccogliere spunti dai collaboratori. Con un proposito preciso: offrire una «casa comune» a tutte le minoranze interne, anche a quelli che lo attaccano sul Jobs Act, e spalancare finalmente le porte del Pd al «popolo delle primarie».
Ad aprire gli occhi a Renzi è stato lo studio Itanes che Lorenzo Guerini gli ha sottoposto nei giorni scorsi. Una ricerca che mostra come il Pd, nel passaggio dal 25% delle Politiche al 40,8% delle europee, abbia davvero cambiato pelle. Superata la ridotta delle regioni rosse e del lavoro dipendente, è diventato il primo partito tra i lavoratori autonomi, il primo tra i giovani (che alle politiche gli avevano preferito Grillo), il primo tra gli operai. Dunque, per dirla con Guerini, «non possiamo più cercare rifugio in una rappresentanza predefinita, dobbiamo parlare a tutti gli italiani». È l’ambizione di diventare un partito della nazione, un catchallparty , il partito pigliatutto che guarda al governo come suo primo obiettivo. E valuta l’ipotesi di una coalizione una palla al piede più che un’opportunità, un luogo dove la carica innovativa di Renzi può solo essere depotenziata nella trattativa con gli alleati. Dunque dopo l’esperimento fallito di Veltroni, che imbarcò Di Pietro, e quello di Bersani, che si alleò con Vendola e Tabacci, il Pd di Renzi aspira a presentarsi da solo. Semmai aprendosi a possibili compagni di viaggio che si vorranno aggregare per incorporazione. Come i sopravvissuti di Scelta civica o i fuoriusciti da Sel. Domenica prossima, il giorno prima della direzione del Pd, si terrà l’assemblea nazionale di Led (gli ex vendoliani) e tutti si aspettano che i parlamentari che seguirono Gennaro Migliore annuncino il passaggio nelle file dem. Ma per un partito che guarda alla metà più uno dei consensi non ci sono limiti. «Per me — osserva Giorgio Tonini, membro della segreteria e braccio destro di Veltroni al tempo della “vocazione maggioritaria” — nel Pd ci può stare anche Vendola. Tutti si devono sentire a casa loro». Altro tema forte della direzione sarà il ruolo da assegnare ai non-iscritti nel futuro partito. Perché l’idea di Renzi è quella di una doppia affiliazione. L’iscrizione per chi se la sente ancora di frequentare i circoli, l’adesione per tutti gli altri. Che verranno ascoltati anche grazie ai social media. Anche perché, essendo finito il finanziamento pubblico, è proprio sui «cinque euro a testa» dei tre milioni di partecipanti alle primarie che Renzi conta per sostenere le casse del Nazareno. «Il vecchio Pd — sostiene Debora Serracchiani. si sta trasformando in qualcosa di diverso. E forse bisognerà anche mettere mano allo statuto».
Chiaro che questa idea di partito presuppone un modello politico di fatto bipartitico. E per arrivarci c’è bisogno di una legge elettorale coerente. Non è un caso allora se Renzi, come si lascia sfuggire Ignazio Abrignani di Forza Italia, nell’ultimo incontro a palazzo Chigi abbia proposto a Berlusconi una novità clamorosa: «Ha accennato alla possibilità di dare il premio di maggioranza alla lista e non più alla coalizione. Verdini è inorridito, perché per noi sarebbe un massacro, ma Berlusconi gli ha risposto che ci penserà».
Ma intanto, prima della legge elettorale, c’è il Jobs Act da portare a casa. «Al Senato sono stati fatti passi in avanti ma secondo me non sono sufficienti: sono necessarie ulteriori correzioni» avverte Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro. Dall’Ncd rispondono con un fuoco di sbarramento. «Se la Camera peggiorasse il testo — replica Sacconi — il Nuovo Centrodestra non potrebbe accettarlo». Un gioco di interdizioni reciproche che, alla fine, potrebbe anche tornare utile a Renzi.

Corriere 12.10.14
Il peso degli elettori delle primarie
Così Renzi cambierà pelle al partito
Verso una struttura sempre più liquida. Anagrafe degli iscritti e partecipazione sul web
di Maria Teresa Meli


ROMA «Partito liquido? Se fosse per me lo vorrei liquidissimo, funzionante solo via Internet». Correva l’anno del governo Letta e Matteo Renzi non era diventato ancora segretario del Pd quando ragionava così.
Chissà se ora che è il leader di quella forza politica ripeterebbe queste parole. Certo è che il premier è convinto che non si possano più organizzare i partiti «come si faceva 50 o 60 anni fa» ed è per questo che ormai «non sono più rappresentativi». In un mondo dove «ci sono più connessioni Internet che esseri umani» ci vuole «un partito adatto al tempo in cui viviamo». Perciò, il 20 ottobre il segretario riunirà la direzione per «cominciare a discutere del problema della forma partito».
Apparentemente, una concessione alla minoranza che aveva sollecitato una conferenza sull’argomento. A quella minoranza che, con Gianni Cuperlo, si esprime così, quasi per sottolineare come Renzi sia un corpo estraneo al Pd a egemonia Ds del tempo che fu: «È un fatto raro che ci sia un leader europeo che abbia raggiunto la guida del partito senza aver partecipato, negli anni precedenti, se non in termini molto episodici, agli organismi dirigenti di quel partito. La sua è stata una sorta di scalata dall’esterno. Del tutto legittima, però qualcosa di assolutamente originale e anomalo».
Nessun cedimento alla minoranza, quindi. Piuttosto Renzi intende giocare in contropiede. Perciò ha deciso di convocare la segreteria due ore prima di quell’appuntamento e ha chiesto a Giorgio Tonini, uno dei «creatori» del Pd di veltroniana memoria, di preparare un intervento che farà da filo conduttore alla successiva riunione. Naturalmente, Renzi in segreteria presenterà anche la sua sorpresa. Dall’entourage del segretario-premier filtra ben poco. In realtà, però, il leader del Pd ha già qualcosa in testa.
Il primo punto riguarda gli iscritti. Ossia i famosi tesserati sul cui numero si sono scatenate le polemiche di questi giorni. Il problema, per dirla con Tonini, «non è la quantità degli iscritti, ma la loro qualità». Già perché finora nelle campagne di tesseramento hanno avuto un certo peso anche i ras locali. Esattamente ciò che Renzi vuole evitare. Perciò si pensa a una anagrafe degli iscritti che certifichi che i tesserati siano veri e volontari. C’è quindi una seconda questione. Quella che, per dirla sempre con Tonini, riguarda l’ipotesi di «un progetto ad hoc» per coinvolgere gli elettori delle primarie: «Sono tre milioni e nessun partito ha mai avuto un simile database potenziale di partecipazione». Gli elettori vanno coinvolti in campagne specifiche, attraverso la piattaforma web. La Rete, secondo il premier, avrà una grande funzione nella «fase due» del Pd. Insomma, per il segretario «devono essere i democratici a dare la linea al web e non il contrario». Ma occorre coinvolgere anche gli italiani che votano Pd alle elezioni. Tanto più che, come rivela «Europa», il 20 per cento degli astenuti delle Europee oggi voterebbe Pd.
Il terzo punto riguarda gli organismi dirigenti. È opinione di Tonini che «vadano ripensati» in modo radicale: al posto dell’Assemblea nazionale l’esponente della segreteria immagina, sul modello del Labour party, una conferenza programmatica annuale, che «vota punto per punto su diversi temi che diventano impegnativi per i ministri». Infine, il problema del finanziamento: il pressing su Sposetti continuerà.
Ma in direzione si parlerà anche di ciò che è successo al Senato. «È un caso che non può ripetersi», per Renzi. E non perché un partito sia una caserma, ma «perché abbiamo bisogno che il Pd agisca come una squadra». «Bisognerà quindi riflettere su come si sta insieme, sulle regole interne, sul rapporto tra partito e governo». Chissà quale sarà la reazione della minoranza, innervosita dopo che Renzi ha «scippato» a Bersani il «suo uomo» più importante, quel Vasco Errani che il segretario vuole portare assolutamente a Roma.

Corriere 12.10.14
Se c’è la corsa ad avere Renzi come ospite, il premier che fa ascolti
di Aldo Grasso


La tv fa bene a Renzi, Renzi fa bene alla tv. Se c’è una cosa su cui il presidente del Consiglio assomiglia davvero a Silvio Berlusconi è la sua capacità di stare costantemente al centro della scena mediatica.
Agli schizzinosi potrà sembrare eccessivo, ma la strategia dell’ (onni)presenza ha pagato col Cavaliere, e pare pagare col premier. Intanto i dati quantitativi mostrano l’analogia evidente delle due figure politiche: per quasi un ventennio Berlusconi è stato in vetta alla classifica dei personaggi più presenti in televisione, in termini di tempo di notizia (nei tg), di parola (dichiarazioni nei notiziari e negli altri programmi) e di antenna (che somma i primi due dati). Non c’è stato nessuno che ha insidiato questa supremazia fino al passaggio di testimone con Matteo Renzi. Il premier — anche grazie all’assommarsi delle cariche — occupa ora questa centralità: solo a settembre, ha totalizzato 77 ore di tempo d’antenna nel complesso e variegato scenario televisivo digitale. Naturalmente tempo di notizia e tempo di parola hanno significati simbolici differenti. Col primo Renzi si assicura una sorta di «basso continuo»: è lui che ha in mano la palla, gioca all’attacco, di solito vince (come per l’articolo 18). Sarà questa la vera, strategica ragione dell’«annuncite»? Col tempo di parola, invece, «ci mette la faccia» e affronta platee apparentemente avverse. Scherzando con Paolo Del Debbio o duettando con Nicola Porro ha resuscitato i loro programmi: con 1.581.000 spettatori (6,9%) Porro ha battuto Santoro, mentre con 1.444.000 spettatori (6,4%) Del Debbio ha superato Formigli. È il cane che si morde la coda: ora vorranno tutti averlo ospite. (a.g.)
In collaborazione con Massimo Scaglioni,
elaborazione Geca su dati Auditel

condannato in Appello...
Corriere 12.10.14
Errani verso l’ingresso al governo come sottosegretario all’Economia

ROMA «A Roma, nel partito e nel governo, abbiamo bisogno di te...». Così l’altra sera a Medolla il capo del governo si è rivolto a Vasco Errani, l’ex presidente dell’Emilia-Romagna dimessosi a luglio in seguito alla condanna in appello: un anno per falso ideologico nella vicenda Terremerse. E ora si scopre che, dietro le parole di Matteo Renzi, starebbe maturando l’idea di un incarico nell’esecutivo. Il leader del Pd avrebbe in mente di chiamare al governo il già braccio destro di Pier Luigi Bersani, per affidargli il posto di sottosegretario all’Economia lasciato libero da Giovanni Legnini (eletto vicepresidente del Csm).
A Errani, Renzi potrebbe assegnare la delega
ai fondi Ue e quella sulla ricostruzione post terremoto in Emilia. La fiducia del premier nei confronti dell’ex potentissimo presidente della Conferenza delle Regioni è tale, che il premier lo vorrebbe nella nuova cabina di regia economica che risponde direttamente a lui e di cui fanno parte Yoram Gutgeld, Filippo Taddei
e Tommaso Nannicini. Nello staff di Errani la notizia del possibile ingresso al governo ha destato una certa sorpresa, visto che da settimane i suoi lo vedono chino sulle carte bollate, intento a preparare il ricorso per la sua vicenda giudiziaria. L’ingresso a Palazzo Chigi, quindi, non è scontato. Resta il fatto che tra Renzi ed Errani sia scoppiata da tempo, racconta chi li conosce entrambi, un «strana alchimia». Una forte stima reciproca nata ai tempi in cui Bersani era segretario del Pd.

il Fatto 12.10.14
Gli anti-Renzi
Sognando Landini, la sinistra radicale chiama il leader Fiom
La protesta del 25 ottobre contro il Jobs act sarà la prova generale
Nasce la nuova sinistra e chiama Landini
Da Sel a Rifondazione, dai movimenti a Libertà e Giustizia e forse anche ai dissidenti Pd: il piano che guarda al segretario della Fiom
di Antonello Caporale


C’è chi sa come stanno le cose. Non c’è ritorno. Gli uomini con la camicia bianca sono molto vicini al potere, e il potere è cambiato. Non vi starò a dire chi sposta i pezzi perché non lo so, ma i pezzi sono stati spostati. In pochissimo tempo siamo passati da una lotta politica interna a un partito, per il temporaneo controllo della segreteria, alla guida, ben ferma e non discutibile, di un partito-nazione che non ha e non accetta confini, non ha e non accetta dissenso, non ha e non accetta alternative. Questo nascente partito-nazione non è interessato ai confini istituzionali (se questo compito tocchi all’esecutivo oppure al Parlamento), non accetta e anzi ridicolizza confini ideologici (se questa sia o non sia sinistra). Quei limiti – e tutti i limiti – sono disprezzati con l’espediente di rovesciare la scena e trascinare la folla. Non sono io che travalico linee sacre. Ma sono io che, da solo, ho il coraggio di salvarvi e questo è il percorso.
Il dovere dell’obbedienza è implicito in questa formula di governo che tende a sbarazzarsi di inciampi e ribelli. Sembra chiaro che, in questa improvvisa e drammatica riorganizzazione di ciò che dobbiamo intendere per politica, non ci sono improvvisazioni. Ciascun designato sa qual è il compito e qual è il percorso e perché la scrupolosa osservanza, e non la competenza, è il requisito essenziale. Salvo che in strettissimi ambiti tecnici, la competenza è anzi considerata una distrazione o una ambizione che limita la fedeltà. Il patto è fra pochissimi, qualcosa come “la prima ora”. Altri, in numero destinato a essere crescente, seguono e seguiranno, ma destinati a restare sostenitori e seguito, più o meno ignoti, persino in Parlamento.
CI SONO ANCORA aree di disordine e zone di ribellione (stiamo parlando dell’interno dell’ex Pd). Quanto siano rare è un indizio che persino i presunti leader di alternative sanno, pur essendo stati tenuti fuori dal progetto, che non ci sono varchi possibili. Appaiono deboli (non tutti) perché si sono resi conto in ritardo che esclusione e inclusione non erano più materie trattabili.
Sappiamo poco del progetto, ma il progetto c’è. Per questo, assembramenti e manifestazioni di contrasto avvengono sempre in un vuoto che non ha conseguenze politiche. E questo è anche il rischio della “occupazione delle fabbriche” imprudentemente annunciato da Landini, sulla base di un altro tempo e un altro luogo. Direttori di giornali e capi azienda sono stati informati o cambiati, o arbitrariamente esclusi, suscitando furiose reazioni di alcuni nel vuoto che intanto si è creato intorno a loro. All'improvviso compaiono appelli su grandi giornali (“Noi sosteniamo Matteo Renzi”) firmati da nomi che sono o si considerano grandi. Meritano interesse per tre ragioni. La prima è che Matteo Renzi non era in pericolo e neppure in bilico, e dunque l’appello è un tributo, non un aiuto. La seconda ragione è l’uso di frasi come “andare avanti insieme a chi crede”, dove “credere” è la parola chiave, una parola di fede e sottomissione, non di politica; oppure: “sosteniamo la volontà (del premier, ndr) di non mollare”, invocazione che fa perno su “volontà” cioè la qualità superiore di chi si è messo alla guida. E dove “non mollare” annuncia rigetto (approvato dai firmatari) di ogni critica.
L’appello è importante perché ci dice con chiarezza che siamo nella fase in cui si aderisce, non più in quella in cui si partecipa alla fondazione. Potrai essere e sentirti dalla parte giusta. Ma sei tra quelli che seguono e si adeguano. Ci devono essere delle buone ragioni per farlo, anche se la maggior parte di noi non le conosce. Il renzismo infatti fa proseliti con molto successo in modo insolito, certo estraneo alla vita democratica. Non devi sapere, devi credere .
Intanto il sistema mediatico, soprattutto visivo, tempestivamente coinvolto e debole di natura, ha messo a disposizione una immensa quantità di notizie, di diretta e in replica, su una sola persona, che provvede a coprire tutte le funzioni di governo in Italia e all’estero, malamente compreso nella lingua, ma perfettamente chiaro nel gesto esclusivo di contare e di comandare senza alcuna forma di opposizione. Anzi, una efficace trovata del leader è di essersi impossessato del linguaggio della ex opposizione. Lui è “contro”, ed è in questa titanica impresa che bisogna credere, e da cui viene la “volontà di non mollare”. Tutto ciò non è tipico di chi gestisce il potere, ma di chi sta radunando masse fedeli per dare l’assalto finale alla fortezza.
PERÒ il fervore apparentemente improvvisato dei discorsi copre ordine e ridistribuzione dei pezzi del gioco fatta per tempo, non sappiamo da chi e di cui non sappiamo il fine ultimo, che non è il potere personale. Renzi non è Attila, è un professionista in missione. Pare bravo, ma ha il grande vantaggio di giocare su un tavolo in cui gli altri si muovono alla cieca, perché tutto è già stato deciso prima. La storia è più semplice e più complicata di quel che sembra. Il fatto è che le prossime puntate sono già state filmate e certo non ti raccontano in anticipo come dovrebbe finire. Si, si può ancora fare qualcosa. Interrompere “la sceneggiata” (così il leader chiama l’opposizione in Parlamento) e fare lo sforzo che certe volte devi fare dormendo: svegliarti lottando contro lo stato di sonno. Fare ritorno alla normalità, fuori da un Truman Show già tutto serializzato.
Nei tristi filmati delle Camere vedi ancora facce vere, di vere persone (alcune stanno per essere cacciate dal Pd). Se si accostano (metti Casson e Di Maio) una vera resistenza è possibile. A volte, nella storia, ha portato liberazione. Ad occhio, il futuro prossimo di Maurizio Landini è niente male. Ma deve decidere presto su cosa puntare. Deve scegliere cioè se provare a scalare la segreteria della Cgil, come gli chiedono i golden boys del sindacato rosso, una schiera di quarantenni sempre più combattivi che ritrova nella sua libertà espressiva, quella mitraglia così effervescente e pop, la calibratura giusta per il dopo Camusso e un sindacato da rinnovare completamente. Oppure dare retta all’altra metà del cielo, la politica, e intestarsi la più rischiosa delle imprese ma anche la più suggestiva e forse importante: far nascere ai bordi del Partito democratico una sigla che raccolga gli invisibili, quell'elettorato vasto ma disperso e rassegnato all’attesa che qualcosa debba pur accadere nella sinistra italiana.
ERA GIÀ PRONTA una candidatura alle scorse politiche da lui naturalmente rifiutata. “Sto bene alla Fiom, voglio continuare a fare il sindacalista”. Quel che disse quindici mesi fa a Nichi Vendola oggi non è più così certo e infatti non lo ripete più. Esplosa la bolla Tsipras, ridotta al lumicino la forza vitale del pensiero anche pallidamente di sinistra oramai senza più diritto di abitazione nella nuova casa renziana, marginalizzati e ininfluenti i movimenti tipici della cittadinanza attiva (da Libertà e Giustizia ai comitati per l'acqua pubblica, ai gruppi più politicizzati dell'elettorato grillino), Landini si trova all'orizzonte un deserto di sigle ma un tesoro di virtù possibili. C'è una unione di bandiere: i comunisti di Rifondazione, quelli più socialdemocratici di Vendola, i verdi che fanno capo al gruppo dirigente di Legambiente, e poi movimenti e microcosmi: dei giuristi, degli attivisti dei beni comuni, pulviscoli di quella che fu la variegata identità della sinistra storica. Cercano un leader e offrono a lui lo scettro del comando. Lui adesso è il personaggio popolare, metà tribuno e metà ideologo, non un arnese scaduto ma un tronista virale della televisione, un eccellente comunicatore, un acchiappapopolo.
“A noi piace tantissimo, la stima e la fiducia in lui sono intatte. E' una grande risorsa e ovunque voglia spendersi non farà che bene”, dice Nicola Fratoianni, che deve far fronte al periodo più difficile della vita di Sel da quando il bagliore della narrazione vendoliana è andato spegnendosi. Per curioso che possa apparire, il diserbante usato da Renzi nel suo partito, l'azione così travolgente e così politicamente erratica delle sue mosse, il comando a colpi di decreti, la vicinanza strategica con il duo Berlusconi-Verdini, fa avanzare nel corpo vivo di quel che è rimasto del Pd un popolo di infedeli. Che è più vasto della rappresentanza parlamentare a cui è intestata la guida della cosiddetta minoranza. Di defezioni alle viste se ne contano poche, e forse neanche a coprire le dita di una sola mano. Questo moto ondoso che lascia la costa non ha eroi da seguire. “Qualcosa dovremo pur fare”, dice Pippo Civati. Qualcosa dovrà fare.
NON C'ERA CIVATI quando a Landini è stato chiesto di guidare un'operazione politica così rock, sempre ai confini tra l'innovazione e la conservazione. E Landini proprio ora che ha ritrovato una unità d'azione con la Camusso, segretaria che ha persino invocato il codice di disciplina per ridurre le ambizioni e l'autonomia di questo cinquantenne emiliano, non ha che la voglia di intestarsi la prova di forza della piazza, che sarà una prova in vita del sindacato, quando manifesterà il 25 ottobre contro Renzi.
I conti ora sembrano tornare dopo che proprio Landini ha lasciato che Renzi usasse il suo nome contro il sindacato, contro la Cgil. Tra gli alleati a sorpresa, i volti coperti del new deal fiorentino, quello del segretario della Fiom risultava congeniale. Fuori dalla troika sindacale, lontano da ogni responsabilità delle “malefatte” dei compagni, con un passo così controcorrente e utile a dimostrare che in Italia il nuovo è ovunque, anche a sinistra.
Furbo Renzi a intestarsi l'amicizia e furbo Landini a lasciargliela intestare. Amici per poco, perchè poi le strade si sono divise. E ogni passo in avanti che oggi Renzi fa, ogni spavalderia che compie, ogni atto col quale compiace un ceto sociale che a destra non è più rappresentato e si ritrova nelle sue parole e nei suoi simboli, corrisponde a un passo in avanti che Landini compie, per adesso sottotraccia, per raccogliere ciò che il premier butta al vento: casacche, movimenti, idee e anche nostalgie.
Deve solo decidere se è meglio il Parlamento o la Cgil.

Repubblica 12.10.14
Gianni Cuperlo
“In piazza contro la fiducia, Matteo cerchi l’unità”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Sarò in piazza il 25 ottobre, certo. Il vertice della Cgil ha corretto i toni di alcuni che mi erano sembrati sbagliati». Gianni Cuperlo, leader di Sinistradem, annuncia battaglia sul Jobs Act. E sull’ipotesi di espellere i dissidenti del Pd avverte: «Renzi respinga lo zelo di alcune sue tifoserie. Quando sei alla guida del Pd non puoi cercare la divisione del tuo fronte. Se lo fai potrà benedirti la destra, magari le ruberai qualche voto, ma indebolisci ragioni e principi della tua parte. E questo oggi non conviene a nessuno, neppure al premier».
Cuperlo, lei andrà in piazza a manifestare il 25 contro il Jobs act, anche se nella Cgil c’è chi non la vuole?
«Quando in gioco entrano i diritti il confronto non è solo dentro il Parlamento. Per questo con quella piazza bisogna dialogare. Perché è interesse del Paese allargare il fronte di chi vuole una riforma con più risorse e anche radicalità nell’innovare dalla parte giusta».
La minoranza dem tiene i piedi in due scarpe: da un lato in Parlamento vota la fiducia e poi fa le proteste di piazza?
«Io rivendico una coerenza. E mi batterò perché alla Camera non si arrivi alla fiducia. Quella riforma va migliorata. Sento ripetere che “si discute e poi si vota allo stesso modo”. Ma appunto, si discute. Se annunci già ora la fiducia e blindi la norma, sei tu che neghi l’impegno preso a parole».
Tuttavia se sarà messa la fiducia, la voterà?
«So che la fiducia al governo è l’atto più impegnativo. So anche che sul legame tra convinzione e responsabilità si sono riempiti scaffali. Penso che la mia responsabilità non possa violare alcuni principi. Per questo mi rivolgo al segretario e gli chiedo di ricostruire l’unità del suo campo e della sua comunità. Se non lo facesse a emergere sarebbe il divario tra il potere che detiene e la statura della sua leadership. Ha intelligenza per evitarlo. Quindi lavorerò per unire e cambiare, ma la premessa non può essere che alla fine si vota qualunque cosa».
Cosa vi aspettate adesso: modifiche davvero?
«Conta il merito. Io dico che innovare si deve, a partire dalle risorse che sono decisive. Dove il governo sbaglia è nell’idea che dopo il triennio di prova possa vivere una disparità tra lavoratori con pari contratto ma diritti e tutele differenti».
E sull’articolo 18?
«La norma è già cambiata e ha avuto negli anni un effetto deterrente. L’impatto sulla crescita di una sua abolizione è pari a zero. Il punto, anche di democrazia, è che la delega non ne parla. Siccome l’istituto della “delega orale” non è previsto, se il governo mettesse mano alle norme sul licenziamento si avrebbe un “eccesso di delega”. E non si può fare».
Tocci si è dimesso da senatore, i tre che non hanno votato la fiducia rischiano l’espulsione.
Il Pd è un partito- soviet?
«Spero che l’aula respinga le dimissioni di Tocci. E la disciplina di partito è qualcosa in cui credo. Non a stagioni alterne come chi si è lodato per non aver votato Marini e adesso sollecita espulsioni. Non c’è un partito senza disciplina, ma neppure può sopravvivere la disciplina senza un partito».
Pensa che Led di Migliore dovrebbe entrare nelle file dem o, al contrario, che ci sia bisogno di una cosa di sinistra?
«Per me una cosa di sinistra dovrebbe essere il Pd. Certo da cambiare e allargare. Ma vorrei che la discussione su cosa è oggi questo partito fosse sincera perché vedo i rischi di una mutazione profonda».
Fino a quando riuscirete a evitare la scissione?
«Quel termine non mi appartiene. Ma a Renzi dico che non si fanno buone riforme dividendo il Paese. Contrapporre precari a garantiti. Rompere la solidarietà tra generazioni. Liquidare le rappresentanze sociali come un’eredità malinconica. Da una crisi come questa non si esce armando una parte dell’Italia contro l’altra. E comunque non può farlo la sinistra».

La Stampa 12.10.14
Graziano Delrio: “Questo è un governo di sinistra. La Cgil sbaglia a scioperare”
Il sottosegretario critico anche con i dirigenti del Pd che sfileranno a San Giovanni
intervista di Carlo Bertini

qui

il Fatto 12.10.14
Giovina Volponi
L’assistente di Olivetti: “Il premier lasci stare Adriano”
“Renzi getta via i diritti come mele marce”
intervista di Sandra Amurri


Ripristiniamo la regola di un grande italiano, Adriano Olivetti, un esempio per l'Italia di oggi, al quale sono affezionato: il manager non può guadagnare più di dieci volte il salario di chi, in quell’azienda, prende meno di tutti”. Scatta l'applauso. Citazione renziana per vincere facile onde poi elogiare e andare a braccetto con Sergio Marchionne, l'anti Olivetti per antonomasia. La signora Giovina Jannello in Volponi, donna colta, delicata e discreta, una vita tra Adriano Olivetti – di cui è stata assistente personale – e Paolo Volponi – di cui è stata moglie e da cui ha avuto due figli –, si dice indignata.
“Questa, poi, mi era sfuggita! Ma come si fa a mettere a confronto due persone di questo genere, non lo trovo giusto, è un’assurdità! (ride tra il serio e il faceto, ndr) Renzi mi sembra un fiorentino di quelli supponenti. Io mi baso sulla prima impressione visiva, sulla fisiognomica, quel suo musetto da uccellino che becca di qua e di là non mi convince affatto e il suo comportamento è coerente con questa sua apparenza. Mi sembra che abbia il senso del comico, ma non del ridicolo. Posso sbagliarmi, posso peccare io di supponenza, ma lo trovo insopportabile. Mi indigna profondamente. Dovrebbero spiegargli chi era Adriano Olivetti, la sua idea di profitto intelligente non come fine ma come mezzo per arricchire la collettività. L’incontro tra cultura e impresa, indispensabile per sostenere il progresso industriale e per trasformare la fabbrica in luogo di elevazione materiale, culturale e sociale di quanti vi lavorano, che sente sulle spalle la responsabilità di mettere a disposizione del territorio lavoro, servizi, cultura. Adriano si dedicava agli asili, alle colonie, alle case, alla mensa, all’assistenza medica. Se non sbaglio, Renzi le fabbriche lascia che vengano chiuse gettando in strada migliaia di famiglie, snobba i sindacati, getta via i diritti come fossero mele marce, va a braccetto con Marchionne che io trovo repellente. Adriano era un unicum molto particolare. Di lui ho un ricordo intenso e nitido, della sua applicazione del capitalismo umano. I suoi collaboratori, dirigenti o operai, erano parte dello stesso progetto. Renzi dice di ispirarsi a Olivetti, non mi sembra che lui si sia scelto collaboratori forti, equipaggiati, ma piuttosto che si astengano dalla critica per evitare complicazioni e mantenere la poltrona. Penso che questa sia una crisi aggravata dall'assenza di competenze e merito.
Però ha svecchiato la politica e portato molte donne al governo.
Magari fosse un problema di età. Andrebbe benissimo se ci fosse un allevamento di giovani fatto con serietà e giudizio. C'è una incompetenza, una sottocultura dominante, è evidente a chiunque, basta ascoltare certi discorsi. Pensi solo a chi siede in Parlamento, sembra incredibile, persone che mai avresti immaginato potessero rappresentarti, incolte, volgari e pure disoneste. Come è stato possibile che un Paese di antica civiltà e cultura sia caduto cosi in basso, che sia prevalsa la furbizia sull' intelligenza? Donne, ma che donne! Non giudico se sono belle o brutte ma ti domandi che ci stanno a fare. Il guaio è che vengono mischiate ad altre superficialità e vanità. Ricoprono ruoli vitali per la vita democratica senza averne i titoli. Le ascolti e capisci che sono esperte di generiche banalità.
Nata a Tunisi da madre greca e padre italiano. Dopo aver vissuto in Algeria e Grecia, a Firenze, Arezzo e Trieste, si è laureata in giurisprudenza a Torino. Una borsa di studio di due anni ad
Harward. Come ha conosciuto Olivetti?
Avevo 26 anni. Era il 1956. Rientrata dagli Stati Uniti, accettai di dirigere l'ufficio legale della Rai a Roma, ma prima di partire andai a salutare il professore Bruno Leoni, di cui ero stata assistente. Mi disse: ‘Giovina, fai una sciocchezza, lascia che parli di te al mio amico Adriano’. Olivetti mi convocò nel suo ufficio. Mi lasciò parlare per oltre un'ora poi mi propose la direzione dell'ufficio culturale in Piazza Castello. E dopo un mese mi ha chiesto di diventare la sua assistente personale a Ivrea. Lo stesso giorno venne assunto, come direttore sociale Paolo Volponi che sposai tre anni dopo.
Da Milano è tornata a vivere a casa Volponi dentro le antiche mura di Urbino. Nelle Marche dell'imprenditore Diego Della Valle che ha sferrato un attacco durissimo al governo Renzi.
Non lo conosco personalmente ma lo stimo. Mi sembra un imprenditore intelligente su cui riporre buone speranze. Ma sa cos'è che mi rattrista di più? Vedere che nel Paese ha trionfato la sottocultura, la cosa più grave e pericolosa. Meglio l'ignoranza intelligente che la sottocultura supponente. Berlusconi ha aperto la strada, ha determinato il disastro però si deve anche rivedere la propria opinione sul proprio Paese che lo ha permesso.
Torna in mente “Il leone e la volpe”: “Le società modernizzate sono basate sull’esaltazione dell’individuo... e concepiscono solo l'etica edonistica e tecnologica, col successo individuale sulla natura e sugli altri uomini”. Suo marito, uno dei più grandi e complessi scrittori “un uomo integro del Novecento” come lo definì Stajano, di sé disse: “Ho servito, ma non ho obbedito”, che nel'75 venne licenziato dalla Fondazione Agnelli in seguito alla sua dichiarazione di voto per il Pci e quando il Partito comunista ottenne un risultato storico, non accettò la richiesta di Agnelli di tornarvi. Pensa mai a come si sentirebbe oggi in questo deserto della sinistra?
Ci penso eccome. Continuerebbe a essere una voce fuori dal coro. Ne soffrirebbe molto. Ripeterebbe quel verso del suo fraterno amico Pasolini come nell'intervista a Gian Carlo Ferretti: “Sono comunista per spirito di conservazione spiegando di voler conservare il mondo, la bellezza della natura, l'onestà, per camminare in armonia e sviluppare una felicità includente”. E ripeterebbe che la politica capisce poco dell'industria che si sviluppa per conto suo senza percezione dei suoi errori, quando invece va guidata, programmata dalla politica.
Grazie davvero, signora Giovina anche perché questa è la sua unica intervista.
Grazie a voi che vi interessano le opinioni di una signora di 84 anni.

La Stampa 12.10.14
Riforma della Giustizia, l’Anm contro Renzi: “Basta con le favole su ferie e stipendi”
Il presidente dell’Associazione magistrati Sabelli: «Falsa l’inefficienza dei giudici»
E il segretario Carbone rilancia: «Politici in vacanza»

qui

il Fatto 12.10.14
Anm: “Basta falsi, la riforma della Giustizia è inadeguata”
Il sindacato delle toghe si mobilita
Assemblea generale il 9 novembre
di Antonella Mascali


L’Anm si mobilita contro la riforma della Giustizia. Ha convocato un’assemblea generale straordinaria, il prossimo 9 novembre, per decidere le iniziative da prendere contro il progetto del governo. Non accadeva dal 2006. Il presidente Rodolfo Sabelli ha attaccato più volte il premier Matteo Renzi, senza mai citarlo. Ha parlato di “soluzioni inefficaci, accompagnate da slogan che ne dissimulano l’inutilità”.
Eloquente anche il documento approvato all’unanimità alla fine della riunione: “Il comitato direttivo centrale esprime condivisione sull’analisi della inadeguatezza delle attuali politiche governative in tema di giustizia”. Con riferimento al taglio delle ferie c’è anche una rivendicazione “della specificità della funzione giurisdizionale e della produttività dei magistrati italiani”.
Per Sabelli “le favole non diventano più vere solo perché raccontate più spesso. Le dichiarazioni offensive e i luoghi comuni sulla presunta inefficienza e irresponsabilità” dei magistrati “sono veri e propri falsi smentiti da dati statistici” che collocano il lavoro delle toghe italiane “ai massimi livelli europei con oltre 2 milioni e 800mila cause civili e con oltre 1 milione e 200 mila procedimenti penali definiti all’anno”. Quanto alle dichiarazioni di Renzi sui presunti obiettivi dei magistrati, le bolla come “inutili provocazioni, con il ritornello, ripetuto fino all’altro ieri, che l’Anm avrebbe protestato contro il tetto stipendiale massimo e avrebbe considerato la riduzione delle ferie alla stregua di un attentato alla democrazia”. Invece, ha detto il presidente Anm, la magistratura “non vuole privilegi, ma respinge le offese e difende con intransigenza il proprio decoro, in coerenza con il suo rango costituzionale”.
POI CONTRATTACCA sulla riforma “annunciata e realizzata in diretta tv, senza interlocuzione con le categorie coinvolte, con l’ossimoro di un decreto legge a efficacia differita. E con l’accostamento, suggestivo e offensivo, tra una presunta e inesistente chiusura estiva dei tribunali e i ritardi della Giustizia. È ormai chiaro – prosegue Sa-belli – anche al mondo politico che quella norma (sul taglio delle ferie, ndr) non aumenterà l’efficienza di un sistema giunto ai limiti ma creerà, anzi, non pochi problemi organizzativi”. Conseguenze già denunciate dal Csm.
Il presidente dell’Anm accenna anche a quanto già detto nelle settimane precedenti: non va bene né il testo di legge sull’autoriciclaggio, inefficace, né quello sulla prescrizione, definito un “semplice ritocco” e chiede “la sospensione della prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado”.
Bocciata pure la riforma del processo civile: prevede “strumenti deflattivi, apprezzabili in astratto, ma che rischiano di essere non già troppo pochi ma piuttosto troppi, costosi e male armonizzati tra loro e con le regole del processo” mentre “continuano a mancare seri investimenti in personale e strumenti di lavoro”. Quanto alla modifica sulla responsabilità civile, in discussione al Senato, “mortificherebbe il ruolo del magistrato e ne comprimerebbe l’indipendenza e la libertà di interpretazione”.
Duro anche il segretario Maurizio Carbone: “I magistrati non sono in vacanza. È la politica che è in vacanza da tempo perché non mette mano ai problemi veri”. Per il magistrato la riforma del governo “non è rivoluzionaria, non mette mano a modifiche richieste da tempo. Il decreto legge doveva abolire le leggi ad personam, come quella sulla prescrizione e il falso in bilancio, che l’Ue e l’Anm chiedono da tempo. Invece rimangono solo slogan che nascondo l’inefficienza delle riforme e attribuiscono alla magistratura la responsabilità”.
IL MINISTRO della Giustizia Andrea Orlando ha parlato di critiche “non condivisibili. A un ping pong dove ci si rimprovera di annunciare e non fare, preferisco fare e rispondere con i provvedimenti che sono noti anche ai vertici dell’Anm”. Rivendica il taglio delle ferie David Ermini, responsabile Giustizia del Pd: “È il caso di uscire dalla sindrome delle ferie, argomento sinceramente indifendibile. Quello che per qualcuno sono falsità noi lo chiamiamo buon senso. Non abbiamo chiesto ai magistrati di timbrare il cartellino, solo di contribuire a uno sforzo generale di risanamento”.
Lo scontro tra magistrati e governo Renzi è solo agli inizi.

La Stampa 12.10.14
Il Pd diventa il partito degli avvocati
Al congresso nazionale degli avvocati di Venezia Orlando salutato da un’ovazione
Al ministro 5 minuti di applausi. Mentre monta la tensione con l’Anm
di Ugo Magri


Il sindacato dei magistrati tratta Renzi come e peggio di Berlusconi. Convoca per il 9 novembre prossimo un’assemblea «straordinaria e urgente», in pratica una mobilitazione generale contro la riforma della giustizia che, così com’è, alle toghe proprio non piace (il presidente Anm Sabelli e il segretario Carbone l’hanno ribadito in tutte le salse). Viceversa gli avvocati sono entusiasti del governo e del ministro in particolare. Al congresso nazionale forense di Venezia, sempre ieri, 2mila delegati sono rimasti 5 minuti in piedi a spellarsi le mani dopo l’intervento di Orlando. Pure in questo caso, un evento del genere non capitava dai tempi di Berlusconi. A parti invertite, tuttavia: gli applausi degli avvocati erano tutti per il centrodestra, laddove il Pd veniva considerato una succursale delle toghe, il braccio politico della magistratura.
Adesso invece è un fiorire di lodi al ministro per il suo agire accorto, il suo senso dell’equilibrio, la disponibilità al colloquio e tutto quanto, insomma, l’avvocatura avrebbe voluto riscontrare in certi suoi predecessori, nella Severino e ancor più nella Cancellieri, con la quale c’erano stati epici scontri. Lo stesso metro dialogante Orlando l’aveva sfoderato anche nei confronti dell’Anm. E inizialmente la tecnica sembrava funzionare, tanto che sul pacchetto giustizia l’Anm procedeva di conserva con suggerimenti davanti e dietro le quinte. Sennonché poi sono arrivate le famose «slide» del premier, con l’attacco alle ferie dei magistrati, e da quel preciso momento tutto si è guastato. Ogni iniziativa del governo in tema di giustizia viene presa storta. E più Sabelli s’indigna contro chi tira in ballo il taglio delle vacanze perché «la nostra presunta inefficienza è smentita da tutti i dati statistici», più alimenta senza volere la sensazione che proprio lì stia la genesi del problema (non a caso, se ne parlerà nell’assemblea straordinaria di novembre).
Di qui a immaginare una mutazione transgenica della sinistra, che dopo un lungo ventennio giustizialista si risveglia garantista, davvero ce ne vuole. Nel Pd tuttavia cresce l’insofferenza per certi toni anti-governativi dell’Anm, insieme con la preoccupazione che da un giorno all’altro il premier possa restituire i fendenti. Renzi non è tipo da spaventarsi davanti alle minacce né da ingranare la retromarcia. Nella sua ottica tutti devono contribuire ai sacrifici, giudici compresi. Che altrimenti si ficcano in quel ghetto conservatore dove l’ex sindaco ha già relegato la Cgil insieme con la sinistra del suo partito. E qualora la protesta delle toghe superasse i livelli di guardia, chi sta intorno al premier già prevede la stessa risposta che Matteo diede alla Camusso: «Ce ne faremo una ragione...».
Per ora siamo agli avvisi ai naviganti. «L’Anm deve uscire dalla sindrome ferie», sbuffa Ermini, responsabile giustizia dei democratici. «Stupore» manifesta Donatella Ferranti, ex magistrato, dunque tutt’altro che prevenuta nei confronti delle toghe. E Orlando (che rispetto a Renzi recita il ruolo del «poliziotto buono») si sforza di non raccogliere: «Alle polemiche preferisco i fatti». Ma il fossato si allarga.

Repubblica 12.10.14
Dispersione scolastica record, e il governo taglia i fondi
L'Europa colloca l'Italia ai primi posti per gli abbandoni a scuola: il 17% dei ragazzi è fermo alla scuola media. E il ministero annuncia un ulteriore assottigliamento degli stanziamenti
di Salvo Intravaia

qui

Corriere 12.10.14
Fo e gli elogi al Papa «Mi sono innamorato del suo coraggio»
di Virginia Piccolillo


ROMA «Innamorato» di papa Francesco. Non è mai stato tenero con la Chiesa, Dario Fo: giullare da Nobel, spirito critico e beffardo dei nostri tempi, persecutore di ipocrisie e convenzioni. Sorprende, dunque, vederlo esaltare un Pontefice con parole ricche di stima ed emozione. Accade in 27 aprile 2014 . Racconto di un evento , uno speciale sulla canonizzazione di papa Wojtyla e papa Giovanni, che contiene anche altre autorevoli testimonianze tra cui Pupi Avati. Sarà presentato il 16 ottobre all’apertura del Festival del Film di Roma e andrà in onda venerdì alle 21.10 su Sky 3D, frutto di una collaborazione tra la stessa emittente e il Centro televisivo vaticano.
Senza enfasi, ma con autentica ammirazione, Dario Fo ricorda il giorno dell’elezione a Papa di Bergoglio: «Di colpo ha iniziato a parlare come l’autentico San Francesco. Con il suo linguaggio, i suoi tempi, i suoi ritmi e addirittura con la sua sintassi. Ha il coraggio di rompere le consuetudini. E si pone in una condizione di assoluta autenticità. È questo che mi ha sorpreso e innamorato di quest’uomo». Un’improvvisa conversione? «Per carità — si oppone con forza l’autore di pièce satiriche a lungo censurate e avversate dalla Chiesa —, non mi converto. La Chiesa non mi piace. Ma guardo al coraggio di esporsi di questo Papa. Non lo fa perché è un “furbacchione”, ma per rompere i privilegi degli uomini di potere della Chiesa. Li ha costretti a togliersi la tonaca. Non è solo una questione di rassettare la stanza ma di cambiare un modo di essere».
Una svolta, secondo Fo, iniziata con Joseph Ratzinger: «Con tutto che veniva da un gruppo di ecclesiasti piuttosto spregevoli nel concepire un’idea della Chiesa, Ratzinger aveva preso posizione contro la speculazione finanziaria, alcune banche e contro chi usa i bambini come oggetto di trastullo. Rispetto a chi lo aveva eletto pensando che facesse i propri interessi era andato in un’altra direzione. Ha preferito andarsene perché aveva capito che restare era diventato pericoloso. Anche fisicamente».
Un pericolo di morte che, a suo giudizio, corre anche Francesco. «Non si dimentichi papa Luciani — rimarca —. È durato due mesi. Stava benissimo e poi di colpo è morto, la gente ancora oggi è convinta che sia stato ucciso. Ma che Bergoglio sia in pericolo — assicura — me lo hanno confermato religiosi che conoscono bene il giro, costretti a viaggiare con la scorta, non dei ciarloni». Rischia per la sua «spregiudicatezza nell’accettare coloro che sono nel giusto e proprio per questo danno fastidio al potere», spiega, «basti pensare all’anatema contro la mafia e contro la corruzione. Bisogna plaudirlo, invece i politici non prendono mai posizione sulle sue parole: significherebbe schiaffeggiare se stessi».

Corriere 12.10.14
Un altare per l’Ss Priebke Marino: «Rimuovetelo»
A Roma fiori e una messa per il nazista morto un anno fa
di Alessandro Capponi


ROMA Non più per l’uomo ma forse per il suo fantasma, di certo Roma continua a discutere nel nome di Erich Priebke. A un anno dalla morte dell’aguzzino delle Fosse Ardeatine — l’eccidio è del marzo del 1944, 335 vittime innocenti per le quali Priebke non ha mai pronunciato una parola di pentimento — e a pochi giorni dal 16 ottobre, data che nel 1943 vide il rastrellamento degli ebrei romani, è l’iniziativa del legale dell’ufficiale nazista, Paolo Giachini, a far deflagrare le polemiche: a ponte Sant’Angelo, a pochi passi da San Pietro, viene celebrata una messa con un altarino improvvisato di fiori e cartelli, uno con un falco in volo verso il sole e la scritta «Ciao capitano», manifesto affisso anche in alcune strade della città.
Per il sindaco Ignazio Marino è «una volgare provocazione, chi l’ha compiuta ha la testa più vuota che rasata». Per il presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, «il carnefice delle Ardeatine merita l’oblio, di lui adesso si stanno occupando gli angeli delle persone cadute vittime della follia del nazismo. Io quell’uomo non lo voglio neanche più nominare».
Quasi impossibile non nominare Priebke, però, perché l’ufficiale nazista — dopo la guerra fuggito in Sud America e là scovato da una troupe televisiva, quindi condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, vissuto a Roma fino al compimento dei cento anni e tra mille polemiche, inclusa quella che scatenò con un videotestamento dal messaggio choc: «Le camere a gas sono state un falso» — genera, nella Capitale, reazioni come quella del sindaco: «Quanto accaduto su ponte Sant’Angelo ferisce tutta la comunità cittadina e rappresenta un vero schiaffo alla città di Roma che ha avuto un ruolo fondamentale nella Resistenza. Nessun luogo della Capitale potrà ospitare il ricordo del gerarca nazista, responsabile dell’atroce eccidio delle Ardeatine nel quale persero la vita 335 italiani».
Il legale Paolo Giachini spiega di aver ricevuto «dalla Prefettura di Roma l’autorizzazione ad andare a deporre fiori sulla tomba di Priebke, in uno scenario magnifico sotto la giurisdizione del ministero degli Interni». Ma intanto aggiunge anche di aver deciso di «eleggere come luogo ideale della sua memoria il ponte Sant’Angelo. E proprio là chiunque vorrà rendere omaggio all’ufficiale delle SS potrà portare un fiore o rivolgere un pensiero». Difficile anche questo, perché il Campidoglio ha ordinato «l’immediata rimozione» dell’altarino, dei fiori e dei manifesti, quelli su ponte Sant’Angelo e gli altri sparsi in città.
Ma intanto c’è una certezza che non si può rimuovere: «Che a pochi giorni dall’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma — scuote la testa Ignazio Marino — sia stato compiuto un gesto simile, ecco, addolora ancora di più».

Corriere 12.10.14
«Passò l’infermiera e la donna morì» Le parole che accusano Daniela
Una collega: «Sentivo che quell’uomo poteva essere il prescelto. E così fu»
di Andrea Pasqualetto


RAVENNA Quel giorno di fine marzo Sara sbiancò. Era spirato il signor Faustino e il suo sospetto sulle strane morti dell’ospedale di Lugo prese di colpo forma: «Sentivo che l’uomo poteva essere il prescelto per un ulteriore decesso anomalo — racconta lei, infermiera del reparto di Medicina —. Intorno alle 15, un’ora dopo che Daniela Poggiali aveva preso servizio, morì. Rimasi di sasso e dissi tra me “ecco, ci risiamo”. Mi confrontai con una collega e anche lei condivideva le mie apprensioni. Ci chiedevamo come queste morti potessero essere così frequenti, senza che nessuno facesse nulla. Eravamo sconcertate». Daniela Poggiali è la bionda e sorridente infermiera di Faenza arrestata venerdì scorso con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato nei confronti di Rosa Calderoni, l’anziana paziente morta una settimana dopo Faustino Taglioni. Per la Procura di Ravenna fu uccisa da un’iniezione di cloruro di potassio. Il signor Faustino era invece un parente del responsabile della Direzione infermieristica, il dottor Mauro Taglioni, con il quale Poggiali aveva un rapporto non proprio idilliaco: «Fra loro non correva buon sangue, lei ne parlava male. Quando fu ricoverato il parente ebbi dunque quella premonizione» ha dichiarato Sara.
L’infermiera di Faenza, già licenziata, non è accusata della morte di Taglioni ma gli inquirenti, guidati dal procuratore Alessandro Mancini, ci vogliono vedere chiaro.«Il cloruro di potassio, dopo un paio di giorni, non lascia tracce e quindi diventa difficile investigare». Temono che anche le morti di Giorgina Errani dello stesso giorno e di Oriana Cricca del giorno dopo, possano non essere state del tutto naturali. «Quella notte la badante della signora Oriana suonò il campanello perché il sondino perdeva — racconta un’altra infermiera —. La Poggiali disse che avrebbe provveduto lei. Poco dopo l’intervento la paziente morì». La signore erano malate terminali. Casualità? Sfortuna?
La relazione
Spunta una relazione riservata dell’Azienda Usl della Romagna. È datata 9 aprile 2014, il giorno successivo al decesso di Rosa Calderoni: «Domenica 30 marzo erano avvenuti i decessi di Faustino Taglioni e Giorgina Errani, nel settore C assegnato alla signora Poggiali e nella mattina del 31 c’era stato quello di Oriana Cricca nel settore D. L’infermiera era in servizio in entrambi i casi». Altre stranezze qualche giorno dopo. «Nella notte tra il 4 e il 5 aprile avvenivano due decessi, quelli di Maria Sangiorgi e di Vincenzo Tamburini e la Poggiali era di turno. Si precisa che di notte l’infermiere è solo». A scopo cautelare, l’ospedale decise di sospendere dal notturno Daniela Poggiali. Tre giorni dopo, la mattina dell’8 aprile, toccò a Rosa Calderoni.
«Così morì mia madre»
Al capezzale di Rosa c’era la figlia Manuela: «L’infermiera (Poggiali, ndr ) ci chiese di uscire dalla camera, dopo 10 minuti rientravamo e mi accorgevo che mia mamma aveva una piccola flebo di vetro. Notai che roteava gli occhi. Erano le 9. Alle 9 e 15 ho fatto appena in tempo a prenderle la mano che moriva. Quell’infermiera era lì e mi disse “non ha sofferto”».
L’interrogativo è statistico: qual è la media dei decessi che si registrano in un reparto del genere?
La relazione Ausl riporta i sorprendenti risultati di una ricerca sul primo trimestre dell’anno 2014, così sintetizzati dal giudice per le indagini preliminari Rossella Materia: «In quel periodo si è verificato un significativo aumento di morti nei settori dove era di turno Daniela Poggiali e cioè 38 su un totale di 83 (contro una media per infermiere di 10, ndr): 26 proprio nel settore dove operava lei, 12 in quelli adiacenti dove, per prassi, lei poteva intervenire».
Purgava e sedava
Infine i racconti delle infermiere sulla collega faentina. Preparata, lucida, infaticabile. «Le notti voleva farle lei», dicono quasi in coro. Ma anche cinica e vendicativa. «Esagerava con i lassativi ai pazienti per mettere in difficoltà le colleghe che le succedevano di turno ed esagerava anche con i sedativi, di notte, per non essere disturbata dai malati. Quando c’erano quelli “impegnativi” diceva “tranquilla ci penso io”».
Quasi sciocchezze rispetto alle inquietanti anomalie che ricorda Sara: «Pazienti non gravi che accusavano un improvviso peggioramento del quadro clinico per poi spirare. Com’è possibile che nessuno se ne sia accorto?».

Repubblica 12.10.14
Il mio Oscar per i ragazzi del cinema America
di Gabriele Salvatores


CARO direttore, ho letto l’articolo di Francesco Merlo sul cinema America. Mi permetta solo una riflessione. A differenza di altre sale cinematografiche chiuse che svolgevano la loro importante funzione di esercizi commerciali, il cinema America ha svolto negli ultimi tempi un’importante funzione.
OCCUPATO da questi ragazzi (che mi hanno dato l’impressione di essere preparati e intelligenti), il cinema America a Roma è stato non solo centro di aggregazione, alternativo al bar e alla discoteca per i giovani del quartiere, ma anche punto di riflessione, discussione e conoscenza del cinema e della sua natura. Non un corso universitario, ma un momento di approfondimento e discussione legato alla proiezione di film, a volte anche “commerciali”, ma intelligenti.
Mi rendo conto che parlare oggi di “esperienza di quartiere” o di “radicamento nel territorio” può sembrare anacronistico, ma io ho cominciato così con il teatro e credo che il grande cambiamento che tutti auspichiamo passi anche dalle piccole cose le- gate alla nostra vita quotidiana. Ho visto gli abitanti del quartiere molto coinvolti (sono due anni che esiste questa realtà) da un’esperienza che giudico diversa per modi e finalità rispetto ad altre realtà e iniziative legate a scopi commerciali. Lo testimonia il numero di presenze alle proiezioni e agli incontri organizzati. Nel totale rispetto per i diritti dei proprietari, si chiede all’amministrazione pubblica di provare a risolvere un problema simile a tanti altri che hanno trovato una soluzione grazie ai ben diversi interessi che muovevano.
Questi ragazzi stanno svolgendo un compito importante in totale controtendenza e che, in più, si basa sull’amore per il cinema. È vero che le sale cinematografiche spesso sono vuote. E noi che ancora crediamo che sia importante il contributo che il cinema possa dare alla società, abbiamo bisogno di sale dove i nostri film si possano vedere, ma, soprattutto, di una nuova affezione al cinema. E si ama una cosa quando la si conosce. Che c’è di male a proteggere un piccolo seme ben piantato in un terreno fertile?
Merlo è sicuro che, almeno per quanto riguarda chi fa il mio lavoro, si tratti di demagogia? E non di difesa della nostra “riserva indiana” e delle cose in cui crediamo?
Un’ultima cosa assolutamente meno interessante. Sono stato invitato dai ragazzi a presentare in piazza San Cosimato questo mio ultimo lavoro, Italy in a Day , all’indomani della sua messa in onda su Rai 3. Durante la serata mi hanno chiesto, dopo le dichiarazioni del Presidente Napolitano e di Paolo Sorrentino, se anche io avevo qualcosa da offrire... Ho risposto che non essendo il Presidente della Repubblica e non avendo la cittadinanza romana, l’unica cosa che potevo offrire era l’Oscar! Il pubblico ha riso e sono sicuro che se Merlo fosse stato presente avrebbe colto la dimensione paradossale della dichiarazione. Anche perché, per quanto possa valere, l’Oscar appartiene comunque all’Academy Awards e non può essere quindi “restituito”.
L’autore, regista, ha vinto il premio Oscar per “ Mediterraneo” nel 1-992 Caro Salvatores, anche a me piace la delicata qualità dei ragazzi dell’America, al punto che vorrei proteggerli dall’eccesso di solidarietà, vale a dire dalla demagogia (quella che Nanni Moretti parodiò) che sta rischiando di trasformare in retorica dell’impegno la loro poetica del cinema, e in caricatura rivoluzionaria la loro passione civile. Anche io, come tutti, sarei felice se la gente di spettacolo facesse più opere d’eccellenza come i suoi film e meno occupazioni, e non per amore dell’ordine costituito ma per amore dell’arte. La sua battuta, infine, che era bella perché ironica e scanzonata, è diventata, in mano a quella demagogia, come il rifiuto dell’Oscar di Marlon Brando in nome dei diritti violati degli indiani o come la medaglia olimpica che Cassius Clay buttò nel fiume Ohio insieme alla cartolina- precetto per il Vietnam.

Repubblica 12.10.14
Gesù Cristo non si è fermato a Eboli, ma davanti all’articolo 18
di Eugenio Scalfari


L’ALTRO giorno sono accaduti al Senato alcuni fatti assai rilevanti e tutt’altro che positivi. Giornali e televisioni li hanno diffusi ampiamente ma a me non sembra che ne abbiano messo in rilievo il vero significato. Cercherò di farlo qui sforzandomi d’essere obiettivo nel racconto e ovviamente soggettivo nel giudizio il quale riguarda soltanto me e chi come me ne dà identica valutazione.
Tralasciamo le risse ostruzionistiche che hanno avuto come provocatori i senatori grillini con qualche più limitata interruzione da parte della Lega. Quando nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama gli animi si scaldano parte la spinta e il ceffone. È sempre stato così, fin dai tempi di Almirante e di Giancarlo Pajetta e dunque non è questo il punto.
Partirei dalle parole di Mario Draghi di tre giorni fa al Brookings Institute di Washington sulla crisi economica che coinvolge il mondo intero, l’Europa più degli altri e l’Italia in particolare. Non è entrato nel dettaglio, il presidente della Bce, l’aveva già fatto in molte altre occasioni. Ma una cosa assai importante l’ha detta e ci riguarda da vicino. Posso virgolettarla perché tutti i “media” l’hanno riferita con le medesime parole: «Il problema non è quello di licenziare; il problema è quello che nei modi possibili si creino nuovi posti di lavoro aumentando la produttività del sistema delle imprese, la formazione dei giovani e un sostegno che mantenga l’equità duramente toccata dai sacrifici che la situazione impone».
Queste parole sono estremamente chiare: il problema non è licenziare ma aumentare la produttività.
AVETE capito bene? Spero di sì, spero che l’opinione pubblica comprenda il senso di quelle parole dette da Draghi il quale ha anche aggiunto che la Banca centrale europea non farà mancare (e già lo sta facendo) il sostegno della sua liquidità ma non è solo questo lo strumento. Se la produttività non aumenta nelle imprese la liquidità resta inerte nelle banche, nei fondi e perfino nelle famiglie; non aumenta la produzione, non aumentano gli investimenti, non aumentano i consumi. Da questo punto di vista gli 80 euro distribuiti ai ceti meno abbienti sono stati un “flop” di proporzioni inusitate.
Ho cominciato da Draghi perché la sua è una delle voci più importanti d’Europa e una delle poche che si batte per una politica della crescita nei fatti e non soltanto nelle parole. Ma ce ne sono altri, di fatti, ancora più importanti e gravi, il primo dei quali riguarda la legge delega trasformata in una sorta di decreto sottoposto al voto di fiducia. È stata votata da una solida maggioranza poiché i dissenzienti del Pd di fronte alla situazione che si era creata hanno votato tutti a favore con la sola eccezione d’un paio di astenuti contro i quali Renzi manifesta il desiderio di sottoporli alla commissione di disciplina proponendone l’espulsione dal partito. Non sappiamo se il gruppo dei dissidenti del Pd nella Camera dei deputati si comporterà come i colleghi del Senato oppure darà un voto contrario o un’astensione, ma se anche questo accadesse la maggioranza alla Camera è molto più forte che al Senato e quindi nulla di drammatico accadrebbe al governo. È così accaduto che laddove il gruppo dei dissenzienti senatori avesse votato contro forse il governo sarebbe stato battuto sulla delega, mentre se votasse contro alla Camera ciò non avverrebbe e quindi sarebbe una manifestazione del tutto inutile.
* * *
Dunque la delega, passata al Senato e poi alla Camera diventerà legge dello Stato. La logica vorrebbe che sulle leggi di delega la fiducia non fosse mai messa: il governo chiede infatti al Parlamento di poter eccezionalmente acquisire poteri legislativi. Di solito ciò avviene quando esiste un’urgenza di intervento riconosciuta dal Capo dello Stato che deve comunque essere approvata e convertita in legge dalle Camere entro 60 giorni; ma non avviene per le deleghe. La fiducia sulla delega è comunque avvenuta negli ultimi 25 anni più d’una volta. Non so se questo fatto che non sollevò obiezioni quando accadde, sia diventato parte di una Costituzione materiale ma non credo che ciò sia possibile senza che rappresenti un vulnus per la divisione tra i poteri dello Stato così come i principi dello Stato di diritto impongono.
Tutto qui? No, c’è ben altro di cui parlare e comincio con una notizia. Da ricerche fatte dopo il voto sulla delega al Senato e dopo che Berlusconi e i colonnelli di Forza Italia si erano sgolati a dichiarare che avrebbero votato contro la delega cui veniva apposta la fiducia, risulta che ben 51 senatori di Forza Italia non erano presenti in aula al momento del voto. Un’assenza di 51 significa di fatto un consenso di 26 voti a favore della maggioranza quindi quand’anche una ventina di dissenzienti del Pd avessero votato contro la legge sulla delega sarebbe in ogni caso stata approvata.
Si discute spesso di che cosa contenga realmente il patto del Nazareno e se esista un documento scritto che ne indichi i confini. Ma non è così, il patto del Nazareno è un accordo sostanziale tra Renzi e Berlusconi affinché procuri vantaggi concreti all’uno e all’altro. Tutto questo avverrà anche, anzi soprattutto, quando Napolitano deciderà tra qualche mese di dimettersi dalla sua carica come ha più volte manifestato e le Camere dovranno eleggere chi lo sostituisca, nelle prime otto votazioni con maggioranza qualificata ma alla nona con voto del 50,1 degli aventi diritto.
Che cosa dovrà fare quando sarà stato eletto, il neo presidente? È evidente: dovrà emettere quell’atto di clemenza che Berlusconi non si stanca di chiedere e di ricordare alla memoria di tutti e che è la sola cosa di cui ha veramente bisogno. Denari ne ha in quantità, le aziende funzionano e comunque se vuole può anche venderle, gli serve soltanto la clemenza dello Stato che tanto più secondo lui gli è dovuta in quanto è totalmente innocente da ogni illegittimità. E poi vuole rientrare in possesso del passaporto che in questo momento non possiede e gli rende impossibile di muoversi per il mondo per risiedere dove più gli piace. Questo è il prezzo vero dell’accordo.
Per il resto avrà Renzi come figlio nel senso che ha sempre detto e previsto: il “figlio buono” che potrà prendere il suo posto per altri vent’anni e così probabilmente sarà. La democrazia intesa in senso vasto, comprende anche questo. Non sarà più chiamata parlamentare ma sarà comunque una democrazia nel senso che gli italiani saranno liberi di fare ciò che vogliono purché non intralcino l’esercizio del potere politico ed economico e sociale. Questo fa parte della storia d’Italia anche molto prima che ci fosse lo Stato unitario. Io l’ho scritto più volte e non desidero ripetermi: ricordo soltanto il vecchio motto “o Franza o Spagna purché se magna”. Non è una visione molto brillante di questo Paese ma purtroppo è abbastanza confermata dalla realtà della storia ed anche dall’attualità.
* * *
Eppure non siamo ancora al centro del problema. Nel suo discorso al Senato il buon ministro del Lavoro ha fatto capire che la delega prevede l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; analoghe dichiarazioni aveva già fatto il capogruppo dei senatori del Pd, Luigi Zanda, ma nella legge l’articolo 18 non è mai menzionato. Si parla genericamente del lavoro e di alcune misure che lo concernono, del precariato, dei possibili indennizzi. E basta.
Le modifiche dell’articolo 18 a quanto lo stesso ministro del Lavoro ha dichiarato e Zanda confermato e Renzi a sua volta più volte indicato, saranno contenute in uno dei decreti attuativi nella legge delega. I decreti attuativi vengono discussi dal governo previo parere di un comitato parlamentare appositamente eletto dalle commissioni competenti. Ma il comitato si limita ad emettere un parere non vincolante dopodiché i decreti vengono emessi e diventano immediatamente esecutivi, non passano più attraverso le Camere. Conclusione: l’articolo 18 sarà abolito per decreto non soggetto al visto del Parlamento.
Giova ricordare per chi l’avesse dimenticato in che cosa consiste l’articolo 18. Fu introdotto nella legislazione italiana nella prima metà degli anni Sessanta dell’altro secolo dall’allora ministro del lavoro socialista Giacomo Brodolini e stabiliva che i licenziamenti potessero avvenire soltanto se esisteva una “giusta causa” a motivarli. Naturalmente questo non avveniva quando un’impresa era in un tale dissesto prefallimentare da dover ristrutturare interamente il proprio modo di produrre e la manodopera addetta. Ma questa era un’altra questione e non riguardava il licenziamento individuale protetto invece dalla giusta causa che poteva essere invocata dal licenziato attraverso un ricorso sul quale interveniva il giudice del lavoro che dava ragione all’una o all’altra parte; se la giusta causa non emergeva pienamente il lavoratore veniva reinserito nella stessa mansione che fino a quel momento aveva praticato.
Allo stato attuale questa situazione è tuttora in piedi con leggeri indebolimenti introdotti qualche anno fa dalla Fornero che però lasciano intatto il principio. I padroni dalle belle brache bianche da quando Brodolini intervenne quelle brache non le hanno più potute mettere. Ma adesso se vogliono potranno rifarlo dopo l’abolizione dell’articolo 18. È possibile che i tempi in cui viviamo rendano necessari questi mutamenti ancorché estremamente dolorosi. Ma consentite che io mi rifaccia alle parole di Draghi che certamente di questi argomenti se ne intende forse più dei nostri politici. Draghi ci ricorda che il problema non è di licenziare ma di creare nuovi posti di lavoro e aumentare la produttività del sistema. Questo è il punto. Licenziare non serve a niente o meglio serve ad accattivarsi quei padroni che vogliono rimettersi le brache bianche. A me non sembra una motivazione sufficiente. Nei prossimi giorni il sindacato Cgil, la sua segretaria Camusso e il segretario della Fiom Landini guideranno un corteo di lavoratori. Quelli protetti tuttora dall’articolo 18 ammontano a 6 milioni che con l’indotto e le relative famiglie salgono di un bel po’. Vedremo qual è l’umore che emanerà da quel corteo e le decisioni successive del sindacato. Ma il sindacato purtroppo (o per fortuna) non fa politica, ha il solo compito di tutelare gli interessi dei lavoratori e dei pensionati che rappresenta. Resta dunque il problema dei politici. Che cosa faranno? Si intestardiranno nell’abolizione di un articolo la cui esistenza non interessa nessuno salvo i diretti danneggiati? Non interessa l’Europa, non interessa la Germania e neppure la Francia. In alcuni Paesi quella protezione esiste, in molti altri no perché è più facile che i licenziati trovino altri posti di lavoro. Qui da noi questo non sta avvenendo o è molto difficile. Certo l’abolizione dell’articolo 18 è un profondo cambiamento ma verso il vecchio non verso il nuovo. Personalmente amerei che si cambiasse verso il nuovo. Se avviene il contrario non credo che questo Paese avrà un bel futuro.

Corriere 12.10.14
Il mondo non vive solo di macro-economia
di Danilo Taino


Grazie alla Grande Crisi, siamo tutti macro-economisti. Nei salotti la politica monetaria di Mario Draghi tiene banco, il rigore di Frau Merkel confonde, gli stimoli di Renzi e di Hollande scaldano i cuori. Ma un po’ di «micro»? Il Fondo monetario internazionale (Fmi) dice che la crescita nell’eurozona sarà quest’anno dell’ 1,1% e dell’ 1,5% il prossimo, mentre negli Stati Uniti toccherà l’ 1,7% nel 2014 e il 3,0% nel 2015 , in Gran Bretagna il 3,2% e poi il 2,7% . Siamo certi che le differenze dipendano tutte da quanti euro le banche centrali gettano nell’economia e da quanto deficit fanno i governi? E le istituzioni, le burocrazie, le regole in cui si opera?
Nel suo rapporto sulle previsioni economiche mondiali, l’Fmi parla ad esempio anche di energia. Nota che il prezzo del gas, che era pressoché lo stesso nel 2008 , oggi è di circa quattro dollari per milione di unità termiche inglesi negli Stati Uniti e di dieci dollari in Europa. Dipende dal fatto che in America la produzione è aumentata enormemente grazie alle nuove tecnologie che permettono di estrarre il gas dalle rocce di scisto mentre in quasi tutta Europa la tecnologia di fratturazione idraulica è rifiutata a priori per ragioni ambientali. Il risultato è che dal 2006 i prezzi bassi dell’energia hanno fatto crescere, in America, la produzione manifatturiera del 3% , le esportazioni di merci del 6% e l’occupazione del 2% . Non è questione di macro-economia.
E ricordate l’Agenda di Lisbona? Era un progetto lanciato nel 2000 per fare della Ue l’economia «più competitiva e dinamica del mondo» entro il 2010 . Non se ne parla più, per decenza e imbarazzo. Ma quando il World Economic Forum effettuò un’analisi dei risultati, giusto nel 2010 , stabilì che, in una misurazione degli obiettivi dell’Agenda da uno a sette , la media Ue si fermava a 4,81 , contro 5,27 negli Stati Uniti e 5,28 nell’Asia dell’Est. E che l’Italia era alla posizione 25 sui 27 della Ue, al livello 4,03 , meglio di Romania e Bulgaria ma peggio di Grecia ( 4,18 ), Spagna ( 4,53 ), Portogallo ( 4,70 ). Alcuni dettagli: nell’innovazione, Usa 6,03 , Ue 4,2 3 , Italia 3,78 ; nelle liberalizzazioni, Usa 5,05 , Ue 4,80 , Italia 4,16 ; nel digitale, Usa 5,79 , Ue 4,73 , Italia 3,74 . Arretratezze che limitano la crescita. E dicono che ogni euro messo nell’economia da Draghi o da Renzi produce meno Pil di un dollaro della Fed o di Obama. È il micro che annichilisce il macro.

Il Sole 12.10.14
Nel mondo ormai c'è troppo «oro nero»
di Leonardo Maugeri


In uno studio pubblicato per Harvard nel 2012 avevo segnalato che la capacità produttiva mondiale di petrolio stava crescendo a ritmi troppo sostenuti rispetto alla domanda, prevedendo che questo avrebbe determinato una caduta dei prezzi a partire dal 2015
Il 24 dicembre del 2013, in un articolo per il Sole 24 Ore, avevo ribadito questa previsione, indicando che la prima fase critica per i prezzi si sarebbe potuta verificare nella seconda metà di quest'anno. Tutto questo si sta puntualmente verificando, sebbene a lungo le mie osservazioni sulla crescita produttiva siano state considerate troppo ottimistiche dalla stragrande maggioranza degli analisti del settore e dalla stessa industria petrolifera, che ipotizzavano scenari di segno opposto. Eppure la realtà era e rimane chiara.
Dopo un ciclo di robusti investimenti nell'esplorazione e sviluppo di petrolio e gas cominciato nel 2003, dal 2010 ha preso corpo un superciclo di investimenti che, in quattro anni, ha comportato una spesa di oltre 2.500 miliardi di dollari nel solo settore "upstream" degli idrocarburi: un record storico assoluto per il settore, pur a fronte di un'inflazione specifica che ha più che raddoppiato i costi in quasi un decennio. Gran parte delle iniezioni di capitale ha prodotto o produrrà risultati con un notevole ritardo temporale, poiché nell'industria petrolifera occorrono anni prima di portare in produzione un giacimento. Il risultato di questa discrasia temporale è che le nuove produzioni arrivano (e continueranno a arrivare) sul mercato mentre la domanda di petrolio langue a causa di prospettive economiche mondiali ancora insoddisfacenti, se non negative. Altri fattori aggravano la situazione.
Grazie soprattutto alla rivoluzione delle produzioni da giacimenti shale e tight (formazioni rocciose di scisti o con caratteristiche di bassissima porosità), gli Stati Uniti producono oltre 4 milioni di barili al giorno (mbg) in più di petrolio rispetto al 2006 e ormai insidiano la Russia e l'Arabia Saudita come primi produttori mondiali di oro nero. Su questo tema è necessario fare chiarezza: l'Arabia Saudita rimane il primo paese al mondo per capacità produttiva di petrolio, con circa 12,5 milioni di barili al giorno. Tuttavia, per evitare di inondare il mondo di greggio, il Regno mantiene una "spare capacity", ossia una capacità non utilizzata, di circa 3 mbg. La sua produzione effettiva, pertanto, risulta inferiore a quella della Russia (10,6 mbg) e equivalente a quella degli Stati Uniti (9,5 mbg). Questi ultimi, tuttavia, producono oltre 1 mbg di biocarburanti, che le statistiche delle principali agenzie inglobano nelle produzioni di petrolio (insieme ai gas di petrolio liquefatti): aggiungendo queste ultime componenti e considerando che gli Usa producono tutto ciò che possono, nelle ultime settimane l'America ha effettivamente conquistato – per alcuni giorni almeno – il primato mondiale nella classifica "allargata" della produzione di petrolio. Non solo. Rispetto al picco dei loro consumi, nel 2007, gli Usa consumano 2 mbg in meno di petrolio, soprattutto a causa di nuove leggi sull'efficienza energetica e di mutamenti strutturali nel comportamento dei consumatori. Tra maggiori produzioni e minori consumi, quindi, il paese chiede al mondo oltre 5 mbg di petrolio in meno rispetto a pochi anni fa (in parte esporta molti più prodotti petroliferi) e in questo modo colpisce gli interessi di molti grandi e medi produttori di petrolio, un tempo grandi esportatori verso gli Usa, oggi costretti a cercare altri sbocchi per il loro greggio in una situazione di eccesso di offerta. Questa spiega, per esempio, la riduzione dei prezzi operata qualche giorno fa dall'Arabia Saudita, nel tentativo di aumentare le sue quote di mercato soprattutto in Asia.
Il fatto è che i massicci investimenti degli ultimi anni hanno rivitalizzato le produzioni di petrolio non solo degli Usa, ma di gran parte dei paesi del mondo, in molti casi allungando la vita produttiva di giacimenti ritenuti in declino, in altri – complici gli alti prezzi del petrolio – rendendo possibili produzioni un tempo non economiche. E una volta realizzati gli investimenti, i costi operativi relativamente bassi (e l'esigenza di recuperare cassa) consentono di produrre anche se i prezzi scendono.
L'effetto finale di questo quadro è che la capacità produttiva mondiale di petrolio è cresciuta e continua a crescere a ritmi troppo sostenuti: ormai ha superato i 100 mbg (inclusi biocarburanti e liquidi assimilati al petrolio) mentre la domanda oscilla sui 92-93 mbg. La produzione effettiva di oro nero ha superato negli ultimi mesi i 95 mbg, comportando la creazione di circa 2 mbg di scorte e lasciando oltre 5 mbg di "spare capacity". Solo l'Arabia Saudita mantiene volontariamente capacità non utilizzata; altri paesi non producono tutto quello che potrebbero per instabilità politica (Libia e Nigeria, ma anche Iraq, Sudan e altri) o sanzioni internazionali (Iran). Se il loro greggio fosse disponibile per il mercato, i prezzi del petrolio sarebbero già crollati da tempo.
L'ultimo elemento che concorre a dipingere un quadro fosco per i produttori di petrolio – siano essi paesi o compagnie petrolifere – è il rafforzamento del dollaro, che aumenta il potere d'acquisto dei produttori e allontana investimenti finanziari dai future sul greggio, trasmettendo così un forte impulso al ribasso dei prezzi della materia prima.
Di fronte a tutto questo, le tensioni geopolitiche esplosive che attraversano il Medio Oriente o i confini della Russia non bastano più a sostenere i prezzi del greggio: lo hanno fatto a lungo, ma adesso solo qualche nuova crisi geopolitica di grandi dimensioni – come un attacco fondamentalista a un grande produttore di greggio o l'effettivo blocco di buona parte delle esportazioni russe – potrebbe avere questo effetto.

Repubblica 12.10.14
E alla Volkswagen i tagli li fa il sindacato
L’IgMetall propone una più efficiente scelta dei modelli di auto e sacrifici comuni vertice-maestranze
di Andrea Tarquini


BERLINO Guidi una grande azienda, hai urgenza di varare risparmi per 5 miliardi di euro e non sai da dove cominciare? Niente paura, ci pensa il sindacato. Almeno questa è l’inedita proposta che la centrale dei metalmeccanici tedeschi — IgMetall, ritenuto il più forte sindacato del mondo — ha lanciato alla direzione del colosso dell’auto europea e mondiale, il gruppo Volkswagen, alle prese con costi di produzione crescenti, bassa rendita per auto venduta (2% circa contro medie tra il 7 e il 9 per Bmw e Mercedes), frutti della crisi dell’eurozona e cattivi risultati negli Usa. Il ceo di Vw, Martin Winterkorn, ha preannunciato mesi fa duri tagli, per cinque miliardi appunto. Senza aspettare con il timore di vederci rimettere, e molto, i suoi iscritti, il sindacato è passato alla controffensiva.
Bernd Osterloh, leader dei consigli di fabbrica di tutto il gruppo, è forse il sindacalista più potente dell’intero mondo industriale. E certo non gli mancano fantasia e talento politico. Già, perché ha fatto condurre un’indagine interna consultando tutti i quasi seicentomila dipendenti del gruppo Volkswagen con tutti i suoi marchi sparsi per il mondo, e ha raccolto consigli e idee degli operai in un dossier di ben 400 pagine. E alglianza riunione azienda-lavoratori a Wolfsburg, sede della casa-madre, il compagno Osterloh ha consegnato in pubblico a Winterkorn, davanti a 15mila operai, il piano alternativo. Incassando un sonoro ringraziamento. E l’impegno a non agire, nel piano dei tagli, né senza né contro la IgMetall. Cosa che del resto, a causa degli accordi interni e della “legge Volkswagen”, sarebbe impossibile. In virtù della cogestione, IgMetall siede nei consigli di sorvevi. delle grandi aziende ma in nessun’altra è fortissima come nel gruppo Volkswagen.
«Non tocca a noi sacrificarci, al massimo se le decisioni faranno male, i sacrifici saranno equamente ripartiti tra vertice e maestranze», ha spiegato Osterloh alla Frankfurter Allgemeine . Il contenuto del dossier- piano di risparmi presentato dalla IgMetall alla direzione Volkswagen è segreto. Però Osterloh nel colloquio con la Faz ha fatto accenni significatil’ultima Primo, bisogna tagliare i costi di produzione. Secondo, produciamo troppi modelli con troppe varianti: «Pensate che per la sola Golf esistono sessanta tipi diversi di volante, è assurdo», spiega come fosse un manager. Dunque, occorre cessare la produzione dei modelli che vendono male, pensarci due volte prima di lanciare ogni modello nuovo, massimizzare le sinergie tra i marchi del gruppo spesso in gara tra loro, e scegliere accuratamente quali impianti sono i più produttivi, quando si lancia un nuovo tipo d’auto. Quanto al mercato americano, «possiamo farcela da soli senza alleanze con Fiat Chrysler». E poi aggiunge: «L’ho sempre detto, il marchio Alfa Romeo per Vw sarebbe ben interessante, ma Fiat nell’insieme non starebbe bene insieme al nostro gruppo». “Il nostro gruppo”, appunto - commenta la Faz - quasi come fosse una Veb, come venivano chiamate le industrie di Stato della Germania orientale.

il Fatto 12.10.14
Guerra all’Isis
Disperazione curda: “Iran salvaci tu”
Kobane resiste ma è allo stremo
Appello allo storico nemico
di Cosimo Caridi


Suruc (confine turco siriano) In medioriente non ci sono amici, ma solo nemici di nemici. Il Califfato Islamico si è ormai guadagnato il ruolo di entità ostile in tutti i paesi della regione, almeno a parole. La Turchia e il Qatar, ambiguo più di ogni altro, sembrano voler approfittare dell'avanzata delle bandiere nere. Anche Teheran ha iniziato a far pressioni su Ankara per tentare di convincere Erdogan a bloccare l’Isis prima che conquisti Kobane. Persiani e Ottomani hanno posizioni opposte su buona parte delle politiche dell’area, in particolare sul futuro della Siria. L’Iran è il grande alleato di Assad, mentre la Turchia, da anni, sta appoggiando chiunque tenti di rovesciarlo. Un punto su cui però Ankara e Teheran sono sempre andati d’accordo è l’avversione alla costituzione di uno stato curdo, che si estenderebbe su parte di Turchia, Iraq e Iran. “Abbiamo bisogno di aiuto. Anche venisse dall’Iran, ma abbiamo bisogno di uomini e armi per combattere l’Isis”. Burcu è una delle donne che hanno portato a spalle il feretro, seppellito ieri mattina, di una combattente curda. L'Isis controlla già metà Kobane e avanza di giorno in giorno. L'ipotesi di un intervento di terra, osteggiato dagli stessi curdi, che vedono nelle truppe della coalizione guidate da Ankara, una minaccia, sembra accantonata definitivamente. “La guerra contro il terrorismo in Iraq e in Siria è diventata molto complicata - ha affermato Larijani, il presidente del Parlamento iraniano - ma la soluzione non è militare”. La stessa coalizione rischia di spaccarsi. Arabia Saudita, Giordania e Emirati Arabi Uniti si sono lamentati con la Casa Bianca del doppio gioco del Qatar, che “pubblicamente sostiene lo sforzo degli Usa, ma segretamente aiuta i suoi nemici”. L’accusa arriva dalle colonne del Wall Street Journal dove alcuni funzionari arabi puntano il dito contro il flusso di denaro e i finanziamenti verso lo Stato Islamico, che dicono arrivino da Doha.

La Stampa 12.10.14
Kobane, dodicimila civili intrappolati dagli islamisti
L’Isis ora controlla mezza città. Offensiva anche verso Kirkuk e Baghdad
di Marta Ottaviani


L’assedio di Kobane è diventato una lotta all’ultimo sparo per la libertà e contro la morte. Da metà settembre, quando è iniziata l’aggressione alla cittadina curdo siriana al confine con la Turchia, i morti nella battaglia fra combattenti curdi e Isis sono stati 550. Di più: secondo fonti siriane, nella città ci sarebbero ancora 500 persone non ancora in salvo, per la maggior parte anziani. A questi vanno aggiunte altre 12mila persone che vivono a ridosso della frontiera e che stanno cercando di scappare dal Califfato.
I combattenti curdi siriani stanno facendo tutto il possibile per respingere i terroristi e ieri, secondo fonti curde, un gruppo di donne avrebbe liberato un accesso a ovest della città. Ma è ancora troppo poco per tornare a sperare. L’Isis in questo momento controlla il 40-50% dell’abitato, incluso l’ex quartier generale curdo, e avanza rapidamente anche verso Baghdad e Kirkuk.
A Suruc, la cittadina che ospita quasi 200mila rifugiati siriani, l’attesa è diventata uno stillicidio. C’è chi ha lasciato a combattere un marito, un padre o un fratello. I colpi di mortaio e le sparatorie ormai si sentono anche la notte. Le condizioni di vita sono sempre più precarie. L’acqua inizia a scarseggiare e il caldo ancora torrido dell’Anatolia rende la quotidianità sempre più difficile. Il cuore di tutti è rivolto verso Kobane, dove i curdi siriani combattono fieramente strada per strada. Ma la città ormai è accerchiata su tre lati. Il quarto è rappresentato dal confine con la Turchia, dove ora stazionano decine di carri armati della Mezzaluna, ma che rimangono immobili.
L’atteggiamento indeciso della Turchia suscita la rabbia della minoranza curda che vive nel Paese, circa 15 milioni di abitanti. In quattro giorni di proteste sono morte 37 persone. Vittime di una pericolosa guerra fra bande che rischia di incendiare il Paese e dove da una parte ci sono i curdi più o meno simpatizzanti con il Pkk, dall’altra gruppi ultra nazionalisti e islamici. Ankara è nell’occhio del ciclone per aver vietato la creazione di un corridoio umanitario che avrebbe permesso il passaggio di combattenti, da Turchia e Iraq, anche se ha dato la disponibilità ad addestrare forze anti-Isis nel suo territorio. Un atto gravissimo secondo i curdi, che non hanno esitato a chiamare Erdogan «assassino» accusandolo di avere accordi con l’Isis fin da quando, il mese scorso, sono stati liberati 46 ostaggi nelle mani dei terroristi in cambio di 180 jihadisti.

Corriere 12.10.14
I combattimenti strada per strada continuano da giorni
Per ora pochi risultati dai raid
Nalin assediata a Kobane dall’Isis  di Abu Khattab: curdi divisi al fronte
Una donna curda comanda le milizie YPG-Pkk in difesa della città siriana al confine con la Turchia
L’altro, anche lui curdo, guida i combattenti del «califfato islamico»
di Guido Olimpio

qui

Corriere 12.10.14
Sotto assedio è l’Occidente
Il califfato cadrà se Europa e America torneranno insieme
di Angelo Panebianco


Quanto può valere, in termini di reclutamento di altri combattenti in tutto il mondo, oltre che di nuovi simpatizzanti per la «causa» (la guerra santa), la sempre più probabile caduta di Kobane nelle mani dello Stato islamico? Kobane, la città curda assediata (e già in gran parte conquistata dal Califfo) i cui abitanti combattono per sfuggire a morte certa, sta diventando una prova dell’impotenza occidentale. Le analogie storiche funzionano solo in parte ma la battaglia di Kobane sta assumendo un rilievo simbolico che ricorda quello di battaglie decisive in certe guerre del passato. Come Stalingrado. I curdi ce l’hanno soprattutto con il presidente turco Erdogan che non muove i carri armati, né permette ai curdi di attraversare il confine con la Siria per andare a salvare gli abitanti di Kobane. Ma la tragedia della città è, prima di tutto, il frutto degli errori degli occidentali, della loro passività, durata troppo a lungo, di fronte alla nascita e alle vittorie del Califfato. I bombardamenti americani hanno rallentato l’avanzata dei jihadisti ma, secondo lo stesso Pentagono, non basteranno né a salvare Kobane né a bloccare l’ulteriore espansione dello Stato islamico. Per fare quel lavoro occorrono le truppe di terra. Esattamente ciò che Obama non è disposto a impegnare.
Si scontano anche in questo caso gli effetti di una politica americana in Medio Oriente giudicata fallimentare da critici dello stesso campo democratico cui appartiene il presidente: dall’ex segretario di Stato e futura candidata alla presidenza Hillary Clinton all’ex segretario alla Difesa sotto Obama, Leon Panetta.
Il problema è che una coalizione di guerra contro lo Stato islamico che comprende le potenze sunnite dell’area è un’ottima cosa sulla carta ma non funziona o funziona male di fatto perché ciascuna di quelle potenze ha nella partita interessi e obiettivi propri, e la leadership americana è troppo debole e troppo poco credibile: non può imporre la coesione necessaria per ottenere decisive vittorie militari sul terreno. Non è nemmeno sicuro che le potenze sunnite coinvolte (la Turchia per prima) vogliano davvero spingersi fino a distruggere il Califfato. Intendono certamente colpirlo e fermarlo poiché si tratta di un fenomeno sfuggito di mano a tutti. Ma non è sicuro che vogliano anche distruggerlo se ciò significa regalare la vittoria ad Assad in Siria, consentire che il suo regime si perpetui. Mentre è certo, almeno dal punto di vista occidentale, che la sconfitta definitiva dello Stato islamico è necessaria non solo per stabilizzare la regione ma anche per spegnere gli entusiasmi che i suoi successi e la sua sanguinaria capacità mediatica hanno suscitato fra molti giovani sunniti in Medio Oriente, in Europa e altrove. N on sembra neppure funzionare l’idea fin qui accarezzata (implicitamente) dalla Casa Bianca: quella di coinvolgere l’Iran con lo scopo non solo di sconfiggere lo Stato islamico, ma anche di costituire, in prospettiva, una sorta di «equilibrio di potenza» fra Stati sunniti e Stati sciiti sotto sorveglianza occidentale per assicurare stabilità al Medio Oriente. In linea di principio, favorire un simile equilibrio ridando rispettabilità e riconoscimento all’Iran, soprattutto attraverso l’accordo nucleare, sembrava, fino a qualche tempo fa (prima che emergesse la minaccia dello Stato islamico), una buona idea. Oltre a tutto, è vero che l’Iran post rivoluzione del ‘79 ha spesso favorito movimenti e azioni terroriste ma è altrettanto vero che è stato nel mondo sunnita, non in quello sciita, che ha preso corpo ed è decollata, da Al Qaeda al Califfato, la grande guerra condotta simultaneamente contro l’Occidente, gli sciiti e i sunniti non coinvolti nella jihad . Ma quella che era forse un tempo una buona idea, un progetto praticabile, oggi non lo è più. Non solo la nascita del Califfato ha complicato enormemente il quadro ma, per giunta, quel progetto avrebbe richiesto, per funzionare, anche un coordinamento e una intesa fra le grandi potenze: in concreto, sarebbe stato necessario l’appoggio della Russia. Un’ipotesi che è definitivamente tramontata a causa della crisi ucraina.
Il Corriere ha ieri ospitato un interessante intervento di due politici italiani, Pier Ferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, giustamente allarmati per gli sviluppi in corso e che proponevano il coinvolgimento dell’Onu per fermare lo Stato islamico. In queste ore, anche altri in altre capitali europee, consapevoli della debolezza dell’attuale coalizione di guerra, propongono soluzioni simili. C’è da temere, però, che quella non sia la strada. L’Onu può servire (come accadde nel 1991 durante la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein) per dare copertura politico-diplomatica a una potenza americana dotata di volontà d’intervento e di strategia militare. Difficilmente può essere il surrogato o il sostituto di quella volontà e di quella strategia.Per dire che, sfortunatamente, non c’è alternativa a un impegno diretto degli Stati Uniti e a una loro ritrovata capacità di guidare e dare coesione alla coalizione di guerra.
L’Europa corre rischi grandissimi. Siamo sulla linea di tiro. Le ripetute minacce del Califfo all’Europa non sono sbruffonate. Nella sua tragicità la situazione è semplice: o i jihadisti verranno fermati in Medio Oriente o la guerra, prima o poi, ci raggiungerà. La principale ragione per cui ciò continua ad apparire inverosimile a tanti europei occidentali è semplicemente il riflesso dell’eccezionalità della storia europea dopo il ’45, della felicissima anomalia (almeno fino alle guerre iugoslave) di un lunghissimo periodo di pace. Essi faticano a comprendere che la sicurezza europea, in questo come nei passati frangenti, dipende da due condizioni: la disponibilità di americani ed europei a coordinare i loro sforzi, e la presenza di una America i cui dirigenti possiedano la capacità e la volontà di esercitare la leadership .
Le nuove minacce alla sicurezza obbligano a rettificare molti giudizi del passato. Per anni, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, in tanti hanno pensato che America e Europa potessero felicemente andarsene ciascuna per la propria strada. Che l’Europa non sia in grado di farlo dovrebbe essere ormai evidente. La si osservi con attenzione. Qualcuno pensa che sia capace di difendersi da sola? Si guardi al disastro che è riuscita a combinare in Libia.
Ma anche gli Stati Uniti, come hanno sperimentato con la presidenza Obama, la meno interessata, rispetto a tutte quelle che l’hanno preceduta nell’ultimo mezzo secolo, a mantenere la «relazione speciale» con l’Europa, non hanno nulla da guadagnare da un indebolimento eccessivo del legame transatlantico. È forse dai tempi di Jimmy Carter (fine anni Settanta) che il prestigio e l’influenza degli Stati Uniti non cadevano così in basso. Bisogna sperare che il prossimo presidente abbia l’energia e la capacità di rovesciare la tendenza. Nell’attesa, è vitale che, in Medio Oriente soprattutto, gli occidentali (gli americani in primo luogo ma anche gli europei) la smettano di accumulare solo errori.

il Sole 12.10.14
L'incubo della bandiera nera dell'Isis
Le alleanze della jihad. Le divisioni e il vuoto di potere in Libia creano terreno fertile per gli estremisti
di Roberto Bongiorni


L'ultima cosa da augurare alla tormentata Libia era vedere la bandiera dello Stato islamico sventolare per le strade di una grande città. Il video diffuso alcuni giorni fa da un'emittente araba è inquietante. Un lungo convoglio di miliziani armati - apparentemente del gruppo estremista Ansar al-Sharia - sfoggia la bandiera nera dell'Isis, inneggiando al Califfo Abu Bakr al-Baghdadi e promettendogli fedeltà.
È un macabro avvertimento non solo alla Nuova Libia, impantanata in una difficilissima transizione e ancora incapace di ricostruire le istituzioni, ma anche ai Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo. Dopo il Magreb, lo Yemen, le Filippine e in parte Algeria e Tunisia, gli appelli all'unità lanciati dal al-Baghdadi sembrano aver trovato un fertile terreno anche nelle aree più islamiche dell'ex colonia italiana. Il fatto che l'alleanza - controversa perché non c'è stata ancora risposta dell'Isis - sia stata annunciata a Derna non è casuale. Da mesi, nell'indifferenza del mondo, questa città strategica di 80mila abitanti, che si affaccia su una baia della Cirenaica a 200 km da Bengasi, era divenuta una sorta di città-Stato, sfuggita al controllo del governo di Tripoli. Tanto che il 25 giugno, giorno delle elezioni parlamentari, tutti i seggi di Derna erano rimasti chiusi. La città è sempre stata una spina nel fianco di Gheddafi. Dal 2005 al 2007 era stata la fucina degli jihadisti libici pronti a immolarsi in Iraq. Ma era una fenomeno marginale.
Nell'ultimo anno le cose sono cambiate, drasticamente. La Libia è divisa, dilaniata da un conflitto ormai polarizzato tra anti-islamisti e islamisti. In quest'ultima fazione agiscono tuttavia forze diverse. C'è Ansar al Sharia Libya, sigla divenuta nota nel settembre del 2012 quando rivendicò l'attentato all'ambasciata Usa di Bengasi in cui trovò la morte l'ambasciatore Christopher Stevens. Ma ci sono anche la potente milizia di Misurata, che di fatto controlla la capitale Tripoli dopo i combattimenti dei mesi scorsi, e il suo alleato, la Fratellanza musulmana, una forza più moderata e pragmatica. Una situazione esplosiva che ha generato due Parlamenti e due Governi: il nuovo e più "laico" Parlamento "galleggiante", spostato per ragioni di sicurezza su un traghetto greco ancorato nel porto di Tobruk, vicino al confine con l'Egitto. E quello insediato di fatto a Tripoli, composto in gran parte dagli "onorevoli" della Fratellanza. È un vuoto di potere che rischia di far precipitare nuovamente la produzione petrolifera nazionale. E per un Paese che di petrolio vive - rappresenta il 95% dell'export - preservare l'industria energetica è indispensabile.
La priorità per il Governo legittimo è dunque combattere l'offensiva jihadista, ma al contempo accompagnare l'iniziativa militare al dialogo con tutte le tribù del Paese. Non sarà facile. Le prove di forza dell'Isis contro la coalizione internazionale -nonostante i raid aerei sono riusciti a circondare la città siriana di Kobane - stanno raccogliendo molti simpatizzanti tra le file degli estremisti. Già in luglio, a Derna, il sedicente gruppo Majlis Shura Shababa al-Islam aveva annunciato l'alleanza al Califfato. E da alcune settimane attraverso i porosi confini del Paese un massiccio flusso di combattenti libici rientrano in patria da Siria e Iraq. Sostenuto dall'Egitto e dagli Emirati, guardato con benevolenza da alcuni Paesi occidentali, il generale rinnegato Khalifa Haftar è rientrato dagli Usa per opporsi ad Ansar al-Sharia. Ed evitare che questa organizzazione jihadista, che il 31 luglio aveva proclamato Bengasi un «Emirato islamico", conquisti davvero la capitale della Cirenaica. Sarebbe un tragico epilogo.

Repubblica 12.10.14
L’Austria nega il rientro alle baby-jihadiste pentite
di Andrea Tarquini


BERLINO. Samra Kesinovic ha 17 anni, l’amichetta del cuore Sabina Selimovic 15. Due normali, graziose adolescenti come ne vedi tante a Vienna, cantavano i motivi rock, andavano a ballare nei locali e in strada nei quartieri di tendenza giovanili. Poi un giorno d’aprile sono fuggite in volo, hanno fatto perdere ogni traccia di sé. Arrivate alla meta, si sono rifatte vive con e-mail e sms di addio al mondo occidentale. Hanno raggiunto i jihadisti dell’Is, nei loro messaggini online si sono dette «felici, e decise a vivere e morire per Allah». Adesso le due ragazze sono a Raqqa, roccaforte del califfato. E il loro destino commuove, scuote e divide l’Austria e l’Europa intera. Perché ora Samra e Sabina hanno fatto sapere di essere entrambe incinte, e deluse, e di voler tornare a casa. Impossibile, ha ribadito il ministero dell’interno austriaco: «Chi lascia così il paese non può tornare quando vuole». Vienna in- somma le ha come messe al bando per sempre. Sulle chat, su Twitter e sui giornali ci si divide: è davvero giusta tanta severità contro due minorenni? Ma pesano anche altri, gravi interrogativi: com’è mai possibile che a scuola, l’efficiente Bundeshandelsschule (scuola commerciale superiore) al numero 10 dell’elegante Favoritenstrasse nell’ex capitale asburgica, preside, professori, compagni di scuola non si fossero accorti di nulla?
Qualche sospetto c’era, ammettono adesso la loro insegnante di riferimento e il preside che un giorno di gennaio aveva dovuto convocare Samra. «Sei brava, hai ottimi voti, ma quella scritta col cuoricino che ti sei scritta sulla mano, faresti bene a cancellarla». Sulla mano, Samra che in discoteca tutti notavano per la risata squillante, aveva scritto “al Qaida”, con un cuoricino al posto del puntino sulla i. A tutti era sembrata solo una bravata da teenager. Invece, il 10 aprile, Samra e Sabina hanno raggiunto col treno l’aeroporto viennese di Schwechat, si sono imbarcate su un volo della Turkish per Istanbul, da lì hanno proseguito con un volo interno per Adana. Poi via terra fino al confine siriano. Sono ricomparse in messaggi di propaganda ideale per il califfato: velate dalla testa ai piedi, con a fianco terroristi barbuti cui loro sorridono. «Siamo qui da leonesse che non lasciano mai soli i loro leoni, non cercateci, per Allah vogliamo vivere e morire».
Il trend è più diffuso di quanto non si pensi, dicono gli esperti di terrorismo del King’s College: le ragazze convertitesi e andate in Siria a fianco dei terroristi sono almeno 60 francesi, 50 britanniche, 40 tedesche. Spesso figlie di migranti, come i cognomi di Samra e Sabina dicono, ma integratissime fino al giorno prima della svolta. In tanti messaggini postati online si mostravano felici, dipingevano cuoricini e fiori sui Kalashnikov. Adesso la storia del ripensamento. Fonti dei servizi di sicurezza affermano che le ragazze avrebbero avuto modo di contattare le loro famiglie, confessando di voler tornare a casa. Non se ne parla, replica il governo di Vienna. E certo i “leoni” del califfato, tra cui i probabili padri dei nascituri che Samra e Sabina portano nel ventre, sono d’accordo. Spesso, dicono gli esperti, seducono e convertono le giovani europee, poi nei loro territori le riducono a indottrinati oggetti di piacere.

La Stampa 12.10.14
Appello su Facebook: ”Berlino più economica di Tel Aviv, immigriamo”
Polemiche su Israele
A far discutere è la pagina Facebook “Olim le-Berlin” creata da un anonimo cittadino residente in Germania
Punta sul cibo costa meno e sulla mancanza di antisemitismo
di Maurizio Molinari

qui

Repubblica 12.10.14
Bill, Monica e il Talmud ecco la verità “mistica” sullo scandalo Clinton
L’esperta disse: “ E’ adulterio solo se l’uomo ha un rapporto completo con una sposata”
Desecretati alcuni documenti dopo 16 anni. Il presidente aveva assoldato esperti di ebraismo: “Fu solo onanismo...”
La Casa Bianca giocò la carta religiosa per convincere l’America. E ci riuscì
di Vittorio Zucconi


ERANO i giorni del pentimento e del panico dopo il peccato. La Casa Bianca in pieno orgasmo politico per salvare Bill Clinton cerca rifugio anche nel Dio del Talmud per convincere l’America che quella storia con Monica Lewinsky non era mai stata un «rapporto sessuale», ma soltanto «onanismo», come se un presidente degli Stati Uniti potesse vantarsene.
Erano i giorni del 1998 nei quali un uomo che mai aveva manifestato particolare inclinazioni mistiche improvvisamente scoprì il refugium peccatorum nel clero e nei teologi, circondandosi di sacerdoti cattolici, rabbini, pastori protestanti, imam, predicatori televisivi e chiunque potesse servire a una assoluzione in breakfast di preghiera e di meditazione alla Casa Bianca. Era il classico pentimento dopo la scoperta del peccato.
Clinton, avvocato e professore di diritto, si aggrappava a interpretazioni cavillose e a letture ambigue anche dei verbi più semplici, come nella sua leggendaria risposta alla domanda del procuratore speciale Starr se il suo fosse stato un rapporto sessuale con l’ex stagista: «Dipende da che cosa intende con il verbo essere». Ma per sfuggire a quella croce alla quale lui stesso si era inchiodato, proclamando in diretta televisiva di «non avere avuto mai relazioni sessuali con quella donna», si scopre ora, da un nuovo pacco di documenti resi pubblici dagli archivi del governo, che i suoi consiglieri e avvocati scavarono anche nel primo dei grandi libri del monoteismo, nella Torah ebraica.
Chiesero il parere di una autorità in materia di Talmud, cioè nella interpretazione della Legge divina, la professoressa di Dartmouth, Susannah Heschel che sembrò gettare a Clinton un salvagente. «Secondo la legge classica dell’Ebraismo — rispose la specialista del Talmud — adulterio è commesso soltanto quando un uomo sposato ha un rapporto sessuale completo con una donna sposata, e Monica Lewinsky è nubile. Nella peggiore delle ipotesi, il presidente Clinton è colpevole del comune peccato di onanismo, un peccato che probabilmente affligge la coscienza della maggioranza di uomini ebrei». «Per quel che può valere la mia opinione», aggiunse cauta e intelligente la professoressa.
Su questa interpretazione, dalla quale una buona parte di mogli non strettamente osservanti della tradizione interpretativa talmudica probabilmente dissentirebbero, Clinton si lanla ciò per sostenere non la propria posizione legale, ormai compromessa abbastanza per giustificare l’incriminazione, l’impeachment, ma la propria buona fede nell’avere negato il «rapporto sessuale» con Monica. Abbracciando il Talmud e adorando l’altro dio infallibile dei sondaggi che continuava a benedirlo, Clinton si sarebbe avviato verso l’assoluzione con voto di maggioranza al Senato, secondo le linee di partito.
Ma i nuovi documenti — che escono, guarda caso, proprio quando si fa sempre più concreta la corsa di un’altra Clinton, Hillary, verso la Casa Bianca — mostrano, insieme allo sforzo di trovare un appiglio religioso, il panico di una Amministrazione che da tempo, da molto tempo prima delle rivelazioni filtrate dalla deposizione di Monica arrivate al sito di Drudge Report, sapeva di avere in quella ragazza ventenne travolta dalla cotta per Clinton una mina atomica vagante. I primi segnali d’allarme vennero quando lei chiese di poter appendere nel proprio cubicolo alla Casa Bianca un ritratto del presidente con dedica. Gli avvocati dell’ufficio legale e i consiglieri sospettarono — o seppero — che ci fosse qualche cosa di più tangibile dietro quella passioncella e decisero che era arrivato il momento di allontanare la paglia dal fuoco.
«Occorre trasferire la Lewinsky al più presto» segnala Len Davis, uno degli avvocati di Bill. «Si deve trovarle una sistemazione al DoD (al Pentagono, ndr) con un incarico retribuito», invece di lasciarla semplicemente an- dare dopo i sei mesi di stage gratuito come avviene normalmente. E quando neppure il trasferimento sull’altra riva del fiume Potomac, che separa la Casa Bianca dal Dipartimento della Difesa, impedì che lei spiattellasse tutto alla collega Linda Tripp al servizio dello Fbi, e la presenza dell’abitino blu galeotto con il segno indiscutibile dell’onanismo, preservato con cura dalla provvida mamma della Lewinsky, fornì la prova inconfutabile, i sostenitori di Clinton suggerirono strategie di difesa disperate.
Venne l’idea dell’improvvisa e travolgente scoperta della consolazione mistica, portata fino all’esplorazione della Torah attraverso gli specialisti del Talmud. Il pentimento in ginocchio fra chierici di varie confessioni, ben filmato e documentato. E la controffensiva classica di ogni personalità politica incappata nei propri peccati: l’attacco ai soliti media faziosi e partigiani, forse parte di quella che la First lady Hillary battezzò come il «vasto complotto dell’estrema destra». «I media sono particolarmente screditati in questo momento, dopo il processo OJ Simpson e la morte di Lady D. « scrive in uno dei documenti pubblicati ieri un boss sindacale irlandese — americano di New York, Joe Jamison, vicino ai Democratici. «Attaccare giornali e tv non sarebbe una buona idea, ma utilizzare gruppi surrogati e indipendenti per farlo potrebbe funzionare».
E funzionò. In un’economia florida, con il favore popolare alle spalle e una solida maggioranza nel Senato investito dalla Costituzione del ruolo di giuria nell’impeachment, il presidente fu dichiarato «not guilty», non colpevole dei reati di falsa testimonianza e di ostruzione del corso della Giustizia per i quali — non per il sesso — era stato incriminato, con 55 voti contro 45, nel febbraio del 1999.
Grazie all’economia e al Talmud, Bill Clinton sarebbe passato alla storia come il primo presidente americano ufficialmente qualificato come onanista, ma meglio che deposto d’autorità. Nell’anno successivo, il 2000, l’America che aveva perdonato Clinton avrebbe punito se stessa mandando George W. Bush alla Casa Bianca.

Corriere 12.10.14
L’eccezione Marocco
Un re «protettore» di tutte le fedi, un governo islamico moderato e la fiducia in un futuro «africano»
Così il Paese è diventato un modello di stabilità e (timido) pluralismo dove il fanatismo non sfonda
di Ernesto Galli della Loggia


Come può una società povera e tradizionale del mondo islamico compiere un tragitto verso la modernizzazione e la partecipazione politica senza cadere in uno dei due opposti pericoli classicamente in agguato su questa strada: la dittatura militare da un lato (tipo Egitto e Algeria) o il plebiscitarismo islamo-populista (tipo Iran) dall’altro? In Marocco si toccano con mano i fattori che rendono possibile una simile impresa (impresa che visto il panorama generale ha quasi del miracoloso), anche se al tempo stesso ci si rende conto di come questi fattori siano spesso irriproducibili, dipendendo soprattutto dalla storia.
La storia del Marocco ne ha messi in campo almeno due di questi fattori, entrambi rivelatisi decisivi: innanzitutto la circostanza che il Paese — tra l’altro il solo del mondo arabo a essersi sottratto al dominio ottomano — gode da oltre tre secoli dell’ininterrotta presenza di un’effettiva statualità sotto una medesima dinastia, capace a suo tempo di rivendicare l’indipendenza nazionale anche contro il colonialismo francese. In secondo luogo il fatto che da tempo il re, in quanto insignito del titolo di «Signore dei credenti» si considera non solo il capo religioso dei suoi sudditi islamici, ma anche il protettore dei sudditi che si riconoscono nelle altre due grandi fedi monoteiste. Ciò che non solo permette l’esistenza di una tolleranza religiosa a favore di cristiani ed ebrei (la comunità ebraica in Marocco è antichissima con molti discendenti degli ebrei scacciati dalla Spagna nel 1492) — oggi, a differenza di ogni altro Paese della regione, garantita anche dalla nuova Costituzione del 2011 — ma che, cosa forse ancora più importante, costituisce la premessa perché il sovrano (e cioè lo Stato) eserciti una forte funzione di guida e di controllo sull’intera sfera religiosa islamica e in particolare sul clero. In questo antico Stato, governato da una specie di «giuseppinismo» arabo, il fondamentalismo, insomma, trova un muro difficilmente valicabile.
Protetta su questo versante decisivo, e legittimata nazionalmente dalla sua storia, la monarchia, con l’attuale re Mohammed VI di orientamento decisamente liberaleggiante, mira a svolgere un suo forte ruolo nel processo di democratizzazione, cercando di porsi intelligentemente come istanza di garanzia, di mediazione e di moderazione. Da questo punto di vista il Marocco si presenta come un caso da manuale circa la funzione che può avere un «potere neutro» in una situazione di elevata potenzialità conflittuale, qual è certamente quella di un Paese impegnato in una transizione complessa. Nel quale oggi si assiste, per l’appunto, al rodaggio appena timidamente iniziato di un sistema costituzionale pluralistico e pluripartitico, e contemporaneamente — sullo sfondo di una notevole crescita economica e di un’altrettanto forte emigrazione in Europa — a un’impetuosa trasformazione culturale e sociale (nascita di una nuova borghesia, diffusione dell’istruzione anche femminile, crollo del tasso di fertilità, urbanesimo, abbandono dei valori tradizionali, ecc...).
Nonostante la presenza di un governo a base parlamentare regolarmente eletto (dominato da una lista ispirata a un islamismo moderato), il potere appare tuttora saldamente nelle mani del monarca, non per nulla fatto puntualmente oggetto su quasi tutta la stampa di altisonanti formule di omaggio. Che a orecchie occidentali possono certo dare un suono alquanto stridulo, ma che qui servono soprattutto a ribadire il ruolo che il re esercita, avendo cura di apparire peraltro quanto più possibile super partes . Un ruolo protetto sì da una capillare vigilanza poliziesca (lungo le strade nazionali vi è un posto di blocco in pratica ogni decina di chilometri) e intinto certamente di una buona dose di paternalismo, anche se di un paternalismo esplicitamente illuminato, dal tono quasi progressista, volto in ogni modo a promuovere la crescita del Paese.
Si veda per esempio la fondazione di una modernissima università residenziale come quella di Al Akhawayn, o quella di un Istituto di studi strategici, a Rabat, impegnato a esplorare in maniera indipendente gli scenari futuri del Paese e a farne oggetto di periodiche discussioni allargate ai rappresentanti di tutti i partiti. La scommessa principale è, come si capisce, quella dello sviluppo economico. Ma anche qui, sospinto dalle rimesse dei suoi oltre tre milioni di emigranti in Europa (di cui oltre mezzo milione in Italia) e dalle entrate apportate dalla decina di milioni di turisti che arrivano ogni anno, il Marocco sembra poter guardare con un certo ottimismo al suo futuro, avendo fatto segnare dall’inizio del Duemila una crescita del Pil tra il 3,5 e il 6 per cento annuo. Chi visita oggi il Paese si trova di fronte a un fervore d’iniziative, a una voglia diffusa di migliorare, a scenari di grandi lavori in corso (come quelli per il gigantesco nuovo porto commerciale alle porte di Tangeri), che ricordano un po’ l’Italia degli anni 50-60. Il che non toglie che si tratti tuttora di un Paese alle prese con gravi problemi di disoccupazione, con circa un quarto della popolazione in condizioni di povertà, con un’agricoltura troppo spesso in balia degli eventi meteorologici e gravata da troppi addetti, con un livello di importazioni che è quasi il doppio di quello delle esportazioni.
Per il suo futuro esso guarda sì all’Europa (anche all’Italia, oggi tuttavia decisivamente latitante), ma soprattutto all’Africa, pur dovendosi guardare attentamente dalle ondate migratorie provenienti da Sud, nelle quali può nascondersi di tutto, a cominciare dalle cellule del terrorismo fondamentalista, mentre sempre a Sud, nel Sahara occidentale ex spagnolo (la cui annessione da parte del Marocco non è mai stata riconosciuta da alcuno Stato) è sempre più o meno latente la rivolta del Fronte polisario, appoggiata dall’Algeria, con la quale i rapporti diplomatici sono interrotti da decenni, anche se negli ultimi tempi non mancano segnali di riconciliazione.
Proprio alla riscoperta di una vocazione africana — a lungo messa un po’ da parte dalla non partecipazione all’Unione Africana a causa della questione del Sahara — parallela però al mantenimento di una posizione sostanzialmente filo-occidentale nel quadro di uno sviluppo interno in senso costituzionale, proprio a questo peculiare equilibrio, il Marocco sembra affidare oggi il suo futuro, singolarmente diverso da quello di tutti gli altri Paesi della regione.

La Stampa 12.10.14
“Pechino non può fermarci. Diventeremo l’avamposto per la democrazia in Cina”
Il leader della protesta Benny Tai da 15 giorni occupa la piazza in tenda
“La repressione fallirà: devono capire che saremo utili anche a loro”
intervista di Ilaria Maria Sala


Benny Tai, 50 anni, professore di Diritto Costituzionale all’Università di Hong Kong, di fede protestante, è uno dei tre principali animatori del gruppo Occupy Central with Love and Peace. Con Scholarism, la Federazione degli Studenti di Hong Kong, altri gruppi appartenenti alla società civile e alcuni parlamentari, Occupy Central da 14 giorni ha preso possesso delle strade principali di Hong Kong. Mentre i rappresentanti del governo locale continuano a rifiutare il dialogo, la situazione sembra essere arrivata a un’impasse. 
Da due settimane Tai dorme in una tenda davanti agli uffici del governo, in quella che è stata ribattezzata Piazza degli Ombrelli, simbolo del movimento.
Quanto durerà ancora la protesta?
«La palla è nelle mani del governo. Abbiamo abbastanza persone per continuare l’occupazione a lungo: i nostri manifestanti sono molto preparati, non c’è nessuna organizzazione centralizzata eppure il movimento è compatto. I vari gruppi si danno il cambio e sono determinati a restare. Non ho il potere di far tornare tutti a casa, alcuni difendono anche le barricate non necessarie. Ma se il governo continua a non voler risolvere la situazione mostra solo la sua incompetenza. La popolazione di Hong Kong deve sopportare degli inconvenienti con le strade bloccate, ma la responsabilità è tanto nostra che del governo, e la strategia di sfiancarci e farci perdere il sostegno popolare non sta funzionando». 
Quindi?
«Ci sono tre opzioni: una repressione violenta, da escludere. Anche per i leader di Pechino quello di Tiananmen è un ricordo terribile, che non vogliono rivivere, e poi la gente di Hong Kong uscirebbe di nuovo per la strada. La seconda, una rimozione forzata ma senza spargimento di sangue. Anche questo non funzionerebbe, le persone sono troppo determinate e ricomincerebbero ad occupare. L’unica reale possibilità, dunque, è quella di accettare il dialogo».
Pechino però ha già chiarito che tipo di suffragio universale è disposta ad accettare, ovvero con candidati preselezionati. Come può rimangiarsi la parola?
«Molti accademici e giuristi hanno già presentato un percorso possibile per modificare i termini della riforma elettorale, con accorgimenti tecnici che consentono di rilanciare l’intero processo. Cosa teme Pechino? L’elezione di un Capo dell’Esecutivo radicale, incapace di lavorare con loro. Ma questo significa non conoscere l’elettorato di Hong Kong: è una città pragmatica, che eleggerebbe un moderato, capace di dialogare con Pechino pur promuovendo una politica in cui gli interessi di Hong Kong siano salvaguardati». 
Ma come può la Cina accettare una democrazia al suo interno, anche se limitata a Hong Kong?
«Tutte le riforme cinesi sono state fatte con esperimenti. Le riforme economiche sono cominciate con le Zone economiche speciali, poi estese ad altre città, e infine a tutto il Paese. Hong Kong può essere un laboratorio di riforma politica, un esperimento, una Zona democratica speciale. Se funziona, e se la Cina si sente pronta, fra 10 o 20 anni potrebbe estendere ad altre città l’esperimento democratico. La differenza nella cultura politica di Hong Kong e del resto del Paese fa sì che Pechino non abbia motivo di preoccuparsi che quello che succede qui possa influenzare quello che avviene in Cina; la globalizzazione sta cambiando anche la Cina, ma ci vorrà tempo. Quello che stiamo facendo noi riguarda solo Hong Kong: vogliamo mettere in pratica la democrazia qui». 
Difficile che Pechino la veda così, però.
«Questa non è una “rivoluzione colorata”. Non è una sfida alla sovranità cinese. Non vogliamo sovvertire il governo. Quello che vogliamo, è un sistema giusto, che rispetti i valori universali. Sosterremo chiunque venga eletto da un sistema giusto, che sia pro-democrazia o conservatore. Pechino può accordare pieno suffragio universale a Hong Kong senza danneggiare la sua autorità».
Due settimane in tenda sono pesanti...
«Pensavo che saremmo stati qualche centinaia a portare avanti Occupy Central, per un paio di giorni. Che dopo poco la polizia ci avrebbe portati via di peso. Invece è venuta talmente tanta gente che non solo la piazza davanti agli uffici governativi è stata occupata, ma strade intere. E malgrado la fatica, le persone rimangono.
Come vede le divisioni all’interno del movimento?
«Abbiamo persone di 16 anni, e di più di 50: le diversità sono naturali. Ma mettiamo in pratica la democrazia e ci accordiamo. Avere un unico punto di vista è malsano. Quando quest’azione di disobbedienza civile sarà terminata, Hong Kong non sarà più la stessa. Lo spirito di disobbedienza è entrato nei cuori di chi ha preso parte al movimento, e non è stato un gioco: alcuni potranno avere la fedina penale intaccata dal loro coinvolgimento per quanto sia un movimento pacifista». 
Che ruolo gioca il cristianesimo?
«Questo non è un movimento cristiano, ci tengo a sottolinearlo. Molti cristiani partecipano, è vero, ma la chiesa è divisa. Credo che il vero ruolo della chiesa verrà dopo, quando ci sarà bisogno di fare portare pace e amore intorno a noi e verso i nostri oppositori». 

Corriere 12.10.14
Lo smog e l’umiliazione di Pechino
di Guido Santevecchi


M olti mesi fa il primo ministro Li Keqiang ha «dichiarato guerra allo smog, per il futuro della nazione cinese». Tutto il mondo sa che le città della Cina sono afflitte da cieli color grigio sporco. La censura non lo può nascondere nemmeno ai cinesi, perché basta guardare fuori dalla finestra per rendersi conto del disastro ambientale causato da trent’anni di corsa sfrenata all’industrializzazione, dall’impiego scriteriato di carbone, dall’inefficienza delle centrali elettriche, dal fiume di auto. I residenti stranieri di Pechino seguono in diretta il tasso di PM 2,5 (le particelle ultrasottili che misurano meno di 2,5 micron) sull’account Twitter dell’ambasciata americana che ha un rilevatore in giardino e ha cominciato a diffondere i dati nell’aprile del 2008 e ad aprile di quest’anno li ha messi insieme tutti. Così sappiamo che nei 2.028 giorni catalogati solo 25 sono stati «buoni» secondo gli standard internazionali. Così il premier ha dichiarato guerra al fenomeno. Ma nel frattempo dev’esserci stato un armistizio, perché la situazione è peggiorata: questa settimana Pechino è di nuovo nell’incubo. Venerdì è stato dato l’allarme Arancione: stop alle attività sportive all’aperto per gli scolari, consiglio di indossare la maschera, lavarsi la faccia appena rientrati. Il PM 2,5 è salito a 496, venti volte superiore al «respirabile»: i dati sarebbero da allarme Rosso, ma le autorità per vergogna colpevole lo hanno evitato sempre finora. A novembre Pechino ospiterà il grande vertice Apec (l’Associazione Asia-Pacifico). Una vetrina di potenza. E per rendere l’aria respirabile (o quasi) il governo ha annunciato che i dipendenti pubblici staranno a casa dal 7 al 12 novembre, quindi non dovrebbero usare l’auto, i cantieri saranno fermati dal 3 novembre. Insomma, una bella vacanza salutista. Comunque un’umiliazione ulteriore per il premier e compagni: per fare bella figura con gli ospiti internazionali non si lavorerà. Basta aspettare la magica settimana di novembre e nel frattempo respirare (poco) con la maschera.

Corriere 12.10.14
Il miracolo di Morales III
Il socialismo (virtuoso) vive e trionfa in Bolivia
Il discepolo di Chávez otterrà oggi il suo terzo mandato
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Quando il bolivia- no Evo Morales apparve sulla scena latinoamericana una decina di anni fa, l’ennesimo leader popolare a promettere una revolución venne accolto da ironia e scetticismo. Indio aymara, un mantello colorato al posto della giacca, difendeva la coca, si appellava agli spiriti degli Incas e parlava di socialismo. Sarebbe stato un disastro, se non il fondatore di un «narcostato», riferivano i diplomatici Usa a Washington. A nove anni dalla sua prima vittoria, Morales verrà oggi confermato per la terza volta alla presidenza della Bolivia e l’unico dubbio è se riuscirà a superare il 64% dei consensi del 2009.
Il suo avversario più prossimo è staccato di 40 punti nei sondag- gi: chance zero, insomma. Se è socialismo il suo, è l’unico che funziona al mondo. Per ora. Il sarcasmo degli esordi è costretto ad adeguarsi ai numeri.
Il modello Evo ha garantito alla Bolivia una crescita economica media del 6% all’anno e una drastica riduzione di un terzo della povertà. I programmi sociali funzionano e — caso più unico che raro — anche le nazionalizzazioni dei settori chiave dell’economia, i cui proventi finanziano donne, studenti e poveri. Inflazione e disoccupazione sono basse e il reddito medio è più che raddoppiato. Per gli economisti non c’è nessuna magia: Morales ha approfittato del boom delle materie prime che la Bolivia esporta (gas, petrolio, soia), tenendo in ordine i conti pubblici. Mai una spesa oltre budget, controllo ferreo su moneta e salari, a costo di scontri anche pesanti con il mondo che lo ha partorito come leader, quello sindacale. Lo riconosce anche il Fmi.
La Bolivia è un Paese virtuoso.
Quanto alla coca — la cui coltivazione per usi legali e tradizionali Morales ha difeso e realizzato — il bilancio è controve r s o . N o n c ’è s t a t o a l c u n boom delle produzioni illecite, il governo tiene sotto controllo i campi, ma la Bolivia resta suo malgrado un Paese esportatore di pasta base per produrre cocaina. Discepolo di Hugo Chávez, m a i r i n n e g a to , M o r a l e s h a mantenuto intatta la retorica anti-Usa e l’imperialismo dei Paesi ricchi torna spesso nei suoi discorsi. Ma ha avuto l’accortezza di non seguire le ricette economiche populiste che hanno devastato il Venezuela (come stanno facendo con successo Ecuador e Nicaragua, altri due Paesi dell’ex asse chavista). Gli viene però imputato lo stesso ardore autoritario nell’occupazione dello Stato. Per l’opposizione il sistema giudiziario non è indipendente, i media sono sotto controllo ed esisterebbero un centinaio di prigionieri politici. Il governo nega tutto.
L’altro successo di Morales è aver disinnescato la forte opposizione nelle province ricche dell’est, attorno a Santa Cruz, che anni fa furono a un passo dal chiedere la secessione. C’è riuscito con politiche pro business, soprattutto in agricoltura, ed è stato aiutato dal boom delle materie prime di quella regione. Con la riconferma di oggi, Morales governerà la Bolivia fino al 2020, 15 anni filati di potere. Al Congresso giace una proposta per rendere illimitata la rielezione, ma per passare il partito di governo deve raggiungere oggi i due terzi dei seggi. Frantumata e debole, l’opposizione grida al «golpe costituzionale». Il populismo intelligente di Morales, che gli ha conquistato tanto appoggio anche nella classe media urbana, è davanti ad un’altra prova.

Corriere 12.10.14
Mario Vargas Llosa
«Basta pessimismo, la democrazia non è stanca. Sono i totalitarismi a retrocedere ovunque»
Parla lo scrittore peruviano, Premio Nobel e uno dei grandi intellettuali sudamericani
intervista di Danilo Taino


Mario Vargas Llosa, peruviano, maestro di Letteratura, Premio Nobel nel 2010, fa vacillare il pessimismo che stringe alla gola noi europei. Forse perché visto dai Paesi emergenti il mondo angoscia meno, forse perché la lucidità di convinzioni gli fa da bussola. In questi giorni, è in Italia per partecipare, domani, al decimo compleanno dell’istituto liberale Bruno Leoni. Per inquadrare la sua idea del mondo, in questa intervista dice subito di non condividere l’idea — sostenuta per esempio da Francis Fukuyama — che la democrazia sia in affanno e che modelli autoritari come quello cinese possano essere attraenti perché efficienti.
«È una visione molto pessimista. La democrazia ha problemi seri ma ho l’impressione che sia il totalitarismo a retrocedere». Cita Hong Kong come dimostrazione del fatto che «lo sviluppo economico in ultima istanza è incompatibile con il totalitarismo, l’apertura economica prima o poi esige un’apertura politica». La nuova classe media cinese costringerà Pechino alla riforma democratica.
E nel resto del mondo la situazione non è diversa: il totalitarismo non avanza.
La Russia di Putin non ha niente da offrire. In America Latina «il clima non è più a favore della dittatura»: in Centro America per la prima volta non si hanno guerre civili; in Colombia, Perù, Messico la democrazia si consolida, anche altrove non è in pericolo. «E il Brasile — sostiene — ha la possibilità, nelle elezioni in corso, di rinnovarsi rispetto alla corruzione dei governi di Dilma Rousseff e Lula. È interessante il caso di Marina Silva (sfidante per la presidenza, sconfitta al primo turno, ndr), partita dall’estrema sinistra, come ecologista, e arrivata a riconoscere che per lo sviluppo sono necessari l’impresa, il libero mercato, l’apertura. C’è una sinistra che sta scoprendo l’importanza di questi valori, che in America Latina oggi hanno un consenso mai avuto prima. Se Marina Silva lo appoggerà seriamente, credo che Aécio Neves possa diventare presidente. Sarebbe molto positivo: in genere si pensa che il grande statista in Brasile sia stato Lula; in realtà il vero statista fu Henrique Cardoso che riformò, aprì, fece crescere l’economia che ora con Dilma si è fermata».
Solo nei Paesi congelati nel passato la situazione è pessima.
«Cuba è triste, è un Paese nel limbo: l’unico sogno cubano è la fuga negli Stati Uniti. E il Ve- nezuela è in teoria ricchissimo ma ha l’inflazione più alta del mondo, l’economia non può essere peggiore e la repressione è dura: l’opposizione, però, cresce».
Non che la democrazia non abbia problemi. «Il primo è la corruzione, che ad esempio in Europa è molto serio». E provoca reazioni: nazionalismo, razzismo, «non massicci ma preoccupanti». È che in Occidente, dice lo scrittore-politico, «assistiamo a una sparizione dei valori perché le élite sono spesso corrotte. Per esempio l’impresa era una forza anche morale nel passato: oggi l’avidità è riuscita a distruggere i freni morali che garantivano il funzionamento democratico». Insomma, le libertà sono di fronte a sfide se- rie, loro proprie; ma di fronte all’autoritarismo non stanno arretrando. Nella lettura di Vargas Llosa, l’Occidente non ha appoggiato a sufficienza i movimenti sinceramente democratici delle Primavere Arabe, Obama ha sbagliato a ritirarsi troppo presto dall’Iraq e a non sostenere sin dall’inizio le forze democratiche che puntavano alla caduta di Assad in Siria. «Ora, il fondamentalismo islamico è un pericolo per la cultura libera, per i valori dell’Occidente» e il Califfato sembra folcloristico ma non lo è. «Ci ha dichiarato una guerra: o la vinciamo o la perdiamo». Certo, non sarà facile: in Europa, i cittadini, i governi, gli intellettuali hanno perso idealismo, ha preso piede un pessimismo apatico che non riesce a difendere i valori liberali: il Premio Nobel ha coniato un neologismo per definire la malattia europea, ombligismo, dallo spagnolo ombligo, «l’abitudine a guardarsi l’ombelico».
Ma potrebbe essere proprio la guerra contro il Califfato «a fare aprire gli occhi di Europa e Occidente su ciò che è minacciato, sui valori etici di libertà, di solidarietà, di rispetto delle donne che possiamo perdere: abbiamo battuto il comunismo, ora dobbiamo affrontare il fanatismo religioso». Da una parte anche sopprimendo i terroristi.
Dall’altra aiutando l’islam a sperimentare un processo di laicizzazione: «tutte le religioni nascono totalitarie; ma il cristianesimo si è laicizzato, l’islam no». A proposito di religione, secondo Vargas Llosa, papa Francesco è una forza progressista che ha una grande ripercussione anche geopolitica. È però frenato dalla struttura conservatrice della Chiesa, dalla Curia romana che ne trattiene la volontà riformatrice. «Nella Chiesa ci sono persone meravigliose — dice — ma anche trogloditi, uomini delle caverne; speriamo che riesca a superarli». E — aggiunge l’impulso liberale dello scrittore che non ama il pauperismo — «consiglierei al Papa di non parlare di economia: ci sono gli specialisti, perché occuparsene?». Il messaggio forte che l’intellettuale peruviano vuole lasciare agli europei è che «il disarmo morale che vivono, il cinismo, l’idea che tutto sia corrotto e vada male fa perdere quel dinamismo che in passato è stato il grande fattore di cambiamento e di riforma. È un problema profondamente culturale, di spirito critico».

La Stampa 12.10.14
I ventitré giorni di Alba
Caleidoscopio partigiano
A settant’anni dai fatti immortalati dal racconto di Beppe Fenoglio i protagonisti, vivi e morti, raccontano ognuno una storia diversa
di Piero Negri


Diceva Paolo Farinetti, il «comandante Paolo» della XXI Brigata Matteotti, socialista, che chi è andato più vicino a raccontare la vera storia dei ventitré giorni della città di Alba è il vescovo, monsignor Grassi, nel libro «La tortura di Alba e dell’Albese». Naturale, del passaggio dalla guarnigione fascista al governo partigiano il vescovo fu architetto e organizzatore. Beppe Fenoglio, invece, raccontando l’epopea non fece storia, ma letteratura. «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944» è il celebre incipit dei Ventitre giorni della città di Alba, in cui si narra della libera repubblica partigiana di 70 anni fa.
Non importa se i numeri sono giusti, importa che la scrittura eroicomica di Fenoglio abbia trasformato quell’episodio in un affresco senza tempo delle grandezze e piccolezze umane. I troppi capi sul balcone del municipio («In proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini»), le ragazze dei postriboli che «quel giorno e nei giorni successivi fecero cose da medaglie al valore» e il colpo finale sui partigiani, autoinferto: «Ma non erano tutti a puttane, naturalmente, anzi i più erano in giro a requisir macchine, gomme e benzina. Non senza litigare tra loro con l’armi fuor di sicura, scovarono e si presero una quantità d’automobili con le quali iniziarono una emozionante scuola di guida nel viale di circonvallazione».
Ciò che meno stupisce, di tutta la vicenda, è che nel 1952, quando il racconto uscì con Einaudi, nella raccolta che porta quello stesso titolo, segnando così l’esordio dello scrittore di Alba, a molti sia andato di traverso. L’Unità lo definì «una cattiva azione», e molti ex combattenti più vicini a Fenoglio, magari così vicini da aver partecipato ai ventitré giorni, non glielo perdonarono mai. Pietro Chiodi, filosofo esistenzialista e professore di Fenoglio al liceo, spiegava che in questo consisteva l’antifascismo, nello sferzare con la critica e l’ironia se stessi e la propria parte, ma probabilmente anche lui sapeva che non c’era abbastanza distanza dai fatti, nel tempo e nei sentimenti, per capire che grande narratore fosse Fenoglio e cosa stesse cercando di fare.
Alba fu abbandonata dalla guarnigione fascista la mattina del 10 ottobre 1944. «Alle 16 non ve n’è più alcuno - scrisse il vescovo - e, a somme fatte, non c’è che un ferito leggero tra i civili». L’ingresso in città fu spettacolare, troppo per Fenoglio, ma non per i ragazzi delle colline che da mesi erano in clandestinità, con poco o nulla da mangiare e pochi improvvisati posti in cui dormire. «Dovete capirci - dice Felice Marino, partigiano della II Divisione Langhe, di cui farà parte anche Fenoglio -. Avevamo conquistato Alba senza sparare un colpo. Forse non l’avremmo tenuta a lungo, ma che importava?».
Molti ragazzi di Alba iniziarono ora a sentirsi partigiani. Per loro - e Fenoglio tra questi - i ventitré giorni furono il punto di non ritorno: quasi tutti misero allora al collo un fazzoletto azzurro, quello degli autonomi, apartitici, in buona parte ex militari, in molti casi monarchici. I ventitré giorni segnarono la loro vittoria politica. Enrico Martini «Mauri», gran capo degli autonomi di tutte le Langhe nel 1961 lo spiegherà così: «I fatti di Alba devono essere considerati in stretto rapporto con la situazione della regione circostante - le Langhe - un paese interamente partigiano, un piccolo Stato libero nel territorio della repubblica fascista. Il sogno di dare una capitale a quell’area di libertà, conquistata a prezzo di tanto sangue e di tanti sacrifici, era nel cuore di tutti».
Ciascuno insomma da quei giorni cercò (e ottenne) qualcosa di diverso. Come Neville Darewski, detto Temple, agente del servizio segreto britannico Soe, che ebbe un ruolo fondamentale nel governo della città e che da lì si spostò più volte a Torino per vedere Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat (lo descriverà «molto filobritannico e avanti di diverse miglia rispetto agli altri industriali italiani»). Per lui la libera repubblica di Alba fu un test di ciò che sarebbe potuto accadere in Italia alla Liberazione: e anche questo va ricordato, quando si pensa al piccolo esperimento di autogoverno di settant’anni fa.
Il sogno di libertà durò ventitré giorni, forse un paio di settimane, durante le quali «sembrava di essere in un giorno di mercato tanta era la ressa, la moltitudine, l’andirivieni», si scriverà sulla Gazzetta Piemontese, il giornale nato per l’occasione. Un’euforia confermata anche da una relazione fascista: «Il mercato del sabato è stato particolarmente ricco come da tempo non lo era più».
Si sventa un primo attacco, poi appare chiaro che la resistenza potrà essere solo formale. All’alba del 2 novembre, due, tremila fascisti passano sul ponte sul Tanaro di Pollenzo, che i partigiani avevano minato senza distruggerlo. Alle 10 del mattino la sirena del municipio suona a lungo e annuncia una battaglia che finisce intorno alle 14. Il vescovo fa sostituire il tricolore sul campanile con una bandiera bianca, anzi con «un asciugamano di tela bianca del lavabo», come scrive poi. Molti se ne vanno, non solo i partigiani: «La gente cominciò a uscire affrettatamente dalle case e a correre verso le colline con lacrime, invocazioni e grida», racconta ancora.
Sul giornale fascista Noi e loro si raccontò così la vittoria: «Chiesi a uno squadrista notizie sulla città: “Pare morta, disse, poca gente e ostile, quasi tutti i negozi chiusi. Niente donne festanti, bambini accorsi a battere le mani, niente: ma ostilità quasi contenuta e trasfusa nel volto delle cose”».

La Stampa 12.10.14
Beppe Fenoglio ora è un pianeta


Da qualche giorno, nel Sistema solare c’è anche un pianetino battezzato con il nome di Beppe Fenoglio. Ha un diametro di 10-15 km e si trova a metà strada tra l’orbita di Marte e quella di Giove. A proporre il nome e la motivazione sono stati l’astronomo Mario Di Martino e il giornalista scientifico Piero Bianucci. L’Unione astronomica internazionale ha accolto la proposta, riconoscendo in Fenoglio «uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento e un combattente per la libertà».

La Stampa 12.10.14
Il raduno delle città italiane decorate per la Resistenza
di Roberto Fiori


«Era giunta l’ora di resistere; era giunta l’ora di essere uomini: di morire da uomini per vivere da uomini». Quell’ora, così ben descritta nelle parole di Piero Calamandrei, ad Alba era giunta 70 anni fa. Un anniversario che la città Medaglia d’oro ha deciso di commemorare con un cartellone di eventi intitolato «Resistenze», ricordando «I ventitre giorni della città di Alba» e l’uccisione di Leonardo Cocito, il professore partigiano che insegnò italiano e latino a Beppe Fenoglio. L’evento clou il 2 novembre, quando l’amministrazione comunale ha invitato ad Alba le città italiane Medaglia d’Oro per la Resistenza, per ricordare insieme la lotta di Liberazione con la presenza del presidente dell’Anpi nazionale, Carlo Smuraglia. In serata, lo scrittore Paolo Di Paolo proporrà un approfondimento sui «Ventitre giorni», con una sessione di TwLetteratura. Il 27 novembre sarà presentato «Diario Albese 1944-1945», il volume delle memorie di Oscar Pressenda durante la Resistenza.

La Stampa 12.10.14
“È vietato rassegnarsi, il mondo si può cambiare”
Partendo dal mito della caverna di Platone, Diego Fusaro invita con Il domani è nostro a credere in un futuro migliore
di Claudio Gallo


Bisognerebbe smettere di chiamare Diego Fusaro «giovane filosofo», nonostante abbia soltanto 31 anni. Dopotutto ha ormai diversi libri di successo alle spalle, come il bestseller filosofico Bentornato Marx! e Il futuro è nostro, appena uscito da Bompiani. Seguace indipendente di Hegel, Marx e Gramsci, docente all’Università San Raffaele di Milano, critica radicalmente la nostra società, senza risparmiare «la falsa coscienza» della sinistra. Un atteggiamento che nel mondo della fine della storia conferisce un caratteristico sentore di zolfo.
«Il futuro è nostro» parte dalla caverna di Platone per dire come il singolo non deve rinunciare a desiderare un mondo più vero e più giusto, un’aspirazione che si realizza compiutamente nella dimensione sociale. Ma non ci aveva spiegato Popper che Platone era una specie di proto-nazista?
«Si può essere liberi solo se libera è la società. L’essere liberi, con buona pace delle retoriche neoliberali, non è questione meramente individuale. Metafora dell’unione inscindibile di verità e liberazione, la caverna di Platone ci insegna che il compito della filosofia non arresa all’esistente è affrancare l’umanità dalle catene ideali e materiali, dalle ideologie e dalla schiavitù che domina in un mondo che continua a proclamarsi libero. Dalla sua prospettiva liberale, Popper demonizzava Platone, Hegel e Marx come precursori dei totalitarismi: io li recupero integralmente, mostrando come non vi sia società meno “aperta” e più totalitaria di quella capitalistica. Essa ci imprigiona nella caverna e ce la fa amare, illudendoci che essa sia il solo mondo possibile. Oggi, complice l’ideologia dominante, il sistema si presenta come “gabbia d’acciaio” da cui non è possibile evadere: occorre, allora, tornare a pensarlo come caverna da cui si può uscire; a patto, naturalmente, che si comprenda la natura autenticamente falsa e totalitaria del mondo in cui siamo prigionieri, anziché continuare a viverlo come un destino ineluttabile o come il trionfo della libertà».
Lei individua in Robinson Crusoe la figura emblematica dell’individualismo che domina la nostra società: perché dovremmo sentirci naufraghi su un’isola deserta?
«Robinson è il paradigma del soggetto moderno. E’ incapace di intrattenere relazioni autentiche con l’altro: la sola forma relazionale che egli conosce e pratica è quella incardinata sull’utile e sul tornaconto personale, ai danni del povero Venerdì di turno. La nostra è, oggi, una società di Robinson isolati ed egoisti, incapaci di instaurare relazioni con l’altro. In riferimento al mondo moderno Hegel parlava di “sistema dell’atomistica”, a sottolineare come – oggi più di ieri – viviamo nel tempo della morte del legame comunitario. Il mio libro è un tentativo di reagire a tutto questo, ripartendo da Hegel e da Aristotele, e dunque dall’idea dell’uomo come animale politico e comunitario».
La percezione generale è che il nostro mondo sia il più libero e tollerante della storia, perché lei sostiene invece che la democrazia occidentale sarebbe il più perfido dei totalitarismi?
«È il totalitarismo perfettamente realizzato, il più subdolo e ingannevole: infatti, illude i suoi sudditi di essere liberi. Quale totalitarismo – rosso o nero – sarebbe riuscito a piazzare nelle tasche dei suoi sudditi un telefono cellulare? Quale sarebbe riuscito a schedare tutti i suoi sudditi, come accade oggi con Facebook e Twitter? Nell’odierno gregge omologato della società di massa, ognuno fa ciò “liberamente”, pensando di essere libero di compiere quel gesto intimamente necessitato dalle logiche del sistema. È una gabbia d’acciaio in cui puoi fare tutto ciò che vuoi, fuorché pensare una società diversa e batterti per la sua realizzazione. Quando un mondo storico riesce a convincere i suoi abitatori di essere il solo mondo possibile, allora può allentare la presa sui corpi, perché è “totale” quella sulle anime».
Lei individua nella Russia di Putin un polo di resistenza all’omologazione globale. L’attuale società russa non sembra però esattamente un modello da esportare.
«Putin non è Lenin (purtroppo!): e tuttavia dispone di autonomia strategica e di armi di dissuasione di massa. Per questo, pur con tutti i suoi manifesti limiti, la Russia ha oggi il compito di appoggiare il più possibile gli Stati resistenti all’impero americano, ponendosi essa stessa come Stato che resiste: con la potenza russa, è come se al ritratto stilizzato del presidente americano Obama accompagnato dall’asserto yes, we can si affiancasse un’analoga immagine di Putin, a sua volta associata alla scritta no, you can’t».

Corriere 12.10.14
Arte al servizio del potere. I gusti germanici di Hitler
risponde Sergio Romano


A proposito del tesoro di Alarico, sepolto dopo la sua morte nel letto del fiume Busento, nei pressi di Cosenza, sembra che Hitler, prima dell’inizio della guerra, abbia mandato Heinrich Himmler in Calabria e dato istruzioni per l’invio di una missione archeologica alla ricerca della tomba.Voleva rendere omaggio al re tedesco che aveva umiliato l’Impero.
Michelangelo Russo

Caro Russo,
I n un articolo apparso sul Corriere del 5 luglio 2013, Gian Antonio Stella conferma il viaggio di Himmler in Calabria e aggiunge che in quella occasione il capo delle SS cercò d’informarsi sulle ricerche di una studiosa francese, Amélie Crévolin, «convinta di avere individuato infine il luogo della misteriosa sepoltura». Sull’invio di una missione archeologica voluta da Hitler non ho trovato conferme, ma non ne sarei sorpreso. Hitler credeva ciecamente nella supremazia della Razza germanica e fu sempre ossessionato dal desiderio di riportare in Germania tutto ciò che gli sembrava appartenere al patrimonio culturale tedesco.
Dopo l’annessione dell’Austria nel 1938, chiese e ottenne che il Kunsthistorisches Museum di Vienna si privasse dell’intero apparato rituale utilizzato per l’incoronazione dei Sacri romani imperatori (corona, scettro, paramenti). Quando visitò gli Uffizi durante il viaggio in Italia del maggio 1938, sostò a lungo in ammirazione di fronte ai due quadri di Lucas Cranach, Adamo ed Eva, che erano stati lungamente considerati opere di Dürer. Per Hitler quei due grandi nudi (la loro dimensione è di poco inferiore al naturale) rappresentavano i capostipiti della razza germanica.
Prima dell’inizio della guerra uno storico dell’arte, Otto Kümmel, compilò per incarico di Goebbels, ministro della Propaganda, una lista delle opere d’interesse germanico che il conflitto avrebbe permesso di recuperare. Nell’elenco vi erano, fra d’altro, la corona di ferro della regina longobarda Teodolinda, custodita nel Duomo di Monza, la tappezzeria di Bayeux, un tessuto ricamato della seconda metà dell’XI secolo, di fattura inglese o normanna, in cui sono rappresentati lo sbarco dei normanni sulla costa inglese nel 1066 e la battaglia di Hastings vinta da Guglielmo il Conquistatore contro Aroldo II, l’ultimo re anglo-sassone dell’isola; e infine, naturalmente, l’ Adamo e la Eva di Cranach. Kümmel sarebbe stato felice di aggiungere alla lista il tesoro del Busento: anche se il bottino di Alarico, dopo il sacco di Roma, era verosimilmente composto da opere romane e greche.

Repubblica 12.10.14
Amartya Sen.
L’economista indiano Nobel nel ’98: “Il premio a lei e a Satyarthi ispira anche noi scienziati
Grazie al loro coraggio abbiamo capito qual è la via per uscire dalla miseria: il mondo deve finanziare l’istruzione”
“Malala ci insegna che diritti e scuola camminano insieme. Ora tocca ai governi”
intervista di Enrico Franceschini


Sono due persone che esprimono valori positivi e hanno avuto il coraggio di correre grandi rischi
È un premio in difesa dei bambini e una denuncia verso la cultura della tolleranza degli abusi

LONDRA «QUESTO Nobel ci ricorda che la scuola è il mezzo principale per combattere ignoranza, miseria e sopraffazione». Così Amartya Sen, l’economista e filosofo indiano che ha vinto il Nobel per l’Economia nel 1998, reagisce al premio per la Pace assegnato venerdì a Malala Youssafzay e a Kailash Satyarthi. «È un Nobel in difesa dei bambini e, speriamo, anche un gesto per spingere India e Pakistan al riavvicinamento», dice il cattedrattico di Harvard.
Professor Sen, come ha saputo del Nobel a Malala e a Satyarthi?
«Ero a una conferenza all’università di Ginevra, mi hanno dato la notizia e chiesto a caldo le reazioni. Ho provato una grande felicità. A freddo dico che sono deliziato dalla scelta. Si tratta di due persone che non soltanto esprimono valori altamente positivi, ma hanno anche avuto il coraggio di correre grandi rischi per portare avanti le proprie idee. La giovanissima pachistana Malala, naturalmente, è la più nota dei due, diventata famosa in tutto il mondo per ciò che le è capitato. L’indiano Sayarthi ha svolto tuttavia un lavoro molto importante per lungo tempo, impegnandosi per salvare dal lavoro minorile i bambini delle zone depresse, che vengono sfruttati e sottoposti a terribili abusi. Entrambi sono accomunati dal riconoscimento del ruolo fondamentale dell’istruzione nelle nostre vite, dall’avere capito che la scuola, la lotta contro l’ignoranza, è spesso una via decisiva, se non la principale, per uscire dal gorgo della miseria e della sopraffazione».
È dunque in primo luogo un premio in difesa dei bambini?
«Non c’è dubbio. Ed è una denuncia della cultura della tolleranza degli abusi nei loro confronti, nel senso di negazione dei diritti più elementari. Una tolleranza tipica del subcontinente asiatico, ma anche di molte altre zone del mondo».
Cosa ammira di più in Malala?
«Il fatto che non è mai indietreggiata, non ha mai smesso di credere nella fede nella scuola, nell’istruzione, a dispetto della arretratezza della regione in cui è cresciuta e delle minacce a cui è stata sottoposta. Questa sicurezza sarebbe ammirevole in qualunque individuo in circostanze analoghe, lo è ancora di più in una persona così giovane, una ragazza che aveva 15 anni quando è stata attaccata e ne ha appena 17 oggi. Malala ha compreso che l’educazione scolastica è la soluzione a molti problemi. La sua tenacia intellettuale è straordinaria».
E che cosa la colpisce di più in Satyarthi?
«Un atteggiamento simile a quello di Malala. La sua organizzazione è diventata un movimento che combatte e denuncia persone molto violente, persone pericolose. Sarebbe comprensibile spaventarsi. Lui non ha mai fatto un passo indietro».
C’è qualcosa di particolare nell’assegnazione di questo Nobel per la Pace?
«Il Nobel per la Pace è diverso dagli altri pre- mi Nobel per un motivo molto chiaro: dovrebbe premiare le azioni, i fatti, non la teoria. Naturalmente quando uno studioso vince il Nobel per l’economia o per la medicina o per la fisica con il suo lavoro accademico anche questo ha delle applicazioni pratiche e contribuisce al miglioramento della società, al progresso, o perlomeno ha il potenziale per farlo. Con questo Nobel abbiamo il fenomeno opposto: il premio dato a Malala e a Satyarthi per le loro azioni pratiche, concrete, nella vita di tutti i giorni, può e anzi deve avere un impatto sul lavoro scientifico, accademico, deve avere effetti sull’istruzione, ispirando gli educatori a raddoppiare gli sforzi per diffonderla e i governi a finanziarli».
Un altro aspetto del premio che è stato notato da molti commentatori è che va a un indù e a una musulmana, a un indiano e a una pachistana. In questo senso è stato paragonato a due Nobel del passato, quelli a Mandela e De Klerk per la fine dell’apartheid in Sudafrica e ad Arafat, Rabin e Peres per l’inizio del processo di pace fra israeliani e palestinesi. Può avere lo stesso valore anche per India e Pakistan?
«Sono due Paesi che sono stati a lungo insieme e che sono separati dal 1947, l’anno della partizione. È difficile prevedere l’effetto del Nobel a Malala e Satyarthy sulle tensioni fra queste due grandi nazioni. Non sono due leader politici. Ma anche un’iniziativa civile può aiutare a spingere India e Pakistan verso il dialogo. Il conflitto viene da tanti problemi, non particolarmente da problemi religiosi perché anche in India esiste un’ampia minoranza musulmana, ma ragioni politiche, storiche, economiche. Anche un piccolo gesto, come è questo Nobel rispetto alla vastità dei problemi, può cominciare a smuoverli. Auguriamoci che accada».

Repubblica 12.10.14
“Quando non scrive scarabocchia”i
Gli scarabocchi di papà Vonnegut
Lo scrittore americano amava anche dipingere. Ma sua figlia Nanette, pittrice, non lo prese mai sul serio
Almeno fino al giorno in cui non ritrovò questi vecchi ritratti fatti apposta per lei
di Gabriele Pantucci


Nanette oggi si rammarica d’averlo ripetuto ogni volta che le chiedevano cosa facesse suo padre. Aveva cominciato a usare questo tipo di risposta da bambina, senza alcuna intenzione denigratoria. Poi, con gli anni, avendo studiato arte ed essendo diventata un’artista professionista forse quello sbrigativo modo di dire aveva iniziato a assumere una sfumatura lievemente critica, o almeno un carattere di condiscendenza. Suo padre, Kurt Vonnegut, era uno scrittore famoso: addirittura uno dei più importanti e influenti scrittori americani contemporanei. Era naturale che lei — pittrice per davvero — non potesse prendere in seria considerazione i soggetti con cui lui riempiva ogni pezzo di carta nei momenti in cui si voleva solo rilassare. Del resto Vonnegut stesso osservò, all’apice della carriera, che disegnava soltanto per reagire all’oppressione che gli procurava lo scrivere. E suo figlio Mark ce lo confermò, quando raccolse e pubblicò gli scritti rimasti inediti alla morte del padre nel 2007: «Per lui lo scrivere era un esercizio spirituale». La prosa di Kurt Vonnegut, che ammiriamo per immediatezza, freschezza, ironia e spontaneità, era il risultato di uno scrivere e riscrivere più volte finché non avesse trovato la versione perfetta. E dunque, per tornare agli “scarabocchi”, se l’autore stesso interpretava i suoi disegni come sfoghi per rilassarsi, era naturale che Nanette non li considerasse al di sopra di una camomilla.
Lo chiamava “lo scarabocchione” ( the doodler ) e intorno alla metà degli anni Novanta addirittura gli suggerì di bruciare tutti quei fogli di carta che gli riempivano i cassetti di casa. Fu allora che suo padre le spedì due pacchi di dimensioni scarsamente maneggiabili. In Nanette l’aspettativa d’una sorpresa si dileguò con la stessa rapidità con cui scema l’attesa di una vincita alla lotteria dopo che il numero è stato annunziato: contenevano disegni e soltanto disegni. Non ebbe neppure il tempo di aprire completamente quei grossi pacchi. «Con i bambini che strillavano perché volevano o non volevano qualcosa ebbi soltanto il tempo di metterli da parte... Li avrei guardati poi, con calma, quando si fossero addormentati». I piccini si svegliarono e addormentarono parecchie volte, passarono gli anni e Nanette si dimenticò completamente di quei pacchi ingombranti e semiaperti che aveva messo sopra uno scaffale. Suo padre le aveva persino telefonato per chiederle con discrezione se fossero arrivati, ma non aveva spinto oltre la sua curiosità. A posteriori potremmo dire che teneva a un giudizio della figlia, ma che non s’azzardava a darlo a vedere.
Così su quei pacchi s’accumularono con gli anni parecchi altri pacchi e oggetti, tutti assai poco importanti per la vita di Nanette e dei suoi familiari. Soltanto dopo la morte del padre li aprì, si mise alla scrivania e finalmente trasalì. Non erano i soliti scarabocchi ma disegni, ne vedete una selezione in queste pagine. Agli occhi esperti di Nanette apparvero sì come «labirinti capricciosi in stile minimalista caratterizzati da una sinuosità serpeggiante» ma anche «dotati d’una policromia e qualità che affascinano». Dopo di lei furono visti da molti altri addetti ai lavori, e tutti concordano nei loro giudizi positivi. C’è chi vi ha voluto ravvisare le metafore di certi romanzi labirin- tici di Vonnegut, mentre le influenze cubiste, di Miró e di Calder, sono evidenti.
I centoquarantacinque disegni sono ora pubblicati in un volume da Monacelli/Random House con un saggio di Peter Reed e uno della figlia Nanette. Reed — professore emerito di lingua e letteratura Inglese alla University of Minnesota e grande esperto di Vonnegut — ha stabilito che furono tutti eseguiti tra il 1985 ed il 1987. Se è vero che diversi lavori grafici dell’autore di Mattatoio n. 5erano già apparsi in due mostre (alle quali lo scrittore partecipò con grande riluttanza, e lo invitavano solo perché il suo nome era d’aiuto agli amici galleristi) va detto pure che i lavori emersi dallo scaffale delle cianfrusaglie di Nanette sono di gran lunga superiori. È possibile, le chiediamo, che suo padre non si sia dedicato al disegno e alla pittura con gli stessi risultati anche in altri momenti della sua vita e non solo nell’arco di quei due anni? «Possibilissimo — risponde lei — ma ha idea di quanto tempo mi ci vorrà per scoprirli?».

Repubblica 12.10.14
Quando, come e perché uno dei più grandi scrittori del ’900 mi mandò una mail
di Luca Rastello


UNA VOLTA NELLA VITA mi sono sentito membro di una comunità virtuale, e membro orgoglioso benché si trattasse di una comunità che evidentemente accetta gente come me. È stato quando ho ricevuto una e-mail da Kurt Vonnegut. Com’era possibile che uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’autore di quel Mattatoio n. 5che al momento buono mi porterò nella decina di libri da tenere sull’isola deserta, l’uomo che pur di raccontare l’orrore dei bombardamenti su Dresda si fece rapire dagli alieni del pianeta Tralfamador, addirittura ex pompiere volontario e presidente della Società degli Umanisti Americani, rispondesse al messaggio di uno sconosciuto che pone una domanda banale? Ovviamente non credevo ai miei occhi e ho anche pensato a uno scherzo tralfamadoriano , ma l’evidenza era contro di me: a scrivere era proprio lui. Una quindicina d’anni fa stavo lavorando a un romanzo in cui il protagonista per rievocare il passato e orientarsi nel caos della memoria usa come traccia (come le briciole di Pollicino nel bosco) certe storie di fantascienza psichedelica pubblicate negli anni ‘70 nella collana Urania. Fra queste la più folle, intitolata Venere sulla conchiglia, che raccontava l’odissea di un hippy alla guida di un’astronave fallomorfa dopo il nuovo diluvio universale, era firmata Kilgore Trout. Da adolescente non lo sapevo, ma Kilgore Trout è uno dei personaggi-chiave ricorrenti proprio nei romanzi di Vonnegut, a partire da La colazione dei campioni. Ora ero diventato un fan dello scrittore americano e per non scrivere spropositi provai a mandare la mia domanda all’indirizzo riportato sul suo sito: era davvero lui l’autore sotto pseudonimo di Venere ? Rispose con grande cortesia ed estrema semplicità: il libro non era opera sua ma del suo amico Philip J. Farmer che con il nome di fantasia aveva voluto omaggiarlo, e Vonnegut mi ringraziava per il tempo «perso» a leggere le sue opere.
Non gli scrissi più, se non per ringraziarlo a mia volta, e per fortuna non gli dissi nulla di quel mio orgoglio da membro di comunità virtuale (da qualche parte, in qualche server, browser o comediavolo, c’erano ormai entrambi i nostri indirizzi), perché sarei rimasto gelato da uno dei suoi aforismi, che scoprii solo dopo la sua morte: “Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti”. Anche l’aforisma fu una scoperta fulminante, purtroppo postuma e voglio comportarmi proprio come probabilmente avrebbe fatto lui, sempre generoso con i suoi lettori, accumulandone qui di seguito un paio di altri, formidabili: “Per favore, un po’ meno di amore e un po’ più di dignità”, “Consiglio all’aspirante scrittore: abbi pietà del tuo lettore”, “Non preoccupatevi del futuro. Oppure, preoccupatevene, ma sapendo che tanto è un gesto inutile. Non vi aiuterà più di quanto masticare un chewing gum vi possa aiutare a risolvere un problema di algebra”, “Fate ogni giorno qualcosa che vi spaventi”. E poi quello che trovai inciso sopra il disegno di una lapide tombale, l’ultima volta che mi collegai al suo sito che stava per essere tolto dalla Rete: “La vita non è la maniera di trattare un animale”. Così è la vita. Così (anche) era Vonnegut.

Repubblica 12.10.14
Memling Il pittore che inventò il Rinascimento fiammingo
Alle Scuderie del Quirinale i dipinti con soggetto religioso e i ritratti della società di Bruges che resero celebre il maestro del Quattrocento
di Cesare De Seta


LE scuderie del Quirinale propongono da decenni ritratti di grandi artisti di ogni tempo e le mostre hanno una coerente tenuta che sarebbe piaciuta a Joachim Winckelmann e a Edward Gibbon. In questa sontuosa galleria l’ultimo busto è quello di Hans Memling pittore d’origine tedesca, nato a Seligenstadt, presso Francoforte (1435-40 circa), e morto cinquecento anni fa. Nel 1465 è documentato che Memling fosse a Bruges e per trent’anni qui ebbe il suo atelier divenendo pittore amatissimo dalla comunità. Nelle Fiandre operarono sommi artisti quali i fratelli van Eyck a Gand e Rogier van der Weyden a Bruxelles: nel XV secolo queste luci dell’arte di ogni tempo splenderono nei Paesi Bassi. Le società di Bruges e Gand erano ricche e colte, amanti delle arti come poche altre oligarchie commerciali in Europa. Coordinate sufficienti per intendere quale fosse il milieu in cui Hans intinse il suo pennello. Non è affatto provato che il suo maestro fosse stato van der Weyden come sostenne Vasari nelle due edizioni delle Vite (1550,1568), ma è certo che le ombre di Rogier, quella dei van Eych e di Peter Christus sono una presenza ben visibile.
I DOCUMENTI sono utili, ma è più necessario l’occhio per stabilire relazioni tra contemporanei così vicini per ragioni stilistiche e iconografiche. Si aggiunga che spesso i soggetti religiosi sono strettamene analoghi.
La mostra Memling. Rinascimento fiammingo , fino al 18 gennaio 2015 alle Scuderie del Quirinale (organizzata da Azienda Speciale Palaexpo, in coproduzione con Arthemisia Group con la collaborazione di Flemish Art Collection Museums of Fine Arts), a cura di Till-Holger Borchert, rinomato specialista del maestro (catalogo Skira), è articolata in sette sezioni che rivoltano come un guanto la sua opera e sottolineano lo stretto legame che questa congrega d’artisti intessé per tutto il Quattrocento con l’Italia e la Spagna. Nulla si sa dei canonici quattro anni di apprendistato, né se Memling avesse fatto il classico Wanderjahre che portava i pittori tedeschi da una città all’altra. È probabile che il giovane prima di trasferirsi nelle Fiandre fosse stato a Colonia, visto che la cattedrale compare in numerosi dipinti con le gru del cantiere. L’influenza dei ricordati pittori è sia nei ritratti che nei paesaggi che assai spesso sono fondo alle composizioni. Ricorrono in molte tavole i verdi e quieti canali di Bruges, stipata di magazzini da cui partivano raffinate merci che andavano per il mondo: sete, velluti, merletti, broccati li ritroviamo in dosso alla serie nutrita delle Madonne col Bambino , agli angeli e ai santi che con tanta limpida grazia dipinge Memling. Il trittico (circa 1480) commissionato dai Pagagnotti di Firenze è ricomposto per l’occasione: al centro la Madonna col bambino e due angeli inseriti in un’architettura che ha un sapore tardogotico e protomanierista, negli scomparti San Giovanni Battista e San Lorenzo. In questo e in altri trittici (il Trittico Moreel, 1484) è netta la sensazione che Memling connetta tra loro scorci di un unico paesaggio. Perché il pittore di solenni scene sacre fu parimenti un grande paesaggista. Anche il Trittico per Jan Crabbe compare in mostra integralmente; al centro la Crocifissione, dove solo Maria esprime contenuto dolore: la sua veste è l’unica macchia nera, in una cromia dominata dal rosso e dal bianco; sulla sinistra lo splendido scomparto con Sant’Anna e la donatrice, dietro il capo di lei un castello turrito. Nel retro dello scomparto destro c’è Willem de Winter con San Guglielmo di Maraval e alle spalle un paesaggio di colline. Negli scomparti monocromi con l’Annunciazione e un Angelo si sente forte la voce di Jan e Hubert van Eyck. Nel trittico con la Resurrezione ( 1480-85) la temperatura cromatica è diversa, ma il disegno delle figure ha la medesima finezza stilistica. Nella Passione di Cristo ( 1470) dinanzi ai nostri occhi si dispiega una città composta come un puzzle, in cui Cristo è in un angolo a destra, schiacciato dalla croce, ma la passione è quasi un pretesto per raccontare la tumultuosa vita urbana. Qui gli architetti si sono sbizzarriti nel costruire porte e mura, case, chiese, botteghe, osterie, cappelle, torri poligonali, palazzi fantasiosamente diversi. In questo subbuglio ingombro di armigeri, eleganti cavalieri e popolani, costoro sembrano del tutto distratti nel seguire le stazioni della passione. Memling pone a suggello una dama che inginocchiata accoglie Cristo ed è elegantemente abbigliata. Persino soggetti tanto drammatici sono vissuti con sublime serenità. Il compianto del Cristo morto con un donatore ( 1470-75) ha uno straordinario fondo paesistico d’una città, da cui emerge il castello e la cattedrale: messo a diretto confronto con l’analogo soggetto di van der Weyden, precedente di circa dieci anni, ben si vede quanto siano strette le relazioni.
A giudicare dal catalogo delle opere Hans lavora intensamente e i suoi committenti sono fiam- minghi, italiani (Portinari, Tani, Pagagnotti), spagnoli e costoro vogliono figurare nelle stesse scene religiose e qui la vanitas non è turbata dal memento mori. Ma ad esso il pittore dedica il Trittico della vanità terrena e della salvezza divina ( 1485 circa), dove nel pannello centrale campeggia un inequivocabile teschio. Fin qui non si è detto del grande ritrattista, il Memling più celebre e celebrato: non è la mia trascuratezza, perché in ogni volto che scorre nelle tavole il pittore è sempre ritrattista. I Cristi, le Vergini, i santi non sono anonime icone, ma persone reali assunte a modello. Lì dove il ritrattista supera se stesso è quando elimina il fondo paesistico, così presente nell’ Uomo con una moneta romana (1473-74) o il coevo ritratto di un uomo ricciuto. Dal fondo nero emergono i volti di signori e dame nei loro tratti fisiognomici, nella loro pensosa personalità o nello sguardo intenso e indecifrabile della Donna (1480-85) che esibisce solo l’elegante acconciatura che esalta la pelle eburnea. C’è nei ritratti di Memling una pietas affabile, una melanconia e una grazia che non cede mai alla piaggeria cortigiana. Tre anni prima di morire nel 1491 nella Passione del trittico di Lubecca, la creatività del pittore sembra esser scossa da una vertigine tragica. Una sorta di baratro che il pittore intravede, ma dal quale s’era tenuto saggiamente lontano nel corso di un’operosissima vita che Memling dedicò a illustrare la socievolezza raffinata della società di Bruges.

Repubblica 12.10.14
La fortuna italiana dai committenti alle copie perfette
Tra i clienti dell’artista nordico c’erano i banchieri fiorentini
E Leonardo ammirava le sue opere
di Antonio Pinelli


DA TEMPO la storiografia dell’arte italiana ha maturato la consapevolezza che il Rinascimento si articolò, a partire dai primi decenni del ‘400, attorno a due “rinascite”: quella che prese le mosse da Firenze sulla base della rivoluzione prospettica brunelleschiana e dell’aspirazione a far rivivere i modelli dell’antichità, e quella definibile, per brevità, come Rinascimento fiammingo, perché si manifestò prima nelle Fiandre, in Borgogna e nei Paesi Bassi, per poi propagarsi a tutta l’Europa transalpina, penisola iberica compresa e, attraverso di essa, nell’Italia meridionale. Sebbene entrambe ambissero a rappresentare la realtà in modo oggettivo, queste due civiltà figurative erano e furono percepite come antitetiche, perché l’una, quella italiana, era volta alla sintesi e a una rappresentazione dello spazio fondata su rigorose premesse matematico-geometriche, mentre l’altra si affidava a un approccio empirico e analitico, incarnato dal virtuosismo mimetico della tecnica ad olio. Fin dall’inizio, tuttavia, anche perché nati in due aree europee dinamiche e legate tra loro da forti vincoli commerciali, questi due mondi svilupparono una forte attrazione reciproca, che nel corso del ‘400 e all’alba del secolo successivo si manifestò sotto forma di un grande interesse nei confronti del mondo figurativo nordico da parte dei committenti e degli artisti italiani, egemonizzati dalla rivoluzione prospettica toscana. L’influenza esercitata dalla pittura di Hans Memling in Italia esprime uno dei momenti più alti e intensi di questa felice contaminazione tra i due mondi. Si è calcolato che il 20% circa delle opere uscite dalla bottega di Memling sia stata realizzata per committenti italiani. Il principale anello di congiunzione tra Firenze e Bruges fu il Banco mediceo della città fiamminga, alla cui direzione si succedettero due banchieri fiorentini, Angelo Tani e Tommaso Portinari. Il primo commissionò a Memling un trittico con il Giudizio Universale, che purtroppo non arrivò a destinazione nella Badia Fiesolana, perché nel 1473 la nave che lo trasportava fu razziata dai pirati. Il trittico è ora a Danzica, ma nell’odierna mostra è presente una sua derivazione di un ignoto maestro napoletano. Tommaso Portinari fu più fortunato e i capolavori da lui commissionati a Memling (ma non solo) trasformarono la chiesa fiorentina dell’Ospedale di S. Maria Nuova in una mostra permanente di arte fiamminga, che fu fonte d’ispirazione per tanti maestri fiorentini. Pontormo fu suggestionato dalla Passione, concepita da Memling come una sorta di surrogato visivo di un pellegrinaggio a Gerusalemme. In essa Hans ha saputo concentrare su una tavola di soli 55 x 90 cm un gremito panorama a volo d’uccello della Città Santa, in cui sono distribuiti in “luoghi deputati” di chiara matrice teatrale ben 22 episodi della Passione, lungo un percorso che offriva al committente altrettante “stazioni” per recitarvi le orazioni. Il potenziale di suggestione devota che si sprigionava dai dipinti sacri fiamminghi, tanto disprezzato da Michelangelo perché lo considerava adatto a “far piangere le beghine” per via del realismo mimetico con cui erano raffigurate piaghe e espressioni di dolore, fu invece talmente apprezzato nel ‘400 dai pittori toscani da indurre Beato Angelico a ispirarsi ai Cristi coronati di spine di Petrus Christus e il Ghirlandaio a eseguire una copia di un Cristo benedicente di Memling così esatta da essere creduta un originale del fiammingo.
Fino agli anni ‘60 del ‘400, in Italia i ritratti raffiguravano gli effigiati di profilo. L’introduzione della posa di tre quarti, che favorisce un dialogo ravvicinato tra l’immagine e il riguardante, rafforzato illusivamente dalla presenza delle mani o di oggetti che sporgono da un davanzale, è pertanto una delle principali acquisizioni compiute dall’arte italiana grazie ai fiamminghi e in particolare a Memling, i cui ritratti erano ambitissimi. Tra fine ‘400 e primo ‘500 tutti i maggiori pittori, da Perugino a Botticelli, da Raffaello a Leonardo, trassero ispirazione da quelle effigi, in cui la verosimiglinza va di pari passo con la serena luminosità dello sfondo di paese, velato dalle brume della prospettiva aerea. Il Giovane con una medaglia di Botticelli, i coniugi Doni e la Dama del liocorno di Raffaello o la Gioconda e la Ginevra de’ Benci di Leonardo sono gli esempi più noti di questo tributo del nostro Rinascimento al grande fiammingo.

Corriere La Lettura 12.10.14
Attenti a rottamare Kant
La filosofia non è tecnica
di Umberto Curi


Che cos’hanno in comune Gianni Vattimo e Ligabue? E perché Massimo Cacciari compare spesso fra gli ospiti dei più svariati talk-show? Per capirlo, dobbiamo fare un lungo passo indietro, fino all’autunno del 1765. Un professore di fama ancora piuttosto oscura, libero docente di filosofia presso l’Università di Königsberg, con l’approssimarsi dell’inizio delle lezioni accademiche, aveva pubblicato una «comunicazione», con la quale dava notizia del programma e dell’orario delle lezioni del corso che si accingeva a tenere. La qualifica di Privatdozent non gli consentiva di contare su quello che oggi chiameremmo un posto di ruolo, con relativo decoroso stipendio. Come precario, egli doveva confidare su un’ampia partecipazione di studenti, e su giudizi lusinghieri, allo scopo di ottenere una conferma dell’incarico. Di qui la scelta di allegare alla «comunicazione» una concisa dissertazione, in cui indicava le finalità del corso, illustrate in modo tale da rendere appetibile l’insegnamento per una vasta platea di allievi.
Quel docente si chiamava Immanuel Kant. Il testo da lui redatto in quella circostanza, noto col titolo di Nachricht («annuncio», «notizia», «comunicazione», appunto), conteneva una chiara esplicitazione di temi molto importanti, con un respiro culturale che eccedeva di gran lunga la contingenza. L’insegnamento universitario della filosofia — scrive Kant — deve far sì che l’allievo diventi un Selbstdenker , «uno che pensa con la propria testa». Se l’università non si attiene a questa direttiva, essa non solo tradisce i suoi compiti istituzionali, ma finisce per produrre seri danni. Il docente dovrà dunque adoperarsi affinché gli studenti non imparino «pensieri», ma imparino a «pensare»; che essi, insomma, non apprendano la filosofia, ma diventino invece capaci di filosofare; che essi non siano indotti a diventare «recipienti» di idee prodotte da altri, ma acquisiscano le procedure per produrre autonomamente idee.
Allo scopo di giustificare questa rivoluzione copernicana ante litteram , vale a dire precedente a quella che egli introdurrà 16 anni più tardi, con la pubblicazione della Critica della ragion pura , Kant adduce una serie di argomenti (non tutti persuasivi allo stesso modo), tra cui il richiamo alla differenza essenziale fra le scienze e la filosofia. Mentre nel caso delle scienze — che siano «storiche», vale a dire basate sull’osservazione, o matematiche, fondate sul calcolo — si può individuare un «dato di fatto», qualcosa che è «già provveduto», e che dunque deve semplicemente essere assimilato, nel caso della filosofia questa condizione è assente, e di conseguenza non vi è qualcosa da trasmettere mediante l’insegnamento.
Per quanto possa apparire convincente e perfino affascinante, la proposta di Kant non ha goduto di grande fortuna fra gli addetti ai lavori. Già bollata come disdicevole «smania», o come «infelice prurito», da Hegel, l’ipotesi di attribuire all’insegnamento della filosofia il compito di preparare gli allievi a «pensare con la propria testa» sarebbe stata addirittura ridicolizzata da alcuni esponenti della filosofia analitica contemporanea. Per pensare con la propria testa — hanno osservato — bisognerebbe averne una, cosa che spesso è tutt’altro che scontata. E poi: guai se non pensassimo anche con la testa degli altri. Ci priveremmo di un irrinunciabile patrimonio di idee e conoscenze, senza il quale non vi sarebbe possibilità di progresso.
Pur senza citare la Nachricht kantiana, ma richiamandosi spesso ad argomenti di ispirazione analitica, sul complesso delle questioni ora citate si sofferma Diego Marconi, nel suo Il mestiere di pensare (Einaudi). Scritto in maniera limpida e insieme rigorosa, assistito da una solida conoscenza dei principali filosofi contemporanei, in particolare di lingua inglese, il libro attraversa gran parte dei problemi soggiacenti al dibattito suscitato dalla proposta kantiana: il rapporto fra scienze e filosofia; la figura del filosofo, conteso fra l’artigiano e lo specialista; il conflitto fra storici e teorici sull’utilità (o la superfluità) della storia della filosofia per il concreto esercizio filosofico.
L’importanza dei temi affrontati induce a rimandare ad altra sede una più analitica discussione di merito. Qui è però possibile soffermarsi su un aspetto peraltro non marginale, rispetto all’orditura del libro, nel quale l’autore mette a confronto una accezione «professionale» con la variante «dilettantesca» del lavoro filosofico. Per essere più precisi, non è questo il solo dualismo, né il più importante, fra quelli evocati da Marconi. Al contrario, egli costruisce buona parte della sua argomentazione mediante la tecnica della distinzione-contrapposizione: fra filosofi divulgatori e filosofi mediatici, fra protagonisti di festival e specialisti, fra autori di testi dal significato oscuro e tecnici dell’argomentazione rigorosa. Muovendo da una convinzione, non apertamente dichiarata, ma anche neppure tanto dissimulata, e cioè che nella controversia tra filosofi analitici (Willard Quine, Peter Strawson, Hilary Putnam, lo stesso Marconi) e filosofi continentali (Martin Heidegger, Jacques Derrida, Jürgen Habermas, Emanuele Severino) solo i primi meritino di essere considerati degli autentici «professionisti» del mestiere di pensare, mentre i secondi possano andare bene per soddisfare le ambizioni dell’assessore che voglia promuovere una kermesse culturale, o per accontentare il direttore di un quotidiano, o per partecipare a dibattiti televisivi, ma non possano aspirare alla serietà nell’esercizio della filosofia.
Insomma, secondo l’impostazione di Marconi, il problema non è stabilire con quale «testa» si debba pensare (con la propria, come vorrebbe Kant, o quella di altri, come suggeriscono gli analitici), ma quale forma logico-argomentativa debba assumere il discorso filosofico, per almeno assomigliare al rigore delle procedure in uso nelle scienze. Dove è allora evidente che la distinzione kantiana fra scienze e filosofia è destinata a saltare, e soprattutto che a decidere chi sia un filosofo degno di questo nome saranno i membri di una inevitabilmente ristretta comunità scientifica, e non le arene mediatiche, straripanti di pubblico e povere di competenze.
Quale rapporto vi sia poi fra questa accezione rigidamente tecnicizzata di filosofia, sostanzialmente indistinguibile dalle scienze, e il modo in cui essa è stata coltivata, lungo una secolare tradizione, da Eraclito e Platone, Aristotele e Cartesio, Spinoza e Hegel, Nietzsche e Heidegger — di tutto ciò il testo di Marconi non parla, se non per accenni. Ma forse è vero, ancora una volta, che ciò intorno a cui non si può parlare, si deve tacere.

Il Sole Domenica 12.10.14
Immanuel kant (1724-1804)
Precondizioni per capirlo
Una introduzione di Renato Pettoello e la traduzione delle dissertazioni in latino rendono più chiara la genesi delle sue idee
di Maria Bettetini


«Il desiderio di vedermi abilitato in una di queste discipline filosofiche mi dà l'occasione di supplicare, nel modo più umile possibile, Vostra Maestà, affinché voglia accordarmi il posto di Professore Straordinario di Logica e Metafisica lasciato vacante presso la nostra università». Il postulante non venne ascoltato, e non ebbe la cattedra. D'altra parte, Immanuel Kant aveva solo ventidue anni, uno di insegnamento, nessuna esperienza all'estero e otto pubblicazioni, di cui tre dedicate alle origini dei terremoti, tema poco filosofico. Non fu dunque la durezza di Federico II di Prussia a respingere la richiesta di una cattedra, nemmeno oggi il giovane Kant sarebbe stato abilitato dai concorsi nazionali.
Divenne professore ordinario nella sua città (dopo aver rifiutato offerte da altre quattro) a quarantasei anni, con una ventina di pubblicazioni, quando poté lasciare il posto di sottobibliotecario che gli aveva nel frattempo consentito di sopravvivere. Anche in questo caso, nessun contatto con colleghi al di fuori del neonato Impero di Prussia (come avrebbero richiesto i concorsi odierni), Kant parlava tedesco, scriveva in tedesco e latino, secondo il costume accademico. In latino i testi accademici, in tedesco le opere per il pubblico, una scelta che diede un forte impulso all'uso della lingua volgare nei libri di scienza e filosofia. A proposito di libri: Kant non era benestante e conosceva i suoi diritti, scrisse dunque pagine durissime contro gli editori che ristampavano i suoi libri senza consultarlo e soprattutto senza dargli il corrispettivo dei diritti d'autore.
Si comprende meglio perché nel discutere la prova a priori dell'esistenza di Dio sottolineasse la differenza tra cento talleri pensati e cento talleri esistenti. Spesso Kant ci è stato presentato come un misantropo pignolo e avaro: usciva e rientrava a ore fisse, non si è mai allontanato dalla città natale Köningsberg (oggi Kaliningrad, Russia), non faceva vita mondana. Gli rende giustizia una recente introduzione al suo pensiero scritta da Renato Pettoello, che racconta di un uomo ben deciso a non disperdersi e a non buttare via il tempo, perché teso al fine di completare il suo lavoro filosofico, una missione nata dalla "grande luce" che lo invase nel 1769. In quell'anno, comprese che non si doveva avere la pretesa di conoscere il mondo, ma di definire quali siano la struttura e i limiti del nostro conoscere. Al liceo mi sarebbe piaciuto avere tra le mani il libretto di Pettoello, che con semplicità, segno di padronanza, conduce anche i non esperti a un incontro sereno con il filosofo che capovolse la filosofia (e a volte anche i voti degli studenti liceali). In particolare, Pettoello sottolinea come la apparente poca coerenza tra gli scritti kantiani sia in verità frutto di un atteggiamento di onesta ricerca: «egli cercava con mente aperta, senza dogmatismi, la soluzione dei problemi che gli si presentavano», «senza cristallizzarsi sulle proprie posizioni, che era sempre pronto a rimettere in discussione». Alcune prese di posizione mirano alla distruzione di stereotipi da manuale, per esempio la definizione della Critica della ragion pura come «teoria dell'esperienza, una teoria della costituzione oggettiva del mondo, oltre che un grande trattato sul metodo».
A dispetto di quanto si continua a ripetere, «la filosofia kantiana, tutta la filosofia kantiana, non è soggettivistica, non è psicologistica e non è dualistica». Come spesso accade, un filosofo pensa e scrive, altri poi interpretano e stravolgono. L'invito è quindi ad affrontare, con l'appoggio dei tanti ausili ormai disponibili, la lettura delle opere kantiane. Per chi avesse già dimestichezza con le opere in volgare, tutte con plurime e spesso ottime traduzioni in italiano, è disponibile ora una nuova traduzione di quattro opere latine, quattro dissertazioni presentate per altrettanti "concorsi" universitari. Le prime, Sul fuoco e Nuova delucidazione dei primi principi della conoscenza, furono discusse per diventare lettore (un po' il nostro "ricercatore") nel 1855. La Monadologia fisica fu oggetto di una disputazione pubblica prima dell'inizio dell'insegnamento, sempre all'università di Köningsberg, mentre La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile è il titolo della dissertazione che nel 1770 gli permise di diventare professore ordinario di Logica e Metafisica. Il curatore delle nuove traduzioni, Igor Agostini, nella dotta introduzione sottolinea il valore storiografico di questi testi: non solo per la ricostruzione della carriera accademica e della vita scientifica di Kant, ma anche e soprattutto per la corretta interpretazione del suo tedesco. Il latino si rivela «essenziale per colmare le lacune del tedesco».
Nelle quattro dissertazioni sarebbe operativo un lessico che percorre trasversalmente l'intero corpus kantiano, studiarle significa quindi comprendere meglio e ricostruire l'evoluzione del pensiero del filosofo prussiano. D'altra parte è Kant stesso che nella prima Critica inserisce tra parentesi, dopo il termine tedesco, il termine latino corrispondente. In particolare, quando al termine del primo libro della Dialettica trascendentale sottolinea la necessità di «adottare il termine idea nel suo significato originario», il ricorso al latino gli è utile per classificare le diverse specie di rappresentazioni in un'ottica platonica. Così rappresentazione è Vorstellung e repraesentatio, la sensazione è Empfindung e sensatio, il concetto è Begriff e conceptus e così via. Il latino di Kant, spesso e insensatamente criticato (è chiaro che un prussiano nato nel 1724 non poteva avere la prosa di Cicerone né la levità di Virgilio), risulta invece l'anello della catena che stringe fortemente la "rivoluzione copernicana" di Kant con il lavoro filosofico dei secoli precedenti. Superando con disprezzo le metafisiche a lui vicine nel tempo, attinse volentieri al lessico e ai contenuti di Platone e Aristotele. Tutto questo quando poté dedicarsi serenamente agli studi, con la tranquillità, anche economica, del cattedratico.
Immanuel Kant, Dissertazioni latine, testo latino a fronte, a cura di Igor Agostini, annotazione critica di Gualtiero Lorini, Bompiani, Milano, pagg. 556, € 30,00.
Renato Pettoello, Leggere Kant, La Scuola, Brescia, pagg. 180, € 14,50.

Corriere La Lettura 12.10.14
Gesù guerrigliero, Madonna golpista
I due abbagli dell’Argentina cattolica
È il Paese dei desaparecidos , in cui i cappellani militari benedicono le torture e il generale Videla riceve i familiari delle vittime col rosario in mano
L’elezione di un Papa argentino ha riportato alla ribalta la tragedia
Si rovista nel passato alla ricerca dei colpevoli, ci si interroga sullo stesso Bergoglio
di Marco Ventura


Recitano il Padre nostro in 70 mila. Lo stadio prega all’unisono.
Si aprono i Mondiali di calcio del 1978. Dall’Argentina la preghiera raggiunge 800 milioni di spettatori in mondovisione. È il Paese in cui i terroristi montoneros portano il crocifisso al collo. È il Paese dei desaparecidos , in cui i cappellani militari benedicono le torture e il generale Videla riceve i familiari delle vittime col rosario in mano. L’elezione di un Papa argentino ha riportato alla ribalta la tragedia. Si rovista nel passato alla ricerca dei colpevoli, ci si interroga sullo stesso Bergoglio.
Per Loris Zanatta, non è «di chi è la colpa» la domanda giusta, ma «come è potuto accadere». Lo storico dell’Università di Bologna risponde con il suo La nazione cattolica , edito da Laterza. Il viaggio comincia all’inizio del Novecento. Lo smarrimento di tanti immigrati senza patria e l’ansia dei criollos (argentini di origine europea nati nel Paese) sfociano nel mito di una nazione unanime, unita dal cattolicesimo. Chiesa ed esercito si ergono a garanti di popolo e nazione. La comunità politica è un’entità spirituale. L’ordine temporale si uniforma al magistero cattolico. L’Argentina guida la civiltà cattolica contro il comunismo ateo e il liberalismo protestante. La vittoria elettorale di Perón nel 1946 consacra l’alleanza di Dio, Patria e Popolo. Ma i conflitti successivi mostrano che dal mito della nazione cattolica, scrive Zanatta, nasce «una continua guerra di tutti contro tutti per impossessarsi della legittimità che solo esso conferisce».
Le divisioni del post-Concilio lacerano il Paese. «San Giuseppe era radicale e la Vergine socialista, ebbero un figlio, montonero e peronista», cantano i rivoluzionari formati nelle parrocchie. Per gli alti ufficiali, invece, la Vergine in Argentina porta i gradi di generale. Dopo il golpe del 1976, per Zanatta, la violenza della dittatura è «l’ultimo atto della lunga implosione del mito nazional-cattolico», il frutto di un episcopato che ancora nel 1973 chiede non libertà e democrazia, ma difesa della tradizione nazionale.
Nella discesa verso l’abisso, il cattolicesimo è tutto, nessun ruolo è estraneo alla Chiesa. L’esercito, per il generale Bussi, «lotta per poter continuare a credere in Dio». Nelle caserme si educa alla fede chi dovrà purgare la Chiesa dall’eresia comunista. Si avvera l’amara profezia formulata da un religioso nel 1970: «Verrà il momento in cui chi uccide preti penserà di rendere culto a Dio». È il momento della verità per i vescovi: la cui responsabilità, scrive Zanatta, non è «di non avere scritto documenti coraggiosi, ma di avere coltivato un mito nazionale che aveva castrato la pluralità del Paese e inibito la nascita dello Stato di diritto». Nel luglio 1976, ai funerali dei cinque sacerdoti e seminaristi ammazzati nella Chiesa di San Patrizio, a Buenos Aires, padre Roberto Favre invoca lo Stato di diritto. Emergono gli uomini di Chiesa che hanno cercato il giusto mezzo tra clero rivoluzionario e trincea tradizionalista. Monsignor Zazpe denuncia la simbiosi di nazione e fede, la manipolazione politica del Vangelo. Nel 1981 i vescovi auspicano infine un sistema di seria tutela dei diritti e riconoscono che la nazione è una comunità plurale.
Zanatta colloca in questa parabola la figura di Bergoglio. L’allora provinciale dei gesuiti cerca di riportare ordine nella sua comunità senza offrire prede ai militari. È un compito ingrato, ad alto rischio. Il senso che la missione della Chiesa per il popolo debba accompagnarsi all’impegno per rafforzare le istituzioni civili fa di Bergoglio, secondo l’autore, «uno tra i pochi a cercare di evitare lo schianto». È la posizione che consentirà all’esponente di una Chiesa dilaniata e screditata di diventare Papa.
Zanatta ricorda la protesta del governo militare, nel 1976, contro gli articoli di «Avvenire» sulla crisi argentina. E proprio un giornalista di «Avvenire», Nello Scavo, offre oggi nel suo I sommersi e i salvati di Bergoglio (Piemme), una galleria di incontri con testimoni di quegli anni. Coraggioso e capace, il futuro Papa offre asilo, protegge, cerca di strappare i sequestrati ai militari. Inventa codici di condotta per ridurre i rischi, mobilita reti di sostegno, raccoglie informazioni, dispone canali di fuga e si occupa di mezzi di trasporto, documenti e denaro.
Ma il Bergoglio dei testimoni incontrati dall’autore è soprattutto un uomo immerso nella sofferenza del suo popolo. Miguel La Civita, uno dei tanti giovani a rischio accolti al tempo presso il collegio di San Miguel, racconta a Nello Scavo di aver fatto visita a padre Bergoglio nel suo ufficio, subito dopo un colloquio del gesuita con un militare. Bergoglio appare affranto, piegato in due: «Sì, lui che ci appariva serio ma inscalfibile; forte ma pronto alla battuta anche nei momenti più difficili; lui che sembrava non avere paura di niente e nessuno; ecco, proprio lui, il futuro Papa, stava vomitando». È la tragedia del nazionalismo cattolico argentino. La terribile prova attraversata dalla coscienza cattolica. 

Il Sole Domenica 12.10.14
Lettera da Hangzhou
Neo-Confucio alla conquista
L'imprenditore Tu Weiming, uno degli uomini più ricchi della Cina, propone il recupero di un'eredità antica e insiste sul ruolo delle tradizioni religiose e spirituali
di Luca Maria Scarantino


Ci è voluto un po' per capire che in Cina sta accadendo qualcosa di grosso. Quando il nostro interlocutore, un ricchissimo uomo d'affari di Hangzhou, ci ha accolto a casa sua, si è presentato come un «imprenditore confuciano». È qui, nella ricca provincia dello Zhejiang, che ha creato l'accademia di scienze umane di cui siamo ospiti. «Sento che contribuire a diffondere la cultura cinese è un mio preciso dovere», ci ha detto. «Per questo investo una parte dei miei guadagni in attività culturali». È solo qualche giorno dopo, a Pechino, che Tu Weiming ci aiuta a chiarire il senso di queste parole. Tu non è un intellettuale qualunque. Cresciuto a Taiwan, ha insegnato a Princeton, Berkeley, Harvard. È tornato in Cina da poco: il governo cinese gli ha offerto di creare un centro internazionale di scienze umane all'Università di Pechino. Questo anziano professore è una delle voci della cultura cinese più ascoltate sulla scena internazionale.
«L'imprenditore confuciano – ci spiega – non si limita ad accumulare ricchezze per sé, ma si impegna nel dibattito pubblico e svolge quindi una funzione intellettuale. È, potremmo dire, un imprenditore impegnato». Secondo Tu, questo ruolo pubblico è necessario per introdurre una dimensione spirituale nella vita sociale ed economica. È questa stessa preoccupazione che lo spinge a difendere un nuovo confucianesimo: fare argine al materialismo sfrenato, egoistico, del mondo contemporaneo. «Quando tornai in Cina per la prima volta, nel 1985, l'idea di una filosofia confuciana era quasi sconosciuta: l'ultimo corso universitario risaliva al 1923. In quell'occasione ebbi la fortuna di incontrare Liang Shuming, che era stato l'ultimo a parlarne, esattamente 62 anni prima. Lo stesso valeva per le altre due grandi tradizioni spirituali della Cina, il buddhismo e il taoismo. Oggi le cose sono cambiate: nessuna di queste tradizioni è estranea alle giovani generazioni. Il mio lavoro, in America, in Cina, con le Nazioni Unite, è stato in gran parte rivolto a metterne in risalto l'importanza per la cultura e la società cinese, e più in generale per l'umanità». Mentre parla, ci sembra di sognare. In un Paese ancora ufficialmente marxista, in cui tutto è in mano al Partito, Tu Weiming propone il recupero di un'eredità neo-confuciana e insiste sul ruolo delle tradizioni religiose e spirituali nella vita delle società. Ascoltandolo, ancor prima che leggendo i suoi libri, si intuisce la portata esplosiva di questo misto di tradizionalismo e modernità. La way of life americana viene presa di mira a partire dai più classici valori della tradizione culturale cinese. La Cina, la sua classe dirigente, la sua società, hanno un bisogno vitale di riconoscimento. È per questo che stanno investendo risorse colossali in «infrastrutture immateriali»: centri di ricerca, programmi di rientro di ricercatori, scambi accademici, senza contare la rete ormai capillare degli Istituti Confucio.
Ma c'è di più. «La religione, la filosofia, più in generale l'impegno rivolto verso gli altri, ci aiutano ad andare oltre il gretto antropocentrismo. Non possiamo vivere esclusivamente in funzione del nostro io materiale. Il mondo ha bisogno di essere governato tenendo conto di altri valori: pensiamo all'ambiente, al nostro rapporto con gli altri esseri viventi, al futuro stesso del pianeta e alla ripartizione delle sue risorse. Invece continuiamo a usare il Pil come indicatore del nostro benessere: mentre è proprio la cultura del Pil che dobbiamo superare».
Per l'immagine della Cina che viene spesso presentata in Europa, sono discorsi da fantascienza. La Cina e la sua cultura come alfieri di un rinnovamento ecologista, altruista, come portatori di un modello di sviluppo che si opponga allo sfrenato individualismo capitalista... La Cina, insomma, come contraltare non solo economico dell'impero americano, ma culla di un modello di convivenza alternativo, valido per uomini e donne del mondo intero; a cominciare dall'occidente. Certo, la cronaca quotidiana ci rivela che questa è solo una parte della storia, e contiene una buona dose di utopia. Ma sarebbe un errore sottovalutarne la forza e la capacità di muovere forze intellettuali, sociali e politiche nella Cina di oggi. Forse è ancora presto per dire che la Cina si sta spostando dal marxismo al neoconfucianesimo, ma di certo qualcosa si sta muovendo in questa direzione.
C'è un altro aspetto del neoconfucianesimo di Tu Weiming che ne fa un volano efficace per la Cina di domani. «Gli intellettuali cinesi, i professori universitari ad esempio, dovrebbero iniziare a partecipare in modo più attivo al dibattito pubblico. Invece scontano ancora una certa timidezza. La posta in gioco è decisiva per il futuro di questa nazione: si tratta di decidere come la Cina veda se stessa e come desideri essere percepita dal resto del mondo. Per questo credo che ci si debba impegnare per un dialogo sempre più profondo con le altre culture e le altre civiltà. La Cina deve sforzarsi di comprendere il mondo, e il mondo deve imparare a capire la Cina». È l'ossessione cinese per il soft power, il convincimento che la cultura, e la cultura umanistica in particolare, rappresenti uno strumento decisivo per affermarsi nel mondo. Per questo Tu insiste sull'esigenza di un «nuovo umanesimo», universale e aperto a tutte le culture: è la forza delle humanae litterae, delle arti, senza le quali nessuna civiltà è mai riuscita a emergere. Nel suo Centro, egli ha dato uno spazio preponderante allo studio comparato delle filosofie e delle religioni. Le tristi amministrazioni dell'Europa di oggi sembrano aver dimenticato questo fatto elementare. Chissà, forse il problema è più profondo e investe il modo in cui le società europee si percepiscono. Le humanae litterae sono per le società in espansione, non per quelle che si sentono a fine corsa. Intanto, a Pechino ci si prepara per diventare leader culturali nel mondo di domani; o forse già di oggi. Qualche giorno prima, al Forum di Songshan, una sorta di Davos della cultura cinese di cui Tu è l'iniziatore, una giovane giornalista mi ha chiesto perché alcune mode culturali si impongano più facilmente di altre. Stava pensando al proliferare di J- e K-style, la moda di molti giovani asiatici calcata su modelli giapponesi e coreani. Il senso della sua domanda era chiaro: come si fa a esportare mode culturali, artistiche, musicali? È questo che le interessa. Lei e i leader cinesi sanno benissimo che, al di là di rigidità ideologiche cui non crede più nessuno, c'è tutta una generazione di intellettuali al lavoro per rendere la cultura cinese attraente, seducente, "esportabile". A Hangzhou, il nostro imprenditore confuciano è stato inserito da «Forbes» nella classifica degli uomini più ricchi del Paese. Quando ha creato la propria accademia, ove invita intellettuali e studiosi di tutto il mondo, è a Tu Weiming che ha chiesto di presiedere il comitato scientifico. Il neo-confucianesimo non è l'unico modello di sviluppo nella Cina di oggi, ma incrocia a meraviglia le esigenze del soft power cinese.
L'autore è segretario generale della Federazione internazionale delle società filosofiche

Il Sole Domenica 12.10.14
Strategie culturali e controllo politico
Ma il power non è così soft
Gli Istituti Confucio, nati per divulgare la lingua e la cultura cinesi all'estero, si rivelano strumenti di propaganda
di Maurizio Scarpari


«La Cina deve migliorare la propria conoscenza del mondo, così come il mondo deve migliorare la sua conoscenza della Cina», ha affermato a novembre dell'anno scorso Xi Jinping in occasione dell'investitura a segretario generale del Pcc. Per costruire un mondo armonioso, ha spiegato in seguito, è necessario promuovere gli scambi tra civiltà, favorire la conoscenza reciproca e il dialogo tra i popoli: «La cultura è l'anima di una nazione, senza di essa il popolo perde la sua identità e il Paese è destinato al tracollo», ha esordito pochi giorni fa davanti a centinaia di professori di tutto il mondo riunitisi in convegno a Pechino per celebrare il 2565º anniversario della nascita di Confucio, sottolineando l'importanza che l'attuale dirigenza attribuisce alla cultura tradizionale e ai valori confuciani, tasselli importanti per la costruzione di una moralità socialista nuova, in grado di riempire il vuoto spirituale ed esistenziale avvertito da gran parte dei cinesi.
La necessità di migliorare l'immagine della Cina all'estero, rendendola più rassicurante, è una delle priorità del governo e gli Istituti Confucio (Ic), nati nel 2004 con l'obiettivo di divulgare la lingua e la cultura cinesi, sono uno strumento essenziale di questa politica. Gli Ic sono gestiti e finanziati dallo Hanban, istituzione governativa diretta per lo più da rappresentanti di diversi ministeri e commissioni ministeriali. L'attuale direttrice, Xu Lin, è viceministro dell'Educazione e membro del Consiglio di Stato. Non si tratta quindi di centri indipendenti, ma di un'emanazione diretta del governo. Diversamente da quanto accade per il British Council, il Goethe Institut o l'Alliance Française gli Ic nascono da un consorzio tra università cinesi e straniere; ed è all'interno di queste ultime che hanno in genere le loro sedi istituzionali.
La mancanza di autonomia politica e l'incardinamento all'interno delle università o dei centri di istruzione superiore hanno creato, fin dalla loro nascita, diffidenze, resistenze e non poche polemiche, anche in Cina. Le restrizioni imposte su temi delicati – quali i diritti umani, la questione tibetana, la posizione del Dalai Lama, Taiwan – hanno alimentato i sospetti che siano centri di propaganda politica, organizzazioni per il controllo dei cinesi all'estero, agenzie di intelligence. Per salvaguardare la propria libertà di pensiero e di azione molte università si sono rifiutate di aprire Ic al loro interno, altre invece si sono consorziate, attratte dai generosi finanziamenti e privilegi che hanno favorito l'accettazione di standard culturali codificati, un atteggiamento di sudditanza psicologica e una tendenza all'autocensura. Attualmente gli Ic sono 465, presenti in 123 Paesi; in Italia sono una decina.
Il dibattito sulla loro gestione, avvenuto sulla stampa e sui blog di mezzo mondo, ha portato alla firma di petizioni e alla recente presa di posizione della Canadian Association of University Teachers (dicembre 2013) e dell'American Association of University Professors (giugno 2014), che conta oltre 47mila iscritti. Unanime è stata la richiesta di allontanare gli Ic dai campus universitari in nome della libertà accademica. A fine settembre, con una decisione che ha suscitato grande scalpore nel mondo accademico internazionale, l'Università di Chicago ha chiuso il suo Ic. Pochi giorni fa è stata la volta dell'Università Statale della Pennsylvania ed è facile prevedere che non è finita qui.
A fine luglio la polemica è esplosa anche in Europa, in occasione del convegno della European Association for Chinese Studies organizzato in Portogallo, a Braga, in collaborazione con l'Ic locale, quando la direttrice dello Hanban si è resa protagonista di un atto di arroganza. Resasi conto che il programma, approvato a suo tempo dallo Hanban, riportava «la sintesi di interventi il cui contenuto è contrario alla normativa cinese» e che troppo spazio era stato concesso alla Chiang Ching-kuo Foundation (l'ente taiwanese che da 25 anni promuove la cultura cinese nel mondo e che da 20 è sponsor dell'Associazione), ha requisito le copie del programma stesso, redistribuendole il giorno successivo private di quelle pagine ritenute lesive dell'immagine della Cina Popolare. È stato interpretato come un atto prepotente da parte della dirigente di un'istituzione che, evidentemente, ritiene di essere la legittima depositaria del sapere e del l'identità culturale cinesi e di potere agire a suo piacimento anche al di fuori del suo Paese. Azione da ritenersi ancor più grave se si considera la sua carica di viceministro.
All'indignazione dei circa 400 professori presenti ha fatto seguito la ferma reazione del presidente dell'Associazione, il professor Roger Greatrex dell'Università di Lund, che ha denunciato pubblicamente l'accaduto come un'inaccettabile violazione della libertà accademica.
Il gesto di Xu Lin sembra andare in direzione opposta a quanto auspicato da Xi Jinping e certo non favorisce l'affermarsi di un'immagine soft della Cina, mettendo a nudo il punto debole del progetto cinese: la cultura non è infatti un bene esportabile come mille altre mercanzie, non può essere imbrigliata, né obbligata a sottostare a condizionamenti dettati dalla linea politica del momento. La libera circolazione delle idee, sosteneva Kant, è il fondamento della conoscenza, senza di essa non ci sarà mai emancipazione.
Università Ca' Foscari Venezia

Il Sole Domenica 12.10.14
Roberto Bellarmino. Martellatore degli eretici
Noto per le sue condanne a Bruno e Galileo, è stato uno dei più grandi "controversisti". Argomentò colpo su colpo contro le tesi di Lutero e Calvino
di Massimo Bucciantini


Nella Vita di Galileo Bertolt Brecht lo raffigura con una maschera d'agnello calata sul volto. È lui il portavoce, il massimo teorico dell'ordine, del controllo e del disciplinamento che la Chiesa ha il compito di mantenere nel mondo. «Pensate un istante – gli fa dire Brecht mentre si rivolge allo scienziato – quanta fatica, quanto studio è costato ai Padri della Chiesa il dare un po' di senso a questo mondo (per quanto esso sia abominevole). Pensate alla brutalità di coloro che fanno fustigare i loro contadini seminudi nei loro poderi dell'Agro Romano, e alla stupidità di questi che, poveretti, li ricambiano baciandogli i piedi». Forse non c'è frase migliore di questa, dove emergono le miserie di un'umanità come quella raffigurata nei quadri di Hieronymus Bosch, per farci capire l'immane compito che Roberto Bellarmino si porrà per tutta la vita. Quello di indicare la via della salvezza in un mondo che se lasciato a se stesso finirebbe per diventare preda del peccato e dell'eresia. Teologo, predicatore, inquisitore, arcivescovo, cardinale, ma anche studioso di astronomia e di filosofia naturale, Bellarmino è la Controriforma. Ne è la sua anima più elevata e, al contempo, è una delle intelligenze più raffinate della Compagnia di Gesù, il massimo campione del sapere controversistico fondato sulla persuasione e sulla conquista delle coscienze. Come scrive Franco Motta, «la missione dei gesuiti è un apostolato della conquista anziché della preservazione: la conquista dei territori che hanno ripudiato Cristo per darsi alla Riforma, la conquista degli sconfinati orizzonti delle Indie occidentali e orientali e, non ultima, la conquista delle aree urbane e rurali della stessa Europa meridionale». E di questa missione Bellarmino rappresentò la punta di diamante.
Nato sei anni dopo la morte di Erasmo e tre anni prima dell'inizio dei lavori del Concilio di Trento, Bellarmino oggi è ricordato soprattutto per il ruolo svolto nella Congregazione del S. Offizio che condannò al rogo Giordano Bruno e per le vicende – accadute un quindicennio più tardi – legate al cosiddetto primo processo a Galileo, alla messa all'Indice del De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico e alla condanna della Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici del carmelitano Paolo Antonio Foscarini. Ma sarebbe riduttivo vedere in lui solo il teologo-inquisitore. Nella sua lunga vita e nel suo vasto orizzonte intellettuale emerge innanzitutto la vocazione del predicatore e controversista, del teorico della politica della Chiesa della Controriforma. Nella sua opera più celebre, Le dispute sulle questioni controverse della fede cristiana contro gli eretici del nostro tempo (1586-1593), Bellarmino confuta – come nessuno aveva fatto prima di allora – migliaia di tesi sostenute dai teologi riformati. Un lavoro ponderoso che nel giro di pochi anni venne ristampato più volte riscuotendo un successo straordinario in tutta Europa. Una sterminata raccolta di prove contro gli eretici. Ma non solo: «una vera e propria guida che serve ai ceti dirigenti ecclesiastici, in primo luogo a Roma, per orientarsi con sicurezza nelle questioni religiose in un'età in cui l'ortodossia era il primo criterio da seguire nelle azioni». E che poggia sul potere del pontefice, l'autorità giudiziaria suprema e infallibile che ha il compito di mettere fine a ogni controversia. A chi – come Lutero e Calvino – sosteneva che la Bibbia è l'unica guida per distinguere il vero dal falso nelle questioni di religione, Bellarmino rispondeva con un ritratto piramidale della Chiesa cattolica che aveva al suo vertice la figura del vicario di Cristo, punto di congiunzione tra cielo e terra, principio di ordine e di sovranità assoluta, a cui anche i nascenti Stati nazionali dovevano sottostare in materia di fede. Un'immagine della Chiesa che s'impose e durò a lungo, fino a cinquant'anni fa, fino al Concilio Vaticano II. Nel 1644, ventitre anni dopo la morte, uscì a Roma la seconda edizione della sua vita.
Ne era autore il gesuita Giacomo Fuligatti, che celebrò con un anagramma tutta l'ammirazione e la devozione che la Compagnia nutriva nei confronti del cardinale denominato «martello degli eretici». Come per incanto, con alcune piccole ma trascurabili imperfezioni, il suo nome e l'appartenenza all'Ordine («Robertus cardinalis Bellarminus e Societate Iesu») si trasformavano nell'essenza della sua missione salvifica: «Luteri errores ac astutias Calvini omnes delebis», «Tu cancellerai tutti gli errori di Lutero e le astuzie di Calvino».

Il Sole Domenica 12.10.14
Federico Laudisa
La natura persa nelle astrazioni
di Arnaldo Benini


Fin quando mente e coscienza – specie sulla scia di Cartesio – erano considerate estranee al corpo, la conoscenza della natura (e del corpo che di essa è parte) era questione di corretta trasmissione della realtà, e la verità era, in sostanza, la corrispondenza fra il mondo e la sua rappresentazione nella coscienza. Questo rapporto fra mente e natura venne smentito dall'astronomia copernicana e galileana, e poi dalle scienze naturali, che dimostrarono che i tramiti fra mente e mondo – gli organi di senso, che sono parti del cervello, cioè della natura – ci fanno vivere in un mondo che la ragione, anch'essa prodotta da meccanismi cerebrali, dimostra essere falso. Non solo: la ragione cambia la visione dell'universo e della natura a seconda delle scoperte, delle ricerche e delle riflessioni di cui è capace. I meccanismi cognitivi cerebrali dell'autocoscienza e della mente non sono, come erano l'anima e la res cogitans cartesiana, estranei alla natura, ma ne sono parte, essendo costituiti dagli stessi elementi di qualunque altro essere naturale, vivente e non vivente. Di ogni capacità umana si traccia la storia evolutiva fino a età remote e a esseri viventi apparentemente elementari, come già intuito in pagine memorabili da David Hume. La verità non è la corrispondenza fra mondo e coscienza. Essa dipende dalle possibilità dei meccanismi cognitivi, che sono fenomeni materiali che si svolgono nel cervello, d'indagarla. Essi hanno limiti che non consentono all'auto-coscienza di accedere alla verità. Ciò è confermato quotidianamente non dalla riflessione astratta ma dalla ricerca scientifica.
Il mondo in cui i sensi e la ragione ci fanno vivere è falso e provvisorio, perché la rappresentazione che sensi e razionalità ne forniscono all'autocoscienza non può che essere provvisoria. Il fondamento del rapporto con la natura non è un'asserzione di verità, ma di come gli organi di senso e i meccanismi cognitivi elaborano stimoli e riflessioni fino agli eventi dell'autocoscienza. Di questa condizione basica del rapporto fra natura e autocoscienza (anch'essa parte della natura in quanto prodotta da aree cerebrali) nel libro di Laudisa sul naturalismo non si fa cenno. Il problema mente/cervello, che è alla base di qualunque riflessione sul rapporto con la natura, viene tralasciato per due motivi: il primo è che esso «coinvolge troppi temi filosofici e anche troppe discipline», il secondo è «la mancanza di consenso su quali dovrebbero essere gli standard di spiegazione sufficientemente robusti e condivisi». È difficile capire come si possa parlare del rapporto fra autocoscienza e natura senza ragionare sul l'attività mentale come evento nervoso, di cui esistono standard di comprensione condivisi, anche se non indiscussi. La riduzione dei fenomeni naturali alle loro proprietà elementari, cioè il riduzionismo, è la chiave di lavoro della scienza, e il fisicalismo è il riduzionismo delle scienze cognitive. L'autore ne parla come di metodologie codificate e codificabili secondo riflessioni normative, come se la riduzione di un evento mentale ai neuroni fosse analoga alla riduzione di un buco nero alla fisica quantistica. Il fisicalismo nello studio della malattia di Alzheimer non ha portato ad alcuna spiegazione della morte dei neuroni non per l'inosservanza di una norma stabilita da una riflessione filosofica, ma per un errore di ricerca correggibile solo all'interno dell'indagine, giusto quanto sostenuto anche dal filosofo Quine citato nel libro. Ora si è presa la strada della riduzione alle proteine dei geni dei neuroni, senza garanzia di risultati positivi.
Questa è la storia normale dello studio della natura, la cui circonferenza, ammoniva Hume, è di gran lunga più grande di quella della mente. Nel libro non si porta un solo esempio di ricerca scientifica. È citata una frase del filosofo David Papineau secondo la quale «il compito dei filosofi consiste nel portare coerenza e ordine nell'insieme totale di assunzioni che usiamo per spiegare il mondo empirico». Ottimo proposito, senza alcuna pretesa di riuscita. Esso presuppone conoscenze specifiche e aggiornate. L'autore scrive che se «ogni cosa che esiste deve essere un fatto fisico non può "davvero" esistere niente che assomigli alla psicologia niente che assomigli a qualche atteggiamento preposizionale nella mente di un essere umano...»", come se le neuroscienze non avessero dimostrato ampiamente che la psicologia, per usare le parole di Eric Kandel, «è biologia», cioè espressione di eventi cerebrali. Il libro, ben scritto, scorrevole e informativo, nonostante l'argomento sia arduo, è un trattato storico-normativo del naturalismo, senza riferimento alla sua fenomenologia. Ennesima conferma che la filosofia tratta i problemi della scienza con dovizia di cultura teorica, ma con somma astrattezza. La sua portata pratica rimane, e di molto, dietro i propositi e la mole del lavoro.
Federico Laudisa, Naturalismo Filosofia, scienza, mitologia, Laterza Roma-Bari, pagg. 136, €16,00

Il Sole Domenica 12.10.14
Un libro in gocce
Massacri sul Carso
di Giorgio Dell'Arti


Dio. Dal diario di guerra di Silvio D'Amico: «In un reggimento di fanteria avviene un'insurrezione. Si tirano colpi di fucile, si grida "non vogliamo andare in trincea". Il colonnello ordina un'inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti. Allora comanda che siano estratti a sorte dieci uomini; e siano fucilati. Ma i fatti erano avvenuti il 28 del mese, e il giudizio fu pronunciato il 30. Il 29 del mese erano arrivati i "complementi", uomini inviati a colmare i vuoti aperti dalle battaglie. Si domanda al colonnello: "Dobbiamo imbussolare anche i nomi dei complementi? Essi non possono aver preso parte al tumulto del 28: sono arrivati il 29". Il colonnello risponde: "Imbussolate tutti i nomi". Su dieci uomini da fucilare, due degli estratti sono arrivati il 29, e non possono essere colpevoli di nulla. All'ora della fucilazione la scena è feroce. Uno dei due complementi è svenuto. Ma l'altro, bendato, cerca col viso da che parte sia il comandante, chiamando a gran voce: "Signor colonnello! signor colonnello!". Si fa un silenzio di tomba. Il colonnello deve rispondere. "Che c'è, figliuolo?". L'uomo bendato grida: "Signor colonnello! Io sono della classe '75. Io sono padre di famiglia. Io il giorno 28 non c'ero. In nome di Dio!". Risponde paterno il colonnello: "Figliuolo, io non posso cercare tutti quelli che c'erano e che non c'erano. La nostra giustizia fa quel che può. Se tu sei innocente, Dio ne terrà conto. Confida in Dio"».
Palo. Violazioni minori sono punite legando il colpevole a un palo, in piedi sulla trincea, esposto al fuoco nemico. «Così si risparmiano pallottole».
Carso. Sul Carso per almeno sei volte gli austriaci interruppero il fuoco e gridarono agli italiani di tornare indietro, di non farsi massacrare così.
Mrzli. Sul monte Mrzli e sullo Sleme, vicino a Caporetto, gli italiani attaccano sempre in salita, qualche volta in scalata, uno per volta. Sono un bersaglio facilissimo. L'ufficiale degli alpini telefona al comando e avverte che l'attacco non ha alcun senso. Il comando chiede quanti sono i caduti. «Una trentina di uomini». Così pochi? «Si riprenda l'azione» è l'ordine. Ma gli austriaci hanno montato una mitragliatrice. Il maggiore ritelefona al comando e chiede ancora di interrompere l'azione. Gli rispondono ancora di no. Dopo un conciliabolo serrato, il maggiore fu visto gettare il microfono. Al suo aiutante disse, pacatamente, con quella sua brevità austera e triste: «Esco io. È il solo mezzo per far cessare l'attacco». Si buttò fuori, solo; ricadde sul mucchio dei suoi alpini. E l'azione fu sospesa.
Fanti. Nel primo mese di guerra, l'Italia perse 20mila fanti.
Metri. Gadda e Ungaretti combatterono a pochi metri di distanza senza mai incontrarsi.
Morte. Gadda, che a un amico raccomandò, qualora fosse morto, di scrivere un annuncio più semplice possibile: evitare «patria, onore, fervida gioventù, fiore di giovinezza, odiato nemico, orgoglioso e commosso, eccettera». Sarebbe bastato: «È caduto in combattimento».
Roncalli. Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, richiamato non volle fare il cappellano, ma prese servizio come sergente nella 3ª compagnia sanità.
Orfani. I figli nati dagli stupri sulle italiane di austriaci e tedeschi sono ricoverati in un ospizio chiamato Istituto San Filippo Neri. Molti di questi bambini morirono perché le madri se ne liberarono. Altre madri invece non riuscivano a dimenticarli e nei giorni in cui il marito non c'era andavano a trovarli. Finì che il segretario del San Filippo Neri scrisse a queste donne intimando che se ne stessero a casa.
Fatti tratti da: Aldo Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Mondadori, Milano, pagg. 248, € 17,00

Il Sole Domenica 12.10.14
Il fronte italiano / 1
Dalla neutralità all'intervento
Gian Enrico Rusconi ricostruisce il lavorio politico-diplomatico dell'estate 1914 e analizza le vicende belliche di quell'anno
di Piero Fornara


Cento anni fa in Italia ancora non sparavano «i cannoni d'agosto» come nel resto dell'Europa, ma nell'autunno 1914 in una situazione bellica quanto mai incerta – con l'arresto della marcia tedesca sulla Marna dopo le iniziali vittorie in Francia e le enormi perdite subite dagli austriaci in Galizia contro l'esercito russo – il governo italiano deve decidere se confermare la neutralità in cambio di risarcimenti territoriali oppure preparare l'intervento contro l'Austria.
Nel libro 1914, attacco a Occidente, pubblicato dal Mulino, Gian Enrico Rusconi ricostruisce il lavorio politico-diplomatico dell'estate 1914 e analizza le vicende belliche del primo anno di guerra.
Secondo l'autore il conflitto nasce come una «guerra tedesca» per rompere l'accerchiamento di cui la Germania si sente vittima da parte dell'Intesa russo-francese e inglese. La lotta per l'egemonia sul Continente assume i tratti di una «guerra di civiltà» all'interno dell'Occidente stesso, con effetti di lunga durata: nel Secondo conflitto mondiale, infatti, l'attacco tedesco alla Francia sarà inteso come replica e rivincita del 1914.
La dinamica che avrebbe portato alla Grande Guerra era cominciata in modo inatteso, con l'assassinio il 28 giugno a Sarajevo dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono della monarchia austro-ungarica. La situazione precipita un mese dopo con l'ultimatum e la dichiarazione di guerra austriaca alla Serbia.
Nel 1914 l'Italia è ufficialmente alleata da più di trent'anni con la Germania e l'Austria-Ungheria nella Triplice Alleanza; le convenzioni militari segrete del trattato prevedono, in caso di conflitto, la presenza di un'armata italiana sul Reno a fianco dei tedeschi.
Ma l'atteggiamento elusivo e ambiguo di Vienna verso Roma sulle possibili «compensazioni» porta il governo italiano a proclamare la neutralità, cogliendo di sorpresa gli stessi capi militari.
Berlino segue con crescente apprensione le trattative sulle concessioni territoriali (il Trentino, ma non solo), che potrebbero garantire una benevola neutralità italiana verso gli Imperi centrali nel conflitto.
Nel suo libro Gian Enrico Rusconi annota alcuni fatti poco noti all'opinione pubblica, come la morte improvvisa, il 1º luglio 1914, del capo di stato maggiore del l'esercito Alberto Pollio, che lascia «sconcertati gli ambienti militari tedeschi, che non escludono addirittura il sospetto di omicidio».
Il suo successore Luigi Cadorna assume formalmente tutti gli impegni di Pollio, ma poco tempo dopo il governo italiano – da pochi mesi guidato da Antonio Salandra – proclama la neutralità e blocca ogni spostamento di truppe verso la Francia.
Nel mese di ottobre, sempre del 1914, muore il ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano e gli subentra Sidney Sonnino. Nella classe dirigente politica e militare italiana torna in primo piano e ridiventa popolare la questione delle «terre irredente» nelle richieste di compensazioni avanzate all'Austria.
Anche la missione a Roma in dicembre dell'ex cancelliere tedesco Bernhard von Bülow, amico personale di Giovanni Giolitti, ritenuto lo statista italiano più influente, non ottiene gli effetti sperati. I contatti tra Roma e Vienna entrano in un circolo vizioso e la tattica del ministro degli Esteri Sonnino è quella di alzare sempre di più il prezzo della neutralità italiana per creare l'occasione della rottura.
«Più lineare, coerente anche se sofferto, è il filogermanesimo di Giolitti, a partire dalla sua convinzione che la Triplice e in particolare il legame con la Germania siano un vantaggio netto per l'Italia. Giolitti resiste fino all'ultimo alla rottura della Triplice Alleanza, che non esita a definire come un "tradimento", salvo poi allinearsi lealmente con il Paese in guerra».
Quando il 1º maggio 1915 Sonnino illustra in Consiglio dei ministri l'urgenza di denunciare la Triplice Alleanza per potere stringere il patto con l'Intesa, in realtà questo è già stato firmato cinque giorni prima. La forzatura politica dall'alto, anche nei riguardi del Parlamento – per l'esigenza di salvare la monarchia dal pericolo rivoluzionario, pensa Sonnino – viene considerata da qualche storico un «colpo di Stato».
Dalla guerra vittoriosa l'Italia trarrà comunque negli anni Venti e nei primi anni Trenta un notevole peso internazionale. «Per colmo d'ironia, le disgrazie italiane – chiosa Rusconi – cominceranno quando Mussolini, dopo aver affiancato la politica dell'Italia a quella della Germania nazista, non vorrà "tradirla" una seconda volta».
Gian Enrico Rusconi, 1914: attacco a Occidente, il Mulino, Bologna, pagg. 320, € 24,00

Il Sole Domenica 12.10.14
Il fronte italiano / 2
La voce di chi combattè sul campo
Marco Mondini fa parlare i militari: emerge un quadro delle esasperazioni sociali, delle miopie politiche e delle loro ricadute sulla società
di Mauro Campus


Nell'immaginario popolare, la Grande Guerra italiana è il momento in cui "i voti della nazione" sarebbero stati esauditi. E anche se questa communis opinio ha a che fare con la mistica con la quale i fatti furono presentati dal governo del tempo, ciò non scalfisce la dimensione di "svolta" generalmente attribuita alla Prima guerra mondiale. Svolta immaginata o reale, ma pur sempre svolta in termini di peso che il Regno d'Italia ambiva a conquistare nella politica internazionale, svolta nell'immagine di nazione coesa che la guerra doveva accreditare, svolta nell'organizzazione e nell'affidabilità di una macchina bellica che fino ad allora aveva dato pessima prova di sé. Ma il topos di una cesura storica propiziatrice della sparizione dalla faccia dell'Europa degli imperi Austro-Ungarico e Ottomano, quelli che Mazzini chiamava "i due Mostri", e quindi dell'attuazione delle idealità risorgimentali, continua a essere una certezza nello schema narrativo della Storia d'Italia.
Ciò che è meno sviluppato nella narrazione abituale è quanto quel conflitto accelerò il passaggio a una modernità i cui tratti rimasero la quinta del XX secolo italiano. Non la modernità delle ambizioni da grande potenza rappresentata dal mitizzato impegno di una nazione in armi, ma una modernità minata da una politica incapace di assumere nel suo orizzonte un'idea di Paese e del suo posto nel mondo. Dopo il 1918 tutti concordavano che le cose non sarebbero state più le stesse, sebbene la forma che il mondo postbellico assunse fosse concepita e criticata al l'ombra di quello che svaniva con la guerra. E se l'Italia occupò quel posto al tavolo che considerava quasi un diritto naturale, ancora una volta le ambiguità e gli infiniti tatticismi di una politica logorata, che applicava a un periodo di crisi profonda della storia europea criteri superati, vanificarono parte di quello sforzo unitario magnificato dalla retorica e che così nella retorica affondò. A complicare la gestione di una transizione difficile non era solo l'affollarsi di nuovi protagonisti, ma l'affermarsi di un nuovo contesto internazionale per molti versi poco, o per niente, desiderato dall'establishment italiano. Non erano solo degli attori fino allora considerati (a torto) marginali, ma questioni sistemiche immediatamente intuibili, come il dissolversi degli elementi di stabilità al centro del continente, la pervasività del complesso industriale nel l'orientare le scelte belliche, la sensazione diffusa di un'incombente Finis Europae. Quest'universo di suggestioni, completato dal mutamento del discorso pubblico, dall'alterazione dell'asse di potere, dalla riorganizzazione sociale e geografica che scaturì dal conflitto e dal disordine che ciò portò nel sistema internazionale, contribuiva a rafforzare la certezza di chi credeva che intorno al 1910 la condizione umana fosse irreversibilmente mutata.
Muovendosi con sicurezza in questo immane complesso di problemi, Marco Mondini ricostruisce nel suo ultimo libro le ragioni, i modi, le strategie della Grande guerra italiana, e lo fa attraverso un montaggio che allinea tutti i protagonisti politici, intellettuali e militari di un quadriennio fondamentale. L'impianto narrativo che l'autore assicura a una vicenda così determinante della vita nazionale fornisce molti spunti di riflessione inediti, e lo fa in maniera distesa, con una scrittura punteggiata di una messe di riferimenti al dibattito europeo dell'epoca che sono, da soli, l'asse portante e la ragione sufficiente di una ricerca innovativa. È forse questo il maggior contributo di un libro che, traducendo in una dimensione accessibile un ventennio di studi, contribuisce a smantellare parte dei luoghi comuni di cui ogni discorso sull'Italia della Grande Guerra si nutre specie nell'anno del centenario.
Il volume di Mondini non è dedicato a una piana analisi cronologica degli eventi o a un esame dei problemi specifici delle fasi della guerra italiana e, se non mancano neppure esaurienti ricostruzioni dei problemi che informarono le scelte di una classe politica esausta, ciò avviene per chiarire i più generali sviluppi e le ricadute sociali della vicenda bellica. Questo perché, per ordire la sua narrazione, l'autore dà ampio spazio alle basi materiali e morali su cui le decisioni belliche furono assunte; esamina i miti a cui si fece ricorso per coagulare consenso; spiega attraverso un uso intelligente della memorialistica come la guerra fu subita da chi la combatté. E, attraverso un'analisi delle forze e dei sentimenti che il conflitto mobilitò, il libro descrive le passioni e gli affetti, le idee e le ideologie, la situazione politica e il sentire degli uomini. Il risultato è la costruzione di un'interpretazione persuasiva della Grande Guerra, capace di collocare nella giusta luce l'importanza del fronte italiano nel teatro europeo, di valutare con obiettività il peso del sacrificio umano che fu pagato dalla Nazione, e, quindi, di rimettere ordine nel mare di semplificazioni che tempestano la storiografia degli anniversari. Così, per descrivere i tre passaggi in cui l'autore divide il quadriennio (partire, raccontare, tornare), a parlare sono i protagonisti, soprattutto i militari, che la guerra la fecero davvero e che si trovarono a gestire il naufragio umano e politico della "crisi della vittoria". Ne emerge un quadro nitido del sentimento nazionale e delle esasperazioni sociali che la guerra generò, specie nell'incapacità di unire e includere. Un ritratto impietoso delle miopie politiche e delle loro immediate ricadute sociali; la rappresentazione di come certe questioni di politica estera siano un elemento in grado di turbare profondamente l'ordine interno di uno Stato e, in definitiva, nel caso dell'Italia del 1919, la descrizione di un ingranaggio spezzato, di uno Stato divenuto incapace di funzionare proprio nel momento del pubblico riconoscimento dell'anelato status di Potenza.
Marco Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare, 1914-18, il Mulino, Bologna, pagg. 458, € 28,00

Il Sole Domenica 12.10.14
Cinema & censura
Occultare l'orrore
I film di quegli anni non mostravano i corpi martoriati, bruciati dai gas, disintegrati: ritraevano i soldati, le trincee, le battaglie in una narrazione epica ed eroica
di Emilio Gentile


Cento anni fa, dopo l'inizio della Grande Guerra, in tutte le potenze coinvolte nel conflitto, il cinema «mise ovunque l'elmetto patriottico e si adeguò alle esigenze della propaganda», come ha scritto il critico cinematografico Giuseppe Ghigi, per esaltare la propria patria, glorificare i propri soldati al fronte, incitare il proprio popolo a sostenere lo sforzo bellico, e demonizzare il nemico. Anche in un Paese neutrale, come gli Stati Uniti, fin dal 1915 ci furono registi che si misero all'opera per promuovere l'intervento americano, come John Stuart Blakthon, che nel film The Battle Cry of Peace, prodotto nel 1915, rappresentava la distruzione dei grattacieli di New York da parte di una potenza nemica, facilmente identificabile con la Germania. A esso si contrappose nel 1916 il film pacifista Civilization di Raymond B. West, dove per la prima volta apparve in cinematografia la figura di Cristo che invocava alla pace un'umanità in preda alla follia della guerra. L'anno dopo gli Stati Uniti entrarono in guerra, e le cineprese di Hollywood divennero arma di combattimento, come lo erano da tre anni nel vecchio continente.
La rivista inglese «Star» affermava nel 1916 che la cinematografia testimoniava la realtà della guerra perché il cinema «non descrive, rivela. Non rivela tutto, ma ciò che rivela è vera realtà». In realtà, osserva Ghigi, il cinema durante il conflitto si preoccupò «di occultare più che di rivelare: si vede solo ciò che il potere militare vuole». Il cinema rappresentava i soldati, la trincea, il combattimento in una narrazione epica ed eroica, dalla quale era ovviamente assente il fragore terrificante dei bombardamenti, essendo il cinema muto: ma era escluso anche l'orrore quotidiano dei corpi martoriati, mutilati, bruciati dai gas o disintegrati e sparpagliati in pezzi sanguinanti. Il cinema esaltava la potenza tecnologica delle armi moderne, ma occultava la carneficina di massa che esse producevano; narrava storie patetiche di singoli protagonisti, mentre l'individualità del soldato era annullata nell'anonimato di una guerra di massa.
Non solo la censura ostacolava la rappresentazione cinematografica della vera realtà. Era anche tecnicamente impossibile rappresentare col cinema l'essenza della guerra – la battaglia – nel momento in cui avveniva, perché troppo ingombranti erano le cineprese e troppo grande il pericolo di morte per gli operatori. Inoltre, come osservò un cameraman tedesco, era molto difficile «riprendere scene di battaglia anche perché il momento dell'attacco è sconosciuto e tenuto segreto ai cineoperatori». Di conseguenza, come scrisse nel 1919 il regista Piero A. Gariazzo, si pensò di «fare coi soldati stessi delle manovre guerresche, simili a quelle che dovrebbero essere la guerra, ma in condizione favorevoli per la riproduzione». Così avvenne nel film The Battle of the Somme, girato nel 1916 e proiettato in Inghilterra con grande successo: la scena dei soldati inglesi che saltano fuori dalle trincee per andare all'assalto fu girata con una messa in scena da parte di soldati veri. Lo storico del cinema Laurent Véray, dopo aver attentamente esaminato i cinegiornali della Grande Guerra, ha citato solo un caso di ripresa di un combattimento dal vero, ma si tratta di un breve filmato che «colpisce, in ogni caso, per l'incapacità di mostrare realmente il combattimento».
Oltre alla censura e alle difficoltà tecniche, c'era un altro impedimento alla rappresentazione cinematografica di quel che realmente avveniva al fronte: «nel massimo numero dei casi» osservò il regista Gariazzo «la guerra moderna non si vede», e pertanto «la riproduzione cinematografica serve poco a riprodurre l'idea della guerra». Lo stesso impedimento provarono i combattenti quando tentarono di raccontare la loro esperienza nei diari, nelle lettere e nelle memorie. Nonostante ciò, è accaduto che scene della Grande Guerra inventate dal cinema siano state accreditate come immagini della vera realtà. Un fotogramma del film di Léon Poirier, Verdun, visions d'Histoire, prodotto nel 1928, che mostra un soldato francese colpito a morte durante un assalto, è stato scambiato per una fotografia dal vero, e come tale appare tuttora riprodotto in opere sulla Grande Guerra. Si tratta, comunque, di uno sbaglio veniale se consideriamo che, nel corso di cento anni, nella variazione dei temi e delle interpretazioni della Grande Guerra, la cinematografia ha accompagnato il variare della storiografia, muovendo dal nazionalismo al pacifismo, dall'apologia epica al realismo spietato, dal romanticismo al cinismo, per approdare in tempi più recenti, come osserva Ghigi nella conclusione del suo saggio, alla disincantata rappresentazione di «un'immane tragedia che rimane nonostante tutto invisibile», perpetuandosi nella memoria collettiva attraverso il simbolo del Soldato Senza Nome, che realisticamente evoca la Prima grande guerra, dove l'individuo fu immerso e annullato nella massa anonima delle trincee.

Giuseppe Ghigi, Le ceneri del passato. Il cinema racconta la Grande guerra, Rubettino, Soveria Mannelli,  pagg. 262, € 16,00

La mostra «La guerra che verrà / Non è la prima» è aperta al Mart di Rovereto (corso Bettini, 43) fino al 20 settembre 2015, dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18, il venerdì fino alle 21 (lunedì chiuso).
Info e prenotazioni: 800 397760; +39 0464 438887

Il Sole Domenica 12.10.14
Giacometti a Milano
L’intervista: «Io non so deformare»
Nel 1963, l'artista rilasciò a Grazia Livi della rivista «Epoca» una lunga intervista in cui spiegò la sua poetica e giudicò il suo tempo. Eccone alcuni passaggi
di Grazia Livi


Questo è uno stralcio della lunga intervista che Grazia Livi fece ad Alberto Giacometti e che venne pubblicata nella serie «Interroghiamo gli artisti del nostro tempo. Che cosa ne pensano del mondo d'oggi?» uscita nella rivista «Epoca», il gennaio 1963 alle pagine 58-61.
Alberto Giacometti è un artista così libero e ignaro di regole sociali, così lontano da tutto ciò che non riguarda la sua personale ossessione di scultore, da poter rispondere alle nostre domande – seduto su una branda, in mezzo alle cartacce, ai piccoli gessi filiformi, ai mucchi di carbone – in una maniera che colpisce per il suo impeto nudo, per la sua verità brusca, quasi primitiva.
Mi è stato detto che lei ebbe l'intuizione di fare l'uomo filiforme il giorno in cui, al cinema, guardava gli uomini che fissavano lo schermo. Non so se questo sia vero, ma comunque vorrei chiederle che cosa pensa di questo fatto nuovo che è l'uomo calato e quasi perduto nella civiltà di massa.
La massa, in realtà, è fatta di individui, di individui soli. E il sublime, per me, il mistero, sta proprio nei volti di questi uomini soli. Una volta, in un museo, mi misi a guardare quei visi e tutt'a un tratto mi colpì la loro straordinaria vivezza e inafferrabilità, così diversa dalle opere d'arte che all'improvviso mi sembrarono gelide, morte. E mi prese anche una specie di disperazione, perché pensavo che mai nessuno avrebbe potuto cogliere completamente il mistero di quei volti e della vita riflessa in essi.
La solitudine, dunque, sembra essere la condizione tipica dell'uomo contemporaneo.
Oh, no! Se un uomo soffre di solitudine, può soffrirne da solo o in mezzo agli altri. E poi la solitudine delle grandi città moderne, per esempio, non è certo peggiore di quella delle antiche città medievali dove gli uomini, di notte, giravano addirittura col coltello in tasca per difendersi.
Eppure tutta l'arte contemporanea – l'arte astratta – sembra proprio rappresentare questa condizione di solitudine dell'uomo, questa rottura di rapporto con la realtà, con la tradizione, con se stesso.
Intanto, secondo me, l'arte astratta non esiste. Anzi, io la chiamo "arte concreta", come Kandinsky. C'è semmai questo: che l'arte di oggi rappresenta la realtà, ma in modo diverso. La scienza, infatti, ci ha dato degli strumenti di conoscenza che hanno sconvolto completamente la nostra visione della realtà. La fotografia, i raggi X, gli apparecchi microscopici, hanno fatto sì che noi potessimo entrare dentro ai segreti stessi della materia: ingrandendoli, deformandoli. Un tempo una testa era una testa, un braccio era un braccio, e attraverso la pittura e la scultura lo si vedeva nella sua totalità, e non c'erano dubbi.
Oggi, invece, la fotografia ha dato una visione del mondo tale, e così sufficiente, in apparenza, che ha fatto crollare tutta la pittura di ritratto, ad esempio, e nello stesso tempo ha messo l'artista nella condizione di dover dipingere altre cose, come la sua vita interiore, il suo inconscio, le sue sensazioni.
Oggi i cambiamenti si susseguono con rapidità impressionante!
Non è così. Sembrano rapidi perché sono vicini. Allo stesso modo in cui, viaggiando in treno, i pali del telegrafo, che sono vicinissimi al finestrino, sembra che fuggano molto più rapidi delle colline che sono in lontananza. Per tornare al discorso di prima, l'arte di oggi non rappresenta più l'uomo nella sua integrità anatomica, questo è vero. Ma semplicemente perché questa integrità anatomica è stata sovvertita dagli strumenti scientifici di cui siamo in possesso. Quando lei vede un pezzetto di pelle ingrandito al microscopio, come può fare tranquillamente un viso con tutti i lineamenti a posto?
Cos'è che si salva, oggi, dell'integrità dell'uomo?
Si salva la sua profonda integrità affettiva. Lei, ad esempio, cosi com'è davanti a me, non è una persona che si scioglie in dettagli, ma serba la sua integrità di sentimento, di pensiero. Ed è questa integrità che determina la relazione fra uomo e uomo. Altrimenti non esisterebbe più l'attrazione, la simpatia, l'antipatia...
Lei, però, come scultore deforma la figura umana. Per usare le parole di Palma Bucarelli, lei «libera l'immagine nello zampillo della verticalità». Non è fedele all'integrità anatomica dell'uomo...
Ma io non so mica di deformare! Per me le deformazioni sono del tutto involontarie. Io cerco semplicemente di rifare quello che vedo. Il mio sforzo consiste nel cogliere, nel possedere un'apparenza che di continuo mi sfugge. E poi la deformazione, in arte, è sempre esistita, anche se oggi se ne parla come di una novità. Per noi Occidentali è l'arte classica greca che vale come esempio di non deformazione, ma questo non è giusto, perché quell'arte non era più vicina alla visione della realtà di quella di altri periodi. Né più valida, né più vicina. In quanto a me, io tento di esprimere quello che vedo, ma purtroppo non riesco mai a fare qualcosa di veramente rassomigliante. I risultati sono sempre diversi e perciò non cesso mai di rifare, e mi do dei pugni in testa.
Lei parla della scultura come se fosse un mezzo per esprimersi che le è quasi ostile, che lei tenta invano di dominare.
E infatti è così! Io potrei fare altre cose molto meglio: scrivo meglio, dipingo meglio. La scultura è la cosa che so fare meno, e perciò mi sento obbligato a farla, perché mi dico: se riesco a capire qualcosa attraverso un'arte che non so fare bene, figuriamoci che cosa riuscirei a fare con un'arte che domino! Ogni sera mi metto davanti al modello e tento di rifarlo approssimativamente come lo vedo. Ma, Dio santo, com'è difficile! Un tempo avevo l'impressione che le cose fossero più stabili, oggi invece mi sembrano sempre più meravigliose e inafferrabili.
Vede, dunque, che lei come artista non può prescindere da una sensazione nuova di instabilità!
Lei sta tentando di farmi cadere in contraddizione. Ma in questo sono d'accordo con lei: nell'arte di oggi c'è, sì, un certo maggior disorientamento. Ed è un disorientamento che è venuto da un fatto completamente nuovo: la conoscenza di tutto attraverso i libri, le fotografie, il cinema, che è tipica di questo nostro tempo. Oggi l'uomo vede, in riassunto, tutto ciò che l'essere umano ha fatto fin dalle epoche primitive. Ed è questa conoscenza che lo ha reso saturo e che gli ha dato una maggior difficoltà a esprimersi.
Allora, secondo lei, l'arte è agli ultimi aneliti! Oppure l'uomo riuscirà a inventare ancora nuove forme?
Non credo affatto. Secondo me, tutte le forme possibili sono state ormai inventate e l'arte non ha più avvenire. Si è esaurita. C'è solo un tipo d'arte che potrà durare ed è quella che oggi è squalificata: le vedute della Bretagna, di Venezia, i paesaggi. Per la massa quest'arte durerà, avrà un significato. Il paesaggista, se crede a quello che fa, potrà sopravvivere. L'astrattista, invece, penso di no, anche se la sua posizione è più importante e più patetica.
E allora come si farà per riuscire a essere un poco più felici? Campigli, che interrogai prima di lei, credeva almeno nell'arte come possibilità di bellezza, di evasione da una civiltà troppo meccanizzata.
Per la maggior parte della gente essere felice vorrà dire semplicemente lavorare duro per riuscire a scaldarsi, a sfamarsi. A sussistere, insomma.
Ma per me no, e neanche per lei, penso.
Ah, io non cerco la felicità! Semplicemente lavoro perché non riesco a fare altro.
E quali sono gli aspetti della vita contemporanea che le piacciono di più?
Per esempio, mi piace il traffico, perché il traffico è segno di attività, di forza, di avvenire. Mi ricordo che tempo fa, trovandomi a Milano mentre fervevano i lavori per la metropolitana, girai tutta la notte, esaltato, felice. Quei lavori al métro mi davano una sensazione meravigliosa di vita. E poi mi piacciono moltissimo i giornali, e alle tre del mattino li aspetto con impazienza per leggerli prima di andare a dormire. Anche la televisione mi piace, e la prima volta che la vidi non riuscivo più a staccarmene.
Ma, secondo lei, l'arte contemporanea deve assolutamente rappresentare questi aspetti del vivere, per potersi considerare tale?
Sì e no. Che l'arte debba esprimere i problemi sociologici del nostro tempo, e che debba rappresentare per forza l'uomo nello spazio, oppure l'uomo nella massa, oppure l'uomo nell'industria, mi sembra un'infantilaggine. In verità, tutto quello che succede all'uomo è un problema che appartiene al suo tempo: sia il suo lavoro in fabbrica, come il suo dolore e la sua maniera di innamorarsi. Non esiste, in arte, il problema d'esprimere un aspetto della vita piuttosto che un altro. Esiste solo quello d'esprimersi. E l'artista che avrà maggior significato sarà, alla fine, colui che ha creato l'opera d'arte migliore.

Il Sole Domenica 12.10.14
La testimonianza
Posare per lui, senza respirare
di Giorgio Soavi


Posso raccontare come andavano le cose quando si posava per Giacometti. A Parigi c'era Elie Lotar per una scultura, l'ultima. A Stampa io stesso per un quadro. In entrambi i casi sembrava di assistere al combattimento tra un condannato che vuole accontentare l'esecutore al quale chiede un'unica cosa: di poter respirare. Da principio Giacometti pareva d'accordo, e in ogni caso, poiché ciascuno di noi sa come trattenere il fiato dopo un tuffo in mare, sembrava facile stare fermi immobili senza respirare. Bastava pensare ad altro. Ma se il nostro pensiero si allontanava distraendosi dall'intensità di quella stanza, Giacometti ammoniva: «Non te ne andare con la testa, stai lì, non te ne andare».
L'aria dello studio al numero 46 di rue Hippolyte Maindron era talmente rarefatta che riusciva difficile, anche a me che non posavo ma guardavo la scena seduto sulla scaletta che portava al soppalco, tirare il fiato. Nessuno là dentro osava respirare: io meno degli altri. Ospite privilegiato, intuivo di dover diventare il più silenzioso dei tre. Per scattare delle foto che non osavo fare – il clic della macchina equivaleva a una scarica di missili crepitanti nel deserto. Finalmente Lotar chiese a Giacometti il permesso di respirare. Questo voleva dire fumare una sigaretta. Giacometti fu d'accordo e fumarono tutti e due.
(...) Quando Giacometti diceva: «Non te ne andare», voleva dire: «Non abbandonare la tua faccia, quelle pieghe, quelle ombre che ti sei cucito addosso quando ti ho detto: stai così». Mentre era chiaro che se, fumando o tirando il fiato, uno scappava via con la testa pensando di andare al bar della rue d'Alésia lì vicino per bersi un caffè, una birretta o farsi due uova sode, tutto quanto l'impianto della faccia andava a farsi fottere.
I due avevano smesso di fumare e stavano ricominciando la loro recita di lavoro. Vedevo Giacometti in maniche di camicia puntare le dita in quella massa di terra che sarebbe diventata la testa di Lotar e sapevo che dopo qualche colpo di temperino sarebbe andato avanti a segnare il percorso che attraversava quel volto con le sole unghie. Quelle dei suoi pollici, soprattutto, che entravano nella creta bagnata aprendo una delle tante strade che lo avrebbero fatto avanzare di pochi centimetri, prima della scontentezza, dei rifacimenti e con tutt'altro percorso. Guardavo la camicia e la cintura dei suoi pantaloni. Si doveva essere vestito con la rapidità di un fulmine perché la camicia gli stava uscendo dai pantaloni e la cintura, scivolata sulla schiena a un'altezza ben strana, stava così perché i suoi pantaloni erano privi di passanti. Vedevo un uomo anziano e inerme, un attore comico che lavorava con grande concentrazione a una cosa con la quale lottava strenuamente. Infatti era in estasi.
Mi concentrai sui due che lavoravano e capii come faceva Lotar a non respirare. Elie Lotar doveva essere il modello ideale per quella scultura, perché Lotar era morto. Non respirava, non pensava, non abbandonava mai la concentrazione. Una sola elettricità, una identica complicità andava e veniva dall'uno all'altro. Giocavano senza palla né racchetta né rete, ma si rimandavano puntualmente l'unico soffio d'aria presente in quella stanzetta, l'unico rimasuglio di vita: erano diventati le vittime alle quali ogni tanto sfugge quel filo d'aria che si è nascosto nei polmoni di un cadavere e adesso, imprevedibilmente, si affacciava tra le loro labbra per incontrare l'altro filo d'aria dell'amico che stava di fronte.
Credevo di avere mal di testa per la paura di sbagliare. La verità era che non avevo più la testa perché ero diventato come loro. Non esistevo più. Mi ero staccato da me. Guardando le mani di Giacometti lavorare freneticamente a quel busto di Lotar capivo di poter muovere anch'io le dita e scattai due fotografie che esplosero come due spari nella notte.

Il Sole Domenica 12.10.14
Occhio all'errore
Dura vita del correttore di boze
di Giovannino Guareschi


Il correttore di bozze non si divide: è quello che è, ma ciò non semplifica le cose.
Il correttore di bozze fu inventato verso il 1440: quando, cioè, il signor Gutenberg, inventata la stampa propriamente detta e tirata una bozza della sua prima composizione tipografica, trovò, nella seconda riga, una signora elefante al posto di una signora elegante. Allora il signor Gu-tenberg lanciò un grido di trionfo: aveva inventato l'errore di stampa. Poi, letta attentamente tutta la bozza segnò a penna 25 dei 57 errori disseminati nel foglio e, infine, imprecò duramente contro il socio Füst che, poveretto, non ne aveva la minima colpa. Così, a un tempo, inventò anche il correttore di bozze e il proto.
Il correttore di bozze vive acciambellato in piccoli recinti situati nei punti più oscuri e più disturbati delle tipografie, essendo, il suo, un lavoro che richiede calma e ottima visibilità.
La correzione delle bozze, nata in origine come mestiere, col perfezionarsi degli errori è diventata una professione e spesso viene addirittura interpretata come una missione.
In questo ultimo caso il correttore di bozze non si limita a correggere l'errore tipografico o a sistemare convenientemente la punteggiatura, ma cambia la parola che non gli sembra appropriata, o la frase che non gli sembra abbastanza efficace o il periodo che non gli pare ben costrutto.
Nei casi più gravi, il correttore di bozze cambia addirittura i finali delle novelle o imposta e risolve in altro modo i romanzi che capitano sotto la sua revisione, o introduce nuovi personaggi e altri ne fa scomparire.
Infine, il correttore di bozze può giungere, in casi estremi, a tentare di comprendere il senso delle poesie moderne che egli è costretto, da disperate condizioni finanziarie, a leggere attentamente. Allora, però, impazzisce e il poeta in questione perde il suo unico lettore.
Il correttore di bozze è di solito un uomo infelice: egli gira per le strade del mondo sempre in affannosa ricerca di errori. Legge tutti i cartelli, tutte le insegne, le epigrafi delle lapidi e dei monumenti, le pubblicità luminose, si arrampica fin sui tetti pur di segnare col suo lapis la parola o la lettera errate. Per il correttore di bozze l'errore di stampa è la più grave delle provocazioni: valga l'esempio del correttore Sei.
Il correttore Sei, dopo avere, fuori dall'orario d'ufficio, svaligiata una banca di Filadelfia, si era dato alla latitanza. Nessuno riusciva a rintracciarlo: allora il capo della polizia ebbe una idea sottile. Fece stampare un milione di cartelli: «Diecimila dolari a chi saprà dar notizia del signor Sei». Poi ordinò che i cartelli fossero affissi in tutte le principali località della repubblica stellata. E, due giorni dopo, lo sceriffo di Midlick segnalò al capo che nel cartello, affisso a una cantonata del paese, un ignoto aveva segnato col lapis rosso la "elle" della parola dolari e scritto in margine al foglio: "ll".
Il signor Sei si era tradito: aveva letto e non aveva saputo resistere. Identificato il luogo nel quale si nascondeva, il correttore Sei fu facilmente arrestato.
L'errore di stampa rappresenta una sofferenza atroce per il correttore di bozze; in Inghilterra quando la polizia vuol costringere un correttore di bozze a confessare qualche suo delitto, lo rinchiude, privo di matite o altri arnesi atti allo scrivere, in celle tappezzate di cartelli a stampa sui quali si legge: «La coltivazione del riso etaoin richiede...», «Chi tardi arrica male allo ggia...», «Lin'fortunio di una masaia», «Bolle tino della neve» nell'originale le ultime due parole sono invertite tra loro e riflesse orizzontalmente.
Dopo dieci minuti l'arrestato dà manifesti segni di pazzia e confessa anche gravi delitti che egli non ha mai commesso.
I correttori di bozze ambiziosi approfittano in modo poco simpatico della loro condizione privilegiata e intercalano negli articoli che essi debbono correggere frasi come queste: «Mario Ventisei è simpatico», «Io sono bello», Oppure, se sono innamorati: «T'amo, Ninì: perché mi fai soffrire?», «Domani ci vediamo?».
I correttori di bozze dei giornali sono di solito coscienziosissimi: alcuni, quando si accorgono di non aver corretto qualche errore, si mettono vicino alla rotativa, e copia per copia, correggono a mano l'errore.
Poi, se la linea telefonica è libera, gli infermieri arrivano anche dopo soli dieci minuti.
Leggendo tante cose, i correttori di bozze si fanno una enorme cultura: «Ho letto tutta la Storia Universale» dicono, «C'era un bellissimo errore a pagina 2, un ottimo refuso a pagina 3, un interessante salto di riga a pagina 187...».
I grandi scrittori sono cattivi col correttore di bozze: lo maltrattano sempre quando egli dimentica di segnare una virgola, ma non lo ringraziano mai quando egli corregge loro la parola «I taglia» o la frase: «Mario gli disse a lei: "Se tu volesti potrei farmi felice!..."».
Quando a 98 anni, passa a miglior vita, il correttore di bozze muore; ma la sua anima non sale subito al Cielo. Gira per la città a leggere sulle cantonate i suoi annunci mortuari, si attarda sulla sua tomba a leggere l'epigrafe della sua lapide. E, se ci sono errori, si strappa una penna dalle candide ali, la intinge nell'azzurro del cielo e li corregge.
Oh, che bel mestiere!
da Celebrazione del Tipografo, editrice Il Quadratino, Torino 1968