lunedì 13 ottobre 2014

Repubblica 13.10.14
Renzi vuole il super-partito
Cresce il pressing su Fi “Silvio, cambiamo l’Italicum”
di Francesco Bei


ROMA L’esca è stata lanciata tre settimane fa. Quando Renzi, nell’ultimo incontro a palazzo Chigi con Berlusconi e Verdini, ha gettato sul tavolo una proposta dirompente: «E se il premio di maggioranza, invece che alla coalizione che arriva prima, lo dessimo alla migliore lista? Pensateci bene, potrebbe convenire anche a voi». Berlusconi, che di legge elettorale non ne mastica molta, ha replicato con un «fammici pensare su», mentre Verdini allarmatissimo lo trascinava via per un braccio. L’ingranaggio comunque si è messo in moto. L’idea sta facendo proseliti nella maggioranza. Angelino Alfano ne ha discusso con i suoi e l’Ncd è pronto a rilanciarla. Il disegno di Renzi, coerente con l’aspirazione a consolidare il 40,8% in un partito a «vocazione maggioritaria», è quella di rompere gli indugi e puntare tutto su uno schema tendenzialmente bipartitico. Lo ha rivelato lui stesso, intervistato da Paolo Del Debbio: «Bisogna arrivare a due partiti: un centrodestra e un centrosinistra».
Essendo la legge elettorale il prodotto delle convenienze dei partiti, quale interesse avrebbe un peso leggero come l’Ncd a stravolgere in senso bipartitico l’Italicum? Lo spiega Gaetano Quagliariello: «Per noi si aprirebbero due scenari. Si potrebbe costruire un partito-coalizione, un soggetto unico del centrodestra con Forza Italia. Oppure potremmo presentarci da soli al primo turno e negoziare la nostra partecipazione al governo come junior-partner. È quello che è successo in Germania ai liberali o in Inghilterra ai lib-dem». Inoltre passare da un Italicum con le coalizioni a una legge che premia i singoli partiti, avrebbe per Alfano l’indubbio vantaggio di una semplificazione delle soglie, con l’introduzione di uno sbarramento unico al 3 o al 4 per cento. Un’opportunità a cui potrebbe guardare con favore anche una eventuale forza di sinistra che metta insieme Vendola, Landini e Civati. E anche Lega e Fratelli d’Italia, entrambi sempre più connotati come forze antieuro, anti-immigrazione, anti-Ue, potrebbero presentarsi da soli senza la camicia di forza di un’alleanza con Berlusconi.
Dunque il vero ostacolo alla proposta di Renzi resta Forza Italia. Permane imponderabile il pensiero del Cavaliere sull’argomento, l’unica cosa certa è la decisa opposizione di Verdini. Che ha messo in guardia il leader dal pericolo reale della proposta: «Se al ballottaggio ci vanno i partiti e non le coalizioni noi siamo morti. Al doppio turno accedono solo Renzi e Grillo». Eppure non è detto che il ragionamento di Verdini sia quello che farà breccia in Berlusconi. Perché, se la legislatura dovesse andare avanti con Forza Italia sulla soglia del governo, nel 2018 le aziende di famiglia potrebbe essere messe al sicuro, forse anche la questione della riabilitazione politica sarebbe un problema in via di soluzione grazie all’elezione di un capo dello Stato figlio del patto del Nazareno. Per Berlusconi insomma il futuro di Forza Italia è un problema secondario visto in uno scenario più ampio.
In ogni caso, in attesa di capire le mosse del leader forzista, la riforma elettorale langue dimenticata nei cassetti di palazzo Madama. Tanto che Roberto Giachetti ha minacciato di ricominciare lo sciopero della fame se non verrà tirata fuori dalla palude. Renzi in privato lo ha rassicurato: «Entro dicembre lo approviamo in Senato». Ma ormai, tra ferie e sessione di bilancio, i giorni effettivi di lavoro sono si e no una trentina. E nel Pd ancora si litiga dietro le quinte su chi dovrà fare il relatore. Intanto il Cavaliere sta preparando il suo piano d’emergenza. Se tutto dovesse precipitare verso le elezioni anticipate, meglio tenersi il Consultellum (proporzionale puro sia alla Camera che al Senato) e lanciarsi alla riconquista dei voti perduti. I toni da campagna elettorale usati ieri contro Renzi e Alfano sono la spia che il vecchio leader si tiene pronto a tutto.

Repubblica 13.10.14
Poletti: “Pronti a un’altra fiducia sul Jobs Act”
“Possibile di fronte a rischi di stravolgimenti o ritardi. Va bene il confronto, ma c’è urgenza e non ci fermeremo”
di Silvio Buzzanca


ROMA Il governo è pronto a fare il bis alla Camera chiedendo la fiducia sul Jobs Act. L’annuncio arriva dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ieri era l’ospite di “In 1/2 ora”, la trasmissione domenicale condotta da Lucia Annunziata su Rai Tre. «La discussione non si è ancora conclusa, c’è una modalità parlamentare», ha spiegato il ministro, e «se non ci sarà un prolungamento il problema della fiducia non si porrà». Ma ha aggiunto che «se le due Camere non trovano un punto di equilibrio e si rimandano il testo modificato, è del tutto evidente che noi non siamo intenzionati a favorire una dinamica di questo tipo». Perché, ha spiegato Poletti, «abbiamo un urgente bisogno di concludere il percorso». Che passa anche attraverso la legge di stabilità, i cui ultimi dettagli sono stati ieri l’oggetto di un incontro tra Matteo Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan.
Ma l’urgenza per Poletti ora è il Jobs Act. Se ci fosse «il rischio di stravolgimento o un allungamento dei tempi più di quanto sia accettabile, è normale che il governo penserà al voto di fiducia». Di certo l’esecutivo non teme le opposizioni che si preannunciano al provvedimento: «Non abbiamo intenzione di fermarci di fronte a obiezioni, diversità di opinione. — ha ammonito il ministro — La responsabilità della decisione ce la prenderemo tutta».
Poletti ha ricordato ai sindacati che bisogna guardare anche «ai giovani che cercano lavoro ed ai precari: i contratti a tempo indeterminato sono ormai solo il 17%: se andiamo avanti così il problema dell’articolo 18 si risolve da solo». L’obiettivo, ha ricordato, è introdurre il nuovo contratto a tutele crescenti che permetterà «una significativa riduzione» delle forme contrattuali. Ma anche la riforma dell’articolo 18 è necessaria perché oggi ha «modalità assolutamente incerte», e questo «tasso di incertezza è il veleno degli investimenti».

Corriere 13.10.14
Se la destra vince la scommessa ideologica

La destra? Ha vinto la battaglia ideologica in Europa. Lo sostiene Alain Narinx sul quotidiano L’Echo, riflettendo sul governo appena nato in Belgio e guidato dal 38enne Charles Michel, considerato l’alfiere di una destra dura che vuole rompere con la tradizione nazionale del welfare e del compromesso politico. Pensateci bene, scrive Narinx: prima la Germania di Schröder, oggi la Francia e l’Italia... governi di sinistra che rispondono alla crisi con un’ideologia ibrida incentrata sulla concorrenza fiscale e sociale. Unica exit strategy .

Corriere 13.10.14
Esce in libreria domani il volume In Italia ai tempi di Mussolini
Il grand Tour sotto il duce
La lungimiranza degli stranieri neutrali
La miopia degli osservatori antifascisti
L’arrivo al potere di Mussolini attirò l’attenzione di molti autori giunti dall’estero
Alcuni affermarono che il popolo si sarebbe presto ribellato alle camicie nere
altri invece capirono che la dittatura aveva basi solide ed era destinata a durare
di Paolo Mieli


Il primo osservatore straniero che seppe dare un giudizio severo del fascismo fu lo scrittore jugoslavo (futuro premio Nobel), Ivo Andric. Nel novembre del 1921, al momento del congresso fascista di Roma, vide «i cortei d’uomini in camicia nera adornati con una testa di morto, scarmigliati, sfilare a passo di parata per le vie tranquille della capitale» e individuò chiaramente «l’origine e il percorso del fascismo». «Fatta eccezione per alcuni entusiasti professori barbuti, figli di buona famiglia e studenti occhialuti», li descrisse l’autore del romanzo Il ponte sulla Drina , «tutti gli altri avevano visi poco intelligenti, brutali, da provinciali violenti… La testa scoperta, il viso illividito dal freddo intenso, con un entusiasmo arrabbiato, indossando fasce con caratteristiche parole d’ordine (“Me ne frego”, “Disperata”), brandendo manganelli nodosi, piuttosto che semplici bastoni di ferro o di piombo, evidentemente consacrati dalla tradizione di numerose risse». «È la provincia oscura, rozza, calata a Roma avida di battersi e assetata di potere… un’invasione di canaglie e di arrivisti». Lo scrittore rimase poi strabiliato dal comportamento dei politici del tempo: «L’organizzazione temibile di Mussolini, e il pericolo che ne deriva per i governanti, non distoglie affatto questi ciechi dai loro meschini intrighi parlamentari per rovesciare un governo e impossessarsi dei ministeri… Il parlamentarismo italiano marcia rapidamente verso la sua rovina».
Uno tra i migliori eredi di Renzo De Felice, Emilio Gentile, già autore di testi fondamentali sul totalitarismo, ha raccolto in un volume denso di suggestioni, In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (in uscita da Mondadori), osservazioni e riflessioni «da fuori» sul ventennio nero. Il venticinquenne giornalista marxista tedesco Hanns-Erich Kaminski giudicò Mussolini «un pagliaccio». Riferì di aver fatto vedere la sua foto a parecchie persone, chiedendo loro chi pensavano che fosse, e che le risposte furono pressoché unanimi: un tenore o un attore di cinema. Kaminski non ebbe dubbi: Mussolini era «un commediante», che valuta ogni atto «in funzione dell’effetto», «aspetta sempre l’applauso ed è pronto a prostituirsi per essere adulato». Nel febbraio del 1925, quando ormai Mussolini era saldo al potere, Kaminski scrisse che il Duce era «solo». «Il popolo italiano», aggiunse, «lotta oggi per la sua libertà, e poiché per il suo carattere e la sua storia può vivere esclusivamente come un popolo libero, esso combatte in verità per la sua stessa esistenza». Maliziosamente Gentile riproduce la previsione evitando di sottolineare come si dovettero attendere vent’anni perché essa si inverasse.
Stessa malizia si intravede nella citazione di quel che scriveva il socialista americano Charles Edward Russel, secondo il quale già in quei primi anni Venti il sentimento generale contro Mussolini era così grande che «nessuno si sarebbe stupito di qualsiasi cosa gli fosse capitata», dal momento che «egli aveva commesso, o aveva permesso al suo governo di commettere, ciò che agli occhi degli italiani era la più grave delle offese: aver negato lo spirito della rivoluzione italiana, aver tradito la tradizione di Mazzini». Sulla base di questa percezione, Russel si diceva sicuro «che la fine della dittatura non era lontana dal momento che la maggioranza della nazione era manifestamente contro di essa». Il politico catalano Francisco Cambò, dopo l’uccisione del leader socialista Giacomo Matteotti, si disse certo del fatto che Mussolini non poteva «far altro che capitolare»: «si mantiene al governo perché, oggi come oggi, nessuno vuole sostituirlo».
Più trattenuto (quantomeno per quel che riguardava le previsioni) fu il giornalista radicale inglese William Bolitho, secondo cui il Duce aveva «depredato il Paese della libertà e di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta». «Nel terzo anno del suo dominio», scriveva Bolitho nel 1925, «l’Italia è un mondo silenzioso e ombroso, dove gli uomini hanno paura di essere visti per le strade in compagnia della verità». Ma poi allargava le responsabilità di quel che stava accadendo da Mussolini ai suoi predecessori dell’Italia liberale: Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giovanni Giolitti. Loro «avevano usato la corruzione per dominare; il capo del fascismo oltre alla corruzione, faceva ricorso al revolver e al manganello» e questa «era l’unica differenza importante fra l’Italia sotto Mussolini e l’Italia governata dai liberali». Infine anche a lui il Duce appariva come «il sorvegliante di una prigione piena di carcerati» e il fatto che avesse imposto la censura gli sembrava essere «la prova più evidente dell’assenza di un reale consenso da parte dei suoi concittadini». Ma allora perché il Paese non si ribellava? Per la passività generale: «Passiva l’opinione pubblica, impaurita e ignorante; passive le Forze armate, che si mantengono neutrali, attorno a una monarchia circospetta; passiva e paralizzata l’opposizione politica; passiva la stampa ostile al regime; passiva la classe lavoratrice sottomessa». Unica, parziale, eccezione la Chiesa, passiva anch’essa, ma che «ha sollevato la protesta più alta da quando la libertà di stampa è stata soppressa».
Rappresentazioni polemiche dell’Italia fascista diedero anche lo scrittore e giornalista francese Henri Béraud, l’americano John Bond e gli spagnoli Juan Chabas e Alicio Garcitoral. Quest’ultimo nel 1930 parlava delle «maschere» del Duce, che da agitatore antiborghese si era messo in tutto e per tutto al servizio della borghesia. Opinione simile a quella del comunista tedesco Alfred Kurella, che nel 1931 esultava perché a suo dire era caduta «la maschera di Mussolini» e «caduta la maschera, Mussolini è sparito e appaiono i brutti ceffi dei possidenti, degli industriali e dei banchieri, i veri padroni dell’Italia fascista».
Il libro di Gentile non è e non vuole essere a tesi. Ma quel che viene fuori è che (tralasciati i non pochi simpatizzanti esteri del regime fascista, come il giornalista inglese Percival Phillips o l’ex ambasciatore americano a Roma Richard Washburn Child) gli osservatori neutrali, che sono la maggioranza, danno un giudizio più articolato di quello degli antagonisti su quel che accadde in Italia tra gli anni Venti e la metà degli anni Quaranta. Non di rado, un giudizio che contiene qualche concessione.
È il caso di Edgar Ansel Mowrer, corrispondente in Italia del «Chicago Daily News», il quale incontrò Mussolini già nel maggio del 1915 e il 29 ottobre del 1922 fece con lui il viaggio in treno che portò il futuro capo del governo nella capitale all’indomani della marcia su Roma. Grande amico di Giuseppe Prezzolini, Mowrer, pur non avendo grande simpatia per il Duce, scrisse pagine assai acute sull’«inatteso risveglio» del nostro Paese. Mowrer era rimasto colpito da un’affermazione di Francesco Saverio Nitti: «Noi italiani non facciamo rivoluzioni, facciamo discorsi». Effettivamente, aggiungeva il giornalista americano, agli italiani piaceva annunciare intenzioni e «spararle grosse». Tale abitudine, aggiungeva, «sarebbe innocua se non fosse per il fatto che questo gas verbale è di gran lunga più micidiale di quelli usati in guerra, perché crea una cortina tra chi parla e la realtà, dando di questa un’immagine distorta; agli italiani accade di vedere ogni cosa attraverso una cortina fumogena di iperboli, retorica e semplici assurdità».
Stesso discorso vale per lo scrittore inglese Richard Bagot. E per lo studioso francese Maurice Pernot, che attribuiva «la causa originaria del fascismo alla carenza dell’autorità dello Stato nel corso dei primi due anni del dopoguerra»; secondo lui era merito del fascismo aver fatto appello alla nazione affinché la smettesse di piangersi addosso e riacquistasse l’orgoglio assieme alla volontà di riaffermare il proprio ruolo nel mondo, come aveva fatto con l’interventismo, con la guerra e con la vittoria. L’americano Carleton Beals tenne un diario della marcia su Roma e fece acute notazioni su quanto il degrado dei servizi nel primo dopoguerra avesse contribuito all’affermazione del partito fascista: «Condurre affari pubblici richiedeva infinite complicazioni burocratiche, conoscenze influenti ed esborso di denaro… Telefonare era pressoché impossibile, le poste erano nel caos più completo».
Benevoli furono in qualche modo Kenneth Roberts e il riformista George Herron, che deprecò il «sistema tirannico delle leghe rosse» e sostenne le ragioni degli italiani in merito agli esiti della Prima guerra mondiale. Così anche Paul Hazard che, riprendendo le osservazioni di Beals sulla burocrazia, vedeva come gli abitanti dell’intera penisola si attendessero dal fascismo il «miracolo più grande»: «Forse attaccherà i ministri e i burocrati dei ministeri; forse farà comprendere ai burocrati di Roma che “urgente” non vuol dire “sei mesi”; e farà capire agli italiani che le leggi sono fatte per essere osservate, qualunque cosa ne pensino».
L’unica alternativa al fascismo individuata da questi osservatori stranieri, in viaggio per l’Italia all’inizio degli anni Venti, si trovava nel mondo cattolico. Hazard si disse molto favorevolmente impressionato dall’arcivescovo di Milano Achille Ratti (il futuro Papa Pio XI). E dal fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo: «L’istinto delle realizzazioni pratiche è la sua passione», scrisse, «è dappertutto, vede tutto, prevede tutto, interviene al momento opportuno per proporre agli esitanti, agli indecisi, ai confusionari, le soluzioni opportune». E ancora: «Cosa sarebbe il Partito popolare senza di lui? Certamente senza di lui non sarebbe arrivato a un tale livello di prosperità… Don Sturzo lo domina: ne è il dittatore; so che si irrita quando lo si chiama così, e protesta… Diamogli questa soddisfazione e diciamo allora che don Sturzo è un soldato semplice come Napoleone era il piccolo caporale». Ma Hazard previde anche quel che stava per accadere nel nostro Paese. I fascisti, scriveva prima della marcia su Roma, consideravano l’Italia «gravemente ammalata» e «dopo averla salvata, volevano guarirla… spazzando via gli uomini al potere e installandosi al loro posto, ripudiando le istituzioni sorpassate, i metodi invecchiati, le abitudini timide». Ed era bene non farsi illusioni: «Essi vanno diritti a un colpo di Stato, profezia tanto più facile da farsi, dal momento che l’annunciano rumorosamente».
Per il resto, fa notare Gentile, anche un osservatore poco sensibile al fascino mussoliniano come Beals si sentì in dovere di riconoscere che quella del Duce era «una personalità trascinatrice di primo piano» e notò la sua «determinazione calvinistica» che si univa a una sorta di «egoismo cromwelliano»; inoltre «questo leader energico, alquanto dogmatico eppure fantasioso, è diventato sempre più, col passare del tempo, un punto di raccolta attorno al quale può turbinare la corrente emotiva del popolo».
Kenneth Roberts, pur assai critico nei confronti della deriva autoritaria mussoliniana («se tutti gli atti di Mussolini sono costituzionali, allora il monumento di Washington è fatto di caramelle alla menta», ironizzò), riconobbe l’effetto della sua «magia nera» che aveva salvato l’Italia mentre stava precipitando nel gorgo di un disastro finanziario «al cui confronto le cascate del Niagara sarebbero apparse come una placida pozzanghera d’acqua piovana». Gli italiani, osservava Roberts (sfavorevolmente impressionato dal peso che sull’amministrazione pubblica avevano «burocrati che non avevano mai udito il suono di una sveglia»), «non sono abituati a rispettare la tabella di marcia, specialmente (e siamo di nuovo a quel che aveva colpito Beals e Hazard, ndr ) quelli impiegati nell’amministrazione pubblica… Mussolini ha messo fuori dalla burocrazia statale migliaia di impiegati per migliorare l’efficienza degli uffici; il risultato è che ora tutti gli altri sono solerti. Sotto di lui, un ufficio statale italiano appare il luogo più indaffarato del mondo». Anche se, avvertì l’americano Clayton Cooper, in Italia «è più facile fare una rivoluzione che costruire un governo stabile». E, aggiunse Beals, «per quanto forte sia questo Stato, l’Italia è ancora un guscio di noce nel mare tempestoso d’Europa».
Colpisce in questo straordinario libro di Emilio Gentile la diversità tra i giudizi più ingenui e ottimisti degli antifascisti e quelli ben più profondi e realistici degli osservatori che tenevano ben distinta l’analisi dalla battaglia politica. Ma colpisce altresì l’ampiezza di credito che, in virtù di queste analisi, fu dato in sede internazionale all’esperimento mussoliniano. Il che spiega anche i comportamenti non ostili delle supposte potenze antifasciste fino alla metà degli anni Trenta. E anche oltre, in qualche caso.

Voci antagoniste e simpatizzanti nella rassegna di Emilio Gentile
Esce in libreria domani il volume In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri (Mondadori, pagine 360, e 20), nel quale lo storico Emilio Gentile offre un’ampia rassegna dei giudizi che autori esteri di vario orientamento formularono sul fascismo e sul suo capo. Nato a Bojano, in provincia di Campobasso, nel 1946, Gentile è stato allievo di Renzo De Felice. Studioso del fascismo e più in generale del totalitarismo, si è occupato a fondo anche dello sviluppo dell’identità nazionale italiana dal Risorgimento in poi. È uno dei più autorevoli sostenitori della tesi secondo cui il fascismo fu un regime pienamente totalitario. Un saggio di Gentile sul primo conflitto mondiale, L’apocalisse della modernità , uscirà in edicola con il «Corriere della Sera» l’11 dicembre prossimo nella collana «La Biblioteca della Grande guerra».

Repubblica 13.10.14
Nico Stumpo
“Ma la riforma va modificata e nel Pd contino di più gli iscritti”
intervista di G. C.


ROMA «Meglio non mettere la fiducia alla Camera. Se fosse così, tuttavia la voterò ma il Jobs act deve cambiare come ha deciso la direzione del Pd». Nico Stumpo, della minoranza dem, ex capo dell’organizzazione con Bersani, darà battaglia sia sull’articolo 18 che sul partito.
Stumpo, addio “ditta”, ora si costruisce il Pd leggero?
«Il Pd è e deve restare un partito di iscritti e di elettori. Ho sentito dire che vogliamo ridurre gli iscritti perché così i padroni delle tessere ne hanno meno. Ma è una sciocchezza epocale. Meno tessere ci sono, più i padroni delle tessere contano. E poi il costo dell’iscrizione deve essere diverso: un euro per un pensionato, di più per chi se lo può permettere».
Renzi dà poco valore alla comunità- partito?
«Quello che Renzi vuole lo vedremo in direzione il 20. Ma a distanza di 7 anni della nascita del Pd è evidente che un tagliando è necessario. Lo voleva fare Bersani ma poi non ci riuscimmo».
Qual è la strada?
«Non bisogna nascondersi dietro gli elettori delle primarie quando si fanno alcune scelte oppure votare in direzione dove non ci sono neppure gli iscritti».
E quindi vanno riviste le primarie?
«Dobbiamo distinguere i piani. Sarebbe sbagliato tornare indietro: le primarie per le cariche monocratiche istituzionali vanno fatte, mentre gli iscritti devono scegliere i gruppi dirigenti. Sulla scelta del segretario nazionale che è anche automaticamente il candidato premier si deve discutere. Inoltre le primarie vanno riviste nel senso che devono partecipare tutti coloro che si sono registrati entro una certa data, non all’ultimo giorno».
È ancora necessario il partito?
Il Pd non deve morire, è la scommessa politica fatta da tutto il centrosinistra è stata una scommessa fondamentale. E a proposito di iscritti, un Pd del 40,8% deve fidelizzare questo consenso, che altrimenti non è stabile».

La Stampa 13.10.14
Sel prepara la nuova sinistra
Ma i fuoriusciti guardano al Pd
di Francesca Schianchi


Nel nome ci dovrà essere la parola «lavoro». Accanto a sinistra, naturalmente. Ma anche un richiamo di qualche tipo alla «possibilità», a quello che è possibile fare ed essere: la suggestione è quella di Podemos, neonato e subito in ascesa partito spagnolo. Dentro Sel c’è chi già ci sta riflettendo: l’ora X per lanciare il progetto di una nuova formazione di sinistra è la fiducia alla Camera sul Jobs act, considerata altamente probabile, quando il malessere della minoranza Pd potrebbe superare il livello di guardia e cercare uno sfogo fuori dal partito. Ma per qualcuno che sta riflettendo se andarsene dal Partito democratico di Renzi, altri stanno facendo la riflessione opposta: Led, la componente parlamentare nata dalla scissione di Sel e capitanata da Gennaro Migliore, ha una direzione di marcia chiara, verso il Pd. E potrebbe essere domenica prossima il momento buono, quando si terrà l’assemblea nazionale: «In occasione dell’Assemblea potrebbero esserci novità», anticipa Migliore.
Ci sono movimenti in corso, nell’area a sinistra del Partito democratico. Sel è attenta a tutto quello che sta succedendo nell’ex alleato a trazione renziana. «Siamo a disposizione della costruzione di un processo politico più largo», usa un giro di parole il coordinatore Nicola Fratoianni per dire che sì, il partito di Vendola aspetta solo il momento giusto per poter dare vita a una nuova formazione di sinistra più ampia. «Dovremo farlo nella maniera meno tradizionale possibile», mette in guardia però il capogruppo Arturo Scotto.
Qualcosa di nuovo, dunque, con un leader nuovo da contrapporre a Renzi: e il pensiero di tutti, dentro Sel, va a Maurizio Landini, il segretario della Fiom che sabato scorso ha partecipato alla loro manifestazione. «Un leader nei fatti, perché è principale punto di riferimento sociale di un’area», spiegano, «ha carisma, e sarebbe un federatore» di quell’arcipelago di sigle e associazioni che stanno a sinistra. Ma, al momento, non sembra volersi buttare nell’avventura. E infatti si stanno facendo altre ipotesi, ad esempio Civati. Qualcuno fa anche il nome dell’ex viceministro Fassina. Ma, per loro, resta innanzitutto da decidere se abbandonare il Pd. «A sinistra, la parola scissione, quando comincia a girare, non è facile da esorcizzare», predica Scotto.
Civati resta sulle barricate, ma non dice la parola definitiva: «La scissione non dipende da me, ho un sacco di motivi per pensare che dipenda da altri». L’ora X, appunto, il voto sul Jobs act alla Camera.

Corriere 13.10.14
Visco: la disuguaglianza è cresciuta a livelli senza precedenti
Il Governatore di Bankitalia: «Per chi perde l’occupazione è necessaria una rete di sicurezza»
di Stefania Tamburello


DALLA NOSTRA INVIATA WASHINGTON La lunga crisi non ha portato solo la recessione in Italia mettendo a rischio l’intera Europa. Ha fatto danni molto più ampi, «la diseguaglianza è cresciuta a livelli senza precedenti» a livello globale, ha osservato il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, intervenendo ieri al Development commettee, in pratica l’organo esecutivo della Banca mondiale, che ha come principale obiettivo quello di eliminare la povertà nel mondo e di aiutare i Paesi in via di sviluppo. Nel dare l’allarme, Visco avverte però che se «aumentare il reddito è centrale per fuggire dalla povertà», è altrettanto importante concentrarsi su altre necessità come «l’accesso all’elettricità, alla sanità, all’acqua e all’educazione primaria». Bisogna combattere per evitare che la diseguaglianza si trasformi in una forza «distruttrice», tale da «ridurre gli investimenti, diminuire gli incentivi e generare instabilità economica e sociale, così da comprimere infine anche la crescita». Ma non è aumentata solo la disparità di reddito e di condizioni di vita tra Paese e Paese, è salita anche quella all’interno dello stesso Paese. «Nel breve termine in alcune economie avanzate i cambiamenti nel commercio e tecnologici possono aver espulso più lavoratori di quanti il mercato ne abbia saputi assorbire», ha detto Visco, esortando politici e istituzioni a intervenire per «aggiustare la composizione dell’offerta di lavoro investendo in educazione e capacità professionali, non solo per i giovani, ma anche attraverso un processo formativo che duri tutta la vita, in un ambiente che cambia rapidamente». I «profili professionali di maggior valore non sono necessariamente quelli più specializzati, ma piuttosto i più fungibili», ha detto. Visco, nel suo intervento ha anche chiesto di «rimettere in campo gli incentivi alle imprese a investire» ritenendo necessaria un’efficiente rete di sicurezza».
L’emergenza attuale nel mondo però si chiama Ebola, un dramma «che non deve portare all’isolamento dei Paesi coinvolti» hanno affermato il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde e Jim Yong Kim , presidente della Banca mondiale, che ha già stanziato complessivamente da agosto a oggi 400 milioni di dollari per i primi aiuti.

Repubblica 13.10.14
Tasse e multe non incassate mancano all’appello 70 miliardi
Comuni e Regioni a rischio tagli
I dati allarmanti della Corte dei Conti investono anche le Province Alla fine i soldi non riscossi saranno compensati da minori uscite
di Federico Fubini e Roberto Mania


ROMA Per i Comuni sono 33 miliardi di euro, per le Provincie ordinarie sono 7 miliardi, mentre per le Regioni e le Provincie autonome il valore resta indeterminato, ma è sicuramente (di un bel po’) superiore a quota 29,8 miliardi. Il totale dunque arriva a 70 miliardi di euro nella più cauta delle ipotesi. Sono i cosiddetti “residui attivi”, nome burocratico per il più ingombrante degli scheletri nell’armadio della contabilità dello Stato. Dietro i quali c’è un buco potenziale nei conti pubblici ben superiore ai 7 miliardi di euro.
Tecnicamente, si tratta di poste che Regioni, Provincie e Comuni hanno da decenni l’abitudine di riportare all’attivo nei bilanci, in quanto somme da riscuotere: arretrati di tasse, multe non ancora pagate, trasferimenti dal governo non ancora versati o di fondi dell’Unione europea non utilizzati. Sono “residui” perché restano da incassare (almeno) dall’anno prima e una parte importante di essi prima o poi arriverà davvero. Un’altra invece non arriverà mai, specie se i crediti sono vecchi e di fatto inesigibili. Ma con le entrate fasulle si finanziano le spese. Che sono vere però.
I bilanci degli enti locali diventano così il pozzo dei desideri. Prendiamo Roma: nel rendiconto della Capitale per il 2013 sono stati iscritti 408 milioni di entrate sotto la voce multe. Una cifra irrealistica se si pensa che l’anno precedente l’accertato si era fermato a 280 milioni. Roma ha un arretrato di multe non riscosse che supera i 600 milioni di euro, di questi nel 2012 ne sono stati recuperati solo 31 milioni, cioè il 5 per cento. La stragrande maggioranza delle multe non pagate, il Campidoglio, come molti altri Comuni, non le incasserà mai. L’ha detto la Corte dei conti il 21 marzo scorso in un’audizione davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato: «È lecito presumere che una parte non irrilevante di enti comunali continui a conservare tra i propri residui attivi ingenti partite ormai da considerare nella sostanza non riscuotibili, sebbene ancora formalmente non dichiarate inesigibili».
E ancora. Quando l’ormai ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris fece la pulizia del bilancio comunale si ritrovò con un buco di 850 milioni oltre al debito complessivo di 1,4 miliardi delle ventidue società partecipate dal Comune. C’erano poste relative a entrate teoriche attese da oltre vent’anni, quando c’era la prima Repubblica e di federalismo fiscale nemmeno si parlava. I residui attivi dunque abbelliscono il bilancio, nascondono l’irresponsabile immobilismo degli amministratori. Ha scritto l’ex revisore dei conti del Comune partenopeo Gianluca Battaglia, secondo quanto riportato nel libro di Luca Antonini “Federalismo all’italiana”: «Una volta provveduto alla notifica il Comune non si preoccupa più di nulla. Mancano controlli e strutture adeguate. Si fa affidamento unicamente sulla buona volontà dei napoletani». Disarmante. E infatti negli ultimi cinque anni il Comune di Napoli, all’insegna del realismo contabile ma anche della propria inefficienza, ha cancellato circa il 30 per cento delle multe non pagate.
Alessandria è finita in default: nel 2010 dichiarava un ammontare di residui attivi pari al 54,6 per cento delle entrate complessive. Un bilancio scritto sulla sabbia, sostenuto dagli “incasserò”. E ora a pagare sono i cittadini che ricevono meno servizi. Ma anche i dipendenti che si sono visti tagliare le retribuzioni La Giunta Crocetta in Sicilia ha registrato nel bilancio 2013, assai criticato dai giudici contabili per le numerose incongruenze, 15 miliardi di residui attivi di cui ben 11 ereditati dalle precedenti gestioni. In Piemonte, durante la giunta del leghista Roberto Cota, nel bilancio del 2012, prima dello scandalo di Rimborsopoli, risultava una somma pari a 4,13 miliardi di residui attivi. Buona parte dei quali — accertò la Corte dei conti — risalivano a quasi dieci anni prima. Insomma che non si sarebbero mai incassati era chiaro a tutti.
L’ultimo è il dissesto del Comune di Viareggio: oltre 50 milioni di debito. Il sindaco Leonardo Betti (Pd) si è dimesso. In “zona Cesarini” per evitare il disastro la Viareggio Patrimonio, società a cui era affidata la riscossione di tasse e multe, disse che aveva da incassare 103 milioni. Non ci ha creduto nemmeno il sindaco che ha parlato di «finanza creativa», “accontentandosi” dei 27,1 milioni di crediti accumulati solo sulla carta.
Ma la pacchia è giunta quasi al termine. L’operazione-verità della finanza pubblica locale è partita: una legge passata durante il governo di Mario Monti, un decreto del 2011 e un secondo decreto (il 126) approvato il 10 agosto scorso, nella distrazione generale, obbligano le amministrazioni a “fare pulizia”: eufemismo per indicare che molti residui attivi andranno cancellati e faranno emergere un deficit. Se per ipotesi esso riguardasse appena un decimo dei residui attivi oggi reclamati dagli enti, nella stima più cauta, per i saldi dello Stato italiano creerebbe un buco da oltre 7 miliardi da coprire al più presto. È possibile, se non probabile, che nei prossimi anni gli accertamenti in arrivo sui conti delle giunte facciano emergere ammanchi ben maggiori. Di qui la sola certezza dell’intero esercizio: sta per produrre la vera, brutale spending review del Paese, perché governatori regionali, presidenti di provincia e sindaci non avranno altra scelta che tagliare un euro dalla spesa per ogni euro di “attivi” che risultano posticci.
Gli amministratori rischiano di non avere altra scelta. La legge ora prevede un “fondo crediti di dubbia esigibilità”. Nota la Corte dei Conti, che da quest’anno ha poteri più stringenti di controllo sui conti delle regioni: il fondo «potrà accompagnare le amministrazioni in disavanzo ‘nascosto’ verso l’equilibrio». I magistrati contabili non ricorrono a giri di parole, per far capire come i residui attivi di fatto hanno aiutato molti enti a falsificare i bilanci: il basso livello di incasso su di essi, scrive la Sezione autonomie della Corte, «integra un permanente vulnus della consistenza dei risultati economico-finanziari».
Anche per questo, in vista della grande “pulizia”, si stanno facendo i calcoli generali. I residui all’attivo di 7.173 Comuni italiani agli ultimi dati (2012) valevano 33 miliardi di euro, in continuo aumento anno dopo anno. Solo nei comuni campani sfiorano i cinque miliardi, quattro in quelli lombardi e superano i sei nel Lazio: indizio certo di come la grandi città chiudano i bilanci fingendo — si è visto — di credere che stanno per incassare una massa enorme di multe o tasse arretrate. In realtà, stima la Corte, ogni anno va all’incasso solo il 41 per cento dei vecchi residui messi a bilancio (al Sud, il 27 per cento), mentre il resto scivola alla voce “avere” degli anni dopo. Anche se magari quei soldi non si vedranno mai. Per le Provincie, escluse quelle autonome, il conto arriva a sette miliardi.
Ma è sulle Regioni che il calcolo si fa inestricabile. Non esiste una stima credibile della massa totale di residui attivi nei loro bilanci. Non è mai stata pubblicata. Ancora meno è dato sapere quanti di essi siano palesemente inesigibili, cioè falsi. Ma un dato esiste: è il calcolo di quanto le varie Regioni riscuotono ogni anno di quegli arretrati. Una somma colossale, ma in calo: 29,8 miliardi solo nel 2012. Si può ipotizzare che il tasso di riscossione effettiva delle Regioni sia comunque superiore al 41 per cento dei Comuni, intorno al 60 per cento. In questo caso, i residui attivi in mano ai governatori costituirebbero una montagna di circa 50 miliardi di euro. Solo ipotesi (caute), in mancanza di vera trasparenza in merito. Ma se ne saprà di più presto, con la “pulizia” in arrivo e l’”operazione-verità”. Sicuro da oggi è solo che sta per partire una spending review in sordina, molto più profonda (e dolorosa) di quella della Legge di Stabilità.

La Stampa 13.10.14
Alla Camera Magna Carta di Internet
di Juan Carlos De Martin


Da oggi sul sito della Camera dei Deputati è disponibile la prima bozza pubblica di un documento intitolato: «Dichiarazione dei diritti in Internet».
Èla prima volta che un’istituzione parlamentare produce quella che si potrebbe definire una Magna Carta per la Rete. Alcuni paesi, come il Brasile con la legge detta «Marco Civil», hanno adottato leggi ordinarie che trattano dei diritti in Rete. E negli ultimi vent’anni la società civile internazionale ha certamente prodotto molte dichiarazioni e carte aventi come obiettivo quello di tutelare le libertà digitali.
La Dichiarazione promossa dalla Presidenza della Camera, tuttavia, è la prima proposta di «Internet Bill of Rights» proveniente da un Parlamento nazionale, iniziativa che colloca l’Italia all’avanguardia a livello internazionale.
Si tratta di un documento conciso, meno di sei pagine, composto da un preambolo e da quattordici articoli.
Il preambolo sottolinea - con un linguaggio che vuole essere accessibile a tutti - il ruolo ormai cruciale assunto dalla Rete nell’economia, nella cultura, nelle nostre vite personali e più in generale nella società. Davvero «la più grande invenzione del secolo», come l’aveva definita Rita Levi Montalcini.
Tuttavia, la Rete è uno spazio che - per quanto straordinario - rischia di venir snaturato per servire gli interessi del più forte, come sempre capita nella storia quando non si erigono argini a difesa dell’interesse collettivo.
Ecco allora i quattordici articoli che identificano altrettanti diritti in Internet.
Alcuni di questi articoli specificano come tutelare nel contesto della Rete diritti già esistenti, come il diritto alla protezione dei dati personali.
Altri invece introducono nuovi diritti, come il diritto di accesso a Internet, ormai giudicato essenziale per poter essere cittadini a tutti gli effetti. O come il diritto a che le informazioni che si trasmettono e si ricevono in Rete non siano soggette a discriminazioni, restrizioni o interferenze (la cosiddetta «neutralità della Rete»). Importante anche l’articolo dedicato ai diritti degli utenti delle grandi piattaforme online e quello relativo al diritto all’educazione all’uso consapevole e attivo della Rete.
L’ultimo articolo, invece, definisce i criteri per il governo della Rete, toccando sia l’indispensabile dimensione internazionale, sia il metodo con cui produrre norme in materia di Internet.
Il testo pubblicato oggi è dichiaratamente una bozza. Alla commissione di studio, infatti, che ha prodotto la Dichiarazione (composta per metà da parlamentari e per metà da esperti e guidata da Stefano Rodotà) era chiaro fin dall’inizio che si può tentare di definire una Magna Carta per Internet solo col coinvolgimento diretto di tutti gli interessati.
Nei prossimi mesi, quindi, si potrà commentare la bozza di Dichiarazione sia per proporre modifiche al testo esistente, sia per suggerire integrazioni.
Intanto la commissione interagirà non solo con i molti esperti che non hanno potuto far parte dei lavori in questa prima fase, ma anche con i parlamenti di Regno Unito, Francia e Germania. In questi tre paesi, infatti, sono attive commissioni parlamentari dedicate, rispettivamente, alla democrazia digitale, ai diritti in Rete e alla società digitale. Il tema dei diritti in Internet, insomma, dopo anni di incubazione, si sta preparando a entrare in una fase costituzionale, prima a livello di singoli stati e poi inevitabilmente a livello europeo e globale. Solo in questo modo potremmo assicurare che anche le generazioni future possano godere del più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto.

Repubblica 13.10.14
Caterina Malavenda, esperta di diritto dell’informazione
“Su stampa e web incombe una censura indiscriminata”
“Assurdo obbligare a cancellare notizie ritenute diffamatorie senza che un giudice lo abbia stabilito”
intervista di Liana Milella


ROMA «Peggio la toppa del buco». Esordisce così Caterina “Katia” Malavenda, avvocato, esperta di diritto dell’informazione, quando la si interroga sul ddl diffamazione che già questa settimana potrebbe approdare in aula al Senato.
Davvero? È da buttare pure questa volta? Di nuovo dopo 6 anni e tre tentativi andati a vuoto?
«No, qualcosa si può salvare. Eliminare il carcere per i giornalisti che diffamano è sicuramente un fatto positivo. Come la previsione che chi pubblica la rettifica non è punibile».
Tutto il resto? Compresa la rettifica che è una gabbia?
«La rettifica è uno strumento di civiltà, ma non a qualunque costo. Com’è stata congegnata è improponibile. Già con la norma attuale un quotidiano deve pubblicarla in testa di pagina. Con le nuove regole dovrà farlo pure «senza commento, senza risposta e senza titolo», indicando perfino il nome del giornalista “rettificato”».
Il web grida al bavaglio per l’obbligo di cancellare le notizie che diffamano. È possibile?
«È un modo per cancellare la memoria e soprattutto le notizie scomode. Senza che prima una sentenza lo abbia stabilito. È probabile, però, che i siti cancellino piuttosto che rischiare un processo».
Scompariranno centinaia di notizie?
«Un’impennata massiccia delle richieste comporterà un altrettanto significativa scomparsa di informazioni e dati».
Che c’entra distruggere le notizie con la diffamazione?
«Bella domanda, me lo sono chiesto anch’io leggendo il titolo della legge, in cui si parla di “diffamazione, ingiuria e condanna del querelante”. Non c’entra nulla. Bastava fermarsi qui e magari introdurre, accanto al diritto di rettifica, quello di aggiornare le informazioni, lasciando al giudice stabilire quando e su cosa debba cadere la mannaia della cancellazione».
I direttori sono preoccupati perché anche poche righe anonime ricadranno su di loro. Esagerano?
«Hanno ragione. Il direttore online dovrebbe essere sempre collegato con il sito per controllare ciò che viene via via inserito. Quelli radiotelevisivi e del cartaceo rispondono di “scritti o diffusioni non firmati”, quindi anche di necrologi e di inserzioni. Appunto, “gli scritti”. Addirittura è stato introdotto un nuovo reato: quello del direttore che non pubblica la rettifica richiesta dal suo giornalista».
Tra gli emendamenti c’è quello di Casson contro le querele temerarie. È indispensabile?
«Certo. Oggi chi fa causa a un giornalista non rischia nulla, al più se perde paga le spese. Bisognerebbe prevedere invece che chi sbaglia paga, e se la lite è temeraria, chi l’ha promossa deve risarcire i danni».

Corriere 13.10.14
Pompei
«Gli appalti per Pompei vinti sempre dagli stessi»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA C’è un gruppo di imprese che continua a spartirsi gli appalti per i restauri di Pompei. Ditte che in passato si erano aggiudicate alcuni lavori ed evidentemente continuano a godere di una corsia privilegiata, soprattutto potendo contare su una conoscenza delle procedure e dei luoghi che consente loro di presentare offerte al massimo ribasso. La denuncia è contenuta nella relazione trasmessa dal direttore generale del «Grande Progetto» al prefetto di Napoli.
Nessun reato viene contestato, ma il generale Giovanni Nistri — alto ufficiale dei carabinieri nominato nel dicembre 2013 dall’allora ministro Massimo Bray proprio per evitare commissariamenti e gestire in maniera nuova l’emergenza — sottolinea come «relativamente al contributo all’attuazione al protocollo di legalità, si è ritenuto opportuno ricapitolare la situazione delle aggiudicazioni definitive» stabilite dalle commissioni. Anche per verificare se — al di là delle certificazioni rilasciate — ci siano motivi per valutare l’opportunità di mantenere nell’elenco alcune ditte. E tenendo conto che nei mesi scorsi pure la Guardia di Finanza ha avviato accertamenti su delega della Procura di Torre Annunziata. Non a caso Nistri e il suo staff avevano predisposto un elenco di aziende di tutta Italia che avrebbero potuto ottenere alcuni incarichi, ma il “suggerimento” è rimasto inascoltato.
Le quattordici gare
Nel dossier si parte dal 31 gennaio 2013 con i lavori nella «Casa del Criptoportico» e nella «Casa dei Dioscuri» fino all’affidamento di un’indagine per la «mitigazione del rischio idrogeologico». In tutto quattordici gare per un valore complessivo che supera i 25 milioni di euro. Gli appalti più remunerativi sono quelli assegnati il 25 marzo scorso per i «Lavori di messa in sicurezza del Regio VIII» rispettivamente da 5 milioni e mezzo e da sei milioni e 200mila euro entrambi al «Raggruppamento Temporaneo di Imprese-Rti» formato da «Samoa Restauri srl» e «Atramentum srl».
Appena un mese prima un altro incarico, da quasi 4 milioni di euro, era stato affidato a un altro Rti composto dalla «Perillo Costruzioni Generali» e «Atramentum srl». Altrettanto interessanti appaiono gli interventi di messa in sicurezza per i terreni demaniali (oltre 2 milioni di euro) e per gli «apparati decorativi della casa di Paquio» (1 milione e 300mila).
Gli appalti multipli
La «Perillo Costruzioni» si è aggiudicata quattro gare da sola e una in consorzio. Due appalti sono andati alla “Forte costruzioni e restauri”, mentre la “Ccc - Consorzio cooperativo costruzioni” ne ha avuto uno. Ma a colpire sono soprattutto gli intrecci tra le varie ditte.
Scrive Nistri nella relazione: «Le società “Forte” e “Samoa” risultano far parte del medesimo consorzio “Research consorzio stabile società consortile arl” con sede a Napoli fondato nel 2005 dal geometra Francesco Vorro (fino al 2011 amministratore e direttore tecnico della “Tecno Domus Restauri”) e Anna Maria Caccavo (denunciata nel febbraio 2013 per il reato di truffa con riferimento ai lavori di restauro e allestimento scenico del Teatro Grande), già amministratore e legale rappresentante della “Caccavo srl”. Quest’ultima società ha conferito un ramo d’azienda alla “Samoa restauri”. La perizia di stima fu redatta da Giovanni Savalle, rappresentante legale della “Mediterranea spa”».
Gli amministratori
Per approfondire le connessioni tra imprese Nistri ricorda che «la “Mediterranea”, di cui era all’epoca rappresentante Savalle, ottenne l’affidamento in concessione del servizio di ristorazione nell’ambito dell’area archeologica di Pompei da esercitare all’interno dei locali della “Casina dell’Aquila” con decreto commissariale del 27 febbraio 2009». Il decreto fu revocato dal commissario per l’emergenza il 9 ottobre 2009, ma la società vinse il ricorso.
Tra i documenti allegati Nistri inserisce «la nota del 17 aprile 2009 Area1/Antimafia della prefettura di Trapani in cui si evidenziavano gli “oggettivi collegamenti tra i familiari del legale rappresentante della “Mediterranea” e un noto personaggio mafioso».

Corriere 13.10.14
Famiglie spaesate nell’era dei diritti
I matrimoni religiosi passati da 170 mila a 120 mila nel periodo 2004-2013, un crollo non compensato da quelli civili
Ci si sposa sempre più tardi e si tiene sempre aperta la possibilità di cambiare idea
di Mauro Magatti


Mentre la Chiesa Cattolica dedica un Sinodo alla famiglia, la cronaca italiana racconta della polemica sulla registrazione delle nozze gay. Si potrebbe insistere sullo stato confusionale delle nostre istituzioni — con un «municipalismo di fatto» in cui i sindaci decidono autonomamente anche in aperto conflitto col ministro dell’Interno; o della ignavia di un Parlamento che non si arrischia a prendere posizione sui temi della «famiglia» e dei «diritti individuali». Ma è il contrasto tra i registri della discussione a meritare qualche riflessione.
Con buona pace di chi pensa il contrario, non è difficile prevedere che presto l’Italia si allineerà al tipo di legislazione affermatasi in tutto l’Occidente, con il riconoscimento del matrimonio omosessuale, la fecondazione eterologa, il divorzio breve.
Il tutto mentre si registra un crollo del numero di matrimoni religiosi (scesi in 10 anni da 170 mila a 120 mila), non compensato da quelli civili (stabili attorno agli 85 mila), aumento dei divorzi (oggi un matrimonio dura in media 15 anni) e delle convivenze, riduzione del tasso di natalità, crescita dei figli nati fuori dal matrimonio. Si tratta di una mutazione antropologica molto veloce: comportamenti oggi ampiamente accettati erano rigettati dall’opinione pubblica solo dieci anni fa.
A invertirsi è il rapporto individuo-gruppo. Anche nella vita famigliare a prevalere è il punto di vista individuale. La famiglia non è rifiutata in linea di principio (tanto è vero che anche le coppie omosessuali chiedono l’equiparazione delle loro unioni). Ma è adattata alle esigenze e ai percorsi di vita dei suoi singoli componenti. In una dinamica che ha aspetti positivi (si pensi al lento ma inevitabile riequilibrio dei rapporti di genere), a venire rifiutata è l’idea tradizionale, secondo cui il formare una famiglia comporta la cessione, per così dire, di parte della propria sovranità in un disegno cooperativo e intergenerazionale. Al contrario, la famiglia — che di conseguenza radicalizza i suoi tratti affettivi e emotivi — è vista oggi come un terreno tra gli altri (professionale, amicale...) di realizzazione individuale. Per questo ci si sposa più tardi (dopo i 30 anni), si tiene aperta la possibilità di ricominciare (anche in età avanzata), si praticano le proprie personali preferenze sessuali, si parla del «diritto» ad avere un figlio, desiderato e programmato. È dunque l’individualismo che penetra dentro la famiglia e la ridefinisce in base alle proprie esigenze.
Comunque la si valuti, tale mutazione è una delle cause del blocco demografico dell’Occidente. Basti citare il caso clamoroso della Germania, dove nonostante l’elevato livello di benessere, il tasso di fecondità è precipitato a 1,3 figli per donna. In molti Paesi, si cerca di arginare il problema con politiche a sostegno della natalità, che prescindono dalla forma e natura della famiglia. Azioni che, anche quando riescono a limitare il declino demografico, non sono in grado di risolvere il problema. Senza contare che la concentrazione del disagio sociale aumenta dappertutto proprio tra i minori, anche a causa dell’aumento dei nuclei monogenitoriali che espongono i bambini a una forte vulnerabilità scolastica ed economica.
In sostanza, questa rapida transizione apre un interrogativo di fondo, di cui l’unica a curarsi sembra la Chiesa Cattolica: nella misura in cui la famiglia ha storicamente costituito la forma sociale che ha governato il delicatissimo processo della generazione, è possibile, come oggi si tende a pensare, farne a meno? Rispondere a questa domanda è molto difficile e richiederebbe un dibattito aperto, libero da pregiudizi ideologici.
Da quanto accaduto in questi decenni sappiamo che la conclamata crisi della famiglia non è priva di conseguenze sugli equilibri della vita sociale. E che sul punto le società avanzate saranno costrette a tornare. A meno di accettare passivamente la strada dell’estinzione demografica o la via di un modello basato sulla radicale tecnicizzazione della sfera riproduttiva. Via che aprirebbe la strada all’uomo Uno, che viene al mondo privo del suo costitutivo legame sociale. Due scenari preoccupanti di cui occorrerà discutere, superando l’angoscia, tutta contemporanea, che il legame, di qualunque specie, sia per definizione nemico della libertà.

Repubblica 13.10.14
Nozze gay, Marino annuncia “Sabato le trascriverò io stesso”
di Carlo Picozza


ROMA «Sarò io, sabato prossimo, a trascrivere nei registri del Comune le prime unioni gay celebrate all’estero». Parola del sindaco di Roma, Ignazio Marino, in un’intervista a Maria Latella per Sky Tg24. E i primi gay a essere registrati come coppia nello stato civile del Campidoglio saranno Dario De Gregorio e Andrea Rubera, 50 e 49 anni.
Con l’annuncio della sua “disobbedienza civile” il primo cittadino ha lanciato il guanto di sfida al ministro Angelino Alfano (Interno) che, in una circolare, aveva prescritto ai Comuni di non trascrivere le unioni tra omosessuali celebrate all’estero, pena «l’annullamento d’ufficio degli atti illegittimamente adottati». Una sfida a tutto campo: «Il Parlamento, timido su tutti i temi che riguardano la vita delle persone, è rimasto indietro nell’Europa continentale». «Solo la Grecia e noi», ha argomentato, «non abbiamo ancora una legge: al contrario di Portogallo, Inghilterra, Francia e Germania, negli ultimi vent’anni non abbiamo neanche affrontato il problema». «Ora, oltre che parlarne, si approvi la legge sulle unioni civili: il Parlamento non è un centro studi che può limitarsi a dibattere le questioni, a un certo punto deve decidere». Unioni gay e non solo: «La scomparsa di Eluana Englaro», ha rincarato Marino, «fu accompagnata dall’invocazione di una legge entro 30 giorni: sono passati 5 anni e non c’è uno straccio di carta che guidi il Paese su un tema importante come quello della morte».

Corriere 13.10.14
Made in Italy? Non solo lusso
Il Dragone apre la caccia da noi
di Dario Di Vico


Il rallentamento, pur relativo, dell’economia cinese che conseguenze ha sulle nostre imprese? Nei convegni a tema e nelle associazioni imprenditoriali la domanda è ricorrente e nasconde una certa inquietudine perché con la domanda interna italiana pressoché ferma lo sbocco verso il mercato cinese ha oggi un valore inestimabile. La risposta che viene dagli analisti è però tranquillizzante.
I consumi delle famiglie non scenderanno, anzi l’enfasi della politica economica cinese è proprio riposta sullo sviluppo del mercato interno. La Cina di Xi Jinping non vuole dipendere in toto dalle esportazioni verso l’estero ma pone al centro della sua azione la lotta alle disuguaglianze. Non è un caso che si sia cominciato a pubblicare anche a Pechino l’arcinoto indice di Gini con il quale gli statistici occidentali misurano il grado di disparità dentro le nostre società. Insomma la struttura sociale cinese dei prossimi anni dovrebbe essere meno polarizzata e l’urbanizzazione della popolazione dovrebbe andare di pari passo con maggiori consumi e con l’accesso a nuovi servizi come la sanità. Le classi medie sulle quali il Made in Italy ripone molte speranze continueranno a crescere, non sappiamo se con l’intensità che era stata pronosticata da un famoso studio della McKinsey, comunque la tendenza non sembra destinata a interrompersi e il fatto che la Cina da Paese eminentemente produttore passi ad essere un Paese consumatore non può che farci piacere. E autorizzare — secondo quanto riportato dal Centro Sudi della Fondazione Italia-Cina (Cesif) — i progetti di espansione commerciale delle nostre imprese del food, della ceramica, dell’automotive e quant’altro.
Se c’è un mercato invece che segna il passo è quello del lusso. Il nuovo corso di Pechino ha lanciato una campagna più severa che in passato contro la corruzione e per la sobrietà dei funzionari di partito e come conseguenza sono stati drasticamente ridotti quei «regali di rappresentanza» che hanno rappresentato per anni una ghiotta opportunità per le grandi case del lusso italiane e francesi. Ciò non vuol dire però che le aziende italiane debbano abbandonare la cura della fascia alta del mercato, resta quella comunque la via maestra per entrare in Cina con speranze di successo e il segmento che permette le maggiori soddisfazioni è rappresentato dai consumatori con un reddito annuo superiore ai 12 mila dollari. Un target concentrato per lo più nelle città di Pechino, Shanghai, Guangzhou e Shenzhen.
Accanto però a questo mercato per le imprese italiane si stanno ampliando gli spazi per vendere in Cina prodotti e servizi per la modernizzazione e la crescita sostenibile del Paese. I cinque settori prioritari di investimento individuati dalle autorità sono l’agro-industria, il sanitario, l’ambiente, l’avionica e l’urbanizzazione sostenibile.
Le opportunità non mancano non solo per la nostra meccanica e per l’agricoltura — che già occupa una posizione di leadership — ma anche per le public utilities che individuano come obiettivo di insediamento il mercato dei servizi idrici, elettrici e di gestione dei rifiuti. Certo, niente è automatico e facile. In Cina ormai sono presenti tutti i grandi player del mondo, la competizione avviene al massimo livello e diventa decisivo dispiegare quella che nel linguaggio del business si chiama la value proposition , il valore aggiunto di un’azienda. Se, esaminati i flussi dall’Italia verso la Cina, facciamo il percorso inverso non possiamo che constatare come il 2014 si stia rivelando l’anno della grande svolta. Fino al 2013 i flussi di capitali cinesi verso l’Italia erano tutto sommato marginali e invece in pochi mesi abbiamo assistito a una decisa accelerazione. Innanzitutto sono partiti i grandi investimenti di portafoglio e hanno riguardato Eni, Enel, Generali, Pirelli, Prysmian, Fiat. In qualche caso con quote superiori al 2% e quindi rese note dalla Consob. Scelte di investimento che veicolano insieme amicizia e soft power e che la Fondazione Italia-Cina giudica molto positivamente. Ma non è tutto. Si sono mosse anche le grandi aziende di Stato e il colpo più significativo è stato sicuramente l’acquisizione da parte di State Grid Corporation of China, una sorta di Enel cinese, del 35% di Cdp Reti per un investimento superiore ai 2 miliardi. Qualche mese prima la Shanghai Electric era entrata in Ansaldo Energia con il 40% sborsando 400 milioni di euro. Già da sola quest’ultima operazione superava l’intero ammontare degli investimenti cinesi in Italia dell’anno precedente. Ma oltre agli impieghi finanziari il 2014 ha visto intensificarsi gli investimenti diretti in aziende.
L’operazione più rimarchevole è sicuramente l’acquisizione della veneta Acc Compressor da parte del Wanbao Group di Guangzhou ma proprio pochi giorni fa è stata la volta dell’olio con il passaggio della lucchese Salov (che vanta i marchi Berio e Sagra) nel portafoglio del Bright Food. Basta elencare tutte queste novità per avere immediatamente l’impressione che sia scattata da qualche mese a questa parte una fase ancora inedita dei rapporti Cina-Italia, Pechino sembra per certi versi credere nel nostro Paese più di quanto lo facciamo noi.

Il Sole 13.114
Il premier cinese da domani in Italia per il vertice Asem
«L'albero sempreverde dell'amicizia tra Cina e Italia»
Le relazioni tra i due Paesi stanno entrando in una fase di sviluppo più profondo
di Li Keqiang


Sono lieto di visitare un Paese bello come l'Italia e di partecipare, in questa stagione autunnale, al decimo vertice Asem. Spero che la visita possa contribuire ad ampliare e ad approfondire una fattiva cooperazione in vari campi tra Cina e Italia e ad aprire un nuovo capitolo nell'amicizia e nella collaborazione tra i nostri due Paesi.
L'Italia è un Paese affascinante. Il magnifico Colosseo dell'antica Roma, il maestoso Pantheon, gli squisiti tesori artistici del Rinascimento e il prestigio del design e della moda italiani rivelano l'essenza dello spirito nazionale del popolo italiano, capace di grandi aperture, di partecipazione, imprenditorialità e innovazione.
Guidata da questo spirito, l'Italia ha imboccato la strada di riforme coraggiose per affrontare la crisi del debito europeo. L'economia italiana si sta rapidamente riprendendo, mostrando vigore e vitalità.
Fin dai tempi antichi Cina e Italia hanno rappresentato l'eccellenza delle civiltà orientali e occidentali. Situate alle due estremità della famosa Via della seta, abbiamo costruito un legame di reciproco rispetto e ammirazione. Siamo amici con la stessa visione e una lunga storia di amicizia e di impegno che dura da generazioni. Con il tempo la nostra tradizionale amicizia è ulteriormente cresciuta creando un albero rigoglioso.
Quest'anno ricorre il decimo anniversario del partenariato strategico globale tra Cina e Italia e, l'anno prossimo, celebreremo il 45° anniversario delle relazioni diplomatiche. Le relazioni Cina-Italia stanno entrando in una nuova fase di sviluppo più ampio e più profondo, in grado di fornire maggiori benefici a entrambi.
Premier del Consiglio di Stato
della Repubblica popolare cinese

Il Sole 13.10.14
Gli obiettivi della missione cinese in Italia
Cinque aree di collaborazione
di Rita Fatiguso


È la prima volta di Li Keqiang in Italia, a quattro anni dall'arrivo del predecessore Wen Jiabao, accolto a Roma per le celebrazioni dell'anno della Cina in Italia.
Da domani, inizio della visita di Stato del premier, sarà l'economia a rubare la scena agli scambi culturali: sono stati mesi tremendi per l'Europa e per l'Italia e l'arrivo di Li Keqiang è l'occasione buona per cercare di riequilibrare i rapporti di forza tra i due Paesi.
Il premier cinese ricambia la visita del primo ministro Matteo Renzi a Pechino e approda in Italia, tra Roma e Milano, dove parteciperà al decimo vertice tra Europa e Paesi asiatici, sull'abbrivio di rapporti bilaterali che, negli ultimi mesi, si sono molto intensificati.
Visite, delegazioni, incontri bilaterali, diplomazie all'opera. Un lavorio coronato da un buon segnale che proviene dall'economia, in particolare il dato dell'interscambio tra i due Paesi che registra una crescita a doppia cifra, dell'11 per cento, da gennaio ad agosto, rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.
Questa crescita è stata enfatizzata a Pechino nella conferenza stampa di presentazione del viaggio in Europa di Li Keqiang, di cui l'Italia è una tappa, l'ultima, dopo Germania e Russia.
Alla Cina non piace l'idea di un mercato europeo indebolito, di qui la continua pressione sui Paesi europei per creare tra di loro la competizione per attrarre investimenti. L'Italia non è stata a guardare, sapeva di doversi rimettere in pista velocemente, anche per questo il viaggio di Li adesso è un'occasione per riuscire a riequilibrare le forze in campo, dare impulso al business, perfezionare le regole del gioco correggendo le anomalie reciproche.
Tra queste un interscambio che penalizza gravemente l'Italia. Non sarà facile ribaltare i numeri, lo dimostrano i dati del deficit commerciale italiano, uno sbilancio da 13 miliardi che non si colma in pochi mesi, ma è questa la principale asimmetria da correggere.
Ben tre visite di governo in pochi mesi su temi economici dall'inizio dell'anno, la creazione di un business forum tra Italia e Cina e la firma di numerosi accordi di tra cui il memorandum d'intesa che il Ministero dello Sviluppo Economico ha siglato con il Ministero del Commercio cinese nel quale si indicano esplicitamente i settori particolarmente critici per lo sviluppo cinese nei prossimi anni e per i quali il sistema produttivo italiano è in grado di fornire risposte.
Questo accordo ha rappresentato il momento clou di un percorso guidato soprattutto dall'ambasciata di Pechino durante il 2013 e che ha portato un drappello di 130 imprenditori italiani e cinesi a incontrarsi lo scorso mese di giugno presso l'Assemblea del Popolo a Pechino.
La lotta al disavanzo è diventata un mantra. La strategia proposta per il raggiungimento di questo obiettivo ambizioso è stata semplice, ma anche complessa da gestire: concentrare gli sforzi in cinque ambiti nei quali la Cina esprime ed esprimerà una domanda sostenuta di beni e tecnologie di alto livello a cui il sistema produttivo italiano è in grado di offrire soluzioni: ambiente e energie rinnovabili, sanità e servizi sanitari, agricoltura e sicurezza alimentare, urbanizzazione sostenibile, aviazione e aerospazio.
Tutte macroaree finite nel memorandum di intesa tra Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero del Commercio cinese, con la sigla dei ministri Federica Guidi e Gao Hucheng in occasione della visita di Matteo Renzi a Pechino.
Non solo, c'è stata l'aggiunta del Business forum, una piattaforma leggera gestita da Confindustria e Ice da un lato e dall'Associazione delle imprese cinesi e della Camera di commercio internazionale dall'altra che ha il compito di intercettare e riuscire a mettere a segno i business utili. Perché adesso è l'ora di stringere accordi e di raccogliere frutti, in piena estate il mercato ha fatto la sua parte con lo shopping di azioni di aziende italiane da parte delle autorità monetarie cinesi, adesso si dovrebbe passare dalla raccolta di azioni sul mercato agli investimenti industriali, alle sinergie e ai rapporti di reciproco interesse anche per costruire un futuro percorso comune.
Li Keqiang ha mostrato a Pechino grande interesse per l'Italia e per le opportunità di business offerte da un sistema che resta tra i primi in Europa nel manifatturiero e pur sempre grande fonte di innovazione e creatività. Queste aperture cinesi all'Italia sono un segnale di collaborazione che non può più essere sprecato.

Il Sole 13.10.14
Italia-Cina
Da Piazza Affari ai titoli pubblici: lo shopping della Bank of China
Gli investimenti in aziende italiane quotate oggi superano i 7 miliardi
di Rita Fatiguso


PECHINO. È stato lo stesso Governatore della People's bank of China Zhou Xiaochuan a ripeterlo, alla presenza del Chief investment officer di Safe, l'ente che gestisce le riserve valutarie cinesi: Zhou, durante gli incontri che ha avuto nel mese di giugno prima con il premier Matteo Renzi, poi con il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, ha ammesso l'interesse della Cina per i mercati europei e per quello italiano in particolare.
Tutto ciò a dispetto della crisi del debito sovrano che continua a impazzare e a turbare i sonni del Vecchio Continente.
Lo shopping è in corso, con l'effetto che negli ultimi mesi c'è più Cina in Italia. Detto fatto. Gli investimenti in aziende quotate sul mercato italiano sarebbero superiori a 7 miliardi di euro e una cifra non quantificata (ma anche maggiore) sarebbe stata investita in titoli governativi italiani.
Gli acquisti, dopo le mosse su Eni ed Enel, sono proseguiti all'inizio di agosto, quando si è registrata una raffica di comunicazioni alla Consob di superamento della soglia del 2 per cento in Telecom Italia, Prysmian, Fiat Chrysler e Generali. In quest'ultimo caso l'investimento è stato di poco meno di mezzo miliardo di euro, ma va detto che si partiva da una partecipazione molto ridotta.
Di fatto, l'intensificazione dei rapporti economici tra i due Paesi ha prodotto una serie di investimenti sia diretti sia di portafogli. Un esempio? Al solo gruppo Cassa Depositi e Prestiti si possono condurre alcuni investimenti sia diretti sia di portafogli da due miliardi e mezzo di euro.
All'Italia che ha, purtroppo, un deficit da 13 miliardi di dollari con la Cina tanto attivismo non può che essere gradito. Anche perché la Cina ha bisogno di diversificare il proprio portafogli per ridurre il peso delle attività denominate in dollari. L'Italia comunque vanta asset tecnologici importanti che fanno gola a Pechino e che si prestano a questa attività di diversificazione del paniere degli investimenti.
L'accordo siglato con Pechino l'anno scorso sulla collaborazione tra i due Paesi ha avuto anche il merito di indicare chi dovrà sviluppare i progetti che potranno essere concertati tra Italia e Cina: tra questi rientrano Cassa Depositi e Prestiti, China Investment Corporation, China Development Bank (CDB, la maggiore banca di sviluppo cinese), Export Import Bank of China (Exim, banca di sviluppo concentrata sul credito all'esportazione) e China Export & Credit Insurance Corporation (Sinosure, l'agenzia che si occupa di assicurare i crediti all'esportazione e gli investimenti esteri cinesi). Non è poco.
Fondo Strategico Italiano e CIC vengono inoltre invitati esplicitamente a sviluppare possibilità di cooperazione per rafforzare le relazioni bilaterali e promuovere gli investimenti nell'interesse dei due Paesi.
Quattro mesi fa a Pechino è stato creato inoltre il Business forum il cui direttivo si riunirà per la prima volta a Roma domani. Gestito da Confindustria e dall'Ice, mentre la controparte cinese è il Ministero del Commercio e il Chinese Council for the Promotion of International Trade (CCPIT), quando si è riunito per la prima volta all'Assemblea del Popolo in occasione della visita del premier Renzi lo scorso giugno ha dimostrato le sue potenzialità: sono stati firmati numerosi contratti e accordi di collaborazione per un valore di oltre un miliardo di euro.
L'arrivo del premier Li Keqiang dovrebbe contribuire a saldare questi rapporti e a incentivare nuovi acquisti. A differenza di qualche tempo fa, i meccanismi, ora, ci sono.

Il Sole 13.10.14
La comunità cinese. L'identikit
Terzi per numero e primi per rimesse
di Rossella Cadeo


Sono al terzo posto tra i cittadini extra-Ue regolarmente soggiornanti in Italia: su circa 3,9 milioni censiti dall'Istat al 1° gennaio scorso, 321mila (quasi uno su dieci) sono cinesi (li precedono solo marocchini e albanesi). Per circa un quinto si concentrano in Lombardia (come peraltro la maggior parte delle collettività straniere, per ovvi motivi occupazionali) e per il 17% in Toscana (soprattutto nel settore tessile). Anche per numero totale di ingressi la Cina si mette in evidenza: con oltre 20mila arrivi (su un totale di 256mila) nel 2013 – sempre secondo le rilevazioni Istat – è preceduta solo dal Marocco.
Pochi sembrano invece i cinesi interessati a ottenere un permesso di lungo periodo (documento che consente di evitare l'onere del rinnovo): meno della metà, a differenza di tutte le altre comunità dove la percentuale di "lungo soggiornanti" supera l'80%.
Altri dati utili a tracciare l'identikit di questa collettività vengono dalle elaborazioni della Fondazione Leone Moressa. Che ci dicono ad esempio che è bassa la percentuale di laureati (solo il 2,2% contro il 9,5% degli stranieri in generale e del 15% degli italiani). Questo non impedisce loro di trovare lavoro. Il tasso di occupazione si avvicina al 70%, parecchi punti oltre la media degli stranieri (57%) e degli italiani (42%). Quanto ai principali settori di impiego, le statistiche confermano quello che è la percezione quotidiana: il commercio assorbe un terzo dei lavoratori oltre i 15 anni, seguito dalla ristorazione. Oltre che dall'operosità, un altro aspetto distintivo è la vocazione a «fare impresa»: nel 2013 – sempre secondo Fondazione Moressa – sono 66mila gli imprenditori cinesi in Italia (quasi un decimo del totale degli imprenditori stranieri), in crescita del 43% rispetto al 2008.
Restano invece inferiori alla media i dati relativi al reddito: nel 2012 solo 8mila euro l'importo pro capite dichiarato (13mila euro la media per quanto riguarda tutti i nati all'estero, Ue ed extra-Ue) e, pur in forte crescita rispetto al 2011, meno di 2.400 euro l'Irpef pagata (la media è pari a 3mila).
Infine, un altro record degno di attenzione, ossia il denaro inviato "a casa": ai 5,5 miliardi di euro di rimesse complessivamente trasferite nel 2013 dall'Italia in tutto il mondo, la Cina ha contribuito per oltre un miliardo. L'ammontare delle rimesse è però in netto ridimensionamento rispetto al 2012: -20% il totale, calo sul quale ha pesato il 60% in meno registrato dalla Cina. Un segnale, questo, di come la crisi degli ultimi anni non abbia risparmiato nessuno.

La Stampa 13.10.14
Isis, Perché i turchi non scendono in campo
di Mimmo Candito


Ma perché, dannazione, perché i turchi se ne stanno lì, con i loro carri armati, i loro cannoni, i loro soldati.
Lì a godersi lo spettacolo dei jihadisti dell’Isis che davanti ai loro occhi scannano i peshmerga di Kobane, e nessuno si muove. Non un carro, non un fucile; nessuno. Ma è un pazzo quell’Erdogan, che dice e blatera che bisogna intervenire e però nemmeno ci pensa a ordinare ai suoi di attaccare quegli sgozzatori che pure si vedono lì di fronte, che quasi li tocchi?
No, no, Erdogan non è per niente un pazzo, sa bene quello che vuole: parla per salvare la faccia, e però tiene il freno tirato. E comunque non si muove nessuno – non lui soltanto - perché a comandare l’inerzia di fronte al massacro c’è quella fredda bestia della Realpolitik, che non gliene potrebbe fregare di meno di tutti gli scuotimenti d’animo che tormentano questi giorni di immagini disperate.
I peshmerga «devono» morire, perché la Turchia deve salvare la propria identità kemalista, e perché i curdi sono una minaccia di destabilizzazione che perfino un Iraq e una Siria oggi al di fuori di qualsiasi stabilità appaiono, al loro confronto, un’oasi di tranquillità.
La Turchia moderna, erede dell’Impero Ottomano sconfitto e smembrato nella Prima guerra mondiale, nasce negli Anni Venti con un’impronta ideologica molto rigorosa, dettata dal leader dei giovani ufficiali ribelli, Kemal Pasha Ataturk. Il Padre dei turchi volle che il nuovo Stato nazionale non avesse alcuna delle stimmate che, secondo lui, avevano portato alla sconfitta della Sublime Porta, due soprattutto: un eccesso incontrollabile di nazionalità e di etnie all’interno della sterminata geografia imperiale che andava dall’Atlantico fin quasi alla Cina; e poi (lui che ammirava l’Europa e aveva studiato con passione la pace di Vestfalia) una commistione teocratica inestricabile tra potere religioso e potere politico, che rendeva lenta, macchinosa, e indifendibile, ogni gestione efficace di un Paese a fronte alla modernità che stava cambiando la faccia del mondo.
Dunque: la nuova Turchia sarebbe stata fatta soltanto da «turchi»; e quanto al potere politico - lui stesso, Kemal Pasha – questo non avrebbe avuto alcunché da spartire con il vecchio sultanato di Tokpapi. Il primo atto, la «Turchia dei turchi», comportava la pulizia etnica e lo sterminio di ogni altra nazionalità residua all’interno del nuovo Stato, con il conseguente massacro degli armeni, l’esilio dei greci dall’Asia minore, e la condanna dei curdi (diventeranno presto puri impegni di carta scritta l’accordo Sykes-Picot e il Trattato di Sèvres e di Losanna, che pure riconoscevano in qualche misura una nazionalità armena e una curda).
E quanto alla rottura con il passato, Kemal cancellava ogni traccia pubblica dell’islamismo, aboliva il fez, il velo, perfino le lettere e i numeri dell’alfabeto arabo, sostituiti da quelli latini, e introduceva un codice di giustizia che ignorava la sharia e veniva elaborato sulla base giuridica degli Stati europei, soprattutto quello italiano e quello francese.
Perciò, se oggi i peshmerga di Kobane, che pure si battono con eroismo e chiedono aiuto al mondo, possono però essere un elemento di eventuale contaminazione con la pulizia etnica imposta ai «turchi» un secolo fa, ebbene, allora che muoiano pure. I carri armati, i cannoni, e i soldati con i loro binocoli che guardano dalla collina, non si muoveranno di un solo centimetro da dove li stiamo fotografando ammutoliti e sconcertati.
Ma la storia è, anche, assai più complessa. I curdi sono una popolazione di più di 30 milioni, sparsi in una rete di frontiere dopo il Sykes-Picot tra la Turchia (quasi 20 milioni), l’Iraq (5 milioni), l’Iran (6 milioni), la Siria (1 milione) più la diaspora europea. Un popolo che avrebbe – numericamente – ben più forza di rivendicazione degli appena 5 milioni di palestinesi, e però a differenza dei palestinesi, non ha voce pubblica perché Allah lo ha fatto nascere e vivere su un mare di petrolio, un mare da cui prendono fiumi di dollari un po’ tutti, ma soprattutto Iran (35 per cento della sua produzione) e Iraq (65 per cento). Lasciare un qualche spazio di manovra a un nazionalismo curdo aprirebbe le porte dell’inferno per le geostrategie globali, e scatenerebbe una guerra mondiale dell’energia, tanto più che nel caos ereditato dall’Iraq post-Saddam i curdi iracheni si sono già presi con l’aiuto americano una buona fetta di autonomia politica, possibile radice di un vero «nazionalismo» transfrontaliero; e, dunque, bisogna tenere i curdi sul filo, ma non fargli mai montare troppa speranza, per evitare la deflagrazione che nessun potere internazionale oserebbe mai immaginare, anche quando sbandiera difesa dei diritti umani e riconoscimento della sovranità dei popoli. Tutto ciò si chiama, appunto, Realpolkitik.
A questi due fattori interni, si aggiungono poi le frammentazioni create dalla guerra ad Assad con le varie fazioni in guerra tra di loro, la lotta senza quartiere tra sunniti e sciiti, gli interessi strategici dell’Iran appostato sull’angolo, e anche la evidente perplessità americana a inguaiarsi troppo in una destabilizzazione che davvero accenderebbe il mondo.
A fronte di tutto questo, Kobane è appena un piccolo punto nero sulla carta geografica. Null’altro.

Repubblica 13.10.14
Kobane al collasso “Servono aiuti” Diecimila jihadisti alle porte di Bagdad
Nella città al confine con la Turchia acqua razionata e ambulanze ferme “Ormai scarseggiano anche i medicinali”
di Alberto Stabile


SURUC «Abbiamo parecchi feriti, alcuni molto gravi. Le medicine, soprattutto la morfina, cominciano a scarseggiare. Ci sono migliaia di civili intrappolati che sopravvivono con una razione di acqua e di cibo al giorno. La cosa più importante dal mio punto di vista di medico è che la Turchia apra il confine in modo che gli aiuti possano arrivare a Kobane».
Mohammed fa parte di un piccola squadra di medici e infermieri curdi entrati a Kobane clandestinamente per portare aiuto alla gente. La loro, chiamiamola, sortita umanitaria ci era stata preannunciata qualche giorno fa da uno dei componenti della squadra. In realtà per molti di questi medici e infermieri si tratta di un ritorno, perché si trovavano a Kobane da mesi, e alcuni da una vita, ma quando è cominciata l’offensiva dei jihadisti e i tre ospedali della zona sono diventati impraticabili, anche loro si sono uniti al grande esodo della popolazione. «Abbiamo aspettato, invano, che le autorità di frontiera ci dessero il permesso di rientrare. Ma non è successo. Allora abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa e due sere fa siamo passati. Abbiamo trovato un disastro. Nel centro della città si combatte strada per strada, direi quasi casa per casa. L’energia elettrica è stata tagliata, l’acquedotto è stato fatto saltare. Un po’ d’acqua arriva soltanto da qualche pozzo privato».
Per fare un esempio, domando, ieri quanti feriti avete ricevuto? «Non sono autorizzato a fornire numeri. Possono dirle soltanto che la nostra è una piccola struttura, niente di più che un posto di pronto soccorso che, a causa dei combattimenti, siamo costretti a spostare continuamente. Il dramma è che moti feriti non sono trasportabili perché rischierebbero di morire». Non avete ambulanze? «Le ambulanze ci sono, ma sono ferme alla frontiera». E le medicine: «Abbiamo bisogno di tutto, a cominciare dalla morfina».
Si può dire che la famiglia di Mohammed sia passata attraverso le fiammate di questa guerra sin dal momento in cui i jihadisti dello Stato islamico hanno messo nel mirino i curdi siriani, accusati di avere complottato con il regime di Assad per ottenere una sorta di autonomia in cambio della loro neutralità nella rivolta contro Damasco. I parenti di Mohammed vivevano a Tal Abyad, una cittadina di 15mila abitanti, come Kobane, nei pressi del confine con la Turchia. «Quando i miliziani, 15 mesi fa, si sono presentati a Tal Abyad c’è stata una schermaglia con le unità curde di autodifesa. La casa di mio zio è stata bruciata. Quelle dei suoi figli sono state requisite e date come alloggio ai jihadisti stranieri». È così che per molti curdi, Kobane è diventata l’ultimo rifugio.
Sull’altro fronte della grande avanzata dell’Is, l’Iraq, le ultime notizie le ha diffuse nella tarda serata di ieri il sito di Al Arabiya: «Circa 10mila jihadisti sarebbero alle porte di Bagdad, pronti a sferrare un attacco alla capitale irachena», riporta il sito che cita un alto funzionario governativo iracheno intervistato dal quotidiano britannico Telegraph . E l’ufficiale più alto in grado delle forze armate Usa, il generale Martin Dempsey, capo degli Stati Maggiori Riuniti, torna a rompere le righe rispetto alla Casa Bianca sulla natura della missione dei soldati in Iraq. Dempsey ha suggerito che i “consiglieri militari” (la dizione che indica le truppe americane schierate in Iraq) con ogni probabilità dovranno assumere un ruolo più diretto nelle operazioni di terra contro l’Is una volta che le truppe irachene saranno pronte ad andare all’offensiva contro il califfato.

La Stampa 13.10.14
“Birmingham non è Malala. Siamo noi islamici le vittime”
La radicalizzazione dilaga nella città dove vive la premio Nobel colpita dai taleban
di Francesca Paci


Lui, 24 anni, barba importante, inglese impeccabile: «Ero partito con un convoglio di aiuti umanitari. Ad Aleppo ho trovato cadaveri nelle case, sangue, panico. Dopo 20 giorni ho fatto retromarcia». Lei, 23 anni, ex studentessa modello: «Sono andata in Siria pensando al paradiso ma lì c’è l’inferno». Riusciti a tornare, i due, che non si conoscono, si celano all’ombra di Birmingham, la prima città anglosassone per numero di extracomunitari dove nel 2020 potrebbe non esserci più una maggioranza bianca.
Lui e lei hanno paura. Tutti ne hanno nei ghetti dell’ex capitale della rivoluzione industriale in cui la manifattura pesa meno del 10%, la disoccupazione è oltre la media e invece dei pub trovi bazar tipo All Hijab. Da quando gli 007 di Londra hanno definito i connazionali arruolati in Siria «la peggior minaccia dal 2003» i musulmani, 1 ogni 4 abitanti, sono in trincea. Le donne, velate senza eccezioni, affrettano il passo. I pochi uomini che parlano abbassano la voce.
«I crimini dell’Isis mi ripugnano ma non è giusto incolpare l’intera comunità» nota il commesso di Amsons Islamic Lifestyle, sorta di Harrods halal su Coventry road, una galassia aliena a 5 fermate d’autobus dal futuristico Selfridges di Downtown. Sull’altro marciapiede la libreria islamica Ipci offre testi contro il terrorismo. A differenza dei negozi del centro non ha nulla su Malala, la neo Nobel per la pace trasferitasi nel non lontano quartiere di Edgbaston dopo l’agguato talebano. Amin, pachistano come lei e la maggioranza dei musulmani di Birmingham, ignora chi sia l’eroina di Swat e taglia corto: «L’Isis l’avete creato voi». Certo, i ragazzi partono da qui, ammettono al Caffè Pastry. Già 100, si dice, sui 500 legionari britannici. Ma il cinquantenne Nader fa spallucce: «Perché non dovrebbero? Hanno coraggio. I musulmani sono massacrati ovunque e ci chiedete di scusarci per l’Isis. Israele però non si scusa mai».
L’atmosfera è più tesa che in Belgio. La Siria ha riaperto la ferita degli attentati del 2005 a Londra, spiega Imran Awan, esperto d’intelligence della City University: «Allora fu lanciato Prevent, un programma che, d’intesa con le moschee, monitorava i soggetti a rischio. È ancora attivo ma i musulmani non amano sentirsi spie. Inoltre la radicalizzazione non passa più dalle moschee. Così davanti alla nuova emergenza si moltiplica la sorveglianza su Birmingham che però, satura, si sta chiudendo. In pochi mesi abbiamo avuto 200 telecamere montate nelle zone musulmane all’insaputa delle comunità e tolte in seguito alle proteste, l’operazione Cavallo di Troia con 25 scuole pubbliche accusate d’inculcare la sharia rivelatasi un falso, tolleranza zero per chi torna dalla Siria». All’aeroporto è comparso anche il body-scanner, il dispositivo di sicurezza in funzione al confine tra Israele e Gaza.
Assam Baig è nato da genitori pachistani tra i mattoni rossi di Coventry, uno dei rari cronisti di cui la gente si fidi: «I giovani cercano nell’islam radicale un’identità alternativa a quella britannica da cui si sentono esclusi. In Scozia invece, i musulmani si dicono scozzesi».
Come ai tempi del Londonistan, il Regno Unito scruta Birmingham per capire le falle del modello multiculturale. Le comunità «protette» cedono alla re-islamizzazione dei giovani che secondo lo studioso John-Paul Rantac non nasce più in famiglia ma da scelte individuali.
«Ci sono gruppi chiusi perché c’è una forte presenza dell’islam deobandi che scoraggia l’integrazione, ma chi va in Siria non ha background religioso» nota Innes Bowen autrice di «Medina in Birmingham, Najaf in Brent: Inside British Islam». Prima d’arruolarsi per il jihad i locali Yusuf Sarwar e Mohammed Ahmed avevano comprato online «Islam for Dummies».
«La radicalizzazione si batte agendo sulla rabbia giovanile, non sull’islam, tra chi parte c’è di tutto, da chi cerca la redenzione per i propri “peccati” ai “turisti del jihad” interessanti allo spettacolo dal vivo ma non a combattere» insiste l’analista Jahan Mahmood. La rabbia è sempre covata nei ghetti Balsall Heath e Sparkhill, dove in 13 anni ci sono state 40 condanne per terrorismo. Volontari per lo Yemen partivano da qui già nel ’99 e qui aveva sede la libreria islamica di Moazzam Begg, l’ex prigioniero di Guantanamo beniamino dei paladini dei diritti appena scagionato dall’accusa di aver addestrato mujaheddin in Siria nel 2012. La rabbia odierna però pare meno prevedibile.
Nella moschea centrale di Birmingham, una delle tante schierate contro il Califfato, l’imam 26enne Usman Mahmood si occupa dei giovani. È solido ma tradisce difficoltà: «Mi chiedono quale sia il vero islam, spiego loro che la sharia non è in Siria ma dentro di noi ed è compatibile con la vita in Gran Bretagna. Sono confusi. Abbiamo bisogno dell’aiuto delle famiglie, la crisi inizia di solito come rivolta contro i genitori».
Gli adolescenti musulmani sono ovunque. Ad Alum Rock, dove il 70% delle famiglie vive di assistenza sociale; nella scuola pubblica ebraica King David a Moseley, dove i programmi sono buoni, il cibo conforme all’Islam e pazienza per Yom Kippur; negli shisha lounge dove si fuma la pipa a acqua ascoltando Lil Wayne Euro. «Parlano tutti di noi ma non ci conoscono» dice la 21enne Noor sul divano del Layla. Sa chi è Malala, la rispetta, ma come tanti crede che sia «usata» dall’Occidente. Non andrà in Siria. E però: «Molti vanno a fin di bene per difendere i civili ma noi musulmani risultiamo sempre i cattivi. Sono nata qui e non porto il velo: quando smetteranno di chiamarmi musulmana e sarò britannica? La lotta agli estremisti ok, ma allora anche contro gli xenofobi della English Defence League».
Rabbia, frustrazione, paranoia: la ricetta della radicalizzazione made in Birmingham. Il direttore dell’associazione «Radical Thinking» Kashan Amar mostra uno studio su 400 giovani «a rischio» che dichiarano di essere arrabbiati per l’islamofobia, la politica estera britannica, la disoccupazione, l’ego umiliato e sublimato in glorificazione della violenza: «Invece del contro-terrorismo serve una contro-narrativa che sfidi i reclutatori sul web svelandone le carenze religiose».
In una comunità confusa i pifferai dell’odio giocano facile. Se un benestante della chic Hall Green come il 44enne leader dell’Islamic Society Wahid Anwar afferma di sentirsi «additato perché musulmano» e cita «Il fondamentalista riluttante» del connazionale Mohsin Hamid, immaginate chi ha 20 anni e molto meno. Lo spiega Shahid Butt che negli anni ’90 ha reclutato migliaia di jihadisti britannici per la Bosnia. Dopo vari lustri in cella, Butt, pacificato e critico dell’Isis, vive a Birmingham: «Allora usavamo i videotape ora c’è Internet, ma si lavora ancora sui grandi numeri perché nel 90% dei casi è tempo perso. Oggi in Siria non vanno solo i pazzi, c’è un forte desiderio giovanile di aggiustare un’ingiustizia. I ragazzi sono come caffettiere pronte sotto cui basta accendere il fuoco».

Corriere 13.10.14
Test per l’Ungheria
Il fenomeno Jobbik e la sfida di Orbán
di Maria Serena Natale


A Miskolc, quarta città d’Ungheria, i risultati delle amministrative di ieri erano attesi soprattutto dalla comunità Rom. Péter Jakab, candidato alla carica di sindaco per il partito di estrema destra Jobbik, aveva promesso di riportare l’ordine e «combattere il crimine zingaro»: dopo le demolizioni di campi già realizzate dal Consiglio uscente dominato dai conservatori di Fidész, si profilano misure ancora più estreme — e una segregazione più dura. Ordine e sicurezza, le parole ripetute nelle trenta città dove alla vigilia del voto Jobbik era primo nei sondaggi. L’onda della destra ungherese non perde slancio.
Se Jobbik punta a consolidarsi come seconda forza politica del Paese scommettendo sul radicamento territoriale, il primo ministro Viktor Orbán conta sul terzo trionfo consecutivo del 2014, dopo le politiche di aprile e le europee di maggio. Forte della maggioranza parlamentare dei due terzi, Orbán prosegue nella «rivoluzione illiberale» diventata il centro del suo progetto politico e perseguìta attraverso l’accentramento dei poteri, la delegittimazione del dissenso, l’esaltazione dell’orgoglio identitario. Un autoritarismo che Orbán vuole allontanare dall’orbita estremista, contrapponendo alla retorica apertamente xenofoba di Jobbik slogan e iniziative a favore dell’integrazione.
L’idillio con gli ungheresi potrebbe durare ancora per poco. Nei piani di bilancio da presentare entro la fine del mese, l’esecutivo dovrà introdurre le misure di austerità richieste dai parametri europei. D’ora in poi Orbán faticherà a mantenere i livelli plebiscitari di consenso ai quali è abituato. E a contrastare l’attrazione irresistibile esercitata da Jobbik.

La Stampa 13.10.14
Giametta, filosofo dell’essenza
di Federico Vercellone


In tempi di crisi diviene sempre più necessario riflettere sulle tradizioni che ci appartengono e alle quali apparteniamo. E questo vale naturalmente anche per la filosofia.
La filosofia italiana è percorsa da un duplice filone, quello maggiore, che si confonde con il canone filosofico universale, che va da Bruno a Campanella, da Vico a Croce e Gentile, e da un filone segreto che cerca nelle forme del frammento, del saggio breve, dell’elzeviro il cammino verso la verità. A quest’ultimo versante appartiene anche lo stile e il pensiero di Sossio Giametta, grande esperto e traduttore di Nietzsche, ma anche pensatore in proprio.
Giametta pubblica ora da Mursia un volume dal titolo accattivante, Cortocircuiti, che raccoglie molti scritti recenti di diversa provenienza, dagli elzeviri comparsi sul Corriere della sera, a contributi su Spinoza, Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger, Croce Rensi, Freud. E’ un libro che conclude una trilogia dal titolo Essenzialismo che contempla anche Il bue squartato e altri macelli (2102) e L’oro prezioso dell’essere (2013).
Giametta, naturalmente, ha bene in mente la linea filosofica dalla quale discende il suo pensiero. E’ quella «costruttiva»: Cusano-Bruno-Vanini_Spinoza-Feuerbach-Nietzsche- Croce- Camus alla quale si affianca quella di origine scettica: Descartes-Spinoza, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche ecc. E’ in gioco, ai suoi occhi, la relazione e la sfida con i suoi grandi maestri. Una sfida edipica che attraversa la filosofia e che la fa progredire attraverso un percorso di aggiustamenti progressivi nel quale si sciolgono le contraddizioni del passato per procedere secondo i desiderata profondi di chi ci ha preceduti che contraddicono tuttavia talora la tessitura effettiva del loro pensiero.
Si va, con Giametta verso l’essenzialismo, e cioè in direzione di un pensiero pulsante che si esprime nella natura e nella vita. Scrivendo questo libro si è così ricondotti alla questioni massime della filosofia, lasciando dietro di noi il mestiere del filosofo che si addentra come un artigiano nelle questioni seconde e terze. Giametta invita a rivolgere nuovamente uno sguardo all’eterno sulla base dell’insegnamento dei suoi grandi maestri.

Repubblica 13.10.14
Donne e amore così fa Mozart
Don Giovanni chi? Ecco le vere libertine
Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani ribaltano i falsi miti sul compositore e rileggono in chiave femminile i suoi capolavori

Le autrici mandano in rovina la favola bacchettona del Grande seduttore
Fiordiligi e Dorabella infrangono un tabù il tradimento non è più per soli uomini.
di Natalia Aspesi


QUANTI Mozart esistono, quello delle tante biografie e della storia del suo tempo, l’ultimo ‘700, quello dei romanzi, dei film e della fiction, quello dei musicologi e dei letterati, quello dei direttori d’orchestra, dei registi, dei costumisti, quello che i suoi milioni di appassionati si immaginano ogni volta che ascoltano una sua composizione o assistono a una sua opera. Adesso due signore di grande sapienza non solo musicale e di piacevole scrittura, ribaltano le idee più diffuse sulla personalità e la genialità del grande compositore, ma anche il senso dei suoi personaggi, che sono raccontati attraverso la lettura senza fine della sua trilogia italiana, scritta assieme al poeta e librettista Lorenzo Da Ponte, e arricchita dallo studio della sua corrispondenza, della sua biblioteca, di quanto hanno scritto i suoi e i nostri contemporanei.
Leonetta Bentivoglio, giornalista culturale di Repubblica e autrice tra l’altro di Il mio Verdi, e Lidia Bramani, musicologa che ha scritto anche il saggio Mozart massone e rivoluzionario , sono precipitate per anni, ognuna per conto suo, nel suono e nelle parole di Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte, per poi trovarsi e discutere le loro ricerche e i loro punti di vista, femminili e femministi, riunendoli in E Susanna non vien – Amore e sesso in Mozart : «scoprendo nella trilogia un’avveniristica e coerente teoria degli affetti» assolutamente moderna e ricca di ogni avvincente sfumatura amorosa, e riservando la ricchezza puntigliosa delle loro ricerche, necessarie soprattutto agli studiosi, nelle note alla fine di ognuna delle quattro parti. Le donne di Mozart-Da Ponte sono tanto più simili a noi di quanto lo siano le Violette e le Mimi dell’’800, plasmate sull’immaginario maschile della donna dipendente e comunque destinata a morire tossicchiando. Le nozze di Figaro , ispirato alla commedia di Beaumarchais Il barbiere di Siviglia o la precauzione inutile , racconta con Mozart la novità della sorellanza tra donne, la Contessa e la sua domestica Susanna, malgrado la differenza di classe e l’intrusione tra loro degli uomini. L’anno dopo, nel 1787, la fantastica coppia musicista-librettista, affronta nel Don Giovanni una Donna Anna assetata di vendetta contro chi ha tentato di violentarla e ha ucciso il Commendatore suo padre, e una Donna Elvira abbandonata, che “ama troppo”, come le donne del saggio (1989) di Robin Norwood. E in Così fan tutte , opera considerata misogina sino a quando l’hanno riletta Bentivoglio e Bramani, Fiordiligi e Dorabella dimostrano come anche le donne possano non essere monogamiche, ma tradire l’amato senza smettere di amarlo pur attratte da un altro.
L’opera va in scena per la prima volta a Vienna nel gennaio 1790. Meno di due anni dopo, nel dicembre 1791, Mozart morirà di malattia, a 35 anni. In tutta la sua breve vita ha sempre amato le donne e rispettato il loro bisogno di libertà, come racconta nelle sue lettere: le sue amiche erano donne colte, poetesse, scrittrici, cantanti, protofemministe, ed era stato lui a spingere la sorella Nannerl a studiare e comporre. Amò moltissimo la moglie Constanze spesso vilipesa e incompresa dagli studiosi, come del resto Mozart, nel cui teatro per esempio Henri Ghéon rilevò «la paura per l’amore, il disprezzo per l’amore e la sofferenza per l’amore». Il che non appare nelle lettere a sua moglie, a cui scrive ciò che sogna di fare «con l’amabile culetto degno di baci» e le suggerisce di preparare «il nido bello e caro» per accogliere degnamente «il pargolino».
Le due autrici sembrano non voler mai abbandonare le partiture e i versi della trilogia, «una miniera sterminata e ipnotica». Eccole scandagliare Don Giovanni, e mandare in rovina la favola dell’eroe positivo «che ha incantato l’Ottocento, imbonito il Novecento» e ci ha manipolato nel 2000, «suscitando l’ammirazione di bacchettoni e sovversivi».
Mozart non ama il dongiovannismo, che spesso critica nelle sue lettere e neppure Don Giovanni, a cui nell’opera riserva una sola aria, essendo per le altre due travestito da Leporello. Mentre per il fedele don Ottavio, meraviglioso monogamo, Mozart riserva pagine di bellezza indimenticabile. «Quel che le incresce Morte mi dà», canta Ottavio e scrivono le esperte autrici che tutto sanno della musica, e riescono a farcela sentire, «la tonalità si scurisce, flauto e fagotto raddoppiano i violini, mimando i sospiri dell’amante. Gli archi tremolati esprimono la rabbia di Ottavio, mentre il disegno discendente dell’oboe, ripetuto per moto ascendente del fagotto, suggerisce il tormento».
Mozart, studiato oggi da due donne, rivela la sua sapienza di ogni forma d’amore, forse vissuta, forse solo intravista negli altri, e accolta con curiosità e spregiudicatezza. Per esempio, la disparità generazionale, nelle Nozze di Figaro , l’adolescente Cherubino circuito dalla giovanissima Barbarina a sua volta circuita dal maturo Conte, mentre la Contessa è attirata da Cherubino, e l’anziana Marcellina vuole sposare il gagliardo Figaro, innamorato della coetanea Susanna che lo ricambia ma è corteggiata dal Conte; fino a quando si scoprirà che Figaro è il figlio di Marcellina e tutto andrà a posto. La signora anziana e vogliosa viene quasi sempre attaccata dagli studiosi del teatro mozartiano, come “un errore”, mentre è a lei che viene affidato il compito di un manifesto antimisogino. «Sol noi povere femmine Che tanto amiamo questi uomini, Trattate siam dai perfidi Ognor con crudeltà». Le idee libertarie di Mozart vengono collegate a romanzi e film degli ultimi anni, e per esempio per il diritto alla sessualità delle donne anziane si citano Mario Vargas Llosa (Elogio della matrigna).
Abraham Yehoshua (Rito r n o dall’India ) e il celebre film di Hal Ashby Harold e Maude .
Il nuovo Mozart di cui Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani sono vistosamente innamorate, fa dimenticare soprattutto quel bambinone ridanciano dell’ Amadeus di Milos Forman (1984). Il suo ‘700 non è quello della Rivoluzione Francese, ma piuttosto quello della cultura massonica, di cui fanno parte anche i suoi importanti amici come il protosocialista Ziegenhagen e (probabilmente) anche il medico gesuita Mesmer inventore del magnetismo animale. Mozart era feroce con i privilegi degli aristocratici, ma era contrario alla spiccia loro eliminazione come in Francia, e pensava che la nobiltà aveva il dovere di mantenere i suoi patrimoni per metterli al servizio della società. Era colto, amava la scienza, la letteratura, il teatro, la nascente psicologia, la filosofia e gli studi giuridici, era cattolico, anticlericale, pacifista, animalista, molto tollerante. Era quindi, come ci racconta E Susanna non vien, un uomo del futuro, il meglio dell’oggi.

Repubblica 13.10.14
L’ultimo segreto del partigiano chiamato Blasco
Era il nome di battaglia di Pietro Tresso compagno di Gramsci e Bordiga
Un libro riapre il caso della sua morte
Ignazio Silone era convinto che il mandante fosse Stalin
di Massimo Novelli


Pietro Tresso (1893- 1943) fu tra i fondatori del Pcd’I ma fu espulso dal partito per le sue simpatie trotskiste dopo la svolta stalinista

CHI uccise Pietro Tresso? Fu un ordine di Stalin o furono i fascisti? Nato nel 1893 a Magrè di Schio (Vicenza), Tresso fu uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia con Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga. Negli anni Trenta, in rotta di collisione con il Pcd’I e con l’Unione Sovietica di Stalin, divenne in Francia uno dei più autorevoli rappresentanti della sinistra comunista e del movimento trotskista della IV Internazionale. A lungo reticenze e silenzi hanno occultato la verità sulla morte, avvenuta, a quanto pare, nell’ottobre del 1943 tra le montagne dell’Alta Loira, che “Blasco”, il suo nome di battaglia, aveva raggiunto con un gruppo di partigiani dopo essere evaso da un carcere del regime di Vichy. Nel dopoguerra si cominciò a ipotizzare che a ucciderlo fossero stati dei maquisard italiani o francesi, probabilmente su ordine di Mosca e forse per volere di Palmiro Togliatti. Ignazio Silone, compagno della sorella della donna di Tresso, fu tra i primi a denunciarlo. La pubblicazione del volume Meurtres au maquis dello storico Pierre Broué, biografo di Trotsky, e di Raymond Vacheron, uscito negli anni Novanta, ha reso assai credibile la pista che portava agli assassini stalinisti.
Ora però il libro La tragedia di “ Blasco” del ricercatore storico piemontese Roberto Gremmo, edito da Storia Ribelle (pagg. 192, euro 20), riapre il caso: Tresso potrebbe essere caduto nell’aprile del 1944, sotto il piombo dei collaborazionisti di Vichy e dei nazisti. L’autore ricostruisce la vicenda sulla base di alcune testimonianze poco note o inedite. In particolare quella del pastore protestante Daniel Besson, che all’epoca dei fatti si trovava nell’altipiano del Velay, la zona in cui Blasco aveva trovato rifugio. Il pasteur parlò di Tresso durante un convegno sulla Resistenza nel 1992 un anno prima della sua morte. Affermò che il trotskista italiano molto verosimilmente era stato massacrato, insieme ad altri maquisard , dai fascisti e dai tedeschi. Sostenne inoltre che sul cippo eretto lassù, in memoria dei partigiani uccisi nell’aprile del ‘44, al posto di un certo Zowoik Fèlix, indicato come vittima dall’identità incerta, avrebbe dovuto esserci il nome di Blasco. Le cose sono andate veramente così? La versione non convince Roberto Massari, editore e scrittore, a lungo militante dei gruppi della IV Internazionale e amico di Alfonso Leonetti, un’altra grande figura di comunista eretico che non aveva dubbi sulla matrice stalinista della morte di Tresso, come non li ebbe Pia Carena, la sua compagna, già collaboratrice di Gramsci a L’Ordine Nuovo. Spiega Massari: «Mi pare che la testimonianza del pastore Besson, che dovrebbe sorreggere il tutto, non valga granché, soprattutto perché è frutto di un sentito dire, ed è arrivata, peraltro, quasi cinquant’anni le tragiche vicende.». Il ricercatore piemontese replica: «Non ho tesi preconcette o verità assolute. Mi sono soltanto imbattuto in alcune testimonianze, non solo quella del pastore, che andavano fatte conoscere. Sulla tragedia di Blasco, in ogni caso, metto sempre diversi punti interrogativi».

Repubblica 13.10.14
“Quando mi chiedo se il mondo ha imparato qualcosa rispondo di no”
In viaggio verso Srebrenica con Primo Levi
La lezione dello scrittore torinese per aiutare i sopravvissuti del massacro nella città bosniaca protetta dall’Onu
di Fabrizio Ravelli


SREBRENICA PORTARE Primo Levi nel cuore della Bosnia, là dove si è consumato il più spaventoso genocidio europeo dalla Seconda guerra mondiale. E scoprire quanto la testimonianza scabra e profonda dell’autore di Se questo è un uomo e di I sommersi e i salvati (i soli testi tradotti finora in lingua locale) possa essere familiare e vicina ai tormenti di un popolo traumatizzato. L’esperienza, organizzata dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano durante la Settimana internazionale della memoria, che da sette anni annoda fili con chi in Bosnia (soprattutto i giovani dell’associazione Adopt Srebrenica) prova a superare i muri dell’odio. Impresa disperata, in un Paese costruito sulla separatezza nazionalistica e religiosa.
«Quello che ha vissuto Primo Levi io ho l’impressione di averlo vissuto in questi vent’anni. Ho sentito tante di volte di essere un indesiderato. Quelli che incontro sanno che parlerò, prima o poi, del genocidio di Srebrenica. E la cerchia dei miei amici si restringe, anche se provo a essere spiritoso per non perderli». Si discute, nella Casa della cultura di Srebrenica, della “vergogna” dei sopravvissuti, del loro senso di colpa a partire da una riflessione dolorosissima di Levi. E chi parla è Hasan Nuhanovic, il traduttore che lavorava per i caschi blu olandesi e vide padre madre e fratello minore mentre venivano consegnati, da quei militari mandati proprio a tutelare i civili, nelle mani dei serbi che li avrebbero assassinati.
Nuhanovic ha caparbiamente portato davanti al tribunale per i crimini di guerra quegli ufficiali olandesi, e ha ottenuto la loro condanna. Ma il lavoro ostinato del testimone, avvelenato dal senso di colpa, gli è sempre più pesante nella Bosnia di oggi: «Ho parlato con due giovani ragazze, che non ricordano la guerra. Dicono che la guerra non gli interessa, che pensano al posto di lavoro. E io, che lavoro al memoriale di Potocari e so che affrontare i passato serve ai vivi, mi vergogno, ho l’impressione di essere di troppo». Il memoriale è lo sconfinato cimitero delle vittime di Srebrenica, quegli 8.372 che ancora non sono stati tutti identificati e sepolti: ne mancano circa 2000. La Bosnia è un paese di traumatizzati. Irfanka Pasagic è la psichiatra nata a Srebrenica che dal 1992 si occupa con la sua associazione Tuzlanska Amica delle donne reduci dai campi di detenzione e stupro dei serbi, e poi dei bambini orfani. Spiega che, secondo dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, circa un terzo della popolazione soffre di disturbo post-traumatico da stress, anche ci sono poche ricerche e nessuna assistenza. «Quando mi chiedo se il mondo ha imparato qualcosa da Primo Levi, rispondo di no. Io vent’anni fa pensavo che il mondo, vedendo quel che accadeva, qui sarebbe intervenuto». E questo è un altro senso di colpa, di chi non ha saputo impedire lo sterminio. Davanti al memoriale di Potocari ci sono ancora gli edifici che ospitavano i caschi blu olandesi, e ci sono ancora i graffiti incisi dai militari, vergognosamente razzisti verso quella gente che stavano mandando a morire.

Repubblica 13.10.14
L’antropologa Helen Fisher racconta le sue ricerche: “I sentimenti? Sono una droga”
“Per salvarvi dal mal d’amore ho studiato tutti i segreti del cervello”
intervista di Christine Loriol


Helen Fisher, 69 anni, si occupa da oltre tre decadi del rapporto tra amore e attività cerebrali

HELEN Fisher è considerata una delle maggiori antropologhe del mondo. «The Brain in Love», ossia il “cervello in amore”, è da 30 anni al centro della sua ricerca. I traumi dell’innamoramento sono ora al centro di un documentario già pluripremiato del regista Christian Frei, dal titolo Sleepless in New York , che vede proprio la professoressa Fisher tra i suoi protagonisti.
Lei mette in un tomografo computerizzato persone che stanno vivendo un intenso innamoramento, per studiarne il cervello. Perché?
«Nel mio primo libro ho parlato del matrimonio e dei motivi che ci portano a contrarre legami di coppia. Poi ne ho scritto un altro sulle separazioni. E un bel giorno, mentre stavo viaggiando di notte, mi è venuta all’improvviso un’idea: forse abbiamo sviluppato per l’amore tre diversi sistemi cerebrali: uno per l’attrazione sessuale, uno per l’amore romantico e uno per il legame. E forse è nel cervello che bisognerebbe cercare il significato dell’innamoramento».
Come ha proceduto?
«Il cervello dei soggetti che si erano innamorati da poco era sottoposto a uno stimolo collegato all’amore romantico. Stando nello scanner, dovevano osservare due foto: un ritratto della persona amata e una foto di un individuo della stessa età e dello stesso sesso, che non suscitava particolari sentimenti. Per evitare che i sentimenti amorosi si trasferissero sull’immagine neutrale, venne impartita, come distrattore, una consegna, in modo che il cervello, per così dire, si raffreddasse».
E come è giunta a risultati utilizzabili?
«L’esperimento durava 12 minuti, senza preparazione e intervista. La persona innamorata stava nella macchina; al di sopra dei suoi occhi era stato collocato uno specchio verso il quale avevamo rivolto la telecamera. I soggetti guardavano per 30 secondi l’immagine della persona amata, poi contavano 30 secondi alla rovescia di sette in sette (trenta, ventitré, sedici…) — una sfida anche per matematici innamorati — quindi fissavano per 30 secondi un’immagine neutrale. Poi sovrapponemmo le scansioni cerebrali dell’immagine positiva a quelle dell’immagine neutrale e filtrammo l’immagine risultante: ora avevamo davanti a noi il “brain in love”, il cervello innamorato. È stato meraviglioso!».
Cosa ne ha dedotto?
«L’amore romantico, o l’innamoramento appassionato, non è un’emozione! Naturalmente, esso coinvolge molti sentimenti — ma l’innamorarsi è una pulsione, sorta milioni di anni fa. L’amore passionale è uno dei sistemi cerebrali più forti tra quelli sviluppati dall’animale umano».
La pena d’amore è un’esperienza fisica. Perché?
«La pena d’amore è come una dipendenza, come la mancanza di una droga. È proprio quello che ho voluto dimostrare. Abbiamo scoperto delle attività in una regione cerebrale che è collegata con tutte le dipendenze, non importa se la droga si chiama cocaina, eroina, nicotina, gioco d’azzardo, sesso compulsivo. Il centro della dipendenza è collegato con il sistema dopaminico».
Abbiamo qualche possibilità di evitarla?
«In realtà, no. Ci sono persone che escono così distrutte da un’esperienza dolorosa da evitare l’amore. Ma il cervello è come un gatto addormentato. Il sistema può scatenarsi nel giro di pochi minuti. La grande maggioranza di noi continua a innamorarsi, almeno tre o quattro volte nella vita».
Le donne e gli uomini si innamorano in modo diverso?
«In entrambi sono attive le stesse regioni del cervello. L’amore colpisce uomini e donne esattamente nello stesso modo. È come la paura, perlomeno per quanto riguarda il cervello».
Si supera più rapidamente la pena d’amore, quando si taglia il contatto con l’oggetto del desiderio?
«Sì, la pena d’amore va considerata come una dipendenza dalla quale si vuole uscire. Ciò significa che occorre girare al largo dalla droga. Nessun contatto, non scrivere lettere, non guardare vecchie foto, non telefonare. Il tempo guarisce. La regione del cervello che ha a che fare con il legame è molto attiva quando si viene respinti o lasciati. Ma quanto più ci allontaniamo dal momento del distacco, tanto più questa attività del legame si riduce».
Che ne sarà dell’amore in futuro?
«Fra un milione di anni l’amore continuerà ad essere lo stesso di oggi, almeno per quel che riguarda il cervello. Fra mille anni avremo ancora fame e sete. Siamo degli animali, perlomeno in certe regioni del cervello».
L’amore migliora invecchiando?
«Ho sempre amato l’amore. Quello che so come antropologa non ha rovinato per me il mistero dell’innamoramento. Tuttavia, nessuno sopravvive indenne all’amore. Sono stata lasciata e ho vissuto tempi di dolore sconvolgente. Ora ho 69 anni, sono single e spero proprio di potermi innamorare ancora».
Tages Anzeiger Traduzione di Carlo Sandrelli

Repubblica 13.10.14
La filosofia travolta dagli eventi
Ciò che esiste si basa su ragioni sufficienti o esistono cose che sorgono dal nulla?
Stephen Hawking annuncia in modo trionfale che “la metafisica è morta”
Dal gossip alle rivolte in Egitto, dalla musica al cinema noir, da Heidegger alle neuroscienze: Zizek si interroga sui nuovi fondamenti del pensiero
di Slavoj Zizek


«INI ndonesia uno tsunami ha ucciso più di 200mila persone!» «Britney Spears è stata fotografata senza biancheria da un paparazzo!» «Il brutale golpe dei militari ha dilaniato l’intera nazione!» «Il popolo ha vinto! Il dittatore è fuggito!« «Come può esistere qualcosa di così bello come l’ultima sonata per pianoforte di Beethoven?» Tutte queste frasi si riferiscono a ciò che alcuni di noi considererebbero un evento: una nozione ambigua con ben più di cinquanta sfumature. “Evento” può essere infatti un disastro naturale devastante così come un gossip scandaloso fresco di stampa, il trionfo di un popolo o un cambiamento politico violento, l’intensa esperienza estetica di fronte a un’opera d’arte. Considerate tutte queste variabili, c’è un solo modo per risolvere il rompicapo: intraprendere il viaggio alla scoperta del concetto di evento, partendo da una definizione approssimativa.
Istantanea di un delitto di Agatha Christie si apre nel bel mezzo di un viaggio in treno dalla Scozia a Londra: mentre sta andando a fare visita alla sua vecchia amica Jane Marple, Elspeth McGillicuddy vede strangolare una donna nello scompartimento di un treno in transito. Tutto accade molto velocemente e la sua visione è confusa, perciò la polizia non prende sul serio il resoconto della donna; soltanto Miss Marple le crede e inizia a investigare. Ecco un evento nella sua forma minima e più pura: qualcosa di scioccante, fuori posto, che compare all’improvviso e interrompe il flusso consueto degli avvenimenti; qualcosa che sembra emergere dal nulla, senza cause discernibili.
C’è per definizione qualcosa di “miracoloso” in un evento, che si tratti dei miracoli della nostra vita quotidiana o di sfere più elevate come quella divina. La natura di evento del Cristianesimo nasce dal fatto che essere cristiani ha come requisito la fede in un evento eccezionale, la morte e resurrezione di Cristo. Ancora più fondamentale è forse la relazione circolare tra la fede e le sue ragioni: non posso dire di aver fede in Cristo perché convinto da una serie di ragioni per credere; piuttosto, è solo quando credo che comprendo le ragioni della fede. È la stessa circolarità che si ha nell’amore: non mi innamoro per ragioni precise (le sue labbra, il suo sorriso…) ma è perché la amo già che le sue labbra, o altre sue caratteristiche, mi attraggono. Ecco perché anche l’amore ha il carattere dell’evento. È la manifestazione di una struttura circolare nella quale l’effetto evenemenziale determina retroattivamente le proprie cause o ragioni. Lo stesso vale per un evento politico come il movimento di protesta di piazza Tahrir al Cairo, che ha rovesciato il regime di Mubarak: agitazioni che si potrebbero facilmente considerare il risultato di certi problemi specifici della società egiziana (per esempio, la mancanza di prospettiva per giovani istruiti ma senza lavoro), anche se in realtà nessuno di questi problemi può realmente spiegare la sinergia che ha dato vita a ciò che è accaduto.
Allo stesso modo è un evento anche la comparsa di una nuova forma artistica. Facciamo l’esempio del cinema noir. Nelle sue dettagliate analisi, Marc Vernet dimostra che tutte le principali caratteristiche del cinema noir (il chiaroscuro; le inquadrature con inclinazioni sghembe; l’universo paranoico del romanzo hard-boiled, nel quale la corruzione è elevata al rango di cosmica caratteristica metafisica) erano presenti già in precedenza nei film di Hollywood. Tuttavia, l’enigma che rimane irrisolto è quello della misteriosa efficacia e persistenza della nozione di noir: quanto più Vernet ha ragione sul piano dei fatti e offre giustificazioni storiche, tanto più diventano enigmatiche e difficili da spiegare la forza e la longevità di questa nozione “illusoria” di noir: un’idea che ha popolato la nostra immaginazione per decenni.
In prima approssimazione, perciò, un evento è definibile come l’effetto che sembra eccedere le proprie cause. Lo spazio di un evento, invece, è ciò che si apre nello iato che separa un effetto dalle sue cause. Anche solo con questa definizione approssimativa ci ritroviamo nel cuore della filosofia, poiché la causalità è uno dei problemi filosofici fondamentali: tutte le cose sono connesse da legami causali? Tutto ciò che esiste deve essere fondato su ragioni sufficienti? Oppure esistono cose che in un certo senso sorgono dal nulla? E quindi: come può la filosofia aiutarci a determinare che cosa sia e come sia possibile un evento, che è proprio un avvenimento privo di ragioni sufficienti a suo fondamento?
Fin dai suoi esordi la filosofia sembra oscillare tra due approcci: quello trascendentale e quello ontologico o ontico. Il primo concerne la struttura universale di come la realtà ci appare. Quali condizioni devono realizzarsi affinché qualcosa sia da noi percepito come realmente esistente? Una simile cornice che definisce le coordinate della realtà è detta, nel linguaggio tecnico della filosofia, “trascendentale”. Per esempio, è
l’approccio trascendentale a renderci coscienti del fatto che, nell’ottica di un naturalista scientifico, esistono realmente soltanto fenomeni materiali che si verificano nello spazio-tempo, regolati da leggi naturali, mentre per la tradizione premoderna anche spiriti e significati sono parte della realtà, e non solo nostre umane proiezioni.
L’approccio ontico riguarda la realtà in se stessa, nel suo emergere e dispiegarsi: come si è originato l’universo? Ha un inizio e una fine? Qual è il nostro posto in esso? Nel XX secolo, la distanza tra questi due metodi di pensiero divenne estrema. L’approccio trascendentale raggiunse il suo apogeo con Martin Heidegger, mentre quello ontologico oggi è a quanto pare ostaggio delle scienze naturali: ci aspettiamo che la risposta all’interrogativo sulle origini del nostro universo debba venire dalla cosmologia quantistica, dalle neuroscienze e dall’evoluzionismo. All’inizio del suo recente bestseller Il grande disegno, Stephen Hawking annuncia in modo trionfale che «la filosofia è morta»: alle questioni metafisiche come quella sull’origine dell’universo si può ora dare una risposta, verificata empiricamente, grazie alla scienza sperimentale.
Entrambi gli approcci culminano in una nozione di “Evento”: nel pensiero di Heidegger l’Evento dello svelarsi dell’Essere, ovvero l’orizzonte di senso che determina come percepiamo e ci relazioniamo alla realtà; nell’approccio ontico il Big Bang (rottura di simmetria), ossia l’Evento primordiale dal quale è emerso l’intero universo. Così, il nostro primo tentativo di definire l’evento, come effetto che eccede le proprie cause, ci riporta a una molteplicità contraddittoria: un evento è un mutamento nel modo in cui la realtà ci appare o è una trasformazione sconvolgente della realtà stessa? La filosofia riduce l’autonomia di un evento o al contrario può spiegare quella stessa autonomia? Traduzione di Edoardo Acotto
Evento di Slavoj Zizek (Utet, euro 14) sarà in libreria da domani

Repubblica 13.10.14
Imparare al tempo del Web
Correttori nei telefonini versioni già tradotte e motori di ricerca sempre pronti a dare risposte
Ora gli esperti lanciano l’allarme: “La Rete rischia di compromettere l’apprendimento per le nuove generazioni”
di Antonello Guerrera


CORRETTORI automatici sui telefonini che minacciano le competenze linguistiche; versioni di latino già tradotte online; calcolatori ultra-performanti che scuotono le fondamenta matematiche dei ragazzi; assoluta dipendenza dai motori di ricerca, dove si schizza da un sito all’altro in maniera orizzontale e superficiale. «I vecchi metodi di studio per approfondire, strutturare e assimilare le informazioni vengono sempre più ignorati», ammette Massimo Ammaniti, professore di Psicopatologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma. E poi: ultra-stimolazione dei neuroni da parte di computer, smartphone e tablet; deficit di attenzione e concentrazione sempre più preoccupanti. Le nuove generazioni hanno un problema con l’apprendimento? Per alcuni studiosi, sì. E le conseguenze sarebbero gravissime.
L’ultimo allarme è stato lanciato pochi giorni fa dalla rivista americana Atlantic, che ha parlato addirittura di rischio “stupidità” per gli studenti di oggi. La causa? Google e Internet, come spiega The Glass Cage (“ La gabbia di vetro”). E cioè il nuovo libro di Nicholas Carr, uno dei saggisti più critici del Web, diventato famoso nel 2008 grazie all’articolo Google ci rende stupidi?
Da allora, Carr non ha cambiato idea. In The Glass Cage (arriverà nel 2015 in Italia per Raffaello Cortina) lo scrittore americano insiste: la Rete e le nuove tecnologie ci facilitano la vita, certo, e offrono una quantità abnorme di informazioni. Ma, secondo Carr, allo stesso tempo queste piattaforme inibiscono o danneggiano alcune fondamentali facoltà cerebrali e cognitive. E ciò sarebbe particolarmente pericoloso in studenti e ragazzi in fase di crescita. «Tanto su Internet c’è tutto» è il comodo refrain dei nostri tempi. Dunque, perché perdere tempo a memorizzare dati e nozioni sempre disponibili?
Per Carr, tuttavia, l’allenamento blando della memoria umana è solo un aspetto della spinosa questione. Perché ormai bambini e ragazzi sfruttano mezzi così efficienti da rinunciare a sviluppare competenze cruciali in vari ambiti, dalla matematica alle lingue, col risultato di potersi ritrovare in grave difficoltà se lo strumento non funziona. Carr fa l’esempio di un fatale incidente aereo avvenuto nel 2009 a Buffalo (Stati Uniti, 50 morti), causato da un errore umano del comandante «andato in totale confusione» per un inaspettato malfunzionamento del pilota automatico. Una simile “sindrome” potrebbe colpire anche gli studenti. Del resto, «il “consumismo cognitivo” su Internet — commenta Ammaniti —alimenta una facile onnipotenza che rende i giovani più vulnerabili di fronte a problemi complessi. Sorgono così situazioni di ansia e impotenza, tipiche delle personalità e delle società narcisistiche».
Carr, tra gli studi che cita, riporta anche una ricerca dell’università di Utrecht in cui si dimostra che, nella risoluzione di enigmi logici come il celebre “Missionari e cannibali”, i giovani che utilizzano supporti elettronici avanzati mostrano in un primo momento performance migliori. Ma a lungo termine, vengono superati da studenti che, sfruttando i metodi tradizionali, hanno invece sviluppato capacità ed espe- rienza necessarie per affrontare livelli più complicati del problema. Il pericolo di oggi, secondo Carr, «è di non essere mai bravi in niente».
Carr identifica principalmente due patologie dell’apprendimento ultra-informatico: la “compiacenza” e il “pregiudizio” dell’automatizzazione. La prima «si verifica quando un mezzo elettronico ci culla in un falso senso di sicurezza». Esempio: si revisionano stancamente i propri scritti «perché tanto c’è il correttore automatico». Il pregiudizio, invece, si manifesta nella «fiducia totale» nel mezzo di supporto «che ci fa escludere», aprioristicamente, «altre fonti di informazione». Due rischi abissali per i più giovani.
«È vero», conferma Michael Rich, psicologo di Harvard che ha studiato per anni il rapporto tra media e bambini. «Uno dei problemi principali dell’istruzione del XXI secolo non è tanto l’impatto di Google sull’apprendimento, quanto l’approccio passivo e scarsamente critico degli adolescenti nel discernere tra informazioni utili e inutili, vere e inesatte. I media sono neutrali, siamo noi a dover scegliere come e quando usarli».
Inoltre, rimarca lo psichiatra e psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet, autore con Marco Aime di La fatica di diventare grandi (Einaudi), «oggi i metodi di insegnamento sono diventati noiosi per i ragazzi, che vivono nel caos: sanno tutto, ma non sanno niente. È la scuola che deve aiutarli a passare da un uso puramente informativo a un uso conoscitivo delle nozioni». «Se un ragazzino cresce in un contesto ultra- interattivo, da YouTube ai social network, i meccanismi dell’insegnamento odierno sono obsoleti», aggiunge Rich, «anche a causa del digital divide tra professori e studenti. E intanto si accentua il deficit di attenzione degli adolescenti». Che, ricorda Carr, affligge il 10 per cento di sco- lari americani e addirittura il 20 per cento dei liceali.
Su questo, come sull’influenza negativa di computer e tablet sul sonno dei più piccoli, concordano tutti. «Ma attenzione a emettere facili sentenze», avverte lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini, esperto di nativi digitali e delle problematiche legate alle nuove tecnologie. «Perché, se è vero che cresce il deficit di attenzione e concentrazione, è altrettanto vero che viviamo in una società del “sempre distanti e mai soli”, invocata anche dai genitori. Oggi, se un ragazzino si isola, magari per approfondire, desta purtroppo preoccupazione in molte famiglie. Inoltre — continua Lancini — non è affatto detto che non memorizzare alcune cose “perché c’è Google” provochi un’automatica involuzione delle nuove generazioni».
A tal proposito, il professor Christoph van Nimwegen, che all’università di Utrecht si occupa di “Interaction technology”, dice: «Non c’è alcuna prova di una stupidità permanente causata da Google e da Internet. I nostri cervelli possono deteriorarsi, ma in futuro potrebbero anche sviluppare nuove sinapsi e connessioni cerebrali. Per ora nessuno lo sa». «Anche con l’arrivo della televisione», ricorda Charmet, «dicevano che saremmo diventati più stupidi, ma non mi pare». E se per Ammaniti, «i troppi stimoli tecnologici interferiscono con la creatività e l’immaginazione dei ragazzi», un altro esperto della Rete come Clay Shirkly sostiene che Internet e i social network siano così creativi da sviluppare nei giovani un «surplus cognitivo». Insomma, il dibattito scientifico è apertissimo e imprevedibile. Una cosa, però, è certa: i bambini e i ragazzi di oggi alle prese con tablet & Co. saranno le cavie di questa nuova epoca touch e iperconnessa. Perché ci vorrà ancora qualche anno, infatti, affinché la scienza possa comprendere più chiaramente l’effetto di Internet e smartphone sulle loro menti. Nel frattempo, il mondo continuerà a dividersi tra chi teme una nuova generazione di “stupidi” e chi, rispolverando Socrate e il Fedro di Platone, ricorderà che molti secoli fa persino la scrittura era considerata da alcuni un’innovazione venefica che avrebbe sbriciolato l’apprendimento e il “vero” sapere.