martedì 14 ottobre 2014

Corriere 14.10.14
La mobilitazione «Per cambiare il Paese»
Camusso: «Dopo il 25 ottobre,anche lo sciopero generale»
Sul lavoro: «Il governo fa sua la piattaforma di Confindustria. E non sa dove portare il Paese»
A Cisl e Uil: più forti se anche voi in piazza

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Repubblica 14.10.14
Jobs Act, Camusso: "Il governo non ha idea di dove portare l'Italia"
"Saremo in piazza non per difenderci ma per salvare il Paese", ha detto la leader Cgil ai quadri del Lazio del sindacato
E chiede al governo di intervenire su patrimoniale e tassa di successione
Infine l'auspicio di trovare l'unità con le altre forze sindacali su questa battaglia:
"La nostra forza sarà quando anche loro saranno in piazza"

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Repubblica 14.10.14
Il Paese del partito unico
di Franco Cordero


MR VANTA uno strepitoso 40.8% alle europee, ma da allora sono avvenute cose influenti sul fronte elettorale. Consideriamole. Veniva alla ribalta sotto il segno della novità: giovane, dinamico, ricco d’apparenti idee, contro l’inetta vecchia guardia; trova sèguito nell’area del disgusto, con qualche riserva sulla figura (boy scout, agonista in tornei televisivi, rampante tra corridoi e piazza). Sconfitto alle primarie dagli oligarchi, li sbaraglia nella rivincita: il partito era uscito male dalle urne; sconta una vocazione a perdere radicata nelle persone; e l’emerso in controtendenza ha gioco comodo verso il governo. Se l’era combinato il neoregnante, rieletto dopo misteriose tresche notturne, chiamandovi Enrico Letta, qualificato dal titolo familiare (è nipote del plenipotenziario d’Arcore), affinché attuasse le famose «larghe intese», ossia un pastiche a tre colori, postcomunista, biancofiore, berlusconiano, mentre l’Italia ha l’acqua alla gola, grave malata sotto l’occhio clinico europeo. Dovendo definire l’irrompente nuovo leader, lo diremmo democristiano evoluto con tenui ascendenze savonaroliane-lapiresche: scaltro, insonne, veloce, famelico, alieno dai dubbi, sicuro d’essere predestinato, ideologicamente amorfo, quindi pronto a muoversi; sa tutto della politica brulicante, avendo scalato le nomenclature in provincia e Comune. Rispetto al governo in penoso marasma, può giocare tre carte: sostenere i tentativi d’uscire dalla crisi; chiedere una svolta strategica; sostituirsi al premier evanescente, fermi restando gli equilibri. Scartiamo la prima ipotesi: non fa del bene gratis; lavora pro se ipso. La seconda mira alle urne, sul presupposto che, visti i pericoli, gl’italiani riscoprano l’organo pensante, ma implica dei rischi. Neapolitanus Rex dixit: terrà vive le Camere; e quando le sciogliesse, sarebbe dubbia la vittoria d’un cartello della sinistra, gravata da cattivo destino. L’aspirante dev’essersi convinto che questa via non conduca a Palazzo Chigi. Meglio entrarvi comodamente, unico possibile demiurgo. L’insuccesso del Nipote gli apre ampi spazi: prima o poi il vento della crisi cade; non consta che sia economista ferrato, e sentendosi irresistibile, prende sotto gamba le difficoltà. In appeal e disinvoltura tattica nessun concorrente lo supera; gl’italiani amano i numeri da palcoscenico; Re Lanterna patisce gli anni; i notabili Pd hanno mutrie poco sopportabili. L’occasione cade dal cielo.
Con questo presumibile interno psichico affoga Letta junior, orfano del sostegno quirinalesco. Bastava una lieve spinta. L’esordio è gaffe sonante, quando dichiara «profonda sintonia» col supremo affarista, formalmente oppositore, i cui disegni viscerali tutti sanno dove mirino. Era sincero. Da allora non è emerso un solo dissenso su questioni capitali. Ante omnia, la giustizia. Era arguibile dai nomi cos’avessero pattuito i due nel colloquio segreto al Nazareno, presente Letta maior: il nuovo ministro, scelto dal Colle, impersona un Pd morbido, leader dei soidisants «giovani turchi» governativi; i due sottosegretari vengono da Arcore (uno s’era distinto a corte affatturando l’espediente del legittimo impedimento nelle cause berlusconiane); e sabato 4 ottobre il guardasigilli ammette che diverse essendo le «sensibilità» nell’équipe, il falso in bilancio non sia incriminabile. Lo sapevamo ma ormai è ufficiale che un corruttore plutocrate abbia autorità dirimente quale patrono del malaffare white collar.
Al trionfo elettorale europeo cooperavano i dissidenti dalla linea berlusconoide e sono voti persi dall’infedele. Quanto attiri i «moderati», lo dicono furie nelle gerarchie forzaitaliote: può mangiarseli tutti; è l’uomo che elettori devoti aspettavano, erede naturale del vecchio monarca, indenne da ripulsioni moralistiche, amicusfamilias del conterraneo Denis Verdini. Nei due partiti, rosa e blu, fermentano dissensi interni e viene fuori l’embrione d’un partito unico. Benestanti in colletto bianco formano un bacino dove pescare. Così esperto della politica brulicante, sente l’erba che cresce. Insomma, ha futuro a destra. Non può riconvertirsi: gli pesa addosso l’accusa d’infedeltà e rischierebbe la fine del predecessore se sfidasse il vecchio diarca, ad esempio su intercettazioni o delitti estinti dal tempo, consegnandosi agli oppositori interni (altrettanto inclini ai patti sotto banco: vedi Bicamerale, D’Alema, Violante ecc.); non sbaglia nella percezione del vento. Ormai esiste in quanto uomo nuovo. I segni lo confermano sulla linea d’una «profonda sintonia». Gli rendono ossequio i soliti panegiristi, particolarmente tra i finti indipendenti attivi nel culto berlusconiano: con tante lodi all’innovatore, diranno che ridisegna la carta politica, essendosi allestito gli strumenti mediante riforme costituzionali; non sono più tempi d’ideologia ossessiva.
Veniamo al verso negativo. Dopo otto mesi dall’insediamento siamo ancora al buio e gl’indici puntano in giù: la spinta propulsiva s’è scaricata in pantomime (quella farsa dei gelati contro l’ Economist ) o formule («task force anticorruzione»: se vuole sradicarla, fornisca l’arma penale; ma divus Berlusco lo vieta); i fatti sono materia dura, ribelle alle parole. Nella fattispecie logorano l’attore. Votassimo domani, quel 40.8% sarebbe un sogno, a meno che rosa e azzurri convolino sotto la stessa insegna. Il partito più numeroso ha buone probabilità d’essere quello dei non votanti. Ora, sotto l’effetto logorante in Rentium, chi ripiglia quota? Vecchio e segnato dai colpi, l’Olonese ritrova gli spiriti animali: oppositori interni non gli fanno caldo né freddo in aritmetica elettorale; e cooperando all’agenda del governo, recupera i carismi nell’opinione cosiddetta moderata. Lo vedono ascendente, condomino palese. Inutile dire chi vi perda: l’Italia svenata dal malaffare cronico; continuando le cose in tale verso, sotto queste lune non basta mezzo secolo a colmare i ritardi dall’Europa in sviluppo economico e intellettuale.

il Fatto 14.10.14
Genova, piove sul fango
Paura e fischi, Renzi scappa
Il premier fugge dall’alluvione e fa lo show a 200 chilometri
di Wanda Marra


La passerella Matteo Renzi alla fine l’ha fatta alla Confindustria di Bergamo, in diretta nazionale su SkyTg24. Mentre nella Genova alluvionata, in allerta continua, distrutta da fango e pioggia, ha scelto di non mettere piede. La motivazione, ufficiale, l’aveva data due giorni fa. “Genova e non solo”, il tweet che rimandava a un post su Facebook in cui il premier prometteva interventi. E la metteva così: “Se vogliamo essere seri, se vogliamo evitare le passerelle e le sfilate da campagna elettorale, l'unica soluzione è spendere nei prossimi mesi i due miliardi non spesi per i ritardi burocratici”. Insomma, la sua sarebbe stata una scelta di sobrietà. Proprio mentre la popolazione genovese chiede insistentemente una presenza del governo.
UN COMPORTAMENTO atipico da parte di un premier onnipresente. E allora? Fischi, proteste e contestazioni erano garantiti. La gente a Genova è arrabbiata e non avrebbe risparmiato il capo del governo. Lo ammettono anche uomini di sicura fede renziana. Dunque, stavolta evidentemente meglio non metterci la faccia. Il premier ha scelto di mandare alla conferenza stampa ufficiale di ieri, quella con il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando, uno dei suoi fidatissimi, il Coordinatore della Struttura di missione Italia Sicura di Palazzo Chigi contro il dissesto idrogeologico, Erasmo D’Angelis. Insomma, profilo bassissimo del governo.
Non senza polemiche, però, da parte di Renzi. Il quale attribuisce alla gestione passata le responsabilità di quel che sta succedendo: “Ciò che è accaduto - dice - dimostra come le riforme di cui abbiamo parlato in questi mesi sono fondamentali: se un’opera pubblica viene bloccata dai ricorsi e dai controricorsi, se lavorano più gli avvocati e i giudici che i manovali, ecco perchè va cambiata la giustizia civile, ecco perchè lo Sblocca Italia, ecco perchè bisogna prendersi le responsabilità”. Va detto che le aziende che aspettavano di terminare i lavori per la copertura del tratto terminale del Bisagno a Genova, avevano scritto al premier il 5 agosto chiedendo di sbloccare i cantieri. Non è successo. Renzi assicura che succederà ora: dopo un’altra alluvione. Dal governo si attribuiscono altre responsabilità: si punta il dito contro la lentezza della giustizia amministrativa, contro i dirigenti responsabili della sicurezza e della Protezione civile, che hanno appena preso un premio per il raggiungimento dei loro obiettivi. Nessuna accusa al Sindaco, Marco Doria.
Quello che Renzi fa - come al solito - è occupare tutta la scena mediatica, provando a coprire anche le immagini che arrivano dal capoluogo ligure con nuovi annunci. “Dal 2015 verrà abolita la componente lavoro dalla tassa dell’Irap. Questo vale 6,5 miliardi di euro”, dice, davanti alla platea della Confindustria. E poi: “Coloro i quali nel 2015 assumeranno giovani e meno giovani a tempo indeterminato avranno la possibilità di non pagare i contributi e lo Stato si sostituirà all’imprenditore”. Tutto questo dovrebbe essere nella legge di stabilità che viene presentata domani. Ancora non è chiaro come verranno realizzati tali annunci. Le coperture sono in fase di studio. Lui però continua nella sua opera di distrazione di massa. Anche se qualche fischio se lo prende lo stesso. Fuori dalla Confindustria viene contestato dalla Fiom di Bergamo. E i fischi lo aspettano pure allo stabilimento Dalmine.
IL BASSO profilo è scelto da tutto il governo. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, genovese, è finita nel mirino per essere andata nella mattinata di venerdì a un convegno sul semestre europeo a La Spezia. Poi, però, ha passato le giornate tra Prefettura, riunioni, e fronteggiamento dell’emergenza. Facendo da tramite con l’esecutivo. Fu più mediaticamente presente durante l’alluvione del 2011. C’erano le primarie per Sindaco in arrivo. E poi, stavolta, la parola d’ordine è “no passerelle”. Anche il ministro dell’Ambiente Galletti a Genova ci è andato, lontano dalle telecamere. Meglio non esporsi troppo. Né adesso, né nei prossimi giorni: il premier in città non si farà vedere.

il Fatto 14.10.14
Alluvione Genova, ditte scrissero a Renzi: “Sblocchi i lavori, rischiamo tragedia”
"Rimandare e temporeggiare ancora espone la collettività al concreto rischio di riaccendere la tragedia del novembre 2011"
Così, il 5 agosto, scrivevano a Palazzo Chigi le aziende che dovevano occuparsi della messa in sicurezza del Bisagno. "Tutti i ricorsi respinti"
Ma non hanno ottenuto risposta. E ora il premier accusa la burocrazia
di Giampiero Calapà

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il Fatto 14.10.14
Genova, Landini:

“Il governo? Rilancia la cementificazione con lo Sblocca Italia”
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il Fatto 14.10.14
Maratone Tv
Tele-Matteo, 77 ore sempre in video
di Carlo Tecce


Due giorni interi, mattina, sera e notte, e gli avanzano pure 9 ore. O parla Matteo Renzi o qualcuno parla di Matteo Renzi o appare nei telegiornali o i telegiornali lo fanno apparire. Sta ovunque, sempre a dare l’ultima parola. E Aldo Grasso fa notare, appunto, che 77 ore di “tempo d’antenna” (che somma la presenza fisica in studio e il racconto in assenza) in un mese soltanto, settembre, fanno invidia a “Sua emittenza”, Silvio Berlusconi. Anche no, perché i due sono i garanti, i fautori e gli interpreti del patto del Nazareno. E si piacciono anche perché si credono telegenici. Ieri Renzi era in Confindustria a Bergamo, ha tenuto un discorso ripreso in diretta da Skytg24. A un certo punto, Sky ha dovuto mandare la pubblicità, Renzi non finiva più e c’era una nuova edizione da cominciare. Ormai il presidente del Consiglio invade così spesso i palinsesti che potrebbe superare, in quantità (e chissà pure in qualità), le puntate di Beautiful, di Uomini e Donne o di Forum. Sempre che non sia intenzionato a partecipare come ospite. Renzi è richiesto per la carica (ovvio) e l’effetto (meno ovvio, ricordate Mario Monti?), perché riesce ancora a far resuscitare lo share. Ha portato su Quinta Colonna di Del Debbio e Virus di Nicola Porro. Presto gli toccherà il Grande Fratello. Ma per evitare trasferimenti o per sfruttare le repliche, Renzi potrebbe creare Tele-Matteo. Un bel pezzo di palinsesto ce l’ha: se stesso.

La Stampa 14.10.14
Renzi, via alle cene di lusso per finanziare il Pd
di Carlo Bertini


Due eventi già pronti, il 6 e 7 novembre a Milano e Roma L’obiettivo è rimediare alle casse magre, puntando a un milione
Il progetto è ambizioso assai con i tempi che corrono e in quella pentola in ebollizione che è il Pd farà storcere la bocca ai più nostalgici, quelli affezionati alla mistica del «tortello» e alla raccolta di fondi 20 euro a testa e non di più. In breve, l’idea accarezzata dal premier e condivisa con alcuni fedelissimi è questa: organizzare per i primi di novembre, nei giorni 6 o 7, due grandi cene di finanziamento per il Pd, in due città del nord e del centro, quasi di sicuro Milano e Roma. Non due iniziative qualunque di fundraising, ma due eventi carichi di simbolismi perfettamente in linea col Pd 2.0 all’americana targato Matteo Renzi. Infatti il target per gli inviti non sarà quello più popolare delle feste dell’unità, ma una fascia di medio livello, il tessuto delle partite IVA, professionisti, piccoli imprenditori, che prima erano off limits e ora si sono avvicinati al nuovo Pd come dimostrano sondaggi e analisi sui flussi di voto alle europee. Uno spaccato del nuovo elettorato da coinvolgere in due eventi con uno «storytelling» studiato al millimetro. Da mettere in scena in due grandi spazi ad hoc capaci di ospitare fino a cinquecento persone, alle quali far pagare un ticket di partecipazione di mille euro. Una cifra di rilievo che denoterà un’adesione dei partecipanti al progetto politico e di governo dei Democratici. E che consentirebbe, in tempi di magra dopo i tagli del finanziamento pubblico, di raggiungere un budget di tutto rispetto, nell’ordine del milione di euro per le due serate. Dove neanche a dirlo l’ospite d’onore sarà Matteo Renzi, che parlerà da un podietto in stile stelle e strisce a metà cena, dando così il via ad un nuovo modulo di fundraising finora mai praticato dalla sinistra.
«Al di la di cosa si riuscirà a raccogliere sarà importante per tutti noi cominciare a imparare qualcosa di nuovo», spiega uno dei dirigenti al corrente dell’operazione. Si perché ad imparare dovranno esser innanzitutto i parlamentari del Pd, ai quali sarà affidato il compito non semplice di trovare un migliaio di piccoli e medi imprenditori vogliosi di spendere mille euro per la causa. Ed è chiaro che dietro tutta questa operazione vi sia la filosofia che Renzi intende adottare per dare un profilo al suo Pd, che vuol costruire come partito degli elettori più che degli iscritti. «Mentre prima i partiti vivevano con i fondi statali ora vivono col il sostegno di cittadini, un sostegno da guadagnarsi col consenso», raccontano i renziani. Dunque tutta la campagna di raccolta fondi, che verrà attuata col meccanismo del due per mille e con iniziative del genere, si baserà appunto sul concetto di aderenti al Pd, ben distinto da quello dei classici iscritti e militanti. Un partito liquido ma non gassoso, come si usava dire ai tempi di Veltroni. Un partito in cui tutta l’organizzazione va ripensata a questo scopo, senza lasciare la ditta in balia degli eventi, perché «anche i democratici americani hanno un’organizzazione ferrea e sono molto di più che una rete di comitati elettorali», fa notare il veltroniano Giorgio Tonini, che all’epoca non riuscì a veder trasformata in struttura marciante «la felice intuizione del lingotto». E di come riorganizzare la macchina si parlerà lunedì prossimo in una Direzione dove il Pd 2.0 comincerà a prender forma, malgrado le resistenze della sinistra interna che proverà a dare battaglia: con Cuperlo che ormai parla del Pd come di una «federazione tra diversi partiti» e con il nodo della disciplina di voto dei parlamentari al centro delle polemiche.

il Fatto 14.10.14
A capotavola
Palazzo Barberini, chiuso per pranzo (di premier)
di Tomaso Montanari


Si comunica che martedì 14 ottobre 2014, la Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini chiuderà al pubblico alle ore 14.00 per motivi istituzionali”. Davvero inaudito chiudere un grande museo pubblico dello Stato con cinque ore di anticipo, alla faccia di cittadini e turisti: e per “ragioni istituzionali”, poi. Uno si immagina una visita meticolosa, quadro per quadro, da parte di un gruppo di capi di Stato. O chissà quale altro evento storico: come, non so, la nascita del Partito Social Democratico, che si formò proprio in quel meraviglioso palazzo romano, nel 1947. E invece no: l’impegno istituzionale è un megabanchetto, con Matteo Renzi a capotavola, che si svolgerà nell'enorme Salone sul cui soffitto – grazie alla pittura spettacolare di Pietro da Cortona – “rombano come potenti aerei in formazione, al centro dello spazio celeste, le gigantesche api dorate dei Barberini, e tutte le virtù immaginabili, umane e divine, fan loro corona” (Giuliano Briganti). Il presidente del Consiglio si porta dietro da Firenze il vizietto di profanare con le sue merende spazi comuni di suprema importanza artistica: se a Ponte Vecchio banchettò con la Ferrari di Montezemolo (un’amicizia allora compatibile con lo stare “con Marchionne senza se e senza ma”), oggi cenerà con un gruppo di uomini d'affari cinesi e con una scelta rappresentanza dell’inaffondabile generone romano. L'occasione è una stanchissima mostra sul Seicento (già celebrata all'unisono dalla prona stampa italica), prodotta dalla Beni Culturali srl di Roberto Celli, un ingegnere noto alle cronache per essersi costituito, dopo tre mesi di latitanza, nel settembre del 2011, nell’ambito dell’inchiesta su una maxi evasione fiscale, che portò in carcere anche l’allora presidente della Camera di Commercio di Roma e del Lazio Cesare Pambianchi. Ma, si sa, l’industria delle mostre d’arte non va tanto per il sottile e accoglie volentieri imprenditori provenienti dalla politica, dagli affari e da qualsiasi altro ramo delle umane attività. La stessa mostra con lo stesso titolo avrebbe dovuto aprire al Palazzo Reale di Milano esattamente due anni fa: ma poi tutto fu annullato all'ultimo momento, salvo reincarnarsi oggi a Palazzo Barberini. E così stasera – dopo un'apparecchiatura di cinque ore – le Virtù di Pietro da Cortona saranno davvero le sole virtù ad abitare le stanze progettate da Bernini e da Borromini. Stanze chiuse per ragioni istituzionali, ma apertissime alle ragioni della clientela e degli affari. Tanto per non cambiar verso.

il Fatto 14.10.14
Leopolda numero 5: dal 24 al 26 ottobre tutti a Firenze

L’INVITO lo lancia il ministro Maria Elena Boschi: l’ultimo weekend di ottobre, tutti alla Leopolda. Da ieri è online il sito del quinto appuntamento con i renziani d’Italia. Slogan dell’edizione: “Il futuro è solo l’inizio”, già aperte le iscrizioni (e le sottoscrizioni). Il programma è ancora in costruzione visto che, come da tradizione , la tre giorni accoglierà gli interventi di tutti coloro che si iscriveranno a parlare. Si parte la sera di venerdì alle 20.30, sabato ci saranno le sessioni mattutina e pomeridiana dei gruppi di lavoro; domenica 26 dalle 9.30 alle 13 gli ultimi interventi e la cerimonia di chiusura.

La Stampa 14.10.14
Berlusconi e l’intesa con il premier: “Il vero Patto è sull’elezione del Colle”
Il leader ai suoi: “L’Italicum non mi piace, non lo voglio. Ma non era quello il tema”
di Ugo Magri

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La Stampa 14.10.14
Oltre 2 milioni di pensioni sotto i 500 euro
Il rapporto dell’Inps: un assegno su quattro (6,8 milioni) non supera i 1000 euro. Crollano i lavoratori pubblici: nel 2013 60 mila in meno (-2,1%)

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Il Sole 14.10.14
Fisco internazionale
Alta tensione Svizzera-Italia
Widmer-Schlumpf: «La nostra pazienza è al limite»
Padoan: «Berna ondivaga»
di Alessandro Galimberti


MILANO Alla vigilia della ripresa alla Camera del cammino della legge per il rientro dei capitali – prevista al voto entro domani notte – torna ad alzarsi la tensione tra Italia e Svizzera.
A innescare la polemiche è stata il ministro delle Finanze elvetico, Eveline Widmer-Schlumpf, che in un'intervista alla tv di lingua italiana ha parlato di «pazienza al limite» per la mancata conclusione dei bilaterali. Bilaterali che, in cambio dell'accordo di collaborazione fiscale, consentirebbero alle banche della Confederazione, tra l'altro, di operare direttamente sul mercato italiano. La Schlumpf, già presidente a rotazione della Confederazione, dopo anni di trattative inconcludenti si attende «entro giugno 2015 la regolarizzazione del passato, le liste nere, quelle grigie e la fiscalità dei trasfrontalieri».
A stretto giro di posta la replica del ministro Pier Carlo Padoan, stupito per dichiarazioni «che non riflettono il contenuto del brevissimo scambio di battute avuto a margine degli incontri del Fondo Monetario Internazionale a Washington». «Se è vero che in Italia si sono succeduti diversi ministri in pochi anni, la linea del governo italiano è invece rimasta coerente nel tempo. Piuttosto in questi mesi ho registrato da parte della delegazione svizzera atteggiamenti ondivaghi – ha aggiunto Padoan – e a ogni passo avanti si è accompagnato qualche passo indietro. Quelli che prendono in giro la controparte non siamo noi».
Sui bilaterali tra Roma e Berna incrociano questioni internazionali (lo scambio automatico di informazioni fiscali diventerà prassi entro il 2017, anche a prescindere dall'accordo tra le due parti), finanziarie (l'accesso al mercato "retail" italiano), fiscali (l'alleggerimento delle sanzioni per i contribuenti italiani ancora ospitati "in nero" in Ticino e Oltralpe), regionali (il ristorno della tassazione applicata ai lavoratori frontalieri italiani) e localissime (lo status del comune-enclave di Campione d'Italia). A partire dal 2012 la Svizzera ha cercato di accelerare la conclusione dell'intesa, su cui però dalla fine del 2013 si è innestato l'iter della legge "unilaterale" italiana del rientro dei capitali (in Svizzera ci sono almeno 200 miliardi tricolori) che irritò moltissimo l'ambiente finanziario e politico della Svizzera italiana. Da qui le ripetute minacce di ritorsione sulle tasse dei frontalieri che, in virtù di un accordo del 1974, Berna restituisce a un'ottantina di comuni di frontiera di residenza, appunto, dei lavoratori frontalieri.
Intanto ieri, sempre a proposito di paradisi fiscali, la resa anche del Principato di Monaco, che ha firmato (84.esimo Paese) l'accordo Ocse per l'assistenza fiscale internazionale.

Il Sole 14.10.14
Autoriciclaggio da rivedere nel passaggio in Aula
di Maurizio Leo


Attesa, temuta, moderna e criminogena. Questi sono solo alcuni degli aggettivi utilizzati per commentare la norma che introduce il nuovo reato di autoriciclaggio, che verrà discussa da oggi nell'Aula della Camera.
A questi aggettivi, però, dopo una lettura più attenta e approfondita, se ne deve aggiungere un altro: incomprensibile. Così, infatti, appaiono alcune delle previsioni contenute nel nuovo articolo 648-ter.1 del Codice penale, introdotto da un emendamento all'originario testo della voluntary disclosure, già approvato dalla commissione Finanze.
Partiamo dalle cose che si capiscono, per provare, poi, a esaminare ciò che non si capisce.
Intanto si comprende (comma 1, del nuovo articolo 648-ter.1) che il nuovo reato si realizzerà se sussistono, contemporaneamente, le tre seguenti circostanze:
- sia creata o si concorra a creare - attraverso un primo reato, il reato presupposto - una provvista consistente in denaro, beni o altre utilità;
- si sostituisca, trasferisca o impieghi questa provvista, attraverso un comportamento ulteriore e autonomo, in attività economiche e finanziarie;
- si crei un concreto ostacolo all'identificazione della provenienza delittuosa della provvista.
Dal combinato disposto dei commi 1 e 2 della norma emerge, inoltre, un "doppio livello" di punibilità: se il reato presupposto prevede una sanzione edittale inferiore a cinque anni, la condanna va da uno a quattro anni; se, invece, il reato presupposto comporta una sanzione edittale superiore, la condanna va da due a otto anni, cui va aggiunta una multa tra i 5mila e i 25mila euro.
A questo punto, però, vediamo cosa della norma non si comprende. Il comma 3 del nuovo articolo 648-ter.1, prevede, testualmente, che «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale». Dopo aver letto e riletto la noma, confesso, nonostante l'impegno profuso, di non aver compreso esattamente cosa questa intenda dire e, in particolare, cosa significhi la locuzione «Fuori dai casi di cui ai commi precedenti». Sembra di capire che l'importante (e discussa) esimente, contenuta nel comma 3, si applichi esclusivamente ai casi di autoriciclaggio non descritti nei commi 1 e 2 della norma. Ma allora ci sono casi di autoriciclaggio non contenuti nei commi 1 e 2? E, se è così, quali sono? Infatti, leggendo la locuzione utilizzata dal legislatore sembra potersi ipotizzare che si abbia un'ulteriore e diversa situazione nella quale si configuri l'autoriciclaggio. Peccato, però, che si tratterebbe di un reato che non vedrebbe esplicitati i propri elementi costituitivi; una sorta di "autoriciclaggio implicito", applicabile in non si sa quali casi, ma per il quale vige l'esimente della destinazione personale delle utilità. Insomma, sarebbe il primo caso conosciuto di una esimente "espressa" a una condotta di reato "inespressa"!
A meno che la disposizione non voglia intendere che la punibilità è esclusa nel solo caso in cui non si crei un concreto ostacolo all'identificazione della provenienza delittuosa della provvista. Ma è indubbio che, se così è, la formulazione doveva essere più puntuale.
Insomma, salva quest'ultima interpretazione, con l'autoriciclaggio siamo arrivati così avanti da tornare addirittura indietro; indietro fino a "riesumare" un istituto del diritto romano, gli ormai dimenticati "quasi delitti", che tutte le tradizioni giuridiche moderne avevano deliberatamente scelto di non considerare, data l'indeterminatezza che li contraddistingueva e la somma ingiustizia che derivava dal sanzionare un reato non individuato.
Insomma, anche sulla base di una lettura più attenta della norma emerge, evidente, la necessità di correzioni importanti. Interventi rispettosi, innanzitutto, di un diritto sacrosanto dei cittadini-contribuenti: quello di conoscere esattamente se e a quali condizioni sia loro imputabile un reato e, quindi, irrogabile una pena detentiva. Ci auguriamo, però, che l'aula di Montecitorio faccia la sua parte e corregga questa evidente "svista", perché non è consentito al legislatore, in un settore così delicato, lasciare spazi di incertezza interpretativa.

il Fatto 14.10.14
Manovra, ora Renzi ha 30 miliardi di guai
Il premier cambia idea sulla legge di stabilità: nuovo taglio Irap da 6,5 miliardi. Ma non si sda con quali soldi
di Stefano Feltri


Ameno di 48 ore dal Consiglio dei ministri che deve approvare l’impianto della legge di Stabilità, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ribalta la sua linea di politica economica: altro che manovrina da 20 miliardi, il governo muoverà 30 miliardi il prossimo anno che dovranno comprendere un taglio di 6,5 miliardi all’Irap, la tassa più odiata dalle imprese. E anche “incentivi che permetteranno per un triennio di non pagare contributi a chi fa assunzioni a tempo indeterminato”.
“GUARDIAMO il debito e il deficit e compariamo gli impegni con quello che hanno fatto, è un esercizio puramente aritmetico”, dice il commissario europeo agli Affari economici Jirky Katainen, secondo cui “non c’è alcun negoziato con l’Italia”. E Federico Signorini, della Banca d’Italia, in audizione alla Camera, avverte che non è scontato il parere positivo della Commissione europea al rinvio del pareggio di bilancio dal 2016 al 2017. L’Ufficio parlamentare di bilancio dice che le condizioni ci sono, merito della recessione più grave del previsto. Ma Bankitalia segnala molte fragilità della Nota al Def, il documento con i numeri alla base della legge si stabilità: difficilmente lo spread tra titoli di Stato italiani e tedeschi si stabilizzerà a 100 punti dai 170 attuali, l’aumento del Pil da 3,5 punti frutto delle grandi riforme approvate è incerto, “oltre due terzi dell’impatto sono riconducibili a misure in corso d’approvazione, alcune delle quali non ancora delineate con sufficiente grado di dettaglio” e le privatizzazioni nel 2014 daranno soltanto 0,28 punti di Pil, cioè 4,2 miliardi invece degli oltre 8 annunciati.
Ma Renzi non si fa spaventare da queste minuzie. E, approfittando dell’assenza del ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan impegnato in un vertice europeo in Lussemburgo, il premier anticipa la nuova linea davanti agli industriali di Bergamo.
UNA LEGGE DI STABILITÀ da 30 miliardi, dunque. Secondo fonti vicine al premier all’ingrosso le coperture saranno queste: 13 miliardi di euro dalla revisione della spesa, cioè tagli inevitabilmente lineari (7,4 ai ministeri, 4,5 agli enti locali, un po’ di sussidi alle imprese), poi 11 miliardi arriveranno dall’aumento del deficit previsto per il 2015, dal 2,2 al 2,9 per cento. Un altro miliardo dalle tax expenditures e sussidi vari, cioè da un aumento selettivo delle tasse per qualcuno che beneficia di sussidi giudicati illegittimi. E, dulcis in fundo, 2-3 miliardi dalla lotta all’evasione fiscale, soldi tutti virtuali che in passato la Ragioneria generale dello Stato ha sempre guardato con grande sospetto, visto che non si sa se entrano e non si sa come riconoscerli (difficile scorporare l’aumento del gettito dalla guerra agli evasori dovuto all’azione del governo da quello frutto di altre dinamiche). Ricapitolando: i 30 miliardi arrivano da deficit, cioè spese non coperte, da tagli lineari che spesso danno benefici inferiori alle attese (vedi il tentativo di costringere i ministeri a risparmiare, al massimo arriveranno 3 miliardi) e interventi sugli enti locali. Che avranno un miliardo di spesa possibile nel patto di Stabilità ma, come ha segnalato ieri il presidente della commissione Bilancio alla Camera Francesco Boccia (Pd), sono costretti ad anticipare il pareggio di bilancio al 2015 proprio mentre il governo lo rinvia al 2017. Una combinazione che si traduce in minori trasferimenti da Roma ai territori.
I margini di spesa frutto del rinvio del pareggio di bilancio sono utili se “utilizzati efficacemente per rilanciare la crescita e per innalzare il potenziale di sviluppo dell’economia nel medio - lungo termine”, nota Bankitalia. Cioè investimenti, infrastrutture. Ma Renzi vuole il colpo a effetto: e allora via la componente lavoro dell’Irap, quel pezzo dell’imposta che spinge gli imprenditori a lamentare la “tassa sul lavoro”.
CONFINDUSTRIA non ne sapeva niente, se davvero arriva questo favore fiscale da 6,5 miliardi (un quarto del gettito complessivo dell’Irap), gli imprenditori saranno molto soddisfatti.

il Fatto 14.10.14
Renzi&Padoan, le balle e la crescita che non c’è
Si vantavano appena insediati di basare le loro scelte su previsioni economiche “serie e rigorose”
Che però ora, alla vigilia della legge di stabilità, sono costretti a smentire
E la situazione continua a peggiorare
di Maurizio Pallante


Il 22 febbraio 2014 entra in carica il governo guidato da Matteo Renzi. L’8 aprile il Consiglio dei ministri approva il relativo decreto-legge e il Documento di economia e finanza, che prevede un incremento del Pil dello 0,8 per cento nell'anno in corso (il governo Letta aveva previsto l’1 per cento) e dell'1,3 per cento nel 2015. Nonostante la crescita, si prevede anche un aumento del tasso di disoccupazione al 12,8 per cento. In conferenza stampa il premier afferma: “Questo è un documento molto serio e molto rigoroso. Credo che dobbiamo alla storia anche personale di Padoan il rispetto che si deve a previsioni che io ho definito rigorose, lui mi ha corretto con serie”.
Cinque settimane dopo, 16 maggio, l'Istat comunica che nel primo trimestre dell'anno il Pil italiano è tornato a scendere, anche se di un marginale -0,1 per cento rispetto al trimestre precedente, ma del -0,5 su base annua, vanificando le aspettative su una ripresa ormai imminente. “Non mi faccio facili illusioni quando il Pil è +0,1 per cento, non mi deprimo quando, come oggi, è -0,1 per cento. Valuteremo con grande attenzione i dati Istat che sicuramente non ci fanno piacere”, ha commentato il premier Matteo Renzi, che si è in ogni caso dichiarato “molto fiducioso, ottimista” perché “i numeri sono molto incoraggianti”.
A CONFERMA di quanto dichiarato dal presidente del Consiglio l'8 aprile sulle previsioni rigorose e i numeri seri, sfuma definitivamente l'incremento del Pil del +0,8 per cento previsto dal Def per il 2014 e, a fortiori, la speranza di una smentita in positivo. Secondo l'Istat la crescita sarà dello 0 per cento. È diminuita anche l'inflazione, perché i consumi non sono cresciuti nonostante il bonus di 80 euro stanziato dal governo. Bankitalia e Confindustria valutano che l'effetto espansivo è stato praticamente nullo (+0,2 per cento sui consumi, +0,1 per cento sul Pil nel biennio 2014-2015) e confermano i dati Istat sulla stagnazione. Tuttavia prevedono, tanto per cambiare, che in futuro il Pil crescerà anche più di quanto precedentemente previsto, questa volta dell'1,3 per cento nel 2015, contro l’1 per cento stimato a gennaio.
Il 30 giugno l'Istat conferma che il Pil nel primo trimestre 2014 è diminuito dello 0,1 per cento rispetto al periodo precedente e dello 0,5 per cento su base annua. L'economia è tornata a scendere dopo il +0,1 per cento congiunturale dell'ultimo trimestre 2013. Il tasso di disoccupazione a maggio raggiunge il 12,6 per cento, con un aumento di 0,1 punti percentuali rispetto ad aprile e di 0,5 punti nei dodici mesi. Non riuscendo i governi in nessun modo a far ripartire la crescita, l'istituto di statistica dell'Unione europea ha elaborato una revisione del sistema di calcolo del Pil (Sec 2010) introducendo tra le attività che concorrono a definirne l'ammontare: i servizi della prostituzione, il contrabbando di alcol e tabacco, il traffico di droga. Su questa revisione Matteo Renzi fonda la speranza di una ripartenza col botto dopo le vacanze estive. Invano il 23 giugno l'ufficio studi di Bankitalia aveva provato a frenare gli entusiasmi prevedendo che il ricalcolo “avrà di sicuro un effetto sui livelli assoluti del Pil, ma non sul tasso di variazione. La dinamica congiunturale resta quella”.
Il 6 agosto l'Istat comunica che nel secondo trimestre il prodotto interno lordo italiano è calato dello 0,2 per cento. Poiché nel primo trimestre la diminuzione era stata dello 0,1 per cento, l’Italia è di nuovo in recessione, dopo esserne uscita solo alla fine del 2013. La variazione del Pil acquisita per il 2014, cioè quella che si avrebbe se fino a fine anno non ci fossero variazioni, è pari al -0,3 per cento e costituisce il livello più basso registrato negli ultimi 14 anni.
LE SUCCESSIVE SMENTITE delle sue previsioni rigorose inducono il ministro Padoan a dire: “Il Pil non basta più, il benessere dei cittadini ha più dimensioni”. Il guaio è che la diminuzione del Pil farà salire il rapporto deficit/Pil a un livello più alto rispetto al 2,6 per cento che il governo aveva inserito cinque mesi prima nel Documento di economia e finanza. Quindi non sarà possibile aumentare il debito per sostenere la crescita. A complicare le cose ci si mette anche la deflazione. Alla fine d'agosto l'indice dei prezzi al consumo misurato dall'Istat segna un calo dello 0,1 per cento rispetto allo stesso mese dell'anno precedente. Gli 80 euro in più nelle buste paga non sono serviti a rilanciare la domanda, ma l'evidenza non impedisce al premier di sostenere che gli effetti espansivi si vedranno in futuro.
A metà settembre l'Istat presenta i valori del Pil degli anni precedenti, ricalcolati col nuovo sistema che include le attività illegali. E, finalmente, senza che sia cambiato nulla nell'economia reale, il Pil cresce. Nel 2011 risulta di 1.638,9 e non di 1.579,9 miliardi di euro come precedentemente indicato, con un incremento di 59 miliardi, pari al 3,7 per cento. Ma il rapporto deficit/Pil è migliorato molto meno delle aspettative: solo di 0,2 punti, dal 3,7 al 3,5 per cento. Tornando alla dura realtà del presente, le previsioni dell'Ocse valutano che il Pil italiano nel 2014 farà registrare una flessione più alta del previsto, raggiungendo il -0,4 per cento, invece del +0,5 per cento che aveva previsto a maggio e del +0,8 per cento previsto dai calcoli seri del governo.
DI RITORNO DAL G20 in Australia, il 24 settembre il ministro dell'economia Pier Carlo Padoan dice in un'intervista: “Per definizione una crescita nominale così bassa, data da crescita reale negativa e inflazione molto bassa, è un problema in più per la dinamica del debito”.
A settembre i prezzi al consumo si riducono di un ulteriore 0,1 per cento. Il governo rivede le stime di crescita dell'economia: dal +0,8 al -0,3 per cento nel 2014, ma, tranquilli, nel 2015 risalirà, un po' meno del previsto, ma risalirà: dello 0,6 anziché dell'1,3 per cento. Il rapporto tra deficit e Pil sarà al 3 per cento nel 2014, la soglia limite prevista dagli accordi europei, e al 2,9 per cento nel 2015.

La Stampa 14.10.14
L’ora degli esami per il premier
di Michele Brambilla

qui

Repubblica 14.10.14
Legge di stabilità
Alla ricerca di una scossa
Dopo tre anni di caduta continua dell’economia è il momento della verità e delle scelte
Ma vale per tutti gli italiani, non solo per Matteo Renzi
di Federico Fubini


NON è una Legge di stabilità per stomaci leggeri quella in arrivo: 13 miliardi di tagli di spesa, 5,5 miliardi di nuove entrate e soprattutto, misura senza precedenti negli ultimi anni, 11 miliardi di provvedimenti finanziati semplicemente aumentando il deficit pubblico.
IN QUESTA aritmetica semplice da enunciare, difficilissima da eseguire, si trova la dimostrazione che a Palazzo Chigi e al Tesoro si è affermata definitivamente una nuova consapevolezza: la posta in gioco del 2015 non è tanto il Fiscal Compact, né Maastricht e il tetto del 3%. Questa volta nella stessa grandezza della manovra lorda è racchiuso un messaggio di anche maggiore urgenza: il 2015 è l’anno in cui l’Italia ritrova dopo anni un suo equilibrio come economia avanzata capace di stare sui mercati globali, o rischia di scivolare verso una situazione molto più difficile.
Non c’è neppure bisogno di molte parole, a questo punto. I numeri stessi della legge di bilancio in preparazione dicono che il premier Matteo Renzi ha capito — forse non subito — che questa è la posta in gioco e che lui stesso deve scommettere su una scossa tramite la manovra. Là dentro conteranno certamente le fonti di contenimento del deficit. I 13 miliardi di tagli, circa lo 0,8% del Pil, non saranno facili da trovare e ancora più duri da trasformare in fatti sul tessuto sclerotico dello Stato italiano. I cinque miliardi e mezzo di aumento delle entrate in- cludono poi molte voci controverse: una nuova tassa sui monopoli del gioco d’azzardo, la fine di molte deduzioni e detrazioni e, nelle speranze di Renzi, ben tre miliardi dalla lotta all’evasione fiscale.
Ma conterà ancora di più il modo in cui saranno impiegate quelle risorse e le altre, quelle ricavate emettendo sui mercati internazionali 11,5 miliardi di titoli di Stato in più. È qui il cuore della scommessa di Renzi, il tentativo di togliere l’Italia dall’equilibrio instabile che minaccia sempre di più di ribaltare i suoi assetti finanziari. Posto che resteranno i 10 miliardi di bonus fiscale per le famiglie a medio-basso reddito, benché non sembrino funzionare granché, ci sarà un tentativo di rivitalizzare la competitività del settore produttivo e la creazione di posti di lavoro con contratti a tempo indeterminato.
Le imprese dovrebbero ricevere varie forme di detassazione, che nel complesso valgono 7,5 miliardi di euro. Il messaggio racchiuso in un dispositivo del genere è che Renzi è sempre più tentato dal provare il tutto per tutto pur di rivedere la crescita in Italia. Non arriva a sfidare Bruxelles con una manovra che rinuncia esplicitamente alla soglia di deficit al 3% del Pil, ma ci va vicinissimo. Se neanche la prossima primavera dovesse arrivare la ripresa su cui conta il governo, se il Paese non dovesse crescere dello 0,6% appena iscritto nel Documento di economia e finanza, il disavanzo dell’Italia è destinato a saltare. Questo pone un problema politico immediato: non è escluso che la Commissione europea o gli altri governi di Eurolandia chiedano una revisione di questa Legge di stabilità, quindi per Renzi si aprirà un negoziato sul filo del rasoio a Bruxelles.
C’è però qualcosa che conta persino di più delle regole europee sui conti pubblici, ed è la stabilità finanziaria. L’Italia non è sull’orlo di una nuova crisi di fiducia dei mercati oggi, ma negli ultimi due mesi i saldi fotografati dal sistema europeo delle banche centrali mostrano una fuoriuscita di capitali dal Paese per la (notevole) cifra di 67 miliardi di euro: un caso unico in Europa. Il deflusso è avvenuto quando si è capito che la recessione è di nuovo qui. Ciò significa che l’Italia ha disperatamente bisogno di competitività e crescita economica per far salire, e subito, il prodotto interno lordo contro cui si misura il debito pubblico. Non è detto che questo Paese si possa permettere un’ulteriore caduta dell’economia nel 2015 senza rischiare molto: al contrario.
Di qui il tentativo di Renzi di dare una frustata con la Legge di stabilità. Non è una misura del tutto radicale, perché poteva ridurre ancora di più le tasse sulle imprese o sul lavoro e da subito fissare per legge ulteriori tagli di spesa a valere dai prossimi anni. Non sarà fatto, sembra. Ma arriva un passo in questa direzione. Sarà interessante vedere se gli imprenditori italiani saranno in grado di cogliere l’occasione, e neanche questo è scontato. Di recente il governo ha offerto a loro e ai sindacati di rafforzare molto la negoziazione dei contratti in azienda, una misura che ovunque in Europa ha rafforzato la competitività delle imprese, eppure Confindustria in proposito è parsa timida e indecisa. Anche l’associazione degli industriali deve decidere qual è il suo ruolo in questo secolo: mantenere il monopolio della contrattazione centralizzata, e giustificare la sua stessa esistenza vecchio stile, oppure fare l’interesse dei suoi associati e della creazione di posti di lavoro.
Dopo tre anni di caduta continua dell’economia è davvero il momento della verità e delle scelte. Ma vale per tutti gli italiani, non solo per Matteo Renzi.

Il Sole 24.10.14
Articolo 18. Tutti i licenziamenti saranno impugnati come disciplinari dopo il mantenimento della reintegra per questa tipologia
Jobs act, retromarce e misure insufficienti
di Corrado Passera


«La riforma del lavoro è fatta, ora passiamo a quella del fisco». Come in un videogioco, Matteo Renzi pensa freneticamente al livello successivo, senza preoccuparsi di quanto realizzato. È accaduto per le tante riforme annunciate in questi otto mesi e rimaste solo titoli o slides e il copione si ripropone oggi per il Jobs Act.
La fiducia strappata al Senato verrà replicata alla Camera, impedendo il confronto parlamentare dopo che quello con le parti sociali è stato ridotto a poco più che un sofferto siparietto, per cui, verosimilmente, il testo non subirà modifiche, lasciando inalterati i dubbi di queste ore. Servirà o no a ridurre la piaga della disoccupazione soprattutto giovanile che sta ulcerando milioni di famiglie? Permetterà alle imprese di tornare a investire sul proprio futuro, con regole chiare e moderne, in grado di far loro affrontare le sfide del mercato globale senza le mani legate? La risposta, tanto disarmante quanto preoccupante, è no. Vediamo perché.
L'articolo 18 è ancora lì e ci è già stato detto che rimarrà il reintegro oltre che per i licenziamenti discriminatori - giusto - anche per i licenziamenti disciplinari (tutti da ora in avanti verranno impugnati come tali); e comunque riguarderà solo i nuovi assunti allargando il dualismo di oggi. Si parla di demansionamento, ma con vincoli tali che rischiamo addirittura di peggiorare la situazione attuale e di rendere ancora più difficile salvare posti di lavoro in occasione di ristrutturazioni inevitabili. Non si parla di esigibilità dei contratti e di norme sulla rappresentanza. Non si semplifica il contratto di apprendistato e si sposta tutta l'attenzione su un titolo senza contenuti, il "contratto unico a tutele crescenti", che tutti possono immaginare come meglio conviene.
È poi singolare (o meglio, inquietante) che chi usa lo scudo della fretta porti nelle aule parlamentari una nebulosa legge delega che concede al governo sei mesi per essere riempita di contenuti. Se la mancanza di lavoro è un'emergenza serviva un intervento di grande impatto suscettibile di provocare nel più breve tempo possibile risultati apprezzabili. Cosa potrà mai succedere nei prossimi sei mesi di vuoto legislativo e senza nessuno stimolo all'economia? Che la situazione delle imprese e delle famiglie peggiorerà. Mario Draghi ha detto che questo è il momento di pensare alle assunzioni, non ai licenziamenti. Bene. Ma ha detto anche che vanno fatte riforme profonde e rimessi in moto gli investimenti: privati e pubblici. Invece il governo gli investimenti li taglia, preferendo aumentare di 50 mld (sì, proprio 50) la spesa corrente, con 80 mld di tasse in più e investimenti pubblici ridotti al lumicino. Sono dati ufficiali, contenuti nel Def. Dati che il Governo mette nero su bianco, mentre lascia in bianco le deleghe che dovrebbero garantire il rilancio.
In conclusione. Non è solo sbagliato il Jobs act. Act, sia nelle intenzioni che negli impalpabili contenuti. È che manca del tutto una vera politica industriale di medio periodo che consenta al Paese di ripartire e di evitare un trend di costante peggioramento che a breve potrebbe diventare insostenibile. Serve riavviare gli investimenti privati e pubblici e uno strumento ci sarebbe, i Fondi Strutturali Europei, ma addirittura sentiamo parlare di ridurre i cofinanziamenti nazionali. Serve riavviare gli investimenti dando un segnale fortissimo sulla fiscalità delle imprese dimezzando l'Ires: i 20 miliardi che servono sono chiaramente recuperabili. Serve insomma una scossa di grandissime dimensioni: non è certo un caso se nel programma di Italia Unica si parla di almeno 400 mld di interventi, spiegando per filo e per segno dove andarli a prendere senza sfondare il deficit. I governi precedenti non hanno avuto il coraggio di questa ambizione e, per ora, nemmeno l'attuale. Speriamo di coglierne qualche traccia nella prossima Legge di Stabilità.
Il passodopopasso renziano rischia di farci perdere altri mesi preziosi, mentre l'opposizione si lascia ipnotizzare - per convenienza e incapacità - dalla narrazione di un populismo vuoto. Guardiamo cosa è successo con la semplificazione della burocrazia: Province? Risolto! Purtroppo stanno invece rieleggendone i vertici proprio in questi giorni e si sono inventati quelle metropolitane, guardandosi bene dal chiarire le nuove responsabilità di Comuni e Regioni. Ma clamoroso è il caso dei debiti scaduti della Pa: non solo non sono riusciti a liquidare i fondi messi a disposizione dai Governi precedenti, ma neppure sanno dirci a quanto ammonta il dovuto scaduto, mentre la via crucis dei creditori è sempre più penosa: certificazione, garanzia, anticipazione bancaria...
Imprese e famiglie meritano una politica molto più concreta, molto più rispettosa di competenza e merito, molto più coraggiosa nel realizzare, e non solo di annunciare cambiamenti, e, soprattutto, capace di creare largo consenso in Italia e in Europa intorno ad un programma di innovazione e sviluppo.

Il Sole 14.10.14
La riforma del lavoro
Lavoro, alla Camera parte un iter «blindato» Con fiducia sì scontato
Damiano: puntiamo al terzo ok a dicembre
di Giorgio Pogliotti


ROMA Giovedì la commissione lavoro della Camera inizierà l'esame del Ddl delega, meglio noto come Jobs act. La minoranza Pd che preme per correzioni al testo ricevuto dal Senato, ha margini di manovra assai limitati dopo l'annuncio del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, sull'intenzione del governo di ricorrere alla fiducia se, a causa delle proposte di modifica, Montecitorio dovesse aprire la prospettiva di un rimpallo tra i due rami del Parlamento. Il premier Renzi vuole fare in fretta e non intende riaprire una partita che, dopo il via libera del Senato, considera sostanzialmente chiusa.
In commissione lavoro l'esame dell'articolato sarà accompagnato da audizioni, dopodiché si aprirà la discussione generale: tra i 21 deputati del Pd che siedono in commissione, buona parte sono considerati esponenti della minoranza Dem intenzionata a presentare "emendamenti", così come i deputati di Sel e del Movimento 5 stelle. Bisognerà vedere sui deputati Pd (diversi con passato da ex sindacalisti) che effetto avrà la manifestazione della Cgil del 25 ottobre, e l'annuncio della Camusso di un possibile annuncio di uno sciopero generale. Anche se il governo ha sempre in mano l'arma della fiducia che, come si è visto al Senato, ha ricompattato le diverse anime del partito. Quanto all'area "moderata" della maggioranza, ovvero Nuovo centro destra, Scelta civica e Popolari per l'Italia, fa quadrato intorno al testo approvato dal Senato. «Faremo una discussione normale in commissione – afferma il presidente, Cesare Damiano (Pd) –. Vorremmo evitare la fiducia, il nostro obiettivo è quello di consentire a Renzi di concludere l'iter parlamentare prima della fine del semestre italiano, in modo che la terza lettura da parte del Senato si concluda agli inizi di dicembre». Gli emendamenti della minoranza Pd punteranno a toccare la disciplina del reintegro (l'orientamento è quello di proporre di esplicitare il contenuto dell'ordine del giorno della direzione nazionale del Pd), il demansionamento (per affermare il ruolo del sindacato in azienda), i controlli a distanza (affinchè riguardino gli impianti e non i lavoratori).
Intanto oggi si riunirà l'ufficio di presidenza del Senato per decidere sulle possibili sanzioni a seguito dell'espulsione dall'Aula del capogruppo del Movimento 5 Stelle Vito Petrocelli, durante la discussione sul Ddl delega. «Con il Jobs act è stato fatto un primo passo ma non basta: occorrono investimenti» ha commentato il presidente del Senato, Piero Grasso, che sull'ipotesi della fiducia alla Camera ha rivolto un auspicio: «Speriamo che non ce ne sia bisogno, ma queste sono valutazioni che fa il governo».

il Fatto 14.10.14
Livorno, rivincita alle Provinciali
il Pd mantiene almeno la Provincia. Grazie al patto con Forza Italia
Batte il M5s grazie ai voti di Berlusconi
Sconfitto candidato di liste civiche, sinistra e grillini. Matteoli diceva: “Democratici male minore”
di David Evangelisti

qui

Corriere 14.10.14
Manovre a sinistra per Landini leader del «partito del lavoro»
Il tentativo di aggregare le forze fuori dal Pd
di Andrea Garibaldi


ROMA C’è il nome di Maurizio Landini scritto nel futuro fragile della sinistra a sinistra del Partito democratico? «Non mi va di discutere di queste cavolate», dice lui, il segretario della Fiom, metalmeccanici Cgil, spesso presente in tv, fermo nel difendere chi lavora nelle fabbriche. È sicuramente sincero quando precisa: «Io faccio il sindacalista della Fiom, ho ancora tre anni di mandato e vorrei provare a completarlo». Chi gli lavora al fianco nota che per la prima volta lo spiraglio esiste, per la prima volta non ha detto «mai»: «Provare a completare il mandato...». Un’altra apertura è in una seconda frase: «La nostra è una battaglia sindacale, che certo ha anche un significato politico, perché stiamo proponendo un modello sociale diverso».
In altre occasioni Landini era stato più netto. «Rifiuto l’offerta e continuo a fare il sindacalista», disse al sindaco di Bari, Michele Emiliano, che lo propose leader di una lista civica nel marzo 2012. Nessun seguito alle offerte di affiancare Ingroia in Rivoluzione civile alla fine del 2012.
I collaboratori spiegano che davvero Landini vorrebbe finire il suo secondo e ultimo mandato da segretario Fiom. A meno che non succeda qualcosa di straordinario, non prenda forma un progetto politico diverso dalla sommatoria di piccole forze diverse e distanti (tradizione della sinistra a sinistra del Pd). Altrimenti, Landini potrebbe restare in Cgil, tentare la strada — impervia per un metalmeccanico — della successione a Susanna Camusso, che scade in contemporanea con lui.
Il programma politico di Landini è quasi già scritto, perché oltre naturalmente al tema del lavoro, dell’articolo 18, viene sottolineato come sia stato lui per primo, in tv da Fabio Fazio, a lanciare l’idea del Tfr in busta paga, o come il contratto a tutele crescenti e l’eliminazione di gran parte delle forme di precariato sia una battaglia Fiom. E poi Landini ieri ha bocciato, a proposito del disastro di Genova, il «modello di cementificazione» proposto con lo «Sblocca Italia» e ha duramente criticato il taglio generalizzato dell’Irap promesso da Renzi. Il presidente del Consiglio gli piace perché è veloce e salta gli schemi, ma sui contenuti niente sconti.
Giorgio Airaudo, che ha lavorato a lungo assieme a Landini e ora è deputato di Sel, sostiene che «c’è un grande spazio per un partito del lavoro», che «i lavoratori precari e stabili hanno bisogno di una voce». Aggiunge che gli piacerebbe molto «un Lula italiano» e che il sindacalista presidente del Brasile dal 2002 al 2010 «era metalmeccanico e saldatore». Come Landini. Aggiunge che la Fiom «non è mai stato un sindacato corporativo» e quindi chi ci lavora è preparato per la politica e infine che «la forza di Landini è la sua credibilità». Tuttavia, «oggi gli sconsiglierei la politica, è un ottimo segretario Fiom».
Landini è al lavoro per la manifestazione del 25 ottobre contro la politica economica del governo. All’assemblea dei delegati Fiom a Firenze ha detto che «la vera partita non si gioca in Parlamento, si gioca nel Paese, sulla base del consenso e della rappresentanza. Non ci fermiamo anche se il governo mette la fiducia». La Fiom già prepara lo sciopero generale della categoria e ieri Camusso ha annunciato che la Cgil potrebbe proclamarne uno dopo il 25. Una vicinanza inedita fra segretario generale e Fiom.
Il caso «Landini in politica» si apre perché la sinistra appare disunita e priva di guida. Lista Tsipras smembrata, Vendola non in grado di tenere tutti assieme. Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi, dice che ci vorrebbero un progetto capace di affascinare i ragazzi alle prese con il fango a Genova e una visione ecologica del modello produttivo. Dalla minoranza Pd non arrivano segnali significativi: Landini è considerato troppo radicale, anche se è stato applaudito a Bologna al seminario promosso da Cuperlo.
Il nome di Landini è stato affiancato a quello di Stefano Rodotà in questi piani politici a tavolino. Ma lui, il professore, preferisce non toccare l’argomento.

Repubblica 14.10.14
Achille Occhetto
A 25 anni dal suo annuncio, che decretò la fine del Pci, l’ultimo segretario fa un bilancio: “Adesso hanno vinto i moderati io ho votato Tsipras, la politica mi ha deluso”
“Per molti la Bolognina era voglia di potere ma poi al governo ci sono andati solo loro”
“Fui messo da parte dopo la sconfitta contro Berlusconi, ma poi la sinistra lo ha tenuto in vita per anni”
“Ho traghettato un partito che poteva finire sotto le macerie del comunismo internazionale”
“Il premier mi piaceva da rottamatore Non vorrei che si rivelasse una bolla”
intervista di Concetto Vecchio


ROMA «Una mattina ho aperto il giornale, c’era un articolo sul Pd, e c’era scritto che per la prima volta si era entrati nel partito del socialismo europeo con Renzi. Sono trasecolato: “Ma non se lo ricordano che il partito del socialismo europeo l’ho fondato io”. Questa damnatio memoriae sarebbe un fatto da psicoanalisi collettiva».
È passato troppo tempo, troppa storia, e Achille Occhetto è come dimenticato, una figura di un mondo lontano, come certi film in bianco e nero. Era una domenica, a Bologna, il 12 novembre 1989, quando propose di cambiare il nome al Pci: una bomba politica il cui significato ora un giovane faticherebbe a immaginare. Il muro di Berlino era caduto da tre giorni e il segretario del Pci parlò ai partigiani in una sede oggi occupata da una parrucchiera cinese. «Posso accendere la pipa, vero?». Ha 78 anni. La stanza piena di libri lentamente si riempie di volute di fumo.
Cosa ricorda della notte della caduta del Muro?
«Mi trovavo a Bruxelles, per un colloquio con Kinnock, l’allora segretario del Partito laburista. All’improvviso ci chiamarono concitati: “Accendete la tv”».
Fu dinanzi a quelle immagini che prese la decisione di cambiare nome al Pci?
«Io capii subito che non si poteva tornare in Italia e dire “ci vuole un rinnovamento”, quelle cose che si dicevano allora, perché l’evento cambiava la storia mondiale. E quindi diedi un annuncio degno del momento. Poi alcuni dei vecchi dirigenti mi rinfacciarono di non averli avvertiti, io penso che sono loro a non avere capito».
Ma perché decise in totale solitudine?
«Ma l’annuncio è un fatto politico terminale di un processo durato tutto l’anno, iniziato con la mia intervista all’ Espresso del gennaio 1989, quando spiegai che ormai la rivoluzione alla quale dovevamo rifarci non era quella di Ottobre, ma quella francese, ponendo al centro il problema della libertà. Con Ingrao a giugno andammo davanti all’ambasciata cinese per protestare contro i fatti della Tienanmen, e lì dichiarai: “In questo modo il comunismo è morto”. I giornali uscirono con titoli a nove colonne: “Occhetto dichiara che il comunismo è morto”. Poi cadde il Muro, ma il crollo del Muro non l’avevo certo scelto io».
Quel che colpisce, anche a distanza di tempo, è la modalità dell’annuncio: un parlare cifrato. Era l’unico modo per dirlo, quasi parlando d’altro?
«Ma io non parlai d’altro. Dissi ai partigiani: “Siamo in una situazione in cui bisogna cambiare tutto, proprio tutto”».
Sì, ma non disse: “Ora cambiamo nome”.
«Perché temevo quello che purtroppo sarebbe avvenuto, ovvero che l’attenzione si sarebbe concentrata sul nome, invece che sul contenuto, sulla Cosa».
Il Pci aveva 1 milione e 450 mila iscritti e il dibattito che ne seguì, tra favorevoli e contrari, fu un’epopea collettiva. Perché la Svolta è dimenticata?
«Allora le ideologie facevano parte della vita dei partiti. Intere famiglie si divisero, ci furono perfino separazioni tra marito e moglie: fu la più grande discussione corale della vita politica italiana. Io stesso ero profondamente turbato. Per sciogliere la tensione mia moglie mi faceva cantare».
Il suo annuncio rompe un’armonia?
«No, l’armonia non esisteva da tempo, c’erano molte divisioni: nell’ultima fase anche Berlinguer fu contrastato, se si va al di là delle rappresentazioni agiografiche».
Per contestarla le attribuirono figli illegittimi, le rinfacciarono il bacio pubblico con sua moglie. Ne ebbe dolore?
«Accuse miserabili. Figli illegittimi come si sa non ne ho mai avuti e il bacio con mia moglie, con quello che succede ora nella vita politica italiana, mi pare tutt’altro che scandaloso».
Segue ancora la politica?
«Poco. Faccio fatica a capirla. È impove- rita, tutta improntata sull’occasionalità, sull’oggi. Noi eravamo abituati, forse esagerando, a coniugare politica e cultura, e quindi la politica era anche progetto».
Per chi ha votato alle ultime Europee?
«Per Tsipras, ma sono deluso. Sono tempi duri per la sinistra».
Chi vede dei vecchi compagni?
( Ci pensa) . «Un tempo Veltroni, ma il suo film non mi è piaciuto. Afferma che la storia del Pci finisce con la morte di Berlinguer, quando noi lo recuperammo nel congresso dell’89».
Chi le è rimasto amico?
«Qualche volta incrocio Petruccioli».
Di quella generazione lei è l’unico che non va al potere. Le è dispiaciuto?
«Taluni mi avevano rimproverato di avere fatto la Svolta perché avevo narcisisticamente voglia di andare al governo, e poi loro ci sono andati tutti, compresi alcuni di Rifondazione. Io invece non ho avuto più incarichi, non so nemmeno come sono fatti quei palazzi. Ma ho traghettato un partito che poteva finire sotto le macerie del comunismo internazionale».
Come ha trascorso questi ultimi anni?
«Ho avuto un periodo molto tormentato. Vede, io avevo immaginato la Bolognina come un’uscita da sinistra dalla crisi del comunismo, invece la maggioranza del gruppo dirigente che mi ha sostituito si è mosso su una linea moderata, di scelta del governo per il governo. Questo inizialmente mi ha addolorato. Ora me ne sono fatto una ragione».
Avrebbe mai immaginato che Berlusconi sarebbe durato vent’anni?
«Quello non poteva immaginarlo nessuno».
Ma la sua uscita del ‘94 sulla coalizione progressista come “gioiosa macchina da guerra” non celava una sottovalutazione del berlusconismo?
«Quella fu una battuta detta ai giornalisti che non ebbe alcun peso nella campagna elettorale. Ci buttammo a peso morto per battere Berlusconi. Il punto è che Martinazzoli non volle fare l’alleanza con noi, aveva dentro i Popolari pezzi della destra Dc. Noi perdemmo, ma prendemmo più voti di quelli che ha preso il Pd alle ultime politiche. Ora una campagna elettorale si può anche perdere, ma quel che è imperdonabile è la respirazione bocca a bocca che la sinistra ha fatto al Cavaliere negli anni successivi».
Nelle sue memorie ricorre di continuo D’Alema, come il gran visir che trama contro di lei. Che ruolo ebbe nella sua defenestrazione?
( Dà un morso alla pipa) . «Ma io non fui defenestrato, diedi le dimissioni da segretario».
Cosa pensa di Renzi?
«Mi piaceva molto quando batteva il tasto della rottamazione, ora lo vedo un po’ confuso, non vorrei che fosse una bolla. Spero per l’Italia che ce la faccia».
Secondo lei è un leader?
«Certo che lo è».
Ho qui un ritaglio dell’ Espresso di quei giorni: “Il ricordo che Occhetto lascerà di sé potrà dircelo solo il futuro”. Come pensa che sarà ricordato?
«Il ricordo è una cosa molto difficile, perché cambia con il mutare del tempo. Mi piacerebbe che la gente comune mi ricordasse come un uomo onesto: come uno che ha sempre creduto in quello che ha fatto».

La Stampa 14.10.14
Scuola, record triste
Il conto dell’abbandono supera i 100 milioni l’anno
La ricerca: la dispersione può valere fino al 6,8% del Pil
di Fulvia Amabile


Ogni anno spendiamo circa 115 milioni di euro contro la dispersione ma l’Italia resta uno dei Paesi dell’Ue dove i ragazzi abbandonano gli studi prima degli altri. I 115 milioni di euro sono la somma dei 55 milioni investiti dallo Stato sotto forma di progetti nelle scuole e dei 60 milioni che arrivano, invece, dal Terzo Settore, la galassia di associazioni, onlus e enti privati che da sola supera l’impegno pubblico.  
Sono alcuni dei dati contenuti nella ricerca «Lost» che verrà presentata stamattina, promossa da WeWorld Intervita, dalla Associazione Bruno Trentin della Cgil e dalla Fondazione Agnelli in collaborazione con CSVnet e che si riferisce soprattutto a quello che accade in quattro città, Napoli, Milano, Roma e Palermo. 
Nello studio si prova a dare un’idea di quanto costi all’Italia perdere ogni anno decine di migliaia di ragazzi: tra l’1,4% e il 6,8% del Pil, vale a dire da 21 miliardi di euro a 106 miliardi di euro, a seconda della crescita del Paese. Eppure a partire dal 2007, come si ricorda nello studio, lo Stato ha investito 271 milioni di euro per la realizzazione di circa 5.600 progetti con 442 mila partecipazioni di studenti e 95 mila di adulti.
Per la prima volta oltre alle risorse pubbliche sono state studiate anche quelle private investite dal Terzo Settore e la realtà emersa non è ideale. Pur con notevoli differenze da città a città, l’attività principale è l’aiuto nei compiti scolastici (46,5%). 
I progetti del Terzo Settore durano nell’80% dei casi al massimo un anno scolastico, il 9% un biennio, il 10% più di un biennio. Più di un intervento su due coinvolge almeno 45 studenti. Solo un progetto su 4 è rivolto agli studenti stranieri ed «è emersa una tendenza solipsistica» nella gestione delle attività: il 50% dei progetti viene realizzato in totale autonomia dalle scuole, soprattutto a Roma e Milano. 
Vale a dire che ci si trova di fronte a tanti interventi, tante risorse, e nessun collegamento tra loro. Secondo Gianna Fracassi, segretaria confederale della Cgil, la ricerca è importante perché fa emergere «una lesione del principio di uguaglianza» e «segnala però le difficoltà dell’operatore pubblico soprattutto a causa dell’insufficienza delle risorse da dedicare al tema. Si hanno così interventi spesso deboli e troppo differenziati per territori».
Bisognerebbe intervenire in modo diverso, spiega Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: «Servono interventi urgenti e mirati, che grazie alla conoscenza dei profili dei soggetti maggiormente a rischio riescano ad anticipare il più possibile le azioni di prevenzione e contrasto». Ma servirebbe soprattutto anticipare gli interventi e «cominciare già dalla scuola media». Anche le risorse messe in campo dal Terzo Settore sono importanti ma saranno davvero efficaci - continua Gavosto - solo se riusciranno a «coordinarsi e fare massa critica con gli interventi promossi dal settore pubblico e dalle scuole stesse. Ora questo coordinamento non c’è, a scapito dell’efficacia delle azioni messe in campo».
Proprio questo è, quindi, l’obiettivo della ricerca, sottolinea Marco Chiesara, presidente WeWorld Intervita: «Chiediamo che le scuole si aprano maggiormente al nostro intervento e, al contempo, che Miur ed Enti pubblici in generale favoriscano il processo di collaborazione tra scuole e terzo settore, sostenendo la nascita di reti durevoli nel tempo e capaci di mostrare risultati concreti».

Repubblica 14.10.14
Maturità, solo prof interni. Sindacati e studenti: "Si rischia il diplomificio"
Con la riforma Giannini che cancella i commissari esterni si risparmiano 100milioni di euro
Dall'esterno solo il presidente delle commissioni
Ma per Cgil e Cisl "è un regalo alle scuole private"
di Salvo Intravaia

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Corriere 14.10.14
Eterologa, a Careggi il primo intervento in una struttura pubblica
L’annuncio dell’azienda ospedaliero universitaria dopo l’acquisizione dei gameti
Dal via libera della Regione già oltre mille coppie hanno chiesto di accedere al percorso

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il Fatto 14.10.14
La svolta
Gay e divorziati, il Sinodo inatteso
di Marco Politi


Il Sinodo ha svoltato. Resa pubblica ieri, la Relazione conclusiva del dibattito generale ad opera del cardinale ungherese Peter Erdo rivela un balzo in avanti inaspettato in direzione e in appoggio della linea riformista di papa Francesco. Si sapeva che c’erano due poli – quello dei frenatori e quello degli aperturisti – ma in assenza dei resoconti nominativi degli interventi in aula non era direttamente verificabile la reale consistenza dell’ala riformista.
Stile, sostanza e terminologia della relazione – specchio veritiero del dibattito – mostrano invece, senza ombra di dubbio, che si sta aprendo una pagina totalmente nuova nel modo di rapportarsi della Chiesa ai fedeli divorziati e risposati, alle convivenze, ai matrimoni celebrati in municipio, alle unioni civili, alle coppie gay.
SOPRATTUTTO in tema di omosessualità la maggioranza sinodale detta un approccio radicalmente innovativo. Mai, veramente mai, si era letto in un documento ufficiale prodotto dalla gerarchia ecclesiastica una frase del genere: “Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”. Seguito da una domanda rivolta ai vescovi di tutto il mondo: “Siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? ”. Mai vi era stato un riconoscimento diretto del valore stesso della coppia omosessuale come si riscontra in un altro brano: “Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners”.
In conferenza stampa il vescovo Bruno Forte, segretario speciale del Sinodo, commenta, entrando nel vivo di quella legge che l’Italia attende da oltre dieci anni: “Mi sembra evidente che le persone umane coinvolte nelle diverse esperienze hanno dei diritti che debbono essere tutelati e codificati. È una questione di civiltà”.
Parole pronunciate nella stessa sala delle conferenze stampa vaticane dove per decenni è stato ripetuto ossessivamente che legiferare sulle unioni civili avrebbe “minato e minacciato” l’istituto familiare dalle fondamenta.
Così la svolta è risultata assolutamente palpabile. Dal dibattito emerge che i presidenti delle conferenze episcopali – resi liberi da Francesco di discutere senza limiti preventivi – si sono lasciati alle spalle timori, prudenze, incertezze e, seppure con varie sfumature, si stanno aggregando gradualmente in una maggioranza riformista. Così come avvenne ai tempi del Concilio quando Giovanni XXIII mise da parte i freni della Curia romana e lasciò libertà di parola all’episcopato mondiale.
Lo ha confermato il cardinale filippino Luis Antono Tagle (che forse un domani potremo vedere sul trono di Pietro), spiegando che nella fase di dibattito sulle relazione più di un padre sinodale ha citato lo “spirito del Concilio” e della costituzione pastorale Gaudium et Spes e dell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI (che verrà beatificato domenica): “È stata rievocata una Chiesa non assorbita in se stessa, ma in ascolto e in dialogo con il mondo contemporaneo”.
IL DOCUMENTO (pur ricordando la posizione di chi non accetta cambiamenti) apre all’ipotesi di un “cammino penitenziale” al termine del quale i divorziati risposati possano ricevere la comunione. E ancora, viene espresso l’invito a riconoscere gli “elementi costruttivi” insiti nei matrimoni civili e anche nelle convivenze. Nelle unioni di fatto, è detto, “è possibile cogliere autentici valori familiari”. E un’attenzione speciale va riservata ai bambini, che vivono con coppie dello stesso sesso. Coppie che in nessun momento il documento demonizza.
È l’addio alla linea di papa Wojtyla e di papa Ratzinger. L’archiviazione di una linea, che vedeva la Chiesa in trincea e contrapposta a un mondo ostile, impegnato – così si ripeteva alla nausea – a erodere i “valori cristiani”. Papa Francesco, incontrando il presidente Napolitano, aveva già archiviato i cosiddetti principi non negoziabili. La Relatio di questo Sinodo ne costituisce il funerale. Non se ne parla più. E nemmeno è più menzionata la “legge naturale”. Al contrario, dal Sinodo viene il pungolo a ro affrontare il tema della sessualità come chiedeva già sul finire del secolo scorso il cardinale Martini. La relazione usa parole precise. “La questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica, integrando la dimensione sessuale”.
Ci sarà ancora un documento finale di questo Sinodo a fine settimana, forse più articolato. Vi saranno contraccolpi e poi l’assemblea del 2015. Ma la direzione imboccata è priva di equivoci. Chiara. E chi (dentro la Chiesa e fuori) vuole capire, ne dovrà prendere atto.

Corriere 14.10.14
Accogliere gli omosessuali
Il cambio di passo della Chiesa
di Luigi Accattoli

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Repubblica 14.10.14
Il sogno della Chiesa
di Vito Mancuso


LE DIRETTIVE di Papa Francesco ai padri sinodali aprendo i lavori il 5 ottobre scorso erano state chiare: mettersi in ascolto della realtà effettiva delle persone concrete.
E ANCORA : confrontarsi senza diplomazie e schemi ideologici aprioristici, parlare in modo trasparente e chiaro, e soprattutto coltivare interiormente lo sguardo che Gesù nella sua vita terrena posava sugli uomini e le donne che incontrava: lo sguardo del perdono, dell’accoglienza, della misericordia. Dopo la prima parte dei lavori sinodali penso si possa sostenere che i cardinali e i vescovi riuniti a Roma da tutto il mondo stanno prendendo in parola il volere del Papa.
Se si legge la “Relatio post disceptationem» del Cardinale Péter Erdõ, arcivescovo di Budapest e Relatore generale del Sinodo, ci si trova di fronte a delle autentiche sorprese, ad affermazioni inimmaginabili in un documento ufficiale della Santa Sede fino a ieri. Nuovo è anzitutto il metodo, non più dogmaticamente deduttivo (c’è una dottrina elaborata dal vertice che va applicata dalla base) ma pastoralmente induttivo: “I Padri sinodali hanno avvertito l’urgenza di cammini pastorali nuovi, che partano dall’effettiva realtà delle fragilità familiari”. Grazie a questa rinnovata prospettiva che parte dal basso sono almeno tre gli ambiti in cui le parole della Relatio risuonano molto innovative. Il primo riguarda i matrimoni civili e le convivenze, al cui proposito si invita a “cogliere la realtà positiva dei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, delle convivenze”. Persino la convivenza more uxorio, fino a ieri bollata come del tutto improponibile per una vita eticamente formata, oggi viene indicata come portatrice di realtà positive. Quanta differenza con i toni di crociata e di allarme per gli attentati alla sacralità della famiglia messi in campo dalla Chiesa italiana guidata dal cardinal Ruini all’epoca in cui il governo Prodi nel 2006 aveva in progetto di introdurre i cosiddetti Dico, naufragati principalmente per l’intransigente opposizione della Chiesa di Benedetto XVI e dei suoi “valori non negoziabili”!
Il secondo ambito riguarda le situazioni di quelle famiglie definite “ferite”, cioè che presentano casi di separati, divorziati non risposati, e divorziati risposati. È noto che è soprattutto su questa terza categoria che da tempo fervono le discussioni, concentrate in particolare sulla questione se proseguire nella linea dura che vieta loro l’accesso ai sacramenti oppure no, come vorrebbe la proposta del cardinal Kasper tanto gradita a papa Francesco. La “Relatio post disceptationem” non nasconde la divisione dell’aula sinodale (“alcuni hanno argomentato a favore della disciplina attuale in forza del suo fondamento teologico, altri si sono espressi per una maggiore apertura”) ma leggendo l’intero paragrafo è evidente che essa intende aprire la strada a un cambiamento della prassi consolidata: “L’eventuale accesso ai sacramenti occorrerebbe fosse preceduto da un cammino penitenziale — sotto la responsabilità dal vescovo diocesano — , e con un impegno chiaro in favore dei figli”. Non c’è più la durezza dottrinaria del non possumus , c’è lo sforzo di cercare sentieri di accoglienza e di speranza.
Ma i toni e le parole più innovativi riguardano il terzo ambito su cui la Relatio ha preso posizione, cioè le persone omosessuali. Riassumendo il senso della maggioranza degli interventi in aula, il cardinale Erdõ ha affermato che “le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”. Non sono quindi un problema, un soggetto malato, dei poverini che vanno accolti per spirito di carità; al contrario, sono una risorsa con doti e qualità! E in questa prospettiva il presule interpella la sua Chiesa: “Siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità?”. Certo l’apertura non è tale da equiparare le coppie gay al matrimonio (un passo, io penso, che obiettivamente non si può chiedere alla Chiesa cattolica), ma tuttavia si giunge ad affermare che “vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners”. Si riconosce cioè la presenza dell’amore, della dedizione sincera. E al di là delle etichette, che cosa è in gioco nel matrimonio se non l’amore fedele e duraturo “fino al sacrificio”? Monsignor Bruno Forte, il segretario particolare del Sinodo, è andato oltre, arrivando ad affermazioni che aprono esplicitamente agli interventi legislativi di riconoscimento delle coppie gay, quando ha definito “la ricerca di una codificazione di diritti che possano essere garantiti a persone che vivono in unioni omosessuali” come “un discorso di civiltà e di rispetto della dignità delle persone».
Questo non significa che tutte le pagine della Relatio sono intrise dalla medesima volontà innovativa. Le chiusure intransigenti sulla morale sessuale rimangono intatte, essendo stata ribadita la bontà e l’attualità dell’enciclica Humanae vitae , il deleterio documento di Paolo VI del 1968 che condanna ogni forma di contraccezione e qualifica come eticamente disonesto il rapporto sessuale che voglia esplicitamente evitare la procreazione. Ma probabilmente a questo Sinodo e a questa Chiesa oggi non si può chiedere di più. L’anno prossimo vi sarà un altro Sinodo e se questa volontà della Chiesa di papa Francesco di pensare concretamente al bene delle persone continuerà, anche la morale sessuale dovrà conoscere una profonda trasformazione. Nel 2008 sotto Benedetto XVI il cardinale Carlo Maria Martini dichiarava con tono sconsolato nelle sue Conversazioni notturne a Gerusalemme : “Sognavo una Chiesa giovane, oggi non ho più di questi sogni”. Oggi con papa Francesco è tornata la possibilità di sognare.

Corriere 14.10.14
Militare accusato di tortura in Argentina vive in parrocchia a Genova
In fuga dal Sud America è arrivato nel capoluogo ligure
Vita da pensionato per l’ex tenente colonnello che non può essere estradato
Contro di lui molte testimonianze
di Alessandra Coppola

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il Fatto 14.10.14
Desaparecidos. In 20 a processo


Venti persone, esponenti negli anni 70 e 80 dei regimi militari di Cile, Perù, Uruguay e Bolivia, sono state rinviate a giudizio dal giudice dell’udienza preliminare di Roma per omicidio plurimo aggravato e sequestro di persona. Sono ex presidenti di giunte militari e massimi dirigenti dei servizi segreti dell’America latina accusati della morte di ventitré italiani, oppositori dei loro regimi. Il processo si terrà nell’aula bunker di Rebibbia. La decisione arriva dopo dieci anni di indagini della Procura di Roma, che hanno ricostruito l’attività degli autori del “Piano Condor”: un accordo clandestino di cooperazione siglato dalle dittature di sette paesi, finalizzato all’eliminazione di qualunque oppositore al regime anche con la collaborazione della Cia. La chiusura dell’inchiesta, nella quale erano coinvolte 140 persone, risale a tre anni fa. Ma problemi burocratici legati alla notifica e la morte di numerosi esponenti delle giunte militari hanno ridotto il numero dei soggetti a rischio processo. Nel 2007, su 140 richieste di custodia cautelare, ne fu eseguita solo una nei confronti dell’uruguayano Nestor Jorge Fernandez Troccoli, 63 anni, già esponente dei servizi segreti della Marina accusato della morte di sei italiani.

Repubbliuca 14.10.14
Quelle smorfie nelle foto con i cadaveri l’orrore dell’infermiera che grida al complotto
di Jenner Meletti


LUGO (RAVENNA) Certamente scherza, il portantino che aiuta l’anziano a entrare in ospedale. «Allora, Gino, ti porto in ortopedia o direttamente in camera mortuaria?». La battuta non cancella la paura. Sembra diverso, adesso, questo Umberto I, che gli anziani chiamano « e sdeal», l’ospedale. Un pezzo di città che è come un pezzo di casa. Si arriva in bici in tutti i padiglioni, per ritirare un esame o per salutare un amico ricoverato. Qui sono passati anche i nonni dei nonni. Ma adesso l’ospedale mette i brividi, da quando si è saputo che un’infermiera professionale, Daniela Poggiali, 41 anni, è stata arrestata per avere ucciso una paziente, Rosa Calderoni, con un’iniezione di cloruro di potassio. «Ci sono stati 38 decessi sospetti — ha dichiarato il capo della Procura, Alessandro Mancini — e una decina di questi sono molto sospetti».
«Adesso dobbiamo avere paura anche di chi ci dovrebbe aiutare?». La signora Diana è davanti a Medicina, il padiglione dove lavorava la Poggiali. «Ci sono delle mele marce ma guai a pensare che tutti siano così. Io ho qui mia mamma, 89 anni. Ho protestato perché la tengono sempre a letto, mezza addormentata, così hanno meno da fare. Ma poveretti loro, infermieri e assistenti sono sempre meno numerosi…». Nel tribunale di Ravenna c’è l’interrogatorio di garanzia di Daniela Poggiali, davanti al gip Rossella Materia, presente il pm Angela Scorza. L’infermiera – sui giornali di tutto il mondo ci sono le storie di infermiere eroiche che negli Stati Uniti e in Spagna rischiano la vita per avere aiutato i malati di Ebola – deve invece spiegare perché abbia deciso di uccidere una signora anziana. «Ha parlato per un’ora, sicura, senza emozioni, come si accusasse un’altra persona. Gelida e diabolica. “Non c’entro nulla”, “Ma chi vi dice che sia stata io?”. “Sono una che sa fare bene il proprio mestiere, e da tanti anni”». E poi: «È un complotto». Ammette che sì, in quella stanza c’era solo lei, accanto all’anziana poi defunta. Nel corridoio del tribunale ci sono un paio di amici che la chiamano Cipollina. «Tieni duro, Cipo. Ricordati che abbiamo già i biglietti per Elton John, a dicembre».
Ora di pranzo, nel reparto Medicina. Sessantaquattro letti, 14 medici. Il colore arancione delle pareti è l’unica nota allegra. Bisognerebbe venire qui di notte, per capire il dramma. Anziani a letto, con la paura di non vedere la nuova alba. E passava lei, l’infermiera Poggiali che — lo scrive il gip — «per fare gli sgarbi ai colleghi abusava di sedativi e purganti nei confronti dei pazienti». Si sporcavano, i poveri anziani, già debilitati dagli anni e dalle malattie. Così l’infermiera poteva divertirsi, pensando al lavoro supplementare di colleghi e Oss — operatori socio sanitari — del turno del mattino. «Chi è capace di farsi fotografare così — dice il procuratore Alessandro Mancini — è capace di fare molte altre cose». Sono due le immagini trovate nel cellulare dell’infermiera. Nella prima è accanto a una signora appena deceduta, ancora a bocca aperta, nella saletta del «tanatogramma». Anche l’infermiera apre la bocca, in un’allucinante imitazione. Nell’altro scatto, sempre accanto alla deceduta, alza i pollici in segno di vittoria e ride. C’è anche una didascalia. «Brr, mmmh, la vita e la morte, mmmh». «Ha agito — scrive il gip — per motivi abbietti consistenti nella semplice volontà di “liberarsi” di pazienti “impegnativi” (poiché necessitavano di maggiori attenzioni) ovvero anche nel compiacimento derivante dal provocare la morte di un’anziana paziente. Appare probabile che delinqua per autocompiacimento e sia pertanto a ciò incline ogni volta abbia l’occasione di attuare il proprio desiderio di prevaricazione». La signora Rosa Calderoni era arrivata in ospedale la sera del 7 aprile. Muore la mattina dell’8 aprile. L’iniezione di potassio, il collasso e poi l’infermiera che toglie subito i tubi della flebo. Un sorriso ai figli della donna. «Non ha sofferto».
I degenti che possono muoversi prendono il sole d’autunno davanti ai padiglioni. «Per fortuna sono in Ortopedia. Se penso che prima di Natale ero nel reparto di quella lì…». «C’è un contesto sanitario — ha detto il procuratore capo — gravato da sconcertanti negligenze dal punto di vista tecnico e professionale». «Noi siamo stati i primi — si difende Andrea Des Dorides, direttore generale dell’Ausl Romagna — a denunciare il fatto che in quel reparto c’erano, rispetto alla media, troppi decessi». «Non siamo una tana di assassini» dice Nicola Farina, della Sanità Cgil. Per l’infermiera accuse di omicidio volontario con l’aggravante dei motivi abbietti, dell’uso del veleno. Dovrà rispondere anche di vilipendio di cadavere. Quando sono arrivati i carabinieri, aveva la valigia pronta: stava per andare in vacanza.

Repubblica 14.10.14
Se a pagare sono solo i musicisti
risponde Corrado Augias


Caro Augias, sono un musicista e soffro da anni dell’avvilimento nel quale versa la nostra cultura musicale. Le condizioni nelle quali operiamo peggiorano continuamente. Sono però rimasto perplesso quando la decisione di “licenziare” le maestranze romane ha coinvolto solo orchestra e coro. Sono evidenti le esagerazioni (spesso avallate da sindacati poco rappresentativi) di una conflittualità che impedisce a quel Teatro di esprimersi come potrebbe e che ha indotto Riccardo Muti a gettare la spugna. La presenza anche saltuaria di quel grande musicista era una delle migliori premesse per una riscossa. I miei colleghi non hanno fatto abbastanza per scongiurare un gesto così nocivo. Però non posso accettare che questi problemi abbiano fatto dimenticare la vergognosa gestione amministrativa e la sua pletorica, costosissima macchina. Hanno “pagato” quelli più esposti, come a dire: chi sta negli uffici non ha colpe nella situazione. S’è fatto un lavoro a metà, non mi stupirei se dopo 75 giorni (termine per ricostituire coro e orchestra con nuove regole) tutto finisse in una bolla di sapone lasciando sul campo animi esacerbati, professionalità avvilite, bilanci dissestati e l’amara constatazione che per la buona gestione artistica e amministrativa bisognerà aspettare un altro ministro e forse un altro governo.
Giuseppe Modugno— Bologna

Aparte le comprensibili proteste di chi è direttamente interessato, il provvedimento adottato a Roma, che in Italia non ha precedenti, è stato considerato favorevolmente se posso giudicare dall’osservatorio, certo incompleto, di questa rubrica. Le critiche riguardano semmai la sua parzialità, nel senso che il maestro Modugno chiarisce nella sua lettera. Gli fa eco il signor Piergiovanni Bazzana (pgbazzana@gmail.com) che scrive: «Trovo poco convincente il fatto che per risanare un teatro si licenzino 180 tra orchestrali e coro, senza toccare i rimanenti 360 amministrativi. Il segnale doveva essere chiaro per tutti. Agli orchestrali bisogna far capire che non è più il tempo di reclamare “l’indennità umidità” per le esibizioni all’aperto, contemporaneamente però si sarebbero dovuti eliminare o ridurre gli evidenti sprechi nella struttura. Direi che in un teatro 360 amministrativi sono un po’ troppi. Certo in un’azienda non sarebbe tollerabile. Insomma mi sembrerebbe il caso di salvare un’istituzione culturale come il Teatro dell’Opera anziché salvare i suoi impiegati “improduttivi”». Non ho competenza per entrare nel merito. Quello che ho visto da anni a questa parte è che l’Opera è stata usata come uno strumento per saldare conti di partito ed elettorali. Mi chiedo se non abbia ragione il maestro Modugno a temere una possibile “bolla di sapone” o se, per una volta, si riuscirà nell’interesse dei teatri a fare sul serio.

Corriere 14.10.14
Fischer: «Una Europa tedesca, pericolo per il progetto dell’Unione»
Leader storico dei verdi tedeschi, Joschka Fischer è stato ministro degli Esteri
e vicecancelliere del governo Schröder. In Germania è uscito il suo nuovo libro
di Nikolaus Blome e Gerhard Spörl

qui

Corriere 14.10.14
Da Westminster uno storico sì alla Palestina


«Questa Camera ritiene che il governo debba riconoscere lo Stato di Palestina accanto allo Stato d’Israele». La mozione che i Comuni hanno approvato ieri sera non è vincolante per Downing Street e per il Foreign Office ma ha un valore simbolico molto alto. Agli atti della politica estera britannica c’è ora un pronunciamento di Westminster, al quale hanno aderito trasversalmente i laburisti (promotori con parecchi distinguo al loro interno), i conservatori e i liberaldemocratici, che suggerisce una svolta storica per Londra. Nel novembre del 2012 quando l’assemblea delle Nazioni Unite votò a grandissima maggioranza l’elevazione della Palestina a «Stato osservatore non membro» il Regno Unito decise di astenersi. Le cautele di Londra si possono ben comprendere visto il ruolo e le responsabilità che i leader britannici hanno da un secolo a questa parte nel conflitto arabo-israeliano. Ma l’intrecciarsi degli avvenimenti (da Gaza all’Iraq e alla Siria), la necessità di depotenziare le spinte estremiste e le opzioni di guerra nonché la pressione dell’opinione pubblica hanno fatto crescere il fronte del «riconoscimento dello Stato di Palestina» e, di conseguenza, l’opportunità di una mossa politica ragionevole e importante.
La linea guida del Foreign Office resta quella indicata tre anni fa dall’ex ministro degli Esteri, William Hague, che riserva al governo l’opzione del riconoscimento al momento ritenuto «di migliore aiuto per il conseguimento della pace». La mozione dei Comuni non cambia l’impostazione generale ma può accelerare i tempi della svolta e porta un messaggio di incoraggiamento a chi nel fronte palestinese lavora per una soluzione non di armi ma di diplomatica e realistica convivenza. Israele probabilmente reagirà con stizza però questa è l’unica strada che ha Londra per favorire il processo di pace. Nel 1917, con la Dichiarazione Balfour, l’Inghilterra sanciva il sacrosanto diritto all’esistenza di un «focolare ebraico», di una casa per tutti gli ebrei. Quasi un secolo dopo, Londra compie un passo logico e giusto sancendo l’eguale diritto dei palestinesi.

Repubblica 14.10.14
"La Palestina va riconosciuta come Stato": voto bipartisan di Londra
Gb: approvata la mozione che riconosce lo Stato palestinese
E' polemica sul voto dei deputati britannici che si sono pronunciati a favore del riconoscimento di uno Stato palestinese. 274 i voti favorevoli, 14 i contrari. Il voto del Parlamento ha un valore simbolico, ma ha già suscitato la dura protesta da parte del governo israeliano
E Israele: "Minate la pace"

qui e un video qui

La Stampa 14.10.14
“I Paesi del Golfo dietro l’Isis L’Occidente apra gli occhi”
Lo scrittore Al Aswani: assurdo allearsi con chi istruisce gli imam dell’odio
intervista di Giordano Stabile


Nessuna fiducia nell’islam politico, tanto meno nei Fratelli musulmani (il finto «volto pulito» della stessa ideologia che alimenta l’Isis). Molta nell’Egitto e nei suoi «50 secoli di storia», nello spirito cosmopolita, nella sua anima che alla fine uscirà dalla lunga transizione verso la democrazia. Ala al Aswani è a Torino per presentare l’ultimo romanzo, «Cairo Automobile Club» (Feltrinelli), al Salone Off 365. Ma sta anche per partire per Parigi dove lancerà una raccolta di saggi politici. Un duplice ruolo, di scrittore e attivista, che ha ritagliato sulla sua personalità energica ed espansiva. Senza dimenticare le gerarchie: «La letteratura non dà risposte, fa le domande. Che sono più importanti».
Lei è stato impegnato in prima linea prima nella rivoluzione contro Mubarak, poi nella sollevazione popolare contro Morsi che ha portato la sua destituzione a opera del generale Al Sisi. Ha scelto però di ambientare il suo romanzo nell’Egitto degli Anni Quaranta. Perché?
«Il libro che scrivi non lo scegli. È come un amore. A un certo punto scatta un click. Ci pensavo già dai tempi di “Yacoubian”. Ho cominciato nel 2008. Poi c’è stata la rivoluzione. L’ho finito dopo. Ma ci sono tante analogie fra quegli anni, che ho vissuto attraverso i racconti di mio padre, e oggi. Un vecchio regime già morto, ma che resiste. Allora era la monarchia dello stanco re Faruk. Oggi è la dittatura».
L’Egitto ha abbattuto Mubarak. Ma la democrazia non è ancora compiuta.
«La dittatura è una malattia cronica, non un’infezione. Ci vuole tempo per curarla. L’organismo si deve abituare. E spesso rimpiange il vecchio stato. Per gli egiziani, e non solo loro, il dittatore era anche un padre, che li proteggeva. In tanti ne hanno nostalgia. Non si può passare di colpo alla democrazia. Ci vuole una transizione».
Cioè Al Sisi? Ma è stato giusto deporre un presidente comunque eletto, Morsi?
«Morsi aveva sospeso la democrazia, in pochi mesi, abrogando la Costituzione. È la strategia dei Fratelli musulmani. Credono nella democrazia, ma una volta sola. È come una siringa usa e getta, io sono medico-dentista, mi viene questo esempio. Lasciano votare una volta, vanno al potere e poi attuano il programma, che è quello di una teocrazia: solo loro possono decidere, fare le scelte giuste, perché sono ispirati da Dio. Per tutti gli altri non c’è spazio. È questo l’islam politico. Alla fine si arriva allo Stato islamico che vediamo all’opera in Iraq e Siria».
Morsi come il califfo Al Baghdadi, non è troppo?
«L’ideologia è la stessa. Il primo a parlare di Stato islamico, di califfato, è stato il fondatore dei Fratelli, Hasan Al Banna, nel 1928».
Ma nei Paesi arabi c’è la possibilità di uno sviluppo democratico in armonia con l’islam?
«Sì, c’è. Basta separare politica e religione. E devo dire che l’Egitto, dopo la caduta del re, con Nasser, era sulla buona strada. Ma già nell’800 abbiamo avuto un grande pensatore, Mohammed Abdou, che predicava la tolleranza e diceva che il velo non è islam».
E poi che cosa è successo?
«Colpa del petrolio. Le monarchie del Golfo si sono arricchite enormemente. E sono legate a doppio filo all’ideologia salafita, wahabita. Chiusa e intollerante. Dagli Anni Sessanta hanno cominciato a finanziare le scuole, le moschee e a imporre la loro visione dell’islam. Anche in Europa. Formano predicatori che creano giovani-bombe. Basta solo innescarli. Lo vediamo in Siria».
L’Occidente ha le sue colpe?
«Non ci si può alleare con chi finanzia il fanatismo e poi andare a bombardare qualche villaggio in Pakistan per fermare il terrorismo. Questa contraddizione la deve risolvere l’Occidente».

La Stampa 14.10.14
Quando Lawrence sognava un califfo a Baghdad
I drammatici avvenimenti di oggi rievocano le vicende che portarono alla creazione dell’Iraq cento anni fa
di Claudio Gorlier


Come andrà a finire l’Iraq neanche un indovino può prevederlo. Come il paese è nato invece lo sappiamo bene: nel maggio 1916, nel quadro dell’accordo Sykes-Picot (due esperti del Medio Oriente, uno inglese e l’altro francese) per la sistemazione degli interessi anglo-francesi nel Medio Oriente. Ma gli autentici inventori del nuovo Iraq erano due: T. E. Lawrence e Gertrude Margaret Bell, nata nel 1868, mancata nel 1926, figlia di un baronetto inglese, visitatrice instancabile appunto del Medio Oriente e agguerrita studiosa, autrice di raffinati libri, tra i quali spicca Safar-Nama.
Mi sembra il momento giusto per riscoprire Lawrence detto d’Arabia (appellativo che personalmente detestava), e non soltanto per il suo assoluto capolavoro, The Seven Pillars of Wisdom, I sette pilastri della saggezza, uscito nel 1926. Militare inglese attivo tra l’altro nei servizi segreti in Medio Oriente, archeologo di vaglia, e naturalmente scrittore, Thomas Edward Lawrence, nato nel 1888, «un ponte fra due culture», e in questa prospettiva un personaggio inquieto e tormentato. Se si vuole, la grandezza di Lawrence sta proprio nelle sue drammatiche contraddizioni. Mandato in Arabia nei ranghi militari della Gran Bretagna, ne fu gradualmente ma irresistibilmente conquistato. Pensate: già nel 1909, in Siria dove raccoglieva materiale per la sua tesi di laurea, e dunque prima della sua militanza, scriveva alla madre: «... Mi sarà difficile ridiventare inglese, qui ho abitudini arabe». Nel capitolo introduttivo dei «Sette Pilastri», Lawrence confessa quanto sia pericoloso sognare di giorno, perché si rischia di recitare il sogno a occhi aperti, per renderlo possibile. «E’ ciò che io feci», ricorda.
Ma il sogno non gli impedì affatto di comprendere limpidamente i termini drammatici, persino tragici, della situazione del Medio Oriente dopo la cacciata dei turchi, la spartizione dell’influenza tra Gran Bretagna e Francia, la decisione Balfour, nel 1917, di venire incontro ai sionisti consentendo l’emigrazione ebraica in Palestina, con la furibonda reazione, appunto, dei paesi arabi.
Già, il sogno. Lawrence sognava un impero ben diverso, a cui dedicare tutto se stesso, una vera e proprio costellazione di città quasi mitiche, tra le quali, naturalmente, occupava un posto privilegiato Baghdad. In questo modo, Lawrence cominciò a crearsi nemici, specie quando cominciò a scrivere sui giornali a partire dal 1920. Il 20 agosto di quell’anno, sul Sunday Times, parla di vero e proprio tradimento. «I comunicati da Baghdad sono in ritardo, non sono sinceri, sono incompleti... È una vergogna per la nostra storia imperiale, e potrà presto essere troppo tardi per una cura ordinata. Oggi, non siamo lontani dal disastro». Poco per volta, nel corso degli anni la figura di Lawrence entra nel mito, nella leggenda. Ma lui opera nella cruda realtà, una realtà che rinnega. Un giorno, invitato a una riunione a Buckingham Palace, si presenta vestito da arabo. Questa immagine è divenuta proverbiale grazie all’interpretazione di Peter O’Toole nel film di David Lean. Aveva combattuto a spada nuda contro i turchi, ma ora voleva, senza essere ascoltato nella miglior delle ipotesi, che un’autentica rivoluzione araba si concretizzasse. L’Iraq ne costituiva, per così dire, il gioiello, ma ecco riaffacciarsi il sogno, ecco il tormento di vivere una doppia personalità, che forse soltanto Gertrude poteva, almeno in parte, condividere.
Nasce così quella che è stata chiamata sindrome di Lawrence, che alla luce di quanto sta accadendo oggi si trasforma in un incubo.
Quasi per un segno del destino, Lawrence muore nel 1935 in un incidente motociclistico sul quale aleggia, ultimo suggello del destino, un margine di mistero. Aveva rivelato che l’esperienza araba lo aveva addirittura spogliato della sua personalità inglese. Come si troverebbe, oggi, a Baghdad assediata da Califfo Ibrahim?

Corriere 14.10.14
Per salvare Kobane l’unica speranza è l’intervento turco
di Bernard-Henri Lévy


Kobane cadrà. Si tratta di ore. Forse di giorni. Ma Kobane cadrà, vittima di un Erdogan che ha sbagliato i conti, gioca con il fuoco o, più esattamente, con il diavolo, e che, lasciando il suo potente esercito lungo la frontiera turco-siriana, appena a pochi chilometri dalla città martire, sembra aver scelto, fra l’Isis e i curdi, l’Isis.
Kobane cadrà, vittima del doppio gioco di una Turchia che — dopo aver permesso il transito ai jihadisti della regione, dopo aver chiuso gli occhi sulle armi pesanti che gli uomini dell’Isis per settimane hanno trasportato verso la città assediata, e che oggi bombardano, ferma tutto, blocca tutto e fa la virtuosa impedendo non solo alle proprie truppe, ma ai diecimila volontari curdi accorsi in rinforzo di venire a salvare Kobane.
Kobane cadrà. Il miracolo insensato della resistenza di Kobane che è riuscita, finora, senza mezzi, con scontri di inaudita violenza, a ritardare l’avanzata dei folli di Allah, ormai non durerà a lungo. E la caduta di Kobane, la bandiera nera del Califfato issata, non più nei suoi quartieri Est e Sud, ma sulle ultime alture di quella città simbolo, sarà una catastrofe di cui non sempre, e non ovunque, si calcolano gli effetti.
Sarà una catastrofe per gli uomini e le donne che da settimane lottano, con stupefacente coraggio, contro legioni armate fino ai denti che non esiteranno a punirli duramente per la loro audacia. Sarà una catastrofe per la città stessa. L’Isis non si accontenterà, stavolta, di sottoporre le donne a mutilazioni genitali, di decapitare i responsabili o di far convertire con la forza le minoranze, ma farà sì che Kobane entri nella lunga e terribile lista delle città martiri degli ultimi decenni: Guernica polverizzata dagli aerei della legione Condor; Coventry rasa al suolo dagli Heinkel dell’aviazione tedesca; Stalingrado e il suo milione di cadaveri; Sarajevo uscita viva, ma al prezzo di undicimila morti, da un assedio durato oltre mille giorni; Grozny, in Cecenia, rasa al suolo, trasformata in città fantasma dalla soldatesca di Putin; Aleppo, nella stessa Siria, con i suoi tesori di civiltà e di bellezza sepolti sotto le bombe di Bashar al-Assad. Sarà una catastrofe per il Kurdistan laico, incarnazione di quei valori di moderazione e di diritto che le Cancellerie auspicano nella terra dell’Islam e di cui i peshmerga sono gli unici ad aver preso alla lettera l’ordine di mobilitazione mondiale contro le orde dell’Isis e a combattere, in prima linea, quello che si è autoproclamato Stato, e che minaccia, oltre al Kurdistan, l’umanità in quanto tale.
Poiché Kobane non è soltanto un simbolo, ma un ostacolo, la sua caduta sarà una catastrofe per la coalizione, di cui essa è l’avanguardia, che vedrà i barbari dell’Isis ritagliarsi una grande striscia di terra, lunga parecchie centinaia di chilometri, adiacente alla frontiera turca.
Per impedire tale disastro restano pochissime ore e pochissimi mezzi. La coalizione può prevedere di intensificare gli attacchi: ma come attaccare, e chi, quando si lotta corpo a corpo, strada per strada, quasi casa per casa, nelle periferie della città? Può consegnare armi: anche senza l’aiuto turco, ne ha la possibilità logistica e, se non lo fa, se non si decide a ristabilire un minimo di equilibrio fra i jihadisti dotati di artiglieria pesante, lanciarazzi sofisticati, carri armati presi dagli arsenali di Mosul e di Taba, e i kurdi che dispongono solo di kalashnikov, di mitra e di qualche mortaio, resta ai semplici cittadini la libertà di fare quel che fecero in favore della piccola Bosnia che, anch’essa, difendendosi, ci difendeva. Ma è il tempo che manca. No. All’ora attuale, per salvare quel che resta di Kobane c’è un solo modo: ricorrere alla Turchia. Bisogna ricordare a Erdogan, il cui giudizio è oscurato dal timore che un embrione di Stato curdo si stabilisca alle sue porte, che l’Isis è anche suo nemico e che anche per lui Kobane può segnare la fine. Occorre fargli capire che se al suo regime, sempre più autoritario, resta la possibilità di allacciare con l’Europa accordi economici e, un giorno, politici, tale possibilità passa per i soccorsi portati agli eroi di Kobane.
Occorre andare oltre e dirgli che la lotta contro l’Isis è l’occasione, ora o mai più, di verificare l’affidabilità delle alleanze e del sistema di sicurezza collettiva stabilito nella regione all’indomani della Seconda guerra mondiale, di cui la Turchia è più che responsabile, poiché, dalla sua adesione alla Nato nel 1952, ne è il pilastro orientale. La Turchia si è associata controvoglia, nel 1991, alle operazioni di sostegno alle popolazioni civili dell’Iraq del Nord. La «Grande assemblea» turca, il 1° marzo 2003 ha votato contro il passaggio e lo stazionamento in Turchia di sessantaduemila militari americani diretti a Baghdad. Se la Turchia, per la terza volta, mancasse l’occasione, allora verrebbe messa in questione la sua stessa posizione in seno alla Nato. Bisogna che gli emissari di Obama appena arrivati ad Ankara lo dicano senza giri di parole. Bisogna che Hollande, dopo aver offerto alla Turchia promesse di amicizia, si faccia portavoce dei suoi partner per ricordare che Kobane è un baluardo per l’Europa. Anche in questa occasione dobbiamo dire: «Non passeranno».
(traduzione di Daniela Maggioni)

Corriere 14.10.14
Diritti umani in Azerbaigian, le mani legate dell’europa
di Giuseppe Sarcina


I eri a Baku, capitale dell’Azerbaigian, qualche migliaio di persone si è riunito per manifestare contro il presidente Ilham Aliyev. Coraggio puro. Il Paese, una distesa di campi petroliferi interrotta da qualche città, è un esempio da manuale di regime autoritario in scivolamento rapido verso la dittatura.
Aliyev, 52 anni, governa dal 2003. Nell’ottobre del 2013 ha rivinto le elezioni con l’85% dei voti. Due mesi dopo la polizia ha arrestato Annar Mammadii, responsabile del «centro studi sulla democrazia e monitoraggio delle elezioni» che aveva denunciato i brogli persino grotteschi di quella tornata elettorale. Mammadii è stato condannato ed è ancora dentro. Insieme con otto attivisti del gruppo giovanile Nida e con tre oppositori politici: Tofig Yagublu, Yadigar Sadigov, Ilgar Mammadov.
A parte Amnesty International di fatto nessuno si occupa di loro. Ci potrebbe pensare, per esempio, il Consiglio d’Europa, l’organizzazione composta da 47 Paesi e fondata nel 1949 proprio con il compito di vigilare sulla tutela dei diritti umani. La presidenza di turno del Comitato dei ministri, cioè il volano politico del Consiglio, potrebbe almeno diffondere una dichiarazione pubblica, chiedendo spiegazioni, esercitando pressioni.
Sennonché quella poltrona è occupata dal 14 maggio scorso da Elmar Mammadyarov, il ministro degli esteri della Repubblica... dell’Azerbaigian. Nessuno, a parte qualche isolato parlamentare, si è inalberato. Sono le regole delle organizzazioni internazionali, dicono i diplomatici. Nel frattempo Aliyev è interlocutore ricercato da tutti. Dal leader russo Vladimir Putin, dal turco Recep Tayyip Erdogan, dall’iraniano Hassan Rouhani, dall’israeliano Benjamin Netanyahu. A luglio Aliyev ha incontrato a Roma il presidente del Consiglio Matteo Renzi, per rilanciare il «partenariato strategico» tra Italia e Azerbaigian.
Esiste almeno un precedente. Nel gennaio 2003 la guida della Commissione Onu per i diritti umani fu assegnata alla Libia di Muhammar Gheddafi.

Il Sole 14.10.14
Le relazioni Italia-Cina
Cina alla ricerca delle Pmi più innovative
Sono quasi trecento le aziende italiane di design, moda e manifattura hi-tech con capitale cinese
di Paolo Bricco


«I cinesi hanno una visione globale. Sono soci stabili. E leali. Cercano il meglio della nostra manifattura. In cambio, danno molto. Soprattutto dal punto di vista strategico e manageriale».
Roberta Polato Rossi è una delle signore del lusso italiano, segmento calzature per donne, snodo di valore economico e senso estetico, stile e sensualità. Con la multinazionale Stella ha fondato nella Riviera del Brenta la Stella Design Italia, al 49% controllata da lei e al 51% dalla Stella International, società quotata a Hong Kong. «Undici specialisti - racconta - lavorano allo stile. La pelletteria e l'indotto sono tutti focalizzati qui nel Brenta. I miei soci si occupano della produzione in Cina, dove sono fra i maggiori fabbricanti di scarpe. In questo specifico caso, di lusso».
Creatività italiana, indotto de luxe non scalfito dai ritmi della modernità e da malintese economie di scala, sapienza artigianale che altrove non è reperibile.
Non ci sono soltanto, fra gli altri, i passaggi di quote in Cdp Reti, Fiat, Telecom Italia, Assicurazioni Generali, Eni, Enel, Prysmian e Ansaldo Energia. L'Italia è un mercato reale anche per le operazioni greenfield - per esempio l'investimento di Huawei datato 2011 a Segrate con il centro di ricerca sulle tecnologie wireless («il primo centro globale di competenza del gruppo fuori dalla Cina», si legge nell'ultimo report del Centro Studi per le Imprese della Fondazione Italia Cina, che ne sottolinea la valenza strategica). Ed è un mercato reale pure per gli investimenti diretti in piccole e medie imprese. Per citarne alcuni: la Ferretti di Forlì (yacht) acquisita da Shandong Heavy Industry Group; la Plati Elettroforniture di Madone (provincia di Bergamo) da Shenzen Deren Electronic; la Compagnia Italiana Forme Acciaio di Senago, nel Milanese, rilevata da Changsha Zoomlion Heavy Industry; i mitici motocicli Benelli di Pesaro da Qianjiang Group; la bolognese Omas (penne) acquisita da Xinyu Hengdeli; la Sixty di Chieti (abbigliamento) da Crescent Hydepark; la Pinco Pallino (vestiti per bimbi, a Entratico, nella Bergamasca) comprata da Lunar Capital; la parmense Caruso (abiti da uomo di alta gamma) da Fosun International; la toscana Fosber (macchine per la produzione di imballaggi) dal Guangdong Dong Fang.
«I capitali cinesi si muovono in maniera ordinata e metodica - nota l'economista Marco Mutinelli, gestore della banca dati sull'internazionalizzazione Reprint Ice- R&P-Politecnico di Milano - la tendenza di medio periodo non è enorme, ma è innegabile. Basti pensare che, nel 2001, si contavano 21 imprese italiane con una partecipazione del capitale cinese o di Hong Kong superiore al 10 per cento. Nel 2013 queste aziende sono aumentate di più di dieci volte: 272 per la precisione, 187 a controllo cinese e 85 a controllo di Hong Kong. In un anno se ne sono aggiunte altre 55. Già un anno fa la loro dimensione complessiva era tutt'altro che irrilevante: nel 2008 il fatturato consolidato era di 5,8 miliardi di euro e gli addetti erano pari a 12mila. Ad oggi, se ne contano 327 imprese (237 a controllo cinesi e 90 a controllo di Hong Kong) con un numero complessivo di 18.299 dipendenti e un fatturato globale di 7,33 miliardi di euro».
Al di fuori del perimetro delle big corporation, la strategia cinese è quella del cogliere fior da fiore. Esiste l'operazione di alto profilo come quella di Stella Design Italia. Ma gli investitori di Pechino e di Hong Kong non disdegnano le imprese in difficoltà strutturale, che comunque conservano un profilo tecnologico e innovativo che al loro sistema industriale potrebbe fare maledettamente comodo. Come il caso della Acc Compressor di Mel, in provincia di Belluno, rilevata nel 2013 dall'amministrazione straordinaria dal Wanbao Group. L'investitore di Guangzhou ha messo sotto pressione l'impresa, sorta negli anni Sessanta e specializzata in compressori per refrigerazione domestica, con un duro turn-around, che non ha risparmiato il costo del lavoro.
Lo stile di queste operazioni può essere più o meno soft, più o meno "concertativo". In ogni caso, queste operazioni esistono. Secondo la banca dati Reprint, citata nel rapporto "La Cina nel 2014" del Cesif, il 65% degli investimenti cinesi in Italia riguarda la manifattura, il 19% il commercio, l'11% i servizi e il 5% le costruzioni. Al di là della scena aperta delle aperture di gioco in Borsa, sotto la pelle del sistema industriale italiano diffuso i capitali cinesi si muovono soprattutto scommettendo sulla manifattura. Questo orientamento è percepibile anche nella ripartizione territoriale. Il 37% delle imprese partecipate da investitori cinesi è infatti in Lombardia, il 16% in Veneto, il 7% rispettivamente in Piemonte e in Emilia-Romagna.
Nota Giorgio Prodi, membro dell'Osservatorio Asia e del comitato scientifico di Nomisma, centro studi di Bologna fra i più attenti al rapporto con la Cina: «Senz'altro si tratta di operazioni interessanti, soprattutto perché l'ingresso nell'equity di un investitore cinese apre all'impresa italiana uno dei mercati più importanti al mondo. Tuttavia, le policy pubbliche non possono non cogliere l'importanza delle operazioni greenfield. Che sono autentici investimenti netti. Ma, in questo caso, è chiaro che si apre il tema dell'attrattività degli investimenti stranieri. Il nostro Paese ha bisogno di una profonda "autoriforma"». Tanto più quando si alza, verso occidente, l'onda degli investimenti cinesi.

Il Sole 14.10.14
Le relazioni Italia-Cina
Infrastrutture, asse con Pechino
Oggi il premier Li a Roma, intesa da 3,8 miliardi Cdp-China development bank
di Rita Fatiguso


PECHINO. Dal nostro corrispondente
La visita di Stato del premier cinese Li Keqiang andrà subito al cuore della questione più importante: il potenziamento degli investimenti diretti di Pechino in Italia, nell'ottica di una nuova e condivisa strategia. C'è quindi attesa per la firma di una ventina di accordi economici annunciati da giorni, tali da segnare una svolta nei rapporti economici bilaterali.
Se tutto andrà come da copione, all'ultimo shopping da un miliardo di azioni in società italiane del calibro di Eni, Enel, Telecom Italia, Chrysler-Fiat, Prysmian, Generali, ad opera di People's Bank of China attraverso il braccio operativo Safe (ma il governatore Zhou Xiaochuan ha detto al premier Matteo Renzi e al ministro del Tesoro Gian Carlo Padoan che ne ha investiti 7, di miliardi, e anche di più in titoli di Stato), dovrebbero affiancarsi accordi industriali di alto livello, strategici per il futuro della collaborazione italo-cinese.
Le ultime ore sono state febbrili e il ruolo del Business forum, la piattaforma di dialogo introdotta quattro mesi fa per meglio orientare l'incontro domanda e offerta di possibili investimenti tra Italia e Cina in cinque settori-chiave, è diventato cruciale per selezionare il grano dal loglio, le proposte velleitarie da quelle utili a entrambi i Paesi. I vertici del direttivo, dieci big dell'economia cinese e italiana, si incontrano a latere proprio per selezionare le migliori proposte da sottoporre alla firma dei due premier. Per l'Italia la gestione è di Confindustria e Ice, per la Cina hanno un ruolo importante Ccpit, la Camera di commercio internazionale e l'associazione delle aziende cinesi.
La direzione di marcia però è chiara, tra gli accordi che oggi Li Keqiang e Matteo Renzi sigleranno per rinsaldare le relazioni tra i due sistemi industriali ci sarà quello tra Cassa depositi e prestiti e China development bank, valore 3,8 miliardi di dollari, frutto della visita di Pier Carlo Padoan a fine luglio a Pechino. I rapporti con Cdb sono diventati talmente stretti che Fan Xianwei, responsabile del progetto Italia, ha fatto balenare l'ipotesi che si possa addirittura creare un ufficio della banca cinese in Italia. La collaborazione riguarderà il finanziamento di progetti infrastrutturali anche in Paesi terzi, investimenti diretti in equity, finanziamento all'export e attività di sostegno a progetti di fusione e acquisizione.
Poi c'è l'accordo tra Fondo strategico italiano (Fsi) e China investment corporation (Cic), il Fondo sovrano cinese che, finora, non ha ancora mosso nessuna pedina sull'Italia. Tra Fsi e Cic si prospetta la firma di un memorandum che è il risultato del percorso di avvicinamento iniziato quest'anno. Si tratta di un accordo di coinvestimento per un miliardo di euro simile a quello formalizzato tra Cic e il fondo sovrano russo Rdif. Al centro del deal l'accordo per esplorare possibilità di investimento congiunte nei settori che rientrano nei rispettivi ambiti di interesse, mentre le parti si impegnano a valutare la possibilità di costituire un veicolo finanziario ad hoc per il perseguimento degli obiettivi.
Va segnalato comunque l'attivismo di Cassa depositi e prestiti, che finora ha sviluppato in due diversi momenti contratti per due miliardi e mezzo di euro. L'ente presieduto da Franco Bassanini ha chiuso cessioni per due miliardi e mezzo di euro complessivi, in due importanti operazioni nel settore dell'energia attraverso il Fondo strategico italiano, che di Cdp è l'espressione. Gli affari in questione hanno riguardato il 40% di Ansaldo Energia a Shanghai electric e il 35% di Cdp Reti, la società del gruppo Cdp socio di riferimento in Terna, rete elettrica nazionale e Snam, distribuzione del gas domestico con una quota pari a circa il 30% per cento in ambedue le società, piu la costituzione di due joint venture con State Grid Corporation of China che è già entrata nella società di distribuzione elettrica di Filippine, Brasile e Portogallo.
Durante la prima riunione del Business forum nel giugno scorso a Pechino sono stati firmati, inoltre, numerosi contratti e accordi di collaborazione per un valore di oltre un miliardo di euro. Oggi a Roma si replica, altri importanti accordi potrebbero vedere la luce. Tra i più attesi quello tra Enel e Bank of China (1,34 miliardi di dollari), tra Icbc financial leasing e Silversea cruises holding (1 miliardo), AgustaWestland (Finmeccanica) e Beijing aviation (514 milioni di dollari) e l'accordo strategico Import-export bank-IntesaSanpaolo, sulla quale l'istituto di credito italiano conta molto per espandere le sue attività cinesi.

Il Sole 14.10.14
La visita di Stato. Il primo ministro cinese incontrerà Renzi e Napolitano: in agenda le crisi internazionali
Si rafforza anche il dialogo politico
di Gerardo Pelosi


ROMA Una raffica di accordi bilaterali per diversi miliardi di euro farà da cornice oggi alla visita in Italia del premier cinese Li Keqiang. Nei colloqui con il premier Matteo Renzi e con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Li Keqiang affronterà naturalmente anche i temi dell'attualità internazionale, dalla lotta all'Isis al Medio Oriente alle recenti proteste di Hong Kong, ma il focus del viaggio verso Occidente (prima la Germania, ieri la Russia e da oggi l'Italia prima della partecipazione al vertice Asem di giovedì a Milano) resta l'economia.
E, a quanto pare, l'Italia, per Pechino, si riconferma come una delle priorità per accordi di collaborazione e investimenti diretti. Il Business Forum inaugurato da Renzi nel suo viaggio di giugno, la partnership strategica e il Comitato governativo sono ormai dei fori di dialogo permanenti per affrontare tutti gli aspetti della collaborazione bilaterale.
I dati dell'export italiano in Cina (con un aumento dell'8% nei primi sei mesi del 2014) dimostrano una ripresa degli scambi ma è sul fronte degli investimenti diretti cinesi che si attendono le vere novità. L'Italia è infatti, insieme alla Germania, il grande Paese manifatturiero nell'Unione europea ed è questa caratteristica che interessa i cinesi. Infrastrutture ed energia restano i settori prioritari. Già finalizzata l'acquisizione per 2,1 miliardi di euro del 35% di Cassa depositi e prestiti Reti (che detiene il 30% di Snam e 30% di Terna) da parte di State Grid Corporation of China, (colosso elettrico statale) così come l'accordo tra Shanghai Electric, (macchinari per la generazione di energia e attrezzature meccaniche) con il Fondo Strategico Italiano per rilevare il 40% di Ansaldo Energia, per un controvalore di 400 milioni. Ma questo è solo l'inizio perché secondo tutte le previsioni l'Italia rientra tra le mire espansionistiche della Cina, non più solo per fashion e design ma per le reti e infrastrutture strategiche, soprattutto energia come il South Stream per il quale la Saipem ha vinto un appalto di 2 miliardi per la costruzione della prima linea del tratto offshore del mega-gasdotto con cui la russa Gazprom intende raggiungere l'Europa tagliando fuori l'Ucraina.
Analogo l'interesse per telecomunicazioni, trasporti, porti e aeroporti che rientrano tra gli obiettivi di Pechino. Se la Germania resta in cima alle attenzioni della Cina, con l'Italia il dialogo si è fatto più intenso anche grazie a una cooperazione culturale di vecchia data. Non è un caso che ieri, prologo della visita, si sia tenuto proprio a Venezia alle Tese delle Vergini dell'Arsenale, sede della Biennale di Architettura, il primo incontro del nuovo Comitato congiunto Italia-Cina sulla cooperazione industriale.
Un dialogo economico nello spazio tra il padiglione italiano e quello cinese che sono uno a fianco dell'altro. Ed è lì che si è discusso di proprietà intellettuale, di copyright ma anche di innovazione industriale, target di efficienza energetica, produzione manifatturiera, proprietà industriale e policy di accompagnamento alle pmi, in coerenza con le priorità del semestre italiano dell'Unione europea.

Il Sole 14.10.14
La partita italiana nel gioco globale
di Roberto Napoletano

L'allargamento al mercato cinese può essere per l'Italia di oggi dello stesso segno e importanza di quello che fu l'allargamento dell'Italia di ieri al mercato europeo e americano. Questa è la grande occasione che non possiamo permetterci di sprecare oggi. Dipende, in gran parte, da noi. Questa almeno è la sensazione che si ricava dalla lettura dell'articolo («L'albero sempreverde dell'amicizia tra Cina e Italia») che il premier cinese, Li Keqiang, ha voluto riservare al Sole 24 Ore di ieri come presentazione della sua missione nel nostro Paese. Ci è sembrata un'apertura interessante perché parte dall'Italia storica ma arriva in fretta a quella attuale. Ci sono il Colosseo e il Pantheon, per intenderci l'inchino alla bellezza cosmopolita italiana che viene dal suo passato, ma ci sono, soprattutto, un riconoscimento diretto all'Italia imprenditoriale come "leader mondiale nell'innovazione e nel design" e l'indicazione operativa di un'alleanza strategica per potenziare gli investimenti cinesi in Italia, favorire gli investimenti nostri in Cina e sviluppare "nuovi prodotti di marca progettati e realizzati da Cina e Italia" destinati ai mercati globali.
Il pragmatismo che spinge a indicare una per una, dall'energia ai macchinari, le aree di intervento, gli accordi di peso in via di imminente sottoscrizione tra Cassa depositi e prestiti e China development bank per fare crescere insieme le imprese italiane e cinesi sui mercati globali e quelli in dirittura d'arrivo tra il Fondo strategico italiano e il Fondo sovrano cinese, si propongono di consegnare al nostro Paese carente di risorse una dote di capitali preziosa perché indirizzata all'innovazione e attratta dalla calamita della creatività, del saper fare e di tutto ciò che appartiene a quell'unicum italiano, manifatturiero e di servizi, che vale ancora oggi 400 miliardi di esportazioni e un surplus di 100.
Abbiamo ancora un deficit di interscambio bilaterale molto alto e questo ci dice che non bastano i nostri imprenditori dinamici (meno male che esistono) e bisogna fare in modo che la dimensione delle nostre aziende cresca e la rete di intelligenze tra territori, imprese, scuola e università diventi, anzi torni ad essere, una realtà. Se le imprese tedesche vendono in Cina macchine per fare pane e prodotti da forno tre o quattro volte più di noi, vuol dire che il modello organizzativo italiano non consente di arrivare dove meritiamo di essere. Vuol dire che le imprese italiane devono fare la loro parte fino in fondo e il sistema Paese deve essere in grado, alla voce fatti, di azzerare i vincoli burocratici, ridurre il carico fiscale e contributivo, promuovere l'internazionalizzazione.
L'allargamento al mercato cinese, in un quadro geopolitico complicato, può consentirci di fare un ulteriore, significativo passo in avanti sui mercati esteri. Non siamo, ovviamente, indifferenti al tema dei diritti umani e al futuro di democrazia che la Cina deve riuscire, nel suo interesse, a costruire. Siamo, però, altrettanto certi che proprio queste aperture economiche e la scelta strategica di partnership mirate, aiutino la Cina ad adeguarsi alle regole condivise dei brevetti e della proprietà intellettuale del mondo occidentale, aumentino la consapevolezza dello spirito della concorrenza globale e dei principi del mercato. Siamo certi che passi per la via economica la crescita del tasso di apertura verso un futuro democratico della Cina e sappiamo bene quanto ciò sia importante per loro e per il mondo. Se la Merkel almeno due volte all'anno è in visita a Pechino per consolidare le alleanze e stringere accordi commerciali, altrettanto (anzi, di più) dobbiamo fare noi. I rapporti politici, da sempre, hanno un peso nella costruzione della pace e della democrazia, ma anche nell'economia. Soprattutto se l'integrazione tra capitale umano e finanziario, può far crescere l'innovazione e valorizzare il talento italiano.

Repubblica 14.10.14
La Cina supera gli Usa nella top ten del Pil. Sempre più emergenti e l'Italia ora è fuori
Fmi e Banca Mondiale aggiornano la classifica, sorpasso dell'India su Giappone e Germania
di Federico Rampini

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La Stampa 14.10.14
Eroina e altre droghe sul posto di lavoro. E’ allarme nelle fabbriche del Midwest
La rivelazione sul Wall Street Journal: nella sola contea di Allen in Ohio non si riesce a coprire nemmeno il 70% dei posti di lavoro disponibili perché molti dipendenti o candidati non passano i test della droga
E non è un caso isolato
di Francesco Semprini

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La Stampa 14.10.14
Danimarca verso il divieto del sesso con animali
Il provvedimento sarà in linea con le regole già in vigore in Germania, Norvegia e Svezia
di Fulvio Cerutti

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Corriere 14.10.14
Il genocidio silenzioso dei Guaraní derubati della terra ancestrale
Parla Eliseu Lopes, leader e portavoce dei 47mila Kaiowá, il più numeroso dei tre gruppi Guaraní
di Alessandra Muglia

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Repubblica 14.10.14
Fu messo agli arresti il 13 ottobre 1964. Dopo la crisi dei missili il tramonto
“Che posso dire?” Così 50 anni fa Krusciov venne deposto
di Paolo Garimberti


QUANDO Krusciov morì, ucciso da un infarto a 77 anni, l’11 settembre 1971, Alberto Ronchey, allora mio direttore a La Stampa che era stato corrispondente dall’Urss nell’epoca krusceviana, mi ordinò di interrompere le vacanze e di tornare immediatamente a Mosca. «Devi essere lì in tempo per i funerali — mi disse — saranno un evento storico». In realtà furono funerali di bassissimo profilo, quasi clandestini. La bara fu portata a tutta velocità, con una discreta scorta di auto del Kgb, dalla dacia di Petrovo-Dalnye al cimitero di Novodievici. Breznev, Podgornyj e Kossighin, la trojka che sette anni prima, il 14 ottobre 1964, lo aveva defenestrato con altri congiurati da segretario del Pcus e da primo ministro, gli aveva negato l’onore della tumulazione nelle mura del Cremlino, il Pantheon dell’Urss: una sorta di legge del contrappasso per colui che aveva espulso Stalin dal mausoleo di Lenin.
Krusciov era diventato, come si diceva a Mosca, una “non persona”. La Pravda aveva dato la notizia della sua morte in un invisibile trafiletto, facendo infuriare Giancarlo Pajetta, il dirigente del Pci più legato a Krusciov, che alla prima occasione gettò una copia del giornale in faccia all’ambasciatore sovietico. Così a Novodievici, in quella plumbea giornata di settembre, c’era poca gente e ancor meno volti noti al di là di quello del poeta Evgenij Evtushenko. Fu il figlio Sergej a pronunciare un sobrio e lapidario elogio funebre: «Nikita Sergeevic, mio padre, è stato amato da alcuni, detestato da altri. Ma a nessuno è stato indifferente». Sergej aveva aiutato il padre, nell’esilio di Petrovo-Dalnye, a scrivere le sue memorie, trafugate clandestinamente in Occidente, grazie a Strobe Talbott, ex corrispondente da Mosca e più tardi consigliere di Bill Clinton. Khrushchev Remembers ( il titolo originale americano nel 1970) fu l’ultimo scandalo di una vita fatta di colpi di scena e di gesti teatrali. Quello della scarpa battuta sui banchi dell’Onu, il 12 ottobre 1960, è stata definita «un’icona del XX secolo». Eppure l’episodio è controverso, esattamente come il personaggio: non esistono prove documentali e la figlia adottiva Julia sostiene che è addirittura un falso, un tentativo di presentare il padre come un rozzo, ignorante gaffeur.
In effetti non era così. Nikita Sergeevic era un politico astuto, un manovratore abile e all’occorrenza senza scrupoli. Lo aveva dimostrato durante le purghe staliniane del 1937-38, quando aveva scalato tutte le posizioni di vertice nel partito comunista dell’Ucraina sostituendo, uno dopo l’altro, quelli che venivano falcidiati da processi e fucilazioni. E ancor più quando, alla morte di Stalin, nel 1953, si scatenò la lotta per la successione e Krusciov prima si alleò con Malenkov, Kaganovic, Molotov e Bulganin per eliminare, anche fisicamente, Lavrentij Berija, il potentissimo capo dei servizi segreti. Per poi scalzare i suoi alleati e diventare dapprima capo del Pcus e poi anche primo ministro. Ma anche sul piano internazionale Krusciov era tutt’altro che sprovveduto. James Reston, il celebre giornalista del New York Times, ricorda nelle sue memorie di aver incontrato nell’ambasciata americana a Vienna il giovane J. F. Kennedy appena reduce dallo storico incontro del 1961 con il leader sovietico. Reston racconta che Kennedy era umiliato e affranto dall’esito del faccia a faccia. «Mi ha fatto sentire uno sprovveduto», fu il commento del presidente. Al punto che il giornalista rinunciò «per compassione e senso patriottico» all’intervista concordata (altri tempi giornalistici). E lo schiaffo finale fu la costruzione del muro di Berlino: un secondo colpo alla mascella degli Stati Uniti dopo quello al mento dell’aprile dello stesso anno, quando l’Urss aveva battuto l’America nella gara spaziale inviando in orbita Jurij Gagarin.
Kennedy si prese la rivincita nell’ottobre del 1962, imponendo la resa a Krusciov nel braccio di ferro sui missili a Cuba. Per Nikita Sergeevic fu l’inizio della fine. Il suo trono aveva già cominciato a vacillare un anno prima, con il XXII congresso del Pcus, quando era riuscito a far approvare il nuovo Programma del partito e soprattutto a far votare la rimozione della mummia di Stalin, che giaceva accanto a quella di Lenin nel mausoleo della Piazza Rossa. Sembrava l’atto finale della destalinizzazione, iniziata nel XX congresso del 1956 con il famoso “rapporto segreto” sui crimini di Stalin, e al tempo stesso l’apoteosi del disgelo krusceviano. La pubblicazione sulla rivista Novyj Mir di Una giornata nella vita di Ivan Denisovic di Solgenitsin era stata salutata in Occidente come l’inizio di una nuova era, costellata dalle poesie di Evtushenko e di Voznesnski, dalle canzoni di Bulat Okudzhava, dalle opere di Anna Akhmatova e Boris Pasternak.
Invece Krusciov, con il suo fiuto e buonsenso contadini, aveva capito che la sua fortuna era al tramonto. Nel 1963, durante la visita a una mostra d’arte contemporanea al Maneggio, esplose in un fragoroso «questa è merda» di fronte alle opere esposte. Era troppo tardi per salvarsi dalla fronda dei boiardi del partito, ma anche dal malcontento popolare per la crisi economica e soprattutto i fallimenti dell’agricoltura. Aveva scontentato tutti, perfino l’ intelligencija che aveva liberalizzato. Richiamato con una scusa da una vacanza nella villa di Pitsunda, sul Mar Nero, fu messo agli arresti appena arrivato all’aeroporto di Vnukovo, il 13 ottobre 1964, e destituito il giorno dopo con l’accusa di «culto della personalità» e «attività volontaristiche». Fu teatrale anche nella resa: «Che cosa posso dire? — esclamò rivolto ai suoi accusatori, che avevano tutti fatto carriera sotto la sua protezione — Ho avuto quello che ho meritato!».

La Stampa 14.10.14
Google celebra Hannah Arendt, la filosofa del pluralismo
Il doodle ricorda il 108esimo anno dalla nascita

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La Stampa 14.10.14
Paolo Conte: “Io, ’Snob’ di provincia amo sbagliare da solo”
Il nuovo album del cantautore astigiano
di Marinella Venegoni

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Corriere 14.10.14
Bahrami: il mio Bach
«A Johann Sebastian devo tutto, la sua musica mi ha salvato quando sono fuggito dall’Iran»
intervista di Giuseppina Manin


«Se uno ti salva la vita, sarai legato a lui per sempre». Ramin Bahrami spiega così il suo legame profondo, vertiginoso, con Johann Sebastian Bach. Il «Corriere» offre da oggi, al costo di 9,90 euro, 12 cd che il pianista ha dedicato proprio al grande compositore tedesco. «A Bach devo tutto. Non è una metafora — precisa Bahrami, nato a Teheran 38 anni fa —. Gli devo la forza di non arrendermi, il gusto della libertà, la passione per la bellezza. Mi ha sostenuto nei momenti bui, mi ha accompagnato in quelli felici. Mi ha fatto da padre quando mio padre non c’era più e da maestro in ogni momento. La mia vita è stata tutta scandita dalla sua musica, dal suo sguardo senza confini».
Quando il primo incontro?
«Avevo cinque anni. Un’amica di mia madre cui devo i primi rudimenti di piano mi invitò a casa sua ad ascoltare un disco che aveva portato da Parigi. La puntina del grammofono centrò sul vinile la Toccata della Sesta Partita suonata da Glenn Gould. Sono in paradiso, ricordo di aver pensato».
Il rischio dei colpi di fulmine è il secondo incontro. Potrà essere mai all’altezza?
«Fu anche di più. A dieci anni mi regalarono un cd delle Variazioni Goldberg . Al piano sempre Gould. Lo stupore e l’emozione per quel mondo da Mille e una notte sonora era pari a quelli che provavo davanti alle immagini che mio padre evocava con la lanterna magica. Non sapevo ancora che l’anno dopo ci saremmo lasciati».
A 11 anni lei se ne va dal suo Paese, fugge con sua madre in Europa.
«La situazione politica era cambiata. Con l’arrivo degli Ayatollah la nostra famiglia, legata allo Scià, era in pericolo. Mio padre pensò a metterci in salvo, dovevamo raggiungere sua madre in Germania. “Studia Bach, ti salverà”, il suo ultimo saluto. Poco dopo fu arrestato: morì in carcere nel 1991».
Cosa ricorda di quel viaggio senza ritorno?
«Una grande tristezza. Anche lì però Bach mi aiutò. Tra i “tesori” che avevo portato con me una cassetta con la Passione secondo Matteo . L’ascoltai in cuffia tutto il tempo del volo da Teheran a Francoforte. Quella musica somigliava a quello che sentivo, accompagnava lo strazio del distacco e allo stesso tempo lo leniva».
Sbarcò in Germania ma il primo approdo fu l’Italia.
«Una borsa di studio mi permise di iscrivermi al Conservatorio di Milano e diplomarmi in pianoforte con Piero Rattalino. Sono stati anni duri ma felici. La città era accogliente, aperta agli stranieri».
In quel periodo inizia anche a studiare le Goldberg.
«Avevo 16 anni. Decisi di osare durante una vacanza a Stoccarda da mio fratello Bahram. Avevo con me la partitura ma non il piano. Così trasformai il tavolo della cucina in una tastiera immaginaria, appoggiavo le dita sul legno seguendo i suoni che avevo in mente. Ogni giorno imparavo una nuova variazione, dopo due mesi avevo mandato a memoria l’intera opera. Non restava che trasferire quel mondo interiore su un vero piano. Mi sono esercitato per otto anni, ne avevo 24 quando uscì la mia prima incisione delle Variazioni».
Uno studio matto e disperatissimo direbbe Leopardi. E la vita?
«Non l’ho mai messa da parte, non si può suonare Bach se non si ama la vita. Johann Sebastian è un seduttore come nessun altro. L’ Arte della fuga è uno dei pezzi più erotici mai composti per la musica. Bisogna aver sperimentato l’amore per poterla affrontare. A me è successo all’età di 30 anni».
Poi è stata la volta delle Suite inglesi e francesi e dei cinque Concerti per piano e orchestra.
«Li ho eseguiti a Lipsia, terra bachiana, con il Gewandhaus diretto da Riccardo Chailly. Una lettura “moderna” senza l’uso del pedale. Bach nostro contemporaneo. Anzi, sempre mille passi avanti».
Bach magico, cabalistico.
«Anche. Tradotto nella nomenclatura musicale tedesca il suo nome dà 14. Un numero che torna continuamente nelle sue opere, piene di enigmi musicali. Bach è un ponte con l’inconscio. A 13 anni feci un sogno: lui e io a passeggio in un giardino in un castello tedesco. Facemmo tre volte il giro del parco, sempre in silenzio. Mi svegliai pieno di gioia. Questa è una chiamata, mi dissi».
E Bach le ha fatto anche incontrare sua moglie.
«Maria Luisa Veneziani. Si era iscritta a una mia masterclass. Ci siamo innamorati, ci siamo sposati. A marzo è nata nostra figlia, Shahrin Maria. Che a sette mesi ha già ascoltato tantissima musica di Bach. E mi sembra una bimba molto felice».

Corriere 14.10.14
Quell’armonia misteriosa come un miracolo
Non c’è genere che non discenda dal Maestro: vocale o strumentale, sacro o profano
di Enrico Girardi


Come i maggiori inventori della storia, Johann Sebastian Bach non creò dal nulla. La sua opera è la Bibbia della musica perché non v’è forma, genere, stile, carattere o linguaggio della produzione dei secoli successivi che non abbia radice nella creazione bachiana.
Eppure tale exemplum è frutto a sua volta della prodigiosa attitudine alla sintesi del musicista nativo della Turingia. Studiò l’opera severa degli organisti del Nord e quella più brillante degli organisti del Sud della Germania; rimase affascinato dalla inventiva degli italiani, da Corelli a Vivaldi; e divertito dalla spumeggiante leggerezza dei francesi. Viaggiava poco ma conosceva tutto.
Ma il miracolo della sua musica consiste nel fatto che tali ingredienti vengono come inglobati in un nuovo mondo che mentre li fonda e li valorizza, li trascende. Come tutti i miracoli, anche la musica di Bach è limpida, semplice, eppure misteriosa. Perché non esiste altro universo in cui la sfera emotiva sia così inestricabilmente connessa alla sfera razionale. Non sono pochi dunque i musicisti che, una volta addentratisi in tal mistero, non ne sono più usciti, decidendo di consacrare a Bach ogni energia creativa e intellettuale. Da buon codificatore, Bach si cimentò in ogni genere musicale possibile: vocale, strumentale, sacro, profano. La presente collana bachiana non li comprende tutti — si tratta di produzione anche quantitativamente sterminata — ma si limita alla produzione per strumento a tastiera. È un limitarsi per modo di dire, perché le opere per «Clavier» (termine che vale per l’organo, il clavicembalo, il clavicordo, il fortepiano, il pianoforte: volendo, anche i campionatori odierni) contengono questo universo in una forma paradossalmente privilegiata perché la «limitazione» delle dieci dita dell’esecutore impone all’autore un grado di essenzialità che sconfina nell’astrazione. Non a caso le opere cosiddette «speculative» di Bach — dalle Variazioni Goldberg all’ Arte della fuga — si rintracciano soprattutto in tale segmento del catalogo.
Numerosi, si diceva, i musicisti totalmente devoti a Bach. Tra questi è Ramin Bahrami, pianista che l’eccezionale storia personale ha indotto a preferire l’universale al particolare, la sostanza agli accidenti. Con i risultati interpretativi che la collana «Il mio Bach» documenta meglio di ogni discorso.

Repubblica 14.10.14
Chi siamo e cosa vogliamo? Lo decide l'ormone dell'amore
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