mercoledì 15 ottobre 2014

Corriere 15.10.14
Malala
Non dobbiamo avere paura: l’istruzione ci rende più forti
di Ida Bozzi


Il mondo visto con gli occhi di Malala è un posto bellissimo, con i fuochi delle cucine dei villaggi lontani nella valle, le lampade a petrolio che si accendono la sera, e il tetto piatto su cui sedersi a guardare le stelle a Mingora, la città in cui la più giovane Premio Nobel per la Pace è nata nel 1997, nella regione dello Swat in Pakistan. Poco distante c’è la scuola, da cui è stato cancellato il nome, ma che è il luogo dove si legge, e si impara, e si sogna; e sullo sfondo si vede l’altissima vetta del monte Elum con le sue nevi perenni, dove si spinse perfino Alessandro Magno — è la stessa Malala a raccontarlo — cercando di afferrare Giove. Ecco forse perché il 9 ottobre 2012 fu proprio ai suoi occhi, agli occhi di Malala, che i talebani mirarono, con tre colpi di arma da fuoco che ferirono, oltre lei, altre due ragazzine che viaggiavano sul pullman della scuola, di ritorno a casa.
Si apre così, con l’eccitazione di una nidiata di studentesse che tornano da scuola e con l’orrore degli spari improvvisi, un libro che è pieno di poesia anche se racconta di persecuzioni, di oppressione, di sangue, di un attentato contro una ragazzina di (allora) appena quindici anni che oggi ne ha diciassette. La poesia è nella voce, che orgogliosa e pacata, senza un solo fremito di paura e senza traccia di rabbia, racconta che cosa significa combattere la più pacifica delle battaglie in un mondo di guerre e violenza. Dove ai bambini rifugiati nei campi profughi, quando suo padre era bambino, si insegnava l’aritmetica con problemi come questo: «Quanto fa 15 pallottole meno 10 pallottole?».
Il libro «Io sono Malala», pubblicato da Garzanti nel 2013 e già un successo prima del Premio Nobel, è un testo in cui leggere, studiare, andare a scuola e pensare con la propria testa (e pure sognare un po’), insegnano a vedere entrambe le cose, il bene e il male, e a distinguerle, e a raccontarle: il bene, cioè le stelle sopra il mondo, i sogni dei ragazzini, il progetto di diventare uomini politici o scrittori o quello che si vuole; e il male, cioè il divieto di studiare, i morti e il sangue sulla strada di casa, la minaccia e la violenza dietro l’uscio.
Proprio quella cultura, quell’andare a scuola, quel leggere, rende Malala capace di narrare così bene, in modo tenero ma preciso, la storia della regione in cui vive, la storia di una famiglia pashtun , l’amore di mamma e papà che non si sono sposati per un matrimonio combinato, la vita con i genitori illuminati (anche se la mamma non sa leggere); ma anche l’ignoranza di molti, come quei parenti che entrano in casa sfoderando un albero genealogico che riporta soltanto i nomi dei maschi.
Malala racconta questo e va oltre, racconta la presa del potere dei talebani, parla di governi, di Cia, di russi, di potenze mondiali, e poi i profughi, i campi sterminati di migranti, le strade sbarrate, i posti di blocco, come può vederle una bambina che vorrebbe solo andare a scuola. E ci va. Anche fingendo di essere più piccola di quel che è (le scuole femminili erano state riaperte all’inizio del 2009, ma solo per le bambine sotto i dieci anni), raccontando tutto nel diario che un amico di famiglia le ha chiesto di tenere sul blog della BBC. Così conosciamo il suo pseudonimo online, «Gul Makai», apprendiamo come la ragazzina diventi un personaggio pubblico, intervistata dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo, e come le minacce che fino ad allora arrivavano a suo padre, poi tocchino a lei, poco più che bambina. Leggiamo che cosa vuol dire aver paura di uscire di casa; ma uscire lo stesso. Fino a quel 9 ottobre 2012, quando la preoccupazione delle scolare sull’autobus, reduci da una mattinata di esami, non è certo quella di trovarsi faccia a faccia con un terrorista che ha un’arma spianata, e che chiede: «Chi è Malala». E spara.
Ma lei ancora riesce a scherzare, ricordando che la nonna lo diceva sempre: «Sembra Benazir Bhutto, speriamo che non muoia così giovane», esclamava, vedendola in televisione a portare avanti la sua battaglia in favore dell’istruzione. E Malala incanterà il pubblico, anni dopo il tremendo attentato (e il ricovero, le operazioni all’orbita perforata dal proiettile, e la convalescenza), proprio pronunciando un accorato discorso alle Nazioni Unite, a New York, nel 2013, a sedici anni, portando addosso lo scialle che era appartenuto alla Bhutto.
Insegna anche un’altra cosa, questo libro. Insegna una pace vera, al di là di tutte le posizioni. Il nonno, racconta Malala, era stato colui che aveva tramandato nella famiglia «un profondo amore per l’apprendimento e per la conoscenza, insieme a un’acuta consapevolezza dei diritti e delle discriminazioni», spiega la ragazza, un amore per la cultura che attraverso le generazioni, dal padre insegnante, è passato alla ragazza. E il nonno era un imam, profondamente religioso come tutti gli Yousafzai. Quell’islam, che convive in armonia con le altre religioni come ad esempio il buddhismo, è l’altro sogno bellissimo del racconto di Malala.
E quando le scuole vengono chiuse dai talebani, è proprio in nome dell’islam che Malala si solleva: «Il Corano dice che dovremmo ricercare la conoscenza», scrive. E aggiunge che in quella terra sono tante le statue di Buddha, bellissime come può trovarle una bambina con gli occhi grandi, che non vede motivo di abbatterle. C’è una poesia che recita: «Quando la voce della verità risuona dai minareti / il Buddha sorride, e le catene spezzate della storia si riannodano»: l’ha scritta il suo baba , il papà di Malala, e insegna la pace. E come spiega lei stessa, soltanto perché è andata a scuola ora può leggerla.
Il bestseller che ha conquistato anche l’Italia «I n genere è normale che i grandi personaggi della cronaca producano libri e autobiografie, con l’aiuto di un coautore: ma quando leggemmo il primo estratto del libro di Malala, ebbene, fummo letteralmente conquistati. Tanta freschezza, nel raccontare quella giornata normale, di sole, di scuola, e poi quell’orrore dell’attentato, ci ha fatto capire che avevamo davanti un personaggio speciale». Così Paolo Zaninoni, direttore editoriale di Garzanti che pubblicò il libro nel 2013 (il volume fu anche al centro di un’iniziativa editoriale del «Corriere della Sera» in edicola), rievoca la storia editoriale e il successo del libro, anche prima del Nobel: «Arrivato nelle librerie — e nelle edicole per l’iniziativa del «Corriere» — ha incontrato tanti lettori e tante lettrici, e tanti giovani, che hanno trovato nel libro una ragazza come loro, pur in un contesto così diverso, capace di fare una cosa più grande di lei e di loro. Un modello. E il libro è uscito dalla cronaca per diventare universale». Il titolo, che per un anno non ha mai cessato di essere un successo per il marchio del gruppo Gems guidato da Stefano Mauri, da 72 ore ha un impulso nuovo, con un fioccare di prenotazioni. «Siamo a 190 mila copie, tra libreria ed edicola, ma prevedo un aumento ulteriore di qui a fine anno». Il motivo, al di là del Nobel, è che Malala colpisce al cuore. «Ti fa ricordare — conclude Zaninoni — che i ragazzi portano davvero uno sguardo nuovo, che portano più speranza».

Repubblica 15.10.14
Paperoni sempre più ricchi con la crisi economica
Nella ricerca di Credit Suisse spicca l'Italia: è terza per ricchezza mediana con 142 mila dollari
Il patrimonio complessivo globale, nonostante la congiutura, è salito dell'8,3% a 263 mila miliardi di dollari: 56 mila dollari per adulto

qui

il Fatto 15.10.14
I 30 miliardi di manovra per preparare le elezioni
Oggi la legge di stabilità: bonus, sconti Irap e sgravi pensando al voto
di Stefano Feltri


Questa è una legge di stabilità elettorale, il piano ormai è chiaro”, dice un importante dirigente del Pd che si prepara a leggere il provvedimento all’ordine del giorno oggi in Consiglio dei ministri conoscendone già lo scopo politico. Lo schema è lineare, come spesso accade nel renzismo: una manovra da 30 miliardi che regala molto a molti, tra TFR, sgravi per le assunzioni, tagli all’Irpef, bonus fiscali. Le coperture? Un po’ di deficit, tagli lineari e qualche misura incerta. Quando si vedranno i buchi sarà troppo tardi.
“IL CAPO DELLO STATO Napolitano si dimetterà dopo la legge di stabilità”, commentano dentro il governo Renzi. Chissà, forse l’annuncio sarà nel discorso di fine anno, assieme all’appello per le grandi riforme che si sono arenate complice la sessione di bilancio. L’accordo con Berlusconi e Fi lo hanno capito anche i peones del Transatlantico: il prossimo capo dello Stato va eletto con questo Parlamento, in cui il Cavaliere conta ancora qualcosa. Va scelto qualcuno che non sia troppo ingombrante per il premier e che possa far balenare a Berlusconi l’ipotesi di una qualche riabilitazione. E, dopo, liberi tutti. Al voto prima che l’Europa sanzioni l’Italia come inevitabile quando sarà palese lo sfondamento del tetto del 3 per cento al rapporto deficit-Pil. “L’Europa può andare affanculo”, riassume un super-renziano.
Ieri le Camere hanno votato la Nota di aggiornamento al Def, che sposta il pareggio di bilancio dal 2016 al 2017. Il governo Renzi, come quello di Letta, si rifiuta di fare la correzione da quasi 15 miliardi necessaria per rispettareilritmodiriduzionedeldebito prevista dal Fiscal compact. È il primo passo della finanziaria elettorale di Renzi che ha bisogno di far salire il deficit 2015 per trovare copertura (o meglio, per emettere nuovo debito in assenza di copertura) ad alcune misure garanzia di sicuro consenso. I numeri sono noti: 30 miliardi di interventi, 18 di tagli di tasse, circa 16 di spending review (“tagli lineari”), dicono i critici.
Alla vigilia del Cdm fioccano promesse. Il sottosegretario Graziano Delrio: “La spending review sulle Regioni si aggira intorno ai 4 miliardi come tagli di sistema ma il budget della sanità non verrà toccato, anzi si può ragionare su eventuali incrementi”. Addirittura aumenti: i governatori fanno notare che se non si tocca la spesa sanitaria, si incide sul resto del bilancio che nel complesso vale 19 miliardi. Quindi si parla di un taglio del 25 per cento, altro che il 3 annunciato. Il ministro Maurizio Lupi (Ncd) esulta per “la proroga sia dell’ecobonus al 65 per cento che del bonus del 50 per cento per ristrutturazioni e mobili”. E poi ci saranno gli sgravi per chi assume a tempo indeterminato, la proroga degli 80 euro in busta paga, quasi certamente la possibilità di farsi anticipare la liquidazione in busta (tassata però con l’aliquota Irpef). Tutte misure che – come gli 80 euro a maggio – possono forse far bene all’economia, ma aiuteranno anche la popolarità del premier e del Pd.
Al ministero del Tesoro hanno provato a contenere l’esuberanza del premier: il ministro Pier Carlo Padoan ha scritto una Nota al Def, il documento con i numeri su cui si imposta la legge di stabilità, molto prudente. “Ma Padoan non ha toccato palla, la partita è tutta tra palazzo Chigi e la Ragioneria che va convinta delle coperture”, dicono a Palazzo Chigi. In effetti Padoan era lontano, in Lussemburgo, quando lunedì Renzi ha annunciato le ultime novità.
C’È SOLTANTO un’incognita: la Commissione europea. Ieri Renzi ha chiamato il presidente entrante, Jean Claude Juncker, gli ha illustrato l’impianto della legge di stabilità e ha sottolineato il giudizio tutto sommato positivo dell’agenzia di rating Moody’s che ieri si è espressa sull’Italia: “Molti anni di consolidamento hanno portato ad un significativo surplus primario. Questa solida posizione di bilancio aiuta l’Italia ad avere favorevoli costi di finanziamento, con più tempo per attuare riforme a favore della crescita”. Tradotto: Renzi può fare quello che vuole, Moody’s benedice anche il Jobs Act (nonostante nessuno sappia che c’è dentro). Domani sera il governo manderà il disegno di legge stabilità a Bruxelles. Da giorni la Reuters scrive che potrebbe essere bocciato e rispedita a Roma. A quel punto Renzi potrebbe decidere di ignorare le richieste e rischiare la procedura di infrazione. Che, tanto, arriverebbe molto dopo un eventuale voto di primavera.
Twitter @stefanofeltri

La Stampa 15.10.14
Il vero peso delle misure in arrivo
di Luca Ricolfi


Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista».
Ma in che cosa consiste la manovra?
Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo.
Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti.
Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili.
Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi.
Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro).
Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.
Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima).
Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni?
Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? E’ realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?
Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale.
Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili.
Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future.
Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.
Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra?
Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.
La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.
La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).
E’ proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato.
Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Corriere 15.10.14
Un governo innervosito dai veti di Bruxelles
di Massimo Franco


Un Matteo Renzi attento a smentire l’esistenza di divergenze con il titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan. E poi al telefono con il presidente della nuova Commissione europea, Jean-Claude Juncker, alla vigilia della presentazione della Legge di Stabilità, in programma oggi pomeriggio. Sono due istantanee simboliche, prima della riunione del Consiglio dei ministri: soprattutto perché vanno affiancate alle voci di un possibile «no» della Commissione all’Italia, filtrate da non meglio precisate «fonti Ue». Vorrebbe dire che la speranza di palazzo Chigi di ottenere il «via libera» sarebbe respinta; e che il progetto di aggiustamento del bilancio richiederebbe corpose correzioni.
È possibile che si tratti di un allarme eccessivo. L’altolà europeo è dato per scontato nei confronti della Francia, che ha già detto di avere superato il tetto del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo (Pil); e di volere andare avanti comunque. Verso l’Italia, sembrava, e nel governo si pensa tuttora, che i margini possano essere meno stringenti. Rimane da capire se prevarrà il timore che l’Italia possa reagire ignorando i richiami europei, e aprendo un contenzioso dalle ripercussioni imprevedibili; o se comunque il «partito del rigore» imperniato sulle nazioni nordeuropee otterrà che i vincoli siano ribaditi senza eccezioni.
Ieri Padoan ha confermato che le misure previste non supereranno la soglia del 2,9 per cento: dunque, nel pieno rispetto delle regole. Ma la diffidenza permane. Si parla di uno scarto di mezzo punto percentuale tra impegni italiani e richieste della Commissione, che verrebbe percepito come una violazione degli impegni presi. Significherebbe un rinvio a Roma della Legge di stabilità. In realtà, è chiaro che la valutazione avrà un risvolto politico prevalente. In gioco c’è quel problema di «reputazione» , nel senso di credibilità, che Renzi ha evocato più volte. C’è anche la coscienza di avere fatto tutto il possibile per dimostrare la volontà di riformare il sistema.
Per questo traspare una mal celata irritazione per l’atteggiamento scettico di Bruxelles. Nel colloquio telefonico di alcuni giorni fa, sembra che Renzi e Juncker non si fossero trovati in piena sintonia. E ieri è stato fatto sapere che la squadra del nuovo presidente e di quello uscente stanno analizzando insieme i bilanci delle singole nazioni; ma che, in caso di ritardo nell’insediamento della Commissione Juncker, sarà il solo commissario agli Affari economici Katainen, finlandese e noto come arcigno sostenitore dell’austerità finanziaria, a decidere. Il premier italiano ritiene di poterla spuntare, benché le resistenze siano ancora forti: al punto da far dire a Renzi: «Ormai tutto il mondo capisce che la crescita è una priorità. Solo qualcuno in Europa ancora non lo capisce». Un «qualcuno» che però, evidentemente è ancora in grado di fare pesare il suo potere di interdizione.

il Fatto 15.10.14
Provinciali, il Pd prende tutto nelle urne solo per la casta
Con i voti di Ncd e Sel e la non belligeranza di Forza Italia
di Gianluca Roselli


Nemmeno Frank Underwood, il politico americano senza scrupoli protagonista della serie tv House of cards, sarebbe riuscito a escogitare un meccanismo così perfetto come quello delle Provinciali 2.0 di Graziano Delrio alias Matteo Renzi. Non se n’è accorto quasi nessuno, ma domenica scorsa si è votato per le Province. Per l’esattezza, tra fine settembre e il 12 ottobre, sono stati rinnovati 64 consigli provinciali ed eletti quelli di 8 città metropolitane. Ovvero i famosi enti locali che dovevano sparire e invece sono risorti. Eletti non più dai cittadini, ma da sindaci e consiglieri comunali. La casta che vota se stessa, dunque. I politici che si auto-eleggono. Con accordi di palazzo che hanno permesso di decidere a tavolino vincitori e vinti. Obiettivo di Delrio, risparmiare 32 milioni di euro grazie al taglio delle poltrone, un migliaio contro 2.500. In queste elezioni fantasma la parte del leone l’ha fatta il Pd con il 90 per cento dei presidenti, anche in province dell’estremo Nord dove non toccava palla da anni.
GRAZIE AL FATTO che i comuni italiani sono a maggioranza di centrosinistra, il Pd poteva contare su un enorme pacchetto di elettori. Così a Renzi è bastato allearsi con Ncd e Sel per prendersi tutto. Sotto gli occhi benevoli di Silvio Berlusconi. Il patto del Nazareno, dunque, vive e si nutre delle trame di palazzo. Creando alleanze spurie, mostri politici a tre teste, organismi mutanti creati ad arte in laboratorio. E a quelli rimasti a bocca asciutta non resta che protestare. La Lega, per esempio, che si è vista sfrattare da molte province del Nord, ma anche M5S e Fdi. “È una legge che nemmeno Stalin sarebbe stato capace di concepire”, è il commento di Roberto Calderoli, uno che di norme elettorali se ne intende. Ma anche nel partito azzurro il malumore serpeggia. “Siamo di fronte a un grande imbroglio del Pd. Spero che Fi non si presti a questa sceneggiata, a meno di non voler diventare valletti a vita di Renzi & C. ”, le parole di Maurizio Gasparri. Partiamo dal Nord, dove il Pd ha spianato la Lega facendo il pieno, tranne a Sondrio e Verona. Varese, Como, Monza e Brianza, da sempre roccaforti leghiste, sono passate al centrosinistra con le vittorie di Gunnar Vincenzi, Maria Rita Livio e Gigi Ponti. A Brescia il piddino Pierluigi Mottinelli è stato eletto addirittura con un’alleanza Pd-Fi. In Veneto il Pd conquista Belluno, Padova e Vicenza.
Nel Sud la musica non cambia e in luoghi tradizionalmente berlusconiani trionfano i democrats. Salerno (Giuseppe Canfora), Isernia (Luigi Brasiello) e Benevento (Claudio Ricci) cambiano bandiera, ma il centrodestra tiene Lecce, con Antonio Gabellone, e la provincia di Barletta-Andria-Trani, dove Francesco Spina ha sconfitto il sindaco di Barletta ed ex portavoce di Napolitano, Pasquale Cascella.
A CATANZARO, invece, vince il Pd, ma tra il sindaco e l’ex assessore è finita in rissa. “Questo sistema provoca equivoci e favorisce il mercanteggiamento dei voti”, osserva il dem Michele Emiliano. Ma va? Curiosi, infine, i casi di Napoli e Latina, dove i vincitori di centrosinistra non hanno la maggioranza in consiglio e per governare dovranno scendere a patti con Forza Italia. I nuovi consigli dureranno due anni. Poi, probabilmente, verranno aboliti definitivamente. Anche perché ancora non sono chiare le competenze, che dovranno essere attribuite dalle Regioni. La domanda quindi è sempre la stessa: perché le province esistono ancora?

il Fatto 15.10.14
Patrimonio all’italiava
Sblocca Italia: non ci fidiamo
di Tomaso Montanari


IERI, dodici associazioni (Italia Nostra, Fai, Salviamo il Paesaggio, WWF...) hanno presentato le loro osservazioni e i loro rilievi allo Sblocca Italia, “che si configura come un attacco all'integrità del nostro territorio, del nostro paesaggio e dei Centri Storici nel loro insieme”. Per oggi e per domani queste e molte altre associazioni organizzano un presidio davanti alla Camera dei Deputati, una mobilitazione nazionale il cui titolo è eloquente: “Blocca lo Sblocca Italia”. Sempre domani, io ed altri autori (Salvatore Settis, Paolo Maddalena, Carlo Petrini, Vezio De Lucia, Sergio Staino, Elle-Kappa e molti altri) presenteremo alla Camera l'instant e-book “Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia la democrazia e il nostro futuro”, che si scarica gratuitamente dal sito di Altreconomia.
Anche più che per l'articolo 18, la vicenda parlamentare dello Sblocca Italia sarà la vera cartina di tornasole della possibilità di un'alternativa al blocco Renzi-Berlusconi. Noi chiederemo con forza che il governo non ponga, per l'ennesima volta, la questione di fiducia: perché non può costringere i suoi parlamentari a scegliere tra la fedeltà al partito e la salute dei propri figli e nipoti. Non può ridurre a una questione disciplinare il futuro stesso dell'ambiente in cui vivremo. Se lo farà, capiremo chi antepone la religione del partito (e l'attaccamento alla propria poltrona) alla libertà di mandato che la Costituzione garantisce ai parlamentari. E sarà un punto di non ritorno: chi vota lo Sblocca Italia non può avere diritto di cittadinanza in uno schieramento progressista, comunque lo si intenda. Anche perché, come è successo sul diritto all'acqua, intorno a un referendum sul territorio e sull'ambiente si può ricostruire una Sinistra che ambisca a riportare alle urne la metà dell'Italia che da tempo non vota. Ma andiamo con ordine: ora si tratta di bloccare in aula lo Sblocca Italia, e la colata di corruzione e cemento che sta per rovesciare sulle nostre vite.

Corriere 15.10.14
«Sblocca Italia da ripensare, troppi rischi da deregulation»
Appello di Italia Nostra, Fai e associazioni ambientaliste

di Paolo Conti

ROMA «Lo sblocca Italia abolisce di fatto quelle procedure di controllo che evitano il ripetersi di fatti come il disastro di Genova. Tutto diventa lecito con la sospensione degli strumenti urbanistici e la realizzazione di qualsiasi progetto indipendentemente dalle regole, con la reintroduzione del silenzio-assenso, con le figure dei Commissari straordinari, con la sospensione dei processi di garanzia e di controllo sul territorio. Una deregulation pericolosa e inaccettabile».
Marco Parini, presidente di Italia Nostra, fa parte della folta schiera di dodici associazioni (da Italia Nostra al Fai, dal WWF a Greenpeace e a Legambiente) che ieri si sono riunite per definire «uno strumento anacronistico» lo sblocca Italia, fortemente voluto dal governo presieduto da Matteo Renzi. In una nota unitaria conclusiva, le dodici associazioni «considerano il testo del decreto inaccettabile nei suoi contenuti per gli effetti devastanti che si prospettano per il territorio, per l’economia stessa del Paese e per i suoi profili di illegittimità costituzionale. Una formulazione che continua a vedere nella cementificazione, nelle infrastrutture e nello sfruttamento delle risorse ambientali il solo motore di sviluppo della Nazione». Sempre riferendosi a Genova, le associazioni ricordano che «nonostante gli appelli fatti negli anni dalle associazioni di tutela, ma anche da intellettuali ed economisti illuminati, la messa in sicurezza del territorio è la vera emergenza nazionale che continua a essere ignorata dalla politica. Le “Mille Genova” che si ripetono sono il frutto di questa visione miope della politica. E così continuano a mietere vittime e a produrre danni incalcolabili all’economia e al territorio, ad aziende medie e piccole colpite al cuore dall’ennesimo disastro annunciato». Le associazioni chiedono misure concrete. La prima: destinare i dieci miliardi previsti «per l’inutile autostrada Orte-Mestre» agli interventi urgenti per la salvaguardia del territorio. Aggiunge Parini: «La prevenzione è fondamentale. Urge un ripensamento al testo, togliendo alcune grandi opere inutili e dannose e sostituendole con interventi di prevenzione e messa in sicurezza del territorio».
Conclude Marco Lion, del Touring Club Italiano: «Se tutte le associazioni ambientaliste italiane sono qui è perché c’è una forte preoccupazione. Ci sono troppe forzature di fronte alle quali bisogna dare segnali forti. Negli ultimi anni i due ministeri più penalizzati sono stati Ambiente e Beni culturali, un dato che è estremamente significativo. L’Italia continua a perdere posizioni a livello turistico internazionale».

il Fatto 15.10.14
Franceschini dixit
Non tasse, ma opere d’arte
di Tomaso Montanari


Il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini ha appena rinnovato la commissione interministeriale (Beni culturali ed Economia) che dovrà decidere quali opere d’arte accettare (e con che valutazione), in pagamento totale o parziale delle tasse di successione, e delle imposte dirette. Il ministro mi ha chiesto di far parte della commissione, in quanto storico dell’arte. Ho deciso di accettare perché la partecipazione non prevede nessun compenso (cosa ormai tristemente ovvia), né alcuna limitazione al mio diritto di critica dell’amministrazione dei Beni culturali e dell’operato dello stesso ministro (cosa per me ancora più ovvia), ma soprattutto perché Franceschini mi ha detto di aver pensato a me “perché così non ci prendiamo un altro ‘Michelangelo’”. Il ministro si riferiva alla vicenda del Cristo ligneo improbabilmente attribuito al Buonarroti, comprato dallo Stato nel 2009 per una somma spropositatamente superiore al suo valore reale: una vicenda alle cui implicazioni ho dedicato un intero libro (A cosa serve Michelangelo, 2011). Ho dunque in animo di proporre agli altri membri della commissione di fare tutto l’inverso di quanto fu fatto in quel caso. Cominciando con l’essere più trasparenti possibile: per esempio accettando di scrivere questo articolo.
IN FRANCIA è possibile pagare le tasse con le opere d’arte dal 1968, quando il presidente De Gaulle e il suo ministro per la Cultura André Malraux emanarono la legge cui si ispirò, nel 1982, l’analoga legge italiana (governo Spadolini, ministro Vincenzo Scotti). Una legge vigente, ma poco applicata: il cui rilancio appare positivo, anche perché in frontale contrasto con le politiche di tutti gli ultimi governi, incluso l’attuale. La ratio della norma è infatti quella di favorire l’acquisizione da parte dello Stato di beni culturali (lo ha chiarito il Consiglio di Stato nel 1987): e salta agli occhi la scissione di uno Stato che da una parte acquista (seppur per via di sostituzione del pagamento delle imposte) quadri, scultura, biblioteche, archivi storici, ville, chiese e palazzi privati, e dall’altro dà mandato all’Agenzia del Demanio di vendere a rotta di collo immobili artistici spesso di altissimo pregio (dal Castello di Gradisca d’Isonzo al Convento di San Domenico a Taranto, all’Isola di Poveglia nella Laguna di Venezia). Mentre il comma 8 dell’articolo 26 dello Sblocca Italia promette una taglia agli “enti territoriali che hanno contribuito... alla conclusione del procedimento” di “valorizzazione o alienazione” del patrimonio, il ministro Franceschini crea un canale per riacquisire al Demanio altri immobili, e in prospettiva, perfino gli stessi immobili: il che mette a nudo l’insensatezza della politica delle alienazioni, e apre un varco provvidenziale per la salvezza del patrimonio culturale.
Perché la commissione funzioni è a mio giudizio necessario accettare solo cose di eccezionale interesse culturale: il che non vuol dire necessariamente opere di artisti celeberrimi, ma vuol dire badare rigorosamente alla qualità artistica e/o storica di ciò che viene offerto. La commissione opera valutando proposte già vagliate dalle soprintendenze, ma tutto consiglia di non risparmiare in conoscenza: e dunque di rivolgersi ai massimi specialisti degli oggetti, o degli immobili, in questione (a titolo gratuito, ovviamente). E di astenersi quanto più possibile da casi pericolosamente controversi: come quelli che inevitabilmente riguardano l’opera degli artisti viventi.
E QUINDI di stabilire in modo trasparente, fondato, e documentato le valutazioni economiche di ciò che davvero può essere degno di entrare nel patrimonio culturale pubblico. La pagina web dedicata dal ministero della Cultura francese a questa procedura, elenca le acquisizioni più importanti: il ritratto di Diderot dipinto da Fragonard, il ritratto di Berthe Morisot vestita a lutto dipinto da Manet, uno spettacolare nudo di Matisse, l’intera biblioteca del demografo Alfred Sauvy e una collezione di strumenti chirurgici militari destinata al Museo di Val de Grâce. La nostra asticella non potrà essere più bassa. E ogni acquisizione dovrà impegnare il governo ad attribuire i fondi e a fare le assunzioni necessarie perché tutto questo sia conservato, visibile, utile al “pieno sviluppo della persona umana” di cui parla la nostra Costituzione.

Repubblica 15.10.14
Pd, è lite sulla piazza anti-governo della Cgil
La Camusso boccia la manovra e conferma la manifestazione del 25. I vertici del partito: “Incoerente chi partecipa”
di Giovanna Casadio


ROMA «Se quella del 25 è la manifestazione della Cgil contro il governo, i dem che partecipano sono quantomeno incoerenti». Dalla segreteria del Pd trapela un duro avvertimento. Ma la sinistra del partito sarà in piazza e la protesta contro l’abolizione dell’articolo 18 si intreccia con le critiche a una legge di stabilità definita dai più benevoli «per ora un oggetto misterioso» o dai più critici «iniqua di fatto». Susanna Camusso, la segretaria della Cgil, la boccia, giudicandola inadeguata al momento di emergenza: «È un mix di tagli e di riduzioni fiscali per alcuni, ci manterrà nello stato di recessione in cui vive il Paese». Perciò più che mai la Cgil chiama alla piazza contro le politiche del governo.
«Un problema, se alcuni dirigenti dem vanno in piazza contro le politiche del governo», ammette Filippo Taddei, il responsabile economia del Pd. Che poi contrattacca: «Camusso sbaglia, è una manovra espansiva e soprattutto di svolta, sposta l’attenzione sulla creazione di nuovi posti di lavoro». Le acque del Pd si agitano. La giornata di ieri inizia con un’assemblea dei deputati sul Def, in cui Stefano Fassina critica l’inadeguatezza della manovra, parla di «profonda iniquità»: «Dobbiamo cambiare rotta. E l’assemblea a Montecitorio è stata surreale: il governo non era in grado di indicare la dimensione lorda della manovra». Fassina sarà in piazza. Come Gianni Cuperlo. Come Pippo Civati. La sinistra dem però potrebbe preparare un proprio manifesto così da prendere qualche distanza dalla piattaforma anti governativa del sindacato. C’è anche chi congela lo scontro. Pierluigi Bersani, l’ex segretario, alla manifestazione probabilmente non andrà e sulla legge di stabilità avverte: «Aspetto di vedere esattamente cosa c’è dentro, poi darò un giudizio». Anche Cesare Damiano, il presidente della commissione lavoro della Camera, ex sindacalista Fiom, attende che le cose siano più chiare: «L’importante è che le anticipazioni non siano un inganno, ma la detassazione delle assunzioni è certamente un segnale positivo». Damiano non ha ancora deciso se andare o no in piazza. E Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, a sua volta prende tempo: «Mi esprimerò sulla legge di stabilità quando saprò cos’è, ad oggi non lo so. Le cose dette nelle ultime 48 ore penso le voglia il 100 per cento degli italiani. Non c’è nessuno che non voglia l’abbassamento delle tasse, la riduzione dell’Irap, l’aumento degli ammortizzatori sociali». Certo la musica cambia se si pensa ai tagli agli enti locali. La sinistra dem denuncia i rischi. Boccia chiede di rivedere la penalizzazione che rappresenta per i comuni il pareggio di bilancio nel 2015, mentre per lo Stato l’obiettivo è slittato al 2017. Civati ironizza: «Di quanto sarà la manovra? Renzi promette un paio di miliardi in più in ogni posto in cui va...». A sera riunione sulle modifiche al Jobs Act tra il capogruppo Roberto Speranza, Damiano, il sottosegretario Teresa Bellanova e Taddei. «Il Jobs act così come uscito dal Senato non avrà il mio sostegno », ripete Cuperlo. E domani i dem al Senato affrontano la questione sanzioni per i 3 che non hanno votato la fiducia sulla riforma del lavoro. Luigi Manconi ha scritto una lettera ai colleghi senatori: «No a misure disciplinari», però «non avrei menato tanto il dissenso in pubblico e sui media».

il Fatto 15.10.14
L’ultimo comunista Paolo Ferrero (Rc)
“Firmerei per Landini, se lui volesse”
intervista di A. Cap.


Sul luogo di lavoro si lavora. Quando stacco facciamo l’intervista”. Individuato il comunista Paolo Ferrero, come uno di quei virus isolati dall’Oms, aspettiamo che arrivi in strada. “Lavoro in Regione Piemonte, settore Agricoltura. Part time. Prendo metà stipendio ma ho metà settimana libera da concedere a Rifondazione”.
Ancora c’è Rifondazione comunista.
Vive e lotta insieme a noi. Abbiamo venticinquemila iscritti paganti (venti euro la tessera). Visti i tempi, non è male.
È un bellissimo risultato.
Questo tempo cattivo, una società colpevolizzata, che sbraita chiusa in casa ma poi aspetta il Messia, qualcuno che la salvi dalla dolce morte. Mi sa che Renzi li asfalta tutti, nel senso che ci manda in braghe. Aspettiamo di vedere la legnata che darà alla sanità. Perché i tagli alle Regioni faranno male.
Passerà Renzi?
Che sia una bolla mi pare certo. Non diagnostico una scomparsa repentina, ma se solo provassimo a far sentire che la sinistra esiste, c’è un popolo che ci aspetta.
Aspetta voi?
Aspetta che ci si muova, che si faccia qualcosa di decente.
Con Maurizio Landini.
Firmerei domani per Landini. Ma se lui dice che vuole impegnarsi nella Cgil dobbiamo credergli.
C’è Zingaretti. Si parla del presidente della Regione Lazio come raccoglitore delle forze disperse sotto il gas renziano.
Sarei interessato uguale. Anche se in tutta sincerità il problema per noi prima che il leader è la base: dare parole d’ordine, organizzare una resistenza. Sa che quando dico ai miei colleghi di lavoro di scioperare perché la paga non si aumenta da 5 anni, mi rispondono: “Ma ci prenderanno per privilegiati che non vogliono far nulla”. Sa che hanno imbarazzo a dire che sono dipendenti pubblici? Uno mi fa: “Io adesso a chi me lo chiede rispondo che sono impiegato”. Renzi ha avuto la capacità di mettere i figli contro i padri e di far apparire questi disgraziati come dei fannulloni.
Resistere con chi?
Dobbiamo dare una speranza alla nostra gente. Renzi gode di un consenso passivo, una sorta di accettazione muta. Ma vorrebbero un cambiamento forte.
Vorrebbero il comunismo?
Certamente vorrebbero che qualcuno gli indicasse uno straccio di proposta per uscire dalla crisi. Va bene scandalizzarci perché il barbiere di Montecitorio guadagna troppo, ma un rigo sugli ottanta miliardi di interessi che paghiamo ogni anno forse sarebbe opportuno. Prendere in considerazione l’ipotesi di pagare con titoli di Stato il debito, creando una doppia e legittima circolazione di titoli a livello nazionale, sarebbe una soluzione per iniziare a combattere questo strozzinaggio che ci porta alla fame.
Voi avete bisogno di un leader che vi aiuti a farvi rivedere in televisione.
Abbiamo prima bisogno di riconoscerci e rivederci insieme
E comunque un leader non c’è.
E comunque non c’è, per adesso. Ma dopo il 25 ottobre forse le cose cambieranno un po’.

Corriere 15.10.14
San Paolo e l’uguaglianza prima di Marx
La «rifondazione» cristiana di Bertinotti
“Sempre daccapo”, in uscita oggi è la conversazione tra l’ex segretario di Rifondazione e Roberto Donadoni, il direttore della Marcianum, l’editrice della Curia e del padronato veneziano
La prefazione è di Gianfranco Ravasi
di Pierluigi Battista


La prefazione di un libro di Fausto Bertinotti affidata al cardinale Gianfranco Ravasi sarebbe già una notizia in sé. Se poi il cardinale Ravasi confessa di aver trovato nelle pagine di questo Sempre daccapo (Marcianum Press) un vertiginoso «procedere dall’universale al particolare, dalle grandi sfide planetarie alle domande intime che artigliano la sua coscienza», allora l’interesse è vieppiù assicurato.
E Bertinotti non delude. Si macera su una sconfitta storica di dimensioni apocalittiche, ma cerca nuova linfa nel linguaggio della profezia religiosa. Si interroga sullo tsunami storico che ha travolto, insieme al comunismo reale, anche i pilastri costruiti da Karl Marx, ma non esita a riprendere come testo illuminante la Lettera ai Gàlati di San Paolo dove, spiega Bertinotti, si mette in crisi «l’assetto signorile» della società con queste parole radicali e irriducibili: «non c’è Giudeo, né Greco; non c’è schiavo, né libero; non c’è maschio e femmina». L’uguaglianza assoluta davanti a Dio, al di là delle incrostazioni contingenti della storia. Difficile immaginare l’inizio di un percorso politico, ma una drastica trasformazione nella dieta culturale di un leader politico che riflette sull’ampiezza di una sconfitta dolorosa, questo certamente sì.
«Procedere dall’universale al particolare», scrive dunque il cardinale Ravasi. E in effetti qualche volta sembra molto forzato in queste pagine il confronto tra le parole della politica, amare, sconfortate, ma pur sempre significative di un mondo piccolo e limitato, e l’afflato di Bertinotti per la riproposizione delle domande ultime e prime che danno senso alla vita e alla Storia. Difficile collegare il macerarsi sul significato ultimo del messaggio cristiano con le polemiche sulla presunta egemonia «liberista» e addirittura sul ruolo del comandante Marcos in Chiapas, delle cui imprese mirabolanti le cronache hanno tristemente smesso oramai persino di riferire.
Collegare insomma il transeunte di un’esperienza politica con l’immanenza extrastorica delle grandi questioni affrontate dalla religione e da quella cristiana in particolare.
Difficile, ma Bertinotti ci prova. Non che queste pagine evochino l’inizio di una conversione vera e propria (nemmeno il cardinale Ravasi forse se lo augurerebbe), ma danno il senso dell’inadeguatezza di parole oramai consumate. Fosse solo la riflessione su una sconfitta elettorale, di cui Bertinotti porta consapevolmente tutto il peso e tutta la responsabilità, saremmo alle solite recriminazioni sul destino cinico e baro e alla formulazione di un paio di ricette per risalire la china.
Bertinotti invece inscrive quella sconfitta in una più generale catastrofe storica della sinistra, e non solo di quella che si è riconosciuta nell’esperienza fallimentare del comunismo mondiale. Una sconfitta che a suo dire riporta indietro non di un secolo, ma di due, a quell’Ottocento che ha preceduto la formazione del moderno Welfare State e la nascita stessa del movimento operaio. Da qui la radicalità di una ricerca che oltrepassi le frontiere del pensiero tradizionale (a cominciare dalla dicotomia credente-laico, davvero poca cosa in confronto alle dimensioni di una storia che si è logorata). Da qui anche la rivendicazione di una storia stoltamente negletta nelle sfere ufficiali della sinistra.
Quello slancio generoso, socialista e cristiano insieme, che prima dell’ossificarsi nel Partito ha animato, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il formarsi delle cooperative, delle case del popolo, delle leghe, degli atelier, delle società di mutuo soccorso. Ma anche, sebbene Bertinotti non ne faccia riferimento, la formazione dell’Umanitaria a Milano, delle università popolari, delle organizzazioni del credito contadino e così via. Un modo di riconsiderare le tappe di una sconfitta e anche l’inizio di una rilettura delle cose «buone», dimenticate ma che sono forse la parte migliore di una grande storia. Dove c’è anche la rilettura di San Paolo, e una critica spietata a ciò che si è stati. «Sempre daccapo», come recita il titolo del libro .

Repubblica 15.10.14
I segreti che restano sulla strage di Ustica
di Daria Bonfietti


CARO direttore, ho cominciato ad esaminare la documentazione sulla vicenda della strage di Ustica del 27 giugno del 1980, depositata all’Archivio Centrale dello Stato, di cui il suo giornale si è occupato il 2 settembre. Al momento non si evince il criterio con cui il materiale è stato scelto ed è evidente che l’operazione, messa meritoriamente in moto dal Governo Renzi, si mostra ancor più complessa e difficoltosa del previsto. Viene da qui la prioritaria esigenza per le Associazioni, e anche per il Governo, se vuol effettivamente operare nello spirito della trasparenza, di un ulteriore lavoro di approfondimento.
Nelle carte sono documentate le iniziative diplomatiche dei governi D’Alema e Amato dopo il deposito della sentenza ordinanza del giudice Priore, nel settembre del 1999. Troviamo in particolare una lettera circostanziata ai Presidenti di Francia, Usa e Libia con la richiesta di colmare quella mancanza di collaborazione che Priore ha denunciato e che continua anche oggi, come testimoniano le risposte non evase alle rogatorie della Procura della Repubblica di Roma. Ci vuole una diversa e più incisiva azione politica nei confronti di Paesi amici e Alleati cogliendo, oggi, anche l’occasione della Presidenza italiana per portare gli argomenti all’attenzione dell’Europa. Come evidenziato da Repubblica, dalle carte desecretate emerge il lavorio attorno alla vicenda del Mig libico precipitato sulla Sila: un episodio strettamente collegato da sempre alla vicenda di Ustica. A questo proposito si potrebbe chiedere una convinta collaborazione alle indagini a Jalloud, già braccio destro di Gheddafi che in visita ufficiale a Roma, nel 1988, afferma in più occasioni che il suo Paese ha le prove dell’abbattimento del DC9 dell’Itavia in un’azione di guerra che aveva il leader libico come vittima designata: Jalloud vive in esilio, protetto proprio dai nostri servizi segreti.
Questi primi documenti non ci danno notizie sconvolgenti, ma, confermando i nostri dubbi, ci indicano ulteriormente la centralità di una più determinata pressione a livello internazionale per potere finalmente scrivere tutta la verità. L’autore è presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Ustica

il Fatto 15.10.14
Merloni esce di scena, Indesit diventa americana


INDESIT diventa americana e la famiglia Merloni esce definitivamente di scena. Attraverso Whirlpool Italia Holdings Whirlpool ha acquisito una quota del 56% del gruppo di Fabriano (pari al 61,9% dei diritti di voto) da Fineldo e dalla famiglia Merloni, ed è salito così al 60,4% (66,8% dei diritti di voto), secondo gli accordi firmati nello scorso luglio. Franca Carloni e i Merloni (Antonella , Maria Paola, Aristide e Andrea) hanno dato le dimissioni dal cda di Indesit. Ora Whirlpool Italia Holdings avvierà l’Opa obbligatoria sulle azioni di cui non è ancora in possesso, con l’obiettivo di togliere il titolo da Piazza Affari a un prezzo di 11 euro, pari a quello pagato a Fineldo e ai Merloni. Passa di mano perciò definitivamente un’altra azienda storica del Made in Italy, fondata negli anni Trenta da Aristide Merloni, e ribattezzata Indesit nel 1984 dal figlio Vittorio, dopo l’acquisizione del marchio. Un passaggio storico, che solo pochi giorni fa Francesco Merloni aveva definito “doloroso per noi, per mio fratello Vittorio, che purtroppo ora sta male e non può dare il suo contributo”, ma anche “la soluzione migliore”, per un mercato “ sempre più concentrato”.

La Stampa 15.10.14
Sui temi etici la Chiesa batte la politica
di Luigi La Spina


Il contrasto non potrebbe essere più stridente. Da una parte, un percorso lento, molto sofferto, pure duramente contrastato e lacerante, segnato da bruschi avanzamenti e da improvvise fermate, ma con una marcia rettilinea e comprensibile.
Dall’altra, capovolgimenti di fronte repentini, uno zizzagare impazzito di opinioni, a pronto uso per l’ultima dichiarazione in televisione o sui giornali, nel segno della strumentalità più cinica.
In questi giorni, sulle questioni etiche più delicate, quelle in cui la coscienza di tanti cittadini si confronta con la concretezza di una vita che spesso non obbedisce più non solo alle norme, ma anche alle consuetudini, quelle sulla famiglia o sulle famiglie, sull’amore o sugli amori, sulla nascita e sulla morte, colpisce il confronto tra gli uomini della Chiesa e quelli del nostro Stato.
La relazione sulla prima parte del dibattito che si sta svolgendo al Sinodo documenta, con trasparente evidenza, non solo le importanti novità, persino con toni linguistici sorprendenti, di una Chiesa cattolica impegnata in un serio cammino di apertura anche agli aspetti più controversi della modernità, ma anche i turbamenti, le divisioni, le perplessità che tale riflessione suscita nella comunità dei vescovi e dei cardinali. Pare proprio che siano state accolte pienamente le raccomandazioni di Papa Francesco all’apertura dei lavori, quelle di parlare con sincerità e senza troppe diplomazie verbali, ma, e soprattutto, quelle di ascoltare con animo privo di pregiudizi e disponibile al convincimento.
Ecco perché la discussione sembra vera e profonda, come quando non viene mai meno il rispetto per se stessi, sia fra coloro che rivendicano la coerenza di una vita pastorale spesa per difendere la dottrina da più comode e ambigue interpretazioni modernizzanti, sia fra quelli che si rendono conto di un distacco crescente e forse irrimediabile tra la coscienza di tanti cattolici e la rigidità di precetti che finiscono per negare il primo e fondamentale precetto, quello della comprensione e dell’accoglienza per ogni essere umano. Così, il contrasto tra i cosiddetti conservatori e i cosiddetti progressisti al vertice della Chiesa non si maschera nell’ipocrisia, né si confonde in una ambigua trasversalità di posizioni, ma permette di trovare una sintesi, se vogliamo pure un compromesso, che consenta comunque un avanzamento collettivo verso una realtà profondamente mutata e incoraggi un forte stimolo alla sua comprensione.
Se guardiamo, invece, al «dibattito», chiamiamolo pure così, tra la nostra classe politica su questi temi etici, lo spettacolo è davvero desolante. Amore, figli, famiglia, sentimenti che accompagnano tutta la vita dei cittadini, tra meravigliose consolazioni e squassanti dolori, vengono palleggiati, con superficiale disinvoltura e spietata ricerca della convenienza elettorale, per immediate esigenze di schieramento. Questioni così delicate servono per regolamenti di conti nel centrodestra, tra un Berlusconi, fino a poco tempo fa, orgoglioso di un maschilismo esibito per vellicare gli istinti più conservatori del suo elettorato e, ora, accogliente padrone di casa di Luxuria e un Alfano che cerca di trasferire nel suo partito la parte più tradizionalista di quello schieramento, probabilmente sconcertata dall’influenza che la giovane fidanzata riesce ad avere nei confronti del leader di Forza Italia. Ma anche a sinistra, le cautele di Renzi di fronte alle sollecitazioni che gli arrivano da molte parti del suo partito, ultime quelle del presidente dei democratici, Matteo Orfini, perché acceleri il varo di una legge più aperta ai gay e alle adozioni di figli tra omosessuali, sono significative delle sue preoccupazioni di non ostacolare il travaso di simpatie che, dal centrodestra, si sta convogliando verso di lui e verso il suo governo.
L’atteggiamento della Chiesa e quello della nostra classe politica offre una dimostrazione da manuale della differenza tra realismo e opportunismo. Sia l’una sia l’altra cercano il consenso, la prima quello dei fedeli, la seconda quello degli elettori. Sia l’una sia l’altra rincorrono i mutamenti della realtà, degli umori, delle speranze dei cittadini. Sia l’una sia l’altra tentano di modellare antichi precetti e vecchie concezioni del mondo alle attese di ascolti sempre più distratti e sfiduciati. La Chiesa dimostra di farlo con dignità e sofferenza, tra lacerazioni di coscienze e faticosi ravvedimenti, ma con la confortante sicurezza di chi crede in un approdo provvidenziale. La politica brancola alla ricerca affannosa dell’ultimo sondaggio, perché, oltre alle morte delle ideologie, ha perso anche la forza di un serio e moderno pensiero laico sull’esistenza. Senza il quale, il credente è solo costretto a obbedire e il non credente trova impossibile capire il significato della propria vita.

Repubblica 15.10.14
Unioni civili, ma solo per i gay
Il piano di Renzi: riconosciute solo le coppie gay, adozioni per i genitori biologici
Ecco il disegno di legge del governo. Intesa nella maggioranza Il premier: “Faremo le civil partnership come in Germania”
di Francesco Bei


ROMA Unioni civili. Si chiameranno così i nuovi “matrimoni gay” che il governo si appresta a presentare tra pochi giorni. Un disegno di legge copiato nei suoi aspetti essenziali dal modello in vigore in Germania fin dal 2001 — «Eingetragene Lebensgemeinschaft » — molto simile al matrimonio tranne che per due aspetti essenziali: non si chiama matrimonio e non si possono adottare bambini esterni alla coppia.
Tutto è pronto. Matteo Renzi ha chiesto ad Antonella Manzione, capo dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi, di preparare un testo da portare al Consiglio dei ministri entro la fine del mese. Dopo anni di tira-e-molla su Pacs, Dico e DiDoRe, stavolta sembra quella buona. «Ai vescovi — ha confidato il premier nei giorni scorsi — già l’ho detto. Si mettano l’anima in pace». Ai primi di settembre, all’ambasciata italiana presso la Santa sede, ai piedi dei Parioli, Renzi incontrò il Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, il segretario del Sinodo Lorenzo Baldisseri e il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco. E durante il pranzo annunciò la novità in arrivo, senza incontrare opposizioni. Del resto Papa Bergoglio stava già preparando la rivoluzione del Sinodo, dove l’apertura ai gay è risultata il piatto forte dell’assemblea. L’ultimo ostacolo, quello interno alla maggioranza rappresentato dai teocon del Nuovo centrodestra, è stato superato nel week-end. Lavorando alla legge di Stabilità Renzi e il braccio destro Yoram Gutgeld hanno infatti “trovato” mezzo miliardo da destinare agli sgravi fiscali per aiutare le famiglie numerose. Una sorta di quoziente famigliare, da sempre cavallo di battaglia dell’Ncd. Così si è consumato questa sorta di patto tra Matteo e Angelino. Una pace siglata dopo le polemiche che hanno coinvolto Alfano per lo stop imposto ai sindaci che stavano avanzando per conto proprio trascrivendo i matrimoni gay nei registri comunali. «Serve una legge», è stato il refrain comune. In cambio dell’assenso alle unioni civili, Alfano potrà sbandierare i soldi alle famiglie tradizionali con molti figli. E così ognuno avrà ottenuto qualcosa. Dietro questa svolta in realtà c’è una preparazione che va avanti almeno da due anni. «Stiamo lavorando a questo schema fin dalla Leopolda del 2012 — spiega il sottosegretario alle riforme Ivan Scalfarotto — e ormai i tempi sono maturi. Persino il sinodo dei vescovi riconosce la validità del rapporto omosessuale, lo Stato italiano è l’ultimo in Europa a non aver normato le unioni tra persone dello stesso sesso». Anche la Corte costituzionale del resto, fin dal 2010, aveva messo in mora il Parlamento chiedendo di chiudere questo buco dell’ordinamento. La filosofia del governo è chiara: «Stiamo modernizzando l’Italia — insiste Scalfarotto — e questo processo di estende al lavoro, all’economia, ma anche ai diritti civili. Capisco che per l’Ncd può essere doloroso, ma anche noi nel Pd stiamo subendo un forte travaglio identitario per l’articolo 18. Dobbiamo tutti rinunciare a qualcosa per andare avanti».
L’aspetto più delicato, sul quale anche i vescovi hanno chiesto a Renzi cautela, è quello che riguarda i figli. Il punto di mediazione è che l’adozione del bambino sarà possibile solo se uno dei due genitori è quello biologico. Un partner potrà adottare il figlio naturale dell’altro. Nessun affidamento insomma di bambini esterni alla coppia. Per il resto, i diritti (e doveri) saranno quelli del matrimonio tradizionale, reversibilità della pensione, diritto alla successione in caso di morte e possibilità di assistenza negli ospedali e nelle carceri, partecipazione ai bandi per le case popolari, sussidi fiscali. In Senato dunque si fermerà il cammino del disegno di legge Cirinnà, che già riunisce proposte molto simili, e arriverà il nuovo matrimonio alla tedesca. Il cammino parlamentare a questo punto si annuncia spedito. Se la resistenza del Nuovo centrodestra si limiterà al no di alcuni irriducibili come Giovanardi e Roccella, il governo potrà sicuramente contare sul voto favorevole di molti parlamentari dell’opposizione. «Io sono per il matrimonio tout-court — dice l’ex vendoliano Alessandro Zan — ma non c’è altro tempo da perdere. Iniziamo dalle unioni civili alla tedesca, purché si facciano subito». Sel è sulle stesse posizioni, anche dai cinque stelle ci si aspettano aperture. Ma è da Forza Italia, dopo la clamorosa apertura di Berlusconi (grazie a Francesca Pascale), che dovrebbero arrivare i consensi più larghi. «E pensare che noi eravamo il partito — scherza Gabriella Giammanco alla buvette — che con la Gardini impedì al deputato Luxuria di andare nella toilette delle donne!». Acqua passata, adesso la svolta “omo” del Cavaliere rimescola tutte le carte. Tanto che Renato Brunetta, il capogruppo, attacca Renzi da sinistra: «I miei DiDoRe sono del 2008. Non siamo noi che ci accodiamo, casomai è il governo che ci copia».

Repubblica 15.10.14
Il passo in avanti e quello da fare
Un registro delle unioni civili una volta che sarà legittimo per le persone gay sarà difficile negarlo a chi frequenta un sesso diverso dal suo
di Concita De Gregorio


UN PASSO avanti, certo. Bello che il governo stia preparando un testo da mandare in aula nel caso — probabile, visti i precedenti — che la proposta in commissione Giustizia del Senato sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso si impantani nelle sabbie mobili dei veti incrociati, delle suggestioni alfaniane dei principi si suppone etici del centrodestra di governo.
DEI no di matrice politica più che cattolica giacché il Sinodo di Papa Francesco è un bel po’ più veloce e capiente sulla «importante sfida educativa» che le unioni omosessuali propongono. Senz’altro più lungimirante della circolare del ministro Alfano che chiede conto ai sindaci della loro improntitudine: come vi permettete di registrare o ratificare le unioni civili fra persone dello stesso sesso, smettete subito, non si può. Invece non solo si può ma si deve, ministro Alfano, c’è una sentenza della Corte costituzionale — la 138 del 2010, senz’altro lei la conosce — che chiede di riconoscere alle coppie gay gli stessi diritti delle coppie sposate. Sono quattro anni che aspetta una risposta. Ora succede questo: Matteo Renzi, presidente del Consiglio, ha annunciato l’altro giorno a Bologna che una proposta è allo studio. È vero, è così. Ne dà notizia oggi su questo giornale Francesco Bei. Nel caso in cui la proposta di legge di Monica Cirinnà, senatrice Pd, non dovesse uscire dalle secche di commissione ed eventualmente d’aula il governo ha pronto un testo che la recepisce. Lo presenterà dopo la Legge di Stabilità, cioè (anche) dopo aver messo a tacere Alfano e tutto il centrodestra con 500 milioni di euro di sgravi fiscali e sussidi per le famiglie numerose. Qualche soldo in tasca a chi si sposa e fa molti figli in cambio del sì alle unioni civili per i gay. Accordo fatto, sulla parola. Il testo del governo — ci lavora il sottosegretario alle Riforme Ivan Scalfarotto — in estrema sintesi e con qualche approssimazione dice questo: le unioni civili saranno un matrimonio che non si chiama così. Modello tedesco. Le coppie dello stesso sesso avranno gli stessi diritti delle coppie sposate eterosessuali: assistenza sanitaria, asse ereditario, pensione di reversibilità, figli. Avranno la possibilità di adottare i bambini se uno dei due è genitore biologico. Insomma: saranno — come chiede quella sentenza della Corte — in tutto uguali alle coppie unite in matrimonio e lo saranno specialmente riguardo alla domanda fondamentale che ciascuno di noi si pone quando decide di sposarsi anche se non vorrebbe o lamenta di poterlo fare perché non può. La domanda è: se muoio, che succede? Chi subentra nella pensione di reversibilità, la mia prima mo- glie o la mia attuale compagna, madre dei miei figli? La prima moglie, dunque mi sposo per garantire bambini e madre. Chi subentra nel contratto di affitto? Mi sposo. Chi mi assiste o chi posso assistere nel caso di malattia, poniamo invalidante e grave? Mi sposo. Questi sono gli argomenti di migliaia, centinaia di migliaia di persone che si sposano anche senza essere cattoliche osservanti. Questo quello che le persone dello stesso sesso in Italia fino ad oggi non possono fare, e che invece accade in Spagna, Francia, Belgio, Olanda, Portogallo, Svezia, Norvegia, Danimarca — matrimoni — e Germania, Svizzera, Irlanda, Finlandia — unioni civili — solo per restare al continente Europa.
Molto bene, dunque. Ora che anche il Sinodo riconosce che «vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un apporto prezioso» anche fra persone di sesso uguale persino Alfano potrà stare più sereno. Si proceda, il Papa ha detto sì. Purché non si chiami matrimonio, ma sì. La domanda, a voler essere pignoli, è perché due persone di sesso diverso — un uomo e una donna — per essere tranquilli di “cosa succede se muoio” ed altro ancora — figli, adozioni assistenza sanitaria ed ogni altra quotidiana vicenda della vita — debbano per forza sposarsi. Una discriminazione nuova si profila all’orizzonte: quando i gay avranno gli stessi diritti degli eterosessuali, evviva, dovremmo provare a fare in modo che fra gli eterosessuali non ci sia differenza fra chi accede al matrimonio e chi, per mille sue personali ragioni, non lo desidera, non vuole. È fermo al Senato, dopo il sì della Camera, il divorzio breve. È ferma la proposta sul “divorzio senza avvocati” per chi non ha figli. Sono una babele le norme per l’adozione, impregnate di matrimonialismo. Mentre si rallegrano per le sorti degli omosessuali ci sono milioni di persone etero che si chiedono e chiedono al presidente Renzi quando, in questo Paese, per essere tranquilli di “cosa succede se muoio” non debbano unirsi in matrimonio secondo Santa Romana Chiesa o con veloce cerimonia in Comune. Un registro delle unioni civili, presidente Renzi, una volta che sarà legittimo per le persone gay francamente sarà difficile negarlo a chi frequenta un sesso diverso dal suo. Giusto per non fare discriminazioni, Costituzione alla mano. In fondo a questo faticoso e lento cammino, ne convenga, sarà bello e persino giusto essere davvero tutti uguali.

Corriere 15.10.14
In carcere l’uomo che istigò il figlio a uccidere un immigrato
L’aggressione un mese fa a Roma
I testimoni: il 17enne picchiava il pachistano e lui gli urlava di ammazzarlo
di Rinaldo Frignani


ROMA Muhammad Shahzad Khan era lì, a terra. Sul marciapiede, vicino a uno scooter. Già morto, massacrato a calci. La testa colpita come fosse un pallone da un ragazzo di 17 anni rimasto fra i curiosi ad aspettare i carabinieri. In quei momenti il padre, di 40 anni, piombava come un ossesso di fronte al portone di casa di un giovane che, con la compagna, aveva assistito al pestaggio. Lo sfondava con un calcio ed entrava nel palazzo: voleva impedire al testimone di raccontare cosa avesse visto, facendogli rischiare l’accusa di favoreggiamento. È questa, secondo il gip Giuseppina Guglielmi, la ricostruzione di una parte della drammatica serata del 18 settembre scorso a Tor Pignattara, dove Khan — pachistano di 28 anni, a Roma dal 2007, sposato e padre di un bimbo di 4 mesi lasciato in patria — fu ucciso a freddo dal figlio del quarantenne, poi arrestato per omicidio volontario. Ieri anche il padre, con precedenti di polizia e già indagato da qualche giorno dopo l’incidente probatorio al tribunale dei minorenni, è finito in carcere per il timore che potesse inquinare le prove.
È accusato di concorso in omicidio con l’aggravante di aver istigato un minore: il figlio avrebbe agito seguendo un suo ordine preciso. «Prendilo!», «picchialo!», «ammazzalo!», urlò — secondo l’accusa — dalla finestra di casa al ragazzo, che passava in bicicletta con un amico per via Ludovico Pavoni, nel cuore del quartiere multietnico dove basta una scintilla per far esplodere la rabbia di italiani e stranieri. Il diciassettenne eseguì senza fiatare: un calcio al petto di Khan per farlo cadere, poi altri alla testa. Letali. E fu sempre il padre, sceso in strada, a minacciare altre persone apostrofandole come «spie» e «infami», anche quando i carabinieri erano arrivati in via Pavoni. Calvo, a torso nudo, con un paio di bermuda, il quarantenne era stato visto anche prima dell’omicidio lanciare una bottiglia di plastica piena d’acqua addosso al pachistano che passava in strada cantando una litania che lo disturbava. «Recitava una sura del Corano, stava pregando», raccontarono altri testimoni, dopo aver vinto la paura.

Corriere 15.10.14
Pechino scommette sull’asse con Roma «Legati dalla Storia»
Li Keqiang a Renzi: siate ponte sul Mediterraneo
di M. Gal.


ROMA Poco prima di tornare a Palazzo Chigi, quando il caso ci mette lo zampino, Renzi parla ad un convegno dei rapporti fra Washington ed Unione europea: l’Italia d’ora in avanti spingerà al massimo per la firma dell’accordo commerciale transatlantico, il Ttip, e contemporaneamente ribadisce che il rapporto economico con gli Usa «è per noi di una priorità assoluta».
Mezz’ora più tardi invece compare davanti alla stampa insieme al primo ministro cinese: si firmano 20 accordi istituzionali e commerciali per 8 miliardi di euro, il premier cinese e i suoi investimenti sono accolti a braccia a aperte. Pechino ha già investito in settori strategici del Paese, energia, infrastrutture e gas, e fioriscono scenari di tutti i tipi: gli americani che per via diplomatica avrebbero storto il naso; i cinesi che chiedono in cambio (della loro liquidità) una collaborazione geopolitica più stretta nel Mediterraneo e nel Nord Africa. L’Italia anche come ponte per ulteriori investimenti: «Oggi è solo una punta dei risultati che possiamo raggiungere, insieme possiamo esplorare altri Paesi», dice apertamente Li Keqiang.
Insomma Roma da una parte spinge per chiudere in fretta il Ttip, che a Bruxelles incontra non poche resistenze: «Vorrei che agli italiani fosse chiaro che il semestre europeo a guida italiana è l’occasione per uno scatto in avanti», dice un Renzi alfiere dell’accordo con Washington. Dall’altra parte accoglie a braccia aperte le scelte di investimento di Pechino: «In questo momento è molto forte l’attenzione degli investitori cinesi nel nostro Paese e ne siamo ben felici. La partnership tra Cina e Italia ha visto dei grandi progressi, ma possiamo fare ancora di più e sono certo che lo faremo».
Dopo Palazzo Chigi i due premier si spostano a Palazzo Barberini, in una cornice esteticamente più bella, per la firma degli accordi. Renzi cita Marco Polo, il capo del governo cinese elenca cinque punti per suggellare la crescita della collaborazione politica ed economica (nel 2014 l’Italia è il terzo Paese europeo per gli investimenti cinesi): nella «bellissima Italia, culla della civiltà occidentale» i cinesi vogliono fra gli altri «consolidare una fiducia reciproca», salvaguardare «interessi internazionali comuni», ci tengono a dire che non desiderano un surplus della bilancia commerciale, «vogliamo che l’Italia esporti di più in Cina e vi aiuteremo».
Fra una cosa e l’altra Renzi chiama anche Vladimir Putin, si vedranno giovedì a Milano, nel corso del vertice Asem, sarà il loro primo incontro. Renzi vedrà anche il presidente ucraino Petro Poroshenko.

Corriere 15.10.14
Venti accordi firmati con la Cina: energia, finanza ed elicotteri
Dalla Cassa depositi e prestiti a Finmeccanica: i contratti valgono 8 miliardi Ma l’entrata del Dragone negli asset strategici suscita sospetti in America
di Marco Galluzzo


ROMA Gli ultimi arrivati, ieri, sono un accordo fra Cassa depositi e prestiti e China Development bank, del valore di circa 3 miliardi di euro. Uno fra Finmeccanica e il gruppo cinese Baic, per la fornitura di 50 elicotteri. Un’intesa fra Enel e Bank of China. Un progetto di collaborazione fra il Gse, il Gestore dei servizi energetici e la provincia dello Zhejiang, che coinvolge venti aziende tricolori. Un altro fra il Fondo Strategico Italiano e il suo omologo cinese, il potente Cic International: operazioni di investimento comune del valore massimo di 500 milioni di euro
Sono solo alcuni dei 20 accordi, per un valore di 8 miliardi di euro, che Italia e Cina, o le loro aziende, hanno siglato ieri, alla presenza dei rispettivi capi di governo. Un ulteriore tassello della crescita quasi a due cifre delle relazioni commerciali e soprattutto degli investimenti diretti cinesi in Italia.
Chiamarlo shopping finanziario sarebbe errato. Investimento economico di lungo periodo riduttivo. In altri Paesi sarebbe impossibile, o molto difficile, trovare un investitore estero (nel nostro caso la State Grid Corporation of China) che controlla il 35% della società che a sua volta controlla la rete elettrica e del gas (Cdp Reti).
L’Italia qualche mese fa ha detto di sì, secondo alcuni suscitando malumori americani, di sicuro aprendo le porte di asset strategici (rete energia elettrica, rete gas) all’enorme capacità monetaria della Repubblica Popolare e soprattutto al suo modo di investire: nelle prime aziende di un Paese, ma anche in società (dove Pechino nominerà propri consiglieri di amministrazione) che per core business sono pezzi «sensibili» degli interessi economici di uno Stato. La Cdp scaricherà un po’ del debito che negli anni il Tesoro le ha accollato, i cinesi avranno voce in capitolo in delicate scelte di sviluppo del nostro Paese.
«Siamo nel decimo anniversario del partenariato strategico, festeggiamo questo compleanno con un grande progetto di cooperazione», ha spiegato ieri Renzi sottolineando che l’interscambio con la Cina ha toccato nel 2013 quota 32,9 miliardi di euro e nel 2014 «l’export è cresciuto dell’8,3%».
Numeri che raccontano che mai come in questi ultimi mesi la Cina ha scoperto l’Italia. Ieri Renzi e Li Keqiang parlavano davanti ai cronisti di collaborazione sempre più stretta nel settore culturale e del cibo, «siamo due regni del buon mangiare», ha enfatizzato il premier cinese, auspicando intrecci futuri sinergici fra ravioli di Pechino e pasta tricolore.
La sensazione che offrono le cifre però è che il piatto forte, più che il cibo, o Marco Polo, sia un investimento finanziario che ha al contempo caratura geopolitica: ieri il premier cinese ha parlato apertamente di «Paesi terzi» che l’Italia e la Cina possono «esplorare» insieme. È noto che Pechino sia a caccia di approdi logistici e infrastrutture per la sua espansione commerciale nel Mediterraneo e in Nord Africa. Chi meglio del nostro Paese?
Con riserve valutarie che si misurano in trilioni di dollari di certo la Cina ha scelto di accelerare sull’Italia. La visita di Renzi a Pechino ha fatto da volano per alcune scelte. Ieri un’altra parte di quelle scelte si sono concretizzate, insieme ad alcune domande che si portano dietro.

Corriere 15.10.14
Il loro segreto: formare vuol dire anche innovare
di Giovanni Azzone


S olo dieci anni fa le imprese italiane guardavano alla Cina come a un Paese di «imitatori». Ricordo ancora la preoccupazione con cui gli imprenditori lombardi accolsero i primi studenti cinesi iscritti al Politecnico di Milano, restii persino ad aprire le proprie fabbriche alle visite di studio. Alla fase di chiusura è poi seguita la consapevolezza delle straordinarie dimensioni e potenzialità del mercato cinese e la delocalizzazione di produzioni che beneficiavano di un minore costo dei fattori produttivi, in particolare di quelle maggiormente standardizzate. Oggi, infine, dobbiamo riconoscere che la Cina è in molti settori il vero leader tecnologico del mondo. E il Forum Italo Cinese dell’innovazione, che si apre domani a Milano, segna in modo esplicito l’avvio di una fase nuova nel rapporto tra i sistemi economici e produttivi dei due Paesi.
I successi cinesi non sono un caso, ma il risultato di una politica che ha deciso di investire pesantemente sulla formazione e sull’innovazione. Un dato per tutti: il Global R&D Funding forecast dell’istituto di ricerca statunitense Battelle prevede che nel 2014 la Cina sosterrà il 17,5% dell’intera spesa in ricerca e sviluppo mondiale — il triplo della Germania — contro il 21,7% dell’intera Europa. In questo quadro, comprendere le linee di evoluzione del sistema di innovazione cinese è fondamentale per il nostro Paese; un Paese che può cercare di ridurre una disoccupazione oggi drammatica solo aumentando la propria competitività internazionale e che, per farlo, deve necessariamente puntare sull’innovazione ma che, nel contempo, sta progressivamente riducendo gli investimenti in ricerca e formazione avanzata.
Innovare meglio degli altri ma con meno risorse è un compito molto difficile. Perché non sia improbo, l’Italia deve riuscire a focalizzare i propri investimenti sui settori e sugli ecosistemi che hanno le maggiori possibilità di creare innovazione, evitando la dispersione a pioggia che ci caratterizza da sempre, frutto della nostra naturale tendenza a non decidere.
Due linee sono a mio avviso particolarmente promettenti. Una, ovvia, è quella dei prodotti di alta gamma, dove la tecnologia si combina con la qualità del design (dai tessuti alle auto e agli pneumatici ad alte prestazioni): continuiamo infatti a mantenere una capacità unica di combinare soluzioni tecnologiche diverse per trovare qualcosa di «unico» per il consumatore. L’altra, forse meno scontata, è quella delle innovazioni «sostenibili« (dalla chimica verde all’impiantistica industriale) che ci possono consentire di rispondere ai bisogni che inevitabilmente cresceranno nei Paesi del Far East parallelamente all’aumento del tenore di vita.
È bene che su questi temi l’Italia rifletta, ed è bene che lo faccia rapidamente. È emblematico che ciò avvenga a Milano, la città che sarà presto sotto i riflettori del Mondo per Expo e che ha, a mio avviso, la responsabilità di essere il vero punto di contatto tra i fenomeni che stanno rapidamente trasformando la geografia economica del mondo e il nostro Paese. Rettore del Politecnico di Milano

il Fatto 15.10.14
Li Kequiang in visita
Con i mercati tristi, ora i cinesi comprano perfino in Italia
di Fabio Scacciavillani


Nella sua visita in Italia in occasione del vertice tra i leader europei e asiatici, il primo ministro cinese Li Keqiang difficilmente riuscirà a dissipare la sensazione di essere considerato come una specie di portafogli ambulante. Sin dai tempi di Giulio Tremonti iniziarono i viaggi della speranza in Cina degli alti papaveri ministeriali in tenuta da piazzista che peraltro riuscirono a strappare solo qualche elemosina. Oggi però la situazione è mutata. Esiste persino un sito web ( www.vendereaicinesi.it ) interamente dedicato alla vendita diretta ai cinesi (inclusi gli oltre 300 mila residenti in Italia) di beni, immobili, servizi, attività commerciali, aziende e quant’altro. Tanto che Matteo Renzi ha annunciato che saranno firmati “20 accordi per 8 miliardi”.
MA SU INTERNET passano le transazioni di piccolo taglio, mentre gli arieti finanziari della Cina sono i fondi sovrani, le grandi imprese pubbliche e la banca centrale, conosciuta in occidente come la People’s Bank of China. Sono questi giganti, che gestiscono oltre 2 trilioni di dollari di riserve valutarie accumulate nei decenni dell’impetuoso miracolo economico, a solleticare le perverse fantasia finanziarie del governo italiano, i sogni proibiti di banche dal capitale esangue e le speranze di imprese in perenne crisi di liquidità. È quindi molto probabile che durante il suo incontro di oggi con LiKeqiang, Renzi si concentrerà su questi temi, evitando ogni riferimento ad Hong Kong (in perfetta sintonia con gli altri imbelli governi occidentali).
Secondo il database della Heritage Foundation che monitora le grandi acquisizioni cinesi nel mondo (quantomeno quelli di cui viene data notizia), dal 2008 – quando si è registrato il primo investimento sostanziale, 250 milioni di dollari in una società immobiliare – al 2013 la Cina ha condotto operazioni in Italia per un totale di 3,6 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra alquanto modesta se paragonata a quelle investite nello stesso arco di tempo nel Regno Unito (18 miliardi di dollari), in Australia (60 miliardi), in Nigeria (20 miliardi), in Brasile e in Canada (30 miliardi ciascuno).
Tuttavia nel 2014 è arrivata una ventata di attivismo decisamente inaspettato. A febbraio Krizia è stata acquistato da un gruppo privato di Shnzen per una cifra imprecisata. A marzo il braccio operativo della Banca centrale cinese la State Administration of Foreign Exchange (SAFE) ha acquistato il 2 per cento di Eni e il 3 di Enel per un totale di 2,7 miliardi di dollari, seguito a maggio dalla Power Construction Group che ha inglobato il 40 per cento di Ansaldo Energia per 560 milioni di dollari. Infine il filotto estivo: in pochi giorni tra fine luglio e inizio agosto, la Consob ha ricevuto comunicazioni che la People’s Bank of China aveva superato il 2 per cento del capitale di blue chip come Generali, Telecom Italia, Fiat, Prysmian, mentre il gestore della rete cinese State Gridha investito 2,1 miliardi di euro in Cdp Reti (la holding che controlla Snam e Terna, il cuore del sistema energetico italiano). Questa impennata nei flussi di capitale verso l’Italia è il sintomo di una necessità impellente. La Cina ha continuato ad ammassare riserve valutarie, investendole soprattutto nei titoli del Tesoro americano al punto tale che se volesse venderne anche solo una parte farebbe crollare il mercato. Quindi i cinesi da diverso tempo cercano di limitare l’accumulo di dollari facendo incetta di attività reali soprattutto nelle infrastrutture, nel settore energetico e nelle materie prime.
Dopo aver fatto buoni affari in paesi con immense risorse minerarie (inclusi quelli che richiedevano cospicui investimenti, come in Africa) oggi che l’economia globale arranca, si accontentano anche di occasioni meno appetibili, accettando di correre qualche rischio di medio termine pur di sbarazzarsi di titoli a reddito fisso dai rendimenti virtualmente nulli. Quindi anche in Italia, pur con tutti i suoi difetti, trovano dei pezzi (e dei prezzi) tutto sommato appetibili per un investitore sovrano dalle spalle larghe e dall’orizzonte lungo: Matteo Renzi annuncia 20 accordi per 8 miliardi di euro di valore.
SPESSO GLI INVESTIMENTI della Cina, che quest’anno secondo il Fmi è diventata la prima economia del mondo (a parità di potere d’acquisto), hanno suscitato sospetti di interferenze politiche e accuse di colonialismo. Ma in realtà di questa influenza si rilevano tracce labili ed erratiche. Per un paese come l’Italia gravato da oltre due trilioni di euro di debito pubblico e con un’economia in picchiata non saranno i pochi miliardi di investimenti cinesi a cambiare verso come propagandato dai petulanti cinguettii cibernetici.

La Stampa 15.10.14
La Cina non traina più il lusso
E le grandi firme soffrono
Le nuove regole del governo frenano gli acquisti
di F. Sp.


«L’incremento della crescita negli Stati Uniti e in Europa nell’ultimo trimestre ha compensato il calo che è stato registrato in Asia». Anche un gigante del lusso come la francese Lvmh - che nel terzo trimestre, vede i ricavi crescere appena del 5,7%, al di sotto delle previsioni degli analisti - certifica il cambiamento. Nonostante i cinesi restino i protagonisti del mercato mondiale del lusso, rappresentandone il 29%, qualcosa è cambiato. La Cina che negli anni scorsi aveva drogato il mondo del lusso con una crescita sfrenata a doppia cifra, per la prima volta nel 2014 segna una performance negativa: -1% a cambi costanti, meno 2% a tassi correnti.
Così se globalmente anche quest’anno - secondo i dati del «Monitor Altagamma sui Mercati Mondiali 2014», presentato ieri a Milano da Fondazione Altagamma e da Bain & Company - il mercato del lusso crescerà del 5% a cambi costanti (+2% a tassi correnti), rispetto al 7% di un anno fa, dovrà dire grazie a un ritorno al lusso dell’America (+6% a cambi costanti, +3% a tassi correnti) e anche dell’Europa che, nonostante le difficoltà, può contare su un +2%. Dall’Asia invece arrivano notizie meno entusiasmanti degli anni passati. «Arriva una fotografia molto fredda, molto diversa da quella che abbiamo visto negli anni passati - spiega Claudia D’Arpizio, partner Bain dell’ufficio di Milano - quando tutta la crescita veniva da qua. Ora le velocità sono basse, con la Cina in decrescita, con la Corea che fa fatica e un Sud Est asiatico dove, in mezzo a situazioni problematiche come quella della Malesia, ci si aspetta l’esplosione dell’Indonesia, in un certo modo la nuova Cina», sebbene ben più piccola. In Cina c’è una cambio di marcia. Stop all’ubriacatura, anche grazie al fatto che il governo sta portando avanti un processo di moralizzazione che va dal proibire gli alberghi a cinque stelle ai governativi che viaggiano, a ridurre il visto per Macao da sette a cinque giorni lavorativi, a controllare l’utilizzo degli alcolici, fino a ridurre gli acquisti di articoli di lusso per i regali. Secondo D’Arpizio tutto questo non è un male in sé. Fa piuttosto a emergere «il vero mercato, i veri consumatori che possono spendere. Sta togliendo una bolla, un cappello sul quale ci eravamo adagiati e ci fa capire chi sono vincitori e perdenti su quel mercato, e come si può conquistare il consumatore». Che è sempre più fatto di ceto medio che cerca prodotti accessibili e premium, con uno zoccolo duro di super ricchi accomunati, qui come negli Usa, da una passione per le supercar personalizzate che stanno vivendo un vero e proprio boom: +10%.
E mentre i consumatori cinesi si fanno più selettivi (e viene meno il supporto dei russi), le grandi marche del Vecchio Continente fanno i conti con un ambiente meno favorevole al business del lusso. Anche Burberry ieri ha comunicato - relativamente al primo semestre - ricavi in crescita del 14%, denunciando nel contempo un calo della redditività, anche a causa dell’ennesima giravolta del mercato cinese. [F.SP.]

Corriere 15.10.14
La mappa degli intrecci finanziari di Pechino
Cic, potere e misteri del fondo cinese che compra il mondo
Base in Lussemburgo e holding sconosciute. Dal Waldorf Astoria alle partecipate del Tesoro
di Mario Gerevini

qui

Il Sole 15.10.14
Partita globale per l’Italia
Lo scambio utile con Pechino
di Giuliano Noci


Li Keqiang compie molto più di una visita di cortesia nel l'Italia del vertice Asem. Il suo arrivo rafforza un'operazione di shopping portata avanti dalle imprese (di Stato) dell'ex Impero di mezzo. Ma non solo. Le recenti acquisizioni di quote minoritarie (2%), ma in valore assoluto importanti, di Telecom, Enel, Eni devono essere interpretate in una logica di diversificazione del portafoglio di investimento dei cinesi e in ambiti ritenuti a basso rischio.
S e consideriamo che fino a un paio di anni fa l'Italia era fuori dal radar degli investimenti della Cina, l'iniezione di capitali da un Paese in possesso di enorme liquidità è benvenuta. L'Italia deve trasformare l'interesse che proviene dalla seconda economia più importante del pianeta e dal suo immenso mercato in un'opportunità per le nostre imprese. Lo può e lo deve fare giocando al meglio e in modo sistematico la partita di questa relazione con le sue carte migliori: i tesori di famiglia, le complementarità che sussistono tra i due Paesi, un portato di valori e di qualità della vita che interessa oggi più che mai alla Cina, la capacità di innovazione. Carte che consentono un gioco ben più ambizioso di quello che ci colloca, ora ,al 21° posto tra i partner commerciali in ingresso e al 25° tra quelli in uscita del Dragone. Per quanto il nostro sistema agroalimentare e il sistema moda/alto di gamma rappresentino l'eccellenza italiana, quasi il 40% dei circa 19 miliardi di nostre esportazioni in Cina sono dovute a: meccanica di precisione, macchinari per l'industria, veicoli industriali e sistemi dell'automazione. Prodotti e tecnologie di grande interesse per il tessuto industriale cinese con il quale sviluppare innovazione.
La seconda carta è la complementarietà nel modo di fare business. La Cina è un Paese a forte vocazione dirigista, e con una capacità unica al mondo di sviluppare specializzazione verticale, sfruttare opportunità puntuali di mercato e sviluppare campioni nazionali e colossi internazionali. Ha tuttavia, per fattori dimensionali e culturali, meno efficacia nella diversificazione e nell'innovazione creativa. Mentre noi siamo la patria delle Pmi di eccellenza, di un'imprenditoria abituata a fare di necessità virtù e a conseguire risultati straordinari con risorse limitate; un'imprenditoria che ha però conosciuto fenomeni di scarsa managerializzazione che ne hanno limitato la crescita e condannato alcuni comparti a un nanismo limitante di fronte a mercati sconfinati come quelli asiatici. Cina e Italia hanno l'opportunità di compendiare i rispettivi punti di forza e superare i reciproci punti di debolezza.
C'è poi un asso: la nostra eccellenza in ambiti di primario interesse per lo sviluppo cinese. Proprio sul Sole 24 Ore, il premier Li ha delineato ambiti di collaborazione nell'agricoltura, nell'aerospaziale, nello urban planning, nelle tecnologie ambientali e nella sanità. Non solo settori dell'eccellenza italiana, ma segmenti costitutivi di uno stile di vita italiano affermatosi in Cina e nel mondo.
Infine la percezione della qualità delle nostre marche: dai beni di largo consumo fino al tessile (oltre 4 miliardi di export in Cina nel 2013). Un'immagine positiva fondamentale per le imprese cinesi che vogliono affermarsi in un mercato interno che non associa ai produttori cinesi, in comparti delicati come i prodotti per l'infanzia e l'agroalimentare, standard di qualità di cui potersi pienamente fidare e che può abilitare la diffusione di tecnologie innovative made in China nel mondo. E in questo periodo storico, lo sviluppo di innovazione di successo è il vero mantra per l'economia cinese.
Abbiamo una chance straordinaria davanti a noi: rendere sistematico un dialogo strategico con l'ex Impero di mezzo di cui entrambe le parti potrebbero giovarsi. Mettendo in campo una discontinuità nel metodo e nei contenuti. Nel metodo, con la definizione di un progetto-Paese rispetto alla Cina, una strategia propositiva che, grazie al coinvolgimento di università e del mondo delle imprese, con la regia del Governo, dia continuità al processo di internazionalizzazione avviato. Nel merito, è importante tener conto dell'orizzonte plurale dei prodotti industriali italiani: non solo il made in Italy, che pure fa brillare la stella della nostra immagine nel mondo ma anche le eccellenze tecnologiche che contraddistinguono larga parte del nostro manifatturiero, eccellenze importanti per i cinesi e che dobbiamo saper proporre affermando la logica dello scambio del nostro know-how con l'accesso al loro mercato. Se questa sarà la direzione, i bilaterali di questi giorni e il Forum per l'Innovazione, che Milano e il suo Politecnico ospitano, possono far splendere il sole di questa relazione. La Cina porterebbe alla qualità italiana i numeri del mercato e del buon investimento che caratterizzano la sua grandezza. La forza di un fare mercato insieme potrebbe contribuire a dinamiche più profonde. Per quanto la storia non si ripeta e la Cina sia - come è giusto che sia - quel che decide di essere, il mercato potrebbe far nascere una nuova Cina della società civile.

La Stampa 15.10.14
Hong Kong, nuovi scontri con la polizia
Secondo le prime testimonianze durante le manifestazioni ci sono stati diversi arresti

qui

Corriere 15.10.14
Democrazia, incognita Asia
In Cina i valori universali «non esistono» la Thailandia è in mano ai militari e la sorpresa arriva dall’Indonesia
di Guido Santevecchi


Si può essere pessimisti sullo stato della democrazia in Asia quando nel 2014 un miliardo e settecento milioni di persone sono state chiamate alle urne? Purtroppo sì.
Venticinque anni dopo l’ultima grande richiesta di democrazia, repressa nel sangue sulla Tienanmen, la Cina si trova a fare i conti con un movimento che esige elezioni a suffragio universale e con candidati liberi. Il teatro della sfida questa volta è a Hong Kong, l’esito incerto perché tutti sperano che in un quarto di secolo i «saggi dirigenti» di Pechino, ora al timone della seconda potenza economica del mondo, siano diventati più lungimiranti, se non proprio tolleranti. Da Taiwan, il presidente della Repubblica che Pechino considera solo una «provincia ribelle», ha proposto al leader cinese Xi Jinping di fare come Deng Xiaoping con le riforme economiche, avviate in «zone speciali»: perché non permettere a una città relativamente piccola come Hong Kong di andare avanti con l’esperimento democratico? Anche se Xi Jinping non farà usare la forza nelle strade di Hong Kong, non c’è da illudersi su concessioni liberali. In primavera, quando ha visitato le istituzioni europee a Bruxelles, Xi ha spiegato con naturalezza: «Monarchia costituzionale, restaurazione imperiale, parlamentarismo, multipartitismo, presidenzialismo: abbiamo considerato tutti questi sistemi e li abbiamo provati, ma non hanno funzionato, ci hanno fatto rischiare la catastrofe». La Cina resta quindi nell’era dell’incontestabile ruolo guida del partito comunista. Questo ha detto Xi in pubblico. A porte chiuse, davanti ai compagni del Politburo, è stato più chiaro. Lo spettro per la nomenklatura cinese è sempre il crollo dell’Unione Sovietica. E il presidente ha ammonito: «L’Urss è caduta perché non c’è stato nessuno abbastanza uomo da levarsi in piedi per difendere il partito nel momento cruciale». Xi ha fatto anche circolare una direttiva per mettere in guardia i quadri che i «valori universali non esistono», sono solo il Cavallo di Troia dell’Occidente per indebolire la Cina. La polizia ha subito risposto arrestando personalità famose del Web che sui blog «diffondevano voci su valori universali». La campagna si è intensificata con l’ordine di attenersi alla «purificazione intellettuale», secondo i Quattro principi cardine: dittatura democratica del popolo; via socialista; guida del partito secondo il marxismo-leninismo; pensiero di Mao Zedong. Dalla Cina, sotto l’attuale leadership, non c’è dunque da attendersi fughe in avanti. Il massimo che Pechino può ammettere è il «centralismo democratico»: libertà di decisione, unità d’azione.
Quest’anno però in Asia un miliardo e settecentomila persone sono andate alle urne. Dal Bangladesh alla Thailandia, all’India, all’Indonesia. Un quarto della popolazione mondiale che in pochi mesi elegge i suoi rappresentanti è sicuramente una buona cosa. Però, a ben guardare, per la democrazia parlamentare anche in questi grandi Paesi asiatici che accogliamo al vertice Asem di Milano si prospettano tempi duri. Il Bangladesh resta spaccato dallo scontro tra la premier Sheikh Hasina e la rivale Khaleda Zia che ha boicottato il voto. La Thailandia è in mano ai militari, dopo che per mesi l’opposizione aveva paralizzato il governo della signora Yingluck Shinawatra, accusandola di prendere ordini dal fratello Thaksin. Per l’opposizione non conta quante volte gli Shinawatra vincano le elezioni: questa larga minoranza non è disposta ad accettare il risultato. La contestazione ha preparato il terreno al golpe. Il fallimento della Thailandia è stato usato dalla stampa cinese come esempio del rischio destabilizzante della democrazia elettorale.
In Cambogia è primo ministro da vent’anni l’ex khmer rosso Hun Sen e le rivendicazioni dei lavoratori del tessile, sottopagati e sfruttati, sono state represse dalla polizia. In Malaysia ci sono state violenze contro la comunità cristiana; in Myanmar moti anti-musulmani. L’India ha messo in scena, come sempre, la più imponente rappresentazione di democrazia elettorale al mondo, scegliendo il nazionalista-riformista Narendra Modi come premier. Entusiasmati dal Nobel per la pace assegnato alla pachistana Malala e all’indiano Kailash Satyarthi, non ci siamo quasi accorti che la settimana scorsa i due Paesi si sono scambiati cannonate sul Kashmir, uccidendo una ventina di civili. C’è però un caso virtuoso, in un grande Paese come l’Indonesia: tramontata l’era delle dittature, nelle presidenziali è emerso un volto nuovo e riformista, Joko Widodo, che entrerà in carica lunedì prossimo. Basterà l’uomo che gli indonesiani chiamano Jokowi a salvare l’ideale di democrazia elettiva in Asia ?
@guidosant

La Stampa 15.10.14
Stato palestinese
Ora Israele teme l’effetto domino
Netanyahu: segnali errati. Abu Mazen: ce la faremo
di Maurizio Molinari


Abu Mazen vede rafforzate le speranze di un successo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu mentre Benjamin Netanyahu teme «seri danni per il negoziato di pace»: sono opposte le reazioni di Ramallah e Gerusalemme al domino di decisioni pro-palestinesi in arrivo dal Vecchio Continente. A una settimana di distanza dal pronunciamento del neo-premier di Stoccolma in favore del «riconoscimento della Palestina» è stato il Parlamento britannico, con un voto non vincolante per il governo, a esprimersi in termini analoghi e qualcosa del genere sembra maturare a Parigi, dove il ministro degli Esteri Laurent Fabius fa sapere che «la Francia vuole adottare in favore del riconoscimento della Palestina una decisione capace di avere conseguenze concrete».
Per Ramallah si tratta dell’affermazione crescente nell’Unione Europea di posizioni favorevoli alla bozza di risoluzione che Abu Mazen ha presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per ottenere «il pieno ritiro di Israele da tutti i territori occupati nel 1967, inclusa Gerusalemme Est, entro il novembre 2016». Nabil Shaat, veterano dei negoziatori palestinesi, afferma che «al Consiglio di Sicurezza abbiamo già 7-9 voti favorevoli» ovvero manca poco al quorum di 10 che potrebbe significare luce verde se gli Stati Uniti non opporranno il veto. Con il sostegno di Mosca e Pechino mai in dubbio e le posizioni di Londra e Parigi in rapida evoluzione si spiega l’ottimismo di Hanan Ashrawi, della vecchia guardia di Al Fatah: «Il voto del Parlamento britannico darà coraggio a chi in Europa ritiene sia giunto il momento di riconoscere i diritti dei palestinesi». Anche l’ambasciatore britannico a Tel Aviv, Matthew Gould, condivide questo stato d’animo: «Israele non deve sottovalutare il voto del nostro Parlamento perché indica un indebolimento del sostegno da parte dell’opinione pubblica a seguito della guerra a Gaza e degli annunci di nuovi insediamenti».
Ma a Gerusalemme il domino europeo pro-palestinese viene interpretato in maniera differente. «Manda un messaggio sbagliato ai palestinesi perché gli fa capire che possono ottenere ciò che vogliono evitando le scelte che entrambe le parti devono compiere» afferma il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, parlando da Roma dove ha incontrato il capo della Farnesina, Federica Mogherini. «Le decisioni che arrivano dall’Europa - aggiunge Emmanuel Nachshon, portavoce del ministero degli Esteri israeliano - nascono dalla frustrazione per l’assenza di risultati nel negoziato ma rischiano di avere l’effetto opposto perché spingono i palestinesi all’intransigenza». Il riferimento è non solo alla disputa sui confini ma ai due contenziosi che Israele considera più ad alto rischio: il ritorno dei profughi del 1948 e la cooperazione sulla sicurezza. La preoccupazione di Gerusalemme si rispecchia nelle parole di Samantha Power, l’ambasciatrice Usa all’Onu, contraria alla bozza di risoluzione di Abu Mazen «perché ipotizza la nascita della Palestina senza un accordo fra le parti» come previsto dagli accordi di Oslo del 1993 da cui il negoziato è incominciato.

Il Messaggero 15.10.14
Lo strappo di Londra e l'incognita Palestina
Il Parlamento di
Westminster riconosce lo Stato di Palestina
Israele convoca ambasciatore
Svezia dopo il riconoscimento dello stato di Palestina Israele rifiuta l'accredito all'ambasciatore della Nuova Zelanda
di Ennio Di Nolfo

qui

Corriere 15.10.14
Westminster riconosce lo Stato di Palestina
Una mossa giusta e ragionevole
di Fabio Cavalera

qui

All’inizio di tutta la storia del conflitto:
Una scheda sulla "Dichiarazione di Balfour" è disponibile qui

Il testo:
2 novembre 1917
Egregio Lord Rothschild,

È mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell'ebraismo sionista che è stata presentata, e approvata, dal governo.
"Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni".
Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista.
Con sinceri saluti
Arthur James Balfour

The Guardian 15.10.14
Is Israel losing the support of its traditional allies?

qui

il Fatto 15.10.14
Kobane specchietto per allodole: Erdogan bombara i curdi
Altro che aiuti per frenare l’Isis, raid turchi contro la ninoranza
di Roberta Zunini


Istanbul Il livello d'allerta in Turchia è stato portato al massimo livello, non solo sul confine con la Siria. I motivi sono ormai numerosi. Ma tutti sono stati generati dal comportamento ambiguo del presidente Erdogan e del suo governo nei confronti dell'Isil. L'inazione dei carri armati turchi schierati muti da settimane sul confine con la Siria all'altezza di Kobane e la contemporanea chiusura dei valichi da parte degli stessi soldati turchi per impedire ai curdi di Turchia di andare a combattere con i loro fratelli, allo scopo di difendere la città siriana abitata da curdi, sta generando un effetto domino in tutto il Paese.
MENTRE I MILIZIANI curdi siriani dell'unità di Difesa del Popolo (Ypg) che combattono a Kobane contro i tagliagole neri sembra abbiano riconquistato la strategica collina di Tall Shair, i loro alleati nel Kurdistan turco, i miliziani del Pkk, hanno dovuto invece fronteggiare i primi bombardamenti aerei dell'aviazione turca dall'inizio del processo di pace nel marzo del 2013. I sostenitori del partito dei lavoratori (Pkk) di Ocalan, che dal carcere continua a portare avanti le trattative con le autorità turche, nei giorni scorsi erano scesi in strada in molte città orientali per protestare contro il cinismo turco finendo per scontrarsi con altri gruppi curdi e con la polizia.
Anche il Pkk è diviso e bisognerà vedere quale corrente prevarrà. Resta il fatto che dopo una quarantina di morti e l'entrata in vigore del coprifuoco in quasi tutto il Kurdistan, gli scontri sono saliti di livello. I raid sono stati effettuati vicino al villaggio di Daglica, nella provincia di Hakkari, causando un alto numero di vittime. Ci sono notizie di scontri tra il Pkk e le truppe turche anche nell’area di Tunceli nella Turchia centro-orientale. Nella zona di Gaziantep, di nuovo sul lunghissimo confine con la Siria, è stata scoperta una quantità enorme di esplosivo. Le forze dell'ordine hanno specificato che avrebbe potuto far saltare in aria una città di medie dimensioni. Chi lo abbia portato non è noto: forse i terroristi dell'Isil, che hanno sempre usato la Turchia come una tana, forse i loro amici.
TRA QUESTI, secondo molti analisti, ci sarebbe ancora il presidente Erdogan, che continuerebbe a sostenerli in chiave anti Assad, il rais siriano suo arcinemico. Per questo, finchè non sarà messo all'ordine del giorno che bisogna mettere gli stivali sul terreno siriano anche per far fuori Assad, i soldati turchi rimarranno di piombo. A darne un'ulteriore prova ci sarebbe il niet reiterato della Turchia alla richiesta da parte della coalizione internazionale di usare la base Nato di Incilik per facilitare i raid contro i terroristi che stanno avanzando pericolosamente anche verso Baghdad.
La capitale irachena è il trofeo più desiderato dai terroristi ma anche il più difficile da conquistare. Per gli Usa Kobane “non è strategica” ma Baghdad sì e quindi in sua difesa si è mosso anche il presidente Barack Obama. Ieri ha incontrato i vertici militari dei 20 paesi che hanno aderito alla già traballante e riottosa coalizione per discutere della strategia da seguire. Per l'Italia c'era il capo di Stato maggiore, l'ammiraglio Luigi Binelli Mantelli. Tutti gli occhi ovviamente erano puntati sulla Turchia, storico e secondo membro Nato per numero di soldati ma non per unità d'intenti con il primo: gli Usa.

The Guardian 14.10.14
The western model is broken
The west has lost the power to shape the world in its own image – as recent events, from Ukraine to Iraq, make all too clear
So why does it still preach the pernicious myth that every society must evolve along western lines?
by Pankaj Mishra

qui

Corriere 15.10.14
Nuovo Realismo e Postmoderno

«Nuovo realismo/Postmodernismo», un dibattito fra architettura e filosofia, si svolgerà alla Sapienza di Roma (Aula magna di Fontanella, piazza Borghese 9) il 28-29 ottobre. Il tema è quello del «ritorno alle cose» lanciato da Maurizio Ferraris. Oltre a quest’ultimo, intervengono Paola Gregory, Carlo Sini, Silvia Malcovati, Franco Purini, Michael Hohenegger, Marco Dezzi Bardeschi e Antonino Saggio.

La Stampa 15.10.14
Caduta e ascesa del metallo giallo, motore della storia
Dalla Bibbia alla guerra boera, alla perdita della convertibilità
Dopo le sconfitte l’oro è sempre riuscito a tornare ai vertici dei simboli della ricchezza che infiammano il business
di Mario Deaglio


Forse la caratteristica più «misteriosa» dell’oro è quella di operare sintesi altrimenti difficili da immaginare. All’insegna dell’oro, gioielleria e politica economica si toccano: hanno in comune la stessa materia prima. Entra in gioco la chimica che spiega che, per il basso punto di fusione dell’oro, era (ed è) possibile trasformare i gioielli in monete e le monete in gioielli e scoprirne molto facilmente il grado di purezza e le contraffazioni. Gioielleria e politica economica guardarono entrambe con favore alle varie «corse all’oro» dell’Ottocento (in California, in Sudafrica, in Alaska) nel timore che il metallo venisse ad esaurirsi proprio quando sia il generale arricchimento sia il bisogno delle banche centrali di creare nuova espansione monetaria ne rinvigorivano la domanda.
Si arriva così alle guerre boere, determinate dalla scoperta dell’oro nel 1885 nelle colline sudafricane del Transvaal. Solo l’oro del Transvaal poteva dare alla sterlina la crescente base aurea indispensabile per continuare a essere la moneta di riferimento di un mondo nel pieno di un’espansione economica con pochi precedenti e di una straordinaria rivoluzione industriale. Il che spiega sia l’estremo interesse inglese per il dominio del Transvaal, sia la nascita a Londra del mercato mondiale dell’oro sia infine le navi speciali a doppia chiglia – una garanzia contro l’affondamento – specialmente progettate per il trasporto dell’oro dall’Africa Meridionale.
Trionfo della modernità? Certo. Se non fosse che navi per il trasporto dell’oro sono già citate nella Bibbia. E, sempre in campo biblico, non va dimenticato che gli Israeliti misero assieme i loro gioielli e li fusero per costruire il celebre «vitello», in sfida a Dio, con pessimi risultati. Qualcuno, meno di un secolo fa, richiese imperiosamente alle famiglie italiane l’«oro per la Patria» e i risultati furono anche peggiori.
Il carattere centrale dell’oro sembrò venir meno dopo la Prima Guerra Mondiale: l’oro dei paesi europei, era affluito in grandissima quantità verso l’America: era servito a pagare la guerra o a rimborsare i debiti di guerra verso gli Stati Uniti, da un paio di decenni la maggiore economia mondiale. Gli Stati Uniti decisero di concentrare le riserve auree nei sotterranei di Fort Knox, nel Kentucky, sotto un imponente controllo militare: estratto con fatica dalle viscere della terra, il metallo giallo tornava nelle profondità della terra nel tentativo di garantire la solidità del dollaro e di sostenere un’economia mondiale scossa dalla depressione.
Ebbe inizio un tormentato periodo caratterizzato dallo sganciamento delle varie monete dall’oro e dalla fine della loro convertibilità nel metallo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti conservarono l’impegno di convertire i dollari in oro al «mitico» prezzo di 35 dollari l’oncia solo con le banche centrali dei paesi aderenti al Fondo Monetario Internazionale e non più nei confronti dei normali cittadini. Nasce così il cosiddetto «Gold Exchange Standard», da «monarca assoluto» l’oro venne ridotto a monarca costituzionale, il che permise sia la stabilità dei cambi sia il finanziamento della ricostruzione postbellica europea. Consentì anche ai paesi europei (in primo luogo alla Francia, ma anche, tra gli altri, a Germania e Italia) di acquistare pian piano ingenti quantità d’oro con l’attivo dei loro conti esteri, determinato dal «miracolo economico». Le navi speciali a doppia chiglia fecero allora moltissimi viaggi attraverso l’Atlantico, dall’America all’Europa.
Alla fine, oppressi dalle spese della guerra nel Vietnam, gli Stati Uniti non ce la fanno più a onorare il patto con le altre banche centrali. Il 16 di agosto 1971, un presidente Nixon con la barba non fatta e l’aria stralunata emerge da una lunghissima riunione con i suoi ministri per annunciare al mondo che il «Gold Exchange Standard» è finito: le monete fluttueranno liberamente e gli Stati Uniti si ritengono esentati dall’impegno di cambiare i dollari in oro: il «monarca costituzionale» è stato spodestato e scompare dalla scena monetaria. Di qui in avanti, si pensa, sarà un metallo come un altro, interesserà soprattutto a gioiellieri e dentisti.
Ancora una volta, l’oro smentisce le previsioni: sperimenta una nuova giovinezza nel mondo della libera fluttuazione e della speculazione finanziaria. Il prezzo dell’oro generalmente sale con i rischi di guerra e l’instabilità economica, scende quando il dollaro è forte, ma in realtà il panorama è molto più complicato. Ecco entrare sulla scena i contadini indiani che investono annualmente i loro risparmi nei gioielli delle loro mogli, per cui quando il monsone è buono e il raccolto abbondante, il prezzo dell’oro, a parità di altre condizioni, ha la tendenza a salire. E accanto ai contadini indiani compaiono gli analisti finanziari che collegano forza e debolezza dell’oro allo stato di salute del sistema mondiale delle monete. O i cinesi che vogliono aprire un mercato dell’oro in Oriente affiancandolo a Londra. Il prezzo dell’oro sale in pochissimi decenni da 35 a quasi 2000 dollari l’oncia, per poi ridiscendere a 1200-1300.
In quest’era della flessibilità si aprono nuove prospettive per tutti, per cittadini e governi, risparmiatori e speculatori, nemici del rischio che ritrovano un antichissimo bene-rifugio e amici del rischio che scoprono una nuova «materia prima» con la quale dar vita a sofisticati prodotti finanziari.

Corriere 15.10.14
La sorte dei garibaldini nello Stato nazionale
risponde Sergio Romano


Sento parlare tanto di meritocrazia e Matteo Renzi dice che vuole passare dalle parole ai fatti. È solo ora che la meritocrazia manca? Sentiamo che dice Guido Gerosa, nel suo Il generale . «Per merito dei Mille e dei volontari che ne avevano ingrossate le fila tutto il Sud
era passato al Regno d’Italia. Erano grati i piemontesi? «Gli ufficiali garibaldini che entrarono nell’esercito regolare dovettero spesso contentarsi di un grado minore di quello che si erano conquistati sul campo di battaglia. Paradossalmente gli ex ufficiali di Francesco di Borbone o quei sudditi austriaci che entrarono in quell’esercito con l’avvento dell’Italia unita, furono promossi più rapidamente, ebbero un miglior trattamento e furono agevolati anche quando erano stati di servizio molto meno brillanti dei garibaldini». Ci sono commenti?
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Il problema sorse nel novembre del 1860 quando il ministro della Guerra, nel governo presieduto da Cavour, decise che i 7.300 ufficiali dei corpi garibaldini sarebbero stati inseriti nell’esercito nazionale soltanto a titolo individuale, dopo l’esame di una speciale commissione. Gli ammessi furono meno di duemila e questa «discriminazione» provocò le risentite dichiarazioni di Garibaldi in un discorso pronunciato a Caprera il 26 marzo 1861. La questione approdò alla Camera in maggio, pochi giorni prima della morte di Cavour. Tornato sul continente, Garibaldi pronunciò in Parlamento un altro infuocato discorso in cui denunciò la «fredda e nemica mano del governo», colpevole di avere offuscato i prodigi operati dai volontari e di avere scatenato nel Sud una «guerra fratricida». Cavour balzò in piedi per chiedere pubbliche scuse e Garibaldi, imbronciato, fece un passo indietro dichiarando che non avrebbe più parlato dell’azione del governo nell’Italia meridionale.
La morte di Cavour, il 6 maggio, face calare sulla questione la cortina del silenzio, ma il governo non si scostò dalla propria linea e nei mesi seguenti applicò agli eserciti degli Stati pre-unitari lo stesso criterio di selezione adottato per i garibaldini. I patrioti e i loro nemici, in altre parole, vennero trattati nello stesso modo. Una decisione iniqua? Credo che anche il governo abbia diritto a un avvocato difensore. Le semplificazioni patriottiche ci hanno tramandato una rappresentazione ideale di coloro che seguirono Garibaldi nelle campagne del 1859 e del 1860. In realtà il loro esercito, come tutte le formazioni volontarie, era una variegata combinazione di patrioti idealisti, ansiosi di battersi per la nascita di uno Stato nazionale, repubblicani che non facevano troppe distinzioni fra i Savoia e i Borbone, studenti sfaccendati, ragazzi scapestrati, teste calde, amanti dell’avventura. Non era necessario essere monarchici e anti-repubblicani per sapere che la monarchia e il governo, dopo avere cancellato cinque Stati dalla carta geografica e dimezzato quello della Chiesa, dovevano tranquillizzare l’Europa, assicurarla che non vi sarebbero stati, almeno per il momento, nuovi cataclismi. Occorreva quindi un esercito disciplinato in cui il corpo degli ufficiali avrebbe dato prova di lealtà al sovrano.
Questo esercito poteva essere soltanto quello sardo-piemontese, prudentemente ampliato con una attenta selezione dei patrioti irregolari e di coloro che avevano combattuto nel campo opposto, ma erano pur sempre «fratelli». Meritocrazia significa fare la scelta migliore fra persone che rispondono ai requisiti necessari per esercitare una funzione o svolgere un incarico. Non tutti gli uomini di Garibaldi rientravano in questa categoria.

Corriere 15.10.14
Henry Miller non fu mai rispettabile
di Aldo Grasso


Quando Lawrence Durrell chiede ad un membro della giuria del premio Nobel se Stoccolma abbia mai preso in considerazione la candidatura di Henry Miller (1891-1980), questi risponde: «Stiamo aspettando che diventi rispettabile». Cosa impossibile per Henry, un uomo così lontano dall’idea di «rispettabilità» di allora. Bastava seguire la cronaca della sua vita, anche se sinteticamente.
Ma ecco che, adesso, una nuova biografia, Henry Miller di Arthur Hoyle (Odoya, pagine 370, e 22) — la quarta, a distanza di vent’anni dalla precedente — ne indaga la parabola umana e letteraria, con un metodo investigativo (tipo giornalismo d’inchiesta) che tiene conto delle molte rivelazioni contenute nelle lettere inedite dello scrittore, nei brani sconosciuti dei diari di Anaïs Nin e nelle interviste ad amici e conoscenti dello scrittore americano, soprattutto in quella con la terza moglie, Lepska Warren. Forse in nessuno scrittore esiste un’osmosi così profonda fra vita ed arte.
C’è di più: per la sua indagine, Hoyle costeggia Freud e — anche se questo metodo ne appesantisce un po’ la lettura — dà un’immagine dettagliata, autentica, della vicenda (ricchissima di contraddizioni) di uno dei più interessanti autori del XX secolo, che aveva scelto come punto di riferimento Walt Whitman, morto l’anno successivo alla sua nascita.
Henry Miller nasce a New York, nel quartiere di Manhattan, da due immigrati tedeschi. Carattere insofferente delle regole e ossessionato dal sesso, a 19 anni va via in giro per gli States con una divorziata di 37 anni. Si mantiene con lavori saltuari. Rientrato a New York, si sposa, ha la prima figlia e inizia a scrivere. Nel 1923 conosce la ballerina June Mansfield, divorzia e si risposa. June lavora nei locali notturni, dove concede, a pagamento, le sue grazie a ricchi clienti. Ciò le permette di mantenere Henry e di fargli pubblicare il primo libro di prose (Mezzetinte) a proprie spese.
Dal 1928 al 1929, i due vanno a Parigi. Poi Miller ci ritorna, da solo, nel 1930. Collabora all’edizione francese del «Chicago Tribune» ed abita a Villa Seurat, in casa dell’amico inglese Michael Fraenkel, dove entra in contatto con scrittori ed artisti (egli stesso si dedica al disegno). Fra questi, Anaïs Nin, di 12 anni più giovane, nata a Neuilly-sur-Seine, poi trasferitasi in Usa. Figlia di un pianista e di una cantante cubani, Anaïs aveva sposato, a New York, il bancario e cineasta Hugh Parker Guiler e, dopo una serie di vicissitudini, era rientrata in Francia.
L’incontro con Miller e la relazione che segue sconvolgono la vita di entrambi, come ricorda la donna nei suoi Diari . Nel 1931 Miller comincia la scrittura di Tropico del cancro (che esce nel 1934 da Obelisk Press). Quando l’editore Jack Khatane legge il manoscritto, portatogli da William Bradley, agente letterario degli scrittori americani che vivono a Parigi (fra cui Gertrude Stein, Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald), scrive a Miller: «Ho molto atteso che un libro come il suo mi cadesse tra le mani. È turpe, stimolante e c’è quello che ha scritto lei: il libro più tremendo, più sordido, più veritiero che abbia mai letto. Al suo confronto, l’ Ulisse di Joyce sa di limonata». Il linguaggio rude attrae Anaïs e influenza non solo la sua scrittura, ma anche il suo modo di vivere, la sua sessualità. «La sua prima opera edita — nota Hoyle nella biografia — stabilì la sua voce e il suo stile distintivi, marchiandolo all’instante come scrittore fuorilegge».
Vietato in Gran Bretagna e negli Usa, il libro uscirà a New York solo nel 1961. Ed è proprio su questo binario che vanno le ricerche di Arthur Hoyle. Per vedere sino a che punto l’America è diventata, per Miller, un «incubo ad aria condizionata».

Corriere 15.10.14
La ditta dei filosofi «al di là del bene e del management»
«Linus» pubblica il fumetto su «Cogitop»: l’azienda di Socrate, Kant, Spinoza e Freud, dove il capo è Dio
di Giulio Giorello


O gni nuovo arrivato deve mandare a memoria il manuale Al di là del bene e del management . L’autore è il baffuto e austero Friedrich Nietzsche, direttore delle risorse umane (anzi «troppo umane») della Cogitop . Questa «Società a Razionalità Limitata», creata dall’immaginazione dei francesi Julien Berjeaut e Charles Pépin, ha fatto la sua prima apparizione in Italia su «Linus» dello scorso settembre.
Non è la prima volta che questa rivista si cimenta con la filosofia: dalle meditazioni metafisiche di un cane «leopardiano» come Snoopy davanti alla silenziosa Luna alle tortuose riflessioni di Pogo Possum nel regno della matematica. Ma ora gli attori del fumetto sono proprio loro: i filosofi, tramutati in funzionari di una delle più grandi compagnie del mondo.
Per i corridoi si aggirano greci come Socrate e Aristotele, addetti alla soluzione dei problemi aziendali, lo psicologo dell’impresa Sigmund Freud, Montesquieu come consulente legale e il preciso Immanuel Kant come controllore di gestione. Non mancano i delegati sindacali: Tommaso d’Aquino per i lavoratori cattolici e Karl Marx per i proletari duri e puri. Solo i pensatori anglosassoni sono assenti, più o meno giustificati.
L’effetto comico è comunque assicurato, basti pensare al terribile Friedrich che infierisce sull’impiegato Blaise Pascal, sorpreso a giocare d’azzardo e a scommettere su tutto, anche su Dio. E tale Gianfilippo Dio ha la parte del direttore generale, con il suo occhio che tutto vede. Invano il geometrico Spinoza tenta di convincere i colleghi che il direttore non è altro che il complesso delle leggi matematiche che governano l’azienda, mentre Nietzsche ha sbandierato ai quattro venti la notizia della morte del Capo.
Protetto da un’inflessibile assistente di direzione che altri non è che Teresa d’Avila, Dio sembra ancora al suo posto. Ma il giovane Platone, preso come stagista, avrà il suo daffare a sbrigarsela nel mondo delle eterne idee di un Qualcuno che per alcuni colleghi è solo… Nessuno. E noi attendiamo che arrivi magari il poeta filosofo protetto da Teresa: il mistico Giovanni della Croce, che sta percorrendo il suo interminabile cammino attraverso la «notte buia» del dubbio…

Repubblica 15.10.14
La crociata del pensiero monista
Il mondo religioso, laico e degli atei devoti che si batte contro il pluralismo culturale
Al pluralismo delle culture è dedicato un ciclo di lezioni organizzato da Reset-Dialogues on Civilizations che si tiene da domani a Milano alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
di Giancarlo Bosetti


IL pluralismo culturale, caro a Isaiah Berlin, che ne è stato il più noto sostenitore nel secolo sorso, è una prospettiva filosofica e politica che ha dei nemici, i quali aiutano a capire la natura e la portata della sfida. A questi nemici lo stesso Berlin ha dato un nome: sono i «monisti», i tenaci difensori di una philosophia perennis , per i quali la storia del pensiero è sempre alla ricerca dell’unica risposta vera a tutte le domande.
I monisti sono fedeli a un unico sistema di valori, il «mio», il «nostro », quello ereditato, Peccato però che tanti e diversi si possano intitolare quel «noi» e farci sopra interminabili guerre. Il monista si riconosce subito dal suo punto debole, dal drappo rosso che ne scatena le reazioni, dalla bestia nera che ne disturba i sonni: il relativismo. Ma attenzione, noi non dobbiamo identificare il pluralismo con il relativismo, questa sovrapposizione è un esercizio retorico, che appartiene tipicamente alla strategia «monista» che attraverso l’accusa di «deriva » riduce il primo al secondo, presentandolo come un vizio che rischia sempre di «scivolare» verso la condizione del parente degenere. E vale per il pluralismo filosofico in generale, per la teoria della conoscenza (pluralismo cognitivo) quel che vale per il pluralismo culturale e morale.
Sul piano cognitivo i conti tra relativismo e pluralismo si possono regolare diversamente da come ha immaginato Benedetto XVI da prefetto della fede prima e da pontefice poi. Nella celebre messa «pro eligendo pontifice» accusò «il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”» e la sua «dittatura», «che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». Il cardinale Ratzinger respingeva soprattutto la tesi che il pluralismo etico sia «la condizione per la democrazia ». E in effetti che il pluralismo etico, non il relativismo, sia il naturale sfondo di una società libera e democratica dovrebbe esser un dato acquisito in un contesto non dittatoriale e non teocratico. E come diversamente si può immaginare la vita pubblica in società mobili e variegate, per orientamenti politici diversificate, e per la loro stessa composizione multietniche e multireligiose? Chi può arrogarsi, in presenza di tanta varietà di genti, di fedi e di chiese, di credenti, di non credenti e di indifferenti, il diritto e il potere di interpretare la «legge morale naturale»?
Riuscirà la Chiesa che ha messo fino a poco fa in parentesi il Concilio Vaticano II a riaprire il dossier delle teologie pluraliste, nella pratica ma anche nella dottrina del dialogo con le altre religioni? Riuscirà a riaprire il dossier del processo intentato nel 1999 a Jacques Dupuis, il teologo belga costretto dalla Congregazione della dottrina della fede a lasciare l’insegnamento alla Gregoriana e a una “ritrattazione” che lui però non accettò mai?
Ma il monismo non ha soltanto una veste confessionale, si manifesta, e come, anche tra i non credenti. Allan Bloom era ossessionato dal relativismo non me- no di Benedetto XVI e, anche lui, combatteva il pluralismo mettendolo in caricatura come relativismo, ma non lo faceva ispirato dalla fede, lo faceva nel nome della cultura classica, di Socrate e Platone. Il suo best-seller del 1987, The Closing of the American Mind , ha il merito di rappresentare il monismo nella sua espressione più colta e vivace e di fornirci, involontariamente, un résumé godibilissimo di tutti i vizi dell’etnocentrismo nordamericano, wasp nel senso non metaforico, e apertamente rivendicato, di bianco, anglo-sassone e protestante.
Quanti oggi hanno accettato e tuttora predicano la vulgata monista! Per cui “multiculturalista” è diventata la parola passe partout di pronto impiego per esorcizzare ogni genere di fallimento delle politiche di integrazione degli immigrati, di tutti i fallimenti europei anche quando a fallire sono i rigidi principi repubblicani della politica francese, che si distingue per la tendenza opposta.
Bloom è anche più disinibito di Ratzinger nel mostrare il lato etnocentrico, egoistico del monismo, centrato sul nucleo forte della società occidentale. E definisce in modo ancora più chiaro come la openness, l’apertura mentale pluralista, che è stato uno dei caratteri formidabili della cultura americana e della sua intellettualità, nella prima metà del secolo, dalla grande scuola antropologica di Boas ai pragmatisti — grandi fucine di pluralismo — sia la causa, secondo lui, di tutti i guai presenti della cultura americana e delle sue università; come essa sia, insieme all’eguaglianza, il nome del «tradimento » perpetrato ai danni dei giovani ad opera di una classe di insegnanti corrotta dal relativismo culturale, dal ‘68, dalla liberazione sessuale, dalla musica rock e da Mick Jagger. Tutto il bagaglio conservatore, grosso modo lo stesso delle «maggioranze silenziose» europee degli anni settanta, o di quel che sarebbe diventata, volta a volta, in modo più o meno sofisticato ed elegante, la vulgata neocon di Billy o’-Reilly e della Fox-News all’epoca della guerra in Iraq, o in Italia degli atei devoti, di Giuliano Ferrara, di Libero e C. Tutti uniti nel recriminare ad ogni stormire di scrupoli «politicamente corretti » e nel rimpianto identitario per la perdita dell’«orgoglio», per la perdita del senso della «nostra » civiltà, per la viltà con cui la classe dirigente ha perso il senso della propria funzione «civilizzatrice » ed è caduta preda di «ridicoli sensi di colpa», — qui è di nuovo Bloom che parla — o di sogni terzomondisti. Gli scrupoli di un John Rawls o di un Robert Dahl nel definire una teoria della giustizia e della democrazia che individui un metodo per identificare gli obiettivi comuni senza danneggiare parti della società, magari quelle più deboli, appaiono a Bloom come una parodia di questa «tendenza a non dispiacere a nessuno». E chi si occupa dei più forti? Poveri loro dopo il ‘68, Marcuse, i figli dei fiori, Woodstock, i Rolling Stones! Il potere e il sapere definiscono il bene comune attraverso un rapporto di forza, che non ha paura di apparire etnocentrico e non ha bisogno di giustificarsi. Tutto questo ne avrebbe fatto un libro di culto per i neocons e avrebbe entusiasmato Norman Podhoretz, il teorico della quarta guerra mondiale contro l’Islamofascismo e supporter dei Tea parties.

Repubblica 15.10.14
“Invecchio, dunque sono” L’ultima verità dell’anima
di Marc Augé


QUALCHE volta ci rendiamo conto di essere invecchiati ritrovando il volto di una persona che avevamo “perso di vista” da qualche tempo. Arrivati a una certa età non si dovrebbe mai restare troppo lontani da chi siamo destinati a rivedere: ne approfittano per invecchiare senza avvertire e riaffiorano all’improvviso come scortese specchio della nostra decrepitezza. In una cerchia più intima e abituale ci si può in qualche modo rassicurare con un «è davvero invecchiato di colpo», ma sono solo parole, in qualche modo il cuore non c’è, quasi gliene vogliamo; ci domandiamo se è malato; cerchiamo una spiegazione. Poi ritorna familiare e, se sta bene, glielo si perdona, si dimentica, lo si ritrova, ci si raccapezza.
La relazione con il proprio corpo, con se stessi, non è più semplice. Non abbiamo l’occasione di guardarci in uno specchio tutti i giorni e quando accade ci capita di rifuggire il contatto e ci allontaniamo dopo un’occhiata breve o indifferente. Al contrario, qualche volta, ci soffermiamo. Può essere per intervenire su un dettaglio — una volta si diceva “farsi belli” — passandosi una mano nei capelli, aggiustandosi il nodo della cravatta o, per le signore, ritoccandosi il maquillage, nel caso si tratti di un uomo con cravatta e di una donna truccata. Oppure può semplicemente essere — se posso permettermi di dirlo — per contemplare la nostra immagine senza commento, in un gesto di letterale “riflesso”.
Con questa sorta di parametri la relazione con se stessi si snoda secondo una serie di sdoppiamenti che generano espressioni verbali: il mio corpo e io — mi tira colpi bassi o mi dà soddisfazioni; la mia consapevolezza e io — l’io del piano superiore, il Super-io che mi domina e reprime, oppure quello del piano inferiore, quello dei bassi istinti; me e me — io è un altro — , la diversità imprevedibile che sembra ripetersi e riprodursi sempre nell’identico modo ma può anche battermi sul tempo e sfuggirmi di sorpresa.
Tuttavia, quando mi guardo allo specchio e mi dico che sono invecchiato, sebbene interpelli il mio riflesso dandogli del tu, ricompongo e riunifico il mio corpo e i diversi “me” in un’improvvisa consapevolezza. Paradossalmente questo ritorno alla fase dello specchio mi libera dalle aporie della consapevolezza riflessiva. Invecchio, dunque vivo. Sono invecchiato, dunque sono.
Si dice che la solitudine sia uno dei mali più crudeli dell’età avanzata: in realtà, più il tempo passa più si sciolgono, o almeno si allentano, quei legami che ci tenevano ancorati alla riva. Il pensionamento, a cui tuttavia alcuni aspirano, impone e crea di colpo una distanza dalle familiarità quotidiane, una distanza che può inquietare tanto è forte la sua somiglianza con una specie di morte. Eppure a volte si celebra quell’avvenimento con una cerimonia che evoca un servizio funebre, con i suoi discorsi, i fiori e la sincera emozione di qualcuno.
Il problema della solitudine che l’età comporta sta nel fatto che essa non soltanto si impone come evidenza intima, ma anche come evidenza esteriore: gli altri tradiscono, disertano, si ritirano, sprofondano nella malattia o muoiono. Non si può invecchiare a lungo senza vedere molti amici cari allontanarsi o scomparire. Il peggio è che ci si abitua. O, almeno, che sembra ci si abitui, come se, non per indifferenza ma bensì per pudore, si rifiutasse di considerare abominevole quella sorte che sappiamo essere comune. Parimenti, esiste anche un’indifferenza crescente nei confronti della storia attuale, nei confronti degli altri, perfino dei più cari, che Léo Ferré ha cantato così: «... E ci si sente assolutamente soli, forse, ma tranquilli... «.
Solitudine subita, imposta dalla scomparsa dei coetanei e dallo sguardo degli altri; solitudine voluta, come per un riflesso di difesa o una forma di sfida. Tutte queste solitudini sono l’i- neluttabile prezzo della vecchiaia? Non è detto. Che la si “dimostri” o meno, certamente abbiamo la nostra età, noi l’abbiamo, sì, ma è lei al timone. Eppure, “avere” la nostra età significa vivere e i suoi segni sono dunque segni di vita. Dietro i pretesti proclamati di chi si mostra attento al proprio corpo possiamo scoprire — al di là di una certa civetteria — la voglia di vivere pienamente come invitava a fare Cicerone.
Il vivere pienamente è un ideale che molti non hanno avuto la possibilità di raggiungere durante la loro vita definita “attiva”, a causa di differenti obblighi che li vincolavano e pesavano su di loro. Succede dunque che il pensionamento sia effettivamente vissuto come liberazione e rinascita, come l’occasione di prendersi finalmente il tempo di vivere — vivere senza scadenze, di prendersi il proprio tempo senza più preoccuparsi dell’età.
Forse è una questione di fortuna: alcuni sono afflitti meno di altri dai malanni dell’età, o, almeno, lo sono ma più avanti negli anni. All’improvviso sopravviene la saggezza del gatto e domandano al loro corpo solo quello che è in grado di fare: vi si identificano e astutamente si risparmiano. Queste persone rappresentano proprio l’esempio che può essere contrapposto a qualunque analisi pessimistica evocata dal naufragio dell’età avanzata.
Di tanto in tanto ci stupiamo dell’ottimo umore dimostrato senza dissimulazione dagli anziani, che, per potersi godere la vita, sembrano avere atteso fino alla fine. In qualche modo è ciò che sintetizza lo spesso citato aforisma lapalissiano: «Cinque minuti prima di morire, Monsieur de La Palisse era ancora in vita». In effetti...
(testo tratto dal capitolo “ Invecchiare senza età” del libro “ Il tempo senza età” di Marc Augé)
IL LIBRO “Il tempo senza età” (Raffaello Cortina ed., pagg. 104, euro 11)