giovedì 16 ottobre 2014

Repubblica 16.10.14
Il Paesaggio abbandonato senza più tutele
di Salvatore Settis


CHE fare se un impianto eolico viene a cadere in zona paesaggistica? Il 19 settembre il Consiglio dei Ministri ha emesso il verdetto: «dalla comparazione degli interessi coinvolti, individuati nella tutela paesaggistica e nella produzione di energia rinnovabile nonché nella valenza imprenditoriale ed economica, si considera prevalente l’interesse alla realizzazione dell’opera» emerso nella conferenza dei servizi. Otto delibere- fotocopia prese in un solo giorno (tutte riferite alla Puglia) non lasciano dubbi sull’intenzione del governo: capovolgere la gerarchia costituzionale dei valori, secondo cui la tutela del paesaggio è un «valore primario e assoluto» (Corte Costituzionale, sentenze 182/2006 e 367/2007), e pertanto non può essere «subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici», anzi dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale» (sentenza 151/1986). Ma il vulnus alla Costituzione non è il solo: ritenendo di poter convalidare gli esiti di una conferenza di servizi, il Consiglio dei Ministri ignora la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato secondo cui «il modulo della conferenza di servizi decisoria , applicato all’autorizzazione paesaggistica, non è idoneo a legittimare l’intervento, se non è seguito da autonoma, espressa e puntuale autorizzazione dell’ente competente» e se la Soprintendenza non si è espressa in senso favorevole (sentenza n. 2378 del 18 aprile 2011). Nell’ebbrezza di deregulation che aleggia a Palazzo Chigi, l’interesse delle imprese prende il sopravvento sul Consiglio di Stato, sulla Corte Costituzionale, sulla stessa Costituzione.
Questa è, del resto, la ratio che ispira il decreto Sblocca-Italia. Non più regole, ma sfrenata cessione del territorio alle imprese; non più istituzioni, ma negoziati in penombra fra poteri politici ed economici. Non più cittadini, ma clienti o spettatori. Questo e non altro è il contetiva sto in cui va giudicata la riforma del Ministero dei Beni Culturali varata il 29 agosto. Che senso ha riorganizzare le Soprintendenze mentre viene smontata la loro competenza più importante, la tutela del paesaggio? E che senso ha, soprattutto, farlo al ribasso, cioè con le forche caudine di una spending review?
La riforma Franceschini riduce le competenze delle Direzioni regionali, filtro burocratico che ha sottratto personale e competenze alle Soprintendenze territoriali e che sarebbe ancor meglio abolire del tutto. Ma rimaneggia tutto il resto, accorpando le Soprintendenze ai beni storico-artistici con quelle ai beni architettonici, disfacendo alcuni Poli museali (come quello di Firenze) e creandone altri a base regionale (per esempio in Emilia-Romagna), dando autonomia amministra- e contabile a 20 musei o siti archeologici, con scelte a volte incomprensibili (il più grande museo archeologico del mondo, quello di Napoli, relegato in “seconda fascia”). In Emilia, l’autonomia è stata concessa alla sola Galleria Estense di Modena (20.000 visitatori l’anno), mentre tutto il resto, compresi i musei di Parma con 210.000 visitatori l’anno, è stato burocraticamente accorpato in un disfunzionale polo regionale guidato da Bologna: a notarlo, sul Giornale dell’arte, è lo stesso direttore dell’Estense, Davide Gasparotto, un ottimo studioso che peraltro sta per lasciare l’Italia per diventare Senior Curator of Paintings al Getty: pessimo segnale per lo stato di salute di un’Amministrazione che perde pezzi non solo per il pensionamento degli addetti (58 anni l’età media), ma anche perché ormai se ne vanno, sfiduciati, anche i più giovani.
Intanto la struttura centrale del Ministero accresce la propria obesità arrivando a ben 12 direzioni generali (erano 4 fino al 2001). Quali che fossero le intenzioni del Ministro, l’effetto di una riforma che redistribuisce ruoli, competenze e persone mentre taglia i fondi secondo la logica della spending review non può essere che uno: un balletto di poltrone, una danza di etichette, un calo di funzionalità e di efficienza. Chiamiamolo, per spiegarci, l’effetto Gelmini: la riforma del ministro berlusconiano (“la ragazza con la pistola” incaricata di demolire l’università italiana) ha abolito le Facoltà rinominandole Dipartimenti, introdotto macchinose procedure di reclutamento, decimato le cattedre, precarizzato gli insegnanti, tagliato i fondi anche per la ricerca, generando uno stallo i cui effetti, già visibili, diventeranno ben presto tragici. Ma nessuna riforma dei Beni Culturali può riuscire se non si congiunge a forti investimenti, a un rinsanguamento del personale con massicce assunzioni di giovani di qualità. E a un rilancio delle Soprintendenze come enti di ricerca territoriale, che secondo la grande lezione di Giovanni Urbani dovrebbero studiare i temi della conservazione del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, al paesaggio, all’urbanistica; per non dire dell’urgente necessità di rivedere le procedure di formazione del personale, ammesso che un qualche personale ci sia nel futuro del Ministero. Di tutto ciò, nulla è all’orizzonte.
Prima ancora che si vedano gli effetti dei Poli museali disfatti e di quelli rifatti, il vero banco di prova del Ministero è la capacità di contrastare la deregulation selvaggia della tutela paesaggistica: perché «il paesaggio è la risorsa delle risorse» (R. Pazzagli). O, se vogliamo dirlo in positivo, la volontà politica, del governo e della sinistra, di sostenere attivamente i piani paesaggistici regionali. Da esempio e pilota può servire quello della Toscana, adottato dal Consiglio Regionale, secondo la legge, in copianificazione con il Ministero dopo una fase conoscitiva (promossa dall’assessore Marson) condotta con particolare attenzione e serietà. Forse proprio per questo il piano è osteggiato da amministratori locali e imprese in nome di un indiscriminato “padroni in casa propria” in cui ogni sindaco e ogni impresa detta legge, dimenticando che “padroni” del territorio, a titolo di sovranità (art. 1 della Costituzione), sono i cittadini, e che l’interesse generale deve prevalere sul profitto dei singoli. Il Ministero farà la sua parte? Vogliamo l’Italia delle regole o quella della deregulation? Vogliamo rispettare la Costituzione o cestinarla? Vogliamo considerare il Ministero dei Beni Culturali un organo di smistamento di poltrone o il massimo garante della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione?

il Fatto 16.10.14
“Voi sparirete, perché siete antropologicamente diversi”
Pd alla resa dei conti: l’obiettivo è la cancellazione della sinistra interna
di Wanda Marra


C’è un problema di coerenza nella classe dirigente del Pd”. Parola del responsabile economico del partito, Filippo Taddei. Che a Rainews24 la mette così: “Nel partito ci sono anime, correnti e culture politiche divergenti. C’è una difformità antropologica e una delle due componenti è destinata a sparire. È quella che prima era impegnata nell’antiberlusconismo e poi è stata travolta da Renzi”. Mai dichiarazioni furono più esplicite di come la maggioranza renziana vede le minoranze. Persino gli uomini del presidente si stupiscono: “Ha detto così?” Ma spingere fuori dal partito chi si ostina a opporsi è un obiettivo.
ULTIMO terreno di scontro, la fiducia sul jobs act. Prossimo, la manifestazione della Cgil a Piazza San Giovanni, con mezzo partito (da Civati a D’Attorre, passando per Fassina e Damiano) che sarà in piazza. “Chi nel Pd sceglie di manifestare contro il governo dovrà prendersi la responsabilità di spiegare questa scelta ai cittadini”, commentano duri dagli alti piani dem. Perplessità e rabbia nelle minoranze: “Ma che me la deve mettere in mezzo Taddei l’antropologia? Posso discutere con Levy Strauss”, dice Bersani. E D’Attorre: “Questo partito è più mio che loro”. Idem, Cesare Damiano. A proposito di difformità antropologica, i renziani ragionano più o meno così: tranne che nello Spi, nelle organizzazioniterritoriali del sindacato ormai i dirigenti Pd sono minoranza rispetto a quelli di Sel e Prc. E pronosticano sconfitte della Cgil come accadde al sindacato con la marcia dei quarantamila nell’80, o con la scala mobile nell’85. Polemizza Dario Parrini, renzianissimo segretario toscano: “C’è una sinistra molto acrimoniosa, e per fortuna molto minoritaria, che ha sempre cercato di indebolire il riformismo di governo”. E alla Cgil: “Polemizzate col Pd; polemizzate con Renzi. Ma mantenetevi fermi contro questa misera demagogia”. Che “la sparizione” di un certo dissenso (antico, marginale, “piccolo” ) la vorrebbe Renzi è chiaro. Per schiacciarlo, la strategia è raffinata quanto diabolica.
SCONVOCATA l’Assemblea dei senatori prevista per oggi che deve valutare il non voto sul lavoro di Ricchiuti, Mineo e Casson. I tre non saranno espulsi (“figuriamoci se Matteo gli regala lo status di martiri”, spiegano i renziani), ma “avvertiti”. Un ammonimento. Ci sarà martedì, dopo la direzione in programma lunedì per discutere la forma partito. Una richiesta della stessa minoranza che Renzi ha accolto. E che sfrutterà a suo vantaggio. I gruppi parlamentari sono sollecitati a serrare i ranghi. Nessun nuovo regolamento immediato. Ma un percorso verso un partito più aperto, in cui contino tanto gli elettori, quanto i tesserati. Un partito funzionale al governo (lo raccontano così). Nel frattempo, si pensa a modifiche dello Statuto, per rendere meno larghe le maglie in cui si può votare in dissenso dalle decisioni della maggioranza (per ora, si parla di questioni etiche e principi fondamentali della Costituzione). E poi, si ricorda la circolare di Bersani, che ai futuri candidati fece sottoscrivere l’impegno a votare secondo mandato. Sanzioni possibili? Se si vota no alla fiducia, l’espulsione è automatica, ragionano i renziani. E chi non partecipa al voto? Misure allo studio. Tra cui quella di cancellare i ribelli ostinati dall’anagrafe degli iscritti e togliergli la tessera. La minaccia, sotterranea, per Renzi, è quella che funziona di più. E la principale è la condanna all’irrilevanza. Ancora i renziani. “Ma Civati perché non va in Sel? Perché nel Pd da oppositore ha un palcoscenico maggiore”. Poi, c’è la certa espulsione dalle liste future.
QUANTO FUTURE? Nella strategia di Renzi, il voto è un’opportunità sempre aperta. Nella road map che partirà con la direzione di lunedì, l’approdo è un’Assemblea nazionale (in programma tra 3 o 4 mesi, ma chissà). Che voterà un Pd a immagine e somiglianza del leader. Pronto all’uso per eventuali elezioni.

il Fatto 16.10.14
Marchionne invitato?

Lopolda, il gioco di Matteo
di Wa. Ma.


L’email di invito, firmata dal ministro Maria Elena Boschi, è arrivata a tutti i deputati e a tutti i senatori, lunedì scorso. Tutti, scrive il ministro, possono segnalare la loro disponibilità a partecipare alla Leopolda a Firenze, contribuendo con un intervento dal palco o coordinando un tavolo tematico di discussione. Basta che lo segnalino entro venerdì a ora di pranzo, e poi l’organizzazione deciderà chi inserire e chi no.
Le modalità di selezione in realtà sono tutt’altre. “Io parlo? Se mi chiamano Maria Elena o Matteo in persona, sì. Se me lo propone qualcun altro, so che sta millantando”, sintetizza un deputato della pattuglia democratica.
Qualche intervento spontaneo ci sarà. Ma poi, chi è dentro e chi è fuori, lo decidono Renzi e Boschi.
I RENZIANI della prima ora sono tra l’irritato e il perplesso, per essere finiti nel mucchio: “Rispondo alla email? Mah. Ci vado? Boh, non è che mi piacciono le passerelle, solo per farsi vedere”. Pronti ad aderire in massa, con tanto di organizzazione di truppe dal territorio, i “convertiti” degli ultimi mesi. E poi, chi è in auge con il segretario-premier sa già che coordinerà un tavolo. Ma in effetti un po’ tutti quelli che hanno partecipato alle prime Leopolde, quelle dell’assalto al vecchio Pd, si chiedono che senso abbia oggi una Leopolda di governo. “Parleranno molti rappresentanti della società civile e pochi politici”, pronosticano i renziani. Per ora, sono note solo le defezioni illustri dei nvolti storici della kermesse: Andrea Guerra, Alessandro Baricco, Davide Serra. “Ma certo, come faceva a venire con Renzi premier? ”, commentano i fedelissimi. Però, come scritto da La Stampa, ha fatto una mega donazione di 175mila euro. Soldi, che insieme a tutti gli altri, andranno alla fondazione Open (guidata da Alberto Bianchi, Maria Elena Boschi, Marco Carrai e Luca Lotti). A proposito di para-partiti.
Ma chi entra come volto assoluto? Riserbo assoluto e grande caos. I ranghi dell’organizzazione si serreranno nel weekend. Nel frattempo si moltiplicano le ipotesi. Torna insistentemente il nome di Sergio Marchionne. Solo una provocazione?
LA GUEST STAR, comunque, sarà il premier. Che sta facendo di tutto per esserci tutti e tre i giorni. Si apre il venerdì 24 alle 19 e 30, con cena e tavoli. Si prosegue il sabato con interventi dalle 9 e mezza, domenica, l’intervento conclusivo di Renzi. Certo, piuttosto inusuale vedere un premier che blocca tutto per tre giorni per partecipare a una kermesse non chiaramente etichettabile. Iniziativa di partito? Manifestazione di corrente? Nelle intenzioni, di certo, apoteosi del renzismo.

Repubblica 16.10.14
“La Chiesa rispetta le coppie omosessuali sì alle leggi sui diritti”
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO «Gli omosessuali sono persone come le altre e vanno rispettate. Sono uomini come tutti noi. La Chiesa cattolica non accetta il matrimonio fra omosessuali, lo sappiamo, ma se ci sono dei contratti che gli Stati intendono riconoscere senza però che si arrivi a parlare di vero matrimonio, contratti insomma per far sì che gli omosessuali vivano insieme e abbiano certi diritti, è giusto rispettarli. Si tratta di leggi che permettono agli omosessuali di essere nella società ciò che desiderano. Ogni omosessuale, infatti, ha il diritto ad avere un suo proprio status nella società».
Il cardinale Godfried Danneels, 81 anni, grande elettore di Jorge Mario Bergoglio allo scorso conclave, viene sovente incasellato con superficialità dai media fra i porporati cosiddetti progressisti. Ma, in realtà, l’arcivescovo emerito di Mechelen-Bruxelles ed ex primate del Belgio, altro non è che un sacerdote in costante ricerca di Dio, del Suo perpetuo manifestarsi nella povertà dell’uomo: «Apparuit humanitas Dei nostri (È apparsa l’umanità del nostro Dio)» è, non a caso, il suo motto episcopale. A pochi passi dal Vaticano, nel Pontificio Collegio Belga, Danneels ci accoglie col sorriso per parlare apertamente di un Sinodo che sta facendo propria l’idea di una Chiesa che non ha paura di avere misericordia verso tutti, non ha paura di accogliere e di assumere su di sé le molteplici ferite degli uomini.
Eminenza, c’è nella “Relatio post disceptationem” proclamata dal cardinale Péter Erdõ la volontà concreta di andare incontro alle ferite dell’uomo?
«Ci sono passaggi che davvero sono espressione di una grande misericordia per le difficoltà di tante coppie. Non si dice in nessuna parte del testo che il matrimonio non sia indissolubile, piuttosto si ricorda la necessità di avere uno sguardo di amore e bontà per tante coppie che sono nella difficoltà e nella necessità».
Cosa pensa circa la possibilità di dare, almeno in certi casi, l’eucaristia ai divorziati e rinecessità sposati?
«Il punto è come conciliare la dottrina della Chiesa, perché Gesù dice chiaramente che il matrimonio è indissolubile, con la misericordia che occorre necessariamente avere con tutti i separati. Non so dove arriverà il Sinodo, dove la Chiesa in comunione con tutti vorrà arrivare. Le posizioni sono diverse. Io ritengo che la strada della concessione dei sacramenti in certi casi e dopo un percorso penitenziale sia quello più giusto. Vorrei che ci sia una seconda possibilità per queste persone, senza ovviamente ledere l’indissolubilità del matrimonio».
Lei più volte ha parlato della di una Chiesa che sappia ascoltare tutti senza imporsi a nessuno, di una Chiesa che sappia ascoltare l’uomo senza lederne la libertà.
«La Chiesa può dire ciò che pensa nella società, può esprimere il proprio pensieri, ma non deve imporsi. Possiamo e dobbiamo dire la nostra su molte decisioni che lo Stato prende e sulle quali come Chiesa non siamo d’accordo, ma poi dobbiamo accettare ogni decisione. Siamo un piccolo gregge. Non dobbiamo mai imporci. Come dissi una volta a 3-0Giorni , è un dato di fatto che non c’è più una Civitas cristiana, che il modello medievale di Civitas cristiana non vale per il momento attuale. Forse qualcuno non se n’è ancora accorto, ma i cristiani vivono nel mondo “tamquam scintillae in arundineto”, come scintille sparse in un campo. Viviamo nella diaspora. Ma la diaspora è la condizione normale del cristianesimo nel mondo. L’eccezione è l’altra, la società completamente cristianizzata. Il modo ordinario di essere nel mondo dei cristiani è quello descritto già nella Lettera a Diogneto, del secondo secolo. I cristiani “non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia”. Vivono “nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è patria loro, e ogni patria è straniera”. È così che siamo cittadini della nuova società secolarizzata».
Qual è la caratteristica di novità più importante di papa Francesco?
«Francesco ha portato una grande umanità nella Chiesa. Egli si mostra come è. Non fa teatro. È un uomo profondamente umano. Lo conobbi al conclave del 2005. Sapevo com’era quindi prima dell’elezione, anche se tutti i giorni mi sorprende. Ogni mattina mi sveglio e mi chiedo: che cosa farà oggi? E fa sempre bene».
Si aspettava l’elezione?
«Tutti lo volevamo. Nel 2005 era chiaro che la maggioranza era per Joseph Ratzinger. Nel 2013 era chiaro che si era per Bergoglio».

La Stampa 16.10.14
“Diritti anche per le coppie etero”, dicono a sinistra
Scalfarotto: «Gli etero già possono sposarsi. Nei confronti degli omosessuali c’è una discriminazione pesante che va sanata»
Unioni civili, Pd e FI divisi al loro interno sul testo della legge
Nel centrodestra cresce la fronda contro le aperture
di Francesca Schianchi

qui

Repubblica 16.10.14
Pronto il disegno di legge del governo sui matrimoni gay sul modello tedesco
Mezzo Pd in rivolta per l’esclusione degli etero
Orfini: “Non ho capito perché si procede così”
Giachetti: “La legge non può valere solo per i gay”
Cirinnà: “Chiedo a Boschi di discuterne alla Leopolda”
di Tommaso Ciriaco


ROMA Troppo, oppure troppo poco. Le unioni civili alla tedesca promesse da Matteo Renzi piombano sul Partito democratico all’improvviso. E dividono: «Lo scriva - si infuria Roberto Giachetti, anima radicale e un presente da renziano doc - sono furioso. È incomprensibile che questa novità valga solo per i gay. E gli eterosessuali dove li mettiamo? Sarebbe assurdo compiere una discriminazione per eliminarne un’altra». In realtà la spaccatura è trasversale. Forza Italia, per dire, assomiglia a un pugile suonato. E gli effetti sfiorano il surreale: «Nelle ultime 48 ore - giura Maurizio Gasparri, in trincea contro la svolta gayfriendly del Cavaliere - ho fatto telefonate a cardinali e vescovi. E infatti nel Sinodo si è aperto un certo dibattito! Poi, certo, deciderà il Papa, ma io e Ruini faremo la minoranza che darà battaglia...».
Per gli omosessuali sono ore di euforia. La riforma è un traguardo importante, ma la delusione delle coppie di fatto eterosessuali può rivelarsi un boomerang. Il Pd aveva lavorato a lungo per includere anche i diritti light, con il testo base stilato dalla senatrice Monica Cirinnà e frutto della sintesi di quindici ddl differenti: «Il testo del governo va benissimo. Ma io spero, voglio sperare che non si limiti ad affrontare la questione delle unioni omosessuali, approfittando invece di questo treno veloce per intervenire sul resto. Altrimenti potrebbe sembrare un accordo siglato con il mondo cattolico per far saltare una legge sulle coppie di fatto...». Non vuole litigare con Palazzo Chigi, eppure solleverà la questione - lei renziana - nel tempio sacro del premier: «Ho mandato una mail alla Boschi, chiedendole di discutere del problema alla Leopolda di fine ottobre».
Le posizioni si mescolano freneticamente. Monsignor Rino Fisichella, a sorpresa, concede una cauta apertura, apprezzando il confronto parlamentare su un nodo così delicato. Eppure il dossier appare nebuloso per molti parlamentari. «Ancora non ho ben capito perché si proceda così...», allarga le braccia Matteo Orfini. Soddisfatto, invece, è il deputato di Led Alessandro Zan, attivista Lgbt.
E poi c’è il partito di chi frena. «Allargare alle coppie di fatto? Dobbiamo ragionarci - mostra cautela Fabrizio Cicchitto (Ncd) - perché può creare problemi di opportunismo». E il suo collega di gruppo, Nino Bosco: «Sono contrario alle adozioni ai gay, ma favorevole a riconoscere le unioni omosessuali». L’ala cattolica del Pd, poi, non nega qualche perplessità: «Vanno bene le unioni civili - giura Stefania Covello - ma contraria alle adozioni per i gay». Per una deputata che semina dubbi, un’altra chiede di accelerare: «Per me dovrebbero poter adottare figli gli omosessuali e pure i single», rilancia Enza Bruno Bossio.
E mentre si dibatte sul modello tedesco, in commissione Giustizia a Palazzo Madama passa la norma sul divorzio facile: niente giudice, ma solo un avvocato per separarsi (anche in matrimoni con disabili o minori). Si incaglia invece, a causa delle tensioni nel Pd, l’idea di inserire il divorzio breve (sei mesi anziché gli attuali tre anni) nel decreto sul processo civile.

Repubblica 16.10.14
Ivan Scalfarotto
“È omofobia culturale sostenere che si privilegiano gli omosessuali”
“Il tema delle coppie di fatto è una cosa diversa”
“È la nostra battaglia per l’uguaglianza, gli altri si sposano già”
intervista di T. Ci.


ROMA Una legge sulle unioni civili per le coppie omosessuali, senza intervenire - almeno per adesso - sulle coppie di fatto. È su questo schema che il Pd e l’opinione pubblica si dividono. «Ma che ragionamenti sono! - si infuria il sottosegretario alle Riforme Ivan Scalfarotto - Così si oscura il superamento della discriminazione delle coppie omosessuali, che è una grande conquista di civiltà, inquinandola con il tema della coppia di fatto».
Non negherà però che sia un tema altrettanto sentito.
«Sono due cose distinte e separate. Ma i media raccontano che è stato garantito un privilegio ai gay. Questo è segno di omofobia culturale».
Anche nel Pd ci sono sensibilità differenti. Giachetti è stato molto duro. Al Senato la sua collega Cirinnà - un’altra renziana - ha presentato un testo che tiene assieme entrambe le esigenze. Il governo ne terrà conto?
«Renzi si è impegnato sulle unioni civili alla tedesca, che in Germania sono per i gay. Il tema delle coppie di fatto è un altro. Si potrà affrontare o meno. Io nei programmi del Pd non li ho letti. Sono due bisogni distinti e separati».
Ma non potevate procedere comunque in parallelo?
«La confusione “coppie gaycoppie di fatto” è metodologica. Perché alla coppia gay è impedito di sposarsi, a quella etero no...».
Ma ci sono alcune esigenze che invece sono simili.
«Se un etero vuole i diritti dell’unione civile, si sposa!».
E come la mettiamo per alcuni diritti minimi?
«Ma a me gay quei diritti non bastano! Io faccio una battaglia per l’uguaglianza, come quella dei neri americani. L’unione civile non è un matrimonio più basso, ma la stessa cosa. Con un altro nome per una questione di realpolitik. Altra cosa sono i provvedimenti per la semplificazione delle norme di famiglia: la negoziazione assistita, la legge sul divorzio breve, il cognome dei figli»
Insisto: cosa farete per i diritti light degli eterosessuali?
Non potete procedere contestualmente?
«Me lo auguro anch’io, ma voglio tenere le due iniziative concettualmente separate. Poi festeggiamole assieme. Ma sapete quanta discriminazione c’è verso le persone omosessuali? Prima di entrare al governo qualcuno disse - nel silenzio generale, tranne Renzi - che non potevo fare parte dell’esecutivo perché gay. La verità è che abbiamo il problema del benaltrismo, in questo Paese».
Insomma, recepirete o meno i contenuti del ddl Cirinnà?
«Quel testo va benissimo, per me è solo una questione di vittoria politica. Dopodiché mettiamoli assieme o meno. Il governo non ha presentato ancora un testo. Non è che si dimenticano le coppie etero, ma il tema era la discriminazione Lgbt. Il nostro è un movimento di liberazione, tutti i Paesi si sono dati una legge per superare questa situazione vergognosa. Poi bisogna intervenire anche per le coppie etero, ma vivaddio celebriamo questa roba».
Quanto alle adozioni, si procederà solo per i figli biologici di uno dei due partner omosessuali. Troppo poco?
«L’urgenza è l’adozione del figlio del partner. È una fattispecie più frequente. La prima scelta di una coppia omosessuale è di farselo, il figlio. Mentre l’adozione è molto complessa: questa non è una battaglia che valga la pena di combattere in questo momento, anche se in linea teorica penso sia giusta. Fra una legge subito “senza” e una legge “con” - ma tra cinque o dieci anni - meglio la prima opzione».

il Fatto 16.10.14
Dritti e diritti
Oggi gay, domani unioni civili L’importante è parlare d’altro
di Elisabetta Ambrosi


Mumble mumble: come faccio, dopo il disastro di Genova, a catturare l’attenzione pubblica su qualcos’altro? Ma sì, idea!, stavolta è il momento giusto, mi gioco la carta delle unioni civili per i gay (meglio usare solo la parola “gay”, visto che le lesbiche fanno ancora troppa paura ed è bene che non finiscano nei titoli dei quotidiani).
D’altronde la contingenza non poteva essere migliore, anzi ho dovuto affrettarmi per non essere scavalcato dagli eventi: il Sinodo per la famiglia che mi scodella perfetto perfetto un papa pro-omosessuali che mi consente persino di accontentare i cattolici
– vedete che ho fatto bene ad aspettare –, l’immagine di Vladimir Luxuria che fa il patto del risotto al tartufo con Berlusconi, così mi accaparro parecchi voti a destra mentre rendo più digeribile Berlusconi agli elettori del Pd, infine il rapporto Censis secondo il quale il 29% degli italiani è favorevole alle adozioni ai gay (che, per chi sa leggere tra le righe, vuol dire che almeno il doppio o più è favorevole alle unioni civili).
CERTO, C’È stata la fastidiosa uscita di Alfano contro la registrazione dei matrimoni contratti all’estero, ma la cosa potrebbe andare addirittura a mio favore, e comunque l’ho placato con gli sgravi fiscali per le famiglie numerose, tranquillizzando al tempo stesso la neo responsabile del nuovo dipartimento “Libertà civili e i diritti umani” di Forza Italia Mara Carfagna che tanto si è agitata in questi giorni a favore di un patto del Nazareno sui diritti civili (che c’era già, infatti eravamo d’accordo di non farli tranne ovviamente se ci fossero tornati particolarmente comodi, et voilà).
Una volta deciso che il tema è quello giusto, cioè strategico, chiamo il giornale amico, che mi anticipa qualunque notizia anche se farlocca, insieme al giornalista amico: abile nel tratteggiare sia l’immagine di un governo che, lungi dal tentennare, si lancia futuristica-mente verso l’avvenire – “tutto è pronto, dopo anni di tira-e-molla su Pacs, Dico e DidoRe stavolta sembra quella buona”, ha scritto ieri Francesco Bei su Repubblica –, sia quella di un premier che non guarda in faccia alla Chiesa – “ai vescovi, ha confidato il premier nei giorni scorsi, l’ho già detto, si mettano l’anima in pace”, scrive sempre l’amico Bei – mentre al tempo stesso ascolta comunque premuroso e sapiente le raccomandazioni clericali sui figli (“Nessuno affidamento insomma di bambini esterni alla coppia”).
Infine, mando avanti Ivan Scalfarotto, che non fa paura a nessuno, a dire: “Vedete? Stiamo modernizzando il paese, noi abbiamo rinunciato all’art. 18, la destra ora rinunci al suo totem” e il gioco è fatto. E poco importa se il disegno di legge della relatrice Cirinnà prevedeva anche una seconda parte con l’estensione di molti diritti alle coppie di fatto eterosessuali, d’altronde avevo detto ad Avvenire in luglio che il governo avrebbe fatto di testa sua, poi i contenuti li ho decisi dopo gli eventi, mi sembra logico.
INSOMMA se ne facciano una ragione quei coniugi che non avranno diritto all’assistenza in ospedale o in carcere, ai sussidi e alle case popolari: vi toccherà aspettare il momento buono in cui mi serva un annuncio roboante, ma ricordate che comunque la pensione di reversibilità e la successione non l’avrete: in teoria potreste sposarvi (tanto se poi rimanete intrappolati nella separazione perché il divorzio breve è ancora impantanato in Senato non è un problema mio), noi nel frattempo mentre voi esitate, per mille motivi, risparmiamo in pensioni di reversibilità che ci costerebbero troppo – come va dicendo sempre Sacconi – tanto nessuno sa che nello sbandierato modello di unioni civili alla tedesca sono previste, proprio come i diritti successori.
E poi mica penserete che i diritti civili siano sottratti alla spending review, specie dopo che il pareggio di bilancio è entrato in Costituzione? A proposito di Costituzione, qualcuno comincia a dire che la proposta delle unioni solo agli omosessuali è incostituzionale, sì, può essere ma cosa importa? Oggi, intanto, s’è parlato d’altro e io sto sereno. Domani è un altro giorno.

La manovra di Renzi da 36 miliardi: 15 sono di tagli
Il Sole 16.10.14
I tagli. I governatori: rischio tasse
Per la sanità in arrivo la stretta da 2 miliardi
di Roberto Turno


Tagli fino a 4 mld alle regioni e un convitato di pietra, la spesa sanitaria, che anche se non citata direttamente potrebbe contribuire per forza di cose almeno per 2 mld alla riduzione dei fondi regionali. E una spuntatina alle unghie ai governatori-commissari nelle regioni per i maxi buchi di asl e ospedali: basta politici, manda a dire Matteo Renzi applicando il «Patto salute 2014-2016», è tempo di tecnici, e di livello, il più svincolati possibile dalle logiche di partito nelle regioni canaglia. E stop ai manager spreconi. Anche perché, altra novità, d'ora in poi (meglio, da gennaio) cambiano e si irrobustiscono le regole sui piani di rientro dai maxi disavanzi sanitari.
Regioni e sanità sono chiamate anche da Renzi a dare il loro contributo al risanamento. Col risultato di aprire l'ennesimo confronto-scontro tra palazzo Chigi e i governatori che da Berlusconi-Tremonti in poi, è stato un leit motiv, con l'eccezione della parentesi del Governo di Enrico Letta. Il pressing sul Governo per attenuare, anche sostanziosamente, l'impatto dei tagli sulle regioni, è andato avanti a lungo ieri, ma con risultati nulli. Anche perché poi l'accelerata del premier per irrobustire la manovra sotto la spinta europea, ha lasciato pochi margini ai tentativi dei pontieri salva-tagli. E pure la ministra Beatrice Lorenzin ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
La spesa sanitaria, e tanto meno il Fondo 2015 da 112 mld, non è citata in alcun modo nella manovra. Ma sarà giocoforza per i governatori dover incidere in quella che è la parte preponderante dei loro bilanci, fino all'80% del totale. Non a caso Sergio Chiamparino aveva anticipato a Il Sole-24 Ore le sue valutazioni: «Tagli insostenibili: si riduce l'Irap ma ci costringono ad aumentare tasse, tariffe e a ridurre i servizi». Un gioco di specchi, ha ribadito ieri il governatore della Campania, Stefano Caldoro: «Sia il Governo ad aumentare tasse e ticket». Parole respinte al mittente da Renzi, però, che non a caso ha ricordato in serata in conferenza stampa la famosa "siringa" nordista o sudista (a seconda dei prezzi): «Le regioni hanno spazio per non aumentare le tasse. Non credo che quel grande riformista che è Chiamparino le aumenterà». Scommessa tutta da vincere.
Intanto nelle regioni sotto scacco per l'extra spesa si prepara una rivoluzione: basta con i governatori-commissari ad acta per il risanamento dei conti e del sistema-salute locale. E via a un sistema di allerta sui conti delle regioni.

Il Sole 16.10.14
Effetti da capire sui singoli enti
Patto per i Comuni alleggerito del 70%
di Gianni Trovati

MILANO Il Patto di stabilità per i Comuni non viene cancellato, ma di fatto è messo all'angolo da un alleggerimento drastico che ne riduce il peso del 70 per cento. Merito del miliardo di bonus sugli investimenti e della riforma della contabilità, che entra in vigore il 1° gennaio e impone ai sindaci di congelare nel «fondo crediti di dubbia esigibilità» una quota di risorse proporzionale alle mancate riscossioni degli ultimi cinque anni. Questo meccanismo (come anticipato sul Sole 24 Ore dell'8 ottobre) secondo il Governo diminuisce la capacità di spesa degli enti locali di 2,4 miliardi, che si traducono in uno "sconto" sul Patto di stabilità
Il Patto 2015 scende quindi verso quota 1,4 miliardi di euro. Resta da capire, però, l'effetto delle novità sui singoli Comuni, perché l'effetto della riforma cambia molto la distribuzione dei sacrifici, concentrando la stretta negli enti più in difficoltà con la riscossione. Un'altra buona notizia arriva però per i sindaci che anticipano le spese statali per i tribunali, e che ora trovano un assegno da 250 milioni. Per le Province, invece, il futuro è tutto da scoprire, perché i nuovi tagli arrivano mentre si cerca di sterilizzare, con gli emendamenti allo «sblocca-Italia», 100 milioni della spending review 2014, e la revisione delle funzioni è solo agli inizi.
Insieme alla nuova dose di tagli, la riforma dei conti è dunque l'architrave della manovra per i Comuni. Ha perso quota, invece, l'anticipo almeno parziale degli obblighi di pareggio di bilancio che era stato annunciato nella nota di variazione al Def, e che imporrebbe ai sindaci il pareggio sia nella parte corrente sia nei saldi finali. Queste misure, che secondo stime dell'Ifel valgono una stretta ulteriore da 1,5 miliardi, restano per ora in calendario per il 2016, anche se non mancano spinte per rivedere le regole.
Alla luce dei nuovi tagli, il fondo di solidarietà che serve ad aiutare gli enti locali nelle zone meno ricche dal punto di vista fiscale pare destinato a perdere ogni aiuto statale. Già oggi il fondo, che vale circa 6 miliardi, è alimentato per l'80% dall'Imu, ma con la nuova sforbiciata la perequazione diventerà del tutto orizzontale, spostando risorse dai Comuni "ricchi" a quelli "poveri" senza interventi finanziari dello Stato.
Anche per questa ragione, la manovra prova ad affinare i meccanismi di distribuzione, che secondo i progetti governativi andranno guidati, per una quota del 20% nel 2015 e crescente negli anni successivi, in base agli standard su «costi» e «capacità fiscali». Il primo fattore riprende le elaborazioni condotte nei mesi scorsi da Sose e Ifel, ora in fase di aggiornamento. Da soli, però, i costi standard non sono sufficienti, anche perché ovviamente i Comuni che offrono meno servizi registrano anche meno spese, e soprattutto vanno accompagnati con le «capacità fiscali standard», per misurare quanta ricchezza ogni ente può raccogliere (ad aliquote di base) sul territorio prima di pescare dal fondo. Dall'unione di questi due fattori, in prospettiva, si dovrebbe capire quante risorse vanno garantite a ogni ente per svolgere senza sprechi le proprie funzioni fondamentali.

il Fatto 16.10.14
Stangata su Comuni e Regioni - già saccheggiati negli anni scorsi - per pagare Irap e 80 euro
Il premier annuncia una manovra da 36 miliardi: 15 di tagli, 3,8 – “sicuri” dice lui – dalla lotta all’evasione
Agli imprenditori: “Vi ho tolto tasse e art. 18, ora assumete, che volete di più?”
Il conto: 8 miliardi falciati agli enti locali, meno servizi e rischio nuove tasse locali
di Marco Palombi


Alla fine, di riffa e di raffa, la manovra vale 36 miliardi. Certo le coperture sono un po’ strutturali, un po’ una tantum (la vendita delle frequenze, riprogrammazione di fondi europei), un po’ farlocche (3,8 miliardi da trucchetti fiscali chiamati “gigantesca lotta all'evasione”), ma quando il Consiglio dei ministri finisce Matteo Renzi è felice. Ogni misura che illustra è un metaforico gesto dell’ombrello a chi non gli credeva: “Diciotto miliardi è la più grande riduzione di tasse mai fatta da un governo nella storia della Repubblica”, gongola, “tagliare le tasse è di sinistra”, anzi no “da persone normali” visto il livello “pazzesco” della pressione fiscale. Riassumendo, anche se lui non lo sa, la sua è una manovra tutta giocata sul lato dell’offerta: peccato che questa sia una crisi di domanda. Lo sintetizza perfettamente lo stesso premier in conferenza stampa, quando si rivolge al mondo delle imprese: “Caro imprenditore, assumi a tempo indeterminato? Ti tolgo l’articolo 18, i contributi e la componente lavoro dall’Irap. Mamma mia, cosa vuoi di più? ”. Meno diritti e meno welfare in cambio di un po’ d’occupazione ricattabile: gran cambiamento di verso. Va detto che Confindustria e soci hanno festeggiato i 6,5 miliardi di euro di minor Irap (che si uniscono alla conferma strutturale degli 80 euro di Irpef) annunciati dal governo, ma forse dovrebbero stare più attenti e controllare il loro portafoglio ordini: se è pieno di fatture in lingua straniera fanno bene, ma se vendono soprattutto in Italia non hanno capito cosa sta succedendo.
MANOVRA RECESSIVA. Tutti dicono che la legge di stabilità di Matteo Renzi è “espansiva”, lui la definisce “seria”. Non è né l’una né l’altra cosa. Oltre la metà delle coperture vere sono infatti tagli di spesa: 6,1 miliardi sono “risparmi dello Stato”, dice Renzi, formula non chiara che dovrebbe contenere tanto le sforbiciate ai ministeri che il risparmio dovuto ai minori interessi sul debito pubblico. Il resto è più o meno tutto in carico a regioni, province e comuni: otto miliardi o giù di lì. L’altra grossa posta, cioè circa 11 miliardi, è lo spazio che il governo si è concesso aumentando il deficit dal 2,2% tendenziale sul Pil al 2,9%. A parte che l’Italia sforerà il 3% - scelta legittima - ma senza avere il coraggio di dirlo e fare su questo una battaglia a viso aperto, la maggior parte della manovra si basa su tagli (ma non manca qualche tassa, tipo quella sui fondi pensione a cui i lavoratori hanno devoluto il Tfr): applicando qualunque forma di moltiplicatore fiscale (all’ingrosso l’effetto sulla ricchezza delle misure) se ne deduce che questa manovra è recessiva, cioè comprimerà comunque il Pil (certo, nulla a confronto coi fasti di Mario Monti). I tagli di tasse, infatti, non hanno l’effetto espansivo della domanda diretta dello Stato (che opportunamente calibrata, peraltro, peggiora meno della spesa privata la bilancia commerciale). Il ministro Pier Carlo Padoan però, beato lui, è uomo fiducioso e prevede un andamento crescente del Pil “nel medio periodo”, cioè tra qualche anno, a patto di arrivarci vivi.
PAGANO COMUNI E REGIONI e quindi i cittadini. Questa la sostanza. Il sindaco d’Italia il conto lo ha presentato agli enti locali, già fiaccati da sforbiciate che nelle innumerevoli manovre degli ultimi tre anni ammontano già a una quarantina di miliardi. Chiunque pensi che dopo questa cura sia possibile, in pochi mesi e senza alcun lavoro di effettiva revisione della spesa, tagliare solo eliminando gli sprechi e non toccando i servizi è nella migliore delle ipotesi un illuso. Oppure è Renzi.
Questi tagli significano meno posti negli asilo, più buche per le strade, meno assistenza per gli indigenti e gli anziani, spesa sanitaria ancora in contrazione, zero investimenti. Ovviamente non di soli tagli dei servizi vivono sindaci e governatori in difficoltà: possono sempre aumentare le tasse, vale a dire le addizionali Irpef e tante altre cosette. “Non so se lo faranno - ha ammesso il ministro Padoan - Certo ne hanno la possibilità”. Renzi, invece, preferisce buttarla sul merito: quelli bravi tagliano, quelli cattivi tassano e i cittadini li puniscono nelle urne. “È il federalismo fiscale”, gli fa eco il ministro. Sarà.
La cosa curiosa però è che il governo si è preoccupato di spostare il pareggio di bilancio al 2017 per lo Stato, ma quello degli enti locali scatta ancora a gennaio 2015: significa sei miliardi di tagli diretti, cui va aggiunta la quota degli enti locali dei tagli agli acquisti di beni e servizi (un altro paio di miliardi). Come contentino, i comuni che hanno i soldi in cassa potranno sforare il Patto per fare investimenti: la copertura è un miliardo in tutto. In questo modo, parecchi enti locali rischiano il dissesto. Non lo dice solo Il Fatto Quotidiano, ma persino due parlamentari del Pd. uno renziano, Matteo Richetti, uno in rapporti altalenanti col premier, Francesco Boccia: “Il pareggio di bilancio per gli enti locali deve seguire le regole del governo nazionale: un anticipo al 2015 solo per gli enti locali non sarebbe sostenibile e molte amministrazioni rischierebbero il dissesto”. Così, per dire.

La Stampa 16.10.14
Renzi come ai tempi della Dc vara la manovra interclassista
Soldi per imprese e neo assunti. “Le tasse erano a un livello folle”
di Fabio Martini


Non era una mattinata qualunque. Lo spread tornava su, Piazza Affari andava giù, Bruxelles scrutava minacciosa, ma il presidente del Consiglio - bulimico come è - ha continuato ad occuparsi anche d’altro, non si è lasciato «distrarre». Tanto è vero che - per dirne una - nel giorno forse più importante della sua carriera politica, Renzi non ha voluto rinunciare all’appuntamento con Oprah Winfrey.
Winfrey, la regina dei salotti tv americani, che si è presentata a Palazzo Chigi con un vestito rosa confetto e sandali rosati anche loro. Per non parlare di una chiacchierata di prima mattina con l’amico-nemico Diego Della Valle.
L’uomo è fatto così, per lui la politica è fatta di tante cose, anche se ovviamente in queste ore quel che conta è la Legge di Stabilità. Quarantotto ore fa le direttive di Renzi erano state tassative, con una raccomandazione per le ultime sorprese: «Dentro ci devono assolutamente essere anche il Tfr, gli sgravi per le partite Iva e la manovra può andare anche oltre i 30 miliardi...». Detto e fatto nello sprint delle ultime 24 ore. Il risultato, una manovra monstre, potenzialmente capace di produrre quella scossa sul sistema-Italia attesa da anni, anche se alcune coperture sono ancora da «scoprire».
Ma soprattutto - ed è questa la novità politica e sociale più grande - una manovra «interclassista», come ai tempi della prima Dc: un risultato che l’ex giovane democristiano Renzi dietro le quinte ha fortissimamente voluto e che alla fine è riuscito a disegnare. Sono di nuovi premiati, con gli 80 euro, i ceti medio-bassi. Ma stavolta con gli sgravi Irap e per i nuovi assunti, è festa per le imprese e infatti Renzi, nella conferenza stampa finale, ha voluto enfatizzare questo dato, rivolgendosi ad un immaginario imprenditore: «Mamma mia e di più che vuoi?». E un segnale di attenzione c’è anche per «le partite Iva a basso livello di reddito». E, con un’ulteriore sapienza comunicativa, quella varata ieri è anche una manovra bipartisan: «Abbassare le tasse potremmo dire che è di sinistra, ma lascerei stare che poi ne dobbiamo parlare con Angelino: mentre altrove la riduzione è appannaggio di alcune forze politiche, in Italia non è di sinistra né di destra, ma da persone normali perché si era arrivati a un livello pazzesco».
Certo, una manovra che sembra finanziare il deficit - proprio come si usava nella Prima Repubblica - spese per le quali la copertura è in parte da «scoprire». Una manovra destinata comunque ad accendere gli occhiuti riflettori di Bruxelles. E proprio nella sfida con la capitale d’Europa, Matteo Renzi sta preparando le due nuove scommesse. La prima: mettendo nel conto una possibile riserva da parte della Commissione europea, nelle prossime ore il presidente del Consiglio si misurerà la palla e se le reazioni dovessero rivelarsi ostili, a quel punto Renzi potrebbe decidere di ripetere, «contro» Bruxelles, lo schema amici-nemici, sempre efficace per la psicologia collettiva italiana.
Renzi pregusta quindici giorni di «guerriglia» con Bruxelles, replicando quello schema già collaudato in casa con i politici da rottamare, i superburocrati, i sindacati, la Rai. Uno spazio polemico che il responsabile economia Pd Filippo Taddei, lascia capire: «Non è scontato che la Commissione Ue dia il suo assenso. Ma difficilmente l’Europa potrà dare un giudizio negativo». Ed esattamente in questo spazio - tra iniziale giudizio negativo e possibile assenso finale - si colloca la seconda scommessa di Renzi, che in queste ore ha confidato: «Barroso è più rigido, con Juncker ci sarà un esame più sereno». E comunque Renzi lo sa: anche una eventuale battaglia anti-Bruxelles, avrebbe un’impronta bipartisan, promettendo di occupare anche spazi dell’area populista e di sinistra.

il Fatto 16.10.14
Carta vince carta perde
Oltre 11 miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è
di Stefano Feltri


Evviva, evviva: Matteo Renzi sfascia l’austerità, taglia le tasse di 18 miliardi, regala soldi alle imprese, infila la liquidazione in busta paga ai dipendenti, conferma gli 80 euro, favorisce le assunzioni, c’è perfino qualcosa per le partita Iva. Tutti felici e tutti grati al premier e al Pd: un utile consenso, casomai arrivassero presto le elezioni.
Qualche obiezione però dovrebbe essere lecita. Primo: le coperture sono, come sempre, all’italiana. Oltre 11 miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è. Ma visto che ormai siamo tutti keynesiani, chiudiamo un occhio. Però ci sono i tagli: non ai tanto odiati “sprechi”, visto che il commissario alla revisione Carlo Cottarelli è stato licenziato e il suo lavoro sepolto negli archivi. No, si taglia (poco) sui ministeri e (molto, 6,2 miliardi) su Regioni ed enti locali: solo chi è in malafede può sostenere che ci sia ancora grasso da asportare. Dopo quattro anni in cui lo Stato centrale ha sottratto oltre 40 miliardi a Regioni e Comuni, ogni ulteriore stretta ridurrà i servizi, visto che le tasse non si possono più alzare senza rivolte di piazza (anche se il ministro Padoan è favorevole a un aggravio delle imposte locali). L’austerità è ottusa, non c’è dubbio. E va ridiscussa perché non sta funzionando. Ma ancora una volta l’Italia viola i suoi impegni, oggi su debito e domani sul deficit, e non per finanziare investimenti che creino la base della crescita dei prossimi anni, ma per una versione rinforzata della deludente “operazione 80 euro”. Legittimo, ma il crollo delle Borse di ieri sulle voci di elezioni anticipate e di rigetto del rigore in Grecia dimostra quanto fragile è la tregua concessa dallo spread.
Spendere in deficit e sbertucciare Bruxelles è facile. La parte difficile è affrontare le sanzioni europee – ormai certe – e l’eventuale furia dei mercati. Oltre a quella dei cittadini, se dovessero scoprire che i regali della politica sono prestiti con tasso di interesse da usura.

Corriere 16.10.14
Ciò che i numeri non dicono
Il taglio della spesa scaricato per 7 miliardi su Regioni, Comuni e Province rischia di tramutarsi nell’ennesimo aumento delle imposte locali
di Enrico Marro

qui

La Stampa 16.10.14
Sulla spesa il fronte più difficile
Gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi
di Stefano Lepri


La questione non è più tanto se la Commissione europea accetterà questi numeri, quanto se li considererà verosimili. Gli obiettivi che il governo si pone con la legge di stabilità approvata ieri sera appaiono validi. Le risorse per raggiungerli non è chiarissimo come saranno trovate; 3,8 miliardi dalla lotta dell’evasione fiscale e 15 da tagli alle spese sono cifre di grande ambizione.
Matteo Renzi l’ha definita una manovra di bilancio «anticiclica», ossia, in gergo economico, volta a rilanciare l’economia.
Non è esattamente così. Nelle grandi cifre, è grosso modo neutrale; scelta corretta rispetto all’intervento ulteriormente recessivo che sarebbe risultato da una applicazione schematica delle regole europee.
Potrà essere espansiva se sarà costruita bene, sostituendo soldi ben spesi a soldi mal spesi. Al calo del prelievo fiscale, 8 miliardi aggiuntivi ai 10 già promessi, dovrebbe accompagnarsi una vera riduzione di spese poco utili. Potrà esserlo se le grandi riforme, come spera Piercarlo Padoan, avranno effetti pronti sulla fiducia di chi lavora e di chi investe.
Tre ipotesi sono possibili. Primo, gli interventi sulla spesa saranno maldestri; l’esperienza passata sui «tagli lineari» ci dice che cambiano poco e per di più non durano. Secondo, i tagli sono fittizi e il deficit 2015 oltrepasserà la soglia del 3%, con rialzo dei tassi sul debito e sanzioni europee. Terzo, i tagli saranno ben concepiti, e proprio per questo solleveranno una tempesta di resistenze.
Purtroppo incidere sulle cattive erogazioni di denaro pubblico per una cifra così grande, 12,3 miliardi aggiuntivi rispetto alle misure già in corso, richiede che si colpiscano interessi costituiti ben capaci di difendersi. E’ già partita al contrattacco la politica locale, dove gli sprechi sono assai diffusi. Vedremo nelle prossime ore chi altri alzerà le barricate.
Solo riforme efficaci e un uso migliore delle risorse possono azzittire chi in Europa vorrebbe costringerci a una regola – quella dell’«obiettivo di medio termine» – sorpassata dall’evolversi della crisi. L’Italia l’aveva fatta propria, inserendola anche nella Costituzione, dopo gli enormi rischi corsi nel 2011; rispettarla quest’anno significherebbe altri posti di lavoro in meno.
Tutta l’economia mondiale non riesce ad uscire appieno dalle difficoltà, come mostrano anche i dati giunti ieri dagli Stati Uniti; il ribasso del greggio segnala timori di recessione. E’ assurdo dare la colpa di tutto all’austerità nell’area euro, visto che anche Svezia e Svizzera sono in deflazione; varie sono le cause se anche la gran parte dei Paesi emergenti rallenta.
In passato, il vincolo delle regole esterne ha fatto solo bene all’Italia, ponendo freni alla cattiva politica. Ora una azione di rilancio spetterebbe alla Germania, che ha i bilanci in ordine. Non lo vuole fare, per una debolezza politica interna che ributtata all’esterno sembra forza; e allora il male di gran lunga minore è che l’Italia temporaneamente vi si sottragga.
I rischi ci sono. Lo mostra la Grecia, che nell’attuale fase di calma dei mercati finanziari progettava di sottrarsi in anticipo alla sorveglianza della troika (Commissione europea, Bce, Fmi). Meglio che non lo faccia – si vede in queste ore – soprattutto perché politicamente non è stabile, elezioni anticipate non possono essere escluse, con una vittoria dell’estrema sinistra.
L’Italia non è né fragile come la Grecia né altrettanto malmessa; però è anche otto volte più grande. Per questo gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi. Dobbiamo loro chiarezza di propositi; e, magari, anche la lucidità di indicare verso quali regole migliori potremmo muoverci tutti insieme.

Corriere 16.10.14
Una strategia controversa che non prevede passi indietro
di Massimo Franco


Nel giorno in cui il governo approva la legge di Stabilità, l’opposizione cerca di rovinargli la festa. E l’Unione Europea trasmette messaggi scettici che sembrano preludere ad una bocciatura, o al massimo ad una promozione con riserva. Matteo Renzi continua a dire e far dichiarare ai suoi che tutti i provvedimenti sono coerenti con gli impegni presi: un modo per tentare di scoraggiare l’opposizione più arcigna del fronte del rigore finanziario; e per anticipare che lo combatterà. Il fatto che l’altro giorno al Senato la maggioranza si sia salvata in uno scrutinio per un solo voto, fa dire a una Forza Italia costretta a un po’ di opposizione: «Renzi non ha la maggioranza» per realizzare le sue riforme. Ma anche su questo, l’impressione è che Palazzo Chigi riuscirà a trovarla di volta in volta, seppure tirandosi addosso molte critiche. Certamente, la sensazione è di un governo affannosamente alla ricerca di far quadrare molti cerchi insieme. Il ritardo col quale ieri è cominciato il Consiglio dei ministri è stato spiegato con l’esigenza di aggiustare le ultime misure della legge di Stabilità da presentare alla Commissione europea.
In serata è filtrata la notizia di una manovra non più di 23 miliardi di euro, e nemmeno di 30 ma di 38: una lievitazione che riflette la disperata ricerca di coperture, di riduzioni fiscali e di sacche di spesa pubblica da tagliare. Rispunta anche una legge sul Trattamento di fine rapporto (Tfr), apparsa e sparita più volte. È chiaro che negli ultimi giorni Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, hanno dovuto rifare i conti cercando di prevenire le obiezioni di Bruxelles. Le difficoltà, tuttavia, sono così diffuse e generalizzate, tra l’emergenza dell’epidemia di Ebola, il tonfo delle Borse in Europa e Stati uniti e le tensioni con la Russia, da disegnare scenari difficili da decifrare nel medio periodo: uno sfondo che sarà confermato nel vertice euroasiatico in programma da oggi a Milano. L’Italia non è messa bene, e l’ennesimo dato dell’Istat su un Prodotto interno lordo sceso ad un minimo di 385 miliardi di euro, che non si registrava dal 2000, è sconfortante. In più, per quanto frutto dela congiuntura degli ultimi giorni, è risalito lo spread : la differenza tra tassi di interesse dei titoli di Stato italiani e tedeschi ieri ha toccato quota 166, confermando i timori di Bankitalia sull’andamento altalenante dei prossimi mesi. Rimane da capire se la frenata della ripresa un po’ dovunque faciliterà o no le richieste italiane all’Ue. Per paradosso, le tensioni che riemergono in Grecia dopo la «cura» della troika Fmi-Bce-Commissione Ue dicono che il rigore, in sé, non è un toccasana. Insomma, non si ha l’impressione che Renzi sia disposto a recedere dall’impostazione «vistata» ieri dal Consiglio dei ministri. Se si dovesse aprire un contenzioso con Bruxelles, il governo italiano sembra pronto ad affrontarlo nonostante i rischi che potrà comportare. La strategia è tarata sulla scelta di sorprendere e sparigliare, e non cambia. E se poi dovesse andar male, sarà il corpo elettorale a promuoverla o bocciarla.

Repubblica 16.10.14
Fassina
“Troppi tagli al sociale, non è di sinistra”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA . «Sono insostenibili i tagli che riguardano la spesa sociale. Vanno corretti». Per Stefano Fassina, ex vice ministro all’Economia, esponente della sinistra dem, nella legge di stabilità sono più le ombre che le luci.
Fassina, non è convinto dalla manovra di Renzi? Non crede ci siano novità positive?
«Ci sono molti aspetti da chiarire. E novità positive sono sul fronte della riduzione delle imposte. Ma il segno espansivo della manovra che già sulla carta era modesto rispetto alla gravità della situazione del paese e con i tagli pesanti alla spesa, viene cancellato».
Alle Regioni si chiede un risparmio di 4 miliardi e 1,2 miliardi ai Comuni, 6 allo Stato. Una cura da cavallo?
«Sono tagli insostenibili, non si chiedono alle Regioni ma alle famiglie per le mense scolastiche; si chiedono ai pendolari che utilizzano il trasporto pubblico; alle persone che hanno bisogno di assistenza; agli studenti che avevano le borse di studio. Si chiedono alle mamme e ai papà per gli asili nido dei figli. Significano anche minori prestazioni nella sanità. E l’impatto recessivo degli interventi sui servizi sociali fondamentali supera l’impatto espansivo connesso alla minore tassazione».
Quindi vede il rischio che il welfare sia in pericolo?
«Non un rischio, ma la certezza. I tagli previsti per gli enti territoriali e per lo Stato colpiscono i servizi fondamentali. Sono un ulteriore colpo all’equità che avrà inevitabilmente effetti recessivi sull’economia».
Per Renzi è la manovra più di sinistra che si potesse fare nelle condizioni date.
«No, non lo è. È una manovra che, unita all’intervento sul mercato del lavoro, sta nel solco del mercantilismo liberista che ha portato l’Europa a una recessione sempre più grave».
Ammetterà tuttavia che gli imprenditori non avranno più alibi per le assunzioni, anche grazie alla decontribuzione per i neoassunti?
«Singolare che il governo reintroduca la stessa misura che aveva previsto nel 2013 il governo Letta ed era stata poi archiviata dal governo Renzi. Ma le imprese non assumono perché non c’è domanda. Il limite della manovra appena approvata dal consiglio dei ministri è che non è concentrata sul sostegno alla domanda, agli investimenti in particolare dei comuni in piccole opere».
Cosa si sarebbe dovuto fare?
«Si sarebbe dovuto allentare il deficit di un punto in più rispetto a quello previsto dal governo e concentrare le risorse sul patto di stabilità interno per i Comuni, su misure di contrasto alla povertà, si sarebbero dovuti pagare i debiti in conto capitale alle imprese... Inoltre il taglio dell’Irap si sarebbe dovuto concentrare per venire in aiuto ai piccoli imprenditori, mentre ne beneficiano in larghissima misura le grandi aziende».
Lei pensa a modifiche?
«Sì, sulla parte che riguarda i tagli alla spesa sociale. Ripeto: quei tagli non sono sostenibili e quella parte va corretta».

il Fatto 16.10.14
L’Istat conferma: l’Italia in recessione
di Dino Martirano


UN’ITALIA IN STAGNAZIONE PERMANENTE. È questa la fotografia offferta dall’Istat con i dati distribuiti ieri. Distribuzione contestata: la conferenza stampa dell’Istituto, infatti, prevista per la mattina, è stata annullata per via dell’annunciata contestazione dei precari interni che chiedono la stabilizzazione di 372 unità i cui contratti scadono tra 50 giorni e a cui il massimo della garanzia è la proroga di un anno. Una protesta che chiama in causa i tagli degl governo e la gestione interna dell’Istat dopo la nomina del nuovo presidente Alleva. Per quanto riguarda i dati, invece, l’Istituto ha confermato la recessione con un Pil che nel secondo trimestre è sceso dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e dello 0,3% rispetto allo stesso periodo del 2013. Un dato che conferma le previsioni precedenti ma riformulato alla luce dei nuovi criteri di calcolo del Pil (il conteggio di droghe, prostituzione, etc.). La sintesi è ancora più grave perché l’Italia “non cresce più dal secondo trimestre 2011”. In questo quadro cala il potere di acquisto delle famiglie (-1,5%) aumenta il deficit del primo semestre (+ 3,8), si riducono i profitti delle società non finanziarie (- 0,4) e, allo stesso tempo, si riduce un po’ la pressione fiscale dei primi sei mesi del 2014 (-0,5%) . In calo anche la propensione al risparmio delle famiglie che è scesa dell’1,4%.Assenti, dissidenti e soccorritori I numeri (risicati) del Senato Il governo avrebbe dieci voti in più, ma spesso rischia. Il peso degli ex 5 Stelle ROMA L’ex ministro Mario Mauro (centrista, ex Forza Italia, forse sulla via del ritorno nella casa di Berlusconi) di entrate e di uscite dalle maggioranze ne sa qualcosa. E dunque spiega: «Il dato politico del voto al Senato dell’altra sera, quando il governo ha rischiato la figuraccia, ottenendo il minimo dei voti necessari, 161, è uno solo. Se qui manca la stampella azzurra, l’esecutivo al Senato balla. Il rischio c’è ogni volta che si vota qualcosa di importante». E Mauro dice tutto questo dopo una missione di due giorni in Kurdistan con il capogruppo di FI Paolo Romani con il quale non ha certo parlato solo di politica estera.
Ieri, negli uffici che contano del Senato è stata molto puntigliosa l’analisi dei tabulati con gli assenti che hanno rischiato di provocare un incidente davvero pericoloso per il governo.
La risoluzione alla nota di variazione del Def, che autorizza il rinvio del pareggio di bilancio al 2017, prevedeva la maggioranza assoluta del plenum: 161 voti, non uno di meno. La maggioranza potenzialmente ne ha 171 ma si è aperto un buco di ben 11 voti e solo il soccorso dell’ex grillino Luis Orellana ha salvato la barca dal naufragio della manovra di bilancio.
Gli assenti della maggioranza al momento del voto (il presidente Pietro Grasso non partecipa) erano, oltre a Mauro e al suo compagno di partito Tito Di Maggio, il presidente Pier Ferdinando Casini (Udc) in missione a Ginevra, i dem Renato Turano (negli Usa) e Ignazio Angioni, il giuslavorista Pietro Ichino di Sc (bloccato da seri problemi di famiglia), Pietro Langella (neo transfuga di Gal passato all’Ncd), Lorenzo Battista (Autonomie) e almeno due senatori a vita: Mario Monti (che da tempo evita i voti di fiducia) ed Elena Cattaneo (che però non votò la riforma costituzionale).
Altre due nomine del capo dello Stato sono fuori dal conteggio, come Renzo Piano e Carlo Rubbia, perché meno presenti in aula.
Invece erano presenti e fedeli alle direttive della maggioranza i dissidenti del Pd Walter Tocci, Corradino Mineo, Felice Casson e Massimo Mucchetti puntellando il governo. Così come non sono mancati i voti di quella metà di Gal che guarda con simpatia a Renzi: Michelino Davigo e Paolo Naccarato.
La new entry Langella non ha fatto la differenza perché già in passato aveva votato a favore del governo: l’altra sera si è dimenticato di suggellare con il voto il suo ingresso nell’Ncd e qualche maligno dice che non è stata una dimenticanza ma un «aiutino» per chiudere la trattativa.
In questa vasta area grigia — che implica un appoggio ad intermittenza alla maggioranza di governo — va considerato poi il serbatoio di potenziali soccorritori ex grillini. Ma ieri dopo il passo in avanti di Orellana, gli altri fuoriusciti dal movimento di Grillo hanno preso le distanze: «Il voto del senatore Orellana è stato una scelta personale che non corrisponde alla prospettiva della nostra componente (Italia lavori in corso, ndr )». Firmato Francesco Campanella, Fabrizio Bocchino, Paola Del Pin e Alessandra Bencini.
Ieri sera sul decreto stadi il governo, all’ennesima fiducia, ha preso 164 voti. Resta da vedere se si avvererà la profezia di Mario Mauro sulla necessità per il governo (16 assenti azzurri al momento del voto sul Jobs act, tanto per citare un episodio) di contare su Forza Italia. Dopo il ritorno nel partito di Berlusconi del senatore Antonio D’Alì, nell’Ncd sarebbero cin partenza anche Antonio Azollini e Antonio Caridi.
Alla Camera, intanto, il Centro democratico di Bruno Tabacci e Per l’Italia vorrebbero unire le forze per sostenere insieme il governo.

Corriere 16.10.14
Sinistra, raccolta firme anti-austerità

Lanciata a Roma la raccolta firme per l’abrogazione del pareggio di bilancio in Costituzione. Presenti diversi esponenti della sinistra, da Vendola a Civati

Repubblica 16.10.14
Autoriciclaggio, l’ira dei pm “Stanno svuotando il reato così la legge non serve”
La difesa di governo e maggioranza: “Non la stiamo alleggerendo”
Oggi il via libera della Camera. Gli emendamenti dell’Ncd
di Liana Milella


ROMA L’autoriciclaggio passa oggi alla Camera, ma ancora una volta i magistrati non sono soddisfatti. Parlano di «reato svuotato». Tutto per colpa di una frase, già votata ieri sera, suggerita da Ncd, modificata dal Pd per evitare fratture, bocciata però dalle toghe. Dice il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli: «Così si limita e si circoscrive troppo l’autoriciclaggio». La Pd Donatella Ferranti, ex magistrato e presidente della commissione Giustizia, ribatte: «Non è vero, qui non si alleggerisce niente». Soddisfatto il vice ministro della Giustizia Enrico Costa, esponente di Ncd: «Così la norma è sensibilmente migliorata». Ma i pm esperti di reati finanziari già dicono che, in questo modo, «non potremo perseguire chi crea un fondo nero all’estero per poi pagare una tangente o addirittura pagare un killer».
Non c’è pace sull’autoriciclaggio, il reato più contestato di questa stagione tra toghe e politica. Inserito nel ddl sul rientro dei capitali, da ieri è in aula a Montecitorio. Ma prima ecco una riunione della maggioranza per superare le lamentele degli alfaniani che minacciano di non votare il testo. Di mezzo c’è una frase che Ncd pretende di cambiare. Laddove è scritto: si applica la pena a chi «sostituisce, trasferisce, ovvero impiega in attività economiche o finanziarie il denaro della commissione di un delitto». Ncd non ci sta soprattutto perché in commissione Finanze è passato un emendamento del Pd Pastorino che esclude il reato «fuori dai casi dei commi precedenti» per chi usa il denaro a fini personali. Si favoleggia che la modifica sia suggerita dalle toghe. Ncd impone la modifica. Ieri parte la trattativa. C’è l’Ncd Alessandro Pagano, che firma l’emendamento, ci sono Ferranti, il responsabile Giustizia del Pd David Ermini, il relatore Giò Sanga, il Guardasigilli Andrea Orlando con il suo staff di giuristi. Si arriva alla mediazione: è punito chi «impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro». Pagano aveva proposto solo «in attività economiche e finanziarie». I Pd insistono per ampliare. Si chiude sulla nuova frase. Sono d’accordo anche Pippo Civati e Pastorino che hanno seguito da presso l’iter del reato.
Ma quando il testo arriva alle toghe viene bocciato. Ecco la reazione di Sabelli: «Così si circoscrive l’autoriciclaggio alle sole attività economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative. Faccio un esempio: sarà autoriciclaggio costituire dei fondi neri da impiegare in un’altra attività economica. Ma non sarà autoriciclaggio l’utilizzo di somme di denaro fatte transitare su conti di copertura e poi utilizzate per acquistare, ad esempio, una villa di gran lusso dove si andrà a vivere». Prosegue Sabelli: «La cosa singolare è che, in questi casi, potrà rispondere di riciclaggio la testa di legno a cui siano stati intestati i conti di copertura, ma non il reale proprietario del denaro». La frase crea confusione? «È foriera di incertezze interpretative, per esempio su che cosa s’intenda per attività speculativa».
Ferranti, quando sente le critiche, s’infuria: «Nessun alleggerimento. Abbiamo riformulato l’emendamento di Pagano cercando un punto di mediazione perché il testo regga al Senato. Un punto ragionevole, e certo non al ribasso, utilizzando una formula utilizzata da valenti giuristi durante le audizioni in commissione». Reato svuotato? «Ma quando mai... Ne viene fuori un autoriciclaggio serio che copre con un ventaglio ampio tutte le possibili condotte». Il punto è qui, quei tre verbi e le attività indicate allargano o restringono l’applicabilità? Per Ferranti lo allargano, per Sabelli lo restringono. Ncd, che voleva un autoriciclaggio “stretto”, è soddisfatto.

Corriere 16.10.14
Il dissenso «responsabile» del senatore Tocci
Un anacronismo che smaschera le anomalie della politica
di Paolo Franchi


Non sarà l’uomo che morde il cane. Ma un «uomo di partito» che vota la fiducia su un provvedimento (il Jobs act) dopo averlo stroncato nel suo intervento e, subito dopo, si dimette dal Senato perché considera quel provvedimento e quella fiducia in contrasto con il mandato ricevuto dagli elettori, è comunque una notizia. Sul web in questi giorni se ne è parlato parecchio. Sui giornali e in tv poco o nulla. Al più si è almanaccato, probabilmente a sproposito, su cosa farà il senatore in questione, Walter Tocci (che nel frattempo ha «salvato» il governo anche sul Def), quando l’Aula ne respingerà le dimissioni. Peccato. Perché una contraddizione c’è, e non riguarda solo né soprattutto Tocci. Che per motivare il suo voto si è richiamato a quella che andava nota, nel Novecento, come disciplina di partito. Nel Pci del centralismo democratico («Manifesto» docet) era ferrea. Ma, in forme diverse, valeva per tutti. Compresi i socialisti: quando, nel ‘63, votarono contro il primo centro-sinistra, i parlamentari che poi dettero vita al Psiup sapevano bene che se ne stavano andando. Compresa anche la Dc dei franchi tiratori. Prima che un vincolo, la disciplina era la garanzia di un’unità per la quale valeva la regola del chi rompe paga. I partiti c’erano, eccome. Anche troppo. Ma adesso, come si fa a disciplinare qualcosa che resta vivo nella memoria (non solo quella di Tocci), ma non esiste più? E perché a invocare misure disciplinari verso i dissidenti, scimmiottando il lessico comunista, sono i colonnelli di Matteo Renzi, fautori del partito leggero, anzi, «liquido», del leader, e comunque dell’archiviazione del modello novecentesco? E perché non si discute dei pesi e dei contrappesi necessari a bilanciare il potere (crescente, straripante) dell’esecutivo e la libertà del parlamentare? Venissimo a sape’ che so’ misteri, avrebbe forse chiosato Gioachino Belli. Misteri che il gesto politicamente e intellettualmente onesto di Tocci certo non svela, ma quanto meno segnala. Di questi tempi, è già molto.

il Fatto 16.10.14
Parlamento troppo ribelle e manovra: verso le urne?
Il voto sul Def al Senato è finito sul filo di lana
Una maggioranza così bassa è un campanello di allarme
Stessa musica per il decreto stadi
di Fabrizio d’Esposito


Nella pancia parlamentare del Pd raccontano che l’altra sera, al Senato, il merito di aver salvato la nota di aggiornamento del Def sul filo di lana è stato di Enrico Morando. Un tempo, dal Pds in poi, Morando era l’uomo di partito esperto di leggi finanziarie e adesso che all’Economia ci sta da viceministro, il suo ruolo è spesso decisivo. Suo infatti sarebbe stato il compito di convincere e agganciare i voti necessari per non soccombere: l’ex grillino Orellana e il senatore del Pd dimissionario Tocci, senza dimenticare un’altra manciata di civatiani dissidenti sull’articolo 18. Alla fine, la maggioranza di Renzi ha raggiunto il suo punto più basso: appena 161 voti, sufficienti sì per l’approvazione, ma un chiaro segnale d’allarme per il futuro.
ED È PER QUESTO che, nella giornata del Consiglio dei ministri sulla legge di Stabilità, in Parlamento ha ripreso quota lo scenario del voto anticipato, vero argomento di discussione che tiene banco tra senatori e deputati. Ieri sera, per esempio, a Palazzo Madama l’ennesima fiducia, stavolta sul decreto per gli stadi, è passata con un altro voto “minimo”, 164. A questo punto è sempre più chiaro un ulteriore aspetto della delicata e complicata fase politica del renzismo: la guerra tra il premier e il Parlamento. Parlamento che non ha “eletto” o “nominato” lui, bensì il suo predecessore alla guida del Pd, Bersani. Proprio da parte dei bersaniani è in corso da settimane un conflitto a bassa intensità per logorare Renzi tra Montecitorio e Palazzo Madama. Il caso più vistoso è quello delle continue votazioni a vuoto dei due giudici della Corte costituzionali. Confessa un democrat di minoranza che non ha mai votato Luciano Violante, indicato dal Colle in quota Pd: “Siamo almeno 40 che boicottiamo Violante e il patto del Nazareno”. Un problema interno, quindi. Un grosso problema interno per il premier. Non solo. Se lo spauracchio è ogni volta il Senato, fino a quando i renziani dovranno fare di conto per calcolare le assenze strategiche, quelle occasionali, il soccorso azzurro e finanche i quotidiani cambi di casacca tra i centristi irrequieti di Alfano e Casini?
È lo stesso scenario già vissuto da Prodi nel biennio 2006-2008, nello stesso posto, al Senato, e anche da Berlusconi nella legislatura successiva, quando alla Camera sopravvisse per un po’ con i Responsabili di Scilipoti e Razzi al posto degli scissionisti di Gianfranco Fini. In questo scenario, che per il momento coincide con la realtà autunnale, Renzi è sotto tiro e ricatto in modo costante. Orellana come Scilipoti non è un paragone azzardato. Chi saranno i prossimi e quale sarà la contrattazione? Ma vedere il premier ripiegare sul metodo Verdini (lo sherpa berlusconiano del patto del Nazareno, protagonista delle più clamorose compravendite di parlamentari per conto di B.) sembra quasi innaturale. Altro che rottamazione. Altro che cambiare verso. Senza dimenticare che se Forza Italia decidesse di fare opposizione sul serio, al Senato la maggioranza andrebbe giù in pochissimo, come nel tragico inverno dell’ultimo Prodi, quello del 2008.
Poi c’è il paradosso più eclatante di questa fase (la politica italiana è eternamente bizantina e democristiana): i guerriglieri bersaniani che tengono l’odiato “Matteo” sulla graticola non tireranno la corda fino all’ultimo. Altrimenti l’articolo 18 avrebbe fornito la piattaforma perfetta per una rottura clamorosa, per una crisi di governo e persino per il lancio di un nuovo partito. Tutto ciò non è accaduto perché nei gruppi parlamentari eletti nel febbraio del 2013, in epoca prerenziana, prevalgono convenienze di parte e istinto di autoconservazione. E qui si arriva all’incognita più grande dell’attuale quadro: lo stesso premier. Non a caso, l’ipotesi della manovra elettorale viene attribuita a lui sia dagli amici sia dai nemici.
TRA RENZI e il voto anticipato c’è certamente il macigno della successione annunciata di Napolitano (anche se adesso circolano voci che smentiscono un addio a gennaio), ma la verità è che il premier non ha ancora deciso quale strada scegliere. Se la scilipotizzazione della sua maggioranza, sotto ricatto e sotto la tutela del soccorso azzurro oppure la tentazione di ribaltare tutto (compreso il tavolo europeo) e giocarsi la carta del voto anticipato a primavera. L’altra sera, ad Arcore, Berlusconi con alcuni suoi commensali si è detto fiducioso che Renzi non sceglierà la strada del voto anticipato. Al Condannato, con il crollo di FI, conviene lucrare sulla sua ritrovata centralità quanto più a lungo possibile, magari con un Renzi 2. Ma gli ultras del premier non dimenticano mai di far presente che “l’istinto di Matteo non è quello di campicchiare, è l’opposto”. Cioè, le urne. Colle permettendo.

il Fatto 16.10.14
Conflitto di interessi, la legge fa schifo persino al suo autore
Da oggi in aula il testo del berlusconiano Sisto
160 emendamenti di Pd e Forza Italia lo stravolgono
E nessuno è pronto a scommettere che arriverà al voto finale
di Paola Zanca


Francesco Paolo Sisto - pasdaran di Forza Italia, avvocato di Raffaele Fitto, l’ha firmata ma “non rappresenta il suo pensiero, anzi”. Il Pd l’ha votata ma giura che “non passerà mai in aula”. E 160 emendamenti sono già pronti a smontare il testo che è stato approvato una settimana fa. Eccolo qui, il Parlamento italiano di nuovo alle prese con il più annoso dei dibattiti, quello sul conflitto di interessi. Talmente scomposto, da far fatica a non dar retta al deputato Cinque Stelle Danilo Toninelli: alla buvette, all’ora della merenda, serve la sua sentenza. “Scriva pure così: sappiamo, per averlo sentito con le nostre orecchie da autorevoli parlamentari del Pd, che non c’è nessuna volontà politica di approvare la legge sul conflitto di interessi. Il Patto del Nazareno non si tocca”.
TUTTO era cominciato in pompa magna a maggio: inizio dell’esame in commissione, tre convocazioni piene di buoni propositi. Poi a giugno, tre incontri a vuoto, l’estate di mezzo, qualche audizione. E la data dell’8 ottobre praticamente alle porte. Per quel giorno, l’ufficio di presidenza della Camera aveva messo in calendario l’inizio della discussione in aula. Non si poteva rischiare di non presentarsi all’appuntamento con la storia: serviva un testo base. Così, Sisto ha assemblato i pezzi delle varie proposte e tirato fuori un “patchwork” già carico di 160 emendamenti. Ieri sera i capigruppo hanno deciso che le 21 non fossero orario per cominciare la discussione titanica. Se ne riparla oggi, ma non si trova un onorevole pronto a scommettere sulla fine di questa storia.
Il Pd Emanuele Fiano è categorico: “È un testo che non sarà mai legge con i voti del Pd. Basta leggere i nostri 50 emendamenti: lo demoliscono”. Il testo Sisto l’hanno votato solo per rispettare la tabella di marcia imposta da Montecitorio: “Che fine farà? Non ne ho idea, ora si entra in sessione di bilancio, siamo ancora in ballo con il voto sui giudici della Consulta... ”. Pier Luigi Bersani, anche lui in commissione Affari costituzionali, con un’aria tra il ribrezzo e lo sconforto, fa il diplomatico: “Quel testo? Perfezioniamolo”. Francesco Sanna, ancora Pd, guarda al bicchiere mezzo pieno: “Le posizioni tradizionali di Forza Italia sono molto lontane dalla proposta Sisto”.
ED EFFETTIVAMENTE, tra i fedelissimi di Silvio Berlusconi, girano umori altrettanto disgustati, seppur per ragioni opposte. Mariastella Gelmini, in commissione: “L’impronta profondamente illiberale del provvedimento emerge dal fatto che possedere un’impresa risulta essere una colpa”. Solo Gregorio Gitti (appena traghettato dagli ex montiani al Pd) pone il problema di chi illustrerà in aula tutta la vicenda: “Non comprendo, infatti, perché il Presidente Sisto abbia deciso di tenere esclusivamente per sé il ruolo di relatore in una materia così particolare e controversa”. Ma Gitti stia tranquillo, in quei pezzi di carta, Sisto non ci ha messo l’anima: “Ho dovuto fare un incrocio aritmetico, un’operazione asettica”, spiega. E rivendica la repulsione: “Quel testo non corrisponde al mio pensiero, anzi. Anche noi di Forza Italia abbiamo presentato una cinquantina di emendamenti. Le assicuro, lo stravolgono”.

Formiche.net 15.10.14
L’Unità: cercasi editore disperatamente
di Carlo Patrignani

qui

Corriere 16.10.14
Il saggio, la farfalla e gli altri: tutti i sogni della Cina. Incubi inclusi
Sette giorni di eventi a Napoli nel nome di Confucio, fra letture e spettacoli
Con la tentazione di toccare i temi vietati
di Marco Del Corona


Il «sogno cinese», che anima e agita la retorica e la propaganda di Pechino dall’avvento del nuovo leader Xi Jinping, non è nato ieri. Non due anni fa, quando il congresso del Partito comunista ha scelto il suo nuovo segretario, né nel decennio precedente, durante il potere di Hu Jintao.
«Quello che Xi ha scelto rifacendosi al sogno americano degli anni Cinquanta, è in realtà un topos , un luogo letterario che attraversa tutta la cultura cinese, basti pensare alle pagine del Zhuangzi ...», ed è su questa linea che correrà la quarta edizione del festival napoletano MilleunaCina, come spiega Annamaria Palermo, direttore dell’Istituto Confucio partenopeo. Il filosofo Zhuangzi («maestro Zhuang»: l’autore e la sua opera condividono il nome...) sogna la farfalla e scrive, nel terzo secolo avanti Cristo, chiedendosi se sia un uomo che sogna una farfalla o non piuttosto una farfalla a sognare un uomo: è lui, nel segno del taoismo, l’antecedente della massiccia, talvolta brutale assertività della seconda potenza mondiale di oggi.
«Il sogno è una presenza continua, e lo seguiremo in tutte le manifestazioni in cui la cultura cinese lo ha declinato», spiega la sinologa. L’evento dunque occuperà — da lunedì 20 a domenica 26 — luoghi diversi di Napoli ed è organizzato in collaborazione con l’assessorato comunale alla Cultura, con la Sovrintendenza, con l’Accademia di Belle arti e con il Teatro stabile Mercadante. Sono in cartellone conferenze e dibattiti, spettacoli e concerti, letture e mostre di pittura, film (con un paio di proiezioni degli anni Trenta) e design (quello napoletano a Tianjin). Parteciperà, il 20, anche Xu Lin, rango di viceministro, direttore dell’Hanban, ovvero potente responsabile dei 465 Istituti Confucio presenti in 123 Paesi, lo strumento essenziale (e controverso) dell’offensiva della Repubblica Popolare con le armi della promozione culturale e del soft power . Tuttavia, così come nell’edizione del 2013 era stata inclusa una lettura di brani di Gao Xingjian (il Nobel del 2000, naturalizzato francese, detestato da Pechino in quanto «traditore»), anche quest’anno la trattazione dei temi promette di toccare nodi sensibili che, di solito, allarmano e irritano le autorità cinesi.
«La mia lettura del “sogno” è critica, non trionfalistica», dice Palermo, e dunque passando per il Sogno della camera rossa, classico tra i classici della narrativa cinese, si arriva al sogno virato in incubo della contemporaneità, fra gli aborti forzati del Nobel 2012 Mo Yan e lo sguardo insolente di Yu Hua, scrittore fattosi con gli anni via via più duro nei confronti del sistema di potere e di condizionamento della Cina. Al cuore del problema punterà la tavola rotonda del 25 con la stessa Palermo, con Marisa Siddivò, che del «sogno» affronterà gli aspetti economici, e Paola Paderni, sinologa dall’intensa pratica della Cina, che tratterà il versante politico .

Corriere 16.10.14
Londra apre alla Palestina pensando al voto islamico
di Luigi Ippolito


Non è giunto come una sorpresa il voto di lunedì scorso del Parlamento britannico a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina. Un voto che non impegna il governo di David Cameron, ma che costituisce comunque un segnale politico.
Non è una sorpresa per chi avesse assistito questa estate alle manifestazioni a Londra in solidarietà con la popolazione di Gaza. Hyde Park gremito all’inverosimile, le zone circostanti e le stazioni della metropolitana invase dalle bandiere palestinesi. Ma ciò che colpiva era la composizione «culturale» dei dimostranti: in piazza c’era sostanzialmente la comunità musulmana britannica. E non barbuti imam di periferia, bensì intere famigliole agghindate coi colori della Palestina.
E proprio in quei giorni il sottosegretario agli Esteri, la baronessa Warsi, primo esponente musulmano nel governo, rassegnava le dimissioni in polemica con l’atteggiamento del gabinetto Cameron, ritenuto troppo schiacciato su Israele.
Un segnale considerato allarmante dai giornali britannici. Che facevano notare come il premier Cameron, alienandosi le simpatie della comunità musulmana (il 5% della popolazione), rischiasse di giocarsi la rielezione. Un’osservazione che deve essere stata tenuta in conto, visto che i deputati conservatori lunedì hanno ricevuto libertà di voto.
Lo stesso discorso può essere fatto per la Francia, dove pure le manifestazioni pro-palestinesi dell’estate hanno visto scendere un piazza una generazione di bobos musulmani, borghesi bohémien , più che emarginati delle banlieue . E il ministro degli Esteri di Parigi a fine agosto ha aperto alla possibilità di un riconoscimento della Palestina.
La questione è univoca: più le società europee — e il loro elettorato — diventano multietniche, più assumono peso componenti culturali distanti dalla tradizionale solidarietà con Israele. Ed è inevitabile che le élite politiche finiscano per tenerne conto.
Col rischio, per Israele, di un crescente isolamento internazionale.

Repubblica 16.10.14
“L’America diede i gas a Saddam Ora sono nelle mani dei jihadisti dell’Is”
Il New York Times: soldati feriti dall’arsenale L’Italia tra i produttori delle armi chimiche
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK Quando il 19 marzo 2003 gli Stati Uniti invasero l’Iraq, la Casa Bianca di George W. Bush aveva come obiettivo dichiarato le “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Quello che i soldati Usa trovarono realmente — nel corso di una guerra durata anni (e adesso ripresa, sotto altra forma, da Obama) — furono i resti di un grande arsenale chimico, nascosto o abbandonato da anni in diverse aree del Paese, ridotto a vecchia ferraglia ma ancora pericoloso per la presenza di agenti chimici come il gas mostarda e il gas nervino. Ora il New York Times con una grande inchiesta- scoop rivela quello che, fino a ieri, era stato uno dei segreti meglio custoditi di quella guerra: le truppe americane (e irachene) scoprirono almeno 5mila armi chimiche e diversi soldati americani e iracheni ne furono feriti.
Quelle “armi di distruzione di massa” risalivano agli Anni Ottanta ed erano state progettate e costruite in Occidente per Saddam, quando era ancora considerato un “alleato”. E gli Usa erano consapevoli che Saddam le avrebbe potute usare contro l’Iran. L’Italia e la Spagna entro il 1988 avevano venduto all’Iraq 85mila proiettili M110 per agenti chimici. Una brutta storia, tenuta nascosta dal Pentagono e con una pericolosa aggravante: alcune di quelle armi oggi potrebbero essere finite in mano ai terroristi dello Stato Islamico o di Al Qaeda.
Basandosi su documenti militari top secret desecretati grazie al Freedom Information Act e a decine d’interviste e testimonianze con protagonisti diretti, il New York Times racconta come la Casa Bianca (inizialmente quella di Bush, poi quella di Obama) e il Pentagono diedero ordine di non rivelare il ritrovamento delle 5mila testate missilistiche seppellite da anni sotto terra o nascoste in capannoni ed edifici abbandonati. Un grande arsenale scoperto un po’ ovunque in sette anni (dal 2004 al 2011) durante i quali “almeno in sei occasioni” diciassette soldati Usa e sette ufficiali di polizia iracheni sono rimasti feriti per l’esposizione al gas nervino o all’iprite e «la segretezza in alcuni casi ha impedito che i soldati esposti agli agenti chimici venissero curati in maniera appropriata». Secondo altre fonti del quotidiano, il numero sarebbe anche più alto, ma la cifra esatta resta “secretata” per decisione del governo. In questi anni il Congresso sarebbe stato “solo parzialmente” informato della questione. Come racconta Jarrod L. Taylor, ex sergente dell’esercito, l’opinione pubblica è stata ingannata per un decennio: «L’Iraq era pieno di armi chimiche, abbiamo vittime che ufficialmente non risultano, feriti da armi che ufficialmente non esistono».
Diversi ritrovamenti e vari “incidenti” con armi chimiche sono avvenuti tra le rovine dell’impianto di Muthanna, il centro iracheno di produzione di agenti chimici negli anni Ottanta, che dal giugno scorso è finito nelle mani dei militanti dello Stato Islamico che ancora lo controllano. In una lettera inviata quest’estate alle Nazioni Unite, il governo iracheno spiegava che “circa 2.550 missili a testata chimica” (sia pure rovinati) erano ancora nell’area nei giorni in cui i terroristi islamici la conquistavano.

Corriere 16.10.14
Arin, dall’università alle trincee
«Noi, ragazze curde contro l’Isis»
La battaglia di Kobane nel racconto della 19enne: «La mia famiglia mi sostiene»
di Lorenzo Cremonesi


MURSITPINAR (Frontiera turco-siriana) «Quei mostri ci vogliono umiliare. Minacciano di decapitare quelle tra noi che cadono prigioniere, perché dicono che i loro uomini uccisi nella cosiddetta guerra santa dalle donne nemiche non vanno in paradiso. Che stupidi! Che terribili stupidi e ignoranti Non sanno che comunque andranno tutti all’inferno?». Ride, ride di gusto Arin Mahmud Mohammad. Ha solo 19 anni, ma dal cellulare il timbro leggero della voce sembra molto più giovane, una bambina. Timida, allegra, eppure anche terribilmente seria. È in prima linea con le brigate dei curdi siriani che combattono in difesa della cittadina di Kobane. Da un mese resistono all’assedio dei guerriglieri jihadisti del cosiddetto Stato Islamico. «Li vedo tutti i giorni quei criminali. Sono ad un centinaio di metri dalla nostra postazione. Bestie che non hanno nulla di umano, che godono nel terrorizzare e torturare civili inermi e prigionieri. Sono animali: si muovono come animali, agiscono come animali», aggiunge.
A dire il vero Arin ci fa anche vergognare un poco. Noi qui al riparo, dietro i fili spinati del confine controllato notte e giorno dalle unità corazzate turche. E lei invece esposta sulle barricate che sorvegliano i quartieri sud-orientali, dove più profondamente sono penetrate le avanguardie jihadiste. Un anno fa ha abbandonato la facoltà di ingegneria edile all’università di Aleppo ed è tornata dalla famiglia a Kobane per battersi tra la sua gente. Per lunghi mesi si è addestrata all’uso delle armi. Come tante, si è anche data un nome di battaglia: Nesrin, una sorta di stella alpina del Medio Oriente. «I miei genitori e sei tra fratelli e sorelle sono profughi in Turchia. Da oltre un mese vivono nella cittadina di Soruch, a soli quindici chilometri dal confine. Ma mi sostengono pienamente, ci sentiamo spesso per telefono e sono fieri che io sia qui a difendere le nostre case». Non è facile però restare ben sapendo che il rischio è altissimo. A metà settembre erano un migliaio le donne soldato nell’enclave isolata di Kobane. Poi sono diminuite.«Adesso siamo rimaste in 450 combattenti del Ypj», specifica lei utilizzando l’acronimo che indica le «Unità di autodifesa femminili», in poche parole le donne soldato curde siriane, che sono trattate in tutto e per tutto al pari dei commilitoni maschi. Combattono come loro, muoiono come loro. I jihadisti hanno diffuso sulla rete le foto di almeno tre sue compagne decapitate. Altre immagini mostrano soldatesse morte con le mimetiche insanguinate, i capelli lunghi trasformati in blocchi di polvere e fango, mischiate tra mucchi di cadaveri scomposti. Il momento più pericoloso? «È stato venerdì scorso. Ero con la mia unità nel nostro quartier generale in pieno centro, quando siamo stati attaccati a colpi di mortaio. Ho visto morire dodici compagni, altri quindici erano feriti gravi. Siamo riusciti a scappare. Dopo esattamente 25 minuti i caccia americani hanno bombardato, distruggendo l’intero edificio».
Tuttavia, ieri Arin-Nesrin aveva ben motivo per essere sollevata. «Ormai da tre giorni è evidente che i raid aerei americani assieme agli alleati hanno finalmente fermato l’avanzata dello Stato Islamico su Kobane. Non so quanto durerà. Ma adesso il nostro morale è molto migliore che non la settimana scorsa. Ho visto le bombe americane distruggere con precisione i carri armati e i cannoni che stavano per ucciderci tutti. Noi curdi siamo passati dalla difesa all’attacco. E abbiamo ricevuto cibo e acqua in quantità sufficienti per tre mesi», ci ha detto. A riprova ci fa avere la foto di lei assieme ad alcuni commilitoni ripresa da una compagna due o tre giorni fa nei pressi della sommità della collina di Mishtanur, che domina da sud tutta la cittadina. Quando due settimane orsono i jihadisti vi avevano piantato sulla cima la loro bandiera nera, Kobane era stata data per spacciata. Ora anche Arin col suo sorriso semplice e disarmante è lì, di guardia.

Repubblica 16.10.14
L’ultimo segreto di Alessandro Magno
Viaggio alla scoperta dei misteri di un miracolo archeologico, tra fascinose cariatidi, sfingi acefale e mosaici mai visti
Gli studiosi si dividono, giornali e tv si scatenano, i turisti si accalcano, la domanda è una sola: davvero questo mausoleo del IV secolo era la tomba del grande macedone?
di Pietro Del Re


AMPHIPOLIS. IL ronzio di un generatore è il solo indizio delle attività che fervono nelle viscere del tumulo Kastà, una collina argillosa tra i mandorleti dell’antica Amphipolis. A duecento metri dall’entrata degli scavi, ci ferma un poliziotto intirizzito dal vento gelido che scende dal vicino Monte Pangeo. L’ingresso al più grande monumento funebre mai rinvenuto in Grecia è ancora vietato ai più. Mezz’ora dopo, lo stesso cerbero in divisa bloccherà un ambasciatore che da Atene ha appena percorso 700 chilometri per visitare il ritrovamento archeologico, la tomba del Quarto secolo prima di Cristo che fa trepidare un intero Paese e che qualcuno sta già usando come antidoto patriottico contro le devastazioni della crisi economiche. Al momento, il solo non addetto ai lavori penetrato là sotto è stato il premier greco Antonis Samaras, che lo scorso agosto, con le scarpe ancora inzaccherate di fango, ha dichiarato che da questa straordinaria scoperta partirà il rinascimento della Grecia, «perché sono certo che qui sia sepolto un grande». In attesa che gli esperti riescano a svelare di chi sia la tomba di Amphipolis, l’intera Ellade è sospesa nel limbo delle illazioni, mentre i suoi abitanti trattengono il fiato per la prossima apertura della quarta stanza sotterranea, che è forse la camera funeraria. Ma può davvero esserci Alessandro il Grande, come tutti sperano? L’ipotesi è stata scartata da molti studiosi, ma non da tutti. Lo storico Sarantos Kargakos sostiene che Olimpiade, madre di Alessandro, fece segretamente trasferire il corpo di suo figlio ad Amphipolis: «L’imponenza del monumento è la prova che fosse dedicato a una delle più importanti personalità dell’epoca. E a quei tempi chi era più importante di Alessandro?». La teoria di Kargakos sembra confortata dal fatto che la collina non nasconda, come si credeva, molte tombe macedoni, bensì un unico grande mausoleo, di ciclopiche proporzioni: 498 metri di circonferenza, 87 di diametro, con al suo interno tre stanze finora esplorate che contengono due Cariatidi di grandiosa raffinatezza, due sfingi decapitate messe a guardia dell’ingresso e un ampio mosaico di cui si è venuti a sapere solo tre giorni fa.
Dallo scorso luglio, lo scavo è seguito con lo stesso entusiasmo di una storica finale calcistica, probabilmente anche come risposta psicologica alla grande crisi — ieri Atene si è di nuovo trascinata le Borse negli abissi — che ancora attanaglia il paese. Quindi la copertura mediatica è totale. «È diventato un reality show dell’archeologia, e tutti i greci aspettano con il batticuore la puntata successiva», dice Nikolaos Zirganos, cronista del quotidiano Ephimeride Syntakton , una cui recente inchiesta sul traffico illegale di reperti ha fatto sì che importanti musei americani restituissero alla Grecia i pezzi trafugati. «Ogni giorno i quotidiani dedicano almeno due pagine ad Amphipolis, e tutte le televisioni ci aprono i loro tiggì. È diventata un’ossessione. E c’è da chiedersi perché ciò avvenga solo per questa tomba, di cui ancora non si è certi al cento per cento che sia di epoca alessandrina, né se sia stata già trafugata o meno dai tombaroli, mentre ci sono oggi altri trecento scavi altrettanto importanti in Grecia».
Ovviamente una scoperta di un simile calibro offre materia a non finire per le polemiche. La figlia del grande archeologo Dimitri Lazaridis, che negli anni Sessanta scavò ad Amhipolis, ma che non ebbe la fortuna di rinvenire le camere con le sfingi e le cariatidi, ha scritto una lettera ai giornali per denunciare l’eccessivo battage che circonda il recente ritrovamento. Altri studiosi criticano invece il metodo «poco scientifico» che accompagna la divulgazione dei lavori in corso. Dice Yannis Karliambas, eminente membro dell’Associazione degli archeologi greci: «Non mi piace l’enfasi che circonda il tumulo Kastà, perché è puramente politica. Prima di svelare il contenuto di uno scavo è necessario attendere la fine dei lavori. Si deve poi valutare l’importanza dei pezzi ritrovati, pubblicare il tutto e aspettare le reazioni dei colleghi, per trarre finalmente le prime conclusioni». Qui avviene l’esatto contrario, con il ministero della Cultura, anzi la pagina Facebook di una giornalista di Salonicco assunta ad hoc dal ministro stesso, che quotidianamente ammannisce foto e commenti sulla tomba. Quando gli chiediamo se anche lui crede che Amphipolis possa ospitare Alessandro Magno, Karliambas dice: «Da archeologo, non voglio neanche rispondere a una domanda del genere. Ma se vuole il mio parere personale, le dirò che lo escludo categoricamente. Semmai può essere la tomba di un generale di Alessandro, o di un suo parente. Di certo non è la sua».
Ma sono solo sterili polemiche secondo lo scrittore ateniese Christos Ikonomou, che ha narrato la crisi greca in sedici racconti tradotti anche in italiano ( Qualcosa capiterà, vedrai , Editori Riuniti). Sostiene Ikonomou: «È meraviglioso che un popolo oppresso da tanti mali ritrovi la luce ritornando al suo glorioso passato. C’è tanta fierezza nella riscoperta di questa nostra antica grandeur . La speculazione e la propaganda nazionalistica sul tumulo Kastà è purtroppo il rovescio della medaglia di questa vicenda. Ma anche se i politici cercano di distrarre i greci dai loro problemi sfruttando le scoperte di Amphipolis, non mi sento di condannarli perché i loro schiamazzi serviranno comunque a far ripartire il turismo e l’economia locali, oltre che a tenere alto il nome della Grecia nel mondo».
Intanto, a Mesolakkia, il paesino agricolo più vicino allo scavo, gli abitanti sognano l’arrivo di una nuova, insperata ricchezza. Molti di loro sono già stati contattati da agenzie immobiliari che con folgorante tempismo intendono acquistare terre in loco per potervi costruire alberghi o ristoranti il giorno che la tomba verrà finalmente aperta al pubblico. All’unico bar del villaggio, incontriamo Stelos Zurnagis, agricoltore «ma non per molto tempo ancora», fermamente convinto che quella tomba sia di Alessandro. Dice Zurnagis, sfregandosi le mani: «Anche se gli archeologi ancora non si pronunciano, e anche se lo scavo è chiuso al pubblico, nei weekend già arrivano migliaia di curiosi da tutto il pianeta. Deve spesso intervenire l’esercito per tenerli alla larga dal tumulo Kastà». Come a dire che per lui e per gli altri contadini di Mesolakkia la quarta stanza del mausoleo, o la quinta e la sesta se dovessero esserci, sono già piene d’oro.

Repubblica 16.10.14
La suggestione di Amphipolis la terra dei sepolcri dei re
di Paolo Matthiae


IL FASCINO avvincente della scoperta archeologica dipende dalla combinazione dell’attrazione derivante dalla concretezza materiale del ritrovamento e della suggestione imposta dal recupero della memoria del passato. Quel fascino è potenziato quando l’oggetto della scoperta è una tomba, è moltiplicato quando la tomba è di un personaggio regale, è al culmine se il titolare della tomba è un protagonista della storia. Di qualunque paese e di qualunque epoca.
La ricchezza, materiale o artistica, dei corredi e la grandiosità degli allestimenti funerari rendono queste scoperte leggendarie. La seconda metà del Novecento ha conosciuto almeno tre casi esemplari. Il rinvenimento, accidentale, in Cina nel 1974 di un settore della tomba di Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina, morto nel 210 a.C., presso Xi’an, con il suo spettacolare esercito di oltre 6.000 guerrieri di terracotta. La scoperta, tra il 1977 e il 1980, ad opera di Nicolis Andronicos, del grande tumulo di Vergina, non troppo lontano da Salonicco, dove si ritiene verosimile che sia stato sontuosamente sepolto Filippo II di Macedonia, il padre di Alessandro Magno, morto nel 336 a.C. Il ritrovamento in Perù nel 1987, da parte di Walter Alva della ricchissima tomba del cosiddetto Signore di Sipàn, un capo della cultura Moche, morto probabilmente nel III secolo d.C.
L’immaginario collettivo è stato sempre fortemente sollecitato, ieri come oggi, dalla speranza di trovare le tombe dei grandi uomini del passato. Nel Medioevo si sognava di trovare la tomba di Re Artù e nel 1191 i monaci di Glastonbury ritennero che la sepoltura di due personaggi di grande statura non poteva che essere quella del “famoso re Arturo, con Ginevra sua seconda moglie, nell’isola di Avalon”. Ancora oggi, le complesse ricerche archeologiche ad Alessandria non sono estranee all’idea di trovare tracce della celebre tomba del grande macedone, in cui fu sepolto dopo la traslazione del corpo da Babilonia dove finì i suoi giorni e il mistero della sepoltura di Gengis Khan, morto nel 1227, è una delle suggestioni che promuovono ricerche archeologiche in Mongolia.
Finora senza troppo scalpore malgrado diverse dichiarazioni ufficiali anche delle massime autorità della Grecia, l’antica colonia attica di Amphipolis in Macedonia è stata ripetutamente ricordata nelle cronache degli ultimi anni, da quando nel 2012 fu annunciato l’inizio degli scavi di un gigantesco tumulo funerario della fine del IV secolo a.C., lungo poco meno di 500 metri, circondato da un muro perimetrale alto ancora quasi 3 metri costruito in marmo di Thassos. La tomba di Amphipolis è il più monumentale sepolcro finora scoperto in Grecia ed è circa dieci volte più grande della tomba di Vergina attribuita a Filippo II.
Che la tomba di Amphipolis sia stata costruita per un personaggio regale è fuor di dubbio. Due sfingi alate oggi acefale vigilavano all’entrata. Una gigantesca statua leonina, oggi sistemata a qualche distanza dalla tomba, doveva essere, secondo Katerina Peristeri, responsabile dello scavo, il coronamento del monumento funerario. Uno splendido mosaico con la raffigurazione di Ermes che con il suo carro conduce nell’Ade il corpo dell’inumato, appena scoperto in uno dei primi vani della tomba ha un soggetto particolarmente appropriato: Ermes introduce nell’Oltretomba le anime dei defunti e sul celebre Cratere di Eufronio Ermes è rappresentato mentre assiste al trasporto del corpo di un eroe troiano nell’Aldilà.
La tomba fu certo saccheggiata in età romana e il mistero su chi vi fu sepolto o per chi fu costruita non è certo che sarà risolto alla fine della sua esplorazione. L’ipotesi più verosimile è che sia stata costruita, forse addirittura ad opera di Dinocrate un grande architetto amico di Alessandro, per uno dei diadochi o uno dei grandi generali del conquistatore macedone.
Ma come escludere che la spettacolare tomba non fosse proprio destinata ad Alessandro, dato che le fonti antiche ricordano che le spoglie del signore dell’Asia dovevano raggiungere la Macedonia per essere sepolte nella patria del gran re e che furono invece inopinatamente sottratte da inviati del fedelissimo Tolomeo per tumularle ad Alessandria? E, se questa ipotesi di eccezionale suggestione fosse fondata, chi mai avrà osato disporre di essere sepolto nel monumento funerario destinato al divino Alessandro? ( l’autore è archeologo, scrittore e orientalista, ed è stato direttore della spedizione italiana ad Ebla. Il suo ultimo libro è La città del Trono , Einaudi)

Repubblica 16.10.14
Il Met si allarga per far posto a Picasso e Léger
Il museo di New York ospiterà la maxi-collezione dell’erede Lauder Al via i lavori per la nuova ala
di Federico Rampini


NEW YORK È UN nuovo record nella storia pur ragguardevole del mecenatismo americano. Forse la più grande collezione privata di dipinti cubisti, un miliardo di dollari di valore. Donati in un colpo solo al Metropolitan Museum. Un regalo così “ingombrante” da costringere il museo ad ampliare i propri spazi, costruendo un’ala nuova e invadendo altri edifici. Un colpo grosso che rilancia il Metropolitan nella gara fra titàni dell’arte mondiale: il museo newyorchese insegue da anni il primato del Louvre (12 milioni di visitatori all’anno). Una competizione nella quale purtroppo i musei italiani non figurano neppure come comparse (non ce n’è uno nella Top Ten). Il protagonista dell’ultimo gesto è il miliardario Leonard Lauder, 81 anni (tanti quanti i quadri che ha appena donato), erede della fortuna di Estée Lauder, nonché tuttora azionista e presidente onorario della multinazionale dei cosmetici.
Lauder è uno dei più grandi collezionisti mondiali, con una particolare predilezione per la fase cubista di Picasso, Georges Braque, Juan Gris e Fernand Léger. Ha messo insieme negli ultimi trent’anni una collezione privata così immensa, che non vuole rischiare la sua dispersione fra eredi quando lui non ci sarà più. Perciò, seguendo la miglior tradizione dei capitalisti-mecenati d’America, ha deciso che i suoi figli non avranno quel patrimonio di arte. Perché rimanga unito, ha voluto donarlo in blocco al più grosso museo di New York. «Faccio fare al Metropolitan un salto nel XXI secolo», ha dichiarato senza troppa modestia. Lunedì il Met inizia a esporre una parte di questo tesoro. Ma i capolavori del cubismo saranno visibili integralmente solo al termine di una colossale ristrutturazione. Pur essendo molto vasto, il Met non è attrezzato a ricevere e ospitare una donazione così grossa. Lauder ha posto condizioni precise, perché il suo regalo abbia l’ospitalità che merita e sia esposto in permanenza nella sua totalità (lui stesso aveva escluso di darlo al museo che già possiede, la Neue Gallerie: troppo piccola).
Il «salto nel XXI secolo», sta anche nel fatto che finora l’arte contemporanea era il piatto forte di altre istituzioni concorrenti: dal MoMa al Guggenheim al Whitney. Ma il Met non si è fatto pregare, ha accettato di riconvertirsi incorporando una nuova vocazione, pur di onorare le richieste di Lauder. Sono iniziati i lavori di rinnovo e ampliamento di un’intera ala del museo, la Lila Acheson Wallace Wing. Inoltre il Met ha già prenotato gli spazi del Whitney Museum, che a sua volta sta per traslocare dalla sede storica della Madison Avenue nell’Upper East Side a quella nuova disegnata da Renzo Piano vicino alla High Line. «Questa nuova collezione — ha detto il direttore del Met Thomas Campbell — è come un catalizzatore, che ci spinge a dare una nuova presentazione a tutta l’arte del XX secolo. Era ora che lo facessimo». Tra i capolavori c’è il Nudo su una sedia di Picasso, e c’è anche una scoperta a sorpresa: dietro la Casa sotto gli alberi di Fernand Léger gli esperti hanno ritrovato un altro dipinto nascosto dello stesso artista.

Repubblica 16.10.14
L’universo parla con i numeri
Nella vita quotidiana incrociamo di continuo la matematica, quasi sempre senza accorgercene
Una mostra inaugura oggi a Roma per aprirci gli occhi
di Vera Schiavazzi


Una mostra dedicata ai numeri che ha l’ambizioso obbiettivo di parlare a tutti: dai bambini agli adulti, da chi ha sempre pensato di detestarli a chi invece ritiene di amarli, da chi li pratica per lavoro o addirittura li ha come proprio genere di studio. Si intitola “Numeri. Tutto quello che conta, da zero a infinito”, e durerà da oggi al 31 maggio, a Roma, con l’Alto patronato del presidente della Repubblica. È il coordinatore scientifico Luigi Civalleri a raccontarla: «La prima ispirazione è stata quella di fare vedere che i numeri non sono né “buoni” né “cattivi”, bensì oggetti naturali con i quali tutti noi siamo predisposti a trattare. La nostra è una civiltà quantitativa, comprese le unità di misura che usiamo tutti i giorni e che qualche volta ignoriamo». Ma questa è solo la ragione “preliminare”. «Una mo- stra del genere», spiega Civalleri, «non è mai stata fatta in Italia. Ad averci prestato oggetti sono soprattutto i musei di scienze umane, perché è a loro che abbiamo chiesto di aiutarci a narrare quali personaggi e storie stessero dietro alle grandi scoperte sui numeri».
Se prendiamo Pi greco, uno dei numeri forse più famosi, attraverso di lui possiamo raccontare chi era Archimede, ma anche storie dell’Europa del Seicento. Lo zero ha una storia intricatissima, che a un certo punto lo porta a Samarcanda. E Leonardo Fibonacci, matematico pisano vissuto tra il 1170 e il 1240, uno degli studiosi del suo tempo che fece di più per la rinascita delle scienze esatte, verrà invece raccontato come il primo a far marciare insieme i procedimenti della geometria araba euclidea con gli strumenti matematici di calcolo elaborati dalla scienza araba e alessandrina.
«Abbiamo creato laboratori che partono dai tre anni e vanno avanti fino a tutta l’età adulta», dice Luigi Civalleri. «L’idea è che la mostra sia accogliente e interattiva e che parta da legno e colori fino ad arrivare all’hi- tech. Chi si è sentito fino ad ora “respinto” dai numeri può venire qui e scoprire, attraverso begli oggetti, che le cose possono apparire diverse. Chi invece arriva qui già convinto, troverà elementi che non conosceva, magari in grado di stupirlo. Si giocherà con i numeri. La sede, il Palazzo delle Esposizioni, ci sarà di grande aiuto con i suoi spazi molto grandi».
Promosso da Roma Capitale, a cura di Claudio Bartocci e con Maria Coppiano come progettista dell’allestimento, la mostra è stata organizzata anche da Codice, che ne ha tra l’altro curato il catalogo. «È la prima volta», sostiene Bartocci, «che il numero viene usato in quanto focus, e non solo come una parte indispensabile a raccontare una storia, come per esempio avviene a Milano nella mostra assai bella dedicata a Archimede».
Si parte dal senso dei numeri e si procede un passo dopo l’altro verso i gesti e i segni per contare, il fascino dell’irrazionale, gli strumenti e le macchine del calcolo, il segreto del cerchio, l’ambizione di misurare il mondo, la “e” come nuova base e la “i” come numero immaginario, tutto ciò che oscilla tra zero e infinito e gli enigmi dei numeri primi. Non resta che consigliare a chi decide di visitare di tenersi almeno quattro ore: il minimo indispensabile per cambiare idea, o per farsene di nuove.

Repubblica 16.10.14
Olfatto
Cuore, pelle e polmoni tutto il corpo sente gli odori
Non solo nel naso: i sensori chimici si trovano in diversi organi
Con un ruolo centrale per le funzioni fisiologiche
di Alex Stone


L’OLFATTO è una delle più antiche prerogative umane, eppure secondo gli scienziati potrebbe essere l’ultima a essere compresa fino in fondo. Solo agli inizi degli anni Novanta, infatti, i biologi hanno descritto il funzionamento dei recettori olfattivi — i sensori chimici interni al nostro naso — con una scoperta che valse al suo autore il Premio Nobel.
Da allora, però, le cose si sono complicate: nell’ultimo decennio gli studiosi hanno scoperto che i recettori olfattivi sono disseminati in tutto il corpo — nel fegato, nel cuore, nei reni e perfino nello sperma — dove rivestono un ruolo fondamentale per una serie di funzioni fisiologiche.
Adesso un gruppo di biologi della Ruhr University Bochum in Germania, coordinato da Hanns Hatt, ha dimostrato che la nostra pelle è ricoperta di recettori olfattivi. Non solo: esponendo uno di questi recettori (denominato OR2AT4) all’odore sintetico di legno di sandalo si innesca un effetto a cascata di segnali molecolari che incoraggerebbero il processo di guarigione di un tessuto danneggiato. Una scoperta che potrebbe portare alla messa a punto di cosmetici contro l’invecchiamento della pelle e di trattamenti per favorire la guarigione dopo un trauma fisico.
La presenza dei recettori olfattivi fuori dal naso potrebbe sembrare bizzarra ma sono tra i sensori chimici più antichi dal punto di vista dell’evoluzione, in grado di individuare non solo i composti trasportati per via aerea. «Se si pensa ai recettori olfattivi come a rivelatori chimici specializzati ha senso il fatto che si trovino in altri posti» dice Jennifer Pluznich, assistente di fisiologia alla Johns Hopkins University che nel 2009 ha scoperto che contribuiscono a controllare il funzionamento metabolico e regolano la pressione sanguigna nei reni dei topi. Si pensi dunque ai recettori olfattivi come a un sistema fatto di serratura e chiave, nel quale la molecola olfattiva è la chiave e il recettore è la serratura. Soltanto determinate molecole si adattano a determinati recettori. Quando la molecola attiva il recettore corrispondente mette in moto una serie di reazioni biochimiche. All’interno del naso questo processo culmina con l’invio di un segnale nervoso al cervello, che noi percepiamo come odore. Lo stesso sistema, però, può svolgere anche altre funzioni biologiche.
Hatt è stato uno dei primi a studiarle. Nel 2003 ha scoperto che i recettori olfattivi nei testicoli funzionano come una sorta di guida che permette alle cellule spermatiche di trovare la strada verso l’uovo non fecondato, dando così un’interpretazione nuova al concetto di “chimica sessuale”.
Da allora ha individuato recettori olfattivi in numerosi organi. Nel 2009 con il suo team ha scoperto che esponendoli a un composto olfattivo delle violette e delle rose si potrebbe inibire la diffusione delle cellule tumorali della prostata. Lo stesso anno Grave Pavlath, biologa dell’Emory University, ha pubblicato uno studio sui recettori olfattivi nei muscoli scheletrici: immergerli nel Lyral, un aroma sintetico al profumo di mughetto, favorisce la rigenerazione del tessuto muscolare. Al contrario, bloccandoli questa si inibisce. Ne deriva che i recettori olfattivi sono una componente indispensabile nel sistema di segnalazione biochimica che fa sì che le cellule staminali si trasformino in cellule muscolari e riparino il tessuto danneggiato.
Tutto sommato, però, questa scoperta non deve sorprendere. I recettori olfattivi sono il più ampio sottogruppo di recettori accoppiati alle proteine G (Gpcr), scoperte sulla superficie delle cellule, che consentono a queste ultime di percepire ciò che accade intorno. Questi recettori sono presi di mira dai farmaci — il 40 per cento di tutte le sostanze farmaceutiche raggiunge le cellule tramite i Gpcr — e ciò promette bene per la cosiddetta medicina a base di profumo.
Tuttavia, malgrado i progressi recenti, gli scienziati sono riusciti ad abbinare soltanto un numero esiguo di recettori (ne abbiamo 350 tipi diversi) ai componenti chimici specifici. Non è chiaro neppure se questi si siano evoluti a partire dal naso. «Sono chiamati così perché li abbiamo individuati nella sede per eccellenza dell’olfatto» dice Yehuda Ben-Shahar, biologo della Washington University di St. Louis che ha pubblicato un articolo sui recettori olfattivi presenti nel polmone. «Ma resta da scoprire quale di questi recettori si sia evoluto per primo».
(© 2-014, The New York Times. Traduzione di Anna Bissanti)

Beni Culturali 15.10.14
Raddoppia il Parco archeologico della Via Latina
500 metri di percorsi didattici e nuova illuminazione per i sepolcri ipogei

Dal 17 ottobre il Parco archeologico della via Latina raddoppia. Sulla nuova superficie offerta al pubblico, quasi 2 ettari, i visitatori potranno ripercorrere un lungo tratto della via Latina, che per oltre cento metri conserva la pavimentazione integrale che aveva in età romana
IL VIDEO QUI
si ringrazia Annamaria Ugolotti

«Per lui la filosofia greca non è stata altro che una lunga preparazione - voluta e guidata “ab aeterno” da dio (sic!) - al pensiero cristiano...»
La Stampa 16.10.14
Addio a Giovanni Reale, grande interprete di Platone

Con Antiseri scrisse «Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi»
qui

La Stampa 16.10.14
L’ultima intervista a La Stampa: “Il libero arbitrio esiste”

qui

«Da buon cattolico egli difese le ragioni della vita. (...) Amava Platone da platonico, quale riteneva di essere (...) Negli ultimi anni, si interessò alla filosofia di Martin Heidegger. C’è bisogno di idee forti, altro che pensiero debole, aveva sostenuto, vedendo crescere l’interesse attorno alla figura di questo controverso pensatore. Contrariamente a quello che in genere si pensa, e cioè che Heidegger sia un antimetafisico, Reale sostenne che egli sia stato uno dei più grandi metafisici della storia del pensiero occidentale. Anche sulla religiosità Reale intuì il profondo coinvolgimento di Heidegger».
Repubblica 16.10.14
Lo storico che insegnò la filosofia dei classici a intere generazioni è morto ieri all’età di 83 anni
Giovanni Reale una vita nel segno di Platone
di Antonio Gnoli


SEMBRAVA un uomo di altri tempi. Pingue, loquace, cerimonioso. Un’eleganza antica. Cappello compreso, immancabile su una testa calva, dalla fronte spaziosa. Innamorato del proprio mestiere di storico della filosofia. Quando ci vedemmo l’ultima volta, circa un anno fa, in un albergo romano, per parlare di sé e della meravigliosa impresa editoriale dei suoi classici della filosofia (raccolti e pubblicati da Bompiani), mi sembrò che fosse cresciuta in lui la consapevolezza di un lavoro indispensabile. L’idea che avesse realizzato qualcosa di importante per la cultura di questo paese: sia sul piano del pensiero (soprattutto filosofico), sia su quello dell’arte (spesso, negli ultimi tempi, in coppia con Elisabetta Sgarbi).
Giovanni Reale è morto abbastanza repentinamente, a 83 anni, per non lasciarci in qualche modo disorientati. Restano i suoi lavori. Quelli di manualistica, realizzati in parte con Dario Antiseri; i commenti – spesso magistrali – alle opere dell’antichità, in particolare a Platone il suo filosofo di riferimento. Da buon cattolico egli difese le ragioni della vita. Nel dialogo, intenso, che svolse da credente con Umberto Veronesi, lo scienziato non credente, ( Responsabilità della vita è il libro frutto del loro confronto) si coglie il desiderio dialettico di capire e di entrare nelle convinzioni dell’altro, con civiltà e ragione. Negli ultimi anni l’accademico di vaglia – che aveva insegnato in varie università europee, ma prevalentemente alla Cattolica di Milano – lasciò uno spazio crescente alla riflessione più attuale, legata ai temi urgenti: come pensare il fine vita e come difenderlo dai pregiudizi ideologici. Di qui le tormentate considerazioni e il rispetto con cui sentiva di dover affrontare i casi di Welby e di Eluana. Significative furono a questo riguardo – in una lettera inviata a Mina Welby – le ragioni, in qualche modo laiche, di un credente che respingeva l’accanimento terapeutico e lasciava al malato la decisione di come morire. Sospetto che in quella maturazione si affacciasse il bisogno di tornare ad alcuni motivi della filosofia antica: le virtù del bene e del bello, l’armonia, l’eros inteso come slancio verso un ordine superiore, e l’assoluto come principio da imitare nella consapevolezza che mai l’umano potrà pienamente soddisfare.
Per questo tra Aristotele e Platone egli scelse Platone. Sia co- me guida spirituale, che come pratica etica e conoscitiva. Amava Platone da platonico, quale in fondo riteneva di essere. Non che Aristotele non fosse altrettanto fondamentale. Ricordo infatti la sua traduzione e il commento alla Metafisica, dove venivano colte le intenzioni sistematiche dello stagirita. Per ogni studente che si avventurava, con qualche dubbio, nella selva di quel testo, Reale era un saldo punto di riferimento filologico. Come lo fu sull’intera filosofia antica. Eppure, era Platone il filosofo al quale sempre tornava. Reale aveva in qualche modo sposato l’interpretazione fornita dalla “scuola di Tubinga”, secondo la quale il filosofo andava letto e interpretato soprattutto alla luce delle dottrine non scritte. Quel mondo misterioso, impalpabile, iniziatico che Platone costituì sotto il nome di Accademia, affascinò il pensiero di Reale. Quasi che nella scena che si profilava si potesse leggere lo scontro drammatico tra la scrittura e la vivente dialettica. Non era questa, in fondo, la misura stessa con cui Socrate aveva esaltato la forza della parola orale contro quella scritta?
Certo, diverse e fondate furono le critiche a quel metodo di lavoro che privilegiava un inse- gnamento non scritto, forse perfino segreto, ma del quale restano poche e indimostrabili tracce. Ma ad affascinare Reale contribuì la constatazione che Platone fosse al centro di una rivoluzione epocale che in qualche modo coinvolgeva perfino le nostre esistenze. Anche noi, come lui, dentro un’epocale trasformazione. Per quanto riguarda Platone c’era il passaggio tutt’altro che indolore da una civiltà orale, fondata sul mito e l’immagine, a una civiltà della scrittura sorretta dall’argomentazione razionale. Cosa avrebbe guadagnato e perso l’uomo greco con questa rivoluzione? Si sarebbe staccato dalla seduzione del fantastico e dalla bellezza, anche tragica, dell’epico per abbracciare qualcosa che, con la forza del solo Logos, avrebbe segnato l’intero Occidente. Una vittoria che poteva vestire i panni della sconfitta o viceversa: una sconfitta che si sarebbe potuto leggere come una vittoria. Questa era la scena. Platone ne fu pienamente consapevole e sebbene non volle rinunciare del tutto a ciò che si stava abbandonando, al tempo stesso, dovette farsi interprete di quel nuovo mondo che avanzava e che prese il nome di metafisica. I suoi scritti decretarono che si potesse e dovesse pensare non più per immagini ma per concetti. La sua teoria delle idee fu, secondo Reale, l’approdo naturale a un modo nuovo di affrontare il tema della verità.
Platone colse i limiti della scrittura, come alcuni interpreti hanno dichiarato rifacendosi alla Lettera V-II. Dopo lunghe discussioni, quel testo fu attribuito a Platone ed è considerato – insieme al Fedro – il documento più esplicito circa i dubbi che Platone formulò nei riguardi della parola scritta, incapace di esprimere tutta la profondità del pensiero filosofico. Peccato che quelle cose Platone le abbia pensate e dette scrivendo. Fu una delle obiezioni forti mosse sia alla scuola di Tubinga che a Reale. Quest’ultimo non se ne preoccupò più di tanto, continuando a pensare che i due volti di Platone – il corpus degli scritti e l’accademia dove trionfò l’oralità della dialettica – fossero entrambi indispensabili per comprenderne il messaggio filosofico.
Reale è stato un curioso metafisico nel tempo del tramonto della metafisica. Negli ultimi anni, si interessò alla filosofia di Martin Heidegger. C’è bisogno di idee forti, altro che pensiero debole, aveva sostenuto, vedendo crescere l’interesse attorno alla figura di questo controverso pensatore. Contrariamente a quello che in genere si pensa, e cioè che Heidegger sia un antimetafisico, Reale sostenne che egli sia stato uno dei più grandi metafisici della storia del pensiero occidentale. Anche sulla religiosità Reale intuì il profondo coinvolgimento di Heidegger. Non so quanto fosse la sincera e tormentata passione del credente e non piuttosto il tentativo di ricondurre la teologia alla filosofia, ma è certo che in quella lettura, a nostro avviso poco plausibile, ci fosse una sintonia profonda, quasi un sovrapporsi di identità. La stessa, anche se in misura più lieve, che per tutta la vita ha riguardato la sua relazione ventriloqua con Platone. Mi chiedo se quest’uomo affabile, cerimonioso e non privo di una qualche punta di vanità non abbia con la sua lettura dato vita, involontariamente, a una specie di “Zelig” della filosofia, tanto più efficace quanto più capace di adattare quel sistema complesso di idee platoniche al mondo contemporaneo. Naturalmente non c’è una risposta. Ogni uomo è la sua terra. Ed è giusto rendere omaggio alla sua fedeltà all’antico. E al suo sogno platonico.

Il Giornale 16.10.14
Reale, il filosofo che trovò nei greci le vere radici dell'Occidente
La sua genialità fu trarre un pensiero autonomo e originale dall'esame filologico
Il suo insegnamento è in netta apposizione al nichilismo e allo scientismo di oggi
di Stefano Zecchi

qui

Il Giornale 16.10.14
Antiseri: "Io e Reale eravamo diversi Dallo scontro nascevano le idee"
Sul loro manuale hanno studiato centinaia di migliaia di studenti

qui