venerdì 17 ottobre 2014

il Fatto 17.10.14
L’allarme: “La fine di Mare Nostrum porterà più morti”


LA FINE dell’operazione Mare Nostrum preoccupa più l’alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che la politica italiana. “Questo - scrive in una nota l’alto commissario - farà aumentare i rischi per le persone che tentano di raggiungere l’Europa via mare e potrebbe portare ad un aumento di morti di rifugiati e migranti”. Nel comunicato l’agenzia delle Nazioni Unite rinnova anche “la richiesta urgente agli stati europei di rafforzare le operazioni di soccorso nel Mediterraneo" e "riconosce il grande sostegno fornito dagli armatori nel Mediterraneo alle operazioni di soccorso che soltanto quest’anno hanno contribuito a salvare oltre 30 mila persone". Sulla problematica ieri è intervenuto anche Laurens Jolles, rappresentante Unhcr per il Sud Europa, che ha ricordando come esista un evidente legame tra il numero di persone nel mondo costrette alla fuga da guerre e violenza e l’aumento degli arrivi via mare. Che interessano quotidianamente le coste italiane. Anche ieri c’è stato uno sbarco a Catania: a lanciare l’allarme il mercantile moldavo “Tiss”, con a bordo 317 migranti.

il Fatto 17.10.14
Mare Nostrum va verso la chiusura, i profughi siriani costretti alla schedatura
di Stefano Pasta


A Pozzallo duecento siriani sono in sciopero della fame nel centro di prima accoglienza all’interno del porto. Di “accoglienza” c’è ben poco: secondo i profughi, la polizia sarebbe impegnata nel prendere le impronte in modo violento. Tramite WhatsApp hanno inviato alla rete di attivisti che da mesi li sta aiutando, foto di schiene con lividi ed ematomi. Sostengono che la polizia avrebbe detto: “Con le buone o con le cattive prenderemo le vostre impronte”. Del resto, nella circolare “Emergenza immigrazione, indicazioni operative”, inviata il 25 settembre da Alfano - che ieri ha confermato la prossima chiusura della missione Mare Nostrum - alle questure, si legge: “In ogni caso la polizia procederà all’acquisizione delle impronte digitali, anche con l’uso della forza se necessario”.
Non è il primo caso denunciato. Venerdì scorso, nel Cara allestito nell’ex aeroporto militare di Isola Capo Rizzuto, un altro gruppo di siriani era in sciopero della fame. Tra di loro, 32 donne e 21 minori in fuga dalla guerra. Non accettavano il rilevamento coatto delle impronte perché, secondo l’Accordo europeo di Dublino, possono fare domanda di asilo unicamente nel primo Paese dove i loro polpastrelli vengono schedati. In questo caso l’Italia. Invece, chi sbarca al Sud vuole solo transitare sulla Penisola per poi raggiungere il Nord Europa, non vuole essere costretto a rimanere qui. Per un anno l’Italia, pur in violazione delle norme europee, ha lasciato “liberi” i profughi di andare dove volevano.
Ora, su richiesta degli Stati nordici, il Viminale ha imposto la schedatura. Anche a Capo Rizzuto i profughi hanno denunciato pestaggi. N., siriana di Homs, racconta: “Sono entrate più di dieci persone nella stanza con i manganelli, donne e bambini hanno iniziato a urlare, due sono svenute”. Il senatore Manconi, presidente della Commissione Diritti umani, ha chiesto di accertarne la veridicità. “Già in passato – dice – si erano manifestate numerose critiche nei confronti della gestione del Cara (Confraternita della Misericordia, ndr) e delle condizioni di vita degli ospiti. Il mese scorso, nello stesso centro, è morto un profugo pachistano in circostanze ancora da verificare”.

Corriere 17.10.14
Pattuglie dell’Ue, niente soccorsi ai migranti
«Non possiamo sostituire gli Stati membri nella responsabilità di proteggere le frontiere»
Archiviata l’operazione Mare Nostrum, Bruxelles lancia il sistema di controllo Triton
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Fine della missione umanitaria, via ai pattugliamenti di fronte alle coste italiane. L’Europa vara l’operazione «Triton» dal primo novembre e il ministro Angelino Alfano va in Parlamento per annunciare che «Mare Nostrum» sarà definitivamente «archiviata». Lo schieramento di navi e aerei si posizionerà a 30 miglia dal nostro Paese e questo vuol dire, come sottolinea il titolare del Viminale, «che non si potranno avere due linee di difesa sulle nostre frontiere, una più avanzata verso la costa nordafricana e una sul confine di Schengen». Le conseguenze rischiano di essere drammatiche, tenendo conto che in un anno «sono stati salvati circa 100mila migranti, dei quali oltre 9mila minori non accompagnati e ci sono state 3mila vittime». Nonostante questo, si cambia. E l’annuncio arriva dal direttore di Frontex Gil Arias Fernandez quando conferma «l’impiego di due navi d’altura, due navi di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei ed un elicottero, oltre a uno stanziamento per novembre e dicembre di 2,9 milioni di euro al mese e un finanziamento di circa 92 milioni di euro per il 2015». Ma soprattutto quando ribadisce che «l’Agenzia e l’Unione Europa non possono sostituire gli Stati membri nella responsabilità di controllare le loro frontiere». Assicura che 29 Stati parteciperanno, in realtà operativi saranno soltanto, oltre all’Italia, Francia, Portogallo, Islanda, Finlandia, Malta Lettonia e Spagna.
“Mare Nostrum” ha certamente fatto incrementare in maniera esponenziale il numero degli sbarchi. Secondo i dati forniti proprio da Frontex «nel 2014 si è registrato un incremento del 292 per cento negli arrivi provenienti da immigrazione irregolare. Nei mesi che vanno da gennaio a settembre di quest’anno ci sono stati 142.707 arrivi nel Mediterraneo centrale» e dunque in Italia, mentre «in tutto il 2013 erano giunte 36.414 persone». Secondo i dati aggiornati al 12 ottobre c’è stata comunque una crescita in tutta Europa dovuta evidentemente al proliferare delle aree di crisi in Medio Oriente e infatti gli arrivi «sono stati 207mila nel 2014, rispetto ai 107 mila di tutto il 2013». Nel nostro Paese sono giunti «30 mila immigrati provenienti dalla Siria e quasi la stessa cifra dall’Eritrea».
Appare difficile che i flussi possano fermarsi, proprio perché queste persone fuggono da zone di guerra, mentre evidente è il rischio alto di naufragi. Alfano assicura che «continueremo a fare ricerca e soccorso», ma la scelta europea di arretrare la linea di pattugliamento a 30 miglia da Lampedusa rende pressoché impossibile coprire l’intera distanza tra l’Italia e la Libia, dunque dai porti di partenza, che supera le 200 miglia. L’Alto Commissariato per i Rifugiati lancia l’allarme ribadendo come «la chiusura di Mare Nostrum senza che venga sostituita da un’operazione europea di soccorso in mare metterà in pericolo la vita delle persone, dunque è necessario mantenere una forte capacità di soccorso in mare dei rifugiati e migranti che tentano di raggiungere l’Europa e aumentare le alternative legali alle pericolose traversate».

«Almeno in Europa, non ci si aspetta più niente da Gesù... Sempre poche le persone che si confessano, e soprattutto sempre meno... Ormai ci sono più cinesi che cattolici, l’Islam è diventata la religione più diffusa e l’85 per cento degli italiani non va a messa»
Repubblica 17.10.14
“Il Sinodo e noi parroci nelle chiese quasi vuote”
di Carlo Verdelli

NEL fine settimana, celebro cinque messe, una al sabato e quattro la domenica. Tra qualche anno, ne basterà una per tutto il weekend». Non è un prete disfattista, don Domenico, parroco ancora giovane di Solbiate Arno. Anzi, ha più fede che mai nella sua fede. Solo che non si fa illusioni. «Almeno in Europa, non ci si aspetta più niente da Gesù. Uno crede di avere già tutto: cellulare, centro commerciale, magari la spa. E che se ne fa di Cristo, della fatica che richiede seguire la sua strada: la vita morale ce la si aggiusta secondo convenienza. Si vive in orizzontale, il trascendente è una rottura di scatole. E la colpa sarebbe tutta della Chiesa? Mah». Abbassando gli occhi su un giornale che riporta le cronache vaticane di questi giorni, così cariche di sorprendenti promesse di cambiamento per divorziati, conviventi, omosessuali, e di non altrettanto sorprendenti resistenze, don Domenico mette fisicamente le mani avanti.
QUELLO che mi auguro è di avere qualche nuovo strumento nella cassetta degli attrezzi che ogni sacerdote si porta in confessionale». Sarebbe a dire? «Ma sì, qualche scelta in più di accompagnamento per le persone che cercano il Signore nonostante si siano messe fuori dalla sua legge. Penso ai divorziati risposati, alla possibilità di concedere loro di fare il padrino o la madrina a un battesimo, o di inserirli nei servizi di educazione ecclesiastica». Ma non è poco, don Domenico? Padrino o madrina a un battesimo: tutto qui?
Ormai ci sono più cinesi che cattolici, l’Islam è diventata la religione più diffusa e l’85 per cento degli italiani non va a messa. Il mondo cambia a velocità supersonica, la Chiesa no. Papa Francesco l’ha capito il giorno stesso che è stato scelto, o è stato scelto proprio perché l’ha capito: in un anno e mezzo ha dato più di una scossa a questa sua Chiesa lenta. L’ultima, piuttosto fragorosa, è appunto la convocazione del Sinodo straordinario sulla famiglia: 253 vescovi chiamati a confrontarsi «con umiltà» su un terreno altamente infiammabile come il sesso e le conseguenze pratiche, di relazione, dell’amore. Il tutto ben sintetizzato proprio su Repubblica da Angelo Scola, arcivescovo di Milano e Papa per qualche giorno prima della fumata bianca per Bergoglio: «Il confronto con la rivoluzione sessuale in atto è una sfida non inferiore a quella lanciata dalla rivoluzione marxista». Strumenti per raccogliere la sfida? «Ascoltare il mondo, aprire le porte, altrimenti il mondo non ascolterà più noi», indica con pragmatismo Adolfo Nicolàs, il capo dei gesuiti, non a caso i confratelli di Francesco, motore mobile di questa esigenza di dialogo, di questa urgenza di aggiornare il linguaggio, di prestare più attenzione alle aperture caritative che alle crudezze dogmatiche. Come può resistere una religione chiusa nelle sue verità in un mondo dove le connessioni dei cellulari hanno superato il numero di abitanti del pianeta?
La molla che muove gli innovatori è probabilmente la stessa del Concilio Vaticano II, quello dei due papi (Giovanni XXIII lo inaugurò nel 1962, Paolo VI lo chiuse nel 1965): ringiovanire la Chiesa, adeguarla al tempo presente. Allora, tra le tante cose, cambiò la messa: non più in latino, non più col prete che dava le spalle alla platea, e con la libertà di canto e chitarre sull’altare. Fu una ventata potente e profetica, che anticipò il ciclone del Sessantotto. Adesso, nell’immediato, non cambierà niente, a parte l’invito di una parte del clero a prossime scelte coraggiose verso categorie fino a ieri in punizione, dai gay (addirittura simbolo di perversione) alle coppie fuori del matrimonio. Sarà poi il Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2015 a presentare al Papa il risultato di tanto discutere: a quel punto, a lui decidere.
E secondo lei, don Domenico, tutto si ridurrà a qualche strumento in più nella cassetta degli attrezzi del confessore? «È come se Francesco avesse accorciato di un colpo le distanze con la gente. I gesti, le tenerezze, il parlare chiaro, cose che catturano subito. È sudamericano, eh, ci sa fare, il che è un gran dono. Mi sono trovato a confessare persone che non vedevo da tempo. Sempre poche le persone che si confessano, e soprattutto sempre meno. Ma comunque è un segnale. Come questo Sinodo, altro segnale. Nel mio piccolo, leggo tante cose, tanti annunci, aspettiamo».
Nel suo piccolo, don Domenico Sirtori, brianzolo di 47 anni, da cinque parroco di Solbiate Arno, che a dispetto del nome non sta in Toscana ma nel Varesotto (“Arno” è il capriccio di una potente famiglia fiorentina che volle battezzare così un rigagnolo che sfocia nell’Olona), è un prete qualunque, uno dei 400 mila in missione nel mondo contro «la globalizzazione dell’indifferenza». Un prete ancora felice di esserlo dopo 22 anni di servizio. Veste da prete, con le scarpe da ginnastica nere. Vive da prete, in una casa attaccata alla chiesa di San Maurizio, dove si muovono solerti anziani devotissimi. Amministra quattromila anime in un comune da sempre di centrodestra, il che non aiuta visto che don Domenico passa per uno di sinistra, «ma è una sciocchezza, sono figlio della cultura post democristiana, avrò votato venti partiti diversi. La mia generazione ha perso il senso di appartenenza». Tranne quello in Cristo, almeno lui, uno dei 2200 sacerdoti della diocesi ambrosiana, ancora la più grande del mondo con oltre quattro milioni di battezzati. «Mi ha consacrato il cardinal Martini, un pastore tutt’altro che impermeabile ai segni dei tempi. Eppure i suoi discorsi di Sant’Ambrogio sulla responsabilità della politica come forma di impegno e di carità sono restati lettera morta. Dov’è la classe dirigente cattolica lombarda: nello scandalo dell’Expo? E dove sono finiti i cristiani capaci di incidere nella vita sociale, la sinistra che difende i meno tutelati? Certo, anche la Chiesa, la mia Chiesa, ha delle responsabilità in questa crisi di moralità trasversale. Ma temo che il problema sia davvero più generale». Che onda arriverà sull’Arno che non è l’Arno delle tante che si solleveranno fino al 18 ottobre nel Sinodo vaticano? «Sa quanti sono i divorziati-risposati che in vent’anni mi hanno chiesto di fare la comunione? Una decina, non di più. A me il Sinodo sulla famiglia sta benissimo, e altrettanto sento mie le attenzioni verso chi nel popolo di Dio si trova in situazioni di non sintonia con i princìpi evangelici. Per dire, l’ascolto verso gli omosessuali nella chiesa di base c’è già da trent’anni. Il problema è che io, pastore, non posso dire a un gay che la sua scelta è un bene, che è normale, perché normale, per un cristiano, è l’unione tra un uomo e una donna. Così è scritto».
In numeri assoluti il popolo del Vaticano tiene, un miliardo 200 milioni di fedeli, e cresce anche un po’. Il problema, posto che lo sia, è che l’incremento è garantito da Africa e Asia, mentre soprattutto l’Europa mostra cali allarmanti (per gli aspiranti preti, oltre il 20 per cento). Prendiamo Milano: nel 1992, il cardinal Martini consacrò quarantacinque nuovi sacerdoti (tra cui don Domenico); nel 2013, Scola si è fermato a diciannove.
Nel Sinodo straordinario di questi giorni non rientrava il tema del celibato dei preti o del nubilato delle suore. Verrà anche quel momento, per forza di numeri e di cose? Il parroco di Solbiate Arno è diventato sacerdote a 25 anni, entrando in seminario a 18, una vita vergine di donne. «Una scelta, frutto di un’altra scelta, che rifarei uguale perché ha e mi dà senso. Quanto ai numeri, non credo che lasciare sposare preti e suore arginerebbe la crisi delle vocazioni. Anglicani e luterani lo permettono ma Inghilterra e Germania hanno lo stesso problema».
La morale qual è, don Domenico? «Che i giovani sono ormai altrove e che una vocazione, come la mia per esempio, nasce da una famiglia che prega a tavola, che va a messa, che sceglie una vita di relazioni nel nome della morale del Cristo. Adesso manca tutto il tessuto connettivo, e di conseguenza mancano le vocazioni. Ho dei nipoti, neanche loro sentono il bisogno di Chiesa. Io apprezzo molto Papa Francesco, trovo spettacolare che abbia scelto Lampedusa come primo viaggio ufficiale. Ma diffido dell’idolatria verso la figura carismatica. Altrimenti si rischia che un concerto diventi la stessa cosa di un’udienza in Vaticano. Ma non lo è». E sotto una pioggia lombarda, alzandosi da un divano dai colori improbabili, don Domenico ci accompagna alla macchina reggendo un ombrello nero e sdrucito.

La Stampa 17.10.14
La legge di stabilità vista dai partiti: “Finalmente una manovra di centrodestra”
Ecco cosa pensano i parlamentari: esultano quelli di Ncd, dubbi nella minoranza del Pd. E anche dentro Forza Italia c’è chi sottolinea gli effetti positivi delle misure
di Marco Bresolin
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Corriere 17.10.14
Regioni furiose: «Tagli inaccettabili» E Renzi: «Pensino a ridurre sprechi»
«Ci offendi»I presidenti di Regione contro la manovra: «Così si colpisce la sanità». Chiamparino: «Se alzano l’Irap mi dimetto». Maroni: «Tagliano i fondi di luglio». Zaia: «Ribellione»
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La Stampa 17.10.14
Manovra, Regioni in rivolta: “E’ inaccettabile”. Renzi: taglino sprechi. Chiamparino: offensivo
I governatori: «Così sanità a rischio». Zingaretti: abbassano le tasse con i soldi altrui. Sindacati critici: lo spot del premier costerà caro agli italiani. Plaude Confindustria. Ora la bozza all’esame della Commissione Ue. Padoan rassicura: le coperture ci sono
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La Stampa 17.10.14
Mazzette di Stato
di Massimo Gramellini

Un gufetto amanuense ha infilato nelle pieghe della Renzi Detax alcune mance niente male. Duecentocinquanta milioni per i padroncini dei camion, cento per i lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo e centoquaranta per un vecchio classico, i forestali calabresi: più numerosi lì che in tutto il Canada. Si tratta di mazzette di Stato, atte a scongiurare le code natalizie di cotechini scaduti al passo del Brennero, gli assembramenti di masanielli nelle piazze del Sud e il consueto crepitio di fuocherelli estivi lungo i boschi della Sila. Ma non si era cambiato verso, come da annuncio? Si sarebbe tanto voluto, ecco. Ma la carne è debole e la fantasia immensa. Le regalie non sono state accolte nella Legge di Stabilità vera e propria, ma in apposite micronorme che le saltellano intorno tutte festanti. 
Micronorme, nome delizioso: fa pensare a un ninnolo, a un omaggio, a una carineria. «Amico forestale, gradirebbe una micronorma? Su, la prenda, per farci giocare un po’ i bambini. Microscatterà dal 2017, anche se avevo appena annunciato che avremmo accorpato i forestali ai poliziotti: era una microbattuta. In compenso ho confezionato un macroscherzo alle Regioni, confidando sull’appoggio dei cittadini, che le considerano a ragione un crocevia di camarille e ruberie. Pensi come sono furbo: ho ridotto le tasse statali con i soldi destinati ai governatori locali, che così saranno costretti ad aumentare l’addizionale Irpef, facendosi odiare ancora di più. Ma lei stia sereno e si goda la sua micronorma: qui si cambia verso perché nulla cambi».

Repubblica 17.10.14
Nicola Zingaretti, Lazio
“Ho già ridotto le spese e le ridurrò ancora così però vanno in crisi sanità e trasporti”
“Facile tagliare in questo modo ma pagheranno i nostri cittadini”
di Mauro Favale

ROMA «Noi siamo stati eletti dai cittadini e abbiamo il dovere di segnalare gli effetti catastrofici che produrrebbe questa legge di stabilità». Non ha paura di essere ascritto alla categoria dei “gufi”, Nicola Zingaretti, presidente di una Regione, il Lazio, che da 8 anni viaggia con il fardello di una sanità commissariata. Non è un renziano, ma schiva le voci che lo vedrebbero futuro competitor del premier: «Non l’ho votato al congresso — ricorda — ma lo sostengo e credo rappresenti uno shock positivo per l’economia e l’immagine dell’Italia».
Eppure...
«Eppure stavolta sta commettendo un errore: troppo facile tagliare le tasse con i soldi degli altri. È come se invito gente a pranzo e a cena, faccio bella figura, ma poi paga qualcun altro».
In questo caso le Regioni.
«Sì, ma a subire gli effetti sono i cittadini che si vedrebbero tagliare la sanità, i trasporti per i pendolari, le borse di studio. È matematica: la spesa delle Regioni è per l’80% sanità, per un 10% trasporto pubblico e per un altro 10% tutto il resto. Dire che vuoi tagliare 4 miliardi (che si andrebbe ad aggiungere al miliardo e 600 milioni delle precedenti finanziarie) significa per forza mettere mano ai servizi».
O aumentare le tasse?
«A dire il vero noi abbiamo previsto di diminuire Irap e Irpef dal 2016 se questo sforzo non viene vanificato da una sottrazione di risorse. L’aveva scritto anche il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli. Cito testualmente: “I risparmi ottenuti a livello locale dovrebbero essere usati per ridurre la tassazione locale”. La verità è che una manovra scritta in questo modo provocherebbe inevitabilmente uno spostamento del prelievo fiscale dal centro alla periferia. Un gioco delle tre carte».
Un’operazione di immagine? Governo buono, enti locali cattivi?
«No, non è una questione di immagine. L’obiettivo che vuole perseguire il governo è giusto e io lo condivido appieno ma non bisogna mettere in crisi i servizi che garantiscono la competitività del sistema, dai trasporti all’università».
Renzi vi invita a cominciare dai vostri sprechi, i renziani le ricordano che nel Lazio c’è l’Irpef più alta d’Italia: possibile che non ci siano spese da tagliare?
«Noi in un anno e mezzo abbiamo tagliato 400 poltrone, eliminato le auto blu e vitalizi, dimezzato gli stipendi, chiuso oltre 12 società regionali, stiamo riducendo i primari di 400 unità, abbiamo messo in efficienza la macchina amministrativa e siamo stati i primi ad aver introdotto la fatturazione elettronica. Tagliare ancora è giusto, e infatti lo stiamo facendo, a volte più del governo».
Non trova singolare che le critiche maggiori alla legge di stabilità siano arrivate proprio dai governatori del Pd?
«I governatori del Pd in questi mesi hanno sostenuto con forza e coerenza l’azione del governo. Cito solo la decisione di co-finanziare la misura degli 80 euro in busta paga con il via libera a 700 milioni di tagli alle Regioni. Abbiamo però il dovere di segnalare gli errori».
Pronti a diventare i nuovi “gufi”?
«Non ce n’è motivo. Lo sforzo del governo è il nostro ma bisogna dirsi quando si sbaglia».

il Fatto 17.10.14
La rivolta contro Renzi
“Facile tagliare le tasse con i soldi dei cittadini”
In arrivo la scure su sanità, scuole e trasporti
Zingaretti: “È come invitare a cena qualcuno e fare bella figura senza pagare il conto”. Chiamparino: “Così ci mettono fuori dallo Stato”. Il premier li provoca: “Pensate agli sprechi”
di Carlo Di Foggia

La rivolta è tale che perfino i più silenziosi e i più renziani attaccano a testa bassa. Da una parte il premier che promette un incontro, senza rinunciare a sbeffeggiarli, dall’altra governatori e sindaci pronti a tutto per evitare oltre sei miliardi di tagli (4 per le Regioni e 1,2 per i Comuni). A capitanarli, gli uomini finora più vicini a Matteto Renzi. Sergio Chiamparino, per dire, renzianissimo governatore del Piemonte e presidente della Conferenza delle Regioni, ci va giù durissimo: “La manovra così com’è è insostenibile – spiega – usando risorse che sono di altri enti si incrina un rapporto di lealtà istituzionale e di pari dignità”. La risposta di Renzi arriva a stretto giro, via Twitter: “Comincino dai loro sprechi anzichè minacciare di alzare le tasse #noalibi”. Parole che scatenano la rivolta generale. “Se non si vuole stare a sentire le nostre ragioni – continua Chiamparino – saremo costretti a prendere atto che non siamo più parte di questo Stato”. Concetto che il pd Nicola Zingaretti (Lazio), finora il più silenzioso tra i non allineati al nuovo corso fiorentino, sintetizza così: “È facile invitare a cena qualcuno e fare bella figura senza pagare il conto”. Per tutta la giornata le dichiarazioni al fulmicotone dei governatori si susseguono, da quello della Sardegna, Francesco Pigliaru (“tagli inammissibili”) al pugliese Nichi Vendola (“Renzi finanzia la sua propaganda con i soldi degli altri”), al toscano Enrico Rossi (“non tornano i conti: se proiettiamo questi dati nella mia Regione si tratta di 400 milioni di tagli”). Per il leghista Roberto Maroni (Lombardia) “il governo non può fare un accordo e poi rimangiarselo”. Tradotto: i patti non erano questi. Il riferimento non è solo alla clausola “taglia-sanità” (due miliardi) inserita nella bozza della legge di stabilità. Nelle complesse trattative andate avanti nei giorni scorsi, infatti, i numeri erano diversi: il tetto massimo concordato con le Regioni si fermava a 3 miliardi, mentre i Comuni si sono visti recapitare 600 milioni di ulteriori tagli. Perfino il sindaco di Torino Piero Fassino, presidente dell’Anci (l’associazione dei Comuni) e tra i primi convertiti al renzismo è costretto ad attaccare: “Lo sforzo che ci viene chiesto è troppo alto. Non vogliamo essere costretti a ridurre i servizi ai cittadini”.
LA REPLICA del premier arriva in serata direttamente dal vertice Asem di Milano, sprezzante: “È inaccettabile che ci siano polemiche su questo tipo di operazione, di qualcuno che dice ‘beh, allora le rialzi amo di un miliardo a livello locale’. Trovo che sarebbe un atto sinceramente al limite della provocazione”. Dietro le schermaglie, però, si incomincia a trattare. Nei prossimi giorni il governo convocherà Regioni e Comuni per discutere dei tagli e c’è da giurare che, visti i nomi in campo, Matteo Renzi sarà costretto ad accettare qualche limatura per avvicinarsi al miliardo di euro che Chiamparino chiede di spostare sui ministeri.

il Fatto 17.10.14
Sanità, scuola, treni cambiano verso: costeranno di più
Dai pendolari ai farmaci, dalle mense scolastiche al sostegno degli anziani, dai fondi anti-alluvione al bus: tagliare le autonomie significa servizi più cari (o assenti)
di Marco Palombi

Un paio di dati preliminari: nei tre anni tra il 2011e il 2014 (governi Berlusconi, Monti e Letta) i tagli di spesa a carico di Regioni, Province e Comuni ammontano a oltre 41 miliardi e mezzo, vale a dire l’11% della spesa complessiva di questi enti al netto di quella sanitaria, che è calata anch’essa. Ora Matteo Renzi vuole che le autonomie locali e le Regioni tirino fuori altri 8 miliardi nel 2015, portando il prelievo a 50 miliardi. Messa così, sono solo numeri, ma dietro queste cifre c’è la vita di milioni di italiani: quelli che prenderanno gli 80 euro di Matteo Renzi e quelli che invece no (incapienti, pensionati, partite Iva). Il non bolscevico Gianni Bottalico, presidente delle Acli (le associazioni dei lavoratori cattolici) lo ha spiegato perfettamente: “Questi tagli, tradotti in realtà, significano meno mense scolastiche, meno trasporti, meno sanità, meno libri, meno servizi. E questo vanifica i vantaggi fiscali che la manovra contiene”.
La partita di giro delle tasse tra 80 euro e addizionali
È il rischio più grosso per i cittadini: per far fronte a tagli così ingenti e in un orizzonte di tempo così breve, molti enti locali potrebbero ricorrere all’aumento della tassazione locale. È già successo: dal 2010 al 2014, per dire, le addizionali regionali e comunali sono aumentate del 30% in media. Poi ci sono, ovviamente, le aliquote Tasi e Imu e una serie di altri balzelli a partire dall’Irap, che è un tributo regionale. È appena il caso di ricordare che solo i tagli alle istituzioni del territorio valgono circa 8 miliardi nel 2015, gli 80 euro appena uno e mezzo in più. E poi, a stare alle bozze della legge di Stabilità, c’è un vero e proprio scippo: l’erario si prenderà il miliardo e dispari dell’Imposta provinciale di trascrizione, ma non le competenze che quell’imposta pagava (se le ritroveranno i sindaci quando la legge Delrio sarà pienamente operativa).
Al solito si comincia dagli ospedali: - 3 miliardi
I 4,5 miliardi che verranno sottratti alle Regioni, ad esempio, si scaricheranno “all’80% sulla sanità”, prevede Sergio Chiamparino, presidente dei governatori, renziano: in cifre significa che al Servizio sanitario nazionale mancheranno l’anno prossimo tre miliardi di euro rispetto al previsto. I ticket sulla diagnostica che hanno fatto indignare gli italiani, per capirci, ne valevano appena due. In una spesa ridotta all’osso – inferiore alla media Ue e “incomprimibile con nuovi tagli lineari”, come ha detto il Parlamento all’unanimità – la cosa non sarà senza effetti. Ovviamente ogni Regione colpirà in maniera diversa, ma i ticket (diagnostica, farmaci, prestazioni di pronto soccorso) sono un rischio non secondario. I posti letto, cioè il numero dei presidi sanitari sul territorio, sono un altro bersaglio facile e peraltro già arato in questi anni. Che la sanità sia sotto attacco lo ammette implicitamente lo stesso governo: se le Regioni non troveranno un accordo per spartirsi i quattro miliardi di tagli, sarà l’esecutivo a decidere da solo “considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale”.
Mezzi pubblici di trasporto: saranno meno e più cari
I malanni dei treni che usano i pendolari sono un genere a parte nel giornalismo nazionale: se ne occuparono più volte, per dire, persino Fruttero & Lu-centini su La Stampa. Sporchi, spesso in ritardo, sempre strapieni: cose che sa benissimo chiunque abbia, per così dire, usufruito del servizio. Ai nostri fini importa ricordare, però, che quel servizio è a carico delle Regioni, che lo espletano in genere tramite un accordo con Ferrovie dello Stato o attraverso società ad hoc: la scure potrebbe insomma cadere anche sul trasporto pubblico locale, non certo peggiorando il servizio, compito in genere davvero improbo, ma attraverso l’aumento dei biglietti o la dismissione di alcune tratte. Lo stesso discorso si può applicare a livello comunale e provinciale: quei simpatici bus che ci portano nella migliore delle ipotesi in giro per la città o in paesi in cui abitiamo sono a carico di Comuni, Province e Regioni. Rincari e/o minori servizi sono l’esito scontato del continuo comprimere la spesa.
Territorio, istituti scolastici, strade: meno sicurezza
Tra i compiti di Comuni, Province e Regioni c’è anche la tutela del territorio, rischio idrogeologico compreso: formula anodina dietro cui si celano le alluvioni che in questi giorni hanno spezzato Genova, Parma, la Maremma. Il governo Renzi ha meritoriamente lanciato un piano straordinario sul tema da un miliardo e dispari, ma i fondi per la manutenzione corrente dovrebbero uscire dalle istituzioni locali. Invece li si taglia. È esattamente la stessa situazione dell’edilizia scolastica: si lancia una grande operazione, ma si rende impossibile la gestione dell’ordinario. Oggi spetterebbe alle Province, così come la manutenzione di un bel po’ di strade: occhio alle buche d’ora in poi. E pure ai parchi pubblici: oltre a non curarli, forse spegneranno pure i lampioni e sarà quindi più difficile evitare di inciampare nei rifiuti non ritirati.
Asili, pasti e libri: abituatevi a pagare di più
Se avete presente le notizie di cronaca tipo bambini che non hanno diritto alla merendina nella mensa della scuola o mamme che non lavorano perché non hanno trovato posto nell’asilo pubblico e non possono permettersene uno privato sapete di cosa si parla quando si sforbicia così in profondità nei Comuni. Le scuole dell’infanzia, le mense scolastiche, gli scuolabus e persino il sostegno per l’acquisto dei libri di testo sono tutti servizi che spetterebbero ai Comuni: abituatevi a pagarli più cari.
Nonni e indigenti: meno assistenza, più solitudine
Quasi tutte le politiche di prossimità per i cittadini con reddito basso – dal sostegno al reddito delle famiglie povere alle politiche della casa, dall’assistenza domiciliare agli aiuti alimentari – passano dai Comuni e hanno già subito, laddove esistono, tagli drammatici in questi anni: Renzi si vantava spesso di questa funzione quand’era sindaco, oggi pare interessargli un po’ meno.

La Stampa 17.10.14
Rossi: “Per farcela serve il superticket”
Il presidente della Toscana: paghino i ricchi
di Roberto Giovannini

«Caro Renzi, la manovra non è male: ma occorre più coraggio, più investimenti e più equità sociale».
Ci spieghi meglio, Presidente Enrico Rossi.
«Gliel’ho detto: nella Legge di Stabilità ci sono cose importanti, che servono al paese. Faccio però due osservazioni: primo, mi sembra manchi una forte spinta sugli investimenti. Se vogliamo la ripresa stabile del Paese, oltre ai tagli e alle tasse devono esserci anche gli investimenti. Il secondo punto è il taglio per le Regioni. Se ci tolgono 4 miliardi (qualcuno dice sei) per la Toscana sono quasi 300 milioni in meno. Chiariamoci subito: io posso manovrare sulla spesa corrente del bilancio regionale per circa 150 milioni. E dovrei azzerare tutte le politiche attive. Per arrivare a 300 o 400 milioni, dovrei intervenire sui trasporti pubblici, lasciando tutti a piedi, sulla scuola, sul sociale. O sulla sanità».
Ma il premier Renzi dice che potete tagliare i privilegi.
«Certo, dobbiamo insistere. Ma non arriveremo mai a recuperare 300 milioni o più. Allora, apriamo seriamente una discussione su quel che vogliamo sia il Servizio sanitario nazionale. Si possono combattere gli sprechi ed aumentare l’efficienza, e lo faremo con grandissimo impegno. Ma dobbiamo chiederci se per mantenere un servizio universale e gratuito per la stragrande maggioranza dei cittadini non sia venuto il momento di chiedere ai redditi più elevati il pagamento di un contributo sulle prestazioni sanitarie, per permettere di mantenere la gratuità per i redditi inferiori».
Una specie di superticket per i ricchi...
«Chiaramente dev’essere un’operazione decisa a livello nazionale. O chiediamo di dare di più a chi ha di più, oppure faremo tagli indifferenziati, che peggioreranno la qualità del servizio penalizzando i più deboli, che non possono pagare per trovare alternative nel privato. La Sanità pubblica universale è un valore nazionale che incrementa la competitività del Paese; se per conservarla serve un contributo da parte di chi ha di più, facciamolo. E si può cercare anche altrove: fu lo stesso Renzi a definire ingiustificate le pensioni oltre i 3000 euro netti mensili, se retributive e non contributive. Anche in questo campo si può lavorare per cercare risorse, così come negli alti stipendi pubblici».
Pensa che Renzi potrà accogliere queste proposte? Ieri è stato durissimo nei confronti dei presidenti di Regione...
«Conosco Renzi da quando era sindaco di Pontedera: è il suo modo di stare nell’agone politico. Quel che conta è la disponibilità al dialogo che esprimo ora con queste proposte, che spero che venga accolta. La manovra si può migliorare, con più equità sociale nella sanità e nel sistema pensionistico, e una spinta sugli investimenti. Almeno quelli contro il dissesto idrogeologico devono essere liberati». [Rob.Gio.]

il Fatto 17.10.14
Il presidente del Veneto
“Impugneremo tutto alla Corte costituzionale”
di Wanda Marra
 
Ho un approccio oggettivo che va di là dell’appartenenza politica. Tant’è vero che nel 2010 avevo impugnato il ticket sulla sanità del mio governo. Non c’è bisogno di gente che fa cagnara per far carriera politicamente. E a guardare la legge di stabilità ti rendi conto che non c’è limite alla decenza e di gente senza vergogna ce n’è tanta”. Il governatore del Veneto, Luca Zaia spara a zero contro la legge di stabilità.
Perché queste accuse?
Con questi tagli, o non cureremo più le persone o ci vorrà un’ondata di nuove tasse. Non è che ci vuole un premio Nobel per capire che se togli da una parte devi mettere dall’altra.
Concretamente, che cosa dovrà fare amministrando il Veneto?
Azzerare i soldi sul dissesto idrogeologico e sulla formazione. E limare su sociale e sanità. Ma io non ho intenzione di farlo, né di aumentare i ticket. Salgo sulle barricate. Abbiamo un Paese che si sta sgretolando come un panettone. In Veneto 90mila bambini vanno alle scuole paritarie: è un fatto di tradizione, ma va detto che non ci sono scuole pubbliche. E poi, abbiamo tutta la formazione professionale: dietro 600mila imprese, c’è una rete professionale paurosa. Hanno ragione i sindacati che dicono che siamo davanti a una televendita.
Cioè?
È assurdo che Renzi faccia il figo dicendo che toglie un terzo dell’Irap (misura sulla quale io sono a favore) e poi dire che bisogna aumentare le tasse. È un problema di metodo.
Che avrebbe dovuto fare?
La vera sfida di Renzi è la questione della mala gestione nazionale. I 30 miliardi di sprechi restano inalterati.
Renzi era venuto a Treviso nella sua prima visita ufficiale da premier. Cosa gli aveva chiesto allora?
Premesso che in un momento di difficoltà come questo, Renzi rappresentava l’ultimo rifugio di un porto sicuro gli parlai del dissesto idrogeologico, delle tasse. E della necessità di applicare costi standard in tutte le Regioni. Per i pasti in ospedale, per le siringhe e via dicendo. Noi abbiamo un residuo fiscale attivo: l’anno scorso abbiamo lasciato a Roma 21 miliardi di tasse. Questa manovra è una dichiarazione di guerra nei confronti di tutti quelli che sono virtuosi.
Che vuol dire che farete le barricate?
Apriremo le ostilità. E cominceremo con l’impugnativa alzo zero davanti alla Corte della legge che lede i diritti costituzionali.
Non è un caso, comunque, che la fronda parta proprio dal Piemonte, e dagli uomini più vicini al premier. La Regione è gravata da un indebitamento monstre di 8,5 miliardi di euro. La Corte dei Conti ha bocciato il rendiconto generale per il 2013 che indicava un disavanzo di poco più di 360 milioni perché il “buco” è in realtà di 2,29 miliardi. Il Comune di Torino ha 3,5 miliardi di debiti, una condizione di pre-dissesto finanziario, eredità pro-pio della precedente gestione Chiamparino. Con questi numeri, un ulteriore taglio dei trasferimenti statali avrebbe effetti devastanti (in Piemonte c’è il primo Comune dichiarato fallito: Alessandria). Una situazione che però riguarda decine di città. Dal 2012 a febbraio 2014 sono 105 i sindaci che hanno chiesto alla magistratura contabile di accedere a un piano di riequilibrio finanziario.

Repubblica 17.10.14
Luca Zaia, Veneto
“Paghiamo le siringhe 4 centesimi, altri 26. Finiamola di colpire in modo indiscriminato”
“Noi già virtuosi porto la manovra alla Consulta per farla bocciare”
di Rodolfo Sala

MILANO Qualcosa di buono c’è, ma il resto della manovra, assicura il governatore leghista del Veneto Luca Zaia, comporta «tagli sanguinosi e insopportabili alle Regioni, a partire da quelle virtuose, come la mia».
Che cosa salva, presidente Zaia?
«Il taglio di 18 miliardi alle tasse non può che raccogliere il consenso di tutti, in un Paese dove la pressione fiscale ha raggiunto il 68,5 per cento, contro una media europea del 46. Anzi, su questo versante si doveva tagliare ancora di più».
Però?
«C’è un rovescio della medaglia, è drammatico e cancella gli effetti di questa impostazione pur positiva».
Di che cosa si tratta?
«Se fai dei tagli, in questo caso alle tasse, è chiaro che devi trovare delle coperture, vale a dire qualcuno che ci mette i soldi che mancano. Questo “qualcuno” sono gli enti locali, in particolare le Regioni. Tutte quante, è questo il punto».
E cioè?
«Io parlo per me. Il Veneto è da tutti riconosciuto come punto di riferimento importante di virtuosità. Abbiamo da tempo una centrale unica per gli acquisti, non è che qualcuno può comprare le siringhe dove vuole, c’è un controllo dei costi maniacale. Bene, di fronte a tutto questo, noi avremo dei tagli che superano i 300 milioni».
Che cosa succederà?
«L’impatto per noi sarà devastante, e in misura ancora maggiore rispetto a Regioni non proprio così virtuose. Perché i risparmi noi li abbiamo già fatti».
Renzi invece dice che ci sono ancora margini per migliorare la situazione senza intaccare i servizi...
«Un presidente del Consiglio non deve parlare così. Renzi sta distruggendo un’intera foresta per far cadere un albero. Non possiamo far finta di niente».
Che cos’ha in mente?
«A questa manovra dobbiamo ribellarci, in tutte le forme legittime, perché noi non siamo una fonte di spreco. Prendo atto che il governo non ci sente, e allora dico che impugneremo la manovra davanti alla Corte costituzionale, dal momento che non ho alcuna intenzione di aumentare le tasse ai miei amministrati. Perché alla fine succederà questo, come ha riconosciuto lo stesso ministro Padoan».
Ma scusi, voi leghisti non avete sostenuto a spada tratta la politica dei costi standard? La stessa che propugna Renzi..
«Non mi sembra affatto che la stiano applicando. Devono imporre a tutti di essere virtuosi, non colpire in modo indiscriminato. Da noi le siringhe costano quattro centesimi, ci sono Regioni che le comprano a 26. Per non parlare di quelle a Statuto speciale».
A che cosa si riferisce?
«Un mese fa è stata fatta la riforma del Titolo V, con l’introduzione dei costi standard. Peccato che per le Regioni a Statuto speciale , questa cosa non sia obbligatoria. È sempre la stessa storia, anche fuori dalla sanità: in Sicilia ci sono 22mila guardie forestali contro le 400 del Veneto».
Dunque con il governo è guerra totale?
«Noi siamo abbiamo sempre fatto la nostra parte, ma stavolta io non ci sto a passare come quello che difende dei privilegi. Renzi venga nel Veneto a spiegare quel che ha fatto, lo sfido a dimostrare che questa manovra non colpisce le Regioni virtuose».

il Fatto 17.10.14
L’ex portavoce del Colle
“In questo modo la mia Barletta cadrà a pezzi”
di Giampiero Calapà

Pasquale Cascella non è un sindaco del Sud come tutti gli altri, prima di essere eletto per il Partito democratico nella sua Barletta è stato per anni gomito a gomito con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, portavoce del capo dello Stato. Quando il governo Renzi è nato Cascella era già in Puglia per il suo nuovo incarico. Oggi è deluso: “Mi aspetterei di più da un governo del Pd”.
Cosa succederà con questa stangata a Regioni e Comuni?
Aumenterà la forbice tra chi può resistere e bene alla crisi e chi non troverà neppure risposte sul piano del welfare. Un divario enorme non più
solo tra Nord e Sud, ma crescente anche dentro una città come la mia.
Qual è la prima cosa che la preoccupa?
Garantire la manutenzione ordinaria, non dico straordinaria, della città è ormai impossibile. Realtà come Barletta così rischiano di cascare a pezzi irrimediabilmente. Noi avremo bisogno di incrementare i servizi sociali, invece si continua a perpetuare questo meccanismo con il quale la politica fomenta la rabbia della gente e si sfascia la coesione sociale. È assurdo.
Come pensa di intervenire nella sua città?
Non lo so, studieremo qualcosa. Certo è dura, Barletta ha novantacinquemila abitanti. Negli ultimi anni abbiamo perso diecimila posti di lavoro. Questo è lo scenario. Queste persone andrebbero aiutate. Ma si continua a fare il contrario. Poi capiamoci, la spesa improduttiva va tagliata, ci vorrebbero delle regole nazionali, uniformità, altro che federalismo. Le risorse vanno ridistribuite equamente.
Quali rischi reali corrette?
Dobbiamo ridimensionare tutto, qualsiasi cosa. E un Comune del Sud come Barletta ha già possibilità assai ridotte. Se io non posso garantire i servizi alla cittadinanza cosa devo inventarmi? Ma qualcosa ci inventeremo alla fine, la politica deve trovare delle risposte comunque, non possiamo abbandonarci all’antipolitica.
È deluso dal governo del Pd?
Mi aspetterei molto di più da un governo del Partito democratico. Sul piano della serietà come prima cosa, dell’equità e della qualità degli interventi. Mi aspetterei un riformismo vero, fatto per aiutare le persone, non l’esatto contrario.

il Fatto 17.10.14
Copertura truffa
Legge di Stabilità, i buchi neri della manovra
Antievasione, chiacchiere da 2,9 miliardi
di Carlo Tecce

Il governo declama: staneremo gli evasori. Evviva. Un assaggio, forse una tattica per prendere (lentamente) le misure: 3,8 miliardi di euro. Evviva. In questa troppo presto celebrata “lotta all’evasione”, inserita nel disegno di legge di Stabilità (ex finanziaria), la prima categoria che si evade è la logica. Perché di questi 3,8 miliardi di euro, necessari per coprire uscite per 36 miliardi, soltanto 900 milioni sono calcolati con giudizio, e riguardano un nuovo meccanismo per il versamento dell’Iva: e il resto, i 2,9 miliardi di euro? Palazzo Chigi fa sapere che l’Agenzia delle Entrate dovrà scovare, esaminare e convincere i furbetti che non pagano le tasse e poi sperare in un’autodenuncia: ecco, la coscienza sarà una garanzia per i 2,9 miliardi. Oltre a un’auspicata e intima conversione degli evasori, l’Agenzia dovrà incrociare i numeri inseriti nelle banche dati, informare il cittadino beccato in fallo e avviare un’operazione che viene definita “Fisco amico” e prevede, testuale, un “adempimento volontario”: lo puoi sbrigare sul portale oppure di persona. Non sarà blasfemo considerare ballerini questi 2,9 miliardi (il Sole 24 Ore dice che l’obiettivo sarà difficile da realizzare), e lo stesso pensiero impuro ha pervaso diversi componenti del governo che masticano la materia. Per carità, l’Agenzia delle Entrate, diretta da una renzian-toscana, Rossella Orlandi, potrebbe persino ricavare più di 2,9 miliardi, ma chi assicura che siano proprio 2,9 e non di meno, tanti di meno? Con le stime non è saggio proteggere una manovra da 36 miliardi, se poi rischi di dover attivare le clausole di salvaguardia, tipo un aumento per le aliquote Iva. A parte i 2,9 miliardi annunciati con estremo ottimismo e 900 reperiti con l’Iva, c’è un ulteriore miliardo da recuperare con l’emersione di quelle società del gioco d’azzardo che non pagano un euro in Italia. Il sottosegretario Graziano Del-rio non spaccia i preventivi per soluzione: “Un miliardo da vera e propria lotta all’evasione, il rimanente deriverà da strumenti come Fisco amico”.
MENTRE il governo promuove una posticcia “lotta all’evasione”, si consuma una tragicomica battaglia diplomatica tra la Svizzera e l’Italia per il rientro dei capitali detenuti a Berna e dintorni e sconosciuti al fisco di Roma. Eveline Widmer Schlumpf, ministro delle Finanze elvetiche, ha bacchettato il collega italiano Pier Carlo Padoan: “La mia pazienza ha un limite. Ho spiegato la mia agenda e voglio una risposta chiara”. La Svizzera deve uscire dai paesi in lista nera (black list), paradisi fiscali, e deve firmare un accordo con l’Italia: ci è riuscita con chiunque, non con Roma. Quasi un anno fa, al Tesoro c’era Fabrizio Saccomanni, le penne erano ormai pronte e si ragionava su di un gettito fiscale per l’Italia di circa 8 miliardi. In attesa, chi doveva trasferire quei soldi avrà provveduto. Ma l’Italia ci riflette su. E riflette ancora, ogni volta per peggiorare l’impianto, sul reato di autoriciclaggio: Matteo Renzi ne faceva un punto ineludibile del programma, poi sono sopraggiunte le pressioni e le intromissioni di un pezzo di alleati (Ncd e Fi) e un pezzo di democratici. Dopo aver ricalibrato le pene verso il basso e introdotto il “godimento personale” per indebolire la norma, cadono nel vuoto persino le osservazioni di Rodolfo Maria Sabelli, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati: “Sarà autoriciclaggio costituire fondi neri da impiegare in un’attività economica, ma non sarà autoriciclaggio l’utilizzo di somme di denaro fatte transitare su conti di copertura e poi spese per acquistare una villa di lusso per abitarci”. Tu chiamale se vuoi, evasioni.

il Fatto 17.10.14
Questa è una rapina
Mani in alto: stangata su Tfr e fondi pensione
di Marco Palombi

È la più grande riduzione delle tasse della storia della Repubblica. È il mantra preparato da Matteo Renzi per questa campagna d’autunno detta legge di Stabilità: magari per le imprese è vero, sul lavoro invece ci sarebbe da dire. Intanto, come hanno spiegato ieri i governatori, il premier si è pagato gli 80 euro coi soldi di Regioni e enti locali, che potranno comunque rivalersi sui cittadini aumentando le tasse locali. E poi, parlando di salario, da una parte c’è lo sgravio Irpef e dall’altra una mazzata sul Trattamento di fine rapporto (Tfr), che poi sarebbe “salario differito”: un vero e proprio furto che vale centinaia di milioni l’anno.
PARTIAMO dall’idea del “Tfr in busta paga” che inizialmente sembrava l’uovo di Colombo per rilanciare i consumi e ormai Renzi non cita nemmeno più nei suoi pistolotti pubblicitari: si aderisce su base volontaria a partire dal marzo 2015 e per i successivi tre anni (esclusi gli statali, i lavoratori agricoli e quelli domestici). La sorpresina è che verrà tassato come il normale reddito e non in misura minore come avviene oggi per il Tfr. Tradotto: per chi guadagna tra 15 mila e 28.650 euro l’anno si tratta di una perdita contenuta (50 euro l’anno), oltre quella soglia si passa già a oltre 300 euro di decurtazione per arrivare ai 569 euro di chi prende 90 mila euro l’anno. Non pare, comunque, che il Tesoro si aspetti frotte di lavoratori ansiosi di vedere la liquidazione in busta paga: la copertura messa da parte è appena 100 milioni. Assai più discutibile è l’operazione che invece viene fatta sul normale Trattamento di fine rapporto e sulla previdenza complementare: i soldi messi da parte per la liquidazione vengono rivalutati ogni anno, per legge, a un tasso fisso dell’1,50% e da una quota variabile pari ai tre quarti dell’aumento dei prezzi calcolato dall’Istat per le famiglie di impiegati e operai. Tutta roba, compresa la rivalutazione, che uno si aspetta di ricevere al momento di andare in pensione o quando finisce il rapporto di lavoro: in un’unica soluzione oppure sotto forma di pensione complementare - assai sponsorizzata dai governi - necessaria a non finire in povertà visto il livello scandalosamente basso delle pensioni calcolate col sistema contributivo. Ebbene – chiamandole in conferenza stampa “rendite finanziarie” – Renzi ha aumentato la tassazione su queste rivalutazioni dall’11% attuale al 17%. Non solo: l’aliquota sul risultato netto maturato dai fondi pensione passa addirittura dall’11 al 20%. Quasi un raddoppio che si trasformerà in minori assegni mensili per chi ha pensato di versare un po’ del suo stipendio oggi per avere più reddito una volta andato in pensione. Non si tratta di spiccioli, ma di centinaia di milioni l’anno (almeno 400 all’ingrosso) di reddito sottratti ai lavoratori.
GLI ESPERTI, persino nella maggioranza di governo, hanno già capito cosa succederà. “Questa manovra distrugge la previdenza complementare in Italia”, dice Lello Di Gioia, socialista, presidente della Commissione parlamentare di controllo sugli enti di previdenza: “Non solo: il governo colpisce il risparmio dei lavoratori che con il secondo pilastro previdenziale pensavano di sopperire alle mancanze del primo”. Della stessa opinione Cesare Damiano, Pd, presidente della commissione Lavoro della Camera: “Tassare i fondi pensione al 20% sarebbe la fine della previdenza integrativa, quella che doveva consentire alle giovani generazioni di aggiungere alla pensione pubblica una di natura privata”.

Repubblica 17.10.14
Colpo ai fondi pensione l’imposta raddoppia: 20% in rivolta le casse previdenziali
di Roberto Mania

ROMA L’obiettivo è quello di far ripartire i consumi con il Tfr in busta paga, il rischio è che si comprometta la “seconda gamba” delle pensioni, cioè la previdenza integrativa. Sui rendimenti dei fondi pensione si scaricherà una sorta di stangata con la tassazione che passerà dall’11,5% al 20%, in più gli aderenti ai fondi potranno sospendere per un periodo (dal 2015 al 2018, per ora) i versamenti per ricevere, così, l’anticipo della liquidazione e spendere il proprio risparmio previdenziale.
Ma ci saranno anche altri effetti collaterali provocati dalla norma che prevede l’anticipo del Tfr nella busta paga a partire dalla metà del prossimo: per esempio che per il lavoratore interessato l’operazione si tradurrà in un aumento di tassazione visto che non si estenderà il trattamento fiscale favorevole fissato invece per il Tfr nella sua funzione classica.
Ed è presumibile che nel momento della scelta (irreversibile nella fase di sperimentazione dell’operazione, dal 2015 al 2018) i lavoratori (dipendenti delle aziende private ma non del pubblico impiego e dell’agricoltura) terranno conto di tutti questi fattori. La volontarietà, infatti, rimane il caposaldo del progetto dell’esecutivo.
Il Tfr, istituto che gli altri paesi non hanno, doveva servire, con la riforma del 2007 e dopo aver svolto per decenni il solo compito della buonuscita alla fine del lavoro perlopiù nella stessa azienda, ad alimentare i fondi previdenziali integrativi per rendere un po’ più consistente il futuro assegno pensionistico. Fu fatta una grande campagna bipartisan e sindacale perché i fondi complementari decollassero anche con l’idea che potessero diventare protagonisti (i fondi raccolgono oggi più di 120 miliardi di euro) in un mercato finanziario asfittico com’è tradizionalmente quello italiano. Qualcosa si è mosso e attualmente ai fondi è iscritto circa il 30 % dei lavoratori dipendenti. E i fondi nel lungo periodo sembrano in grado di garantire rendimenti superiori a quelli, fissati per legge, del Tfr.
D’altra parte, con il passaggio, nel 1996 con la riforma Dini, dal sistema retributivo a quello contributivo il tasso di sostituzione, cioè il rapporto tra l’ultima retribuzione e l’importo della pensione, è ormai destinato a ridursi in maniera significativa, quasi a dimezzarsi. Tanto più per i lavoratori più giovani con una carriera professionale discontinua, tanto più per effetto della lunga crisi economica visto che il calcolo della pensione tiene conto pure della dinamica del Pil. Ruolo assegnato alla previdenza integrativa, appunto: compensare la perdita.
Con la mossa del governo è indubbio che possa invece arrivare una frenata alla previdenza integrativa. Da una parte perché potrà chiedere l’anticipo del Tfr anche chi ha aderito a un fondo, sospendendo così per il periodo 2015-2018 il versamento rinunciando nello stesso tempo al contributo del datore di lavoro che varia, a seconda dei contratti, dall’1 all’1,8%. Dall’altra parte perché il governo ha deciso di incrementare in maniera pesante la tassazione sul risparmio previdenziale: il prelievo sui rendimenti dei fondi salirà dall’11,5 al 20%. Una quota ancora inferiore a quella del 26% fissata per le rendite finanziarie ma comunque un passo verso l’armonizzazione delle aliquote e in controtendenza rispetto al passato in cui per incentivare l’adesione ai fondi si agì sulla leva fiscale. E contro l’inasprimento fiscale sono in rivolta le casse previdenziali dei professionisti sulle quali l’imposizione crescerà dal 20 al 26%. «Miopia istituzionale», l’ha definita Andrea Camporese presidente dell’Adepp.

il Fatto 17.10.14
E come al solito, il testo della legge ancora non si vede

FORSE NEL FINE SETTIMANA, forse dopo. Anche nel 2014 si ripete un classico delle manovre d’autunno: si fa il Consiglio dei ministri, si annunciano le magnifiche sorti e progressive dell’economia italiana con apposita conferenza stampa e poi niente. “Entro stasera avrete i testi”, ha detto Matteo Renzi ai giornalisti mercoledì. Loro, ingenui, pensavano si trattasse della legge di Stabilità, invece erano solo le slide: l’articolato vero e proprio è ancora in fase di scrittura tra palazzo Chigi e il Tesoro. Una limatura qua, un’aggiunta di là, un paio di consigli informali dell’ufficio legislativo del Quirinale e passano i giorni. Non c’è fretta, tanto più che adesso il premier dovrà pure sobbarcarsi - come avevamo anticipato - una trattativa con regioni e comuni sui tagli.

il Fatto 17.10.14
Addio al divorzio breve Salta l’ennesima promessa
La legge Moretti.D’Alessandro naufraga al Senato
Doveva semplificare i tempi a un anno
L’epilogo: ci guadagneranno (in soldi) soltanto gli avvocati
di Emiliano Liuzzi

Doveva essere, nelle intenzioni, una di quelle riforme che avrebbero fatto dell’Italia un Paese europeo. È finita per essere un decreto legge che va incontro solo a una categoria di persone: gli avvocati. Che non sono casta, ma affollano comunque le aule del Parlamento. Per chi volesse separarsi non cambia niente, o cambia poco: da domani, invece di presentarsi davanti al giudice, affiderà la mediazione all’avvocato. Che, al contrario del giudice, vuole essere pagato. Lo chiamano divorzio facile, nella pratica sappiamo solo chi paga e chi ci guadagna. Sempre tre anni di tempo serviranno.
EPPURE, l’enfasi nell’annunciare il passaggio della legge alla Camera ha reso l’idea nell’immaginario collettivo che si potesse divorziare nell’arco di brevissimo tempo. Non è così. Le leggi devono essere approvate, non solo annunciate. Nella realtà non è accaduto niente di tutto questo: il divorzio breve, quello che la parlamentare del Pd Alessandra Moretti e il deputato di Forza Italia Luca D’Alessandro avevano pensato, non esiste. E probabilmente non ci sarà mai, visto che la legge si è persa nei meandri del Senato, dove una parte del centrodestra aveva promesso una battaglia che poi ha vinto. In particolare Giovanardi, inteso come Carlo, senatore di lungo corso, già democristiano e portatore di un gran numero di preferenze. Anche perché, nel frattempo, è accaduto che Moretti reclamasse un seggio al Parlamento europeo e, alla fine, trasferita a Bruxelles, non ha potuto neppure difendere la sua riforma al passaggio in aula.
Il divorzio breve, così, è diventato divorzio facile perché inserito nel decreto giustizia, ma è stato fatto solo nelle modalità. Restano invece le enormi complessità, i tempi, restano le difficoltà legate all’affidamento dei figli. È successo che nei giornali è cambiato tutto, grandi titoli e annunci. Nella realtà non è cambiato niente. Legge è dispersa. Serviranno delle modifiche, un nuovo passaggio sia alla Camera che al Senato, con le resistenze di una parte del centrodestra, quelli che rappresentano la corrente ultracattolica e conservatrice, che ne faranno una norma impossibile.
La legge prevedeva, nella sua origine, che il divorzio breve dovesse intercorrere a “dodici mesi dal deposito della domanda di separazione”, mentre oggi servono tre anni. Nelle separazioni consensuali dei coniugi, in assenza di figli minori, il termine doveva “essere di nove mesi”. Non c’è stato niente di tutto questo. Servivano tre anni e così è ancora oggi. Non è cambiato niente neppure nella decorrenza: il termine dei tre anni non inizia dal deposito della domanda di divorzio, ma a separazione avvenuta. Ed è rimasta intatta anche la parte che riguarda i beni in comune: la comunione tra i coniugi si scioglie soltanto nel momento in cui, in sede di udienza presidenziale, il giudice autorizza i coniugi a vivere separati.
Alla fine il divorzio breve non è diventato altro che divorzio facile. E per divorzio facile si intende una negoziazione assistita da due avvocati. L’obiettivo è stato quello di saltare il passaggio del giudice, e questo è ciò che ispira tutta la filosofia del decreto legge sulla giustizia civile: snellire le cataste di pratiche che intasano, secondo il ministro, i tribunali d’Italia. Tuttavia i senatori della commissione Giustizia una tutela per i figli di coppie separate minori o disabili hanno voluto lasciarla, prevedendo un passaggio presso un pubblico ministero.
L’INGRESSO nella modernità, così come era stato raccontato, per il momento è rimandato a tempo indeterminato. E la volontà è stata politica. In sostanza, il divorzio breve che Moretti e D’Alessandro avevano pensato poteva essere inserito nel decreto legge sulla giustizia. Erano d'accordo il Pd, Forza Italia e anche alcuni senatori del Movimento 5 Stelle. Alla fine deve aver pesato il no del Nuovo Centrodestra di Alfano che, con Giovanardi, aveva sempre respinto l’ipotesi della legge Moretti-D’Alessandro. Così, rimasto fuori dal decreto per volontà del governo, il divorzio breve resterà un miraggio. E l'annuncio di una riforma, tra le tante, resterà tale. Un annuncio, appunto. Niente di più.

il Fatto 17.10.14
Il ministro ombra
Tutti in fila da Padoan, pardon Boschi
di Stefano Feltri

Nel governo Renzi c’è ormai un ministro dell’Economia ombra, un contrappeso a Palazzo Chigi del burbero Pier Carlo Padoan. E non si tratta del sottosegretario Graziano Delrio o di uno dei consiglieri economici del premier. Ma di una delle pochissime persone di cui Matteo Renzi si fida davvero cioè “la Mari”, Maria Elena Boschi. In teoria è soltanto ministro (senza portafoglio) per le Riforme e i rapporti col Parlamento, occupata da legge elettorale e abolizione del Senato, in pratica è diventata la referente di Renzi per la legge di Stabilità.
I PRIMI SEGNALI si erano già visti nelle scorse settimane: Matteo Renzi ha completamente delegato la scrittura della Nota di aggiornamento al Def, il documento su cui si basa la manovra, al Tesoro. Risultato: Padoan e la sua squadra hanno preparato un documento durissimo e puntiglioso in cui venivano ammessi anche i ritardi nelle riforme che costavano mezzo punto di Pil. Renzi se ne è disinteressato, ma da Palazzo Chigi la Boschi ha seguito il dossier segnalando al premier tutti i punti critici prima che venisse pubblicato. Oltre agli uffici in Largo Chigi, la Boschi ha da un po’ di tempo anche un ufficio proprio nella sede del governo, dall’altra parte della strada, a Palazzo Chigi. Per incontrare postulanti e negoziare meglio con i colleghi durante i Consigli dei ministri. Il ruolo della Boschi, sancito dal nuovo ufficio, è diventato più chiaro in queste ultime ore.
QUANDO RENZI ha chiuso il Consiglio dei ministri, varando la bozza della legge di Stabilità, molti dei tagli ai ministeri non erano indicati in dettaglio, nel documento c’erano parecchie caselle vuote e mancavano gli allegati. I collaboratori tecnici dei vari ministri hanno avuto una notte di tempo per studiare le opzioni suggerite dal ministero del Tesoro e fare le eventuali rimostranze la mattina dopo, cioè ieri. I singoli interventi andavano discussi con Padoan e i suoi, ovviamente, ma anche con Maria Elena Boschi, a Palazzo Chigi, anche se formalmente continua a non avere alcun incarico economico ma è stata la prima, su indicazione di Renzi, a consultare la versione finale della legge di Stabilità prima del Consiglio dei ministri. Non ha competenze di politica economica formalizzate, ma di lei il premier si fida, ormai, anche più di Graziano Delrio, il quale, come sottosegretario a Palazzo Chigi, sarebbe il vero numero due operativo del premier.
I colleghi di governo non fiatano su questa posizione della Boschi da primus inter pares. Uno dopo l’altro, quelli che hanno provato a esprimere idee autonome – da Giuliano Po-letti (Lavoro) a Stefania Giannini (Istruzione) fino allo stesso Delrio – sono stari richiamati al loro ruolo di meri esecutori. Conta solo la linea di Renzi. E tutti quelli che in questi mesi non sapevano come fare a capire cosa ci fosse nella testa del premier e chi fossero gli interpreti autorizzati della sua volontà, ora sanno a chi rivolgersi. A Maria Elena Boschi, oltreché a Luca Lotti, altro membro del governo che ha un potere molto superiore alla sua delega ufficiale, quella per l’editoria.

La Stampa 17.10.14
“Crollano ancora i consumi e la fiducia”
Confcommercio: giù anche il sostegno al governo, ma la legge di Stabilità va nel verso giusto
di Luigi Grassia

«I consumi sono fermi e il clima di fiducia si deteriora nel secondo semestre del 2014. C’è un calo di fiducia anche nei confronti del governo, che scende al 58,7%, dal 76,7% del primo semestre». Sono questi alcuni numeri di un’indagine Confcommercio-Censis. Si legge che il 44% delle famiglie ha visto peggiorare la capacità di spesa e il 70% guarda con pessimismo ai prossimi mesi. Il Centro studi di Confcommercio nota una micro-ripresa dei consumi nell’ultimo trimestre, ma fragilissima, e avverte: «Non si può parlare di svolta».
La Confcommercio rivede anche al ribasso le stime del prodotto interno lordo nel 2014 e nel 2015. Per quest’anno l’ipotesi di crescita viene tagliata al -0,2 per cento (dal +0,3 per cento in cui si sperava) mentre per l’anno prossimo c’è una correzione al ribasso da +0,9 a +0,6%. Il calo dei consumi e quello del Pil sono legati l’uno all’altro in un circolo vizioso: il prodotto lordo va giù perché con la crisi economica ci sono meno posti di lavoro e meno pagati, e la gente con meno soldi in tasca consuma meno, ma questo deprime ulteriormente l’economia e il Pil. Bisogna trovare il modo di spezzare il cerchio.
L’associazione dei commercianti unisce la sua voce a quella dei tanti che constatano l’inefficacia del bonus di 80 euro se lo scopo era il rilancio dei consumi: «Sembra sia servito a poco - si legge nelle conclusioni dell’indagine - visto che ben il 76% dei percettori non ha mutato in modo sostanziale la propensione al consumo». L’indagine Confcommercio-Censis sottolinea che «per 13 milioni di famiglie le bollette e le tasse si mangiano gran parte del reddito, deprimendo ogni propensione a nuovi consumi». Bollette e tasse sulla casa sono le voci di spesa più difficili da affrontare: il 54,2% degli interpellati mette proprio le bollette in cima alla lista dei problemi mentre il 49,8% riserva questo ruolo a tasse come la Tari e la Tasi.
Il presidente della Confcommercio, Carlo Sangalli, boccia l’idea del Tfr in busta paga: «Le piccole imprese non sono in grado di sostenere un ulteriore drenaggio di liquidità, a meno che tutto questo sia a costo zero. Ma non ho mai visto un’operazione a costo zero. Sarebbe bello se questa fosse la prima volta». Sangalli aggiunge che «la liquidità deve essere spostata dal sistema finanziario all’economia reale e non dalle imprese alle famiglie, perché imprese e famiglie sono sulla stessa barca in mezzo alla crisi».
Nel fare una sintesi dell’indagine, Sangalli dice che «emergono dati complessi e contraddittori, segnali di ripresa molto fragili per quanto riguarda l’occupazione e i consumi». Il presidente della Confcommercio aggiunge che «è stata bruciata tutta la fiducia accumulata in questi mesi. Finora non c’è stato un vero choc sui consumi per farli ripartire. Questo è un Paese stanco e in convalescenza». Il presidente commenta: «Abbiamo accolto con favore la riduzione fiscale contenuta nella legge di Stabilità. Quello che rientra nel perimetro di riduzione delle tasse va nella direzione giusta».
Da Sangalli pollice verso per la Tasi, la cui rata era in scadenza ieri: a chi gli chiedeva un commento sulla nuova tassa sui servizi indivisibili, il presidente di Confcommercio ha risposto che «è l’ennesima stazione di una Via Crucis fiscale alla quale sono sottoposte le nostre imprese e le nostre famiglie. In Italia le tasse si pagano tre volte: la prima con le imposte in sé, la seconda per la burocrazia e la terza per l’incertezza».

il Fatto 17.10.14
Benedetti ragazzi, studiate ogni tanto
di Bruno Tinti

IL PROBLEMA di Renzi & C. è l’ignoranza. Vogliono fare; ma non sanno quello che fanno. Almeno, in materia di giustizia non lo sanno. Prendiamo le ferie dei magistrati: 45 giorni sono troppi, si capisce che la giustizia sia in crisi con magistrati che lavorano così poco, si devono ridurre a 30; e i Tribunali non devono “chiudere” per 45 giorni, basta un mese, dall’1 al 30 agosto. Fatto. E adesso cominciano i guai.
Renzi non lo sa ma i Tribunali non “chiudono”; sarebbe impossibile visto che reati, arrestati e conseguenti processi ci sono anche d’estate. E non sta bene dire a chi sta in prigione di starsene tranquillo perché adesso si va in vacanza. È sospesa solo tutta l’attività che richiede l’intervento degli avvocati: appelli, ricorsi, udienze. Non fosse così, gli avvocati (non i giudici) non potrebbero mai andare in vacanza. Sicché i processi definiti urgenti dalla legge (tra questi quelli riguardanti i detenuti) si fanno.
Le ferie dei magistrati non hanno niente a che fare con i Tribunali “chiusi” per 45 giorni o 30 che siano. Coincidono, in genere, con il periodo di “chiusura” (si chiama sospensione dei termini), quando i processi da fare sono di meno e bastano pochi magistrati in servizio; così, quando la macchina girerà a pieno regime, tutti saranno presenti. Ma possono essere prese anche in altri periodi dell’anno; per esempio, i giudici che hanno lavorato in estate dovranno pur andare in ferie nei mesi successivi. Ora, il lavoro di un magistrato può essere paragonato a una catena di montaggio. Udienze, testimoni, perizie, memorie degli avvocati; alla fine la sentenza. Naturalmente di processi ce ne sono tanti, ognuno in un diverso stadio di lavorazione. E quindi capita che le sentenze arrivino in gruppetti, 3 oggi, 6 domani, nessuna fra tre giorni…
Ogni sentenza deve essere depositata entro un termine: se non rispettato, per il giudice c’è il processo disciplinare. Succede quindi che, quando arriva il fatidico giorno di andare in ferie, il giudice ha ancora da scrivere un certo numero di sentenze “incassate” nei giorni precedenti; e le deve scrivere entro un mese, altrimenti sono… guai. Ecco perché i giudici avevano 45 giorni di ferie: nei primi 15 (se gli bastavano) scrivevano sentenze. Adesso che ne hanno solo 30, in realtà gliene restano 15 o meno.
n NATURALMENTE si potrebbe adottare un meccanismo simile a quello usato per gli avvocati. Durante le ferie i “termini” sono sospesi: una sentenza “incassata” il 20 luglio dovrà essere depositata non il 20 agosto, ma il 20 settembre. Ma questo presuppone che tutti i giudici vadano in ferie dal 1 agosto al 30 agosto; che significherebbe chiudere davvero i Tribunali.
E siccome questo non si può fare, qualcuno dovrà restare in servizio e andare in ferie successivamente. E con la sospensione dei termini delle sentenze di questi giudici come la mettiamo? Si calcola, giudice per giudice, in funzione del momento in cui va in ferie? Con termini sospesi ad agosto, settembre, ottobre… Impossibile. Naturalmente a questo punto Renzi ha un problema. Ha fatto l’annuncio sbagliato, lo ha anche realizzato e adesso fare marcia indietro gli costa. Solo che, per salvare la faccia, non può ammazzare quello che resta della giustizia italiana. Facciamo così: tutti ci impegniamo a non dirgli “te l’avevo detto” e lui si rimangia tutto e torna ai 45 giorni di ferie.

Corriere 17.10.14
Il rischio di cambiare di fatto la Costituzione
di Stefano Passigli

Da tempo è in atto in Italia una modifica surrettizia della forma di governo parlamentare e un continuo rafforzamento dell’esecutivo. Iniziato con un sempre più frequente ricorso ai decreti legge, dopo lo stop alla loro reiterazione da parte della Consulta e la resistenza del Quirinale al loro abuso si è passati a un crescente ricorso alla fiducia previa introduzione di maxiemendamenti. Questo processo si è tradotto in un progressivo rafforzamento del governo, che è oggi in Europa tra gli esecutivi dotati di maggiori poteri nei confronti del Parlamento.
Ora — anche se non mancava qualche precedente — si è passati a porre la fiducia su una legge delega: un provvedimento che troverà attuazione in successivi decreti sui quali il Parlamento esprime pareri ma che non può emendare. Questo scardina ulteriormente la forma di governo parlamentare ed è un ulteriore passo verso uno pseudopresidenzialismo di fatto senza i checks and balances della vera forma di governo presidenziale. Si dirà: il Parlamento può negare la fiducia. Ma se i parlamentari sono scelti dai leader di partito e non dai cittadini esiste il più bieco dei vincoli di mandato: «o con me o non rieletto». Anche questo modifica — e non poco — la Costituzione.
La tanto conclamata crisi dei partiti tradizionali, più che causa di questa deriva, può esserne considerata una conseguenza. Forse, se l’intera seconda parte della nostra Carta viene progressivamente alterata, non è infondata l’opinione di chi ritiene che una Costituente eletta con metodo proporzionale sarebbe ben più legittimata di un Parlamento eletto col Porcellum a modificare le regole fondamentali del nostro sistema politico.

La Stampa 17.10.14
Il doppio azzardo del premier
di Luca Ricolfi

Sono stato fin troppo facile profeta, tre giorni fa, quando ho provato a insinuare il dubbio che i mercati finanziari non l’avrebbero bevuta. Che i mercati, cioè, non avrebbero apprezzato affatto una manovra che, anziché tentare di risanare i conti pubblici, li sfascia ulteriormente, pianificando un aumento del deficit di ben 11 miliardi di euro.
E così è stato, purtroppo: fra ieri e l’altro ieri lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è tornato a salire. Si potrebbe pensare che questo peggioramento non sia dovuto a un deterioramento del giudizio dei mercati sui conti pubblici dell’Italia, ma al cattivo momento dell’economia europea e alle preoccupazioni sullo stato patrimoniale delle banche greche, ma purtroppo questa interpretazione, vagamente autoconsolatoria, si scontra con la pietosa realtà dei dati.
I dati: lo spread dell’Italia non è aumentato solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Francia, al Belgio alla Spagna, all’Irlanda, ed è migliorato solo rispetto all’inguaiatissima Grecia e al Portogallo.
Si potrebbe pensare (e sperare) che nel giro di qualche giorno questa situazione di pericolo per i nostri conti pubblici rientri, e che i mercati si auto-tranquillizzino, o vengano tranquillizzati dal solito «aiutino» di Mario Draghi, o da una improvvisa conversione keynesiana di Angela Merkel. Il punto, però, è che anche nel più ottimistico degli scenari possibili, con l’Europa che ci lascia fare deficit e i mercati che continuano a prestarci denaro a basso costo, la manovra da 36 miliardi resta ad alto rischio. Ed è un vero peccato, perché la filosofia della manovra è più che giusta.
L’idea di fondo è di modificare la struttura dei conti pubblici facendo diminuire l’interposizione della Pubblica amministrazione (meno tasse e meno spese) e di farlo più dal lato delle entrate che da quello delle uscite, in modo da far respirare l’economia: se i numeri della manovra venissero rispettati, a fine 2015 avremmo sì più deficit pubblico, ma gli italiani si troverebbero ad aver pagato meno tasse. E altrettanto condivisibile è l’idea che, per far ripartire l’occupazione, si debbano ridurre i contributi sociali a carico del lavoro dipendente.
Dov’è dunque il problema?
Il problema si annida in due passaggi assai delicati della manovra. Il primo riguarda la spending review: 15 miliardi di tagli delle spese improduttive, di cui circa 3 sulla sanità, sono facili da annunciare ma molto difficili da attuare, e questo per un mix di cattive e di buone ragioni: la resistenza della casta burocratica, ma anche la mancanza di piani di riduzione degli sprechi così analitici e così ben fatti da consentire riduzioni di spesa senza riduzione dei servizi. Lo scenario più probabile è un negoziato di Renzi e Padoan con gli Enti locali (e con i ministri!) per ridimensionare i tagli, seguito da un aumento della tasse locali. La reazione irritata del governatore del Piemonte, il renziano Chiamparino, all’annuncio dei tagli prelude precisamente a uno scenario del genere.
Ancora più delicato è il secondo passaggio, quello in cui si annuncia l’azzeramento dei contributi per le imprese che assumono. Qui molta enfasi è stata posta sul fatto che un’impresa risparmierà circa 9 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato, ma si sta dimenticando che se i miliardi a disposizione sono solo 1.9, le assunzioni a contributi zero potranno essere appena 200 mila, ossia molte di meno delle assunzioni a tempo indeterminato totali (oltre 1 milione). Ma non si tratta solo di questo, ovvero della ridotta ampiezza della «platea» dei beneficiari. Il problema è che in una situazione in cui c’è molta capacità produttiva inutilizzata, gli sgravi contributivi si limitano ad alleggerire i conti delle imprese (più profitti, o meno perdite), ma difficilmente generano nuova occupazione perché per soddisfare i pochi ordinativi che le imprese ricevono quasi sempre basta e avanza la forza lavoro già occupata. Se anche nel 2015, nonostante lo stimolo del deficit, la domanda aggregata sarà debole, e il Pil resterà quindi stagnante (come il Governo stesso ammette), non vi sono motivi per pensare che l’occupazione totale possa crescere in modo apprezzabile: perché si abbia un aumento degli occupati, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere almeno del 2%, eventualità che tutti gli osservatori escludono.
Ecco perché non sono molto ottimista. La decontribuzione resta un’ottima idea, ma se le risorse ad essa destinate sono così esigue, sarebbe di gran lunga preferibile concentrarle sulle imprese dinamiche. Il che, in concreto, può significare due cose: o riservare gli sgravi alle imprese che esportano, con conseguenti benefici sulla competitività (un’idea di recente lanciata da Oscar Farinetti); oppure riservarli non già ai neoassunti in generale (compresi i lavoratori che ne sostituiscono altri, andati in pensione o licenziati), ma ai lavoratori assunti su nuovi posti di lavoro, ossia ai casi in cui l’impresa incrementa l’occupazione rispetto all’anno precedente (un’idea suggerita dalla Fondazione Hume, con il contratto denominato job-Italia). Il vantaggio sarebbe che, in entrambi i casi, si avrebbe un effetto non trascurabile sul Pil, con benefici nei tre ambiti chiave: competitività, occupazione, entrate dello Stato.

Corriere 17.10.14
I tanti legittimi dubbi sul taglio delle tasse
di Massimo Fracaro, Nicola Saldutti


L’idea che il peso delle tasse possa (finalmente) diminuire rappresenta un segnale importante per le persone e le imprese. E quei 18 miliardi di riduzione indicati nella legge di Stabilità rappresentano un passo importante. Eppure, quando si parla di tasse è legittimo avere qualche dubbio. Quando fu dato l’addio all’Imu sull’abitazione principale si disse che le imposte sugli immobili sarebbero diminuite e che il sistema sarebbe stato semplificato. Sappiamo che, purtroppo, non è andata così. E allora proviamo a ripercorrere alcuni degli interventi varati.
Partiamo dal Tfr. Se, come sembra, l’anticipo sarà tassato con le aliquote progressive Irpef, si tratta di una misura che alla fine (oltre i 29 mila euro) avrà come principale beneficiario soprattutto il Fisco. Se l’obiettivo era quello di spingere i consumi sarebbe stato meglio lasciare una tassazione più favorevole. Ai lavoratori che faranno questa scelta, infatti, verrà applicata l’aliquota marginale, ovvero quella che si paga sulla quota più elevata di reddito (oscilla tra il 23% e il 43%). Mentre se si decide di incassarlo a fine carriera, come avviene oggi, si subirà un prelievo nettamente inferiore (dal 23% al 33%). E, se lo si investe nei fondi pensione, l’aliquota è ancora inferiore: tra il 9% e il 15%. L’unico a gaudagnarci sarà alla fine lo Stato, che riceverà in anticipo (e in misura maggiorata) le imposte che altrimenti incasserebbe tra 15 o venti anni. Un brutto segnale viene dal capitolo della previdenza integrativa. Qui, per cercare di coprire altri sgravi, si propone di portare il prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20% (e dal 20% al 26% quello delle casse private). L’aumento comporta maggiori tasse per 3,6 miliardi. Il 10% delle entrate previste. Un colpo gobbo che colpisce i risparmiatori più previdenti, quelli che stanno investendo per il loro futuro. Quasi tutti l’hanno fatto sapendo di poter beneficiare di un trattamento favorevole, mentre ora vedono infrangersi il patto con il Fisco. La previdenza complementare rischia l’estinzione.
E arriviamo al capitolo più ambiguo: quello degli enti locali. Come è già avvenuto in passato si rischia che la riduzione dei finanziamenti statali venga compensata dagli aumenti delle addizionali Irpef o dei tributi di competenza regionale e comunale. Lo scontro tra Regioni e Stato centrale è appena agli inizi. Diventa sempre più stretta la via per chi amministra e deve rispettare i nuovi parametri di bilancio. Risultato: andiamo verso un nuovo aumento a orologeria. Lo stesso ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a una domanda su questo rischio ha risposto con un laconico «Può darsi». Speriamo che si sbagli.

La Stampa 17.10.14
“Una mano dà, l’altra toglie
Troppi rincari fiscali e spending poco incisiva”
di Marco Sodano


Una manovra descritta come semplice e lineare, che a una verifica più attenta non sembra così semplice, né così lineare. «La lettura è attenta per quel che si può - avverte Serena Sileoni, vice-direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni - perché al momento abbiamo visto le slide del premier e alcune bozze del provvedimento, ma non c’è ancora un testo definitivo da valutare».
Avvocato Sileoni, il premier ha parlato di «manovra che abbassa le tasse». Non è abbastanza lineare?
«L’annuncio lo è, eccome. L’applicazione di questo principio linearissimo mi pare molto più complessa. Sul versante delle entrate quasi metà manovra è fatta di revisione della spesa, e non sono tagli cui si sottopone lo Stato ma gli enti locali. Significa accettare, implicitamente, la possibilità che gli enti locali aumentino le tasse: una mano dà, l’altra toglie. E poi ci sono rincari fiscali veri e propri».
Per esempio?
«Per le casse previdenziali, le rendite finanziarie, la banda larga e le slot machine. Mi rendo conto che, quando si parla di gioco d’azzardo, aumentare il carico paghi da un punto di vista dell’immagine. Anche per le rendite finanziarie il meccanismo comunicativo funziona bene. Però chiamiamo le cose con il loro nome: qui le tasse aumentano».
C’è senz’altro un impegno forte per le imprese e il lavoro, però.
«Gli interventi per il settore produttivo sono senz’altro un’ottima cosa. A cascata, migliorano le condizioni di vita e le capacità di spesa delle famiglie».
Ci sono settori o aree geografiche del paese premiati? Il taglio Irap diventa sempre più apprezzabile per le grandi imprese. Le agevolazioni Iva aiutano gli artigiani...
«Si incoraggia quanto di buono c’è già, le aree e i settori che trainano la nostra economia da sempre. E qui torniamo all’impostazione della manovra, che a me sembra molto poco innovativa: un’altra fetta consistente delle risorse si fa ricorrendo al deficit. E poi cose piccole ma significative: tornano i fondi per i Forestali calabresi, tradizione che ci portiamo dietro dal secolo scorso, mentre si era parlato di accorpare quella funzione nella polizia. Continuiamo a fare poco sulle partecipate degli enti locali, altra voragine dei conti pubblici che conosciamo da lungo tempo. E sul versante delle entrate ci sono voci aleatorie».
Un contributo robusto dovrebbe arrivare dall’evasione fiscale.
«Che è aleatoria per definizione. A meno che uno non dia mandato all’Agenzia delle Entrate di mettere in piedi un’operazione di recupero molto aggressiva, cosa che non mi pare nelle intenzioni di questo governo. Lo stesso discorso mi pare si possa fare per la spending review. Lo Stato non riesce a farla in modo incisivo».
Domanda secca: una cosa che ha apprezzato.
«Sono stati tolti dei soldi ai patronati».
Seconda domanda secca: cosa le è piaciuto di meno?
«Non stiamo aggredendo la spesa pubblica. A mio parere bisognerebbe cominciare da lì».

Repubblica 17.10.14
La spending review dall’alto
C’è il rischio che il conflitto possa essere inquinato da tentativi di piccolo o grande cabotaggio per rimettere in discussione gli equilibri del partito
di Massimo Riva


STAVOLTA il fronte interno delle reazioni alla manovra 2015 minaccia di rivelarsi anche più caldo, se possibile, di quello esterno in Europa.
INparticolare sul versante degli enti locali: le Regioni innanzi a tutti. Si potrà dire che lo scontro fra Palazzo Chigi e i governatori è una costante nella stagione in cui si allestiscono le misure di aggiustamento del bilancio: anche ai tempi dei tagli lineari del duo Berlusconi-Tremonti si sono viste scintille infuocate. Quest’anno, però, c’è una novità politica da non prendere sottogamba: il conflitto si è aperto all’interno dello stesso schieramento della sinistra governante. Da una parte c’è il segretario del Pd che è anche presidente del Consiglio, dall’altra c’è Sergio Chiamparino, governatore del Piemonte e presidente della conferenza delle Regioni. Un personaggio di estrazione diessina ma che, nelle battaglie interne al Pd, finora si era manifestato fra i sostenitori di Matteo Renzi.
Alto, quindi, è il rischio che il conflitto sulla portata dei provvedimenti possa essere inquinato anche da tentativi di piccolo o grande cabotaggio per rimettere in discussione gli equilibri interni di un partito dove i non-renziani sono sì una minoranza e però non pacificata.
I toni durissimi con i quali Chiamparino ha aperto le ostilità, purtroppo, non fanno presagi- re granché di buono. Né le prime reazioni di Renzi suonano particolarmente accomodanti. Ha detto il governatore del Piemonte che questa manovra per le Regioni è «insostenibile a meno di non incidere sulla sanità».
Ha replicato il presidente del Consiglio: «Sono pronto a incontrare gli esponenti delle Regioni, ma dire che ora si alzano le tasse o si taglia la sanità è una provocazione». Controreplica di Chiamparino: parole offensive.
Così non va: in un’ottica di responsabilità istituzionale reciproca sarebbe auspicabile da parte di entrambi un linguaggio più legato alla sostanza delle questioni.
Nessuno pensa che chiedere alle Regioni ulteriori sacrifici per oltre quattro miliardi sia come l’invito a una passeggiata. Così com’è vero che la spesa per la sanità costituisce la posta di gran lunga maggiore nei bilanci regionali. Ma davvero all’interno di questi consuntivi non ci sono altri spazi, meno socialmente odiosi, su cui operare risparmi di spesa? C’è qualcosa di non sempre credibile nelle reazioni degli enti locali alle richieste di tagli che vengono dai governi centrali. Non appena la scure si alza sui bilanci comunali, pronti i sindaci dichiarano che così dovranno chiudere gli asili nido. Quando la mannaia minaccia le Regioni, la risposta consolidata è: taglieremo i servizi sanitari. È una storia vecchia, che però rimane ancora del tutto irrisolta.
Come altrettanto totalmente irrisolta è un’altra partita che riguarda i bilanci patrimoniali degli enti locali da dove — molto meno dolorosamente per i cittadini — si sarebbero già potute ricavare non piccole risorse per migliorare lo standard dei servizi sociali e al tempo stesso risanare i consuntivi anno dopo anno. La partita è quella delle innumerevoli aziende partecipate da Comuni e Regioni che talora portano nelle casse pubbliche qualche buon profitto, ma più spesso operano in perdita a esclusivo benefico di coloro che hanno avuto — diciamo così — la buona sorte di trovarvi un canonicato, pingue per sé e inutile per gli altri.
Da quanti decenni sul tavolo della politica italiana è aperto questo problema? Quanti commissari alla spending review vi si sono spaccati invano la schiena? Ecco se il presidente del Consiglio, anziché parlare di provocazione, avesse puntato il dito su questo nodo forse si potrebbe sperare in un esito più proficuo — per i cittadini e i conti pubblici — del confronto che si aprirà fra governo e Regioni. Anche perché in materia risulta del tutto insoddisfacente quell’inciso della legge di stabilità in cui si richiede agli enti decentrati di predisporre entro il marzo prossimo un piano di cessioni e accorpamenti delle aziende controllate con riferimento anche alle retribuzioni dei dirigenti.
Francamente da un decisionista come Matteo Renzi c’era da aspettarsi qualcosa di ben più ultimativo su una materia che, oltre tutto, potrebbe portare a risparmi anche parecchio superiori a quei quattro miliardi che hanno fatto così imbufalire Chiamparino e soci. Peccato, un’occasione persa: sulla quale sarebbe stato davvero interessante per i contribuenti assistere a un confronto fra governo ed enti locali. Magari per ascoltare questi ultimi chiedere conto allo Stato di ciò che intende fare per liberare il campo anche dai suoi tanti e persistenti enti inutili o addirittura dannosi.
Purtroppo, non l’unica occasione persa di una manovra che comunque contiene buone misure mirate a spingere verso la crescita economica. Anche se talora contraddittorie: che senso ha, per esempio, aprire il capitolo dell’anticipazione del Tfr per poi richiuderlo con una maggiorazione delle imposte? Lo spazio di tempo per un riesame più sobrio e coerente di alcune misure non manca. C’è da sperare che — al lordo del conflitto con le Regioni — governo e Parlamento lo sappiano sfruttare.

il Fatto 17.10.14
Partito democratico
Bersani o Renzi Chi è peggio?
di Goffredo Bettini

Non convince la discussione che si è svolta fino ad ora sulla forma del Pd. Come se il dilemma fosse tra i difensori del partito organizzato (la “ditta”) e i fautori di uno “sciogliete le righe” in nome di un già appagante successo elettorale.
Invece la questione è ben diversa: come inventare una nuova forma-partito adatta ai tempi che ci stanno dinanzi. In questo senso, la cosiddetta “ditta” è stata il punto più basso della nostra parabola. Ha tradito il tentativo iniziale di rinnovamento del Pd; ha sviluppato ulteriormente la rete correntizia, rafforzando nei territori centinaia di notabili locali, alla ricerca di tessere la cui qualità si può ben immaginare; ha mortificato la vita degli organismi dirigenti, fino al punto di non discutere in direzione le quattro giravolte politiche che abbiamo compiuto dopo il voto nazionale: prima mai con Berlusconi, poi Marini presidente della Repubblica con l’assenso di Berlusconi, poi Prodi contro Berlusconi, poi un governo con Berlusconi.
Nonostante la presenza di migliaia di militanti meravigliosi, la “ditta” ha lasciato un Pd sfilacciato e senza anima.
Purtroppo, rispetto a ciò, Renzi (che ho sostenuto e sostengo per il suo progetto politico per nulla incoerente e fragile, semmai ambizioso e temerario) non ha dato per ora segni di reale e ispirata voglia di cambiamento.
Il suo gruppo dirigente, impegnato sul tema, è sembrato cercare una sorta di compromesso tra la libertà di azione del leader legittimato dalle primarie e dallo storico voto europeo e il permanere di quella tradizionale geografia dei poteri saldamente in sella nelle varie regioni.
Il suo intervento, invece di muoversi su una linea di radicale discontinuità, si è limitato a giocare con i protagonisti di sempre, producendo in qualche caso anche il peggioramento della situazione e la legittimazione di ulteriori forme di aggregazione correntizia.
Nulla togliendo al valore delle singole persone, anche l’insieme della segreteria eletta appare al di sotto dell’esigenza politica di una svolta nel profilo e nell’organizzazione del Pd.
Di un partito nuovo, invece, c’è un bisogno urgente. Altrimenti il leader, nonostante il suo talento, sarà inevitabilmente sussunto in una dimensione autoreferenziale e, alla fine, si troverà più solo, indifeso e debole. E, per altro verso, la società continuerà a sentirsi abbandonata, estranea, non coltivata, desertificata. Tranne accendersi ogni tanto in lampi di grande consenso o di rivolta. Cosa fare? L’impegno è arduo e deve essere collettivo. Il passo fondamentale, tuttavia, è ripartire dal panorama umano e sociale dell’Italia di oggi: nuove ingiustizie, vissute in solitudine e da milioni di cittadini. Il partito deve andare a calcomania nelle pieghe di questa atomizzazione dolorosa e silenziosa; con grande visione e con mano leggera.
VIA DUNQUE gli apparati delle correnti, le intercapedini burocratiche, le oligarchie che si autoconservano. E avanti, invece, le persone; alle quali non si può chiedere solo di fare propaganda, le feste dell’Unità, di prendere la tessera per votare ai congressi o di dare la preferenza alle elezioni. Occorre dare loro anche lo scettro della decisione politica. Decisione preparata dal confronto sulla rete, dalla produzione di idee delle aree politiche, ma che alla fin si realizza nell’Agorà; vale a dire nell'incontro, nella discussione e nella deliberazione delle persone chiamate ad assumersi insieme la propria responsabilità individuale.
Si discuta se queste persone debbano essere gli iscritti di un partito che per questa via ambisce a essere largo e aperto, oppure gli elettori aderenti a un albo delle primarie. Ma il sale della questione è ridare loro voce, riallacciando i fili spezzati. Verranno fuori conflitti? Passaggi difficili? Forse. Ma ne trarrà enorme forza il coraggio del leader e grande vantaggio la democrazia italiana.

Corriere 17.10.14
La finanziaria spiazza la sinistra
E Bersani ammette: c’è del buono
di Maria Teresa Meli


ROMA Doveva essere la madre di tutte le battaglie della minoranza del Partito democratico. Dopo aver deposto l’ascia di guerra sul Jobs act e aver votato la fiducia al governo, l’area che non si riconosce in Matteo Renzi si era ripromessa di spostare il terreno dello scontro sulla legge di stabilità.
Di più, aveva annunciato che lì avrebbe fatto ballare il governo. Ma adesso anche questa operazione è diventata più difficile. Certo, c’è sempre Stefano Fassina che, coerente con se stesso, non molla la presa, e bolla la manovra come «iniqua e non di sinistra», ma gli altri appaiono ben più cauti e un po’ spiazzati. E la cosa ha del sorprendente perché nello stesso giorno, ossia il day after del Consiglio dei ministri che ha varato la legge di stabilità, si rincorrono le voci più disparate.
Si torna a parlare di possibili elezioni in primavera. Sono gli stessi renziani a farlo, pur premettendo che il capo non è di questo avviso e che «solo in caso di sondaggi in controtendenza» potrebbe giocare d’azzardo usando le consultazioni come «un referendum su se stesso».
E si torna a parlare di scissione: se ne discute nei corridoi della Camera dove, invocando l’anonimato, dalemiani e bersaniani di stretta osservanza scommettono su questa ipotesi, anche se ammettono che potrà realizzarsi solo quando Giorgio Napolitano andrà via dal Quirinale.
Eppure è proprio in questo quadro quanto mai confuso che la minoranza non ha imbracciato il fucile per impallinare (ovviamente in senso metaforico) la manovra del premier. Anzi c’è dell’imbarazzo. E c’è chi vorrebbe stoppare coloro che sono andati troppo avanti nella guerra contro Matteo Renzi.
Un esempio? Il ministro bersaniano Maurizio Martina che dice chiaramente di non condividere «le critiche di Fassina»: «Stefano deve riflettere, perché in questa manovra ci sono delle scelte molto importanti». E il lettiano Francesco Boccia, che non è mai tenero con il presidente del Consiglio, questa volta afferma: «Io tifo perché questa manovra sia espansiva».
Ma il commento più incredibile, lontano dai taccuini dei cronisti è quello di Pier Luigi Bersani. Il quale ha molto da rimproverare al suo successore (e tanto da recriminare), però quando chiacchiera liberamente sugli scranni della Camera, senza avere giornalisti ai quali regalare una battuta a effetto, ammette: «Per quello che si capisce la legge di stabilità ha delle cose buone, certo dobbiamo vedere le carte...».
Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro di Montecitorio, alle prese con il Jobs act, guarda le «ombre» ma anche le «luci» di questa manovra e non sembra affatto intenzionato a dar battaglia su questo terreno.
L’ex (?) dalemiano Gianni Cuperlo non riesce a non ammettere che questa sia «una manovra espansiva». E quindi non può proprio essere bersagliata come una legge di stabilità stile Thatcher. Perciò preferisce farsi scudo della rivolta dei governatori delle Regioni, anche se, da politico raffinato, capisce dove può andare a parare tutta questa storia: «Renzi giocherà sul senso Fiorito». Ossia sullo scarso credito di cui godono le Regioni dopo gli ultimi scandali.
Riflessione azzeccata, almeno a sentire quello che il premier dice ai fedelissimi: «Gli sprechi delle Regioni sono sotto gli occhi di tutti gli italiani».

Corriere 17.10.14
Un conflitto tutto nel Pd con l’occhio agli elettori
di Massimo Franco


Stavolta il conflitto sembra tutto interno: tra Matteo Renzi e le regioni, per lo più guidate dalla sinistra; tra premier e grumi di interessi del Pd; e tra il capo del governo e alcuni dei suoi stessi sostenitori. Ed è un’umiliazione per questi ultimi. La Legge di Stabilità non ha ancora prodotto effetti nei rapporti con l’Europa. C’è stato solo un aumento vistoso dello spread , arrivato a 176 punti dopo avere toccato i 200: tanto che FI azzarda un «verdetto» negativo dei mercati finanziari. Può darsi, ma l’aspetto più politico riguarda la frattura che i provvedimenti, in particolare i tagli di spesa per 1,2 miliardi di euro negli enti locali, sta producendo tra palazzo Chigi e il «partito delle giunte». Evidentemente, c’è stato un cortocircuito informativo. E personaggi come il presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, o il sindaco di Torino, Piero Fassino, al vertice dell’Anci, entrambi alleati del premier, si sono ritrovati nel bel mezzo di una partita imprevista. Hanno provato a protestare. Hanno avvertito che potrebbero dover aumentare le tasse locali e ricorrere a tagli alla sanità per compensare le riduzioni di spesa previste dalla legge di Stabilità. Ed hanno chiesto un incontro «urgente» con Renzi. La risposta è stata un «sì», accompagnato però da una puntualizzazione sprezzante. «Non ci prendiamo in giro. Se vogliamo ridurre le tasse, tutti debbono ridurre spese e pretese».
Il premier li ha gelati così. Ed ha ammonito che aumentare le imposte «sarebbe una provocazione», perché le regioni debbono tirare la cinghia come fanno «le famiglie italiane da anni». Così,quello che fino a qualche giorno fa appariva un rapporto forte, solido, di colpo si è trasformato in una trappola. Nella sua marcia verso consensi cercati oltre i confini e gli steccati del Pd, Renzi non fa sconti nemmeno al bacino tradizionale dei voti, dei soldi e del potere del proprio partito. Rinfacciare «gli sprechi» alle regioni significa toccare un tema popolare, alimentato da decine di scandali; e riscuotere il plauso silenzioso di un’opinione pubblica che associa molti enti locali al partitismo, non ad una gestione efficiente e oculata dei soldi pubblici.
La reazione è stata di accusare di sprechi anche i ministeri; e di bollare come «offensive» le parole renziane. Ma, appunto, è una reazione, che sottolinea la sorpresa e non la possibilità di cambiare la nuova situazione di fatto. È una tensione che finirà per incrociare anche i giochi all’interno del Pd tra due modelli di partito, e sul rapporto tra il premier-segretario ed i gruppi dirigenti. È chiaro, tuttavia, che dopo avere accompagnato la marcia del governo con applausi e giudizi liquidatori sui suoi critici, a Chiamparino e Fassino è difficile smarcarsi. Di più: rischiano di passare da un giorno all’altro nelle file dei «dinosauri». È come se non avessero calcolato fino in fondo le dinamiche di un nuovismo che viene declinato da un solo interprete; e che tende a individuare e spianare gli ostacoli secondo logiche ostili a qualunque posizione di rendita: soprattutto se intralciano una strategia che ha bisogno sempre di rilanciare e di sorprendere, con un occhio all’elettorato e un altro all’Unione europea. La reazione furibonda delle regioni è funzionale alla manovra di legittimazione che Renzi sta tentando con Bruxelles mentre è in corso il vertice euroasiatico di Milano. Non si tratta di un gioco delle parti. Il presidente del Consiglio usa l’ostilità degli enti locali, privati di un pezzo dei loro introiti, per dimostrare ad un’Europa aggrappata al rigore e scettica verso il governo di Roma, che sta facendo le cose sul serio. Lo scontro contribuisce alla narrativa delle «carte in regola». Basterà aspettare qualche giorno per capire se l’operazione è credibile e sta funzionando: qui e fuori dai nostri confini.

Corriere 17.10.14
Gli enti locali pd come i sindacati
E quei segnali da Forza Italia
di Francesco Verderami


ROMA Con le Regioni si è mosso come con i sindacati sul Jobs act. Perché il «metodo Renzi» non contempla trattative preliminari, semmai un incontro formale a decisione assunta. E per spiegare la sua decisione, mercoledì sera il premier era stato brevissimo con i colleghi di governo: «Le Regioni devono pagare», aveva detto. Incassando il silenzio-assenso di Ncd e il silenzio e basta del ministro delegato, la democratica Lanzetta. Altra questione è se i governatori fossero stati o meno avvertiti della scelta, se è veritiera la versione fornita da autorevoli esponenti dell’esecutivo («da due settimane i rappresentanti delle Regioni sapevano del taglio») o quella di Chiamparino, secondo cui «due settimane fa ho avuto solo un colloquio con Delrio e mi sono scambiato qualche sms con Renzi. E comunque noi sapevamo che il taglio sarebbe stato di due miliardi non di quattro». «Sulla sanità — ribatte il premier — il ministro Lorenzin aveva già destinato due miliardi alle Regioni. Quindi il taglio è di due miliardi, in fondo, non di quattro».
Al di là della durissima disputa sul metodo e soprattutto sul merito, il punto è che dal conflitto tra governo e Regioni prende corpo un inedito fronte politico: quello dei risanatori, che in nome della riduzione delle tasse si intesta la sfida contro il «partito locale delle mani bucate», che nell’opinione pubblica evoca — a torto o ragione — la stagione dei Fiorito e dei Penati. E così come sul Jobs act, la mossa di Renzi scardina i confini di maggioranza e opposizione, perché terremota le certezze di quegli amministratori (a maggioranza pd) che si sentivano protetti dal premier, mette in imbarazzo persino dei fedelissimi come Serracchiani — che ieri non sapeva da che parte voltarsi alla conferenza Stato-Regioni — e apre un inatteso canale di confronto con pezzi di opposizione.
Per certi versi è scontata l’esultanza di Alfano, che la scorsa settimana — alla festa di Ncd — aveva di fatto preannunciato l’affondo di Renzi: «Con la legge di Stabilità, Regioni e Comuni saranno chiamati a fare la loro parte nell’azione di risanamento. E noi vigileremo sul territorio perché i tagli di tasse che opererà il governo nazionale non vengano resi inefficaci dall’aumento di tasse locali». D’altronde — spiega il ministro Lorenzin — «non si notano operazioni strutturali sull’efficienza da parte delle Regioni. Ed è lì che devono intervenire». Certo, «non si può fare di tutta l’erba un fascio», come tiene a sottolineare il forzista Fitto, che però — ecco la novità — è pronto «dall’opposizione» a schierarsi con il fronte dei risanatori «se Renzi andrà fino in fondo»: «Ci sarà il tempo — dice l’ex governatore della Puglia — di leggere il testo della legge di Stabilità. E se quello del premier non è un trucco per scaricare sulle Regioni il fardello di nuove gabelle, allora vorrà dire che davvero ha avuto coraggio e a quel punto bisognerà incalzarlo sui tagli alla spesa e alle tasse. Così può qualificarsi Forza Italia». Capito Berlusconi ?

La Stampa 17.10.14
Forza Italia teme una manovra elettorale
Il sospetto di Berlusconi: Renzi vuole le urne e punta ai consensi nel centrodestra
La minoranza Pd non farà barricate
di Ugo Magri


Eccezion fatta per Fassina, che di Renzi non ha timore, e per la Bindi (ecco un’altra che non le manda a dire), nessun esponente Pd si è sbilanciato contro questa manovra, né è corso in aiuto dei compagni presidenti di Regione presi a ceffoni dal premier. Può darsi, anzi è probabile, che nelle prossime ore qualcuno della «ditta» rompa il silenzio, magari Bersani o lo stesso D’Alema. Le proteste dal territorio saliranno talmente forti da costringere la minoranza interna a dare segni di vita, magari presentando emendamenti come già Fassina anticipa di voler fare. Ma i rapporti di forza sono quelli che sono, consentono a Renzi di «asfaltare» la dissidenza.
L’unico terreno su cui la sinistra interna ancora spera di poter incidere riguarda l’articolo 18, unendo le forze col sindacato.
Sulla legge di stabilità, invece, domina il realismo politico. Alla domanda se in Parlamento faranno le barricate contro una manovra considerata «iniqua» e troppo «liberista», gli stessi contestatori ammettono che no, grandi ostacoli non ce ne saranno perché il governo è comunque in grado di far valere i numeri della sua maggioranza. Dove Ncd è schieratissimo, addirittura canta vittoria con accenti che, un tempo, si sarebbero definiti da «mosca cocchiera». Perché è vero, come segnala via «tweet» Alfano, che il Nuovo centrodestra da sempre sponsorizza i tagli delle tasse sulle famiglie e sulle imprese; però figurarsi se Renzi vi ha provveduto in ossequio ai suoi alleati. L’ha fatto semmai per sostenere la ripresa. Oppure per calcoli molto meno nobili che attengono ai giochi della politica.
Significativa in proposito è la reazione berlusconiana. Che in teoria dovrebbe essere ultra-favorevole per ragioni opposte a quelle della sinistra Pd, cioè di plauso a una manovra che vuole rilanciare i consumi (vecchio pallino del Cav) perfino a costo di sfidare Bruxelles (anche di ciò Forza Italia dovrebbe essere compiaciuta). Eppure, tra i commenti da quella parte, il solo Capezzone con onestà riconosce che «la direzione non è sbagliata» e registra «un’inversione di tendenza positiva», mentre il limite di Renzi consiste nell’essersi fermato «a metà strada» mentre Capezzone avrebbe voluto che fosse percorsa tutta intera...
Brunetta invece spara contro la manovra. E il capogruppo alla Camera imbraccia il mitra delle dichiarazioni perché quella è la linea concordata con Silvio. Roso da invidia nei confronti di Matteo, il quale è riuscito a tagliare le tasse laddove lui non ha nemmeno provato? No, non per questo ma perché, dicono i suoi, «ha mangiato la foglia». Teme che dietro la conferma degli 80 euro, dietro la mano tesa alle partite Iva, dietro al braccio di ferro con la Merkel si celi l’intenzione di andare alle urne quanto prima. E che dunque, per usare il linguaggio di Brunetta, la legge di stabilità sia «una manovra elettorale», una scusa per acchiappare voti nel bacino moderato, già pregustando una vittoria ancora più splendente di quella clamorosa alle Europee.

La Stampa 17.10.14
Archeologi sardi contro il ministero per il destino dei “giganti di pietra”
Oristano, il recupero a una coop emiliana. L’università protesta
di Nicola Pinna


I pugilatori, gli arcieri e i guerrieri nuragici a questa lotta non partecipano. La osservano in disparte, forse con un po’ d’imbarazzo.
Ma la loro casa, quella in cui hanno trascorso poco meno di trenta secoli, si è trasformata in questi giorni in un grande ring. Dopo quarant’anni di disinteresse, a Mont’e Prama si è capito che gli studiosi stanno facendo la più grande scoperta archeologica sulla storia del Mediterraneo. Verso il santuario dei giganti di pietra, nella costa occidentale della Sardegna, si sono già concentrate le attenzioni degli studiosi di tutto il mondo, ma si è anche scatenata una battaglia per metà accademica e per metà politica.
Resta sullo sfondo l’entusiasmo, principalmente scientifico, per i tesori che vengono alla luce giorno dopo giorno: la prima campagna di scavo, tra il 1974 e il 1979, aveva regalato 25 grandi statue ma ora il patrimonio si arricchisce. Giusto tre settimane fa altri due pugilatori con tanto di scudo sono spuntati fuori all’improvviso. Molto altro, secondo il georadar, resta da scoprire. Perché nella collina di fronte allo stagno di Cabras, tra l’XI e l’VIII secolo avanti Cristo, c’era un grande tempio collegato a una necropoli: questo, ipotizzano gli storici, era un luogo di esaltazione della civiltà. E delle arti, visto che i protosardi erano abili scultori e lo erano diventati prima dei greci.
Gli archeologi dell’Università di Sassari lavorano da maggio nella penisola del Sinis e per loro ora c’è un avviso di sfratto. Il Ministero dei Beni culturali ha deciso di gestire autonomamente lo scavo e ha affidato l’incarico a una cooperativa emiliana. Questo è l’innesco della polemica: i reperti ancora nascosti li riporteranno alla luce i tecnici della Archeosistemi di Reggio Emilia. «Stanno scippando ai sardi anche la storia – attacca il deputato Mauro Pili – Tutta l’operazione è stata organizzata nella regione del ministro Dario Franceschini, con la complicità delle cooperative rosse. Noi ci batteremo perché i nostri studiosi non vengano cacciati». Ad alimentare la polemica c’è un altro dettaglio: Marco Minoja, ex soprintendente di Cagliari che ha gestito questo appalto, da qualche mese è stato trasferito proprio in Emilia Romagna. «Perché è stata seguita una procedura negoziata senza bando? – chiede l’ex governatore, Ugo Cappellacci – Come mai di fronte a una scoperta di livello mondiale il Ministero non ha garantito pubblicità e trasparenza?».
L’ex soprintendente Minoja non si sottrae alla domanda: «Abbiamo invitato 17 imprese, tra le più qualificate del panorama nazionale per rispondere alle esigenze di uno scavo complesso».
Ma il mondo scientifico è in subbuglio perché gli archeologi sardi saranno costretti a smontare la baracca. Quando? Questo è oggetto di un altro braccio di ferro. Il sottosegretario ai Beni culturali Francesca Barracciu chiede all’Università di Sassari di sapere entro quanto tempo i suoi studiosi lasceranno Mont’e Prama. Il rettore Attilio Mastino media: «Abbiamo le risorse per proseguire fino al 31 marzo , ma speriamo che per i nostri archeologi continuino i loro studi anche con l’appalto successivo». A Mont’e Prama lascia il cuore professor Raimondo Zucca, che da 40 anni studia la storia del più importante sito archeologico dell’isola: «Sarà difficile alzarsi presto la mattina e non venire più qui».

Corriere 17.10.14
Ruby, lascia la toga il giudice che voleva la condanna di Berlusconi
Il presidente della corte Enrico Tranfa si è dimesso dalla magistratura dopo avr firmato le motivazioni della sentenza a favore dell’ex premier
di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella

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Corriere 17.10.14
L’autopsia sul corpo della bimba morta a Caivano (Napoli)
Fortuna, perizia choc: «Abusi cronici»
Agghiaccianti le parole dei medici legali sulle violenze
Disturbi di linguaggio e comportamento: la bimba lanciava tanti segnali, nessuno li ha colti

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Repubblica 17.10.14
“La clochard obbligata a dormire nella stazione” Ferrovie contro il giudice
Roma, Le Fs vogliono chiudere di notte lo scalo di Trastevere “Problemi di sicurezza, ma il tribunale così ce lo impedisce”
di Fabio Tonacci


ROMA Come dimora, l’androne della stazione di Trastevere. Se fosse un verso ritagliato da una canzone di Venditti, non ci sarebbe niente da aggiungere. In realtà è l’ultimo, estremo, confine cui si è spinta la burocrazia. Grazie a un atto ufficiale compilato con surreale zelo, una senzatetto è obbligata a dormire nell’atrio davanti alla biglietteria e le Ferrovie dello Stato non possono più chiudere gli ingressi di notte. Perché dalle 21 alle 7 quella è la casa di Laura.
Laura, si chiama così la protagonista involontaria di questa storia. La conoscono tutti allo scalo di Trastevere, perché da quasi due anni bivacca con il suo compagno Bruno su un paio di coperte luride in un angolo dell’atrio. Tutti i giorni sono lì, a chiedere l’elemosina, a bere, a volte a spogliarsi, più spesso a picchiarsi tra loro. Laura e Bruno, “invisibili” sotto gli occhi di tutti.
Succede però che il 19 maggio scorso il Tribunale di Roma, “sezione per le applicazioni delle misure di prevenzione per la sicurezza e pubblica moralità”, sottopone Laura, 38 anni, alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Ha dei precedenti, qualche furto, si dice che una volta abbia pure cercato di sfilare la pistola a un finanziere. «Ma non è cattiva, non dà fastidio ai passeggeri», racconta un addetto alle pulizie. Il 24 settembre i carabinieri del Comando di Porta Portese si presentano dalla donna per notificarle l’atto e ed eleggere un domicilio dove essere reperibile ogni notte.
«Androne della stazione», dichiara. Ora, chissà qual era il tono con cui lo ha detto. Forse era il più serio che aveva, perché la sua casa, in fondo, è davvero lì attorno a lei, quel cumulo di coperte, stracci, cartoni di vino da quattro soldi e resti vari di una vita vissuta per terra, in ogni senso. Comunque, il militare non si scompone, e scrive esattamente «androne della stazione di Trastevere» sul verbale. Firma dell’interessata, firma del verbalizzante. Timbro.
Per questo pezzo di carta, probabilmente non ancora arrivato al magistrato o forse finito in fondo alla pila di altri pezzi di carta sulla sua scrivania, le Fs non possono più chiudere lo scalo, come avevano deciso di fare dal 6 ottobre (da mezzanotte alle 4 di mattina), proprio per motivi di sicurezza: girano personaggi strani, c’è un po’ di spaccio. Meglio spegnere tutto per qualche ora. Una settimana fa però il metronotte incaricato, durante il giro di verifica per assicurarsi che nessuno fosse rimasto dentro, si è trovato di fronte a Laura e al suo provvedimento di sorveglianza. Quindi ha dovuto lasciare le porte a vetri aperte.
«In tanti anni di carriera — spiega Franco Fiumara, direttore della protezione aziendale di F. S. — non mi era mai capitato che qualcuno scegliesse come domicilio un atrio di una stazione. Non possiamo chiuderla dentro, perché sarebbe sequestro di persona. E nemmeno la possiamo cacciare, perché violeremmo la misura disposta dal Tribunale». Così F. S. ha fatto istanza urgente all’autorità giudiziaria «per individuare in tempi celeri altri indirizzi».
Laura ieri non era interessata più di tanto alla questione. «Vaffanculo giornalista...», si è limitata a dire, mentre, completamente ubriaca, un calzino sì e uno no, sedeva sulla sua coperta sudicia. Poche ore prima si era picchiata a sangue con un’altra “invisibile” che vive in un magazzino vicino. Ora è Bruno che le dà qualche schiaffo, dopo l’ennesima visita di controllo di carabinieri e polizia. L’uomo si alza e se ne va, urlando qualcosa di incomprensibile. Lei piange, si tira su, si arrotola una sigaretta, e poi corre dietro al suo amore sgangherato tra i binari. Nella stazione di Trastevere, la sua dimora dalle 21 alle 7.

Corriere 17.10.14
Guerra Civile e democrazia
L’italia prenda posizione sui massacri in Libia
di Lorenzo Cremonesi

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La Stampa 17.10.14
Francia, il revisionismo trionfa nelle librerie
Il pamphlet che rivaluta Vichy sorpassa i diari di Valery. Una conferma dell’egemonia culturale della destra nel paese
di Cesare Martinetti

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La Stampa 17.10.14
“La lotta politica in futuro si giocherà tra le destre”
Il politologo Gaël Brustier sta per pubblicare un libro sul “68 conservatore”: la sinistra è lontana dalla gente
di  Cesare Martinetti


Gaël Brustier, politologo e studioso di radicalismi politici e membro della Fondazione Jean Jaurès sta per pubblicare Le Mai 68 conservateur, dedicato a uno dei movimenti che segnano questa stagione politico-culturale, «Manif pour tous», nato per contestare le legalizzazione dei matrimoni gay e diventato in breve tempo un ingombrante soggetto politico, a destra come a sinistra.
Monsieur Brustier, lei sta seguendo da vicino il «combat culturel» che si sta svolgendo in Francia. Il successo del libro di Zemmour è la consacrazione dell’egemonia culturale della destra?
«Sì, mette in luce i difetti culturali della gauche, il suo universo immaginario. Il fatto è che la sinistra non riesce più a dare una spiegazione del mondo che corrisponda all’esperienza quotidiana dei cittadini, non sa fermare la fiammata di panico che attraversa la società, non sa dare consistenza al suo progetto economico, sociale, politico. Per dirla in sintesi non sa proporre una rivoluzione morale di emancipazione. E questo vale per i socialdemocratici e anche per la sinistra radicale».
E invece la destra ci riesce?
«Ci riesce di più. È successo anche in Italia con Berlusconi. In Francia il Front National è una specie di grande discarica delle speranze deluse, della dequalificazione e disintegrazione dei legami sociali. È anche il prodotto della mancanza di progetto e della capacità di dare risposte dei grandi partiti tradizionali della V Repubblica».
In questo quadro che ruolo svolge Zemmour?
«È un classico “souveraniste”, scrittore di pamphlet che beneficia della rendita che gli deriva da questo stato d’animo. Le sue tesi sono molto simili a quelle del Front national. Si tratta indiscutibilmente di una deriva del costume e dà della Seconda guerra mondiale un’interpretazione mostruosa che viene accettata perché c’è una perdita generalizzata di punti di riferimento, la sinistra è in una nebbia ideologica e culturale totale».
A destra invece che succede?
«Ci sono molte “famiglie”, non tutte d’accordo tra loro, c’è chi sta con Marine Le Pen e chi no. C’è una vasta gamma che ha prodotto una sorta di oligopolio culturale: radicali, Front, conservatori, liberali».
Lei ha parlato recentemente di «gramscismo di destra». Ma esiste un Gramsci francese contemporaneo?
«No, né a sinistra dove il livello di conoscenza di Gramsci da parte dei leader è molto basso, né a destra. La nuova destra però ammira molto Gramsci, forse anche per esprimere una sorta di rivincita sulla storica dominazione culturale della sinistra. Alain de Benoist, il club de l’Horloge, i neoliberali, persino Sarkozy in un’intervista al Figaro nel 2007 hanno citato Gramsci. Naturalmente si tratta di riferimenti un po’ sommari e sbrigativi, ma avevano preso il concetto che per vincere nelle urne bisogna prima vincere la battaglia delle idee».
Dunque esistono intellettuali in vita e in lotta fra loro?
«In realtà la vita intellettuale è piuttosto triste, più che altro c’è una battaglia che si svolge con uno scambio reciproco di anatemi, “bolscevichi” contro “islamo-fascisti” e così via. Più che intellettuali ci sono cronisti che si dicono di destra per guadagnarsi la libertà di dire qualsiasi sciocchezza e sono in realtà “passeurs” dell’ideologia dominante».
Il suo libro che sta per uscire è dedicato a uno di questi movimenti, la «manif pour tous», che lei vede come un maggio ’68 conservatore. Perché?
«Recuperano una certa iconografia sessantottina, la piazza, gli slogan etc. è un movimento, migliaia, anzi milioni di persone che sono scese in strada contro il potere socialista. Chi sono? La Francia più cattolica, probabilmente non maggioritaria, ma organizzata, che ha agito per fare pressione sui preti e fedeli per la critica al matrimonio gay. Vengono da movimenti carismatici dinamici e potenti, nati negli Anni 70 quando si è avuta una fortissima crisi dei movimenti d’azione cattolici tradizionali».
Diventeranno un partito?
«No, perché faticano a influenzare i non cattolici. Resteranno però un movimento diffuso, che continuerà a sviluppare i suoi temi, prendendo in carico tutti gli aspetti della vita sociale e umana dalla nascita alla morte, fanno passare le loro idee sulla famiglia tradizionale, l’identità, per un’ecologia integrale e radicale della vita etica e sociale. Dei conservatori in senso filosofico che naturalmente contestano la rappresentatività dei partiti di destra, ma per influenzarli, non per sostituirsi ad essi».
Stando così le cose, come sarà la lotta politica nel futuro?
«Vedo una marginalizzazione della sinistra e la minaccia di un oligopolio del campo della destra, e cioè una concorrenza violenta ed esclusiva a destra. La scelta potrebbe doversi fare tra diverse destre».

La Stampa 17.10.14
Amore sì, matrimonio no. Negli Usa mai così poche nozze
Sondaggio del Pew Research Center: gli americani di età superiore ai 25 anni preferiscono non sposarsi, la maggior parte di loro per via della crisi
di Francesco Semprini

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La Stampa 17.10.14
Ritornare sulla Via della Seta
di Marta Dassù


Il vertice Europa/Asia di Milano ricorda che l’Italia, antico terminale della Via della Seta, può tornare ad esserlo.
Può diventare uno snodo importante fra l’Asia nuovamente centrata sulla Cina e l’Europa atlantica.
Due secoli fa il principe della diplomazia asburgica Klemens von Metternich definiva l’Italia una mera espressione geografica. Quella di Metternich era una considerazione aspra sulla marginalità dell’Italia nelle dinamiche di potere del vecchio continente. Oggi non è esattamente così: per l’Italia la «vendetta della geografia» di cui scrive Robert Kaplan è fonte di problemi, ma anche di opportunità.
Per l’Europa nel suo insieme, riuscire a competere con successo in questa seconda fase della globalizzazione contemporanea (in cui sono i consumi, più che la produzione, a spostarsi verso Est) è decisivo. Se davvero fossimo entrati in un ciclo di stagnazione prolungata (demografia e trappola della liquidità fanno parlare addirittura di «stagnazione secolare») il legame con il dinamismo asiatico diventerebbe essenziale. E il pivot dell’Asia-Pacifico è ormai la Cina, nonostante i tentativi del Giappone di scuotersi di dosso la sua vecchia sindrome depressiva. Quindi ok agli investimenti cinesi, con tutte le avvertenze/cautele del caso e sapendo che la crisi dell’euro non lascia in fondo grandi alternative.
Esistono però due avvertenze importanti. Una riguarda l’Europa, che continua a vedere la relazione con la Cina come una relazione puramente economica e commerciale. Quel che Metternich pensava dell’Italia di ieri rischia di valere per l’Ue di oggi. Gli Stati Uniti guardano all’Asia, invece, in una logica strategica e concepiscono la relazione con Pechino ponendosi il problema di un futuro «contenimento». Lo dimostrano sia le alleanze militari degli Stati Uniti che l’impostazione del negoziato commerciale americano con l’area del Pacifico, che esclude appunto la Cina. Esiste quindi un rischio preciso, di cui l’Europa deve essere consapevole: data questa differenza di approccio, le relazioni con la Cina potranno nel tempo diventare un elemento di divisione dell’Occidente. O forse il vero elemento di divisione, più di quanto non potrà mai essere la Russia, che appare comunque una potenza regionale in declino e che non vorrà o riuscirà, io credo, a stabilire un vero asse con Pechino.
L’implicazione di questo scenario è che la conclusione del Ttip – il negoziato sul commercio e gli investimenti fra Europa e gli Stati Uniti - ha un’importanza maggiore di quanto non dicano le resistenze settoriali, sia in America (dove le scadenze elettorali giocano a sfavore di un accordo rapido), sia fra gli europei. La posta in gioco deve essere chiara a entrambe le parti: il Ttip è un accordo sul futuro dell’Occidente nel mondo del disordine globale. Lo scarto fra la strategia asiatica degli Stati Uniti e il «mercantilismo» europeo finirà per dividerci, se non verrà moderato da un nuovo patto economico fra Stati Uniti ed Europa.
Qui si aggiunge una seconda avvertenza, per l’Italia: la sua ritrovata centralità geografica equivale, in questo momento, a delicatezza geopolitica; e si somma alla nostra vulnerabilità economica. In queste condizioni, evitare una spaccatura fra Atlantico ed Eurasia è per l’Italia decisivo. Il nostro Paese rischia in effetti di essere, più che un crocevia, un incrocio pericoloso.
Sulla nostra penisola, economicamente ancora dominata dai rapporti intra-europei, si scarica oggi l’impatto congiunto di quattro fattori esterni: i flussi di persone vengono principalmente dall’Africa; il gas viene anche e soprattutto dalla Russia (oltre che dal Mediterraneo); nuovi investimenti finanziari vengono dalla Cina; la protezione militare viene ancora largamente dagli Stati Uniti.
Africa, Russia, Cina, Stati Uniti. L’Italia non è solo sovra-esposta verso Est e verso Sud (dopo il crollo del vecchio ordine europeo e dei vecchi regimi mediterranei); è in sé un Paese di faglia. Di faglie, anzi. E ha alle spalle un’Europa che un tempo funzionava come vincolo ma anche come antidoto a collocazioni troppo incerte; oggi appare soprattutto un vincolo, che in qualche modo l’Italia è anzi spinta a forzare, sotto l’impatto della crisi economica, cercando sponde esterne. In una sorta di circolo vizioso, quanto più l’Europa di centro guarda con diffidenza alle fragilità dell’Italia, tanto più le faglie si allargano.
Gestire un incrocio rischioso del genere non è affatto facile. Un alto tasso di pragmatismo è la soluzione possibile oggi; in futuro verrà messa alla prova.

La Stampa 17.10.14
Italia-Cina, è una luna di miele
Il premier Li: “Lavoriamo assieme su innovazione e creatività, stop alle contraffazioni”
di Francesco Spini


Basta con gli stereotipi. La Cina sceglie il vertice dell’Asem anche per stupire quell’Europa con cui vuole rinsaldare i rapporti. Al campus del Politecnico di Milano il premier della Repubblica Popolare, Li Keqiang, di fronte al presidente del Consiglio Matteo Renzi giunto di buon mattino ad accogliere l’illustre ospite, prende la platea del quinto «China-Italy innovation forum» in contropiede. Il premier pechinese loda «le intelligenze» dei giovani - tanti cinesi - che «hanno la fortuna di studiare in un’università tanto prestigiosa integrando le idee cinesi con quelle italiane». I due Paesi, dice, «possono avere più idee grazie alle vostre intelligenze». Ma, aggiunge spiazzando i più, «dobbiamo tutelare i diritti della proprietà intellettuale. Solo così possiamo portare avanti la collaborazione».
Quasi un mondo all’incontrario: la Cina chiede un giro di vite contro la contraffazione. In realtà è il segno di una maturazione del boom cinese, che oggi vuole competere non tanto e non solo su prodotti a basso valore aggiunto, quanto su innovazione e alta tecnologia. Altro che copioni, «non copiano più, siamo noi che dobbiamo copiare loro», assicura Vincenzo Novari, ad di 3 Italia, controllata da colosso cinese Hutchison Whampoa. È lo stesso Li Keqiang a spiegare l’interesse della Cina per l’Italia raccontando un aneddoto del suo ultimo giorno romano, «l’impressione profonda» che gli hanno suscitato «i capolavori del Bernini a Villa Borghese». Ringrazia pubblicamente «la direttrice che mi ha permesso di toccare per un istante la Paolina del Canova: con quel brevissimo tocco ho capito il significato creativo di questo capolavoro: c’è bisogno di tecnica artistica, ma serve anche l’idea». Allargando il discorso, «occorre integrare l’innovazione con la creatività». Più idee per «rafforzare la collaborazione tecnico-scientifica, con investimenti reciproci».
Il presidente della Bank of China, Tian Guoli, avverte però gli italiani: «Avete grande creatività ma nella capacità di sviluppare il mercato siete meno bravi di altri. Prendete il vino: i cinesi pensavano che fosse buono solo quello francese. Solo ora hanno scoperto quello italiano, che sta diventando di moda». Suona la sveglia, Guoli. «Avete tanti prodotti e tecnologia ma come li fate conoscere? In 5 anni dobbiamo fare acquisti all’estero per 500 miliardi, un’opportunità». Nel frattempo, già che c’è, la banca (che ieri ha siglato accordi con tre istituti italiani: Mps, Popolare di Sondrio e Sistema) si candida a «fare da ponte» per le Pmi che puntano a sbarcare in Cina. «Le banche italiane sono meno efficaci di noi nell’accompagnare le imprese in Cina - dice sorridendo Wang Jian, direttore generale della Bank of China -. Se non altro siamo più veloci nel trasmettere le informazioni che servono».
Sul palco si firmano diversi nuovi accordi sull’asse Italia-Cina. Dalla protezione ambientale alla cooperazione finanziaria, fino al biomedicale (Btg e Bioscience Institute sulle tecniche di diagnosi prenatali non invasive) e all’educazione, in cui proprio il Politecnico stringe la sua alleanza con l’Università di Tongji, l’alleanza delle idee che tanto piace a Li Keqiang.

il Fatto 17.10.14
L’altro volto cinese
Pechino, tanti affari e pochi diritti
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Promuovere la sicurezza e una crescita sostenibile. È questo l'obiettivo per cui 53 capi di stato sono riuniti a Milano nel vertice Asia-Europa (Asem). Rappresentano il 60 per cento della popolazione mondiale e metà della ricchezza prodotta su questo globo. Hanno due giorni per confrontarsi a porte chiuse sui temi che più li preoccupano. Non ci sono protocolli né necessità di dichiarazioni alla stampa. Ognuno porterà sul piatto i temi che ritiene più importanti, cercando di trovare un terreno d'incontro attraverso quello che più si avvicina a un dialogo informale tra capi di stato. Si parlerà della minaccia dell'Isis, delle acque contese nel Mar cinese meridionale e di Ucraina. Secondo il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy si parlerà anche di diritti umani e, forse, degli studenti che da tre settimane manifestano nelle strade Hong Kong perché il governo gli garantisca una maggiore indipendenza dalla Repubblica popolare. Ma soprattutto si cercherà di rinforzare i legami commerciali. Gli interscambi tra Asia e Europa hanno ormai raggiunto i 1.250 miliardi di euro, quasi raddoppiando il valore registrato dieci anni fa. E in questo la Cina è sicuramente il paese più forte. Quello che non bisogna scontentare perché è corteggiato da tutti. Subiamo gli effetti dell’“ascesa pacifica” inaugurata oltre trent'anni fa dalle riforme e aperture volute da Deng Xiaoping.
DIFFICILMENTE VERRANNO affrontati i punti deboli e le sfide che minacciano la nuova super potenza. Con ogni probabilità varrà il principio più caro ai cinesi, quello della non interferenza. Si può essere uniti contro il terrorismo, sì - specie da quando è stato assodato che diversi cinesi, pare almeno un centinaio, si starebbero formando militarmente nell'esercito dello Stato islamico – ma rispettando la sovranità nazionale degli stati. E con lo stesso spirito si potranno affrontare argomenti ancora più spinosi come quello delle isole contese - quasi tutte con la Cina - in quel tratto di mare così ricco di risorse energetiche e dove passa un terzo del traffico marittimo globale. Per non parlare di diritti umani e di Hong Kong che la Repubblica popolare ritiene problemi di politica interna su cui nessun altro Stato può mettere bocca. Probabilmente dunque la politica sarà subordinata agli affari.

La Stampa 17.10.14
“Barbiturici, tranquillanti, morfina: così Hitler si drogava”
Un dossier americano redatto durante la Seconda Guerra Mondiale è diventato un documentario trasmesso dalla rete inglese Channel4: “Il Fuehrer prendeva ogni giorno 74 medicine diverse, fra cui anche metanfetamine”
di Paolo Mastolilli

qui

La Stampa 17.10.14
Sognando Marte nel vulcano delle Hawaii
La missione della Nasa: tre uomini e tre donne “prigionieri” in una struttura che simula una colonia sul Pianeta Rosso
di Francesco Semprini


Tre donne, tre uomini, una cupola spaziale e un vulcano. Sono i protagonisti dell’ultima sperimentazione della Nasa: otto mesi di convivenza in una sorta di stazione semisferica bianca di 12 metri circa di diametro, immersi tra le sommità di un cratere delle Hawaii, completamente isolati dal resto del mondo. Un progetto sviluppato nell’ambito del «Hawaii Space Exploration Analog and Simulation program», conosciuto come «Hi-Seas», e che ha come obiettivo quello di studiare e mettere a punto missioni spaziali su Marte.
Durante gli otto mesi di «cattività indotta», infatti, gli esperti, in particolare psicologi, terranno sotto stretta osservazione le sei persone prescelte per la simulazione, controllandone il comportamento e le condizioni psicofisiche. La «Hi-Seas» è una sorta di «cupola spaziale» strutturata su due livelli, il primo dei quali ospita una stazione di lavoro, una cucina, una stanza da pranzo, un piccolo magazzino e un bagno. Al piano superiore si trovano sei mini-stanze da letto e un secondo bagno, oltre a una piccola palestra con cyclette e treadmill per consentire agli abitanti del «Dome» di tenersi in movimento.
La struttura è stata pensata e creata assicurando gli stessi spazi che potrebbero essere ospitati da un’eventuale «colonia» sul Pianeta Rosso, così come i tempi della sperimentazione riflettono quelli necessari a una spedizione su Marte.
«Le persone che partecipano a questo tipo di missione rischiano di soffrire di depressione, dovuta al prolungato isolamento dalla Terra. C’è un’oggettiva difficoltà nel comunicare con amici e parenti e questo può causare una forte frustrazione», spiega Martha Lenio. E’ lei la grande protagonista di questa nuova avventura e a lei, infatti, è affidato il comando della missione hawaiiana. Di nazionalità canadese e appena 34enne, Lenio è non solo la terza donna al timone di una missione dell’agenzia spaziale americana, ma è la prima a guidare una simulazione su Marte.
Una simulazione caratterizzata da molte incertezze dal punto di vista umano, visto che la difficoltà maggiore - spiegano gli esperti - è psicologica ancora più che fisica. I partecipanti non potranno infatti utilizzare telefoni, ma comunicheranno con il mondo solo via e-mail. La particolarità è che ogni tipo di contatto, in entrata e in uscita dalla cupola situata sul vulcano Mauna Loa, nelle Hawaii, sarà ritardata di 20 minuti per simulare la distanza dalla Terra a Marte. Ogni abitante del «Dome», poi, ha a disposizione otto litri di acqua al giorno, che dovrà utilizzare per fare fronte a tutte le esigenze della vita quotidiana: dissetarsi e cucinare, ma anche lavarsi, fare il bucato, pulire gli spazi di propria competenza. Questo vuol dire che ogni membro della missione avrà a disposizione otto minuti di doccia a settimana, mentre per quanto riguarda l’alimentazione saranno a disposizione cibi liofilizzati di ogni genere: verdura, carni e frutta secca. Proprio sul fattore cibo sono allo studio alcuni prototipi da parte della Cornell University che potranno essere portati e usati nelle missioni su Marte.
Oltre a Lenio, a partecipare alla «Hi-Seas» Mission 3 sono Allen Mirkadyrov, Neil Scheibelhut, Zak Wilson, Sophie Milam e Jocelyn Dunn. Si tratta di alcuni dei professionisti più preparati a disposizione dell’agenzia spaziale, anche perché quella che è appena iniziata è la «simulazione» su Marte più lunga che sia mai stata fatta dalla Nasa. Oltre ad essere la seconda di una serie da tre missioni. L’ultima in ordine di tempo è stata «Hi-Seas 2», terminata il 25 luglio 2014, dopo quattro mesi di vita simulata in un «ambiente marziano». «Non sentire i raggi del sole sulla mia pelle per otto mesi è la cosa più difficile per quanto mi riguarda dal punto di vista psicologico», ha ammesso Lenio in una intervista al «National Geographic». La missione ha però un valore aggiunto - sottolinea la scienziata canadese - perché «avere a bordo delle donne garantisce maggiore dinamicità all’ambiente di lavoro e di vita».
Ma al di là di quelle che sono le simulazioni, viene da chiedersi se allo stato attuale si abbia, o meglio si avrà, la capacità effettiva di andare su Marte in tempi relativamente ragionevoli. «Non ho dubbi: la data è quella prevista del 2030 - chiosa Lenio -. Quindi siamo ancora alle fasi iniziali della missione, ma vi assicuro che il lavoro che stiamo facendo oggi ci porterà sul Pianeta Rosso».

La Stampa 17.10.14
Rossellini
“Ecco gli italiani che salvarono gli ebrei”


Roma ricordava ieri uno degli episodi più tragici della storia recente, la deportazione degli ebrei dal Ghetto il 16 ottobre 1943: come evento speciale del Festival di Roma, è stato proiettato il film-documentario My Italian Secret - gli eroi dimenticati di Oren Jacoby, voce narrante Isabella Rossellini. La pellicola racconta la storia del ciclista Gino Bartali, del medico Giovanni Borromeo e di altri italiani che lavorarono segretamente per salvare ebrei e fuggiaschi dai nazisti durante la II Guerra Mondiale. Bartali fece centinaia di viaggi trasportando documenti falsi con la sua bicicletta. Il dottor Borromeo inventò una malattia inesistente per spaventare le SS e tenerle lontane dall’ospedale sull’Isola Tiberina in cui nascondeva gli ebrei. My Italian Secret segue il ritorno in Italia dei sopravvissuti che raccontano le loro storie e ringraziano le persone che offrirono la loro vita per salvare degli sconosciuti. La presidenza della Repubblica ha mandato un messaggio alla presentazione del film: «Non far dimenticare quella stagione di orrori è indispensabile. Far conoscere alcune coraggiose solidarietà verso le vittime delle persecuzioni naziste è un contributo utile alla consapevolezza della società, e in particolare dei giovani, su quanto avvenne».

Corriere 17.10.14
Unificazione tedesca. Il ruolo di Gorbaciov
risponde Sergio Romano


Rimango sorpresa, quando penso all’unificazione delle due Germanie avvenuta nel 1990, con il consenso della Russia. Eppure, perdeva un alleato importante, determinante per mantenere in scacco l’Occidente e per evitare la (ri)nascita di un colosso, con cui prima o poi avrebbe dovuto (di nuovo) fare i conti. Debbo presumere che vi siano state delle contropartite, tali da consentire il buon esito dell’operazione.
Maura Bressani

Cara Signora,
Una delle fonti più importanti è Jack Matlock, ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca dal 1987 al 1991 e presente a molti degli incontri politici e diplomatici che precedettero l’unificazione tedesca. Secondo Matlock, il presidente George H. W. Bush convinse Michail Gorbaciov assicurando che non vi sarebbero state installazioni militari della Nato nel territorio della Germania orientale.
Non si trattò di un impegno formale, iscritto in un trattato, ma era pur sempre la parola del presidente americano. Credo che non vi sarebbe stata una intesa, tuttavia, se Gorbaciov non avesse già rinunciato alla «dottrina Breznev» con cui il leader sovietico, nel novembre 1968, aveva rivendicato il diritto d’intervenire ogniqualvolta uno Stato comunista avesse corso il rischio di soccombere a una minaccia interna o esterna. Per la Germania dell’Est e per gli altri Paesi del blocco sovietico, in altre parole, non si sarebbe ripetuto quello che era accaduto a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968. Fu questo il fattore che maggiormente favorì il collasso dei sistemi comunisti nell’Europa centro-orientale fra il 1989 e il 1990.
Lei osserva che l’Urss perdette così un importante alleato. Ma i rapporti fra l’Urss e la Repubblica Democratica Tedesca erano da qualche tempo pessimi. La dirigenza del partito tedesco e il maggiore quotidiano della Rdt ( Neues Deutschland ) non perdevano occasione per criticare, sia pure velatamente, perestrojka e glasnost, i due pilastri del programma riformatore di Gorbaciov. Quando visitò Berlino est nell’ottobre del 1989, per le celebrazioni del quarantesimo anniversario della Rdt, il presidente dell’Urss accusò pubblicamente Erich Honecker, segretario del partito comunista tedesco, di miopia storica e suscitò l’entusiasmo dei gruppi di opposizione che nei mesi precedenti avevano già cominciato a dare segni della loro presenza. Accadde allora nella Germania comunista quello che era accaduto a Pechino in maggio durante la visita del leader sovietico. Per i giovani dissidenti cinesi e tedeschi Gorbaciov era allora, nel mondo comunista, un simbolo di riforme democratiche. Il vecchio Honecker aveva capito che quelle riforme avrebbero provocato la crisi del sistema comunista nell’Europa centro-orientale.

Corriere 17.10.14
Dare un senso al non detto in filosofia
di Mario Andrea Rigoni

Ogni discorso presuppone un doppio fondo della parola: altrimenti, se tutto fosse già detto, che cosa resterebbe da spiegare e commentare? L’ovvia osservazione investe l’ordine metafisico-teologico stesso. Per millenni il mondo naturale e il testo sacro sono stati concepiti come manifestazioni parallele e complementari di un Verbo divino che nella lettera della scrittura o nella superficie della natura si occultava al tempo stesso in cui si rivelava: donde la necessità di un’esegesi simbolica del creato, che nella Parola divina trovava il suo senso e il suo compimento.
Sempre radicale, l’Islam ha condotto all’estremo questa visione, esemplarmente rappresentata dall’episodio della distruzione nel 646 d. C. della biblioteca di Alessandria per ordine del califfo Omar I, che giustificò la decisione dichiarando che si davano due sole possibilità. I libri della biblioteca o contenevano cose già presenti nel Corano ed erano dunque inutili oppure contenevano cose che del Corano non facevano parte ed erano dunque dannosi: in entrambi i casi andavano ugualmente distrutti.
La scomparsa del Verbo creatore nel crollo della Tradizione, avvenuto in Occidente fra Illuminismo e Romanticismo, ha sottratto ogni decifrabilità e ogni termine all’universo del discorso, aprendo l’immensa voragine nella quale il non detto coincide col non senso: Kafka è un emblema.
L’aspetto filosofico o speculativo del non detto, ancora presente nei teorici francesi del secolo scorso (Blanchot, Foucault, Derrida), non interessa l’indagine di Nicola Gardini, approdata adesso a un volume che pure si presenta con i toni e gli auspici del manifesto (Lacuna. Saggio sul non detto, Einaudi, pp. 272, e 20). Il non detto è infatti inteso come una risorsa retorica della tecnica letteraria, l’omissione consapevole e calcolata di una parte del discorso, l’interruzione o la cesura introdotta al fine di raggiungere un superiore effetto espressivo, che corrispondono in buona sostanza all’antica figura dell’ellissi.
Tutti ricordano il silenzio opposto da Aiace nel regno dei morti alla preghiera di Ulisse di essere perdonato (Odissea, XI) o l’annuncio «Veni, vidi, vici» col quale Cesare comunicò secondo Plutarco la sua vittoria contro Farnace II nella guerra del Ponto o ancora «La sventurata rispose» con cui Manzoni nei Promessi sposi allude, senza procedere oltre, al cedimento di Geltrude di fronte al suo seduttore. Un exploit è quello di Stendhal che, osserva Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel romanzo Il rosso e il nero «è riuscito a riassumere una notte d’amore in un punto e virgola».
In questo senso il non detto rientra nel più vasto ideale stilistico della «brevità», della concisione, del laconismo che, rifiutando la descrizione minuta e completa dell’oggetto, lascia libero spazio all’immaginazione, fonte massima del piacere psicologico.
Il libro di Gardini accumula e commenta meritoriamente in un vasto repertorio esempi disparati di non detto raccolti dalla letteratura antica e moderna, italiana e straniera, attestando l’ampiezza sorprendente delle conoscenze e delle letture dell’autore. Nello stesso tempo richiama l’attenzione sul ruolo che la «lacuna» del non detto svolge nell’economia della letteratura narrativa, tanto da prospettare, se non certo una nuova estetica come si vagheggia nella quarta di copertina del libro, almeno un nuovo elemento di interesse metodologico e critico.
L’assunto di Gardini potrebbe essere esteso a un genere intero che egli non prende in considerazione, ma che celebra proprio il trionfo del non detto: l’aforisma. Dove, più che nell’aforisma, vengono abolite la descrizione e la spiegazione? Dove, meglio che nell’aforisma, la brevità si allea alla sorpresa? L’aforisma è nella sua essenza, come d’altronde la poesia, un’ arte dell’implicito.

Corriere 17.10.14
Melloni: la libertà nel mondo cristiano ha radici antiche
di Antonio Carioti


Circolano varie versioni circa il rapporto tra cattolicesimo e pluralismo. Una dice che la Chiesa nella storia avrebbe sempre negato l’esercizio dei diritti umani, primo fra tutti la libertà di coscienza, per poi adattarsi alla loro accettazione sulla scia della spinta generata dalla cultura dei Lumi. Secondo Alberto Melloni la realtà è un po’ differente, come ha spiegato ieri a Milano nella conferenza che ha tenuto presso la Fondazione Feltrinelli, nell’ambito del ciclo di lezioni «Per una cittadinanza inclusiva», organizzato dalla associazione Reset Doc (Dialogues on Civilizations) diretta da Giancarlo Bosetti (www.resetdoc.org). Melloni ha messo in luce le radici antiche del pluralismo cristiano, che risalgono ai padri della Chiesa e furono coltivate anche nel Medioevo, ad esempio da Papa Innocenzo IV, per essere poi offuscate dall’intransigenza di cui è espressione il Sillabo di Pio IX (1864). Fu quindi una sorta di ritorno all’antico, ha aggiunto Melloni, la scelta compiuta da Giovanni XXIII di rilanciare una visione fondata sul richiamo alla coscienza individuale con l’enciclica Pacem in Terris (1963), senza dar peso alle obiezioni mosse da suoi autorevoli consiglieri. L’incontro, introdotto da Daniela Milani, è proseguito con l’intervento del discussant Marco Garzonio, che ha scavato nelle lontane origini della liberta religiosa citando come maestro di pluralismo san Gregorio Magno, che fu Papa dal 590 al 604: «La Scrittura cresce con chi la legge».

Repubblica 17.10.14
Eretici, classici e popolo
L’esperienza di una vita nel nuovo saggio di Alberto Asor Rosa
Il privilegio di “un profondo, sviscerato, ancestrale amore per la parola scritta”
È di Contini “la chiave interpretativa più intelligente e matura del nostro Novecento”
di Paolo Mauri


SI PUÒ cominciare a leggere un libro dalla fine? Qualche volta sì, qualche volta è addirittura necessario. Per esempio il volume di Alberto Asor Rosa che si intitola Letteratura italiana ( Carocci editore) e che ha come sottotitolo La storia, i classici, l’identità nazionale è bene cominciare a leggerlo dal fondo e precisamente dal capitolo 10 che è intitolato «Cinquantadue». Si tratta del discorso pronunciato dal professor Asor Rosa il 5 giugno del 2003 nell’Aula prima della facoltà di Lettere della Sapienza all’atto di lasciare l’insegnamento. Dal momento del suo primo ingresso in quell’edificio erano appunto trascorsi (ecco spiegato il titolo) cinquantadue anni.
Mezzo secolo di intensa frequentazione della Letteratura e di quella italiana in particolare: prima da studente (ah, quelle soporifere lezioni del grande Natalino Sapegno!) poi da assistente e infine da docente vero e proprio. Una vita sostenuta da un privilegio: «Un profondo, sviscerato, forse ancestrale amore per la “parola scritta”» che è diventato poi amore per i classici, per i grandi scrittori, per la poesia.
Senza questa premessa il resto del libro si capirebbe poco: perché bisogna amare la letteratura per discutere di storia letteraria, di critica, di classici e canone dei medesimi. Cosa che Asor Rosa fa, recuperando qui in bell’ordine saggi già sparsamente pubblicati e anche, utile per fare il punto su questioni complesse, una conversazione con Corrado Bologna.
Qualche anno fa, per lanciare il romanzo di uno scrittore americano, l’editore pensò di chiedere dei pareri ad alcuni testimonial (oggi si usa molto) e uno di loro disse: «È un classico». La cosa mi fece sorridere per il semplice fatto che classici non si nasce, ma si diventa e difatti la definizione di classico forse più acuta la diede Leopardi, che Asor Rosa cita diverse volte, quando scrive: «È un curioso andamento degli studi umani, che i geni più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquisito fama stabile e universale, diventino “classici”, cioè i loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano ai fanciulli, come i trattati più semplici e regolari delle cognizioni “esatte”».
Dunque un Leopardi giovanissimo aveva capito cosa occorre perché un’opera diventi un classico. Comunque, scrive Asor Rosa rispondendo a Corrado Bologna, «uno non sa mai “prima” se una qualsiasi operazione letteraria è destinata a diventare un “classico”… questo si sa sempre dopo». Quel “dopo” comporta il vissuto di un’opera, spesso particolarmente ricco se si tratta di una “grande opera”. La Commedia dantesca fece fatica a diventare un classico, proprio perché aveva tali caratteri di novità che non erano facili da recepire. Carlo Dionisotti in una sua memorabile conferenza sulla alterna fortuna di Dante prese in considerazione anche le celebrazioni dantesche che scandivano i centenari della nascita e della morte. Non è un fatto secondario come una nazione vive la propria letteratura e basterebbe pensare alla fortuna di Manzoni nelle scuole.
Ma la letteratura è inevitabilmente un corpo mobile e le storie letterarie obbediscono a esigenze diverse mutando anche radicalmente nel tempo. Lo sa bene Asor Rosa che di storie letterarie ne ha scritte in proprio (l’ultima è la Storia europea della letteratura italiana ) e ne ha organizzato di collettive, come la Letteratura italiana Einaudi. Il profano potrebbe chiedersi: ma non sarebbe possibile scrivere una storia scientifica della letteratura risolvendo una volta per tutte la questione? La risposta è ovviamente: no. La storia della letteratura pensata da De Sanctis per una nazione che stava guadagnandosi una nuova identità non poteva assomigliare alla grande impresa di Tiraboschi che lo aveva tanti decenni prima preceduto, obbedendo alla necessità di superare la semplice erudizione, che pure possedeva in modo sterminato, e di raccontare l’esperienza culturale (e non solo letteraria) a partire da tempi antichissimi (gli etruschi!) e dunque non muovendo dalla grande novità del volgare con cui si inaugura la nostra letteratura propriamente detta.
E qui cade, secondo me, una domanda cruciale: è più importante un’erudizione immensa o non piuttosto un “taglio” che illumini in maniera nuova il complesso castello delle grandi opere che di fatto poi fanno la storia letteraria? Senza nulla togliere ai sapienti e ai ricercatori che accumulano i dati concreti, è abbastanza intuitivo che le svolte significative vengano, diciamo così, dalla genialità dello storico e del critico che è in lui o accanto a lui. Asor Rosa indica ad un certo punto in Contini colui che «propone la chiave interpretativa più intelligente e matura della letteratura italiana del Novecento» in un saggio apparentemente minore: una Introduzione allo studio della letteratura italiana contemporanea scritto nel ‘44. Contini vede nella letteratura italiana intorno al 1925 farsi largo i nomi di Proust e di Joyce, di Katherine Mansfield e di Virginia Woolf. Sulla scorta di questi autori sarà la memoria ad acquisire una sorta di primato anche in Italia.
Contini, inoltre, vede nel magistero crociano poco incline alla storia letteraria il motivo di un certo ritardo nel mettere a fuoco quanto nel Novecento era fin lì accaduto. Dunque per costruire una storia letteraria bisogna che ci sia un bravo architetto, magari un urbanista, che disegni come si struttura la città delle lettere, che è luogo reale, ma anche sostanzialmente immaginario. Tra le molte suggestioni presenti in questo libro segnalo la lettura che Asor Rosa fa delle varie antologie di poesia che si sono succedute nel Novecento, mettendo a confronto il lavoro di Sanguineti (nato a ridosso dell’esperienza della neoavanguardia) con quello più accademico di Pier Vincenzo Mengaldo. Per capire quanto di valutazione personale entri in gioco si può far riferimento al caso Campana. Campana (scomunicato da Contini) viene glorificato da Sanguineti che lo pone alle porte del nuovo secolo, mentre Mengaldo lo considera un poeta tardo-ottocentesco. Un canone letterario (Asor Rosa fa spesso riferimento, concordando e discordando, ad Harold Bloom) non è mai scontato. Oggi siamo abituati a veder considerata la letteratura come merce e questo va un po’ a danno della critica e della civiltà letteraria che ci portiamo dietro da secoli. Il premio Nobel Patrick Modiano (un Nobel molto ben assegnato) non vende molto in Italia. Forse 4.000 copie a titolo in media. Ma è un vero scrittore. Quando era giovane lavorava per Gallimard come lettore di manoscritti, a un certo punto decise di lasciare l’incarico che pure gli procurava qualche soldo. All’editore spiegò: quella roba mi guastava lo stile.
IL LIBRO Letteratura italiana di Alberto Asor Rosa( Carocci pagg. 253, euro 19)

Corriere 17.10.14
E con Netflix arriva la sfida via web
La piattaforma sbarca in Italia. Anche il colosso Hbo punta sullo streaming
di R. S.

Un altro paletto è caduto. E lo steccato di chi sperava di custodire i suoi contenuti televisivi lontani dal web diventa ancora più fragile.
Una conseguenza inevitabile se anche un colosso come Hbo, leader della tv a pagamento, ha invertito la sua rotta annunciando che dal 2015 si punterà dritti verso un servizio di streaming. Non indiscrezioni, ma dichiarazioni ufficiali arrivate dal presidente Richard Plepler. «Ci sono ancora 80 milioni di case (si parla solo degli Stati Uniti, ndr ) dove non arriviamo con i nostri servizi. Useremo tutti i mezzi a nostra disposizione per colmare questo gap». Una considerazione nata dal sorpasso segnato per la prima volta ad aprile da Netflix, con 29,17 milioni di abbonamenti. Netflix è nata nel 1997 come società di noleggio di videocassette recapitate a domicilio, ma si è poi specializzata nei servizi di streaming fino a decidersi ad investire nella produzione di contenuti originali, primo fra tutti, la lodatissima House of Cards , con Kevin Spacey.
Una realtà che ha saputo reagire al cambiamento dei tempi e che, per questo, è in continua espansione. Ora, a detta di molti, la prossima tappa potrebbe essere l’Italia. L’indizio che avrebbe scatenato le indiscrezioni sarebbe da ricercare nell’annuncio comparso qualche giorno fa sul sito di Netflix, in cui si cercava personale che parlasse anche italiano.

La Stampa 17.10.14
I numeri di Francoforte e quelli dei Nobel
di Mario Baudino


Schnitzler reloaded
Crisi anche per la superfiera di Francoforte.. Arrivano i dati dell’edizione appena conclusa: la partecipazione, divisa tra visitatori «commerciali» e «professionali», scende quest’anno del 2 per cento, e così pure l’afflusso di pubblico nel fine settimana. Dal 2009, meno 6,7. Ciò non significa musi lunghi, anzi. Il più bel sorriso, a Buchmesse finita, è quello di Luigi Brioschi, che per Guanda ha messo le mani su un piccolo tesoro: un inedito di Arthur Schnitzler - ora pubblicato da Zsolnay - di cui gli studiosi conoscevano l’esistenza ma che è rimasto nei cassetti per 80 anni. Il motivo è legato all’argomento: si tratta infatti di un romanzo breve, titolo Später Ruhm, ovvero Fama tardiva, che narra in modo assai ironico la società letteraria viennese di fine Ottocento , quella di von Hofmannsthal, George, Altenberg. Quella di Schnitzler e dei suoi amici. Da non irritare troppo.
Parigi o cara
Intanto i francesi hanno fatto due conti, e sono molto soddisfatti: dal dimenticato poeta Sully Prudhomme, premiato nel 1901 (prima edizione del Nobel per la letteratura), a Patrick Modiano quest’anno, i loro scrittori insigniti del premio sono ben 15, record mondiale. Seguono gli Stati Uniti con 12, la Gran Bretagna con 10, la Germania e la Svezia con 8 ciascuno (gli italiani invece sono sei, da Carducci a Fo). Va detto che se si guarda alle lingue il conto per Parigi è complicato, perché bisognerebbe togliere dai 15 Frédéric Mistral, che scriveva in occitano, ma aggiungere Samuel Beckett, irlandese che scriveva in francese, e il belga Maurice Maeterlinck. Per non parlare del cinese Gao Xingjian, cittadino della République, dal 1987. In ogni caso, piano con lo champagne: al di là della divisione in nazioni, l’inglese rimane pur sempre inattaccabile in testa alla classifica con 27 laureati.
Ma meno male
Che c’è Gallimard. Fra le uscite di ottobre dell’editore parigino, accanto all’ultimo romanzo di Modiano (Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier), c’è una bella serie di italiani: Saviano con Extra pure (da noi era Zero zero zero), il Leopardi di Citati, L’ardore di Roberto Calasso e, per buona misura, L’imboscata di Beppe Fenoglio e La bella estate di Cesare Pavese. Ottima compagnia.